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Tesi in pdf - Marco Montemurro

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Tesi in pdf - Marco Montemurro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA
TOR VERGATA
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea:
EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO
Tesi di laurea in:
ANTROPOLOGIA CULTURALE
EDWARD W. SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE.
L'IMMAGINE DEL MEDIO ORIENTE NEI MEDIA.
Relatore:
Laureando:
Chiar.mo prof. Pietro Vereni
Marco Montemurro
Matricola: 0116058
Correlatore:
Chiar.mo prof. Raul Mordenti
Anno Accademico
2008/2009
INDICE
INTRODUZIONE
1
EDWARD W. SAID
3
PARTE 1 CULTURA E POTERE
CAPITOLO 1 L'ORIENTALISMO
4
7
L'inventario delle tracce
7
L'immagine dell'Oriente
8
Conoscenza e potere
8
La coerenza discorsiva
9
CAPITOLO 2 L'EGEMONIA
11
Cultura e Imperialismo
11
L'egemonia
12
Lo sguardo del colonizzatore
13
L'Oriente subalterno nella cultura
14
CAPITOLO 3 LE FORME DELLA CONOSCENZA
16
La conoscenza è sociale
16
Le discipline sono istituzioni
17
L'orientalismo in politica estera
17
In polemica con Bernard Lewis
18
CAPITOLO 4 LE RAPPRESENTAZIONI
20
Estetica e interesse
20
Non esiste un Oriente ‘reale’
21
Il consumo delle immagini
22
PARTE 2 I MEDIA
CAPITOLO 5 LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE
24
27
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
I mass media
27
La fabbrica del consenso
28
Come si produce l'informazione
28
La rapidità della comunicazione giornalistica
29
Linguaggio e appartenenze collettive
30
Gli esperti
31
I corrispondenti
31
CAPITOLO 6 DESCRIVERE L’ISLAM
33
Covering Islam
33
Facili generalizzazioni
34
Disattenzione sulla storia
34
CAPITOLO 7 CONTRASTI MEDIATICI
36
Ostilità televisive
36
L'orientalismo riflesso
37
Diverse rappresentazioni dell'Islam
38
CAPITOLO 8 RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA
40
La rivoluzione iraniana
40
La stampa statunitense
41
Informazione e politica
41
Un giornalismo onesto
42
Il salvataggio fallito e le ripercussioni sui media
43
CAPITOLO 9 IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
45
Said e la Palestina
45
Raccontare la storia
46
L'hasbara e la propaganda
47
La copertura mediatica
49
La scelta del linguaggio
52
Seguire l'esempio della lotta sudafricana
53
Informazione e partecipazione
55
PARTE 3 GLI INTELLETTUALI
58
CAPITOLO 10 L’UMANESIMO
61
II
INDICE
I valori dell'umanesimo
61
La resistenza umanistica
62
Contro il canone
63
L'umanesimo è democratico
64
CAPITOLO 11 IL CONTRAPPUNTO
66
La musica
66
La mondanità della cultura
67
La letteratura comparata e la filologia
67
Il mutamento
68
CAPITOLO 12 L’INTELLETTUALE PUBBLICO
69
Il ruolo sociale degli intellettuali
69
Professionisti e dilettanti
70
Il valore dell'esilio
71
L'impegno sociale
72
Contrastare le rappresentazioni del potere
73
Offrire alternative
74
CONCLUSIONI QUANTO È ATTUALE SAID
76
BIBLIOGRAFIA
82
III
INTRODUZIONE
Sono molti gli elementi del pensiero di Edward W. Said che destano interesse, ma in questo
lavoro ho posto l’attenzione in modo particolare alle sue analisi sull'imperialismo culturale e
sulle rappresentazioni dei media. Di fronte alla straordinaria vivacità intellettuale di questo
autore, che sapeva articolarsi in una vasta gamma di riflessioni, nel seguente lavoro ho scelto di
raccogliere i vari argomenti in diverse parti, ognuna dedicata a un particolare ambito.
Inizialmente ho esposto gli aspetti teorici di Said, vale a dire i suoi celebri giudizi
sull'orientalismo e sull'egemonia che il potere esercita, evidenziando in essi il ruolo delle
rappresentazioni, componenti essenziali per comprendere i messaggi dei media. In seguito ho
mostrato come l'autore applica le sue teorie ad alcuni contesti specifici di comunicazione,
riportando quindi e valutando le sue analisi critiche sulla copertura giornalistica, per poi
concludere descrivendo la modalità che ritiene migliore per rapportarsi alla cultura.
Il nesso tra potere e cultura è un argomento cruciale nelle riflessioni di Said, cosicché ho
esaminato questa problematica sulla quale si basano le sue opere più celebri, Orientalism e
Culture and Imperialism. Dal momento che nessun discorso può pretendere di essere neutrale, ho
ritenuto molto interessanti le sue osservazioni sui legami tra la conoscenza, chi la produce e il
contesto in cui agisce. Considero questo tema estremamente rilevante dato che induce a indagare
la funzione di coloro che elaborano ed espongono il sapere, vale a dire il ruolo degli intellettuali
e dei media nella società.
Mi hanno affascinato dunque le considerazioni di Said sulla costruzione e sulla diffusione
delle notizie, processi che favoriscono il sorgere di rappresentazioni faziose in quanto, essendo
interpretazioni della realtà, sono inevitabilmente influenzate dai rapporti di potere. Per esporre il
pensiero dell'autore su questa materia ho analizzato Covering Islam, opera che prende in esame
le distorsioni che avvengono riguardo alla copertura mediatica del Medio Oriente, e ho passato
in rassegna molti suoi articoli sul conflitto israelo-palestinese, cercando di sintetizzare al meglio
le sue critiche a proposito della condotta di televisioni e stampa.
Ho ritenuto stimolanti, inoltre, le proposte che Said intende offrire a coloro che operano nel
campo della conoscenza, ovvero ai professori, ai giornalisti e agli intellettuali di vario genere.
Invita a rivalutare il concetto di umanesimo, in quanto considera la storia e la cultura frutto della
società e legate alla contingenza, e suggerisce di mettere in relazione le diversità ispirandosi
all'arte del contrappunto. Tale concetto, tratto della teoria musicale, se applicato all'analisi
culturale induce a scoprire i legami sottostanti alle varie espressioni, evidenziando gli aspetti che
accomunano insieme l'umanità. Secondo l'autore spetta agli intellettuali sia dimostrare che le
differenze non comportano necessariamente ostilità, sia criticare coloro che esaltano solamente
una parte, considerata depositaria della ragione. In tal modo sollecita a controbattere le
informazioni faziose e le false giustificazioni, insomma tutti quei discorsi, così comuni nei
media, che tendono a separare l'umanità entro rigide identità incomunicabili. Reputo pertanto
che conoscere Said possa essere importante, poiché invita a non considerare l'alterità un'entità
estranea e stimola a riflettere sui discorsi che quotidianamente riceviamo dalle televisioni e dai
giornali e che ripetiamo nelle nostre conversazioni.
Infine, cogliendo le esortazioni di Said a contestualizzare la cultura, ho voluto inquadrare
l'autore stesso nel periodo storico entro il quale scrisse le sue opere, per valutare quali idee siano
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
ancora attuali e quali altre invece necessitino un ripensamento. Riflettendo sul suo pensiero, ho
ritenuto doveroso ricordare i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni, per poter così trarre da
Said insegnamenti costruttivi, applicabili al contesto odierno.
2
EDWARD W. SAID
Edward Wadie Said nacque a Gerusalemme nel 1935 da genitori palestinesi. La sua famiglia,
araba di religione cristiana battista, era risiedente a Il Cairo, città dove il padre possedeva
un'attività commerciale dedita alla vendita di macchine da scrivere e forniture per uffici. Il padre
di Said, essendosi arruolato nell'esercito statunitense durante la prima guerra mondiale, ottenne
la cittadinanza americana, diritto del quale beneficiarono anche i figli.
A parte qualche viaggio in Palestina e i periodi estivi trascorsi in Libano, Said visse durante
l'infanzia e la giovinezza in Egitto. Nella capitale Il Cairo frequentò gli istituti scolastici e i club
sportivi gestiti dagli inglesi e dagli americani, frequentati dalle élite arabe e straniere dell'epoca.
Gli fu impartita pertanto un'educazione secondo i canoni di istruzione britannica.
All'età di sedici anni si trasferì negli Stati Uniti, paese nel quale terminò le scuole superiori e
proseguì gli studi dedicandosi alla letteratura nelle università di Princeton e Harvard.
Per il resto della sua vita risiedette a New York, dove insegnò letteratura comparata presso la
Columbia University. Benché vissuto sempre lontano dalla sua città natale, Gerusalemme, e dalla
regione mediorientale nella quale trascorse la gioventù, Said sentì forte il legame con le sue
origini. Nel 1977 divenne un membro del Palestinian National Council, il parlamento in esilio
fondato dall'Olp, e si impegnò costantemente per denunciare pubblicamente i soprusi di Israele
nei confronti dei palestinesi.
In disaccordo con le politiche dell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina)
guidata da Yasser Arafat, nel 1991 si dimise dal suo incarico, ma continuò a difendere i diritti dei
palestinesi tramite i suoi interventi sui giornali. Criticò duramente gli accordi di Oslo firmati tra
Olp e Israele nel 1993, documenti da lui accusati di non tener conto dei rifugiati del 1967.
È morto a New York nel 2003, dopo aver vissuto gli ultimi dodici anni della sua vita sapendo
di essere afflitto da una leucemia, periodo durante il quale scrisse la sua autobiografia Out of
Place1.
1
Edward Said, 1999, Out of place: A Memoir, London, Granta Books; trad. it. 2009, Sempre nel posto sbagliato.
Autobiografia, Milano, Feltrinelli.
PARTE 1
CULTURA E POTERE
CULTURA E POTERE
La prima parte della tesi è dedicata a un tema basilare, il nesso tra la produzione culturale e il
potere vigente. La cultura, sotto qualsiasi forma si manifesti, non è un'entità disincarnata, bensì il
frutto di determinate situazioni storiche e geografiche; e di volta in volta prende forma in base
alle esigenze della società, a seconda delle forze che legano le persone. La combinazione di
cultura e potere produce dunque conoscenze che sono strettamente correlate alla contingenza; si
diffonde così un insieme di nozioni che ha la capacità di influenzare le rappresentazioni più
diffuse, i pensieri e i discorsi.
Ho scelto di suddividere l'esposizione di questo complesso argomento in quattro capitoli,
ognuno focalizzato su un specifico aspetto del pensiero di Said. Lo studio comincia con
un’analisi dell'opera più importante da lui scritta, Orientalism1, esponendo il significato
dell'orientalismo e ripercorrendo la formazione e il consolidamento dei giudizi sull'Oriente. Ho
evidenziato così le osservazioni dell'autore sulle modalità con le quali le ricerche furono
condotte, critiche su cui si basano le sue analisi sul sapere.
