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GENTILUOMINI DI MARE nr 37 - Associazione Combattenti Decima

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GENTILUOMINI DI MARE nr 37 - Associazione Combattenti Decima
Settembre 2013
N°37
GENTILUOMINI DI MARE
Trimestrale di
notizie creato
intrattenimento, di storie di mare e di
da naviganti di
vita per gente di mare.
...Dio solo sa quanto è brutto vivere in un mondo senza
avventure, senza fantasia...
________________________________________________________
Pubblicazione degli ufficiali del Circolo di Venezia
2
INDICE
ODIO DA TAVOLINO
Pag.
5
LO ZEN E LE LINGUINE AL SUGO DI TONNO
Pag.
8
LA PRIMA PUNTURA
Pag. 11
IL SORRISO DEL SOMMERGIBILE
Pag. 13
PICCOLE PERLE
Pag. 15
(L’ispezione dell’ammiraglio, L’allievo di servizio, Dicerie da polentoni)
LA PICCOLA TARTARUGA
Pag. 18
SULLA DISCIPLINA MILITARE
Pag. 20
X XXXXXXXXXXXXX
20
La pubblicazione “Gentiluomini di mare” è edita dai Soci del Circolo Ufficiali Marina
Militare di Venezia e viene inviata per posta elettronica (e-mail) a tutti coloro che hanno
fornito il proprio indirizzo elettronico comunicandolo al responsabile/redattore.
La collaborazione al periodico è aperta a tutti gli ufficiali e sottufficiali della Marina in
servizio ed in congedo, ai Soci dei Circoli ed a chiunque voglia far pubblicare un
articolo, una poesia o degli annunci che siano in accordo con lo spirito del giornalino. Il
materiale può essere inviato via e-mail o su supporto elettronico (memory key o CD) al
seguente indirizzo:
Responsabile/redattore
C.A. (a) Rudy Guastadisegni (Ordine Nazionale dei Giornalisti, n. 116741)
Via Sandro Gallo 9 30126 Venezia-Lido cell. 360965218
[email protected]
Esclusivamente via e-mail possono essere richiesti numeri arretrati direttamente al
redattore o, col solo rimborso delle spese di spedizione, può essere richiesto l’invio del
CD-ROM contenente tutti i numeri pubblicati in formato pdf stampabile.
3
4
ODIO DA TAVOLINO
Come tutti gli anni, nel mese di agosto, a San Vito presso la spiaggia ufficiali di
Taranto, mi dedico ad attività subacquee didattiche. Nulla di impegnativo, solamente
ambientamento, acquaticità ed avviamento all’uso dell’autorespiratore per bambini in
un metro di acqua e passeggiate subacquee in 5-8 metri di fondale di fronte alla
spiaggia per ragazzi ed adulti; semplici lezioni su come stare sott’acqua in tutta
sicurezza. L’iniziativa, del tutto personale e condotta con l’aiuto di mia figlia, istruttrice
federale e di un collega ancora in servizio che mette a disposizione più di metà del
materiale necessario, ha sempre un gran successo perché, condotta con rischi zero
e in tutta tranquillità.
Quel giorno era dedicato alla manutenzione settimanale degli autorespiratori ed
apparecchi fotografici.
Per ripararmi dal sole e dal gran caldo
della mattinata avevo scelto uno dei tre
tavolini in pietra all’ombra di un gazebo nelle
immediate vicinanze della mia cabina e di
quella adibita a deposito per il materiale sub.
Erano le 10 circa e mentre mi accingevo alla
manutenzione venni raggiunto da tre amici
che iniziarono a parlare di tutt’altri argomenti
distraendomi dall’attività. Alle 12.00 non ero
nemmeno a metà del lavoro e decisi di
interrompere per ottemperare alla regola di
spiaggia che dice “Allo scopo di consentire ai bagnanti di consumare il pasto dalle
12.00 alle 15.00 non è consentito occupare i tavolini per il gioco delle carte o altra
attività non connessa con il pranzo”. Io non gioco a carte in spiaggia (mi basta e
avanza l’attività di arbitro federale FITAB che m’impegna d’inverno) ma comunque la
manutenzione degli erogatori rientrava nella categoria “altra attività”. Così, ligio alle
regole, spostai il mio materiale su una sedia ed iniziai ad allestire il tavolino per la
consumazione del pasto Tra le 12.00 e le 14.30 al tavolino da me occupato si
alternarono colleghi e famigliole con i loro
cestini e borse frigo per consumare in
compagnia
il
loro
pasto;
abbiamo
amabilmente chiacchierato tra un panino e
un po’ di frutta mentre attorno a noi si
raccoglievano lentamente i bagnanti che
abitualmente occupano quei tavoli per
giocare a carte.
Alle 14.30, con il tavolino liberato da
cibarie (nessuno più doveva pranzare), mi
misi a leggere in attesa di poter ricominciare
con le mie manutenzioni alle 15.00. Attorno
a me, negli altri tavoli, già ferveva l’attività
del gioco delle carte (in barba alle disposizioni sull’orario). Alle 15.00 precise, cessato
il divieto, rimisi sul tavolo i miei apparecchi e ricominciai a smontare, controllare,
lubrificare, revisionare ecc.
L’atmosfera era molto tranquilla, direi quasi rilassata anche se qualcuno lanciava
all’aria commentini tra il sarcastico e lo stizzito che mi facevano capire che la mia
presenza era poco gradita perché impediva loro l’utilizzo del tavolino per il gioco
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La natura mi ha dotato di un ottimo impermeabile: tutti i commenti e le critiche fuori
posto mi scivolano addosso finendo a terra in una piccola pozzanghera che
nemmeno mi bagna i piedi. Continuai imperterrito e silenzioso con il mio lavoro.
Al tavolo cui davo quasi le spalle, tra i quattro giocatori, la signora Bischieri, fino a
quel giorno a me totalmente sconosciuta (qualcuno il giorno dopo mi riferì che invece
frequenta la spiaggia tutti gli anni in agosto ma evidentemente il suo aspetto
totalmente insignificante me l’ha sempre resa invisibile), fumava sigarette a
ripetizione; nel corso di una partita di burraco di una cinquantina di minuti ne
consumò otto. Nella mia posizione mi trovavo esattamente sottovento ed ero
costretto ad aspirarmi tutto lo scarico di quella ciminiera. Per il quieto vivere e per
educazione evitai qualunque tipo di commento o protesta e continuai a lavorare.
La tizia sembrava molto interessata alla mia attività perché a tratti fissava
intensamente i miei apparecchi e controllava quello che facevo. Sembrava quasi che
fosse curiosa di saperne di più. Gli
sguardi divennero sempre più frequenti,
intensi e nervosi. Mi aspettavo da un
momento all’altro una domanda sugli
erogatori.
All’improvviso … senza alcun segnale
premonitore del tipo “Scusi, lei, cosa sta
facendo …” scattò un violento attacco
frontale: “Lei se ne vada da quel tavolo
con la sua armeria (armeria? … forse era
un po cecata e per questo non l’ho mai
vista senza gli occhialoni neri per ciechi)
perché io sono allergica e la puzza delle
sue colle mi da molto fastidio …” e così via per un buon minuto con quella sua voce
così irrochita dal catrame dei polmoni e resa sgradevole dalla conseguente tonalità
maschile.
Mentre io rimasi annichilito dalla violenza della virago e cercavo di capire cosa
volesse intendere, gli altri astanti drizzavano le orecchie in attesa di una reazione …
mi sentii come un marinaio americano durante l’attacco di Pearl Harbour.
