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1 IN UN`INTIMA DISTANZA: TRADURRE IL TESTO LETTERARIO

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1 IN UN`INTIMA DISTANZA: TRADURRE IL TESTO LETTERARIO
IN UN’INTIMA DISTANZA: TRADURRE IL TESTO LETTERARIO
Una divagazione narrativa
(Laura Bocci – Seminario estivo della Società Italiana delle Letterate
16/19 giugno 2007)
Il Paradiso è serrato e il
cherubino ci sta alle spalle.
Noi
dobbiamo
fare
il
viaggio
intorno al mondo e vedere se vi si
trovi forse qualche ingresso da
dietro.
H. von Kleist, Il teatro delle
Marionette
Certe volte – spesso – è un po’ come se lui dormisse tutta la
notte voltandomi le spalle, inesorabilmente chiuso in se stesso,
muto, e forse ostile; il suo dorso è
un muro impenetrabile, una
muraglia senza porte né arcate benjaminiane. La benedetta arcata
che potrebbe farmi entrare in contatto con lui.
Io me ne sto lunga distesa lì accanto, i piedi accavallati l’uno
sull’altro,
immobili,
a
così
volte
come
inquieti,
le
mani,
altre
volte
conserte
invece
del
sullo stomaco:
tutto
neanche
fossi già morta. E invece no, non sono affatto morta, e guardo il
buio
della
stanza
l’interrogativo
con
della
gli
occhi
giornata,
aperti
non
mi
mentre
abbandona
il
un
rovello,
istante
neanche di notte. Tutto il giorno ho girovagato per la casa, ora
addentando soprapensiero un
pezzo di pane, ora cuocendo un uovo,
1
ora
scacciando
una
mosca
o
aspettando
impaziente che
l’acqua
bolla, anche se non so già più per fare cosa. E chiedendomi: come
fare? – mi
sono chiesta di continuo, tutto il giorno – come fare
a smettere di interrogare, a smettere di tentare l’impossibile, a
smettere di provare a trasformare; come fare, in conclusione, con
lui, a farci finalmente i conti e a darmi finalmente pace?
Lui se ne sta lì da sempre: nato da secoli o solo ieri, nel suo
essere compiuto, finito, a suo modo perfetto, pronto a sfidare o
a catturare
qualsiasi uomo o donna che cada nel suo cerchio
magico, nella sua immutabilità, nella sua forma raggiunta, nella
sua
resistenza
alle
epoche
e
al
cambiamento
rappresenta
per
definizione la norma anche se è al di fuori di ogni norma, lo
standard anche se è al di fuori di ogni standard. Lui è il già
dato, il canone, l’esistente, anzi l’Essere stesso. Lui, il testo
letterario, il mio potente avversario, il mio Gegner, colui che
mi sta di fronte e contro al tempo stesso; al quale continuamente
mi avvicino e dal quale mi allontano come nel movimento ossessivo
delle onde sulla riva; lui, al quale mi legano avversione per
paura
e
respinta,
attrazione
così
come
per
passione,
sempre
si
dal
quale
attraggono
e
sono
si
attirata
e
respingono
i
contrari.
Il mio compito è chiaro, a suo modo anche semplice, e insieme
impossibile e infinito: dovrò entrargli dentro, farlo a pezzi,
smontarlo in una lingua che è la sua
e catturare il suo segreto,
2
l’eco che è in lui, per usare due termini benjaminiani; facendo
questo
interpretarlo,
dovrò
“formidabile
rappresenta,
interpretare
concentrazione
talmente
senso“1
di
forte,
a
volte,
il
senso
o
la
che
contiene
e
“talmente
infinita
da
andare al di là di ogni possibilità di captazione”2. Poi, una
volta disfatti tutti i nessi, in un’operazione che è di lettura,
smontaggio,
decodificazione,
e
interpretazione
tutto
in
una
volta, dovrò rimontarlo in un’altra lingua, che è la mia, la
lingua madre, con cui combatto e perdo. Dovrò quindi scriverlo,
anzi
riscriverlo, darmi
da
sola un’autorialità
che in realtà
nessuno mi ha attribuito né, per lungo tempo, mi ha riconosciuto.
