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Passeri scesi a beccare Tutto per il limone
Passeri scesi a beccare Tutto per il limone. Acquistato carico di frutti, Albino ne buttava tocchetti in padella sia con verdure sia con tranci di pesce, fettine di lonza o di tacchino. Un profumo! La breve cottura ammorbidiva la scorza e rendeva il gusto asprigno più dolce e profondo, da raggiungere l’anima ovunque si trovasse. Sapeva che nel periodo della calura voleva molto acqua, e che necessitava di una concimazione generosa. Per eccesso forse d’acqua o forse di concime, o forse solo per clorosi ferrica, la punta delle foglie assunse un bel colorito giallo... limone, ma la fruttificazione proseguì gagliarda. “Un disturbo lieve” pensò. “Gli passerà. Devo smetterla, però, di fare l’iperprotettivo. Basta acqua, basta concime.” Gli diede comunque del ferro. In seguito, ci scoprì tondi parassiti bianchi cotonosi: li stroncò con uno spray. Cocciniglie pseudococcus o planococcus, non lo sapeva (la differenza consisteva solo nel numero delle zampette, da 36 a 34). Diverse, tuttavia, da quelle che impestarono il giardino. Un giorno se lo ritrovò fiorito di placchette bianche con l’aureola. Fino all’anno prima se n’erano state tranquille sull’alloro; poi diventarono imperialiste e si lanciarono alla conquista dell’acanto, dei lagerstroemia, delle primule, del melograno... Ovunque, sulle foglie, Albino scorse le minuscole decorazioni simmetriche risolute a 7 Aquilino ingrassare a spese della pianta, proprio come facevano i politici con gli illusi che li votavano (ogni volta che pensava ai politici, lo sguardo gli andava alla gramigna nell’aiola della legnaia: anni che la combatteva!). Contro le cocciniglie, irrorò la vegetazione senza pietà, con buoni risultati. Contro i politici... “Anche questo passa. Tutto passa” pensò riferendosi alle cocciniglie. Certo, le aveva sterminate! Soleva citare il panta rei quando il problema era stato risolto o era comunque in via di soluzione, ma le contrarietà spesso erano fonti d’ansia. Aveva la tendenza a presagire catastrofi, un atteggiamento che non gli piaceva per niente. Lo contrastava con la formula di Eraclito, divenuta un mantra rassicurante: tutto passa tutto passa tutto... Finché non passava, però... (ai politici si sforzava di non pensare). Era nella logica delle cose: anche lui sarebbe passato, e presto. “Tutto passa. Anch’io passo.” Questo evitava di dirselo con frequenza eccessiva. Lo avrebbe immalinconito una coscienza troppo zelante della propria “impermanenza”, come dicevano i buddisti (del tempo, delle cose e dell’anima; e di Albino, naturalmente). Il suo limone, per fortuna, non era buddista. Altrimenti, sarebbe stato la varietà chiamata “mano di Buddha”, un’anomalia che produceva frutti non globosi, e senza polpa, solo buccia, una molle mano mostruosa dalle dita gialle. Il limone di Albino era un limone qualunque, banale come lui. Privo di insana spiritualità, proprio co me lui. Era forse quello il motivo per cui lui “sarebbe passato” senza se e senza ma, mentre altre realtà costituivano un incubo perenne, radicato nell’umanità come la gra8 Se muore un arlecchino migna: strappane un filo e un altro risorge dalle radici potenti, estese, nascoste. Gli stupidi, i religiosi, i divi, gli autori di best seller, i capitalisti, i fanatici, gli opinionisti, gli intellettuali, i politici... non passavano mai! Ohi ohi, umanità vessata e turlupinata! Perché non apri gli occhi? Perché non spalanchi gli orecchi? Il mondo era fascista. L’ottantadue virgola sette per cento della religione, della letteratura, dell’arte, della comunicazione e della società era fascista. E non “passava” mai! Eraclito bugiardo. Il limone di Albino non era una pianta di grandi dimensioni, eppure nella serretta creò un certo intralcio ed entro due o tre anni avrebbe richiesto un ricovero invernale più adeguato. Ma dove sistemarlo? Non si fidava a lasciarlo al gelo, coperto dalla plastica. Girando intorno alla casa, un giorno si fermò