Riavutomi dalla sorpresa, capii che lo scatto furibondo aveva l’obiettivo di farmi
lasciare libero quel tavolino, proprio quello. La scatenata covava da qualche ora un
odio sviscerato nei miei confronti perché avevo avuto l’ardire di occupare il SUO
tavolino da gioco.
Non mi scomposi e con pacatezza risposi: “Cara signora, nell’informarla che
questo (brandendo il tubetto di lubrificante siliconico con cui inumidivo le guarnizioni)
non è una colla, mi domando come abbia fatto, stando due metri sopravento, a
sentire un qualunque odore proveniente da questo tavolo? Non ci riuscirebbe
nemmeno un abilissimo cane da tartufo!” (e mentre facevo questa considerazione
pensavo che, in fondo aveva anche le fattezze della nobile bestia).
“E chi lo dice che sono sopravento?” “Le zaffate del suo fumo che, come vede, si
dirigono tutte addosso a me!” risposi prontamente.
Intanto gli astanti imbarazzatissimi cominciavano a nascondersi dietro il ventaglio
delle loro carte sogghignando sommessamente.
“Ma io gli odori li sento anche da sopravento e poi quella non sarà colla ma è
sicuramente mastice perché io me ne intendo di queste puzze dannose per la salute
…” e via in una esilarante quanto incompetente spiegazione sulla pericolosità delle
colle”
“Cara signora” replicai con calma olimpica in una pausa del suo sproloquio “come
vede questi sono apparecchi per la respirazione subacquea e i prodotti che si usano
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per la loro manutenzione devono essere per legge atossici, anallergici e totalmente
inodori come del resto si può leggere su questo tubetto che non è neppure mastice
ma un semplice prodotto siliconico”
“Questo lo dice lei, fatto sta che io sento un odoraccio sospetto e pericoloso e
pertanto le ripeto di allontanarsi con la sua armeria :::” e mentre continuava a
bofonchiare cercando con lo sguardo la solidarietà degli astanti che invece avevano
capito tutto, vidi passare nelle vicinanze
Tommaso il mio nipotino di 8 anni. Lo chiamai a
gran voce e, in modo che tutti sentissero gli
dissi “Vieni un momento qui che ti voglio far
sentire un buon profumo” Il bimbo si avvicinò
con un sorriso incuriosito e mentre tutti
trattenevano il fiato gli ficcai quasi il tubetto in
una narice. Aspirò profondamente due o tre
volte e poi, assumendo un’espressione delusa
esclamò “Ma qui non si sente nessun odore!”
A quel punto gli astanti non riuscirono più a
trattenersi e si cominciarono a sentire sonore
sghignazzate che non fecero altro che
imbestialire ancor più la gentildonna che si diede a scomposte manifestazioni d’ira
per non essere riuscita a sostenere le sue infondate e pretestuose accuse.
Soddisfatto e con un sorrisino di ironico trionfo continuai imperterrito nelle mie
manutenzioni per altri 10 minuti circa.
La nobildonna sembrava placata (o rassegnata) e taceva giocando a carte con
stizza.
Gli occupanti del terzo tavolo ad un certo punto smisero di giocare e sentii una
signora lamentarsi perché stava arrivando il sole sul loro tavolo da gioco e non
poteva continuare in quelle condizioni. Ovviamente mi sentii in dovere di proporre
alle quattro signore di sistemarsi al mio tavolo che era completamente all’ombra
mentre io potevo terminare i miei lavori al loro tavolo. Fatto il cambio di tavolino con i
ringraziamenti di rito e gli usuali scambi di frasi cordiali, ultimai la mia attività e dopo
altri 10 minuti raccolsi tutte le mie cose, mi alzai
e me ne andai lanciando un cordialissimo “Buon
giorno a tutti”.
La risposta fu corale da parte di quasi tutti
“Buon giorno …” e dal tavolo da me ceduto le
signore aggiunsero un “Grazie ancora,
ammiraglio, per la gentilezza …” “Dovere e
piacere mio quando le richieste vengono da una
signora …” e così dicendo, mentre mi
allontanavo, sentii la virago inveire con voce
isterica contro le sue stesse amiche “… e brave,
dopo che ci ha fregato il tavolo lo ringraziate pure! Perché non vi inginocchiate anche
e fate qualche minuto di adorazione …”
Nei giorni successivi l’episodio fece il giro della spiaggia e mentre tutti
solidarizzavano con me ironizzando sulle pericolosissime armi chimiche di
distruzione di massa che mi servivano per la manutenzione degli erogatori, l’ilarità
dilagava e, riferendosi alla protagonista qualcuno, raccontandomi numerosi altri
episodi alcuni esilaranti, altri sconcertanti, mi disse: “Ora capisci perché questa
spiaggia si chiama Stabilimento Elioterapico … perché qualcuno ha veramente
bisogno di una buona terapia al cervello!”
Rudy Guastadisegni
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LO ZEN E LE LINGUINE AL SUGO DI TONNO
Verso la metà degli anni sessanta facevo le mie prime esperienze da Capo
Servizio su una corvetta Classe Aquila. Classe di quattro corvette che, insieme a una
manciata di consorelle della più vetusta e più gloriosa classe Ape, costituivano la
iperattiva “Ionian Fleet” investita di una fondamentale missione: servire da Scuola
Comando.
Ero soddisfatto e sereno. Non mi mancava niente; ero scapolo, avevo un
Comandante nuovo a scadenze tri/quadrimestrali, un Ufficiale in Seconda autorevole
e benvoluto, un ristretto (due) e qualificato gruppo di colleghi Capi Servizio del mio
stesso Corso, un’attività in mare divertente seppure ripetitiva, un serrato ritmo di turni
di ispezione diurna (di nave) e notturna (di Squadriglia), una stanchezza perenne che
non si attenuava neanche di domenica. Non ci si crederebbe, ma non mi mancava
neanche un prestigioso incarico da Direttore di mensa e, come addetto, un incredibile
marò tuttofare del Quadrato Ufficiali.
Definire “incredibile” il M/SV
Restivo
- nome di comodo –
apparirà, alla fine di questa storia,
a dir poco riduttivo. Venticinquenne
calabrese di statura tendente al
rasoterra, nerboruto e infaticabile
ma lento di movimenti e di
pensiero, indifferente ad ogni tipo
di onda, aveva alle spalle una
storia personale non proprio
ordinaria. Lasciati gli studi, per dirla
così, dopo le elementari, aveva
lavorato per ogni dove fino ai
diciassette anni quando l’esito, a lui
favorevole, di una conversazione
fra coetanei a base di colpi di “liccasapuni” (in breve: coltellate) al posto delle parole,
lo aveva spinto a cercare aria più salubre in mezzo al mare, imbarcandosi come
mozzo su una approssimativa carretta dalle mutevoli bandiere. Era solo l’inizio di una
movimentata vita attraverso tutti gli oceani su tante navi diverse, al servizio di mille
padroni e alla mercé delle troppe angherie e delle tante mareggiate che solo la vita di
mare sa prospettare.
Sulla via delle interrelazioni umane aveva sviluppato diffidenza incondizionata
verso ogni essere vivente e indipendenza incoercibile di giudizio e di comportamento.
Non che ci tenesse molto a estrinsecare pensieri e parole per rendersi bene accetto
o per comunicare al mondo idee e convincimenti personali, ma quando lo faceva – di
rado, per carità! – si esprimeva in un linguaggio che era l’indigeribile frutto di una
mescolanza caotica fra il natio calabro-italiano, l’universale marittimo tagalogfilippino, l’immancabile terminologico nautico-inglese.
