GENTILUOMINI DI MARE nr 37 - Associazione Combattenti Decima
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GENTILUOMINI DI MARE nr 37 - Associazione Combattenti Decima
Settembre 2013 N°37 GENTILUOMINI DI MARE Trimestrale di notizie creato intrattenimento, di storie di mare e di da naviganti di vita per gente di mare. ...Dio solo sa quanto è brutto vivere in un mondo senza avventure, senza fantasia... ________________________________________________________ Pubblicazione degli ufficiali del Circolo di Venezia 2 INDICE ODIO DA TAVOLINO Pag. 5 LO ZEN E LE LINGUINE AL SUGO DI TONNO Pag. 8 LA PRIMA PUNTURA Pag. 11 IL SORRISO DEL SOMMERGIBILE Pag. 13 PICCOLE PERLE Pag. 15 (L’ispezione dell’ammiraglio, L’allievo di servizio, Dicerie da polentoni) LA PICCOLA TARTARUGA Pag. 18 SULLA DISCIPLINA MILITARE Pag. 20 X XXXXXXXXXXXXX 20 La pubblicazione “Gentiluomini di mare” è edita dai Soci del Circolo Ufficiali Marina Militare di Venezia e viene inviata per posta elettronica (e-mail) a tutti coloro che hanno fornito il proprio indirizzo elettronico comunicandolo al responsabile/redattore. La collaborazione al periodico è aperta a tutti gli ufficiali e sottufficiali della Marina in servizio ed in congedo, ai Soci dei Circoli ed a chiunque voglia far pubblicare un articolo, una poesia o degli annunci che siano in accordo con lo spirito del giornalino. Il materiale può essere inviato via e-mail o su supporto elettronico (memory key o CD) al seguente indirizzo: Responsabile/redattore C.A. (a) Rudy Guastadisegni (Ordine Nazionale dei Giornalisti, n. 116741) Via Sandro Gallo 9 30126 Venezia-Lido cell. 360965218 [email protected] Esclusivamente via e-mail possono essere richiesti numeri arretrati direttamente al redattore o, col solo rimborso delle spese di spedizione, può essere richiesto l’invio del CD-ROM contenente tutti i numeri pubblicati in formato pdf stampabile. 3 4 ODIO DA TAVOLINO Come tutti gli anni, nel mese di agosto, a San Vito presso la spiaggia ufficiali di Taranto, mi dedico ad attività subacquee didattiche. Nulla di impegnativo, solamente ambientamento, acquaticità ed avviamento all’uso dell’autorespiratore per bambini in un metro di acqua e passeggiate subacquee in 5-8 metri di fondale di fronte alla spiaggia per ragazzi ed adulti; semplici lezioni su come stare sott’acqua in tutta sicurezza. L’iniziativa, del tutto personale e condotta con l’aiuto di mia figlia, istruttrice federale e di un collega ancora in servizio che mette a disposizione più di metà del materiale necessario, ha sempre un gran successo perché, condotta con rischi zero e in tutta tranquillità. Quel giorno era dedicato alla manutenzione settimanale degli autorespiratori ed apparecchi fotografici. Per ripararmi dal sole e dal gran caldo della mattinata avevo scelto uno dei tre tavolini in pietra all’ombra di un gazebo nelle immediate vicinanze della mia cabina e di quella adibita a deposito per il materiale sub. Erano le 10 circa e mentre mi accingevo alla manutenzione venni raggiunto da tre amici che iniziarono a parlare di tutt’altri argomenti distraendomi dall’attività. Alle 12.00 non ero nemmeno a metà del lavoro e decisi di interrompere per ottemperare alla regola di spiaggia che dice “Allo scopo di consentire ai bagnanti di consumare il pasto dalle 12.00 alle 15.00 non è consentito occupare i tavolini per il gioco delle carte o altra attività non connessa con il pranzo”. Io non gioco a carte in spiaggia (mi basta e avanza l’attività di arbitro federale FITAB che m’impegna d’inverno) ma comunque la manutenzione degli erogatori rientrava nella categoria “altra attività”. Così, ligio alle regole, spostai il mio materiale su una sedia ed iniziai ad allestire il tavolino per la consumazione del pasto Tra le 12.00 e le 14.30 al tavolino da me occupato si alternarono colleghi e famigliole con i loro cestini e borse frigo per consumare in compagnia il loro pasto; abbiamo amabilmente chiacchierato tra un panino e un po’ di frutta mentre attorno a noi si raccoglievano lentamente i bagnanti che abitualmente occupano quei tavoli per giocare a carte. Alle 14.30, con il tavolino liberato da cibarie (nessuno più doveva pranzare), mi misi a leggere in attesa di poter ricominciare con le mie manutenzioni alle 15.00. Attorno a me, negli altri tavoli, già ferveva l’attività del gioco delle carte (in barba alle disposizioni sull’orario). Alle 15.00 precise, cessato il divieto, rimisi sul tavolo i miei apparecchi e ricominciai a smontare, controllare, lubrificare, revisionare ecc. L’atmosfera era molto tranquilla, direi quasi rilassata anche se qualcuno lanciava all’aria commentini tra il sarcastico e lo stizzito che mi facevano capire che la mia presenza era poco gradita perché impediva loro l’utilizzo del tavolino per il gioco 5 La natura mi ha dotato di un ottimo impermeabile: tutti i commenti e le critiche fuori posto mi scivolano addosso finendo a terra in una piccola pozzanghera che nemmeno mi bagna i piedi. Continuai imperterrito e silenzioso con il mio lavoro. Al tavolo cui davo quasi le spalle, tra i quattro giocatori, la signora Bischieri, fino a quel giorno a me totalmente sconosciuta (qualcuno il giorno dopo mi riferì che invece frequenta la spiaggia tutti gli anni in agosto ma evidentemente il suo aspetto totalmente insignificante me l’ha sempre resa invisibile), fumava sigarette a ripetizione; nel corso di una partita di burraco di una cinquantina di minuti ne consumò otto. Nella mia posizione mi trovavo esattamente sottovento ed ero costretto ad aspirarmi tutto lo scarico di quella ciminiera. Per il quieto vivere e per educazione evitai qualunque tipo di commento o protesta e continuai a lavorare. La tizia sembrava molto interessata alla mia attività perché a tratti fissava intensamente i miei apparecchi e controllava quello che facevo. Sembrava quasi che fosse curiosa di saperne di più. Gli sguardi divennero sempre più frequenti, intensi e nervosi. Mi aspettavo da un momento all’altro una domanda sugli erogatori. All’improvviso … senza alcun segnale premonitore del tipo “Scusi, lei, cosa sta facendo …” scattò un violento attacco frontale: “Lei se ne vada da quel tavolo con la sua armeria (armeria? … forse era un po cecata e per questo non l’ho mai vista senza gli occhialoni neri per ciechi) perché io sono allergica e la puzza delle sue colle mi da molto fastidio …” e così via per un buon minuto con quella sua voce così irrochita dal catrame dei polmoni e resa sgradevole dalla conseguente tonalità maschile. Mentre io rimasi annichilito dalla violenza della virago e cercavo di capire cosa volesse intendere, gli altri astanti drizzavano le orecchie in attesa di una reazione … mi sentii come un marinaio americano durante l’attacco di Pearl Harbour. Riavutomi dalla sorpresa, capii che lo scatto furibondo aveva l’obiettivo di farmi lasciare libero quel tavolino, proprio quello. La