sotto il portico sul retro. Ci si affacciava la cucina, uno spazio esterno che gli serviva più che altro per la raccolta differenziata e per stendere la biancheria. Andò a prendere il metro. Ci si poteva ricavare una stanza... di cinque metri per due e mezzo, bastava chiudere con una vetrata sui due lati (gli altri due erano i muri esterni della casa che lì faceva una elle). La decisione fu presa all’istante. Beh, grazie ad Atena. Gli apparve in sogno (Albino si era rassegnato alla sua invadenza e le aveva aperto anche le porte del sonno). La vide in trono, splendida, con l’elmo e la lancia, una guerriera granitica. “Hai voluto il limone?” gli disse. “Ora devi tenerlo vivo. Hai sul retro una tettoia che usi poco e male. Facci un luogo di magia. Te ne stai seduto lì con l’autunno e poi l’inverno tutto intorno a te. E scrivi cose belle, perché cose belle hai nello sguardo.” 9 Aquilino Albino completò il quadro pensando che non si sarebbe certo perso né la primavera né l’estate. Non tollerava l’ostinazione esasperante delle mosche e peggio ancora il sibilo delle zanzare. Sedersi fuori a scrivere era sempre un’impresa: spray tutto intorno e spray sulle braccia, una puzza chimica che lo disgustava. Era costretto a rientrare molto presto, indispettito: tanta cura per il giardino e non poterselo nemmeno godere! Conosceva un muratore che lavorava in proprio, piccolo e gentile, che non solo erigeva muri in velocità meglio dei colleghi panciuti e rozzi, ma aveva anche buon gusto ed era in grado di elaborare proposte come un architetto con i piedi per terra e senza la testa tra le nuvole (e le parcelle cosmiche). Jeanlouis (non era il suo vero nome, ma così lo chiamavano fin da quando faceva l’apprendista a Porto Torres) si fece carico della realizzazione del giardino d’inverno. La veranda dava su un cortiletto di beole poggiate sulla terra, realizzate quarant’anni prima da due muratori della valle Vigezzo, uno dei quali era il padre di un suo alunno. Albino aveva insegnato per quattro anni (primo incarico) a Santa Maria Maggiore, alloggiando presso una famiglia di Toceno. Diventati amici, i vigezzini erano scesi con un camion di beole per costruirgli un camino e con gli avanzi avevano pavimentato il cortiletto. Jeanlouis asportò le beole poggiate sulla terra nuda e le risistemò sopra un letto di cemento, proprio un bel pavimento rustico. Sostituì i due pali che sostenevano la tettoia (scoprirono che alla base erano marci, ancora un anno e tutto sarebbe crollato sulla testa del padrone di casa) con due colonnine di mattoni a vista. Eresse un muretto di settanta centimetri con sopra il serizzo e pitturò l’intonaco con un bianco giallino luminoso. Sopra la copertura di policarbonato avrebbe steso lastre di alluminio coibentato. 10 Se muore un arlecchino Un ottimo lavoro. Albino aveva già preso accordi con Lorenzo, il suo ex alunno che aveva avviato una ditta di infissi in alluminio e che negli anni precedenti gli aveva già cambiato tutti i serramenti. I suoi operai chiusero la veranda con i vetri doppi e installarono una porta e due finestre a vasistas. Sì, proprio un ottimo lavoro. Quel giorno, Albino oziava (pochi minuti: non era più il tempo dei sogni a occhi aperti) sulla soglia della cucina in contemplazione del futuro rifugio di scrittura, quasi uno studio all’aperto, una stanza con due pareti in muratura e due a vetri doppi. Sotto la finestra del bagno, sulla destra, aveva piazzato un tavolo laccato nero; e a sinistra il divanetto che aveva tolto dall’altro portichetto dove (mosche e zanzare) se n’era rimasto inutilizzato per anni. Sullo sfondo, nel giardino, l’amelanchier, o pero corvino, dalle bacche commestibili, un esemplare giovane che non aveva ancora fruttificato; si preparava a rivestirsi dei toni caldi dell’autunno. Dietro, l’aiola delle echinacee che aveva arricchito con l’helenium Kanaria, la santolina, il tanaceto e un corniolo da frutto a poca distanza dal giuggiolo e dal Sambucus nigra gerda black beauty. Di fianco, l’asimina triloba, il banano del nord, chiamato paw-paw dai nativi americani: le foglie stavano assumendo una tinta solare fosforescente. Più a nord, le due piante di callicarpa, zeppe di bacche viola. Davanti a loro l’azzeruolo e il susino President, sotto il quale erano state piantate di recente la veronica e la lavatera. Nell’angolo di nord-ovest c’era il mucchio di terra riportata a cui Albino attingeva per rinvasare e riempire buche; e anche per piantarci zucchini e pomodori, concimati dagli scarti di cucina; sulla porzione a nord ci aveva trapiantato i lamponi. 