Da una sua autobiografia orale formulata a base di monosillabi, era emerso che
dopo tanto girovagare su navi non sempre note ai pubblici registri e fra gente di mare
molto spesso nota alle autorità di pubblica sicurezza di tutti i continenti, un tal giorno
al Restivo era capitato di ritrovarsi attore in una pericolosa riedizione fra colleghi di
bordo di quella “conversazione primigenia” che anni prima lo aveva spinto a partire.
Avuta la peggio e sentitosi bandito dalla comunità marittima internazionale, questa
volta si era convinto a cercare terreno stabile e sicuro sul suolo patrio. Neanche a
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dirlo, al primo passo su una banchina amica era stato beccato, come renitente, e
spedito ad ottemperare agli obblighi di leva. Allora si usava così.
E finalmente era approdato, di nuovo su una nave, fra noi banali esseri umani.
Per restare allo stretto ambito del suo impiego a bordo quale “ragazzo di mensa
addetto al Quadrato Ufficiali”, occorre precisare che la conoscenza del personaggio
induceva tutti gli Ufficiali ad un linguaggio semplice e scandito, onde ridurre al
minimo il margine di incomprensione. Quando gli si rivolgeva la parola, da parte di
chiunque e a qualsiasi titolo, lui si bloccava, immobile nella postura del momento e
occhi all’infinito, e dava l’impressione di ascoltare con somma attenzione quanto gli
veniva detto. Alla obbligatoria domanda conclusiva:
“Restivo, hai capito?” lui si scuoteva e rispondeva
convinto “Sì, Signuri!”. Ma non sempre la rassicurante
risposta era garanzia di successo. Per citarne una, un
giorno alla richiesta dell’Ufficiale in Seconda di togliere
via la polvere dai tappetini del suo camerino
“sbattendoli” fuori bordo, era immediatamente seguito
il “Sì, Signuri” e il conseguente tuffo in mare dei
tappetini. Appunto: sbattuti. Fuori bordo, come
richiesto. I tappetini privati della polvere e il Secondo
privato dei tappetini.
In occasionale assenza della domanda di verifica
(“Hai capito?”), quasi mai arrivava da Restivo una
richiesta di chiarimento agli ordini ricevuti. Se avesse capito o meno lo si scopriva
solo a ordine eseguito. Non era raro il caso che, in Quadrato, ad una richiesta del
tipo: “Restivo, per favore ci porti una birra, due aranciate e un caffè”, alle prime
parole a lui rivolte l’interessato partisse subito verso il bar ma alla seconda voce
dell’ordine si bloccasse in attesa di elaborare fra sé quanto aveva appena udito e
che se ne restasse immobile in caso di insuccesso del suo processo mentalelaborativo, in attesa di una riedizione della richiesta. Colui che aveva parlato capiva,
allora, che bisognava parzializzare il triplice ordine in tre sub-ordini singoli da
eseguire rigorosamente uno alla volta. E così Restivo faceva tre volte su e giù per il
Quadrato, queste volte senza immobilismi e senza dubbi.
Nel mese di giugno di
quell’anno una delle
sessioni della Scuola
Comando si concluse
insolitamente a Napoli.
Mancava solo il ritorno
ad
Augusta,
nostra
casa-madre, verso dove
le restanti unità della
Flottiglia avevano già
orientato
le
prore.
Eravamo da soli, orfani
anche del Comandante
che, per non so più bene quali inderogabili motivi, era sbarcato il giorno stesso del
nostro arrivo nella città partenopea. Ci fu detto che avrebbe ufficialmente ceduto il
comando ad un ancora ignoto successore subito dopo il nostro ritorno ad Augusta.
Per il trasferimento fu designato “in prestito” un TV da poco abilitato Comandante su
un’unità similare. Personaggio noto per la sua simpatia, questi fu accolto con ogni
riguardo e fu senza riserve, per quanto ci fosse consentito di valutare, all’altezza del
compito. Saggio, discreto e amicone senza essere troppo alla mano, ci riportò a casa
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con soddisfazione di tutti. Durante la navigazione notturna si esibì in una gustosa
lezione sullo Zen e il suo potere di cambiare in meglio natura e comportamenti di
coloro che ne fossero diventati cultori. Ci sembrò che lui stesso ne fosse in qualche
modo rimasto contagiato. Ma fu un’impressione fugace che solo una più lunga e
articolata frequentazione avrebbe potuto confermare o smentire.
Il mattino dell’arrivo ad Augusta il nostro Comandante “di breve durata” indossò
l’uniforme ordinaria estiva e, guarnito di sciarpa e sciabola, si presentò come di
dovere al Capo Flottiglia. Il pomeriggio dello stesso giorno sarebbe dovuto partire per
Roma.
Su proposta del Direttore di Mensa (il sottoscritto) e
con l’approvazione del Secondo fu scelto il menù di
ringraziamento e di saluto per il Comandante: aperitivo
con un robusto Corvo di Salaparuta bianco, antipasto,
primo piatto di linguine al sugo di tonno con pomodoro
fresco, secondo di arista di maiale con patatine, frutta,
cassata siciliana e Corvo rosso. Bollicine e caffè in
chiusura.
All’ora della mensa generale, tutti a tavola in tenuta
di servizio e Comandante sempre in divisa ordinaria.
Maggiordomo Unico: il M/SV Restivo. Il Corvo bianco
assolveva bene il compito di stimolatore della
conversazione, l’antipasto ammorbidiva i primi crampi
da fame, giunse il momento del piatto forte. Un grande vassoio d’acciaio, pieno
all’orlo di sugo, tonno e linguine fece la sua comparsa solennemente esibito da un
sorridente (insolito!) Restivo. L’avvicinamento al tavolo fu lento e studiato, mentre il
vassoio si alzava all’altezza del viso di Restivo (ricordate il “rasoterra”?) per
scapolare la spalla del Comandante e abbassarsi poi al livello del tavolo. Ma il
vassoio all’altezza della testa comportava impedimento alla vista; la quota di
sollevamento fu valutata male e accade l’inevitabile: il vassoio inciampò nella spallina
sinistra del Comandante e, spinto dall’inerzia del movimento verso l’avanti-in-basso
impresso da Restivo, si arrovesciò e scodellò tutto: sugo, linguine e tonno sulla
spalla, sul petto, sulle gambe e sulle scarpe del Comandante. Si salvò solo il piatto.
L’atmosfera del Quadrato si congelò all’istante, in sbigottita attesa delle reazioni
del Comandante. Restivo immobile con vassoio gocciolante sempre nella stessa
sciagurata posizione, Ufficiali in apnea
prolungata, Comandante imperturbabile e, ci
sembrò con sollievo, quasi sorridente.
Rimediammo con sincero disagio alle sue
difficoltà; dopo una interruzione per doccia e
cambio d’abito il pranzo fu portato a termine.
Dopo la partenza, serena e amichevole,
del “Comandante condito al sugo di tonno” la
disavventura fu sottoposta ad approfondita
disamina. L’assenza di pennoni non
consente, sulle navi grigie, l’esecuzione per
impiccagione dei colpevoli colti in flagranza di
reato, ma qualche conseguenza ci fu.
Alla fine rimanemmo tutti con un dubbio (perché, per un’unica volta dacché era
con noi, Restivo era apparso sorridente?) e una certezza (il Comandante – ne
avevamo avuta palese conferma - non poteva che essere un cultore convinto della
dottrina Zen!).