Per comprendere l'orientalismo bisogna inquadrarlo entro il contesto politico nel quale ha
avuto successo, quindi è necessario studiare l'epoca coloniale e il ruolo egemonico delle nazioni
imperialiste. La cultura europea si arrogò il potere di giudicare il resto del mondo e tale
prerogativa produsse conseguenze durature sia nei paesi subordinati, sia nei paesi occidentali.
Ho preso in considerazione pertanto Culture and Imperialism2, testo nel quale Said analizza le
opere letterarie europee alla luce del contesto storico coloniale.
In seguito ho ritenuto importante riportare i commenti riguardo al campo della
conoscenza, dal momento che Said riflette sulla natura sociale del sapere e sugli effetti
dell'istituzionalizzazione delle discipline. Secondo l'autore le ricerche, agendo sempre
all'interno di un determinato contesto storico, acquistano facilmente autorità quando
soddisfano i poteri in carica. Soprattutto nel suo libro Covering Islam3 critica l'interesse
dell'orientalismo e degli area studies nel perseguire alcuni obiettivi economici e politici,
coinvolgimento che spiega perché determinare nozioni, benché non siano necessariamente
veritiere, riescano a ottenere successo a tal punto da divenire accettate nel senso comune.
Infine concludo questa prima parte riportando le osservazioni di Said sul ruolo delle
rappresentazioni, teorie interessanti in quanto ritiene che nessuno studio può pretendere di essere
completamente oggettivo poiché tutti i discorsi si basano su interpretazioni. Di conseguenza, la
verità non esiste in maniera assoluta, ma è solo una questione di grado, e nel campo della cultura
non sussistono entità naturali in quanto le identità sono sempre costruite socialmente. Le
rappresentazioni inoltre pervadono tutta la conoscenza, non solo nel settore delle ricerche, ma
anche nelle comunicazioni trasmesse dai media. Riguardo all'immagine del Medio Oriente,
televisioni, giornali e film quotidianamente mostrano rappresentazioni che, essendo un prodotto
1
2
3
Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in
Europa. Milano, Feltrinelli.
Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.
Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti.
Edward Said, 1997, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World.
Revised Edition, New York, Vintage Books.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
della cultura, non sono prive dell'influenza del potere. L'orientalismo pertanto non è terminato
con la fine del colonialismo; poiché è uno sguardo che si basa sul dominio di una parte sull'altra,
tale condotta culturale persiste, acquisendo però forme e linguaggi adatti ai tempi.
6
CAPITOLO 1
L'ORIENTALISMO
L'Oriente presentato dall'orientalismo è quindi un sistema di rappresentazioni
circoscritto da un insieme di forze che introdussero l'Oriente nella cultura
occidentale, poi nella consapevolezza occidentale, e infine negli imperi coloniali
occidentali.
(E. Said, Orientalismo, p. 201)
L'inventario delle tracce
Said nacque e crebbe rispettivamente in Palestina e in Egitto, territori dove vigeva il potere
britannico. La sua famiglia era araba di religione cristiana, visse come straniero a Il Cairo dove
ricevette un'educazione anglosassone, e poi risiedette a New York. Questa combinazione di
elementi e il conflitto tra appartenenze contrastanti hanno formato la sua personalità, e lo
indussero a concentrarsi sulla storia della sua cultura. Volle così indagare in profondità le sue
origini, e quelle delle regioni dove visse, cosicché nel 1978 pubblicò la ricerca che lo rese
famoso, Orientalism1. Il testo diede avvio a molte riflessioni e commenti poiché racconta da un
insolito punto di vista, fortemente critico, l'immagine dell'Oriente che ha preso forma in Europa
e negli Stati Uniti.
Lo studio sull'orientalismo ha origine dalla storia personale di Said perchè viene analizzato il
contesto culturale entro il quale lui stesso visse. Per spiegare le motivazioni della sua opera,
nell'introduzione scrisse che fu affascinato quando lesse nei Quaderni del carcere di Antonio
Gramsci che
l'inizio dell'elaborazione critica è la conoscenza di quello che è realmente, cioè un 'conosci te
stesso' come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un'infinità
di tracce accolte senza beneficio d'inventario2.
Leggendo il testo italiano scoprì in seguito che nell'edizione inglese era stata inspiegabilmente
omessa la frase successiva, il proposito “occorre fare inizialmente un tale inventario”. Ispirandosi a
quell'ultimo invito Said rivela appunto che
da molti punti di vista, questa ricerca sull'orientalismo rappresenta uno sforzo per redigere
l'inventario delle tracce depositate in me, orientale, dalla cultura il cui predominio è stato un
elemento così importante nella vita di tanti orientali3.
1
2
3
Edward Said, Orientalismo, cit.
Antonio Gramsci, 1975, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, p. 1376, cit. in Edward Said, Orientalismo, cit., p. 34.
Edward Said, Orientalismo, cit., p. 34.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
L'immagine dell'Oriente
Con il termine orientalismo nell'opera si intende il modo con il quale sono state osservate le
regioni orientali, focalizzandosi in particolare sui giudizi che furono espressi sui paesi del Medio
Oriente. Said critica le rappresentazioni che sono state elaborate, piene di immagini poco
realistiche, spiegando come queste siano state plasmate da vari fattori nel corso degli anni,
processo avvenuto soprattutto a partire dal XVIII secolo, fino a consolidarsi nel XIX. Molti
studiosi e viaggiatori si mossero in quel periodo verso l'Est dall'Europa, in particolare
provenienti dalle potenze coloniali come la Gran Bretagna e la Francia, e ognuno tornò portando
con sé un bagaglio di descrizioni. Con il tempo le loro osservazioni assunsero l’aspetto di un
corpo coeso, le ricerche furono istituzionalizzate e venne creata una disciplina vera e propria.
L'orientalismo è stato dunque il sistema di rappresentazioni con il quale si introdusse l'Oriente
nella cultura occidentale.
L'Oriente fu visto come radicalmente diverso dall'Europa e fu descritto con toni sprezzanti
poiché a questo vennero associate caratteristiche negative. Il dispotismo, l'irrazionalità e
l'arretratezza, ad esempio, furono attribuite agli orientali, e allo stesso tempo le qualità opposte,
positive come il progresso, la razionalità e il governo civile furono ritenute proprie
dell'Occidente. Tali giudizi secondo Said erano una proiezione dell'Occidente sui paesi
mediorientali. Grazie alle descrizioni di quel che era estraneo, tramite la raffigurazione
dell'opposto, i paesi europei hanno potuto definire se stessi. L'alterità non veniva compresa
cercando di percepire i significati delle differenze. Vennero invece utilizzati i parametri di
giudizio appartenenti allo sguardo dell'osservatore europeo, cosicché all'Oriente furono connesse
caratteristiche che incutevano timore
Tali rappresentazioni alimentarono i sentimenti di ostilità, ma consolidarono anche la
necessità di dover osservare quel che era diverso. Per poter arginare le minacce era necessario
conoscere i paesi stranieri. L'Oriente venne così studiato dalle nazioni europee per poterlo
controllare meglio, per perpetuare la dominazione.
Conoscenza e potere
Il rapporto tra Oriente e Occidente è appunto una questione di potere, di dominio, nel quale
sono coinvolte forme di egemonia. Said si sofferma quindi sul periodo nel quale l'Oriente entrò a
far parte dei paesi europei, i secoli del colonialismo e della formazione degli imperi.
Un evento rilevante ad esempio fu lo sbarco di Napoleone in Egitto, arrivo che mise in
evidenza la debolezza dei paesi mediorientali. Successivamente si instaurarono poteri francesi e
inglesi in Medio Oriente, così come avvenne nel resto del mondo. Non fu casuale che allora gli
orientali fossero descritti nel loro ruolo passivo, con una mentalità fatalista e disposti, quasi per
loro natura, ad essere dominati. È evidente per Said il legame tra i racconti degli orientalisti e il
potere politico artefice dell'imperialismo. In Orientalism invita infatti a ripensare gli studi sul
Medio Oriente evidenziando i rapporti tra conoscenza e potere in quanto è proprio l'intreccio di
questi elementi che ha creato “l'Oriente”, con tutte le immagini stereotipate a questo connesse.
Benché le discipline orientaliste pretendano di essere obiettive, acquisendo una retorica
razionalista e distaccata, Said mette in evidenza come siano invece immerse nelle circostanze
storiche, reali, permeate dalla politica. L'Oriente, nel suo ruolo subordinato all'Occidente,
apparve muto, privo della possibilità di esprimersi in maniera autonoma, e poiché esso aveva
bisogno di essere rappresentato, le sue storie furono espresse con le parole e la voce
8
L’ORIENTALISMO
dell'Occidente. Solo gli europei furono considerati in grado di poter inquadrare l'Oriente nel
presente, altrimenti esso sarebbe rimasto nel passato, nella sua dimensione atemporale, arretrata
rispetto allo sviluppo delle nazioni civili.
La coerenza discorsiva
C'è un nesso tra l'immaginazione europea, espressa negli scritti dei viaggiatori, e il presupposto
silenzio dei popoli orientali. Said evidenzia questo legame soffermandosi sull'importanza dei testi
per i ricercatori orientalisti. Sostiene che la scrittura ha giocato un ruolo fondamentale nella
formazione e nella diffusione delle rappresentazioni tipiche dell'orientalismo. Chi doveva recarsi
nei paesi mediorientali faceva ricorso alle opere dei viaggiatori, cioè agli studi già svolti sulla
regione e sulle tradizioni locali. I testi, qualora avessero dimostrato di essere attendibili, vennero
considerati autorevoli, cosicché le esperienze dei lettori erano sempre influenzate dalle conoscenze
precedenti. A loro volta i futuri scrittori venivano indotti a trattare gli argomenti con la medesima
maniera espressa nelle opere già affermate. Secondo Said tale processo favorì il perpetuarsi di un
medesimo pensiero sull'Oriente. Scrive infatti che un
testo può creare non solo la conoscenza ma anche la realtà effettiva di ciò che descrive. Nel
tempo, conoscenza e realtà producono una tradizione, o ciò che Michel Foucault chiama un
“discorso”, il cui peso e la cui concreta esistenza, più che l'originalità dei suoi autori, sono la
vera fonte dei testi che da essa traggono spunto4.
Così si perpetuò un insieme di pensieri ritenuti veritieri, dei quali era necessario sempre tener
conto. L'Oriente venne inquadrato in un sistema di definizioni impersonali. Spiega Said che in tal
modo si creò una conoscenza uniforme, comunemente accetta, ed entro la quale “gli orientalisti
trattarono vicendevolmente i loro scritti in un'unica maniera, di cui la citazione era il cardine”5. Tutte
le rappresentazioni dell'Oriente in Europa, sia le opere degli studiosi sia i racconti di testimonianze
personali, per poter essere accettate dovevano adeguarsi alle visioni divenute diffuse. Scrive Said che
le rappresentazioni dell'orientalismo nella cultura europea corrispondono a ciò che si potrebbe
chiamare una coerenza discorsiva6.