Sono emersa da poco alla consapevolezza di me stessa, e tuttavia
si tratta di una consapevolezza forte e ben conscia dei rischi.
Tra
noi,
tutto
ci
divide,
e
per
prima
la
mia
soggettività
linguistica perché “tale operazione di mediazione tra le lingue
attinge coscientemente o per abitudine involontaria a due fonti
di rifornimento: il parlato corrente, che corrisponde al proprio
livello
culturale;
inestricabilmente
complesso
unico
ed
parte
e
il
repertorio
del
subconscio,
irriducibilmente
privato,
dei
specifico,
che
ricordi,
della
fa
del
propria
identità somatica e psicologica”.3
1
A.Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella
lontananza, Quodlibet 2003,p. 34
2
ivi, p. 35
3
G.Steiner, Dopo Babele, Garzanti 1994, p. 74
3
Poi, a complicare le cose, interviene la mia doppia memoria: una
memoria che è physis nella mia lingua madre - fatta di odori e
sapori forse ancor prima e ancor più che di suoni, fatta di
sguardi rispecchiati, di tocchi e di abbracci, di ricordi, di
voci, di accenti, di assenze, di silenzi; fatta di Erlebnis – e
poi una memoria che è mimesis nella ‘lingua altra’, la lingua che
per me è transito, ricerca, esperienza, apprendimento, Erfahrung,
la lingua che permette al mio altro Sé di essere quel che vuole e
che ha scelto di essere, quel che forse non può essere nella
madre lingua. Come quando, innamorandoci di qualcuno, troviamo in
lui
o
in
lei
l’immagine
riflessa
di
tutte
le
nostre
parti
mancanti oppure, in un delirio narcisistico, il rispecchiamento
di ciò che in noi stessi amiamo di più. Per questo sono così
grata al tedesco; ma anche, pur se in modo diverso, all’inglese e
al francese, e sarei grata a qualsiasi altra lingua conoscessi
perché anch’essa, come le lingue che già conosco, darebbe vita ad
un qualche altro Sé
di me stessa,
vita ad alcuni degli altri
così come tutte insieme danno
soggetti femminili che sono me. E se
la lingua madre - un Mutterland dell’anima, per dirla con Rose
Ausländer4 -
è
necessità,
la
lingua
altra
in qualche modo è
libertà; eppure, rovesciando le cose, potrei dire che la prima è
ricchezza e la seconda è povertà. Povertà,
anche se certo non
miseria: una povertà in cui sono costretta a fare tesoro di ogni
4
Mutterland Sprache, ecc.
4
parola appresa, di ogni intuizione, di ogni combinazione come di
un tozzo di pane secco in tempo di guerra. Il tedesco mi sfugge
da ogni parte, non riesco mai a sentirlo davvero sotto controllo:
questa cosa
gioco,
e
ne costituisce però il fascino stesso, la sfida, il
diventa
malattia
e
terapia
delle
parole.
Troppo
scontato, forse, ma forse no, il meccanismo della sovrapposizione
tra Über – setzung e Über – tragung
5
(citato da Steiner), in cui
il rischio dell’’errata attribuzione’ si corre ad ogni passo.
Per
questo
il
controllo
sulle
parole/emozioni
sarà
costante,
anche perché la sua lingua, la lingua del testo letterario, è e
rimane fissa nel tempo, mentre la mia muta, cambia dentro e fuori
di me già mentre la scrivo, e non è mai uguale al giorno prima.
Dovrò
fare
una
grande
sovrainterpretazione
o
attenzione
della
mia
al
pericolo
della
sottointerpretazione,
mia
vale
a
dire che dovrò cercare, di fronte al suo silenzio e alla sua
frequente oscurità, che a volte diventa una dichiarata ostilità,
di evitare di attribuirgli troppo o troppo poco, di ipertradurre
o di ipotradurre a seconda di desideri interpretativi che sono
miei, che nascono da me e che poco hanno a che vedere con lui.
