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E d w a r d S a i d : «T h e l a s t j e w i s h
intellectual»
Mauro Scalercio
Inizio e origine dell'identità
A prima vista potrebbe sembrare che la risposta alla
domanda “che cos'è l'identità nel pensiero di Edward Said?” sia semplice e diretta. L'identità è una costruzione sociale. Questo, d'altronde, è il punto di partenza del suo libro più famoso, Orientalism: “Oriente” e “Occidente” sono il prodotto delle energie, materiali e intellettuali
dell'uomo” (Said 1978; trad. it 2007: 13-14). In questo
breve saggio cercheremo di complicare questa idea,
mostrando come la natura costruita, provvisoria
“immaginata” d e l l ' i d e n t i t à , s i a a n c h e u n ' o p e r a d i ripensamento della categoria di soggetto e di recupero
della sua politicità e molteplicità.
Lo strumento filosofico che Said elabora, in particolare
n e l s u o c o m p l e s s o t e s t o Beginnings: Intention and
Method, è la distinzione fra l'idea di inizio e quella di origine attraverso cui Said tenta di rendere la critica al
culturalismo e all'essenzialismo produttiva da un punto di
vista politico oltre che epistemologico. La funzione della
dicotomia origin/beginning è quella di creare una doppia, e opposta, lettura del momento primo di un'azione o di
un fatto sociale. Il bersaglio polemico è l'utilizzo di una nozione della presenza di un momento originario,
fondante e “autentico” nell'identità e nella socialità. L'idea di Said è quella di mettere in discussione l'idea di una stabilità di questo momento. «Uso, per quanto possibile
in maniera coerente, inizio con un significato più attivo, e origine con uno più passivo». Quindi «X è l'origine di Y,
mentre «L'inizio A conduce a B» Dobbiamo spendere
John Arnzen Tower of Babel #2
qualche parola in più per il concetto di inizio: «Vediamo
che l'inizio è il primo punto (nel tempo, nello spazio, o nell'azione) di una realizzazione o processo che abbia durata e significato (meaning). L'inizio allora, è il primo passo in una produzione intenzionale di significato» (Said, 1975: 5-6)
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Ciò che importa non è che un inizio sia un “primo passo”, in quanto si tratta di una definizione evidentemente
circolare. Ciò che conta è il carattere intenzionale di questo istante, in opposizione ad una concezione naturalistica, e culturalistica, di origine. Vengono meno le possibilità di considerare le identità sociali, di gruppo ma anche individuali, come una essenza autentica, o anche in maniera più radicale, reali.
L'identità, dunque, come ogni altro elemento della socialità, è una costruzione, una rappresentazione linguistica e retorica. Come l'uomo fa la propria storia, fa anche la propria identità (Said, 1993: 407-408). L'identità, lungi dall'essere è indifferente ai fini dell'analisi, è esattamente il primo passo di una presa di parola di carattere
eminentemente politico. L'asserzione delle identità, nonostante l'apparato cerimoniale che lo circonda, non è ad esse riducibile (Said, 1993: 42). Negare l'identità significa negare l'esistenza, affermarla può significare il ripiegamento su posizioni essenzialiste, mostrarne la natura politica, storica ed etica significa poterla far valere politicamente e
criticamente. Svelare il carattere segretamente volontaristico delle identità permette la rivendicazione, drammatica, della necessità di rivedere costantemente la propria identità, inserendola nel proprio contesto sociale, rivelando la non neutralità politica di questa scelta.
L'identità allora, ci dice Said, è frutto di un atto di inventio, di una prestazione poetica che si esprime attraverso il
linguaggio, attraverso la creazione di una propria storia. Said non pretende certamente che la soggettività umana possa costruirsi a partire da una tabula rasa. Al contrario, egli invita a prendere non la razionalità quale momento originario e costitutivo dell'uomo, ma la politica, intesa come mondo di relazioni sociali e culturali e di rapporti di
forza. Sono questi gli elementi che potremmo chiamare “primari” della inventio saidiana. L'uomo si inventa, è vero, ma non dal nulla. Per precisare al meglio questa idea dovremmo soffermarci in maniera approfondita sui concetti di
ripetizione e variazione, cosa che non possiamo fare per motivi di spazio. Il punto centrale da mettere in evidenza
in questi contesto è che l'uomo ha due possibilità di dare senso allo sterminato archivio del mondo. Accettare le identità di gruppo, la propria “origine”, o impegnarsi in una operazione di riordinamento, di messa in forma, del
materiale storico e politico in cui si è immersi, ossia, in termini saidiani, “iniziare”.