Romano Di Cecio
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LA PRIMA PUNTURA
Anche ai Comandanti delle navi in navigazione può capitare di aver bisogno di
un’iniezione sanitaria e non tutte le Unità navali hanno un servizio sanitario di bordo
che comprenda un medico oltre agli infermieri. Le piccole navi della Marina Militare
hanno a bordo soltanto un infermiere e spesso anche molto giovane ed alle prime
armi.
Cosa succede durante una uscita in mare giornaliera ?
Tranne casi particolari in cui, nell’eventualità di una emergenza sanitaria si può
decidere di rientrare in porto o chiedere soccorso immediato perché non molto
lontani dalla costa, non succede nulla di cui un
giovane infermiere di leva si debba preoccupare.
Ma proprio a lui doveva capitare ? Proprio a lui
che era imbarcato da poco ? Certo che le sapeva
fare le punture ! Ma una cosa era farla all’amico o
al collega o ad un estraneo qualunque, un’altra
cosa era fare una puntura al suo Comandante. Il
povero marinaio infermiere era troppo emozionato
e, dentro di se si chiedeva perché il Comandante
non si fosse recato per l’iniezione all’infermeria
della base prima di salpare. Forse pensava che il
suo infermiere di bordo sarebbe stato
sicuramente più bravo di quelli a terra.
Da quando, alle 08.30, subito dopo aver mollato gli ormeggi, gli avevano detto che
alle 11.00 avrebbe dovuto fare una puntura al Comandante, non stava più nella pelle.
Avevano chiamato “posto di dragaggio”, i suoi colleghi stavano per mettere a mare
le apparecchiature per effettuare l’esercitazione di dragaggio e lui, nella piccola
segreteria, non riusciva a stare fermo. Caracollava avanti e indietro sempre ccol
pensiero fisso di quella puntura.
“Con il pollice e l’indice della mano sinistra stirerò la pelle del sedere del
Comandante. Certamente immaginerò di dividere in
quattro parti la natica e farò la puntura sul lato alto
esterno; in alto a destra se è la natica destra, in alto a
sinistra se è la natica sinistra. Strofinerò a lungo la parte
interessata e poi, con la mano destra, con un gesto
deciso, infilerò l’ago e, lentamente, inietterò il liquido”.
L’apprensione aumentava col passare del tempo.
“Naturalmente non farò sentire niente al Comandante,
non voglio che pensi che non so fare nemmeno una
puntura”.
Cercava di convincersi che tutto era normalissimo, ma
finche non si fossero fatte le 11.00 la testa sarebbe stata
a quella benedetta puntura.
Alle 11.00 il Comandante fece salire in plancia il suo
Secondo per farsi sostituire nella direzione delle
manovre e scese in camerino per la puntura. “Nostromo,
è pronto l’infermiere ?” “Sì, Comandante. Eccolo”.
Il Comandante, col sorriso sulle labbra, gli disse: “Sei da poco a bordo, scommetto
che è la prima puntura che fai su una nave in navigazione. Vedrai che te la
ricorderai.” Si girò e subito dopo si abbassò i pantaloni.
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“Mamma mia” pensò il povero infermiere “Il Comandante dice che la prima puntura
che faccio sulla nave in mare me la ricorderò … speriamo bene !”
Ruppe la fiala del liquido e con l’ago lo aspirò all’interno della siringa. Le mani
comunque gli tremavano per l’emozione
e la trepidazione mentre tra sé ripeteva il
ritornello “Ma proprio al Comandante mi
doveva capitare la prima puntura a
bordo?!” Strofinò per bene la parte
interessata ma la mano tremava sempre
più. Appoggiò appena l’ago sulla natica
del Comandante per prendere meglio la
mira e poi … zac !!
Stava per urlare ma riuscì a trattenersi
quando si rese conto dal dolore che l’ago si era infilato nel suo dito pollice. Aveva
allargato la pelle con il pollice e l’indice della mano sinistra perché l’ago entrasse
meglio senza far sentire dolore, come aveva immaginato decine di volte nelle due ore
precedenti, ma la mano destra tremava per l’emozione e nel momento di colpire
aveva sbagliato la mira.
Che fare ? Avrebbe dovuto cambiare
l’ago, avrebbe dovuto ammettere che si era
fatto la puntura sul dito. Che figura ! Cosa
avrebbe pensato il Comandante ? E i suoi
colleghi ed amici ? Tutto l’equipaggio lo
avrebbe saputo, avrebbe dovuto offrire da
bere a tutti e sarebbe diventato lo zimbello
della nave per tutta la durata della ferma e
anche oltre.
Nella vita si presentano situazioni in cui
non si ha molto tempo a disposizione per
prendere una decisione. “Decide bene e
rapidamente” c’era scritto nelle sue note caratteristiche e quella era l’occasione di
dimostrarlo.
E così fu. Estrasse l’ago dal dito, strofinò a lungo energicamente il sedere del
Comandante e disse “fatto”.
Il Comandante alzandosi i pantaloni si girò e, sempre sorridendo, gli disse: “Ma lo
sai che sei proprio bravo! Complimenti, non ho sentito nulla, né l’ago entrare né il
liquido scorrere”.
Aveva ragione il Comandante … la prima puntura fatta a bordo di una nave in
navigazione non l’avrebbe mai più scordata.
Enzo Arena
12
IL SORRISO DEL SOMMERGIBILE
Agli inizi degli anni “90 del secolo scorso prestavo servizio a Taranto come Capo
Ufficio Tecnico e di Piattaforma del Comando Sommergibili.
Spesso ero chiamato a collaborare anche con la Scuola Sommergibili per motivi
connessi con il mio incarico. Era un periodo di intensa attività per via dell’entrata in
servizio di nuovi battelli e, soprattutto per via dell’allestimento di quello che sarebbe
diventato il più moderno simulatore europeo per l’addestramento degli equipaggi alla
conduzione dei battelli in piena sicurezza. Molte marine militari erano interessate a
questa nostra impresa che consentiva di addestrare interi equipaggi senza
coinvolgere i mezzi operativi e soprattutto di evitare i rischi derivanti dalle manovre
complesse e a volte rischiose necessarie per addestrare intensamente timonieri e
manovratori.
Un giorno ci fu la visita di una
delegazione della Marina Militare
Filippina composta da una mezza
dozzina di ufficiali accompagnati da
mogli e figli. Al termine della canonica
visita a Maricosom, a Scuolasom ed a
bordo di un battello in banchina, era
previsto un rapido giro dell’Arsenale per
mostrar loro le strutture logistiche e
manutentive della sede. Il loro cicerone
avrei dovuto essere io e, poiché il loro
inglese non era un gran che, avevano al seguito anche un’interprete inglese che
traduceva dall’italiano direttamente nella loro lingua con tutti i rischi che una doppia
traduzione simultanea poteva comportare.
Le mie spiegazioni in italiano (per espressa richiesta dell’interprete stessa)
venivano quindi propinate al gruppo in filippino dopo essere state elaborate nella
mente dell’interprete in inglese. Chissà cosa potevano capire !
Giungemmo infine presso il bacino galleggiante GO52 nel quale era stato
immesso per ordinaria manutenzione un sommergibile classe Sauro. Al battello
avevano appena asportato le lamiere di protezione delle stecche della base
idrofonica (una striscia di una quindicina di
metri a cavallo dalla prora) e il
sommergibile, visto di fronte, sembrava un
capodoglio sorridente.