11 Aquilino Ancora, a sinistra, il malus perpetu evereste che avrebbe mostrato per tutto l’inverno le sue piccole mele rosse. Davanti a quest’ultimo, il prunus tomentosa, o ciliegio di Nanchino; nemmeno lui, di impianto recente, aveva ancora fruttificato. Albino spostò lo sguardo sulla destra, oltre la macchia delle emerocallidi che era incerto se estirpare; la fioritura era troppo breve, di poca soddisfazione, ma non aveva le idee chiare su che cosa mettere al loro posto, incerto se seguire il consiglio di Atena: ancora piccoli frutti. Ecco i fichi. Uh, che scorpacciate! Uh, come n’era goloso! E sotto di loro ribes e mirtilli. A tre metri, il pero Martin Secco, i cui frutti avrebbe raccolto in pieno inverno. Più in là i due cachi; e contro la recinzione di lastre di cemento le more senza spine. I gelsomini interrati sul confine dall’impresa delle villette a schiera che lo assediavano non erano stati spostati, nonostante le promesse, ahimè false (imprese bugiarde); l’inverno, tuttavia, ne aveva fatti secchi molti; ad Albino spiacque, ma non voleva nemmeno l’onere di una manutenzione assillante, dato che sarebbero ricaduti dalla sua parte. Infine, il grande cespuglio di rosa rugosa bianca, proprio di fronte alla porta esterna del suo giardino d’inverno incastonato fra tante meraviglie. Quella profusione di vita, così varia nelle forme e nei colori, era un antidoto contro i momenti avvelenati, quelli che pigiavano la morte di tutte le cose nel cuore, gonfio e attonito. Si usciva e subito a sinistra si era sotto la pergola dell’actinidia arguta, il kiwi dai frutti piccoli come noci (ancora troppo giovane per fare copertura), la cui struttura in ferro era stata realizzata dal vicino, il generale Venanzio Floris. Al piede, ci aveva sistemato una nepeta 12 Se muore un arlecchino faassenii six hills giant e sotto la futura pergola una vecchia panchina di plastica in origine bianca, ora variegata dalle intemperie e dai residui di carburante scaricati tra le nuvole dagli aerei della Malpensa. Gli parve di rivedere Atena seduta proprio lì, uno degli ultimi giorni di agosto, al crepuscolo. Aveva dedicato la giornata al giardino, impiantando cose nuove e potando cespugli e alberi (aveva dovuto ridurre il susino, tanto carico di frutti sui rami lunghi e curvi da fargli temere che si spezzassero). Si era fermato per contemplare il lavoro svolto, pensando: “Anni fa mi sarei fumato una sigaretta.” Ogni tanto ci pensava, nei momenti di vuoto che un tempo riempiva di fumo. Ne consumava ancora circa tre all’anno, in occasione delle rare cene alle quali partecipava qualche tabagista. E quando ci pensava ricordava sempre come aveva perso il vizio, dicendo “basta” una sera che ne aveva fumate tante da procurargli una nausea feroce; nei giorni seguenti nessuna rappresaglia e nessun cedimento. Che strana battaglia senza spargimento di sangue! Forse l’unica, nella sua vita. “Potresti chiamarlo miracolo, no?” commentò Atena apparendogli accanto. Albino se ne rimase lì, appoggiato alla vanga, a fissarla muto. Erano quasi tre mesi che non la vedeva e aveva perfino sospettato che la stagione dell’Olimpo fosse finita, passata come tutte le cose: panta rei os potamòs. Miracolo?! Lo stuzzicava? “Tieni, ti ho portato la perilla” disse porgendogli una piantina dalle grandi foglie rosso scuro. “Fa bene, mangiala in insalata, cruda o cotta. Ma è anche molto bella, vero?” Sì, molto. Elegante come l’acanto. E invadente come Atena. 13