Tutto ciò si può esprimere attraverso una diversa concezione della “casa”. La casa rappresenta la nostra esistenza
in maniera molteplice, indica il momento della familiarità, più intima ma anche il momento della comunità, la nazione intesa come luogo dove la “madrepatria” ci accoglie, ci protegge, ci identifica. Ma proprio l'idea di casa ci
offre la possibilità di riarticolare il nostro discorso. La propria casa è sempre quella in cui si nasce? O è quella che si costruisce?
L'intenzione di Said di mettere in discussione l'idea di casa ci porta a svelare l'arcano del titolo di questo articolo. In
una intervista al quotidiano israeliano Ha'aretz, Said contesta agli intellettuali israeliani ed ebrei di aver fatto propria
l'idea della separatezza dello spazio della casa, di un qui-noi e di un lì-loro che riproduce lungo la linea di un confine
una separatezza originaria. Said rivendica invece l'essenzialità dell'essere “fuori posto” di una perenne estraneità che mette in discussione quell'idea di casa che, rassicurante per noi come “focolare domestico” forclude la politicità dall'identità e riproduce, per l'ennesima volta, la separatezza noi/loro come dinamica della (non)coesistenza. Said rivendica a questo proposito di essere un erede di Adorno, riferimento essenziale su questo tema, presentandosi
appunto come «l'ultimo intellettuale ebraico» (Said, 2002: 458). Dietro a questa provocazione si cela gran parte
d e l l e i d e e d i S a i d , l ' i d e a d i u n a “affiliazione” intellettuale e non una “filiazione” l'idea di un soggetto non
essenzialistico e plurale.
Dal pensiero ebraico alla lotta palestinese
Salvo altrimenti specificato, tutto il
materiale presente in questa rivista è sotto una Licenza Creative Commons.
Il pensiero di alcuni intellettuali ebrei appare a Said fondamentalmente legato a queste prospettive. Già nel suo Dire
la verità Said riprende l'idea di Adorno di una impossibilità di “abitare” (Said, 1994: 68-70; Adorno, 1951; trad. it
1994: 34-35). Said considera questa idea la quintessenza del pensiero del “non puro” e “non stabile” del pensiero
delle identità non-escludenti. L'esperienza dell'Olocausto in quest'ottica non è “semplicemente” frutto di un odio
contro un popolo. È la forma più pura e più tragica in cui la modernità ha mostrato le conseguenza dell'idea di autenticità del gruppo. Siamo, chiaramente, in ambito ancora adorniano, in particolare quello dei volumi Il gergo
dell'autenticità e Contro l'antisemitismo. L'antisemitismo, come l'etnocentrismo e il razzismo, non dipende né dagli ebrei, né dagli stessi antisemiti, in quanto non è la qualità empirica del gruppo a rendere pensabile l'Olocausto ma è la modalità stessa in cui i conflitti vengono messi in forma. L'antisemitismo si presenta come un atteggiamento di radicale rifiuto del dialogo e del confronto, assolutamente contiguo ai meccanismi di rifiuto etnocentrico. (Adorno,
1972; trad. it. 1994 34; Adorno, 1986; trad. it 1994: 48) La lotta all'antisemitismo, dunque, è inscindibile da una lotta al nazionalismo in quanto tale. In questo senso il pensiero ebraico appare come una sorta di antidoto al
pensiero moderno dell'identità e della casa: «L'esistenza di un popolo capace di mantenere le proprie tradizioni e i
propri legami, ma al tempo stesso privo di Stato (ovviamente fino alla fondazione dello Stato di Israele) è già di per sé la contestazione di ogni popolo e di ogni Stato esistente» (Petrucciani, 1994: 13). Infine, considerazioni analoghe
vengono avanzate da Lyotard che sottolinea come gli “ebrei” intralcino «ogni progetto di autenticità» (Lyotard, 1988;
trad. it. 1989: 94).