Dovrò, insomma, cercare con tutte le forze a mia disposizione di
non operare proiezioni di sorta, dovrò tentare di non vedere in
lui niente altro che quello che è, di non farmi
rapire da
evocazioni e suggestioni, né da ricordi, né dal rimosso, che
5
Traduzione/Transfert
5
l’eco della sua lingua nella mia potrebbero ad ogni passo far
nascere nella
mia fantasia,
nella
mia
psiche:
questo
resterà
sempre uno dei maggiori problemi, perché chiedermi sangue freddo
e
oggettività
interpretativa
equivale
quasi
a
chiedermi
l’impossibile. E questo vale anche e persino quando quel che ci
unisce non è
un matrimonio d’amore, che resta un evento raro, a
lungo atteso ma raro. D’altra parte è anche molto difficile che
il nostro possa essere un matrimonio di interesse, almeno per me,
quella che ci rimette sempre: ma qui siamo sbilanciati, perché in
realtà lui, pur ostentando indifferenza nei miei confronti, mi
deve moltissimo e di fatto dipende da me per la sua sopravvivenza
e
per
il
suo
transito
chissà… molto spesso è
altrove:
altri
luoghi,
il Caso che, come
altre
epoche,
tante volte accade
nella vita, ci abbina e ci mette insieme, e se lui non si pone
troppe domande – a porsi troppe domande, a mettere troppo in
questione, non è molto abituato né incline
invece non so mai
per natura - io
e non smetto mai di chiedermi se sono davvero
adeguata, se sono in realtà proprio io quel traduttore adeguato
il
cui
incontro
Walter
Benjamin6
augura
od
ogni
testo.
Lui
continua la sua vita ed è indifferente a me, anzi, nella maggior
parte dei casi, non mi conosce né può farlo, oppure mi ignora.
Ignora le mie doti, le doti che porto in dote, anche se ne ho
molte e la mia dote è ricca, come in ogni buon matrimonio che si
6
Angelus Novus, ecc.
6
rispetti: dispongo di tempo quasi a volontà, di dedizione a una
causa quasi certamente persa, di beni materiali – siano essi una
stele, un papiro, una penna d’oca o un portatile poco cambia e
poco conta – per dedicarmi anima e corpo a lui, a lui solo.
Lascerò
la
mia
casa,
la
mia
lingua
madre,
e
aprirò
coraggiosamente, quasi biblicamente un auberge du lointain – per
citare
Berman7
Antoine
-
una
locanda
nella
lontananza,
un’abitazione nella terra dell’altro, in un territorio che mi è
ignoto e forse nemico, nel quale tuttavia dovrò vivere per un bel
po’
di
tempo.
trasformerò,
Per
fare
questo
perché
sarò
mi
costretta
adatterò,
cambierò,
a
e
farlo;
lui,
mi
pur
resistendo, non potrà non cambiare con me, nell’intima distanza
che creerò tra noi. Dovremo stare al contempo lontani e vicini in
questo
‘essere
in
lingua’
(utilizzo
ancora
un’espressione
di
Berman) che contraddistingue il suo essere testo e il mio essere
traduzione,
l’eco,
il
direbbe
cioè
una
segreto
forma
direbbe
che
riunisce
Benjamin;
il
in
sé
senso
e
e
trasferisce
lettera,
la
Berman.
Se si vuole, in questa complessa operazione si possono persino
rintracciare “ i quattro movimenti della mossa ermeneutica del
tradurre:
spinta
reciprocità”8;
7
8
in
iniziale,
fondo,
sono
aggressione,
proprio
questi
incorporazione
anche
i
e
quattro
La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, ecc.
G. Steiner, op.cit. p. 17
7
movimenti dell’amore, o dei suoi più o meno maldestri tentativi.
Con in più, però, la necessità di ‘fare il vuoto’ dentro di sé
prima
di
poter
entrare
in
contatto
con
un
nuovo
testo
e
lasciarsene invadere, così come accade quando si lascia o si è
lasciati
da
ripercorrere
accettando
un
vecchio
tutti
di
gli
regredire
amore.
stadi
Poi
(della
anche
a
si
dovrà
lingua
quelli
iniziare
o
a
dell’amore)
primari,
dove
si
balbettano soltanto sillabe inarticolate. Ed è solo dopo, che
tutto potrà ricominciare come daccapo, una volta ancora.