Le descrizioni agivano entro uno stesso spazio che era preesistente allo scrittore, entro il
quale quest'ultimo doveva trovare una posizione. Ribadendo l'importanza del nesso tra cultura e
contingenze storiche, Said afferma che nessuno può essere completamente originale quando crea
un'opera, poiché ogni attività è condizionata dal repertorio di immagini dal quale si trae
ispirazione, e questo è necessariamente limitato.
L'orientalismo si può individuare non soltanto nelle parole dei discorsi, così come sono
esplicitamente espresse, ma anche a un livello sottostante. Said percepisce una medesima cornice
teorica che sorregge tutte le descrizioni, e ipotizza l'esistenza di un orientalismo latente. Tale
orientalismo, distinto da quello manifesto, esplicito, permette l'esistenza stessa delle descrizioni
in quanto rende accettati gli enunciati. L'autore spiega questo concetto scrivendo che
a chiunque intendesse parlare dell'Oriente in modo da farsi ascoltare, l'orientalismo latente
assicurava tutta la necessaria capacità enunciativa, tutto ciò che occorreva per un sensato
4
5
6
Ivi, p 99.
Ivi, p 168.
Ivi, p. 269.
9
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
discorso su ogni questione all'ordine del giorno7.
Said non intende tuttavia affermare che tutti gli studi condotti in Europa siano infondati, privi
di validità poiché basati solo su vaghe congetture. Ovviamente riconosce i meriti e i contributi
della geografia e della storia, materie che si sono sviluppate ricercando l'oggettività. Evidenzia
però la costante presenza di un secondo piano di conoscenza, dall'autore definita
“immaginativa”, che pervade il campo del sapere. Scrive infatti che “vi è qualcosa di più di
quella che sembra una conoscenza puramente obiettiva”8. Una dose di immaginazione è presente
in ogni discorso, pertanto anche gli enunciati che pretendono di mostrarsi oggettivi, in realtà non
sono immuni dalle influenze del contesto entro il quale prendono luogo.
7
8
10
Ivi, p. 220.
Ivi, p 61-62.
CAPITOLO 2
L'EGEMONIA
Il punto centrale – molto gramsciano – è capire come le culture nazionali
dell'Inghilterra, della Francia e degli Usa siano riuscite a mantenere la loro
egemonia sulle periferie del mondo, e come all'interno delle metropoli crescesse e
continuamente si consolidasse il consenso generale circa il dominio di lontani
territori e popoli nativi.
(E. Said, Cultura e Imperialismo, p. 76)
Cultura e Imperialismo
Nel 1993 Said pubblicò Culture and Imperialism, un'opera che, come Orientalism, rivitalizzò
un intero campo di ricerca. Frutto di anni di lavoro, il libro presenta una visione insolita delle
opere letterarie europee del XVIII, XIX e inizio XX secolo. Alcuni classici della narrativa
vengono analizzati alla luce delle circostanze storiche e politiche entro le quali vivevano gli
autori. I testi prodotti nella cultura europea, specialmente inglese e francese, vengono letti
cercando di cogliere quel che è implicito, il contesto che alcune volte emerge tra le righe e altre
volte viene celato. Il personaggio di Robinson Crosue scritto da Daniel Defoe, ad esempio, è il
chiaro campione del modello di autorità riprodotto nella narrazione. Jane Austen viene
considerata in relazione alla presenza coloniale britannica nelle Antille1 e Rudyard Kipling
strettamente legato al dominio britannico in India2. Joseph Conrad viaggia perseguendo gli
interessi commerciali europei in Africa e Asia, Albert Camus raffigura l'Algeria dominata dai
francesi e William Butler Yeats l'Irlanda in lotta contro la Gran Bretagna. Intende individuare
quel che è nascosto dietro le opere, stimolato dall'osservazione di Walter Benjamin per il quale la
cultura “non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento di barbarie3”.
Per Said il romanzo nel suo complesso, inteso come finzione culturale della società borghese, è
in stretta relazione con l'imperialismo.
Nella maggior parte delle sue opere Said affronta il tema del dominio; riflette sul
funzionamento del potere indagando come sia possibile che persista nel tempo. Studia i secoli
del colonialismo europeo e l'espandersi delle amministrazioni oltreoceano, specialmente nel XIX
secolo. Tra il 1815 e il 1914 i domini dell'Europa passarono dal 35% all'85% circa delle terre
emerse, e gli imperi coloniali si stabilirono in tutti i continenti. In India, al culmine del suo
potere, la Gran Bretagna regnava su trecentocinquanta milioni di abitanti, con un numero di
residenti inglesi inferiore alle centomila persone. Said è interessato a studiare proprio questo
aspetto. Vuol capire non solo come quella situazione sia stata realizzata dal punto di vista storico
ed economico, ma soprattutto come sia stato possibile che una minoranza così esigua di inglesi
1
2
3
Jane Austen, 1814, Mansfield Park, London, Egerton; trad. it.1988, Mansfield Park, Milano, Garzanti.
Rudyard Kipling, 1901, Kim, London, MacMillan & Co; trad. it. 1990, Kim, Milano, Mondadori.
Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in 1974, Gesammelte Schriften, Frankfurt, Suhrkamp Verlag; trad.
it. 1997, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, p. 31, cit. in Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 339.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
sia riuscita a mantenere il dominio su un vastissimo paese, e per così tanto tempo. In Orientalism
si pone questa questione quando riflette che
l'importante, verso la fine del secolo scorso, non era che l'Occidente avesse penetrato e
conquistato l'Oriente, ma il modo in cui inglesi e francesi ritenevano di esservi riusciti4.
Said medita ad esempio sulle strategie che le autorità britanniche idearono per poter rendere
accettabile il loro governo. In India l'amministrazione coloniale, quando doveva annunciare la
nomina di un nuovo sovrano inglese, per ribadire meglio la sua autorità svolgeva cerimonie
conciliandole con la tradizione indiana. Per celebrare il conferimento del titolo di imperatrice
alla regina Vittoria, nel 1877 gli inglesi svolsero i Durbar, cioè un gran numero di rituali e
processioni secondo le usanze locali. In tal modo il governo coloniale si attribuì una forte
legittimità, pretendendo di inserirsi nel contesto della storia indiana5.
L'egemonia
Per Said l'imperialismo per poter essere accettato, sia da chi esercita il potere sia dai dominati,
ha bisogno di creare una giustificazione, una ragione per difendere se stesso. Nelle sue opere cita
spesso Joseph Conrad perché lo considera un rappresentante dell'imperialismo atipico. Durante
le sue numerose spedizioni nei vari continenti seppe comprendere gli aspetti negativi dei domini
coloniali6. Said rimase affascinato da una frase espressa da Marlow, personaggio del romanzo
Heart of Darkness, parole lucide nel definire l'essenza del potere ogni volta che viene esportato
con la forza nel mondo:
la conquista della terra, che in genere vuol dire portarla via a chi ha una pelle diversa dalla
nostra o un naso un po' più schiacciato, a pensarci bene non è proprio una bella cosa. Ciò che la
riscatta è soltanto l'idea. Un'idea che la sostenga; non una finzione sentimentale, ma un'idea, e
una fede disinteressata nell'idea – qualcosa che si possa innalzare, davanti a cui inchinarci, a
cui offrire un sacrificio7.
Gli imperi in effetti ebbero bisogno di elaborare una ragione che potesse giustificare le
proprie politiche. È stata definita in vari modi: la missione civilizzatrice, la volontà di portare il
progresso, la lotta contro i tiranni, ma tutti questi aspetti, ricordando le parole di Conrad, non
sono altro che ideologie che intendono giustificare il dominio. Sono un arsenale composto, non
da cannoni e fucili, ma da teorie e retoriche. Scrisse infatti Said:
la costruzione di un impero, per realizzarsi, deve essere sostenuta dall'idea di avere un impero
(…) e a tal fine tutta la preparazione necessaria viene fatta nel campo della cultura8.
4
5
6
7
8
12
Edward Said, Orientalismo, cit., p 209.
Edward Said, 2000, Reflections on exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press; trad. it. 2008, Nel
segno dell'esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, p. 642. Edward, Said, Cultura e Imperialismo,
cit., p. 343.
Said dedicò la tesi di laurea alla personalità di Conrad, sforzandosi di individuare i conflitti interiori che lo
caratterizzarono. Edward Said, 1966, Joseph Conrad and the Fiction Autobiography, Cambridge, Harvard University
Press; trad. it. 2008, Joseph Conrad e la finzione autobiografica, Milano, Il Saggiatore.
Joseph Conrad, Heart of Darkness, in Youth and Two Other Stories, Doubleday, Garden City, p. 50-51; trad. it 1996,
Cuore di tenebra, Milano, Frassinelli, p. 45.
Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 36.
L’EGEMONIA
Said dedica attenzione ai rapporti di potere, a come si instaura la connessione tra due forze
apparentemente lontane e differenti. Apprezza il concetto di egemonia così come è stato
elaborato da Gramsci perché ritiene che possa essere una chiave di lettura per comprendere, non
solo i rapporti tra le classi sociali, ma anche il legame tra un impero e le colonie, tra i centri
metropolitani di governo e le periferie. Il professore Giorgio Baratta ha evidenziato proprio
questo aspetto di Said, vale a dire quanto il suo pensiero sia concorde con le analisi di Gramsci,
poiché anch’egli ritiene che i governi, per poter rimanere in carica, hanno bisogno di esercitare
costantemente il potere, sia con il dominio della forza sia con l'influenza della cultura9. Sostiene
infatti Said che le classi dominanti ricoprono un ruolo dirigente grazie alla loro capacità di essere
egemoni, essendo riusciti a trasmettere alle classi subalterne valori idonei al mantenimento di un
consenso favorevole verso di loro. Anche il rapporto tra nazioni e continenti, tema al quale è
interessato Said, è affrontato nei Quaderni del carcere, dove è scritto che
ogni rapporto di ‘egemonia’ è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo
nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo
internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali10.
Gramsci distinse tra dominio ed egemonia, il primo inteso come gli apparati coercitivi della
società politica e il secondo come la capacità delle classi dominanti di trasmettere valori. In
maniera analoga Said separa il colonialismo dal concetto di imperialismo. Le colonie
rappresentano l'esercizio effettivo del potere in terre lontane, invece l'imperialismo è la
formazione ideologica indispensabile per mantenere il potere. Per governare è necessario
diffondere l'idea che “certi territori e certi popoli necessitino e richiedano di essere dominati”11.