Questa è la dimensione del pensiero ebraico che intende sottolineare Said, e che qui abbiamo esplicitato in maniera molto più estesa di quanto Said stesso abbia fatto. Tale posizione può essere letta come un j'accuse allo stato di
Israele e, ancora di più, agli intellettuali ebraici.
Gli intellettuali ebraici, in quest'ottica, hanno scelto il compito di situarsi nell'ambito della nazione israeliana,
perdendo l'occasione per delineare una possibilità storica e politica che possa dare conto della critiche di Adorno all'idea di casa. In un certo senso, hanno tradito la propria storia, lasciando che la rivendicazione di un proprio
“posto nel mondo” portasse alla riproposizione di quelle tragiche dinamiche moderne che rendono pensabile
l'olocausto.
Gli intellettuali ebraici hanno scambiato la loro tradizione di “tolleranza” con quella dell' “autenticità”. Hanno
scambiato la lotta contro il nazismo e il totalitarismo con uno scontro fra nazionalismi, rinunciando a vedere come il
nazismo non sia semplicemente il frutto più perverso del pregiudizio razziale antisemita, ma sia una tendenza costante dell'occidente, tendenza insita nell'idea di separatezza e, appunto, autenticità.
Considerazioni analoghe a queste sono presenti anche in Max Horkheimer, in particolare nell'aforisma 263 dei
Taccuini 50-69 intitolato Stato di Israele del 1961-62. Lo stato di Israele, che pretende di parlare in nome degli
ebrei, ha condotto ad una temporalizzazione dell'ebraismo e la perdita del suo essere voce d'accusa verso
l'ingiustizia sui popoli. La lingua parlata dallo stato di Israele è la lingua del successo, di uno stato fra gli stati. (Horkheimer, 1974; trad. it. 1988: 148) Ancora peggio, possiamo aggiungere da un punto di vista saidiano, gli
intellettuali ebraici hanno rinunciato alla rivendicazione della capacità del popolo ebraico di essere immagine concreta della possibilità di un popolo senza nazione, dell'impossibilità da parte della nazione del farsi davvero “comunità” nel senso di un oltrepassamento etnico o razziale dei legami formali dello stato e del capitale.
L'idea di essere “l'ultimo intellettuale ebraico” è certamente una provocazione. Ma non può essere ridotta ad un motto brillante. Per Said significa almeno tre cose. Primo, il diritto alla scelta della proprio spazio culturale, diritto ad
affiliarsi ad una idea, contro le fedeltà nazionali, culturali, ideologiche. Secondo, significa inoltre l'aspirazione a mantenere aperta la possibilità di una ricerca della convivenza degli opposti, in base ad una idea non formale di libertà. Terzo, significa il richiamo a rivedere costantemente la propria storia di oppressione alla luce alla luce dell'obiettivo di evitare il rischio della riproposizione simmetrica di una nuova oppressione, anziché di una “liberazione”.
Il peso politico di queste questioni è, per Said, immediato. La separatezza delle identità semplifica in maniera irrimediabile, e mai neutrale, la complessità di una situazione quale quella palestinese-mediorientale. La dicotomia
noi-loro tende, in una situazione di spazi limitati e rifiuto dell'accettazione della diversità dell'altro, a diventare un “solo-noi” come risulta chiaro dallo slogan sionista «un popolo senza terra per una terra senza popolo». (Ashcroft,
2001: 4) La militanza pro-palestinese saidiana cerca esattamente di agire a questa altezza. Alla luce delle
considerazioni appena svolte, allora, i rapporti fra israeliani e palestinesi appaiono allora segnati da una opportunità mancata. Quando Balfour, nel 1917, promise una “national home”agli ebrei europei la strada verso una
riproposizione in terra mediorientale delle dinamiche di esclusione nazionale era aperta. Gli intellettuali ebrei allora,
sembra dirci Said, hanno tradito il loro compito di rifiutare la riproposizione di tali dinamiche.
Tragico, allora, era per Said vedere l'ennesimo rovesciamento-riproposizione di questa stessa logica da parte di
molti intellettuali e statisti arabi, che hanno visto la necessità di negare l'olocausto al fine di mostrare la natura imperialista della presenza sionista in Palestina. (Said, 1998)
Joël-Evelyñ-François Dézafit-Keltz -
slεεp oƒ thε paranoıa-crıtıcıst rhızomε . .