E lui allora non potrà continuare ad ignorarmi né ad ignorare le
mie
domande,
le
mie
richieste
di
comunicazione,
perché dovrà rendersi finalmente conto che
esistenza
a
determinare
e
connotare
la
di
scambio,
è proprio la mia
sua
resistenza
e
sopravvivenza, la sua trasformazione negli anni, nei secoli, nei
millenni persino. Dunque, anche lui non potrà non cambiare, anche
se
io
dovrò
resistere
alla
tentazione
dell’etnocentrismo/egocentrismo – vale a dire del voler ridurre
l’altro a me
fargli
stessa, del renderlo uguale a me, tanto simile da
perdere
ogni
interesse
e
ogni
forza
attrazione - e, nella trasformazione, dovrò
e
capacità
di
superare l’épreuve
de l’étranger, la “prova dello straniero” (cito ancora Antoine
Berman): rispettare la sua lontananza, la sua alterità, perché
come
afferma Benjamin, “la traduzione è una forma […]
sarebbe possibile se mirasse,
nella sua
ultima
essenza,
e non
alla
8
somiglianza con l’originale, poiché nella sua sopravvivenza, che
non potrebbe chiamarsi così se non fosse mutamento e rinnovamento
del
vivente,
maturità
“nella
l’originale
postuma
traduzione
anche
la
si
delle
vita
trasforma
parole
e
che
dell’originale
[…]
si
raggiunge
sono
una
fissate”910;
raggiunge,
in
forma
sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento”.
Noi due in fondo siamo tutt’altro che estranei, e la traduzione
rappresenta di per se l’espressione del rapporto più intimo delle
nostre lingue tra di loro; ci in-tendiamo, tendiamo cioè allo
stesso fine, perché anche se Brot, pain e pane (es. cit. sempre
da Benjamin) sono tre parole e tre oggetti diversi, in fondo sono
imparentati
substrato
e
“affini
concettuale.
in
ciò
E
anche
che
se
vogliono
io,
dire”11,
traducendo,
nel
loro
“resisterò
all’alito del drago” (per citare un’espressione molto felice di
Manuela Fraire, detta in altro contesto), tuttavia la mia lingua
madre non potrà non cambiare sotto la spinta potente e poderosa
del testo originale; venticinque anni di traduzioni dal tedesco
hanno certo influito sulla struttura della mia frase italiana,
nella quale spesso lascio alla fine lo scioglimento di un dubbio
o di una domanda. Sono facile e duttile al cambiamento, e in
questo sono un soggetto sempre e comunque femminile: perché (cito
da “Di seconda mano”) “il traduttore, uomo o donna che sia,
9
Il compito del traduttore, in A.N. p. 39
Ivi, p. 41
10
9
compie
un’attività
femminile,
che
si
contrappone
ad
attività
maschili, siano esse esercitate da maschi o da femmine”; e una di
tali
attività
tipicamente
maschili
è
proprio
la
scrittura,
l’autorialità dello scrivere. Inoltre, e riprendo anche qui cose
cose
già
dette,
“se
all’autore,
a
prescindere
dal
sesso,
si
attribuisce in genere la ‘paternità’ del testo, e con essa il
‘ruolo produttivo’ per eccellenza, il traduttore svolge invece
una ‘funzione riproduttiva’, e dunque femminile per definizione,
traducendo potenzialmente all’infinito, ed in infinite lingue, il
testo stesso. A lui o a lei, al traduttore/traduttrice, spettano
dunque funzioni che sono fisiologicamente, ma anche culturalmente
attribuite alla madre: mettere al mondo qualcosa che è stato
fecondato
da
un
altro,
per
dargli
voce
e
poi
interpretarlo,
trasformando e traducendo segni e codici che sono estranei al
destinatario finale dell’operazione”, il lettore, appunto. Ma è
davvero
lui
il
destinatario?
Si
scrive,
si
traduce
per
un
lettore? Oppure anche la traduzione, proprio come la scrittura, è
fatta per prima cosa per se stessi, e riguarda il Sé di chi
scrive o traduce prima che chiunque altro?