scatenata covava da qualche ora un odio sviscerato nei miei confronti perché avevo avuto l’ardire di occupare il SUO tavolino da gioco. Non mi scomposi e con pacatezza risposi: “Cara signora, nell’informarla che questo (brandendo il tubetto di lubrificante siliconico con cui inumidivo le guarnizioni) non è una colla, mi domando come abbia fatto, stando due metri sopravento, a sentire un qualunque odore proveniente da questo tavolo? Non ci riuscirebbe nemmeno un abilissimo cane da tartufo!” (e mentre facevo questa considerazione pensavo che, in fondo aveva anche le fattezze della nobile bestia). “E chi lo dice che sono sopravento?” “Le zaffate del suo fumo che, come vede, si dirigono tutte addosso a me!” risposi prontamente. Intanto gli astanti imbarazzatissimi cominciavano a nascondersi dietro il ventaglio delle loro carte sogghignando sommessamente. “Ma io gli odori li sento anche da sopravento e poi quella non sarà colla ma è sicuramente mastice perché io me ne intendo di queste puzze dannose per la salute …” e via in una esilarante quanto incompetente spiegazione sulla pericolosità delle colle” “Cara signora” replicai con calma olimpica in una pausa del suo sproloquio “come vede questi sono apparecchi per la respirazione subacquea e i prodotti che si usano 6 per la loro manutenzione devono essere per legge atossici, anallergici e totalmente inodori come del resto si può leggere su questo tubetto che non è neppure mastice ma un semplice prodotto siliconico” “Questo lo dice lei, fatto sta che io sento un odoraccio sospetto e pericoloso e pertanto le ripeto di allontanarsi con la sua armeria :::” e mentre continuava a bofonchiare cercando con lo sguardo la solidarietà degli astanti che invece avevano capito tutto, vidi passare nelle vicinanze Tommaso il mio nipotino di 8 anni. Lo chiamai a gran voce e, in modo che tutti sentissero gli dissi “Vieni un momento qui che ti voglio far sentire un buon profumo” Il bimbo si avvicinò con un sorriso incuriosito e mentre tutti trattenevano il fiato gli ficcai quasi il tubetto in una narice. Aspirò profondamente due o tre volte e poi, assumendo un’espressione delusa esclamò “Ma qui non si sente nessun odore!” A quel punto gli astanti non riuscirono più a trattenersi e si cominciarono a sentire sonore sghignazzate che non fecero altro che imbestialire ancor più la gentildonna che si diede a scomposte manifestazioni d’ira per non essere riuscita a sostenere le sue infondate e pretestuose accuse. Soddisfatto e con un sorrisino di ironico trionfo continuai imperterrito nelle mie manutenzioni per altri 10 minuti circa. La nobildonna sembrava placata (o rassegnata) e taceva giocando a carte con stizza. Gli occupanti del terzo tavolo ad un certo punto smisero di giocare e sentii una signora lamentarsi perché stava arrivando il sole sul loro tavolo da gioco e non poteva continuare in quelle condizioni. Ovviamente mi sentii in dovere di proporre alle quattro signore di sistemarsi al mio tavolo che era completamente all’ombra mentre io potevo terminare i miei lavori al loro tavolo. Fatto il cambio di tavolino con i ringraziamenti di rito e gli usuali scambi di frasi cordiali, ultimai la mia attività e dopo altri 10 minuti raccolsi tutte le mie cose, mi alzai e me ne andai lanciando un cordialissimo “Buon giorno a tutti”. La risposta fu corale da parte di quasi tutti “Buon giorno …” e dal tavolo da me ceduto le signore aggiunsero un “Grazie ancora, ammiraglio, per la gentilezza …” “Dovere e piacere mio quando le richieste vengono da una signora …” e così dicendo, mentre mi allontanavo, sentii la virago inveire con voce isterica contro le sue stesse amiche “… e brave, dopo che ci ha fregato il tavolo lo ringraziate pure! Perché non vi inginocchiate anche e fate qualche minuto di adorazione …” Nei giorni successivi l’episodio fece il giro della spiaggia e mentre tutti solidarizzavano con me ironizzando sulle pericolosissime armi chimiche di distruzione di massa che mi servivano per la manutenzione degli erogatori, l’ilarità dilagava e, riferendosi alla protagonista qualcuno, raccontandomi numerosi altri episodi alcuni esilaranti, altri sconcertanti, mi disse: “Ora capisci perché questa spiaggia si chiama Stabilimento Elioterapico … perché qualcuno ha veramente bisogno di una buona terapia al cervello!” Rudy Guastadisegni 7 LO ZEN E LE LINGUINE AL SUGO DI TONNO Verso la metà degli anni sessanta facevo le mie prime esperienze da Capo Servizio su una corvetta Classe Aquila. Classe di quattro corvette che, insieme a una manciata di consorelle della più vetusta e più gloriosa classe Ape, costituivano la iperattiva “Ionian Fleet” investita di una fondamentale missione: servire da Scuola Comando. Ero soddisfatto e sereno. Non mi mancava niente; ero scapolo, avevo un Comandante nuovo a scadenze tri/quadrimestrali, un Ufficiale in Seconda autorevole e benvoluto, un ristretto (due) e qualificato gruppo di colleghi Capi Servizio del mio stesso Corso, un’attività in mare divertente seppure ripetitiva, un serrato ritmo di turni di ispezione diurna (di nave) e notturna (di Squadriglia), una stanchezza perenne che non si attenuava neanche di domenica. Non ci si crederebbe, ma non mi mancava neanche un prestigioso incarico da Direttore di mensa e, come addetto, un incredibile marò tuttofare del Quadrato Ufficiali. Definire “incredibile” il M/SV Restivo - nome di comodo – apparirà, alla fine di questa storia, a dir poco riduttivo. Venticinquenne calabrese di statura tendente al rasoterra, nerboruto e infaticabile ma lento di movimenti e di pensiero, indifferente ad ogni tipo di onda, aveva alle spalle una storia personale non proprio ordinaria. Lasciati gli studi, per dirla così, dopo le elementari, aveva lavorato per ogni dove fino ai diciassette anni quando l’esito, a lui favorevole, di una conversazione fra coetanei a base di colpi di “liccasapuni” (in breve: coltellate) al posto delle parole, lo aveva spinto a cercare aria più salubre in mezzo al mare, imbarcandosi come mozzo su una approssimativa carretta dalle mutevoli bandiere. Era solo l’inizio di una movimentata vita attraverso tutti gli oceani su tante navi diverse, al servizio di mille padroni e alla mercé delle troppe angherie e delle tante mareggiate che solo la vita di mare sa prospettare. Sulla via delle interrelazioni umane aveva sviluppato diffidenza incondizionata verso ogni essere vivente e indipendenza incoercibile di giudizio e di comportamento. Non che ci tenesse molto a estrinsecare pensieri e parole per rendersi bene accetto o per comunicare al mondo idee e convincimenti personali, ma quando lo faceva – di rado, per carità! – si esprimeva in un linguaggio che era l’indigeribile frutto di una mescolanza caotica fra il natio calabro-italiano, l’universale marittimo tagalogfilippino, l’immancabile terminologico nautico-inglese. Da una sua autobiografia orale formulata a base