Dopo le informazioni sul tipo di
manutenzione in atto mi lanciai in una
similitudine ecologica in cui descrivevo il
battello come un enorme cetaceo
portatore più di pace che di guerra e a
sostegno di questo concetto facevo notare
l’aspetto sorridente di quello che definii
“cetaceo d’acciaio”; i termini usati
esulavano
dalle
canoniche
frasi
perfettamente comprensibili che si usano in presenza di un traduttore ma ero
comunque fiducioso dell’efficacia della nostra interprete.
Dopo la traduzione notai qualche sorrisino di approvazione e immaginai che la
traduzione fosse stata fedele ma non troppo accattivante.
La visita scorse via rapida e tranquilla ed i nostri ospiti a metà pomeriggio si
congedarono per proseguire il loro giro italiano in altre città.
13
Circa un anno dopo un caro amico, ex allievo come me del Morosini che viveva
temporaneamente a Manila per motivi di lavoro, mi scrisse una lettera in cui mi
diceva che in una rivista locale era comparso un articoletto ecologico scritto da una
liceale dal titolo “Salvaguardia dei cetacei” e fra le numerose foto di grossi mammiferi
marini
spiccava
quella
di
un
sommergibile in bacino. Lessi in fretta la
fotocopia dell’articolo (scritto in filippino
ed inglese) ed ebbi la conferma dei miei
dubbi dell’anno precedente circa la
traduzione delle mie spiegazioni ai
filippini.
L’autrice dell’articoletto, figlia di uno
degli ufficiali componenti la delegazione
da me accompagnata in Arsenale, per
dimostrare che in altri paesi si faceva
qualcosa per la salvaguardia di balene e
delfini, asseriva che la Marina Militare
Italiana era tanto favorevolmente
coinvolta che aveva addirittura destinato
un sommergibile vero a fungere da
ambasciatore nel mondo per la difesa
dell’ambiente e della natura e che per
meglio impressionare il pubblico lo aveva anche dotato di uno smagliante ed
accattivante sorriso.
Se non altro l’imprecisione della traduzione ha consentito alla nostra Marina
Militare di essere definita dalla giornalista in erba “paladina ecologica del
Meditarreneo” e di godere per questo grande stima tra gli ecologisti del Pacifico.
Rudy Guastadisegni
14
PICCOLE PERLE
L’ispezione dell’ammiraglio
Quel pomeriggio era previsto l’arrivo, da Taranto, dell’Ammiraglio comandante di
Maricosom per una ispezione al 2° Gruppo. Ero sulla porta del famoso ‘Vandone’ per
riceverlo doverosamente. Dopo i primi cordiali saluti gli chiesi se voleva cominciare
subito l’ispezione e andare in ufficio.
Ma, dall’interno del Circolo veniva una
musichetta che attrasse subito la sua
attenzione.
“Che cos’è questa musica? C’è una
festa?”
“No, Ammiraglio, la festa ci sarà
questa sera... adesso ci sono le signore
che frequentano la scuola di ballo...”
“Scuola di ballo? Le signore? Ohilà!
Interessante! Vado a vedere di che si
tratta... lei vada pure... ci vediamo più
tardi..”
Il buon ispettore – ci raccontarono poi
le signore – si divertì molto con la
scuola di ballo, e si dette anche da fare per imparare qualche passo. Alla sera, dopo
cena, ebbe luogo la festa, dove l’Ammiraglio mise subito in pratica quello che aveva
imparato. Ma in un ballo collettivo, tipo hully-gully, nel quale, come è noto, si
compiono certi movimenti ruotando sempre sullo stesso punto, l’Ammiraglio, da
bravo gentiluomo, volle mantenere la dama sempre sulla sua destra, il che creò uno
scompiglio generale.
Verso la fine della serata ci
ritrovammo un gruppo di ufficiali e
signore seduti in cerchio a
conversare. Davanti all’Ammiraglio
era seduta una bella ragazza
siciliana, dal fisico notevole, che
esibiva una generosa scollatura
nonché una gonna, che, forse per
l’‘onda lunga’ degli anni ’60, era
abbondantemente
sopra
le
ginocchia.
Lo sguardo del nostro ospite –
ce ne accorgemmo tutti – indugiava spesso e volentieri sul panorama di fronte; ma
l’angolazione, evidentemente, non era sufficiente, per cui, piano piano, si lasciò
scivolare sulla poltrona fin quasi a cadere. Risate per tutti, manco a dirlo.
Il giorno successivo era riservato all’ispezione, ma il nostro simpatico Ammiraglio
era così ben disposto che si interessò soprattutto alle ‘attività sociali’; apprezzò tutta
l’organizzazione del Gruppo e, tornato a Taranto, inviò a Roma un rapporto con molti
commenti positivi sullo spirito di “corpo” che aveva riscontrato ad Augusta.
Giancarlo Burzagli
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L’allievo di servizio
Quando la Scuola Navale Militare Francesco Morosini di Venezia era ancora
Collegio Navale gli allievi del primo e del secondo corso studiavano nel pomeriggio in
un grande camerone comune in cui erano sistemati i loro banchini come in una
gigantesca aula scolastica (ora studiano in comodissime camerette a 4/6 posti con
tutti i comfort compresi bagno e climatizzazione).
La disciplina ed il silenzio erano assicurati, oltre che da ufficiali e sottufficiali del
quadro permanente, anche dall’allievo di
servizo che cambiava ogni giorno ed il cui
turno era affidato agli anzianissimi.
Ovviamente ogni allievo di servizio aveva
le sue abitudini ed inclinazioni che variavano
dal
serafico
accomodante
all’invasato
onnipotente con tutte le sfumature comprese
tra questi due estremi. Per quelli del tipo
“invasato onnipotente” la giornata da allievo di
servizio era l’occasione per dare sfogo alle più scatenate fantasie della loro mente a
scapito dei poveri pivoli ed anziani che non avevano possibilità di sottrarvisi.
Quel giorno era di servizio Paolo Ferrari (nome di comodo); bravo ragazzo ma con
qualche strana mania veterofascista e grande propensione per le idee politiche di
destra (per quanto ne possa capire di politica un diciottenne medio). Le sue giornate
da allievo di servizio erano ormai note come i giorni dell’adunanza perché aveva
l’abitudine di arringare gli allievi impalati sull’attenti a studio in attesa dell’arrivo
dell’ufficiale di guardia con farseschi discorsi pronunciati con le mani sui fianchi e il
mento sporgente. Qualche volta aveva anche
preteso, alla fine dei suoi rapidi sproloqui, un
corale saluto fascista con mano tesa e
pronunciamento delle formule di rito (eia eia
alalà, vincere, a noi, molti nemici molto onore e
via dicendo).
Quel giorno dunque aveva istruito l’uditorio
perché rispondesse a dovere alle domande che
lui urlava dalla cattedra scattando ogni volta nel
solito saluto romano e quando alla fine, scattando
lui stesso nello stesso saluto esclamò “ … camerati ! A chi l’Italia ?” tutto lo studio
urlò all’unisono “A noi !!”.
E dalla porta appena aperta giunse un “Viva la libertà” che congelò in un istante
tutti i presenti nella loro posizione a braccio teso, primo fra tutti il nostro Ferrari che,
avendo riconosciuto la voce non aveva il coraggio di muovere un muscolo. Il
Comandante del Collegio in persona aveva deciso di fare un controllino a studio
allievi ed era comparso nel momento peggiore (per Ferrari).