Già, perché anche se ci conosciamo appena, lui e io siamo per
necessità
destinati
alla
riproduzione,
produrre un nuovo testo, una traduzione,
dei
11
tempi
passati
era
destinata
per
siamo
destinati
a
proprio come una coppia
necessità
a
produrre
Ibidem
10
rapidamente un figlio; o come la coppia analitica di psicanalista
e
paziente
è
inesorabilmente
destinata
a
produrre
il
terzo
analitico, quella ‘cosa’ che forse è una relazione oppure un vero
oggetto,
una
statua
direbbe
Hillmann,
alla
cui
creazione
si
lavora in due, e di cui ora non saprei dare una definizione più
precisa. La riproduzione che il nostro incontro permette
la
straordinaria
specificità
di
aprirci
le
porte
ha però
del
mondo
intero, portando potenzialmente noi due, la coppia ideale e per
questo
impossibile
di
testo/traduzione
fin
dentro
qualsiasi
lingua si scelga o venga scelta da altri. Così, l’incontro con me
garantisce a lui le relazioni con altri universi linguisstici,
che da solo non potrebbe mai raggiungere: io sono addetta, forse
condannata alle relazioni, e anche in questo si riafferma il mio
essere un soggetto femminile. A me, invece, lui consente fughe e
viaggi di ogni genere, insomma mi permette di realizzare quel
potenziamento
dell’esistenza
attraverso
la
letteratura
che,
creandole e le permettendole un altrove, la rende tollerabile, o
almeno dà un po’ più di leggerezza all’essere, al vivere. Grazie
al nostro rapporto, così intimo e segreto, e forse proprio per
questo così conflittuale, turbolento, a tratti persino violento,
io
avrò
profonda,
la
e
possibilità
più
giù,
di
entrare
fin
fin
dentro
le
nella
fibre
sua
trama
stesse
che
più
lo
costituiscono. Non c’è lettura infatti che equivalga quella di
chi ha il defilato, umile, ma prodigioso privilegio di occuparsi
11
del tradurre. Scrive Marina Cvetaeva a proposito del tradurre
poesia: “Oggi ho voglia che Rilke parli attraverso di me. Nel
linguaggio corrente questo si chiama tradurre (Come è meglio il
tedesco Nachdichten!
Seguendo
la
traccia di un poeta, aprire
ancora una volta la strada che egli ha già aperto. Sia per il
Nach, (dopo), ma c’è il dichten, (il far poesia n.d.A.), il
sempre
nuovo.
Nachdichten significa riaprire
la
via
su
delle
tracce che l’erba invade all’istante.) Ma la traduzione è anche
altro. Non si fa soltanto passare una lingua in un’altra lingua,
il russo per esempio, si passa anche il fiume. Io faccio passare
Rilke nella lingua russa, proprio come un giorno lui farà passare
me all’altro mondo.”12In questo enigmatico passare il fiume c’è
tutto il rischio, il
pericolo dell’affrontare le incognite, le
difficoltà, le delusioni della relazione tra traduzione e testo.
Ma anche l’allusione a una serie di passaggi dei quali quello in
un’altra lingua è solo il primo: poi ci saranno infatti gli
infiniti passaggi della scrittura e riscrittura, per tacere del
passaggio finale, quello tra la vita e la morte, tra la vita del
testo
– che
immacabilmente
continuerà
avverrà
–
di
e
la
qui
morte
a
una
della traduzione
trentina
–
d’anni.
che
Nel
frattempo si attraverserà o si vagabonderà insieme attraverso uno
spazio comune, ma se è ben definito, e da sempre, quale parte di
tale spazio sia il suo, quello del testo letterario, non è invece
12
cit. da A. Berman, op. cit. p. 19
12
affatto chiaro quale altra e differente parte di spazio ci sia
per me, per il soggetto traducente: in sintesi, qual è lo spazio
letterario della traduzione? Una specie di valle seminascosta, mi
verrebbe di rispondere, con in mezzo un grande fiume, un lago, un
mare, o forse l’oceano, il cui pericoloso attraversamento avviene
sotto gli occhi severi dei due grandi Assenti, che non ci perdono
mai di vista: l’Autore e il Lettore. Noi siamo come due amanti
clandestini che tentino una fuga d’amore già in partenza fallita,
e
per
questo
lasciato
a
più
casa,
eroica,
i
due
più
che
coraggiosa:
abbiamo
i
tentato
due
di
che
abiamo
ignorare,
ci
attendono di sicuro a qualche varco, in qualche porto o dogana,
anche se tra loro non si conoscono, e di certo l’Autore non ha
scritto per il Lettore.