di monosillabi, era emerso che dopo tanto girovagare su navi non sempre note ai pubblici registri e fra gente di mare molto spesso nota alle autorità di pubblica sicurezza di tutti i continenti, un tal giorno al Restivo era capitato di ritrovarsi attore in una pericolosa riedizione fra colleghi di bordo di quella “conversazione primigenia” che anni prima lo aveva spinto a partire. Avuta la peggio e sentitosi bandito dalla comunità marittima internazionale, questa volta si era convinto a cercare terreno stabile e sicuro sul suolo patrio. Neanche a 8 dirlo, al primo passo su una banchina amica era stato beccato, come renitente, e spedito ad ottemperare agli obblighi di leva. Allora si usava così. E finalmente era approdato, di nuovo su una nave, fra noi banali esseri umani. Per restare allo stretto ambito del suo impiego a bordo quale “ragazzo di mensa addetto al Quadrato Ufficiali”, occorre precisare che la conoscenza del personaggio induceva tutti gli Ufficiali ad un linguaggio semplice e scandito, onde ridurre al minimo il margine di incomprensione. Quando gli si rivolgeva la parola, da parte di chiunque e a qualsiasi titolo, lui si bloccava, immobile nella postura del momento e occhi all’infinito, e dava l’impressione di ascoltare con somma attenzione quanto gli veniva detto. Alla obbligatoria domanda conclusiva: “Restivo, hai capito?” lui si scuoteva e rispondeva convinto “Sì, Signuri!”. Ma non sempre la rassicurante risposta era garanzia di successo. Per citarne una, un giorno alla richiesta dell’Ufficiale in Seconda di togliere via la polvere dai tappetini del suo camerino “sbattendoli” fuori bordo, era immediatamente seguito il “Sì, Signuri” e il conseguente tuffo in mare dei tappetini. Appunto: sbattuti. Fuori bordo, come richiesto. I tappetini privati della polvere e il Secondo privato dei tappetini. In occasionale assenza della domanda di verifica (“Hai capito?”), quasi mai arrivava da Restivo una richiesta di chiarimento agli ordini ricevuti. Se avesse capito o meno lo si scopriva solo a ordine eseguito. Non era raro il caso che, in Quadrato, ad una richiesta del tipo: “Restivo, per favore ci porti una birra, due aranciate e un caffè”, alle prime parole a lui rivolte l’interessato partisse subito verso il bar ma alla seconda voce dell’ordine si bloccasse in attesa di elaborare fra sé quanto aveva appena udito e che se ne restasse immobile in caso di insuccesso del suo processo mentalelaborativo, in attesa di una riedizione della richiesta. Colui che aveva parlato capiva, allora, che bisognava parzializzare il triplice ordine in tre sub-ordini singoli da eseguire rigorosamente uno alla volta. E così Restivo faceva tre volte su e giù per il Quadrato, queste volte senza immobilismi e senza dubbi. Nel mese di giugno di quell’anno una delle sessioni della Scuola Comando si concluse insolitamente a Napoli. Mancava solo il ritorno ad Augusta, nostra casa-madre, verso dove le restanti unità della Flottiglia avevano già orientato le prore. Eravamo da soli, orfani anche del Comandante che, per non so più bene quali inderogabili motivi, era sbarcato il giorno stesso del nostro arrivo nella città partenopea. Ci fu detto che avrebbe ufficialmente ceduto il comando ad un ancora ignoto successore subito dopo il nostro ritorno ad Augusta. Per il trasferimento fu designato “in prestito” un TV da poco abilitato Comandante su un’unità similare. Personaggio noto per la sua simpatia, questi fu accolto con ogni riguardo e fu senza riserve, per quanto ci fosse consentito di valutare, all’altezza del compito. Saggio, discreto e amicone senza essere troppo alla mano, ci riportò a casa 9 con soddisfazione di tutti. Durante la navigazione notturna si esibì in una gustosa lezione sullo Zen e il suo potere di cambiare in meglio natura e comportamenti di coloro che ne fossero diventati cultori. Ci sembrò che lui stesso ne fosse in qualche modo rimasto contagiato. Ma fu un’impressione fugace che solo una più lunga e articolata frequentazione avrebbe potuto confermare o smentire. Il mattino dell’arrivo ad Augusta il nostro Comandante “di breve durata” indossò l’uniforme ordinaria estiva e, guarnito di sciarpa e sciabola, si presentò come di dovere al Capo Flottiglia. Il pomeriggio dello stesso giorno sarebbe dovuto partire per Roma. Su proposta del Direttore di Mensa (il sottoscritto) e con l’approvazione del Secondo fu scelto il menù di ringraziamento e di saluto per il Comandante: aperitivo con un robusto Corvo di Salaparuta bianco, antipasto, primo piatto di linguine al sugo di tonno con pomodoro fresco, secondo di arista di maiale con patatine, frutta, cassata siciliana e Corvo rosso. Bollicine e caffè in chiusura. All’ora della mensa generale, tutti a tavola in tenuta di servizio e Comandante sempre in divisa ordinaria. Maggiordomo Unico: il M/SV Restivo. Il Corvo bianco assolveva bene il compito di stimolatore della conversazione, l’antipasto ammorbidiva i primi crampi da fame, giunse il momento del piatto forte. Un grande vassoio d’acciaio, pieno all’orlo di sugo, tonno e linguine fece la sua comparsa solennemente esibito da un sorridente (insolito!) Restivo. L’avvicinamento al tavolo fu lento e studiato, mentre il vassoio si alzava all’altezza del viso di Restivo (ricordate il “rasoterra”?) per scapolare la spalla del Comandante e abbassarsi poi al livello del tavolo. Ma il vassoio all’altezza della testa comportava impedimento alla vista; la quota di sollevamento fu valutata male e accade l’inevitabile: il vassoio inciampò nella spallina sinistra del Comandante e, spinto dall’inerzia del movimento verso l’avanti-in-basso impresso da Restivo, si arrovesciò e scodellò tutto: sugo, linguine e tonno sulla spalla, sul petto, sulle gambe e sulle scarpe del Comandante. Si salvò solo il piatto. L’atmosfera del Quadrato si congelò all’istante, in sbigottita attesa delle reazioni del Comandante. Restivo immobile con vassoio gocciolante sempre nella stessa sciagurata posizione, Ufficiali in apnea prolungata, Comandante imperturbabile e, ci sembrò con sollievo, quasi sorridente. Rimediammo con sincero disagio alle sue difficoltà; dopo una interruzione per doccia e cambio d’abito il pranzo fu portato a termine. Dopo la partenza, serena e amichevole, del “Comandante condito al sugo di tonno” la disavventura fu sottoposta ad approfondita disamina. L’assenza di pennoni non consente, sulle navi grigie, l’esecuzione per impiccagione dei colpevoli colti in flagranza di reato, ma qualche conseguenza ci fu. Alla fine rimanemmo tutti con un dubbio (perché, per un’unica volta dacché era con noi, Restivo era apparso sorridente?) e una certezza (il Comandante – ne avevamo avuta palese conferma - non poteva che essere un cultore convinto della dottrina Zen!). Romano Di Cecio 10 LA PRIMA PUNTURA Anche ai Comandanti delle navi in navigazione può capitare di aver bisogno di un’iniezione sanitaria