Per sua fortuna (sempre di Ferrari) il Comandante era uomo di spirito ed avendo
perfettamente compreso la goliardia della grottesca situazione sdrammatizzò rivolto
all’allievo di servizio Ferrari: “Bene, ora restituisca la libertà ai camerati … è
sufficiente ordinare il riposo”. E con un sorrisino enigmatico si girò è sparì al di là
della porta.
Ferrari subì un terrificante “liscio e busso” dal suo comandante alla classe e da
allora non parlò più di “camerati”, nemmeno con i suoi “compagni”.
Rudy Guastadisegni
Liberamente tratto da un racconto di Gianluca Miconi
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Dicerie da polentoni
Il giovane guardiamarina Egidio Rasino era stato destinato ad Augusta per
l’imbarco estivo alla fine della quarta classe dell’Accademia Navale di Livorno. Lui,
nordico purosangue avrebbe sperato in una destinazione a La Spezia ma, avendo
fatto domanda per i sommergibili, aveva dovuto accontentarsi.
Giunse così nell’assolata Sicilia carico di risentimento per i suoi desideri delusi e
con tutto il suo bagaglio di luoghi comuni, dicerie e leggende metropolitane acquisite
fin dall’infanzia sugli abitanti di quelle terre: i terroni.
Uno di questi luoghi comuni si riferiva al fatto che le donne del sud avevano
l’abitudine di ornare di vistosi orecchini anche le bimbe
piccolissime; in effetti c’era un fondo di verità perché
tale abitudine derivava da antiche tradizioni locali per
cui, per motivi prettamente scaramantici e protettivi le
mamme mettevano gli orecchini alle figlie fin dai primi
giorni di vita. Questa tradizione era vista dai civilissimi
nordici come un’usanza zingara a danno di tante
povere bambine e come tale degna di essere
sanzionata.
A conferma del fatto, arrivando ad Augusta il povero Egidio aveva notato
un’altissima percentuale di donne con orecchini. Vedeva orecchini dovunque; se li
immaginava anche al naso degli adulti oltre che ai lobi dei pirati locali.
La prima sera, dopo essersi sistemato in una stanzetta spoglia, bollente e piena di
zanzare (degna di quella gente sottosviluppata) della palazzina Rasiom dove venivano
esiliati i giovani ufficiali, si recò al Circolo locale per incontrarsi con i colleghi imbarcati
sui sommergibili.
Tra di loro c’era Ariano Bulgi, un collega di poco più anziano, sposato ed in attesa di
un figlio; una fammina, per la precisione. Ariano (a dispetto del nome) e la moglie
erano ambedue calabresi e ciò non depose a favore di un atteggiamento conciliante
da parte di Egidio che risentiva ancora della delusione
per la destinazione in mezzo a tutti quei terroni.
Per inciso, nel corso degli anni successivi, tra i due
ufficiali nacque una sincera amicizia con stima
reciproca estesa anche alle rispettive consorti, ma
quella sera …
Dopo una fase di convenevoli iniziali in cui Egidio fu
presentato a tutti gli ufficiali del secondo gruppo
sommergibili cui apparteneva il suo battello,
cominciarono ad arrivare alcune delle loro mogli fra le
quali la dolce metà di Ariano che si distingueva per l’evidente gravidanza avanzata.
Egidio le si avvicinò con un sorrisino accattivante “Molto piacere, io sono Egidio. Tu
devi essere la moglie di Ariano, Vero? L’ho capito dalle dimensioni” e con la prima
infelice battuta aveva già dato prova di tutta la sua nordicità. Ma il meglio venne
quando le chiese se il nascituro fosse maschio o femmina e la signora rispose
candidamente ed entusiasticamente “è una femminuccia”.
“Ah” esclamò Egidio. “E gli orecchini li hai già ingoiati ?”
Ovviamente nessuno comprese il senso della battutaccia ma tutti fecero finta di
capire e, nell’intento di non mettere in imbarazzo il giovanotto, risero di gusto
fornendogli in tal modo la conferma che di essere capitato in mezzo ai selvaggi.
Rudy Guastadisegni
liberamente tratto da un racconto di Adriano Bugliari
17
LA PICCOLA TARTARUGA
La porta automatica si aprì e fui fuori dall’aeroporto turco di Adana. L’afa di quel
pomeriggio di maggio mi investì e fu il primo segno evidente della nuova latitudine
rispetto a Venezia.
Dopo pochi passi incerti mi fermai sul bordo del marciapiede. In una mano
stringevo il manico del trolley, con l’altra verificavo la chiusura della mia valigetta a
tracolla. Con gli occhi feriti dalla luce forte cercai chi mi avrebbe portato nel porto di
Cehyan, sul cargo italiano Patara.
Lessi con sollievo il mio cognome su un cartello. Lo reggeva un tipo giovane, con
rayban scuri e la pelle olivastra, che si guardava attorno. Per alcuni secondi esitai nel
farmi riconoscere, lasciando con ingenua
soddisfazione che quel cartello sul quale
c’era il mio cognome preceduto da Mr.
campeggiasse nell’assembramento di
autisti.
Feci un cenno e gli andai incontro. Era
venuto a prendermi con un Doblò Fiat.
Nell’auto annusai con fastidio odore di
fumo. Gli chiesi quanto tempo occorresse
per il porto. “Un’ora normalmente” rispose. Parlava un buon inglese. Ma non
era loquace. “Tanto meglio!” - mi dissi.
Partimmo e iniziai ad osservare le strade e la gente. I casermoni della periferia di
Adana erano tristi, poi sopraggiunsero la campagna, sassose colline ed agrumeti nella
pianura.
Imboccammo l’autostrada. L’auto accelerò la sua corsa. Il tipo accese la radio:
musica rock anni Settanta…. Ero in Turchia e avrei voluto un’atmosfera turca… Iniziai
a nutrire antipatia per l’autista. Masticava una gomma e procedeva sempre più veloce.
Iniziai a detestarlo… così come detestavo l’aria condizionata a palla.
Arrivammo al varco portuale. Una guardia venne ad aprire un cancello di ferro.
Entrammo e parcheggiammo sotto il sole che picchiava. “Non c’è un posto
all’ombra…? Ma perché non lo cerca?
Pigro!”- pensai.
Scendemmo ed entrammo in un
ufficio dove consegnai il mio passaporto ad
un poliziotto con la pistola nella fondina.
Notai il calcio della pistola finemente
decorato.
Il mio autista allora uscì dalla stanza
e sparì. Rimasi solo con il poliziotto che
sorseggiava caffè. “Dove diavolo è
andato?” mi chiesi.
La stanza dove mi trovavo aveva le
pareti scrostate: da una di quelle mi guardava Ataturk, racchiuso in un quadro dalla
cornice dorata.
Dopo più di un quarto d’ora ricomparve l’autista con il mio passaporto.
Ripartimmo.
Attraversammo un infernale terminal carbonifero. Un vago senso di orrore
aleggiava in quel luogo. Non potei fare a meno di pensare che il mio autista fosse in
linea con quel paesaggio, duro e ostile.
18
Ad un certo punto scorsi in fondo ad una banchina il profilo di un cargo su cui
batteva la bandiera italiana. Era rugginoso ma mi parve bellissimo. Pensai alla
caffettiera Bialetti che probabilmente il comandante custodiva in plancia. Mentre il
Doblò Fiat si dirigeva verso la banchina, squillò il cellulare dell’autista. Rispose
continuando a guidare con una mano sola. Poi d’improvviso l’auto s’inchiodò.
“ Che cosa diavolo c’è ora?” – dissi fra me.
L’autista scese lasciando lo sportello aperto e
continuando
a
parlare.