Ma sono uniti nella determinazione a
tenerci, l’uno e l’altra, sotto stretto controllo, a giudicarci,
a chiederci conto: non perché il traduttore debba ri-scrivere,
cioè
tradurre,
nella propria
lingua madre
come
l’autore se avesse scritto direttamente in quella:
avrebbe
fatto
questa follia
equivarrebbe, afferma Schleiermacher,13 a dire “Ti presento il
libro così come l’autore lo avrebbe scritto se l’avesse concepito
in tedesco” e a questi si risponda : “Ti sono obbligato come se
mi avessi offerto l’immagine con la quale l’autore apparirebbe se
sua madre l’avesse concepito con un altro padre.”
13
F. Schleiermacher, Sui diversi metodi del tradurre, in
S.Neergard (a cura di), La teoria della traduzione nella storia,
13
No, questo no, però mi chiedo: se per un miracolo o un assurdo,
il mio autore tedesco settecentesco potesse oggi leggere la mia
traduzione
italiana
del
suo
testo,
vi
troverebbe egli ancora
un’eco di se stesso? Lo riconoscerebbe ancora come suo? A quale
incredibile e fantastica nascita , allora - se sì - avremmo dato
vita il testo tedesco e io, la traduzione in italiano: a qualcosa
di completamente diverso da lui e da me, e insieme di talmente
simile ad entrambi, e in più qualcosa che conterrebbe ancora
l’eco
dell’autore,
da
lui
riconosciuta…
Meglio,
meglio
mille
volte che una cosa del genere non possa mai accadere, perché
certo la vertigine di questa onnipotenza non potrebbe che farmi
male, anche se è
cui
aspiro
di
fuor di dubbio che sia proprio questa la cosa
più.
E
no,non
sarebbe
la
stessa
cosa
tale
riconoscimento se fatto – come pure mi è accaduto – da un autore
tedesco contemporaneo riguardo al suo ultimo romanzo o saggio,
il quale telefonasse per gentilezza alla traduttrice – io - per
complimentarsi
dell’italiano
con
per
aver
lei,
avendo
lui
forse
vissuto
due
buona
anni
a
conoscenza
Firenze
da
studente… no!! - io non posso che pensare a Hölderlin, a Kleist,
a Goethe, a Lenz, a Jean Paul, a Büchner, a Hoffmann, a Chamisso,
e in questo certo pecco di immodestia e di ben scarso senso della
realtà. Per questo ho bisogno dei classici, sono dipendente da
loro, e per questo infatti vengo punita: traduco poco – quasi
AAVV, Strumenti Bompiani 1993, p. 172
14
nessuna
casa
editrice,
grande
disposto tradurre i classici,
o
piccola
che
sia,
ormai,
è
è disposta a tentare una nuuova
traduzione, anche se poi i classici vendono milioni di copie
quando sono abbinati ai quotidiani! – Traduco poco, quasi solo
grandi classici, canonici o marginali che siano, e solo loro
vorrei tradurre. Non faccio questo lavoro per vivere, in questo
ho raggiunto una forse antiquata autonomia economica da lui: non
pretendo sia lui a mantenermi né mai l’ho preteso; preferisco che
il nostro rimanga uno spazio di esclusivo desiderio, non corrotto
da
alcuna forma di necessità, se non da quella che anche i
lettori italiani che ignorano il tedesco possano avvicinarsi a
lui, in questo non sono affatto gelosa, anzi sono la generosità
in persona.
Ma
divento
una
furia
se
un altro
o un’altra
si
avvicinano a lui per tradurlo: allora lo sequestro in cantina, lo
metto
in
ceppi,
lo
punisco
a
pane
e
acqua,
per
avere
lui,
certamente, fatto in modo di attrarre l’interesse di altri su di
sé, di altri che non sono io… E lo libererò soltanto nel momento
in cui lui – rispondendo alla fine alle mie infinite richieste di
trasformazione – mi garantirà di essere disposto, anzi di non
desiderare né volere altro che restare chiuso entro il cerchio di
quell’intima distanza che ho scelto e creato per noi, e che ci è
assolutamente necessaria per vivere.
15
15 giugno 2005
16
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