e non tutte le Unità navali hanno un servizio sanitario di bordo che comprenda un medico oltre agli infermieri. Le piccole navi della Marina Militare hanno a bordo soltanto un infermiere e spesso anche molto giovane ed alle prime armi. Cosa succede durante una uscita in mare giornaliera ? Tranne casi particolari in cui, nell’eventualità di una emergenza sanitaria si può decidere di rientrare in porto o chiedere soccorso immediato perché non molto lontani dalla costa, non succede nulla di cui un giovane infermiere di leva si debba preoccupare. Ma proprio a lui doveva capitare ? Proprio a lui che era imbarcato da poco ? Certo che le sapeva fare le punture ! Ma una cosa era farla all’amico o al collega o ad un estraneo qualunque, un’altra cosa era fare una puntura al suo Comandante. Il povero marinaio infermiere era troppo emozionato e, dentro di se si chiedeva perché il Comandante non si fosse recato per l’iniezione all’infermeria della base prima di salpare. Forse pensava che il suo infermiere di bordo sarebbe stato sicuramente più bravo di quelli a terra. Da quando, alle 08.30, subito dopo aver mollato gli ormeggi, gli avevano detto che alle 11.00 avrebbe dovuto fare una puntura al Comandante, non stava più nella pelle. Avevano chiamato “posto di dragaggio”, i suoi colleghi stavano per mettere a mare le apparecchiature per effettuare l’esercitazione di dragaggio e lui, nella piccola segreteria, non riusciva a stare fermo. Caracollava avanti e indietro sempre ccol pensiero fisso di quella puntura. “Con il pollice e l’indice della mano sinistra stirerò la pelle del sedere del Comandante. Certamente immaginerò di dividere in quattro parti la natica e farò la puntura sul lato alto esterno; in alto a destra se è la natica destra, in alto a sinistra se è la natica sinistra. Strofinerò a lungo la parte interessata e poi, con la mano destra, con un gesto deciso, infilerò l’ago e, lentamente, inietterò il liquido”. L’apprensione aumentava col passare del tempo. “Naturalmente non farò sentire niente al Comandante, non voglio che pensi che non so fare nemmeno una puntura”. Cercava di convincersi che tutto era normalissimo, ma finche non si fossero fatte le 11.00 la testa sarebbe stata a quella benedetta puntura. Alle 11.00 il Comandante fece salire in plancia il suo Secondo per farsi sostituire nella direzione delle manovre e scese in camerino per la puntura. “Nostromo, è pronto l’infermiere ?” “Sì, Comandante. Eccolo”. Il Comandante, col sorriso sulle labbra, gli disse: “Sei da poco a bordo, scommetto che è la prima puntura che fai su una nave in navigazione. Vedrai che te la ricorderai.” Si girò e subito dopo si abbassò i pantaloni. 11 “Mamma mia” pensò il povero infermiere “Il Comandante dice che la prima puntura che faccio sulla nave in mare me la ricorderò … speriamo bene !” Ruppe la fiala del liquido e con l’ago lo aspirò all’interno della siringa. Le mani comunque gli tremavano per l’emozione e la trepidazione mentre tra sé ripeteva il ritornello “Ma proprio al Comandante mi doveva capitare la prima puntura a bordo?!” Strofinò per bene la parte interessata ma la mano tremava sempre più. Appoggiò appena l’ago sulla natica del Comandante per prendere meglio la mira e poi … zac !! Stava per urlare ma riuscì a trattenersi quando si rese conto dal dolore che l’ago si era infilato nel suo dito pollice. Aveva allargato la pelle con il pollice e l’indice della mano sinistra perché l’ago entrasse meglio senza far sentire dolore, come aveva immaginato decine di volte nelle due ore precedenti, ma la mano destra tremava per l’emozione e nel momento di colpire aveva sbagliato la mira. Che fare ? Avrebbe dovuto cambiare l’ago, avrebbe dovuto ammettere che si era fatto la puntura sul dito. Che figura ! Cosa avrebbe pensato il Comandante ? E i suoi colleghi ed amici ? Tutto l’equipaggio lo avrebbe saputo, avrebbe dovuto offrire da bere a tutti e sarebbe diventato lo zimbello della nave per tutta la durata della ferma e anche oltre. Nella vita si presentano situazioni in cui non si ha molto tempo a disposizione per prendere una decisione. “Decide bene e rapidamente” c’era scritto nelle sue note caratteristiche e quella era l’occasione di dimostrarlo. E così fu. Estrasse l’ago dal dito, strofinò a lungo energicamente il sedere del Comandante e disse “fatto”. Il Comandante alzandosi i pantaloni si girò e, sempre sorridendo, gli disse: “Ma lo sai che sei proprio bravo! Complimenti, non ho sentito nulla, né l’ago entrare né il liquido scorrere”. Aveva ragione il Comandante … la prima puntura fatta a bordo di una nave in navigazione non l’avrebbe mai più scordata. Enzo Arena 12 IL SORRISO DEL SOMMERGIBILE Agli inizi degli anni “90 del secolo scorso prestavo servizio a Taranto come Capo Ufficio Tecnico e di Piattaforma del Comando Sommergibili. Spesso ero chiamato a collaborare anche con la Scuola Sommergibili per motivi connessi con il mio incarico. Era un periodo di intensa attività per via dell’entrata in servizio di nuovi battelli e, soprattutto per via dell’allestimento di quello che sarebbe diventato il più moderno simulatore europeo per l’addestramento degli equipaggi alla conduzione dei battelli in piena sicurezza. Molte marine militari erano interessate a questa nostra impresa che consentiva di addestrare interi equipaggi senza coinvolgere i mezzi operativi e soprattutto di evitare i rischi derivanti dalle manovre complesse e a volte rischiose necessarie per addestrare intensamente timonieri e manovratori. Un giorno ci fu la visita di una delegazione della Marina Militare Filippina composta da una mezza dozzina di ufficiali accompagnati da mogli e figli. Al termine della canonica visita a Maricosom, a Scuolasom ed a bordo di un battello in banchina, era previsto un rapido giro dell’Arsenale per mostrar loro le strutture logistiche e manutentive della sede. Il loro cicerone avrei dovuto essere io e, poiché il loro inglese non era un gran che, avevano al seguito anche un’interprete inglese che traduceva dall’italiano direttamente nella loro lingua con tutti i rischi che una doppia traduzione simultanea poteva comportare. Le mie spiegazioni in italiano (per espressa richiesta dell’interprete stessa) venivano quindi propinate al gruppo in filippino dopo essere state elaborate nella mente dell’interprete in inglese. Chissà cosa potevano capire ! Giungemmo infine presso il bacino galleggiante GO52 nel quale era stato immesso per ordinaria manutenzione un sommergibile classe Sauro. Al battello avevano appena asportato le lamiere di protezione delle stecche della base idrofonica (una striscia di una quindicina di metri a cavallo dalla prora) e il sommergibile, visto di fronte, sembrava un capodoglio sorridente. Dopo le informazioni sul tipo di manutenzione in atto mi lanciai in una similitudine ecologica in cui descrivevo il battello come un enorme cetaceo portatore più di pace che di guerra e a sostegno di questo concetto facevo notare l’aspetto sorridente di quello che definii “cetaceo d’acciaio”; i termini usati esulavano dalle canoniche frasi perfettamente comprensibili che si usano in presenza di un traduttore ma ero comunque fiducioso dell’efficacia della nostra interprete. Dopo la traduzione notai qualche sorrisino di approvazione e immaginai che la traduzione fosse stata fedele ma non troppo accattivante. La visita scorse via rapida e tranquilla ed i nostri ospiti a metà pomeriggio si congedarono per proseguire il loro giro italiano in altre città. 