Lo sguardo del colonizzatore
Le maggiori potenze imperialiste del XIX secolo, la Gran Bretagna e la Francia, si distinsero
non solo per i vasti domini, ma anche per la mole di studi sui popoli stranieri, conoscenze
utilizzate per amministrare i territori. Said si sofferma sui legami tra l'antropologia e
l'imperialismo, mostrando che le ricerche furono condotte perché erano funzionali ai governi
coloniali. Spiega infatti che
la storia dei vari campi del sapere quali la letteratura comparata, gli studi inglesi, la critica,
l'antropologia, può essere vista in connessione con l'impero e, in un certo senso, come un
elemento che ha contribuito al mantenimento del dominio occidentale sui nativi nonoccidentali12.
Ricorda appunto che solo di recente nel campo dell'antropologia è cominciata una riflessione
sul rapporto tra l'imperialismo e gli studi etnografici condotti nei decenni passati, in epoca
coloniale. L'autore invita a prendere coscienza che le ricerche occidentali sul mondo non
europeo si sono sviluppate con un approccio da dominatore. Quando uno studioso europeo, ad
esempio, si pone l'intenzione di studiare un paese non occidentale agisce, anche simbolicamente
e indirettamente, il potere dell'Occidente nella conduzione delle ricerche.
9
10
11
12
Giorgio Baratta, 2007, Antonio Gramsci in contrappunto, Roma, Carocci.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 1331, cit. in Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto, cit., p.
37.
Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p 35.
Ivi, p. 76.
13
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
Una conseguenza dell'imperialismo nei continenti secondo Said è stata l'aver teorizzato e
fissato identità rigide. Alle varie popolazioni furono attribuite caratteristiche particolari, descritte
nelle ricerche e nei resoconti di viaggio. L'orientalismo ad esempio creò un'immagine canonica
degli arabi e dei musulmani, e anche nel resto del mondo i vari poteri coloniali contribuirono a
delineare allo stesso modo identità ben definite. Come sono stati orientalizzati gli orientali, così
sono stati africanizzati gli africani, e il processo analogo fu ripetuto negli altri continenti. Per
Said la classificazione delle culture è un frutto dell'imperialismo, che tende ad accentuare le
divisioni per meglio controllare i territori. Ovviamente un'altra distinzione che venne mantenuta
forte e invalicabile fu quella tra il colonizzatore e il colonizzato.
Nelle sue opere cita spesso i testi di Frantz Fanon, soprattutto quando riflette sulla logica della
separazione nelle colonie e sulla persistenza della dialettica oppositiva soggetto/oggetto13.
Questa realtà comporta necessariamente uno stato di subordinazione, la presenza di forti
diseguaglianze e prepara il nascere di aperti e violenti conflitti.
L'Oriente subalterno nella cultura
Un aspetto interessante che Said mette in rilievo è dunque la capacità dell'Occidente di aver
influito nel resto del mondo, lasciando ovunque tracce del suo dominio. I discorsi tipici
dell'orientalismo, ricchi di immagini denigratorie nei confronti degli arabi e dei musulmani, sono
diventati comuni non solo in Occidente, ma si sono diffusi anche nei paesi mediorientali. Tale
fenomeno non si è realizzato tramite un processo unidirezionale, frutto di una passiva ricezione.
Vi è stata un'elaborazione attiva da parte degli orientali. Said su questo tema afferma
chiaramente che “l'Oriente moderno è complice della sua stessa 'orientalizzazione'”14.
Spiega che oggi i paesi arabi hanno una posizione subalterna nel campo della cultura perché
non hanno saputo sviluppare una propria autonomia. In Orientalism critica il mondo
universitario in Medio Oriente, affermando che gli istituti arabi “funzionano generalmente
ispirandosi a schemi ereditati, e a suo tempo imposti, da un'ex potenza coloniale”15, cosicché “le
principali linee di sviluppo della cultura mediorientale si ispirano a modelli europei e
americani”16. Anche gli studi più prestigiosi sul mondo arabo non sono condotti in Medio
Oriente perché i centri d'eccellenza sono attualmente a Oxford, a Harvard e all'Ucla. Said
denuncia che quando uno studioso arabo collabora con le università statunitensi questo è
considerato semplicemente un “informatore indigeno”, apprezzato per aver sviluppato la
capacità di padroneggiare il sistema orientalista17. L'Occidente pertanto gestisce attualmente il
controllo dei maggiori poli culturali del mondo. Said fa notare infatti che, in tutto il mondo
islamico, non vi è una biblioteca centrale di testi arabi. Chiunque intenda specializzarsi nei
cosiddetti studi sul Medio Oriente necessariamente si deve documentare in biblioteche di istituti
americani o europei. Nel mondo accademico poi i rapporti internazionali tra le università sono
disuguali. Ad esempio negli Stati Uniti scoppiano proteste se i paesi musulmani donano denaro
per finanziare gli studi arabi o islamici perché viene subito denunciata l'ingerenza di paesi
stranieri. Il pericolo invece non è percepito quando vengono ricevuti fondi da paesi come la
Germania o il Giappone18. Gli effetti del dominio culturale si mantengono pertanto nel tempo,
13
14
15
16
17
18
14
Frantz Fanon, 1961, Les damnés de la terre, Paris, Maspéro; trad. it. 1962, I dannati della terra, Torino, Einaudi.
Edward Said, Orientalismo, cit., p. 323.
Ivi, p. 320.
Ivi, p. 321.
Ibid.
Edward Said, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World. Revised
L’EGEMONIA
hanno radici storiche e durano fino ai giorni nostri.
Edition, cit., p. lviii.
15
CAPITOLO 3
LE FORME DELLA CONOSCENZA
La tendenza dell'accademia a concentrare l'attenzione sull'appartenenza a una
corporazione può avere infatti l'effetto di limitare il senso critico degli studiosi.
[…] La tendenza all'accettazione passiva, corporativa e acritica delle principali
dottrine del proprio campo rappresenta a mio parere il più grande rischio che
grava su ricercatori, docenti e studiosi.
(E. Said, Nel segno dell'esilio, p. 553-554)
La conoscenza è sociale
Tutti gli studi, ma specialmente quelli in ambito umanistico, non possono definirsi oggettivi
in quanto ogni conoscenza è basata su interpretazioni. Chiunque intenda descrivere fenomeni
sociali, raccontare eventi storici o semplicemente fatti di cronaca non può comprendere la verità
perché questa non esiste in un modo assoluto, in quanto ogni conoscenza è basata su
interpretazioni. Nessuno vive in diretto contatto con la realtà perché tutti noi siamo immersi in
determinate modalità di rappresentazione, senza le quali non potremmo rapportarci con il
mondo. Per spiegare tale concetto Said riporta le osservazioni del sociologo statunitense Charles
Wright Mills1 riguardo al funzionamento della comprensione umana, secondo il quale le nostre
esperienze personali non sono mai veramente tali, ma sempre mediate da racconti, ossia dalle
interpretazioni che riceviamo dalla società. Ognuno vive in un mondo immerso di significati e
nessuno si sorregge autonomamente confrontandosi in maniera diretta con la dura realtà del
mondo; una tale situazione comporterebbe il panico. Per evitare la totale insicurezza, le nostre
esperienze sono selezionate da immagini stereotipate e plasmate da interpretazioni già pronte.
Durante la vita di tutti i giorni noi non facciamo esperienza del mondo come tale, ma di una
conoscenza condivisa con le altre persone. Ovviamente ognuno interpreta individualmente ciò
che osserva, ma le proprie opinioni non possono essere completamente isolate. In genere, tutti
noi parliamo delle osservazioni e delle interpretazioni altrui; nei discorsi quindi facciamo ricorso
a degli apparati culturali.
Criticando ogni pretesta di oggettività, Said dedica attenzione a un concetto fondamentale per
la formazione della cultura: la trasmissione del sapere. In ogni società infatti è sempre presente
una sorta di comunità di interpretazione che ha la funzione di offrire una conoscenza accettata
della realtà. Chiunque intenda condurre una ricerca su un determinato tema deve
necessariamente, per non essere né irrilevante né ridondante, confrontarsi con coloro che hanno
già scritto sulla stessa materia. Ad esempio, spiega Said, se una persona intende scrivere una
ricerca seria sull'Islam, o sulla Cina, su Shakespeare o su Marx, deve prendere in considerazione
che cosa è stato detto sullo stesso argomento in passato2. Dunque non esiste un testo
1
2
Charles Wright Mills, 1967, Power, Politics, and People: The Collected Essays of C. Wright Mills, New York, Oxford
University Press.
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 162-164.
LE FORME DELLA CONOSCENZA
completamente nuovo e nessuno che voglia parlare di fenomeni sociali può pretendere di essere
del tutto originale; vi è un legame tra tutti coloro che hanno studiato e interpretato una stessa
questione. Un ricercatore può confermare gli studi precedenti, può proseguirli oppure
controbatterli, ma sempre vi è una connessione tra le opere. In pratica nessuna opinione è senza
precedenti, senza alcuna relazione con i predecessori.
Le discipline sono istituzioni
Said espone osservazioni riguardo alla condotta di chi conduce le ricerche, tema ripreso dalle
analisi sul potere di Michel Foucault3 e dalla nozione di paradigma scientifico di Thomas S.
Kuhn4. Tali autori infatti hanno mostrato quanto sia influente la presa di modelli epistemologici
nei campi dell'espressione e del pensiero, aspetti che alterano e plasmano la natura di ogni
enunciato individuale. Gli studi non sono mai liberi, svincolati dalla contingenza, perché quando
si sviluppano vengono inquadrati all'interno di una disciplina. Quando una materia viene
istituzionalizzata, il canone che si crea agisce in maniera attiva poiché fornisce agli studiosi un
metodo al quale si richiede di conformarsi.
La disciplina stessa, secondo Said, guida il procedere delle analisi, cosicché i ricercatori, una
volta acquisito il loro linguaggio professionale, codici accettati dalle accademie, tendono a
fornire spiegazioni conformandosi agli studi svolti in precedenza. In questo modo gli studiosi
acquistano credibilità e iniziano a considerare le loro affermazioni oggettive. Le discipline
pertanto, una volta istituzionalizzate, favoriscono il ripetersi di determinate nozioni e ostacolano
lo sviluppo di analisi originali. Gli studiosi vengono così guidati più da un'ortodossia corporativa
che da una genuina esigenza di comprensione, e iniziano a difendere gli interessi del proprio
gruppo. Anche un giovane studente che intende specializzarsi in una materia, ad esempio la
storia moderna del Medio Oriente, dipenderà dagli interessi che pervadono la disciplina. Non
solo la tradizione degli studi avrà ovviamente formato la sua conoscenza, ma anche le sua
aspirazione a diventare famoso influenzerà le ricerche. È consapevole che, se sarà fortunato, i
suoi scritti potranno essere letti dal Dipartimento di Stato, dalla Difesa o da qualche azienda.