Doveva
trattarsi
sicuramente di qualcosa in relazione a quella
chiamata. Lo osservai perplesso, con un misto di
collera che montava. Aveva lasciato l’auto e me
dentro nel bel mezzo della banchina. Un camion
carico di carbone passò vicinissimo all’auto
scuotendola e sollevando un polverone.
“Che cazzo fa?” - mi chiesi mentre mi invadeva un senso di impotenza, incredulità
e rabbia. Lo seguii con lo sguardo mentre si avviava lungo il ciglio della banchina,
continuando a parlare in modo serrato al telefono. Lo vidi piegarsi per raccogliere
qualcosa da terra con la mano libera. Poi attraversò la banchina e scese velocemente
verso una spiaggetta, scomparendo alla mia vista.
Uscii dall’auto e corsi verso la piccola duna. Lo vidi poggiare quel che aveva
raccolto sul bagnasciuga. Quel qualcosa cominciò a muoversi verso l’acqua: era una
tartarughina.
Rientrò in auto, continuando a parlare
al telefono. Ripartimmo e appena la lunga
conversazione fitta e monotona ebbe fine gli
chiesi,
non
trovando
altre
parole,
semplicemente: “Why?”.
‘Aveva smarrito la strada’, fu la sua
spiegazione….
Quando il giorno dopo la porta
automatica dell’aeroporto si richiuse alle mie
spalle ripensai a quel gesto. Un gesto capace
di trasformare banchine di carbone in una
spiaggia dorata, di quelle che le tartarughe scelgono per deporre le loro uova.
Alcune settimane dopo le televisioni di tutto il mondo mostravano scene di giovani
che nella piazza Taksim di Istanbul si ribellavano al taglio degli alberi nel parco Gezi.
Immaginai che il giovane autista di Adana poteva essere tra quei coraggiosi
scesi in strada.
Pensai ai miei bimbi, alla storia della piccola tartaruga salvata dall’orco buono che
l’indomani sera avrei loro raccontato.
Capitano di Corvetta (CP) Vito SPADA
19
N.d.R.
Questo articolo si discosta dal taglio goliardico, ironico e scanzonato delle storielle
che vengono normalmente accolte per la pubblicazione su “Gentiluomini di Mare” ma
è opinione della Redazione che ogni tanto non guasti un piccolo richiamo ai sani valori
morali che sono il fondamento della vita non solo dei militari ma di tutta la Società
civile.
L’Ammiraglio D’Errico ci fornisce una dotta e circostanziata trattazione del concetto
di disciplina che non può che farci riflettere sulla nostra missione … perché di questo
si tratta: i cittadini in divisa hanno scelto per sé la grande missione della salvaguardia
della Patria e delle sue istituzioni. A tutti noi che crediamo profondamente in tutto ciò
non occorre suggerire di meditarci sopra … ma chi se l’è dimenticato mediti !
SULLA DISCIPLINA MILITARE
Con la parola DISCIPLINA si intendono diverse cose.
Alcune sono concetti astratti; altre sono oggetti concreti.
Prendiamo il vocabolario e leggiamo i suoi diversi significati:
- atto dell’istruire, dell’educare;
- materia di insegnamento;
- l’insieme dei principi morali, delle leggi, delle regole che formano l’ordine
necessario a mantenere qualsiasi istituzione;
- l’osservanza delle regole disciplinari;
- specie di frusta formata da un mazzo di funicelle intrecciate, usata un tempo dai
religiosi per atto penitenziale o di mortificazione.
In particolare, ci dice lo stesso vocabolario, la disciplina militare è quella che
REGOLA LA VITA MILITARE ED E’ FONDATA SULLA SUBORDINAZIONE
RISPETTOSA DELL’INFERIORE AL SUPERIORE, SUL COSIDDETTO SPIRITO DI
CORPO E SULL’ONORE MILITARE.
Le note che seguono sono appunto
dedicate a chiarire cosa significa, all’atto
pratico, per un militare, questa definizione
astratta.
Lo scopo finale è quello di rendere più
evidente e chiaro l’impegno che un militare
si assume nel prestare il giuramento che
sanziona
la
sua
ammissione
nell’organizzazione di una Forza (o di un
Corpo) Armata.
E partiamo proprio dalla formula del
giuramento, perché mai come nei
giuramenti le parole sono pietre e perché
in quelle poche righe sono concentrati tutti i doveri degli appartenenti ad un organismo
militare.
Recita la formula del giuramento:
“GIURO
- di essere fedele alla Repubblica Italiana;
- di osservare la Costituzione e le leggi e
20
- di adempiere con DISCIPLINA e ONORE tutti i doveri del mio stato
PER
- la difesa della Patria e
- la salvaguardia delle libere istituzioni”.
Come possiamo osservare, la formula, nella sua essenzialità, chiarisce al militare
che giura: “cosa” egli si impegna a fare (essere fedele….osservare….adempiere),
“perché” (la difesa….la salvaguardia) ed anche “come” (con disciplina….con onore).
Si tratta di un impegno stringente e che non lascia spazio ad equivoci.
Niente interessi privati, niente patteggiamenti, niente compromessi.
E’ un giuramento che obbliga a uscire da sé e proiettarsi verso l’esterno.
Non si parla di stipendio, di famiglia, di diritti sindacali, di ferie.
Si parla delle caratteristiche che debbono contraddistinguere l’azione del militare:
comportandosi con disciplina ed onore, deve dare tutto sé stesso al fine di
salvaguardare le istituzioni e difendere la Patria.
Tutto sommato, si tratta di caratteristiche pienamente aderenti a chi pensa che
valga più la pena di dedicarsi agli altri piuttosto che a sé stessi.
Chi ha altre priorità, non necessariamente biasimevoli, è ovvio, deve guardarsi dal
prestare un giuramento che lo porrebbe immediatamente in conflitto con i doveri
connessi con il suo stato di militare.
Detto questo, vediamo di
occuparci del “come”, deve agire
il militare; in particolare delle
due parole “con disciplina”.
E cerchiamo allora di capire
cosa è questa disciplina.
Per essere più sicuri di capire
bene, cominciamo col dire cosa
essa NON è.
La disciplina NON E’:
- un valore;
- una virtù;
- un principio;
- un fine.
Vediamo invece cosa essa
E’.
La disciplina E’:
- uno strumento.
Riprendiamo in mano il vocabolario e troviamo in che senso si parla di “strumento”:
la disciplina è l’insieme delle regole che formano l’ordine necessario a mantenere
qualsiasi istituzione.
In altre parole, essa è lo strumento utilizzato dall’istituzione per mantenersi coesa e
per funzionare.
Questo in generale, vale a dire per qualunque organizzazione: un cantiere navale,
uno stabilimento industriale, un gruppo bancario, perfino il Parlamento. Tutti i sistemi
organizzati hanno bisogno, per funzionare a dovere, che coloro i quali vi lavorano e/o
ne fanno parte si attengano ad una serie di norme disciplinari (orari di servizio,
modalità operative, priorità stabilite da chi ne ha la responsabilità e rispettate da tutti
eccetera).
Per l’organizzazione militare, la disciplina deve assumere una connotazione
speciale, in vista dello scopo (che non è la produzione di un bene o di un servizio
bensì la “salvaguardia delle libere istituzioni” e la “difesa della Patria”) e delle modalità
21
con cui tale scopo deve essere perseguito (non un perseguimento come sia sia, basta
che si arrivi al risultato, no! Occorre perseguire l’obiettivo con “disciplina” e con
“onore”).