Ruolo dell'intellettuale critico umanista
Attraverso questo doppio fallimento è possibile inquadrare il ruolo dell'intellettuale, che deve frapporsi nella riproduzione del rapporto minaccia-rafforzamento dell'identità. (Said, 1994: 48).
L'intellettuale non deve mai proporre una identità, perché la sua funzione non è quella di semplificare, ma di mostrare che ogni politica di “purezza” è intrinsecamente passibile di essere portatrice del virus del genocidio.
Il terreno su cui si incontrano formazione delle identità e agire degli intellettuali è quello della cultura. Per Said il campo della cultura non quello accademicamente neutrale della conoscenza oggettiva, ma il campo in cui si
intrecciano le lotte materiali e le lotte per i significati simbolici e rappresenta, perciò, un vero e proprio campo di battaglia (Said, 1993: XIV). Se si accetta questa idea un intellettuale che non lotta, che non accetta il collegamento,
antagonistico, fra cultura e “mondo della politica bruta” riduce il mondo della cultura stessa ad un esangue teatrino,
esito, peraltro, diffuso all'interno delle prospettive postmoderniste. Non solo, ma un intellettuale che non prende
posizione per gli oppressi si rende assolutamente complice di questa oppressione.
In rapporto al tema dell'identità il ruolo dell'intellettuale è quello di depotenziarne la carica di separazione e contrapposizione, a deve opporre la storicità materiale della sua “funzione politica”. La rivendicazione dell'identità è utile per combattere la repressione nella misura in cui è una rivendicazione di esistenza, ma questo momento deve essere superato, se si vuole evitare la riproposizione di identità fisse, stabili che, forzando le realtà nei propri confini ripropongono dinamiche di repressione e omogeneizzazione. Il problema essenziale di Said, a quest'altezza è il problema che già Frantz Fanon (1961) aveva individuato. L'elaborazione, appunto, di una identità che non fosse, in
realtà, una riproposizione delle stesse logiche imperialiste e nazionaliste, esito di molte lotte di liberazione nazionale. (Said, 2000: 377 ss)
Credo che sia fondamentale tenere sempre presente che secondo Said la critica deve prevalere sulla solidarietà. La responsabilità dell'intellettuale è esattamente quella di evitare che l'identità si cristallizzi e porti ad una chiusura alla possibilità di ridiscussione e ridefinizione. Vero, il testo forse più importante sulla palestina di Said Question of
Palestine si apre con l'invocazione a non dis-possessare o “trasferire” i popoli dalla propria casa e questo portava
Said, nella prima fase dell'impegno in Palestina, a invocare uno stato per i palestinesi. In seguito Said correggerà, in maniera coerente, le sue posizioni esprimendo la preferenza per uno stato binazionale (Said, 2001).
Vogliamo chiudere questo saggio spendendo due parole sul significato che assume nel pensiero saidiano il concetto
di umanesimo. Il tentativo, spesso implicito, a volte contraddittorio, quasi mai sviluppato in maniera articolata, è quello di un recupero dell'umanesimo come strada per uno studio eticamente diretto del mondo e per l'elaborazione
di una soggettività capace di tenere al suo interno il mondo plurale occultato dalle rappresentazioni orientaliste della realtà. Recuperare l'umanesimo significa in primis opporsi alla versione tipicamente moderna dell'umanesimo, quell'umanesimo di una visione dell'uomo come soggetto politico razionale su cui si basano la filosofia della storia e
l'idea di Progresso.
Una delle più belle e pregnanti disamine dell'umanesimo “tradizionale” è quella delle posizioni di Camus a proposito dell'indipendenza algerina che troviamo in Culture and Imperialism.
L'universalismo di Camus, tipicamente umanista, si accompagna a una marcata incapacità di cogliere la specificità del contesto culturale arabo-algerino e di conseguenza la legittimità politica della sua esistenza in quanto cultura ed in quanto popolo. Secondo Said l'Algeria, pur essendo luogo geografico di ambientazione di numerose opere di
Camus, rimane assolutamente periferica nella costruzione delle categorie morali dell'umanesimo, e anzi viene
perfettamente inquadrata in una prospettiva pienamente orientalista.