L'orientalismo in politica estera
Partendo da queste considerazioni sulla struttura della ricerca scientifica istituzionalizzata,
Said critica i ricercatori orientalisti perché, nonostante vivano in un preciso contesto storico, non
hanno dubbi che sia raggiungibile una conoscenza obiettiva dell'Islam e degli aspetti della
società. Tale prerogativa viene attribuita loro dal potere che questi esperti ricoprono. In Covering
Islam Said esprime le sue considerazioni sul ruolo degli area studies nelle università statunitensi,
discipline che includono gli studi orientali. Poiché si focalizzano di volta in volta su una sola
regione del mondo, le ricerche rischiano di perdere di vista il contesto più ampio entro il quale la
cultura è prodotta. Analizzando la storia e l'economia di una sola determinata area geografica, gli
area studies tendono a dividere i campi di indagine e a separare le ricerche, una condotta che
Said giudica sbagliata in quanto il lavoro intellettuale ha bisogno della comparazione e di unire
3
4
Michel Foucault,1969, L'Archéologie du savoir, Paris, Gallimard; trad. it 1971, L' archeologia del sapere, Milano,
Rizzoli.
Thomas S. Kuhn, 1962, The structure of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago; trad. it. 1969, La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi.
17
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
le differenti discipline. Vi è pertanto un senso di autosufficienza diffuso tra gli studiosi, difetto
che induce a una conoscenza distorta delle culture.
Secondo Said gli area studies sono fortemente legati alla politica in quanto hanno la capacità
di favorire gli interessi nazionali. I maggiori esperti svolgono un ruolo funzionale agli interessi
politici e tendono a essere legati alle aziende private. Per questo motivo parlano da una posizione
dominante e sono indotti a giustificare gli obiettivi di chi gestisce il potere. Anche l'orientalismo,
come gli area studies ai quali appartiene, è funzionale per giustificare gli obiettivi geopolitici
nazionali. Lo stesso Leonard Binder, professore membro del Mesa (Middle East Studies
Association), ammise che i motivi grazie ai quali si sono sviluppati gli area studies negli Stati
Uniti sono politici5. Le istituzioni orientaliste sono mantenute dagli affari del settore privato,
dalle fondazioni o dal governo, ad esempio, le compagnie petrolifere sono uno dei poteri più
interessati a conoscere il Medio Oriente. Sono evidenti gli effetti che le ricerche hanno provocato
nel resto del mondo, sebbene la maggior parte degli esperti non lo riconosca apertamente.
Gli studi agiscono entro una sfera di influenza legata alle aziende private, ai media e al
governo, e pertanto producono immagini non necessariamente veritiere. Durante il governo dello
Shah, gli iranologi erano finanziati dalla Pahlavi Foundation e sostenuti dalle istituzioni
americane. Ciò ha comportato che, negli anni precedenti alla rivoluzione del 1979, nessuno si sia
mai chiesto veramente quanto fosse saldo il governo dello Shah Reza Pahlavi, a tal punto che
perfino il presidente statunitense Jimmy Carter nel 1978 definì l'Iran come un'isola di stabilità6.
Forti erano in effetti i legami economici tra gli Stati Uniti e il governo iraniano. Un caso analogo
di come l’intreccio tra politica, economia e ricerca scientifica abbia prodotto un sapere asfittico,
autoreferenziale e del tutto inadeguato alla complessità dell’oggetto d’indagine avvenne in
Libano, con l’assoluta incapacità degli “esperti” nel prevedere la guerra civile del 1975
nonostante i segnali politici fossero evidenti da anni. Benché il paese sia composto da un
mosaico di culture, veniva sempre messa in risalto la stabilità della nazione. Simili
considerazioni (e un parimenti duro giudizio) valgono anche quanti conducevano analisi sulla
Palestina negli anni Ottanta, poiché furono tutti sorpresi dall'inizio dell'Intifada nel 19877.
Said avverte dunque che non bisogna sottovalutare il legame tra i poteri dominanti e le
istituzioni che si dedicano alla conoscenza, problema attorno al quale gioca inoltre un ruolo
cruciale la diffusione del sapere. È necessario riflettere sul motivo della larga diffusione di idee e
nozioni che, benché non siano necessariamente veritiere o accurate, riescono a sembrare
persuasive. Tali immagini ottengono successo grazie all'influenza delle persone e delle istituzioni
che le producono e le ripetono.
In polemica con Bernard Lewis
Tra i numerosi esempi di opinioni offensive e denigratorie contro i paesi musulmani, spiccano
nelle opere di Said le ripetute critiche contro Bernard Lewis. Il celebre orientalista britannico,
residente negli Stati Uniti e professore di Studi Islamici alla Princeton University, secondo Said
si esprime costantemente con affermazioni erronee ed estremamente generalizzanti. Giudica il
mondo islamico contrario alla modernità e sostiene che nelle società musulmane la religione
pervada l'intera vita delle persone. Come molti altri orientalisti, spiega la contemporaneità
utilizzando la storia remota dell'Islam, senza accurate analisi. Inoltre è convinto dell'esistenza di
5
6
7
18
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 141-143.
Ivi, p. 75.
Ivi, p. 20-21.
LE FORME DELLA CONOSCENZA
due entità differenti, da lui definite “mentalità occidentale” e “orientale”, la seconda descritta
come fanatica e irrazionale. Tali affermazioni sono pure astrazioni, ideate per poter distinguere le
due culture. Said critica il coinvolgimento diretto di Lewis negli interessi nazionali statunitensi.
Se studia le scuole religiose nell'Afghanistan contemporaneo, ciò non avviene per caso; è ovvio
che parte delle sue ricerche potranno avere implicazioni politiche ed essere utilizzate da forze
come il governo, aziende private o enti legati alla politica estera.
Tra le varie critiche esposte contro l'orientalista Bernard Lewis, Said ricorda come il professore si
sia spinto perfino ad affermare che le civiltà non europee hanno difficoltà a comprendere la curiosità
intellettuale per le altre culture, caratteristica questa tipica dell'Occidente. Scrisse in effetti che
quando i primi europei cominciarono a studiare gli scavi archeologici dell'antico Egitto, la
popolazione locale rimase stupita a causa dell'interesse degli stranieri per delle vecchie rovine.
Secondo il noto professore, fu la ricerca di una gratificazione per la curiosità intellettuale ad aiutare
gli europei nelle loro esplorazioni verso terre straniere oltreoceano, un desiderio assente invece nei
popoli non europei. Said controbatte fortemente a quest'ultima tesi di Lewis citando le opinioni di
Donald Lach e John Horace Parry, due storici del colonialismo che invece argomentano in maniera
convincente l'interesse degli europei nei confronti delle culture straniere derivi dal commercio e dalle
conquiste8.
Per quanto siano erronee, posizioni analoghe a quelle espresse da Lewis hanno ottenuto il
consenso tra gli studiosi orientalisti. Per spiegare come solitamente sono esposti gli studi
orientalisti nel mondo accademico, in Covering Islam viene raccontato quel che avvenne negli
anni '70 a Princeton, università dove insegnava Bernard Lewis. Tra il 1971 e il 1978 furono
organizzati quattro seminari sul mondo musulmano, con il patrocinio della Ford Foundation.
Said mostra che tutti gli argomenti ogni volta vennero trattati tenendo in mente gli interessi
nazionali degli Stati Uniti. Il primo seminario fu dedicato all'applicazione delle teorie
psicoanalitiche nei paesi mediorientali. Le esposizioni si focalizzarono attorno ad argomenti
denigratori dell'Islam poiché il comportamento della famiglia fu ritenuto repressivo, gran parte
dei leader nazionali furono visti come psicopatologici e le società ancora immature. Il secondo
seminario trattò il sistema politico dei millet, cioè l'ordinamento giuridico che regolava le
minoranze religiose nell'impero ottomano. Il sistema venne studiato con l'obiettivo di far
emergere gli aspetti negativi e fu giudicato come la strategia politica del “divide et impera”. Nel
seguente dibattito, incentrato sulla presenza dell'Islam in Africa, si mise in risalto che gli arabi in
passato si dedicarono al commercio degli schiavi, deportando le popolazioni africane. L'obiettivo
dei discorsi sembrava dunque avvertire gli stati africani sul pericolo dell'ingerenza dei
musulmani nel continente. Il quarto infine fu dedicato alla storia economica in Medio Oriente,
dal sorgere dell'Islam fino al diciannovesimo secolo. Anche in questo non venne meno il tono
critico verso l’Oriente, poiché gli unici argomenti trattati furono l’instabilità politica e il ruolo
autoritario dello stato9.
I quattro seminari sono raccontati per spiegare come gli studi mostrino i popoli islamici in
maniera denigratoria. Said insiste quindi sulla responsabilità che hanno gli esperti orientalisti nel
diffondere opinioni che, una volta enunciate nelle università, di conseguenza si riflettono
facilmente nel linguaggio della politica e dei media. Osserva infatti che ormai nel linguaggio dei
partiti politici negli Stati Uniti e in Europa sono diffuse le accuse contro la religione musulmana,
in tutti gli schieramenti. La destra conservatrice associa l'Islam alla barbarie, le forze centriste lo
rappresentano estraneo e con tinte esotiche, invece la sinistra liberal lo paragona al passato, alla
teocrazia
e
al
medioevo.
8
9
Ivi, p. 139.
Ivi, p. 144-149.
19
CAPITOLO 4
LE RAPPRESENTAZIONI
Nessun processo di traduzione dell'esperienza in espressione è scevro da
contaminazioni. Ogni processo di rappresentazione è ab origine necessariamente
contaminato dal coinvolgimento con il potere.
(E. Said, Umanesimo e critica democratica, p. 75)
Estetica e interesse
Criticando le pretese di veridicità delle discipline, Said avvia una serie di riflessioni sul ruolo
delle rappresentazioni nel campo della conoscenza. Gran parte delle sue opere sono dedicate a
questo tema, cioè a quel delicato processo che avviene quando si vuol comunicare un'esperienza.
Ogni volta che una situazione viene espressa intervengono numerosi fattori nel discorso, anche
quando vi è lo sforzo di rimanere fedeli alle proprie osservazioni. Per Said questo aspetto è
fondamentale per capire il mondo della cultura poiché mostra quanto siano infondate le pretese
di neutralità delle discipline scientifiche e artistiche. Sostiene che bisogna riunire quel che fu
diviso da Kant, vale a dire l'estetica e l'interesse1.