13 Circa un anno dopo un caro amico, ex allievo come me del Morosini che viveva temporaneamente a Manila per motivi di lavoro, mi scrisse una lettera in cui mi diceva che in una rivista locale era comparso un articoletto ecologico scritto da una liceale dal titolo “Salvaguardia dei cetacei” e fra le numerose foto di grossi mammiferi marini spiccava quella di un sommergibile in bacino. Lessi in fretta la fotocopia dell’articolo (scritto in filippino ed inglese) ed ebbi la conferma dei miei dubbi dell’anno precedente circa la traduzione delle mie spiegazioni ai filippini. L’autrice dell’articoletto, figlia di uno degli ufficiali componenti la delegazione da me accompagnata in Arsenale, per dimostrare che in altri paesi si faceva qualcosa per la salvaguardia di balene e delfini, asseriva che la Marina Militare Italiana era tanto favorevolmente coinvolta che aveva addirittura destinato un sommergibile vero a fungere da ambasciatore nel mondo per la difesa dell’ambiente e della natura e che per meglio impressionare il pubblico lo aveva anche dotato di uno smagliante ed accattivante sorriso. Se non altro l’imprecisione della traduzione ha consentito alla nostra Marina Militare di essere definita dalla giornalista in erba “paladina ecologica del Meditarreneo” e di godere per questo grande stima tra gli ecologisti del Pacifico. Rudy Guastadisegni 14 PICCOLE PERLE L’ispezione dell’ammiraglio Quel pomeriggio era previsto l’arrivo, da Taranto, dell’Ammiraglio comandante di Maricosom per una ispezione al 2° Gruppo. Ero sulla porta del famoso ‘Vandone’ per riceverlo doverosamente. Dopo i primi cordiali saluti gli chiesi se voleva cominciare subito l’ispezione e andare in ufficio. Ma, dall’interno del Circolo veniva una musichetta che attrasse subito la sua attenzione. “Che cos’è questa musica? C’è una festa?” “No, Ammiraglio, la festa ci sarà questa sera... adesso ci sono le signore che frequentano la scuola di ballo...” “Scuola di ballo? Le signore? Ohilà! Interessante! Vado a vedere di che si tratta... lei vada pure... ci vediamo più tardi..” Il buon ispettore – ci raccontarono poi le signore – si divertì molto con la scuola di ballo, e si dette anche da fare per imparare qualche passo. Alla sera, dopo cena, ebbe luogo la festa, dove l’Ammiraglio mise subito in pratica quello che aveva imparato. Ma in un ballo collettivo, tipo hully-gully, nel quale, come è noto, si compiono certi movimenti ruotando sempre sullo stesso punto, l’Ammiraglio, da bravo gentiluomo, volle mantenere la dama sempre sulla sua destra, il che creò uno scompiglio generale. Verso la fine della serata ci ritrovammo un gruppo di ufficiali e signore seduti in cerchio a conversare. Davanti all’Ammiraglio era seduta una bella ragazza siciliana, dal fisico notevole, che esibiva una generosa scollatura nonché una gonna, che, forse per l’‘onda lunga’ degli anni ’60, era abbondantemente sopra le ginocchia. Lo sguardo del nostro ospite – ce ne accorgemmo tutti – indugiava spesso e volentieri sul panorama di fronte; ma l’angolazione, evidentemente, non era sufficiente, per cui, piano piano, si lasciò scivolare sulla poltrona fin quasi a cadere. Risate per tutti, manco a dirlo. Il giorno successivo era riservato all’ispezione, ma il nostro simpatico Ammiraglio era così ben disposto che si interessò soprattutto alle ‘attività sociali’; apprezzò tutta l’organizzazione del Gruppo e, tornato a Taranto, inviò a Roma un rapporto con molti commenti positivi sullo spirito di “corpo” che aveva riscontrato ad Augusta. Giancarlo Burzagli 15 L’allievo di servizio Quando la Scuola Navale Militare Francesco Morosini di Venezia era ancora Collegio Navale gli allievi del primo e del secondo corso studiavano nel pomeriggio in un grande camerone comune in cui erano sistemati i loro banchini come in una gigantesca aula scolastica (ora studiano in comodissime camerette a 4/6 posti con tutti i comfort compresi bagno e climatizzazione). La disciplina ed il silenzio erano assicurati, oltre che da ufficiali e sottufficiali del quadro permanente, anche dall’allievo di servizo che cambiava ogni giorno ed il cui turno era affidato agli anzianissimi. Ovviamente ogni allievo di servizio aveva le sue abitudini ed inclinazioni che variavano dal serafico accomodante all’invasato onnipotente con tutte le sfumature comprese tra questi due estremi. Per quelli del tipo “invasato onnipotente” la giornata da allievo di servizio era l’occasione per dare sfogo alle più scatenate fantasie della loro mente a scapito dei poveri pivoli ed anziani che non avevano possibilità di sottrarvisi. Quel giorno era di servizio Paolo Ferrari (nome di comodo); bravo ragazzo ma con qualche strana mania veterofascista e grande propensione per le idee politiche di destra (per quanto ne possa capire di politica un diciottenne medio). Le sue giornate da allievo di servizio erano ormai note come i giorni dell’adunanza perché aveva l’abitudine di arringare gli allievi impalati sull’attenti a studio in attesa dell’arrivo dell’ufficiale di guardia con farseschi discorsi pronunciati con le mani sui fianchi e il mento sporgente. Qualche volta aveva anche preteso, alla fine dei suoi rapidi sproloqui, un corale saluto fascista con mano tesa e pronunciamento delle formule di rito (eia eia alalà, vincere, a noi, molti nemici molto onore e via dicendo). Quel giorno dunque aveva istruito l’uditorio perché rispondesse a dovere alle domande che lui urlava dalla cattedra scattando ogni volta nel solito saluto romano e quando alla fine, scattando lui stesso nello stesso saluto esclamò “ … camerati ! A chi l’Italia ?” tutto lo studio urlò all’unisono “A noi !!”