Per l’organizzazione militare e quindi per tutti coloro che ne fanno parte, la
disciplina deve essere un costume di vita, un comportamento connaturato alla
condizione militare, un modo di essere che faccia distinguere il militare dagli altri
cittadini, anche quando non indossa la divisa.
E quando tutto questo diventa difficile perché la situazione è difficile?
Anche allora non c’è scampo: occorre disciplinatamente attenersi alle disposizioni di
chi ha la responsabilità di emanarle, fornendo una
leale collaborazione al raggiungimento del risultato
di volta in volta indicato.
“Leale collaborazione”! hai detto niente!
E come si fa?
Torniamo al nostro vocabolario e rileviamo che la
disciplina militare è fondata sulla “subordinazione
rispettosa” dell’inferiore al superiore.
Ma come ottenere una subordinazione
rispettosa?
Qui subentrano tre concetti, uno dei quali
abbiamo già incontrato:
- il primo si chiama “condivisione”;
- il secondo si chiama “spirito di corpo”;
- il terzo si chiama “onore militare”.
Esaminiamoli separatamente.
La condivisione.
Si sa che il primo effetto della disciplina è il
dovere dell’obbedienza.
L’obbedienza deve essere “pronta” e “leale”.
Ma perché ciò accada, cioè affinché il subordinato reagisca prontamente e con
lealtà all’ordine impartito da chi ne ha l’autorità, il fatto formale dell’appartenenza ad un
corpo militare non basta. Se bastasse l’appartenenza, si potrebbe anche dire che la
disciplina è un valore in sé…..ma noi abbiamo detto, invece, che la disciplina NON E’
un valore (secondo qualcuno lo è, ma le cose non stanno così; e le conseguenze di un
tale modo di pensare sono generalmente nefaste).
La vera forza dell’autorità deriva dalla condivisione (esplicita o implicita) degli
obiettivi da parte del destinatario degli obiettivi stessi. E questo nasce da una
comunione di intenti fra autorità e subordinato.
Ma come ottenere questa comunione?
Non certo “perché lo ha detto il Capo”….non con l’accettazione passiva delle
disposizioni.
Non certo perché “o Franza o Spagna, purchè se magna”…..non in nome di un
mercenarismo fuori tempo e fuori luogo.
La comunione nasce dalla capacità dell’autorità (il “superiore”) di coinvolgere i
destinatari della sua azione di comando (i ”subordinati”), inculcando in essi la fiducia
nel suo operato, in quanto costantemente teso al conseguimento degli obiettivi scritti
nel giuramento prestato, sia pure limitatamente al piccolo, particolare, specifico
servizio ordinato. La fiducia, a sua volta, trae alimento dall’equità, dall’equilibrio, dal
rispetto, dalla valorun’altra, come la “mia”.
22
E’ la fierezza con cui senti dire, dal marinaio imbarcato, “appartengo a Nave….”.
Quella parola “appartengo”, la dice con il tono “guarda che la “mia” nave è la migliore
fra le migliori”. E dice “mia” con lo stesso tono con cui lo dice il Comandante della
nave.
Va da sé che una Brigata che sia la migliore, non può essere comandata altro che
dal migliore fra i Generali di Brigata.
Va da sé che la migliore fra le navi non può essere comandata altro che dal migliore
fra i Comandanti.
Ecco cosa è lo spirito di corpo: è quell’idea di far parte di una organizzazione
speciale, in qualche modo unica, della cui eccellenza e/o singolarità tu, anche se sei
solo uno fra tanti, costituisci nondimeno elemento indispensabile e protagonista.
Ricordo i primi tempi dell’attivazione del C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti
Asilo) a Castelnuovo di Porto, una località
non lontana da Roma ove esiste una
grande infrastruttura realizzata dalla
Protezione Civile, quando essa faceva
parte, insieme al Corpo Nazionale dei
Vigili
del
Fuoco,
dell’omonimo
Dipartimento del Ministero dell’Interno.
All’inizio, la cucina era quella da campo. Ai
commenti sulla qualità del cibo (davvero
ottimo. E colpiva il fatto che dalla cucina
arrivassero in continuazione pentoloni di
pasta appena cotta, regolarmente “al
dente”), la risposta dei compiaciuti addetti
al
confezionamento
rimandava
invariabilmente alla loro appartenenza al
Comitato Provinciale della Croce Rossa di
Palermo
Deriva dallo spirito di corpo quella emulazione che porta i vari elementi di
organizzazione a gareggiare fra di loro per cercare di ottenere i migliori risultati, in
termini di tempo, accuratezza, puntualità e quant’altro.
L’onore militare.
Abbiamo già sentito nominare la parola “onore”, analizzando la formula del
giuramento.
Noi militari ci impegniamo a svolgere il nostro lavoro “con disciplina e onore”.
Abbiamo visto cosa comporta farlo con disciplina.
Vediamo di capire cosa comporta farlo con onore.
L’onore militare è una cosa molto delicata.
L’onore militare può comportare di farsi uccidere piuttosto che venire meno alla
parola data.
Può comportare di farsi uccidere piuttosto che farsi strappare di dosso l’uniforme.
Può addirittura indurre a farsi uccidere al posto di un’altra persona.
Non ci vorrei spendere molte parole, perché in definitiva l’onore militare coincide
semplicemente con il rispetto della parola data.
Se io ho giurato di essere fedele alla Repubblica Italiana e vengo meno al
giuramento, ad esempio violando consapevolmente la Costituzione o le altre leggi,
sono uno spergiuro e perdo l‘onorabilità.
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Se mi sono impegnato a difendere la Patria e lascio che qualcuno cerchi di
arrecarle offesa, danno o addirittura di occuparne un lembo anche piccolissimo, sono
uno spergiuro e perdo l’onorabilità.
Se occupo nella gerarchia militare un
certo posto e cerco di dissimulare questa
mia posizione per proteggere la mia
incolumità personale, sono un codardo e
perdo l’onorabilità.
Se…..ma le esemplificazioni potrebbero
essere infinite.
Possiamo sintetizzare il concetto di
onore dicendo che l’onorabilità deve
essere, per il militare, il bene più prezioso.
Più prezioso della vita stessa.
Senza se e senza ma, come si usa
dire..….Anche il classico partenopeo “tengo famiglia” per il militare non vale: per il
figlio di un militare, essere orfano è infinitamente meglio che avere un genitore bollato
dell’infamia del disonore.
Concludiamo.
La disciplina in generale è una necessità per l’ordinato funzionamento e per il
mantenimento di qualunque istituzione.
Le istituzioni militari non sfuggono a questa regola generale ed anzi, in relazione ai
loro compiti specifici, ne devono fare oggetto di una cura speciale.
La disciplina militare, in particolare, si basa:
- sulla rispettosa subordinazione dell’inferiore rispetto al superiore;
- sullo spirito di corpo;
- sull’onore.
In una istituzione militare i rapporti gerarchici sono chiaramente configurati, sia sul
piano formale, mediante la progressione dei gradi, sia sul piano sostanziale mediante
la definizione di compiti e limiti previsti per ciascun incarico.
In una istituzione militare, cioè, il rapporto di subordinazione gerarchica è
perfettamente individuato.
Affinché questa subordinazione sia rispettosa occorre creare una condivisione degli
obiettivi, in una leale sinergia superiore – inferiore.
In una istituzione militare lo spirito di corpo va alimentato come spirito di
appartenenza.
Per un militare, l’onorabilità rappresenta il principale patrimonio personale e va
preservato anche a costo della stessa vita.
Amm. (GN) ® d’Errico ing. Mario
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