L'arte, la cultura, il sapere non sono disgiunti dall'interesse, bensì sono plasmati dalla
mondanità, ossia dalle situazioni sociali. Qualsiasi impegno implica sempre un coinvolgimento
diretto, in quanto nulla può essere svolto con totale distacco e anche le passioni più personali non
sono giustificabili con il semplice piacere esterico. Chiunque fruisce di un'opera artistica o si
accinge a studiare un argomento è sempre coinvolto nel campo in cui agisce la materia presa in
considerazione, entro le sue logiche, cosicché vi è sempre un legame tra la conoscenza e le
strutture di potere proprie della società. Secondo Said non esiste il sapere disintereressato poiché,
dato che ogni enunciato incide sempre sulla realtà, tutte le ricerche si possono spiegare
esaminando le esigenze che hanno favorito il loro sviluppo. Le discipline teoriche, nonostante
mostrino una parvenza distaccata e apolitica, in realtà sono condizionate dall'ambiente entro le
quali sono immerse. Said invita perciò a
pensare le rappresentazioni (esatte o inesatte, la distinzione è, al più, una questione di grado)
comprese in un comune spazio scenico definito non solo dall'argomento della
rappresentazione, ma da comuni tradizioni, retaggi storici, universi del discorso2.
Nessuna teoria è situata in un tempo e spazio astratto; tutti gli enunciati si fondano su un
processo storico che fornisce loro il linguaggio entro il quale svilupparsi, pertanto
il vero problema è se possa mai esistere qualcosa come una rappresentazione veritiera, o se
piuttosto ogni rappresentazione, proprio in quanto tale, sia immersa in primo luogo nel
1
2
Immanuel Kant, 1963 [1790], Kritik der Urteilskraft, Hamburg, Unveranderter Neudruck; trad. it. Critica della facoltà
di giudizio, 1999, Torino, Einaudi.
Edward Said, Orientalismo, cit. p. 269.
LE RAPPRESENTAZIONI
linguaggio e poi nella cultura, nelle istituzioni e nell'ambiente politico dell'artefice o degli
artefici della rappresentazione. Se quest'ultima alternativa è quella giusta (come io credo),
allora dobbiamo essere pronti ad accettare il fatto che ogni rappresentazione è eo ipso
intrecciata, avvolta, compresa in molti altri fattori oltre che nella “verità”, senza contare che
quest'ultima è a propria volta una rappresentazione3.
Tali affermazioni dimostrano che l'orientalismo, così come tutte le descrizioni dell'alterità,
non è altro che una rappresentazione. L'intento delle sue analisi non consiste né nella difesa
dell'Oriente, né nella totale condanna degli studi orientalisti. Said afferma che ha voluto
“descrivere uno specifico sistema di idee, e nient'affatto sostituirlo con uno migliore”4. Non
intende demolire tutto quel che è stato scritto a proposito dei paesi orientali in Europa. Poiché
non privilegia la prospettiva dell'insider a discapito di quella dell'outsider, non crede “che solo
un nero possa scrivere sui neri, o solo un musulmano sui musulmani”5. La sua intenzione è
raccontare come la conoscenza si intrecci con i rapporti di potere, indagare come le persone
provenienti da un paese dominante abbiano raffigurato l'alterità a loro subalterna. Riflettendo
sull'orientalismo ha osservato
come funzionano di solito le rappresentazioni, cioè per uno scopo, secondo una tendenza e
all'interno di un contesto storico, intellettuale e persino economico ben preciso6.
Nella sua ricerca ha voluto riflettere sui rapporti di potere sottostanti alle narrazioni. Per Said
ogni opinione è partigiana, nel senso che rappresenta sempre la visione di una parte, di
determinati interessi.
Non esiste un Oriente ‘reale’
Avendo criticato le pretese di obiettività delle descrizioni degli orientalisti, che ripetono
caricature da loro stessi accettate, Said pone l'attenzione anche sul grado di veridicità di tutti i
discorsi sull'alterità. L'autore afferma che è scorretto condannare gli orientalisti perché non
hanno compreso la vera natura dell'Oriente, Essi non hanno mal interpretato le vere
caratteristiche degli orientali perché queste in realtà non esistono. Precisa infatti che
la tesi che mi sta a cuore non è che quel sistema implicasse il fraintendimento di qualche
essenziale caratteristica dell'Oriente - al momento, dubito che tali caratteristiche essenziali
esistano davvero7.
Non ci sono connotazioni veritiere, assolutamente autentiche, che denotano il reale aspetto di
una cultura. Tutte le rappresentazioni sono la combinazione di numerosi fattori. Ogni discorso
dipende da chi esprime un'opinione e dalla sua formazione personale, varia a secondo del
soggetto al quale è indirizzato, dalle ragioni che muovono la comunicazione e dal momento
storico nel quale avviene. Le interpretazioni sono attività sociali legate a una specifica situazione
e non possono essere obiettive. Non è onesto dunque chi pretende di essere neutrale, libero dai
condizionamenti.
3
4
5
6
7
Ibid.
Ivi, p 323.
Ivi, p 320.
Ivi, p. 270.
Ivi, p. 269.
21
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
Tutte le descrizioni, i racconti, non sono altro che rappresentazioni. L'Oriente, e in maniera
analoga la cultura occidentale, sono entità costruite, immerse nelle situazioni storiche e in
determinate circostanze sociali. Nel caso delle ricerche su un fenomeno complesso, come l'Islam,
la conoscenza deriva dalle immagini, dai testi, dalle esperienze che ci sono state raccontate, cioè
dalle interpretazioni, e non da fattori direttamente provenienti da un'entità astratta chiamata
Islam.
Le argomentazioni utilizzate per definire una razza o una nazione, oppure i sentimenti che
denotano l'essere inglesi o asiatici, sono in genere determinate dalle situazioni politiche e
culturali vigenti, benché pretendano di giustificarsi per la loro naturalità. Più volte Said
sottolinea che gli aspetti autentici non esistono. Le identità svolgono lo stesso ruolo delle
etichette perché definiscono la realtà dividendo le parti in maniera netta. Said invita perciò al
superamento della dicotomia Oriente/Occidente e della geografia immaginaria che suddivide il
mondo tra “terre nostre/terre barbariche”. Specialmente nella postfazione a Orientalism, scritta
nel 1994, l'autore spiega quanto siano artificiali le identità culturali, per niente naturali, e cita le
ricerche di Martin Bernal sulle radici della cultura greca8 e le analisi di Eric J. Hobsbawm e
Terence Ranger sull'invenzione delle tradizioni9.
Il consumo delle immagini
Said mette in evidenza come le immagini delineate in Occidente siano così persuasive da
diffondersi anche negli stessi paesi mediorientali. Questa è stata la forza delle potenze coloniali,
la capacità di introdurre i propri discorsi anche nelle realtà a loro estranee. Oggi il processo
continua, ma si realizza tramite strumenti diversi rispetto al passato perché è veicolato dai
moderni mezzi di comunicazione. Avverte infatti che l'orientalismo tende a
estendersi allo stesso “Oriente”: le pagine di libri e giornali scritti in arabo abbondano di
analisi di second'ordine condotte da arabi intorno alla mentalità araba, all'islam e ad altre entità
mitologiche10.
Perfino in Medio Oriente le persone cominciano a immaginarsi secondo gli stereotipi diffusi
dalle immagini dei media statunitensi ed europei. Scrive Said che “il paradosso dell'arabo che si
abitua a immaginarsi come un 'arabo' di tipo hollywoodiano è uno dei più assurdi, ma anche
ovvi”11. Le rappresentazioni tipiche dell'orientalismo, che dipingono gli arabi e i musulmani
ripetendo delle caricature, non sono decadute con la fine dei domini coloniali. Negli Stati Uniti e in
Europa caratteristiche come la pigrizia, la brutalità, l'irrazionalità, il dispotismo, e ora il terrorismo
e il fondamentalismo, vengono comunemente utilizzate per descrivere i paesi mediorientali. Scrive
infatti Said:
una sorta di volgarizzazione dell'orientalismo contemporaneo è largamente diffusa nei giornali
e nella mentalità popolare. Per molti, gli arabi sono venali, lascivi, potenziali terroristi, con nasi
adunchi, e per lo più a dorso di cammello; la ricchezza di alcuni popoli e paesi arabi è fortuita o
8
9
10
11
22
Martin Bernal, 1987, Black Athena: The Afrosiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick, Rutgers
University Press; trad. it. 1997, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Milano, Nuova Pratiche
Editrice.
Eric Hobsbawm - Terence Rangers, 1983, The invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge; trad.
it. 1983, L'invenzione della tradizione, Milano, Einaudi.
Edward Said, Orientalismo, cit. p. 320.
Ivi, p. 322.
LE RAPPRESENTAZIONI
addirittura disonesta, frutto dell'estorsione petrolifera a danno delle nazioni veramente civili12.
L'autore dedica attenzione all'immaginario messo in scena nei film americani, produzioni
diffuse in tutti i continenti e ovviamente anche in Medio Oriente:
al cinema e alla televisione l'arabo è sovente caratterizzato come lascivo e disonesto, persino
come un autentico degenerato sessuale, capace di tessere intrighi astutamente malefici, ma
sopratutto sadico, infido e amorale13.
Queste sono alcune delle caratteristiche negative che contraddistinguono i ruoli dell'arabo
nelle produzioni cinematografiche. Gli stereotipi denigratori si possono notare in molti film
d'azione, ad esempio True Lies e Delta force, e l'intera saga di Indiana Jones è permeata di
immagini orientaliste14. Negli Stati Uniti nei libri scolastici, nei serials televisivi, nei cartoni
animati e nelle pubblicità l’iconografia sui popoli islamici è uniforme. I musulmani sono
rappresentati sempre con caricature: ricchi petrolieri, terroristi o folle fanatiche. Perfino nei
fumetti le ambientazioni esotiche sono popolate di personaggi che raffigurano qualità negative.
Dopo la guerra del 1973 Said notò infatti che gli arabi vennero disegnati come avidi sceicchi,
con sguardo torvo e minaccioso, vicini ai distributori di benzina15.
12
13
14
15
Ivi, p. 112.
Ivi, p. 283.
Edward Said, Covering Islam, cit., p. xxvii.
Edward Said, Orientalismo, cit., p. 282.
23
PARTE 2
I MEDIA
I MEDIA
Come già abbiamo spiegato nella prima parte, ogni forma di conoscenza è legata a un
interesse, ed entrambi sono in relazione con il potere. Per analizzare questi aspetti, Said riflette
su come noi acquisiamo il sapere, processo nel quale oggi gioca un ruolo rilevante la fruizione
dei mass media.
Nonostante l'epoca coloniale e del dominio diretto sia terminata, secondo l'autore
l'imperialismo nel campo della cultura continua a sussistere, e ciò si può notare in quanto nei più
potenti mezzi di comunicazione internazionali predominano rappresentazioni elaborate in
Occidente. In Culture and Imperialism1 Said esprime appunto preoccupazione per la forte
egemonia di un'unica visione nell'informazione globale, dal momento che questa, essendo fornita
da poche agenzie di stampa statunitensi ed europee, utilizza un linguaggio che tende in genere a
giustificare la supremazia morale e culturale di una determinata parte del mondo. Per tale
motivo, ad esempio, ogni volta che sono riportate notizie riguardo ai paesi islamici e alla regione
mediorientale il pubblico è indotto a interpretare gli eventi in maniera univoca, per cui i
problemi degli arabi e dei musulmani sarebbero causati dalle loro stesse peculiarità.