Allo scoppio della guerra di indipendenza dell'Algeria Camus esprime fermamente la sua opposizione a tale
prospettiva indipendentista: «L'indipendenza nazionale è una formula puramente passionale. Non c'è mai stata ancora nessuna nazione algerina» (Camus, citato in Said 1993: 216). Queste motivazioni, se possono sorprendere a
causa del calibro del Camus intellettuale, non possono sorprendere dall'ottica di Said. Il rifiuto di considerare
l'Algeria “degna” dell'indipendenza nazionale, anche perché semplicemente non esisterebbe qualcosa come “l'Algeria” a prescindere dal colonizzatore francese, è dunque chiaro ed inequivocabile. Non c'è alcun popolo algerino, non c'è alcuna nazione algerina, se non in funzione del dominio francese. L'Algeria, in ogni caso, non può essere costruita dagli algerini: ecco la differenza fra un nazionalismo dell'origine ed un nazionalismo dell'inizio. La
nazione è un'essenza originaria, deve esistere “dalla notte dei tempi” come la Francia si potrebbe aggiungere, non si
può dare il caso che sia l'esperienza stessa del sopruso e della lotta per l'affermazione del diritto di esistere a dare accesso a questa legittima esistenza come gruppo. Una nazione non può iniziare. E naturalmente è l'Europeo (colto, e magari progressista” che si assume il ruolo di giudice della storia. Inoltre, a sottolineare l'inadeguatezza nei
confronti della modernità, gli arabi sono passionali, non razionali. I presupposti di questa posizione rientrano
pienamente nell'alveo della tradizione umanista moderna. In Camus, nel solco dell'umanesimo moderno,
l'universalismo è un'astrazione, un progetto che pensa di prescindere dalle condizioni storiche e sociali. L'universalismo è razionalistico, segretamente, surrettiziamente essenzialistico.
Il progetto intellettuale di Said è quello di elaborare un umanesimo che considerasse l'uomo non nella sua astratta universalità, non nel suo individualismo solipsistico ma nella sua interazione con gli altri esseri umani, con la loro capacità di agire. Non dobbiamo pensare che l'intento di Said sia quello di proporre, come pure in certi esiti postmoderni e postcolonialisti un soggetto “ibrido” una superfetazione estetizzante del multiculturalismo. Si tratta di
prendere sul serio in esame la possibilità di considerare la storia come frutto, come dice dalle prime pagine di Orientalism, di un volontario operare umano, non di un semplice raziocinare.
Concludiamo con una citazione di Orientalism: «ricordando che lo studio dell'esperienza umana ha di solito
conseguenza etiche, per non dire politiche, di grande importanza sia in bene sia in male, non saremo indifferenti al
modo in cui ci comportiamo come studiosi. E quale migliore regola di condotta per uno studioso se non coltivare la
libertà umana e la conoscenza? Forse dovremmo anche non dimenticare che lo studio dell'uomo nella società si basa sulla storia e sull'esperienza concreta, e non su astrazioni pedanti, o su oscure leggi e arbitrari sistemi.» (Said,
1978: 325) Questa è una delle più ferma affermazioni del senso dell'umanesimo saidiano. L'umanista non deve ritrovare una impossibile natura umana, ma impedire la formazione di una idea stabile di natura umana, che
esclude la possibilità di una sua concezione storica e plurale.
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Nota biografica
Mauro Scalercio si è laureato presso la Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” dell'Università di Bologna, sede di Forlì, con una tesi dal titolo Decostruire la modernità politica occidentale: la riflessione postcoloniale. Attualmente
è iscritto alla Scuola di dottorato in Filosofia – indirizzo di Filosofia politica e storia del pensiero politico,
dell'Università di Padova. La sua dissertazione verterà sulla categoria di umanesimo per come sviluppata da Edward Said attraverso la rilettura di Giambattista Vico, rivolgendo particolare attenzione al tema della storia.
Trickster - Rivista del Master in Studi Interculturali - ISSN 1972-6767
Dipartimento di Storia, Università di Padova, via del Vescovado 30, 35141 Padova - [email protected] - SkypeMe - Informativa sulla privacy - Entra
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