. E dalla porta appena aperta giunse un “Viva la libertà” che congelò in un istante tutti i presenti nella loro posizione a braccio teso, primo fra tutti il nostro Ferrari che, avendo riconosciuto la voce non aveva il coraggio di muovere un muscolo. Il Comandante del Collegio in persona aveva deciso di fare un controllino a studio allievi ed era comparso nel momento peggiore (per Ferrari). Per sua fortuna (sempre di Ferrari) il Comandante era uomo di spirito ed avendo perfettamente compreso la goliardia della grottesca situazione sdrammatizzò rivolto all’allievo di servizio Ferrari: “Bene, ora restituisca la libertà ai camerati … è sufficiente ordinare il riposo”. E con un sorrisino enigmatico si girò è sparì al di là della porta. Ferrari subì un terrificante “liscio e busso” dal suo comandante alla classe e da allora non parlò più di “camerati”, nemmeno con i suoi “compagni”. Rudy Guastadisegni Liberamente tratto da un racconto di Gianluca Miconi 16 Dicerie da polentoni Il giovane guardiamarina Egidio Rasino era stato destinato ad Augusta per l’imbarco estivo alla fine della quarta classe dell’Accademia Navale di Livorno. Lui, nordico purosangue avrebbe sperato in una destinazione a La Spezia ma, avendo fatto domanda per i sommergibili, aveva dovuto accontentarsi. Giunse così nell’assolata Sicilia carico di risentimento per i suoi desideri delusi e con tutto il suo bagaglio di luoghi comuni, dicerie e leggende metropolitane acquisite fin dall’infanzia sugli abitanti di quelle terre: i terroni. Uno di questi luoghi comuni si riferiva al fatto che le donne del sud avevano l’abitudine di ornare di vistosi orecchini anche le bimbe piccolissime; in effetti c’era un fondo di verità perché tale abitudine derivava da antiche tradizioni locali per cui, per motivi prettamente scaramantici e protettivi le mamme mettevano gli orecchini alle figlie fin dai primi giorni di vita. Questa tradizione era vista dai civilissimi nordici come un’usanza zingara a danno di tante povere bambine e come tale degna di essere sanzionata. A conferma del fatto, arrivando ad Augusta il povero Egidio aveva notato un’altissima percentuale di donne con orecchini. Vedeva orecchini dovunque; se li immaginava anche al naso degli adulti oltre che ai lobi dei pirati locali. La prima sera, dopo essersi sistemato in una stanzetta spoglia, bollente e piena di zanzare (degna di quella gente sottosviluppata) della palazzina Rasiom dove venivano esiliati i giovani ufficiali, si recò al Circolo locale per incontrarsi con i colleghi imbarcati sui sommergibili. Tra di loro c’era Ariano Bulgi, un collega di poco più anziano, sposato ed in attesa di un figlio; una fammina, per la precisione. Ariano (a dispetto del nome) e la moglie erano ambedue calabresi e ciò non depose a favore di un atteggiamento conciliante da parte di Egidio che risentiva ancora della delusione per la destinazione in mezzo a tutti quei terroni. Per inciso, nel corso degli anni successivi, tra i due ufficiali nacque una sincera amicizia con stima reciproca estesa anche alle rispettive consorti, ma quella sera … Dopo una fase di convenevoli iniziali in cui Egidio fu presentato a tutti gli ufficiali del secondo gruppo sommergibili cui apparteneva il suo battello, cominciarono ad arrivare alcune delle loro mogli fra le quali la dolce metà di Ariano che si distingueva per l’evidente gravidanza avanzata. Egidio le si avvicinò con un sorrisino accattivante “Molto piacere, io sono Egidio. Tu devi essere la moglie di Ariano, Vero? L’ho capito dalle dimensioni” e con la prima infelice battuta aveva già dato prova di tutta la sua nordicità. Ma il meglio venne quando le chiese se il nascituro fosse maschio o femmina e la signora rispose candidamente ed entusiasticamente “è una femminuccia”. “Ah” esclamò Egidio. “E gli orecchini li hai già ingoiati ?” Ovviamente nessuno comprese il senso della battutaccia ma tutti fecero finta di capire e, nell’intento di non mettere in imbarazzo il giovanotto, risero di gusto fornendogli in tal modo la conferma che di essere capitato in mezzo ai selvaggi. Rudy Guastadisegni liberamente tratto da un racconto di Adriano Bugliari 17 LA PICCOLA TARTARUGA La porta automatica si aprì e fui fuori dall’aeroporto turco di Adana. L’afa di quel pomeriggio di maggio mi investì e fu il primo segno evidente della nuova latitudine rispetto a Venezia. Dopo pochi passi incerti mi fermai sul bordo del marciapiede. In una mano stringevo il manico del trolley, con l’altra verificavo la chiusura della mia valigetta a tracolla. Con gli occhi feriti dalla luce forte cercai chi mi avrebbe portato nel porto di Cehyan, sul cargo italiano Patara. Lessi con sollievo il mio cognome su un cartello. Lo reggeva un tipo giovane, con rayban scuri e la pelle olivastra, che si guardava attorno. Per alcuni secondi esitai nel farmi riconoscere, lasciando con ingenua soddisfazione che quel cartello sul quale c’era il mio cognome preceduto da Mr. campeggiasse nell’assembramento di autisti. Feci un cenno e gli andai incontro. Era venuto a prendermi con un Doblò Fiat. Nell’auto annusai con fastidio odore di fumo. Gli chiesi quanto tempo occorresse per il porto. “Un’ora normalmente” rispose. Parlava un buon inglese. Ma non era loquace. “Tanto meglio!” - mi dissi. Partimmo e iniziai ad osservare le strade e la gente. I casermoni della periferia di Adana erano tristi, poi sopraggiunsero la campagna, sassose colline ed agrumeti nella pianura. Imboccammo l’autostrada. L’auto accelerò la sua corsa. Il tipo accese la radio: musica rock anni Settanta…. Ero in Turchia e avrei voluto un’atmosfera turca… Iniziai a nutrire antipatia per l’autista. Masticava una gomma e procedeva sempre più veloce. Iniziai a detestarlo… così come detestavo l’aria condizionata a palla. Arrivammo al varco portuale. Una guardia venne ad aprire un cancello di ferro. Entrammo e parcheggiammo sotto il sole che picchiava. “Non c’è un posto all’ombra…? Ma perché non lo cerca? Pigro!”- pensai. Scendemmo ed entrammo in un ufficio dove consegnai il mio passaporto ad un poliziotto con la pistola nella fondina. Notai il calcio della pistola finemente decorato. Il mio autista allora uscì dalla stanza e sparì. Rimasi solo con il poliziotto che sorseggiava caffè. “Dove diavolo è andato?” mi chiesi. La stanza dove mi trovavo aveva le pareti scrostate: da una di quelle mi guardava Ataturk, racchiuso in un quadro dalla cornice dorata. Dopo più di un quarto d’ora ricomparve l’autista con il mio passaporto. Ripartimmo. Attraversammo un infernale terminal carbonifero. Un vago senso di orrore aleggiava in quel luogo. Non potei fare a meno di pensare che il mio autista fosse in linea con quel paesaggio, duro e ostile. 18 Ad un certo punto scorsi in fondo ad una banchina il profilo di un cargo su cui batteva la bandiera italiana. Era rugginoso ma mi parve bellissimo. Pensai alla caffettiera Bialetti che probabilmente il comandante custodiva in plancia. Mentre il Doblò Fiat si dirigeva verso la banchina, squillò il cellulare dell’autista. Rispose continuando a guidare con una mano sola. Poi d’improvviso l’auto s’inchiodò. “ Che cosa diavolo c’è ora?” – dissi fra me. L’autista scese lasciando lo sportello aperto e continuando a parlare. Doveva trattarsi sicuramente di qualcosa in relazione a quella chiamata. Lo osservai perplesso, con un misto di collera che montava. Aveva lasciato l’auto e me dentro nel bel mezzo della banchina. Un camion carico di carbone passò vicinissimo all’auto scuotendola e sollevando un polverone. “Che cazzo fa?” - mi chiesi mentre mi invadeva un senso di impotenza, incredulità e rabbia. Lo seguii con lo sguardo mentre si avviava lungo il ciglio della banchina, continuando a parlare in modo serrato al telefono. Lo vidi piegarsi per raccogliere qualcosa da terra con la mano libera. Poi attraversò la banchina e scese velocemente verso una spiaggetta, scomparendo alla mia vista. Uscii dall’auto e corsi verso la piccola duna. Lo vidi poggiare quel che aveva raccolto sul bagnasciuga. Quel qualcosa cominciò a muoversi verso l’acqua: era una tartarughina. Rientrò in auto, continuando a parlare al telefono. Ripartimmo e appena la lunga conversazione fitta e monotona ebbe fine gli chiesi, non trovando altre parole, semplicemente: “Why?”