Dunque Said, riscontrando che l'orientalismo è tuttora vigente nelle televisioni e nei giornali,
si concentra sull'analisi dei mass media, riflettendo sui contenuti e sulla produzione dei
messaggi. Traendo insegnamento dagli studi sulla comunicazione, l'autore ricorda che le notizie
non sono un dato inerte, bensì derivano da un lavoro di selezione e, inevitabilmente, di
manipolazione. Coloro che agiscono in tale processo, ai quali è affidato l'incarico di indagare e
raccontare gli eventi, appartengono inoltre a una determinata categoria di persone, che in genere
condivide le medesime opinioni e riveste incarichi di potere. Da tali osservazioni è quindi
possibile dedurre che le informazioni diffuse dai media, benché siano offerte come obiettive,
sono in gran parte faziose interpretazioni della realtà, influenzate dal contesto entro il quale
agiscono.
Specialmente in Covering Islam2 Said si dedica allo studio del mondo del giornalismo,
analizzando quale sia il ruolo delle televisioni e dei giornali nella società e come sia
strutturato il lavoro dei giornalisti. In quest'opera esamina come generalmente negli Stati
Uniti ed in Europa è riportato ciò che accade nei paesi islamici, evidenziando che gli
opinionisti spesso esprimono giudizi negativi tramite facili generalizzazioni, secondo le
logiche tipiche dell'orientalismo. Tali rappresentazioni comportano necessariamente conflitti
e, di conseguenza, il sorgere di avversioni anche nelle controparti, in quanto anch’esse si
considerano legittimate a criticare l'Occidente con analoga ostilità.
In Covering Islam inoltre è dedicata molta attenzione a come avvenne negli Stati Uniti la
copertura mediatica dell'Iran tra il 1979 e 1981, durante i mesi della rivoluzione iraniana e il
sequestro degli ostaggi. Dopo aver passato in rassegna gli articoli dei quotidiani più autorevoli,
Said espone il suo giudizio sulle distorsioni praticate nel mondo dell'informazione, dato che in
quel periodo fu evidente quanto le notizie fossero permeate da valori in accordo con gli interessi
1
2
Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.
Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti.
Edward Said, 1997, Covering Islam: How the Media and the Experts Determine How We See the Rest of the World.
Revised Edition, New York, Vintage Books Edition.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
nazionali americani.
In questa parte dedicata alle opinioni di Said sulle rappresentazioni dei media, particolare
attenzione è posta infine sulle sue considerazioni riguardo alla copertura giornalistica del
conflitto israelo-palestinese. Il tema è cruciale nella vita dell'autore, come si deduce dai suoi
numerosi libri e articoli pubblicati a favore dei diritti dei palestinesi. Scrive molte volte che
il conflitto non potrà mai essere risolto sul campo militare, bensì tramite il dialogo e il
confronto reciproco, ossia nell'ambito della conoscenza. Sottolinea infatti che Israele da tanti
anni opprime i palestinesi proprio perché è più forte nel settore dell'informazione, avendo
investito ingenti risorse nell'hasbara, attività definita da Said mera propaganda. Il paese è
riuscito ad ottenere consenso in tutto il mondo, cosicché qualsiasi operazione venga
condotta, è difesa in gran parte delle opinioni espresse nelle televisioni e giornali,
specialmente negli Stati Uniti. Dunque, secondo Said anche nel conflitto israelo-palestinese
le rappresentazioni dei media rivestono un ruolo importante, essendo capaci di influenzare
l'opinione pubblica mondiale e di conseguenza i rapporti di forza tra le fazioni.
26
CAPITOLO 5
LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE
Mentre un secolo fa la cultura europea era associata alla presenza dell'uomo
bianco, a un dominio diretto esercitato di persona (a cui era dunque possibile
resistere), oggi abbiamo anche una presenza internazionale dei media che si
insinua nelle menti, restando spesso al disotto della consapevolezza razionale, e
con un raggio d'azione incredibilmente ampio.
(E. Said, Cultura e Imperialismo, p. 320)
I mass media
La nostra visione del mondo prende forma non solo grazie alla conoscenza diretta, ma deriva
in gran parte anche dai contenuti che televisioni, radio, giornali, riviste, libri e film ci offrono
quotidianamente. Apprendiamo molte nozioni per via mediata e siamo influenzati da quel che ci
viene descritto, cioè dalle rappresentazioni elaborate in genere da chi ha ottenuto l'autorità per
esprimere un discorso. In pratica usufruiamo di immagini in senso lato, e solamente di queste
possiamo discutere poiché la realtà assoluta non esiste.
Non soltanto gli studi, la letteratura e il cinema quando trattano degli arabi e dell'oriente
utilizzano immagini stereotipate ma, in maniera analoga, anche il mondo del giornalismo è
dominato dal medesimo repertorio. La presenza di tale condotta interessa particolarmente Said
poiché sostiene che attualmente l'informazione prodotta dai media occidentali ha un ruolo
predominante in tutto il mondo. Nell'opera Culture and Imperialism, oltre ad analizzare i testi
letterari prodotti in Europa durante i secoli del colonialismo, Said commenta ampiamente il
campo degli attuali media e dell'informazione, e afferma di volersi occupare di questo argomento
in quanto ritiene che, nonostante il colonialismo diretto sia in gran parte finito,
l'imperialismo (…) resiste invece dove è sempre stato, una sorta di sfera culturale generale così
come in specifiche pratiche politiche, ideologiche, economiche e sociali1.
La sua convinzione, dunque, è che oggi per imperialismo si debba intendere l'industria
culturale predominante, attualmente di provenienza in gran parte statunitense. Le immagini
televisive, il cinema e giornali, in maniera più ampia tutto ciò che ruota attorno al campo
dell'informazione, secondo Said trasmettono come in passato valori imperiali, cioè legittimano la
sovranità di una minoranza della popolazione mondiale, americana ed europea, sul resto dei
continenti.
1
Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 35.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
La fabbrica del consenso
Said si focalizza sul ruolo predominante che pochi canali di informazione hanno assunto negli
ultimi decenni. Ritiene valida una ricerca condotta dal sociologo americano Herbert I. Schiller,
Culture Inc2, nella quale viene denunciato l'accentramento di un grande potere in un numero
limitato di canali mediatici. Poche multinazionali infatti detengono il controllo della produzione
e della distribuzione delle notizie cosicché, specialmente negli Stati Uniti, le rappresentazioni
giornalistiche provengono da un numero ristretto di fonti, perlopiù gestite da imprese private che
possiedono la capacità di influenzare notevolmente la conoscenza sul mondo.
Tale controllo favorisce la persistenza di una “cupola di ortodossia”, legata strettamente al
potere, contro la quale è difficile opporsi. Con queste analisi Said vuol mettere in evidenza il
grande potere che possiedono le maggiori agenzie di informazione occidentali e l'ampia visibilità
di pochi giornalisti televisivi internazionali di lingua inglese. Questi centri di informazione
raccolgono, selezionano e rimandano in onda immagini e parole in tutto il mondo, con una forza
persuasiva che non ha precedenti3.
Quando esprime giudizi sulla rete internazionale delle notizie, Said condivide le opinioni di
Noam Chomsky e le sue teorie sulla “fabbrica del consenso”4. Secondo il noto linguista
americano vi è una forte sovrapposizione tra i principali media e i poteri politici ed economici
per cui, secondo le sue analisi, le comunicazioni sono improntante sul modello della
propaganda, nel quale l'emittente tende a indurre l'ascoltatore ad accettare le posizioni espresse.
Ciò comporta un'omologazione delle notizie e l'esclusione delle possibili alternative. Nel mondo
contemporaneo siamo circondati dalle informazioni che riceviamo dai media e, secondo Said,
tali fonti hanno un potere pervasivo nelle nostre vite. Scrive infatti che "siamo bombardati da
rappresentazioni preconfezionate e reificate del mondo"5 e nelle nostre strutture di pensiero
domina un'informazione piena di argomentazioni ideologiche, plasmata dai media, dalla
pubblicità e dalle dichiarazioni ufficiali.
Come si produce l'informazione
Pur essendo concorde con molte opinioni di Chomsky, soprattutto quando parla dell'influenza
dei poteri economici e governativi, Said si discosta sensibilmente dalla teoria generale del
linguista, poiché non ritiene che i media vogliano semplicemente persuadere le persone. Le
notizie non sono manovrate da un unico centro di comando e non vi è nessuna cospirazione in
quanto nessun potere monolitico agisce come se ci fosse una dittatura; non ci sono leggi fisse,
determinati procedimenti rigidi che permettono alle notizie di diventare tali. Anche se gran parte
della nostra conoscenza deriva dai media, noi non dipendiamo da un grande apparato centrale
che gestisce la propaganda, e Said è convinto che gli stati occidentali non siano esplicitamente
repressivi. In teoria, si possono esprimere tutte le opinioni, anche le più eccentriche, ed
effettivamente vi è una grande varietà di linguaggi con differenti notizie.
Eppure, nella gran parte dei quotidiani, riviste, televisioni e radio c'è la tendenza a favorire
2
3
4
5
28
Herbert I. Schiller, 1989, Culture Inc.: The Corporate Takeover of Public Expression, New York, Oxford University.
Press.
Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 339-340.
Noam Chomsky - Edward Herman, 1988, Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media, New
York, Pantheon Books; trad. it. 1998, La fabbrica del consenso, Milano, Marco Tropea.
Edward Said, 2004, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press; trad. it. 2007,
Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Milano, Il Saggiatore, p. 96.
LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE
una stessa visione, una certa rappresentazione della realtà piuttosto che un'altra. Alla fine
l'informazione converge su delle idee comuni, che più o meno tutti ritengono che siano
chiarificatrici, trasparenti e accettate.
Utilizzando lo stesso impianto descrittivo già impiegato nel suo commento degli studi
accademici, Said articola riflessioni simili anche nel campo dei media. Giornali, notizie e
opinioni sono fatti dalla volontà umana, dalla storia, dalle circostanze sociali, dalle
istituzioni e dalle convenzioni delle professioni. I racconti dei vari avvenimenti pertanto
riflettono pienamente il contesto entro il quale sono prodotti e nulla è svincolato dalla
particolare situazione storica entro la quale si producono. L'autore dunque afferma che le
notizie sono il risultato di una cultura, o meglio, sono la cultura e, nel caso dei media
statunitensi, sono una parte della storia contemporanea6.