. ‘Aveva smarrito la strada’, fu la sua spiegazione…. Quando il giorno dopo la porta automatica dell’aeroporto si richiuse alle mie spalle ripensai a quel gesto. Un gesto capace di trasformare banchine di carbone in una spiaggia dorata, di quelle che le tartarughe scelgono per deporre le loro uova. Alcune settimane dopo le televisioni di tutto il mondo mostravano scene di giovani che nella piazza Taksim di Istanbul si ribellavano al taglio degli alberi nel parco Gezi. Immaginai che il giovane autista di Adana poteva essere tra quei coraggiosi scesi in strada. Pensai ai miei bimbi, alla storia della piccola tartaruga salvata dall’orco buono che l’indomani sera avrei loro raccontato. Capitano di Corvetta (CP) Vito SPADA 19 N.d.R. Questo articolo si discosta dal taglio goliardico, ironico e scanzonato delle storielle che vengono normalmente accolte per la pubblicazione su “Gentiluomini di Mare” ma è opinione della Redazione che ogni tanto non guasti un piccolo richiamo ai sani valori morali che sono il fondamento della vita non solo dei militari ma di tutta la Società civile. L’Ammiraglio D’Errico ci fornisce una dotta e circostanziata trattazione del concetto di disciplina che non può che farci riflettere sulla nostra missione … perché di questo si tratta: i cittadini in divisa hanno scelto per sé la grande missione della salvaguardia della Patria e delle sue istituzioni. A tutti noi che crediamo profondamente in tutto ciò non occorre suggerire di meditarci sopra … ma chi se l’è dimenticato mediti ! SULLA DISCIPLINA MILITARE Con la parola DISCIPLINA si intendono diverse cose. Alcune sono concetti astratti; altre sono oggetti concreti. Prendiamo il vocabolario e leggiamo i suoi diversi significati: - atto dell’istruire, dell’educare; - materia di insegnamento; - l’insieme dei principi morali, delle leggi, delle regole che formano l’ordine necessario a mantenere qualsiasi istituzione; - l’osservanza delle regole disciplinari; - specie di frusta formata da un mazzo di funicelle intrecciate, usata un tempo dai religiosi per atto penitenziale o di mortificazione. In particolare, ci dice lo stesso vocabolario, la disciplina militare è quella che REGOLA LA VITA MILITARE ED E’ FONDATA SULLA SUBORDINAZIONE RISPETTOSA DELL’INFERIORE AL SUPERIORE, SUL COSIDDETTO SPIRITO DI CORPO E SULL’ONORE MILITARE. Le note che seguono sono appunto dedicate a chiarire cosa significa, all’atto pratico, per un militare, questa definizione astratta. Lo scopo finale è quello di rendere più evidente e chiaro l’impegno che un militare si assume nel prestare il giuramento che sanziona la sua ammissione nell’organizzazione di una Forza (o di un Corpo) Armata. E partiamo proprio dalla formula del giuramento, perché mai come nei giuramenti le parole sono pietre e perché in quelle poche righe sono concentrati tutti i doveri degli appartenenti ad un organismo militare. Recita la formula del giuramento: “GIURO - di essere fedele alla Repubblica Italiana; - di osservare la Costituzione e le leggi e 20 - di adempiere con DISCIPLINA e ONORE tutti i doveri del mio stato PER - la difesa della Patria e - la salvaguardia delle libere istituzioni”. Come possiamo osservare, la formula, nella sua essenzialità, chiarisce al militare che giura: “cosa” egli si impegna a fare (essere fedele….osservare….adempiere), “perché” (la difesa….la salvaguardia) ed anche “come” (con disciplina….con onore). Si tratta di un impegno stringente e che non lascia spazio ad equivoci. Niente interessi privati, niente patteggiamenti, niente compromessi. E’ un giuramento che obbliga a uscire da sé e proiettarsi verso l’esterno. Non si parla di stipendio, di famiglia, di diritti sindacali, di ferie. Si parla delle caratteristiche che debbono contraddistinguere l’azione del militare: comportandosi con disciplina ed onore, deve dare tutto sé stesso al fine di salvaguardare le istituzioni e difendere la Patria. Tutto sommato, si tratta di caratteristiche pienamente aderenti a chi pensa che valga più la pena di dedicarsi agli altri piuttosto che a sé stessi. Chi ha altre priorità, non necessariamente biasimevoli, è ovvio, deve guardarsi dal prestare un giuramento che lo porrebbe immediatamente in conflitto con i doveri connessi con il suo stato di militare. Detto questo, vediamo di occuparci del “come”, deve agire il militare; in particolare delle due parole “con disciplina”. E cerchiamo allora di capire cosa è questa disciplina. Per essere più sicuri di capire bene, cominciamo col dire cosa essa NON è. La disciplina NON E’: - un valore; - una virtù; - un principio; - un fine. Vediamo invece cosa essa E’. La disciplina E’: - uno strumento. Riprendiamo in mano il vocabolario e troviamo in che senso si parla di “strumento”: la disciplina è l’insieme delle regole che formano l’ordine necessario a mantenere qualsiasi istituzione. In altre parole, essa è lo strumento utilizzato dall’istituzione per mantenersi coesa e per funzionare. Questo in generale, vale a dire per qualunque organizzazione: un cantiere navale, uno stabilimento industriale, un gruppo bancario, perfino il Parlamento. Tutti i sistemi organizzati hanno bisogno, per funzionare a dovere, che coloro i quali vi lavorano e/o ne fanno parte si attengano ad una serie di norme disciplinari (orari di servizio, modalità operative, priorità stabilite da chi ne ha la responsabilità e rispettate da tutti eccetera). Per l’organizzazione militare, la disciplina deve assumere una connotazione speciale, in vista dello scopo (che non è la produzione di un bene o di un servizio bensì la “salvaguardia delle libere istituzioni” e la “difesa della Patria”) e delle modalità 21 con cui tale scopo deve essere perseguito (non un perseguimento come sia sia, basta che si arrivi al risultato, no! Occorre perseguire l’obiettivo con “disciplina” e con “onore”). Per l’organizzazione militare e quindi per tutti coloro che ne fanno parte, la disciplina deve essere un costume di vita, un comportamento connaturato alla condizione militare, un modo di essere che faccia distinguere il militare dagli altri cittadini, anche quando non indossa la divisa. E quando tutto questo diventa difficile perché la situazione è difficile? Anche allora non c’è scampo: occorre disciplinatamente attenersi alle disposizioni di chi ha la responsabilità di emanarle, fornendo una leale collaborazione al raggiungimento del risultato di volta in volta indicato. “Leale collaborazione”! hai detto niente! E come si fa? Torniamo al nostro vocabolario e rileviamo che la disciplina militare è fondata sulla “subordinazione rispettosa” dell’inferiore al superiore. Ma come ottenere una subordinazione rispettosa? Qui subentrano tre concetti, uno dei quali abbiamo già incontrato: - il primo si chiama “condivisione”; - il secondo si chiama “spirito di corpo”; - il terzo si chiama “onore militare”. Esaminiamoli separatamente. La condivisione. Si sa che il primo effetto della disciplina è il dovere dell’obbedienza. L’obbedienza deve essere “pronta” e “leale”. Ma perché ciò accada, cioè affinché il subordinato reagisca prontamente e con lealtà all’ordine impartito da chi ne ha l’autorità, il fatto formale dell’appartenenza ad un corpo militare non basta. Se bastasse l’appartenenza, si potrebbe anche dire che la disciplina è un valore in sé…..ma noi abbiamo detto, invece, che la disciplina NON E’ un valore (secondo qualcuno lo è, ma le cose non stanno così; e le conseguenze di un tale modo di pensare sono generalmente nefaste). La vera forza dell’autorità deriva dalla condivisione (esplicita o implicita) degli obiettivi da parte del destinatario degli obiettivi stessi. E questo nasce da una comunione di intenti fra autorità e subordinato. Ma come ottenere questa comunione? Non certo “perché lo ha detto il Capo”….non con l’accettazione passiva delle disposizioni. Non certo perché “o Franza o Spagna, purchè se magna”…..non in nome di un mercenarismo fuori tempo e fuori luogo. La comunione nasce dalla capacità dell’autorità (il “superiore”) di coinvolgere i destinatari della sua azione di comando (i ”subordinati”), inculcando in essi la fiducia nel suo operato, in quanto costantemente teso al conseguimento degli obiettivi scritti nel giuramento prestato, sia pure limitatamente al piccolo, particolare, specifico servizio ordinato. La fiducia, a sua volta, trae alimento dall’equità, dall’equilibrio, dal rispetto, dalla valorun’altra, come la “mia”. 22 E’ la fierezza con cui senti dire, dal marinaio imbarcato, “appartengo a Nave….”. Quella parola “appartengo”, la dice con il tono “guarda che la “mia” nave è la migliore fra le migliori”. E dice “mia” con lo stesso tono con cui lo dice il Comandante della nave. Va da sé che una Brigata che sia la migliore, non può essere comandata altro che dal migliore fra i Generali di Brigata. Va da sé che la migliore fra le navi non può essere comandata altro che dal migliore fra i Comandanti. Ecco cosa è lo spirito di corpo: è quell’idea di far parte di una organizzazione speciale, in qualche modo unica, della cui eccellenza e/o singolarità tu, anche se sei solo uno fra tanti, costituisci nondimeno elemento indispensabile e protagonista. Ricordo i primi tempi dell’attivazione del C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) a Castelnuovo di Porto, una località non lontana da Roma ove esiste una grande infrastruttura realizzata dalla Protezione Civile, quando essa faceva parte, insieme al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, dell’omonimo Dipartimento del Ministero dell’Interno. All’inizio, la cucina era quella da campo. Ai commenti sulla qualità del cibo (davvero ottimo. E colpiva il fatto che dalla cucina arrivassero in continuazione pentoloni di pasta appena cotta, regolarmente “al dente”), la risposta dei compiaciuti addetti al confezionamento rimandava invariabilmente alla loro appartenenza al Comitato Provinciale della Croce Rossa di Palermo Deriva dallo spirito di corpo quella emulazione che porta i vari elementi di organizzazione a gareggiare fra di loro per cercare di ottenere i migliori risultati, in termini di tempo, accuratezza, puntualità e quant’altro. L’onore militare. Abbiamo già sentito nominare la parola “onore”, analizzando la formula del giuramento. Noi militari ci impegniamo a svolgere il nostro lavoro “con disciplina e onore”. Abbiamo visto cosa comporta farlo con disciplina. Vediamo di capire cosa comporta farlo con onore. L’onore militare è una cosa molto delicata. L’onore militare può comportare di farsi uccidere piuttosto che venire meno alla parola data. Può comportare di farsi uccidere piuttosto che farsi strappare di dosso l’uniforme. Può addirittura indurre a farsi uccidere al posto di un’altra persona. Non ci vorrei spendere molte parole, perché in definitiva l’onore militare coincide semplicemente con il rispetto della parola data. Se io ho giurato di essere fedele alla Repubblica Italiana e vengo meno al giuramento, ad esempio violando consapevolmente la Costituzione o le altre leggi, sono uno spergiuro e perdo l‘onorabilità. 23 Se mi sono impegnato a difendere la Patria e lascio che qualcuno cerchi di arrecarle offesa, danno o addirittura di occuparne un lembo anche piccolissimo, sono uno spergiuro e perdo l’onorabilità. Se occupo nella gerarchia militare un certo posto e cerco di dissimulare questa mia posizione per proteggere la mia incolumità personale, sono un codardo e perdo l’onorabilità. Se…..ma le esemplificazioni potrebbero essere infinite. Possiamo sintetizzare il concetto di onore dicendo che l’onorabilità deve essere, per il militare, il bene più prezioso. Più prezioso della vita stessa. Senza se e senza ma, come si usa dire..….Anche il classico partenopeo “tengo famiglia” per il militare non vale: per il figlio di un militare, essere orfano è infinitamente meglio che avere un genitore bollato dell’infamia del disonore. Concludiamo. La disciplina in generale è una necessità per l’ordinato funzionamento e per il mantenimento di qualunque istituzione. Le istituzioni militari non sfuggono a questa regola generale ed anzi, in relazione ai loro compiti specifici, ne devono fare oggetto di una cura speciale. La disciplina militare, in particolare, si basa: - sulla rispettosa subordinazione dell’inferiore rispetto al superiore; - sullo spirito di corpo; - sull’onore. In una istituzione militare i rapporti gerarchici sono chiaramente configurati, sia sul piano formale, mediante la progressione dei gradi, sia sul piano sostanziale mediante la definizione di compiti e limiti previsti per ciascun incarico. In una istituzione militare, cioè, il rapporto di subordinazione gerarchica è perfettamente individuato. Affinché questa subordinazione sia rispettosa occorre creare una condivisione degli obiettivi, in una leale sinergia superiore – inferiore. In una istituzione militare lo spirito di corpo va alimentato come spirito di appartenenza. Per un militare, l’onorabilità rappresenta il principale patrimonio personale e va preservato anche a costo della stessa vita. Amm. (GN) ® d’Errico ing. Mario 24