I fatti e i racconti che noi quotidianamente apprendiamo non emergono in modo spontaneo;
le notizie che noi riceviamo non vengono prodotte casualmente. Benché possa sembrare ovvio,
è importante ricordare che tutti i mezzi di comunicazione seguono certe regole e convenzioni,
processi necessari per inquadrare la realtà entro delle storie. Citando la ricerca del sociologo
Herbert Gans, Deciding What's News7, Said spiega come i giornalisti, le agenzie di stampa e le
redazioni dei canali televisivi agiscano nella narrazione dei fatti, dal momento che le notizie
non sono un dato inerte, ma il risultato di un complesso processo di scelta. Si selezionano gli
eventi e il linguaggio per offrire le informazioni come se fossero entità prive di errori 8. Dato
che nessuno può esprimere un racconto oggettivo degli eventi, quel che può trasparire sono le
intenzioni sottostanti, le ragioni che hanno determinato la selezione di particolati fatti e
l'utilizzo di un determinato linguaggio. Inoltre, gran parte dei media sono proprietà di
compagnie private, quindi il loro scopo è perseguire il profitto, e per tale ragione hanno
interesse a mostrare alcune immagini della realtà piuttosto che altre. Televisioni e stampa
infatti agiscono all'interno di un contesto politico pervaso da un'ideologia che, sebbene non sia
mostrata esplicitamente, viene disseminata nell'informazione.
La rapidità della comunicazione giornalistica
I media per Said non offrono semplicemente i fatti, ma costituiscono anche una modalità di
espressione. Raccontare in televisione gli avvenimenti in maniera rapida, con poche parole e uno
stesso repertorio di immagini, rende il giornalismo simile agli spot pubblicitari. L'informazione
preconfezionata, pronta per essere diffusa su larga scala, tende a privilegiare le forme brevi e
telegrafiche perché in tal modo si vuol promuovere facilmente un'immagine oggettiva degli
eventi. Said spiega infatti che
la Cnn e il New York Times danno informazioni sotto forma di sommario o brevi
frammenti di discorso, spesso seguiti da brani informativi un po' più lunghi il cui scopo
dichiarato è dirci cosa sta succedendo “in realtà”9.
Questo linguaggio, secondo Said, tende a indurre il pubblico ad accettare lo status quo
perché non stimola il pensiero e ostacola il sorgere di una critica democratica. Le espressioni
6
7
8
9
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 52-53.
Herbert Gans, 1979, Deciding What's News: A study of CBS evening news, NBC nightly news, Newsweek, and Time,
Chicago, Northwestern University Press.
Edward Said, Covering Islam, cit. p. 50.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 98.
29
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
vengono semplificate in modo da non lasciare spazio ai dubbi, alle riflessioni, alle
alternative. Questo tipo di comunicazione non è una semplice distorsione della realtà. Induce
ad accettare una cultura, a difendere determinati valori e a favorire certi poteri politici. Gli
stessi conduttori dei telegiornali incorporano fisicamente, con il loro tono di voce e la
postura, la rigidità e la ragione del potere dominante. Le parole inoltre sono legate sempre a
un determinato contesto, attorno al quale agiscono interpretazioni e modi di pensare già
esistenti. Said scrive infatti che "ogni intervento discorsivo è, naturalmente, legato a una
particolare occasione e presuppone un consenso, un paradigma, un'episteme e una prassi" 10.
Linguaggio e appartenenze collettive
Nel giornalismo moderno agli intellettuali si attribuisce un ruolo sociale, il compito di aiutare
le persone a rafforzare il senso di una comune appartenenza. Un giornale potente, con le sue
opinioni autorevoli, tende a identificarsi con un ampio pubblico. Said afferma che
la differenza tra un giornale popolar-scandalistico e il «New York Times» è il fatto che il
«Times» aspira a essere (ed è generalmente considerato) il quotidiano nazionale di
asseverata credibilità, i cui editoriali non riflettono soltanto le opinioni di alcuni uomini e
donne ma anche la presunta verità di tutta la nazione e per tutta la nazione. […] L'uso del
“noi” negli articoli di fondo rimanda direttamente agli stessi editorialisti, com'è ovvio, ma
nel contempo suggeriscono un'identità collettiva nazionale, quasi fossimo invitati a leggere
“Noi, il popolo degli Stati Uniti d'America” 11.
Volendo esprimere le opinioni dell'intera collettività, gli editorialisti si sforzano di rendere
esplicito ciò che sembra essere il sentire comune della nazione. Negli articoli pertanto vengono
usate metafore per definire un “noi”, inteso come un'identità coesa, e un “loro” descritto come
estraneo. I media sono capaci di promuovere identità presunte omogenee, entità come
“l'America” o perfino “l'Occidente”, rendendole accettate anche grazie al fatto che negli Stati
Uniti è diffusa un'ideologia nazionalista sostenuta da una retorica sul ruolo del proprio paese nel
mondo e sullo “stile di vita americano”. Addirittura Said non critica solo quei discorsi che
intendono essere autorevoli, ma invita a ripensare tutto il nostro linguaggio comune. Afferma che
“ci imbattiamo continuamente in locuzioni quali 'gli inglesi', 'gli arabi', 'gli americani', 'gli
africani', usate per designare non soltanto un'intera cultura, ma una specifica struttura mentale”12.
Le espressioni generalizzanti, che presumono l'esistenza di culture uniformi, vengono mantenute
nell’uso comune di una lingua per rendere più semplici alcune forme di comunicazione
elementare, ma non si riflette abbastanza sull'uso che istituzioni e gruppi di potere, stampa e
mondo accademico, possano fare di queste nette divisioni. Parlare di ciò che 'altri' fanno serve
per rafforzare una 'nostra' identità. Scrive Said che:
“avere la sensazione” che stiano per arrivare i russi, che il mercato giapponese stia lì lì per
invaderci o che i militanti islamici marcino verso di noi, non significa soltanto partecipare a
una paura collettiva, ma anche rafforzare la “nostra” identità, in quanto stretta d'assedio e
10
11
12
30
Ivi, p. 156.
Edward Said, 1994, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Vintage; trad. it. 1995, Dire la
verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, p. 42.
Ivi, p. 44.
LA COSTRUZIONE DELLE NOTIZIE
minacciata13.
Sembra non esserci una via di fuga dalle frontiere e dalle recinzioni che si utilizzano
quotidianamente nel linguaggio, tutti modi per definire comunità fittizie.
Gli esperti
Said dunque riflette sul ruolo autoritario di coloro che raccontano le notizie. Scrive che c'è un
corpo di esperti che giudica il mondo, un gruppo composto da chiunque abbia acquisito un titolo
o una posizione che conferisce loro prestigio. Professori, giornalisti, direttori e presidenti
emergono e divengono rilevanti soprattutto quando è in corso qualche crisi. Appaiono nei
quotidiani, nei programmi televisivi e nei talk show per pontificare esprimendo idee generiche
sulle situazioni più disparate. Pretendono di avere un ruolo di autorità sulla materia, ignorando o
negando la struttura di potere vigente che ha reso possibile il loro lavoro di interpreti.
Gli esperti riescono a legittimare la loro funzione, cosicché le nozioni che forniscono
assumono in crisma della canonicità. Scrivono libri che acquisiscono autorità e questi, di
conseguenza, accrescono ulteriormente la fama agli autori. Il pubblico che riceve le informazioni
inoltre presuppone che una persona sia esperta se questa ha la possibilità di parlare da una
posizione rilevante.
Nel campo della conoscenza dunque i rapporti di potere inducono alla formazione di
categorie di persone che, avendo acquisito un posizione di autorità, difendono gli interessi propri
e di coloro da cui dipendono.
I corrispondenti
Dato che nella sua analisi intende verificare in particolare come si producano le notizie nel
settore degli esteri, nell'analisi dei media Said si sofferma sulla prassi lavorativa dei
corrispondenti, vale a dire i giornalisti stabilmente residenti all’estero, nelle zone reputate
importanti dalle testate per cui lavorano. Mostrando come sia strutturato il loro comportamento,
l'autore riflette su cosa possa spingere i giornalisti inviati in paesi lontani a raccontare gli
avvenimenti in un determinato modo. I reporters, come qualunque essere umano, tendono a dare
alcune cose per scontate, e hanno incorporato i valori e il modo di vivere che la società da cui
provengono ha fornito loro. Hanno ricevuto un'educazione, insegnamenti religiosi e
un'appartenenza nazionale. Svolgono il lavoro di giornalisti, pertanto sono consapevoli del
codice deontologico professionale e sanno in quale maniera bisogna raccontare i fatti, cosa dire e
chi è il loro pubblico. Said cita un saggio dello storico Robert Darnton, Writing News and Telling
Stories14, che analizza il rapporto tra un giornalista d’inchiesta e le sue fonti, analisi che produce
osservazioni utili in generale per comprendere come le notizie vengono costruite. Due aspetti
sono degni di rilevanza: il primo evidenzia che un giornalista è sottoposto a una pressione che
induce alla standardizzazione, a raccontare cioè attraverso l’uso di stereotipi; il secondo invece
invita a riflettere maggiormente sulla retorica descrittiva dei reporter in quanto generalmente
arricchiscono le narrazioni di molti dettagli che non appartengono ai fatti stessi. Sono aspetti
importanti perché mettono in evidenza quanto siano influenti le pressioni della propria società e
13
14
Ivi, p. 45-46.
Robert Darnton, 1975, Writing News and Telling Stories, Columbia, Daedalus.
31
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
il ruolo dell'interpretazione15.
I mezzi di comunicazione inoltre esercitano una pressione sui giornalisti. L'autorità delle
televisioni e testate giornalistiche americane più famose, come la Cbs o il New York Times,
conferisce prestigio al reporter poiché il pubblico considera affidabili le loro notizie e fonti. Ne
consegue che dal corrispondente l’utente si aspetta una determinata condotta, e il giornalista è
indotto a raccontare gli avvenimenti esteri tenendo ben presente il ruolo politico degli Stati Uniti
nel mondo. Nel linguaggio è presente quindi la consapevolezza di appartenere a un paese potente
e influente.
Secondo Said, poi, i giornalisti americani, quando sono inviati in un paese straniero, si
comportano in un determinato modo che favorisce la distorsione delle notizie. Innanzitutto
hanno una capacità limitata nel reperire le fonti. In genere un corrispondente resta in compagnia
di altri giornalisti, inviati come lui, e si tiene in contatto con la propria ambasciata. Cerca poi gli
americani residenti nel paese e interloquisce con le persone che hanno buoni rapporti con gli
americani. Dopodiché, nel raccontare i fatti, sente che deve tradurre ciò che accade in un
linguaggio che può essere compreso senza difficoltà dai suoi concittadini. Detto altrimenti, pare
evidente che il lavoro giornalistico all’estero, nella visione che ne offre Said, sembra condotto su
una conoscenza assai parziale del paese dove si svolge, e produce un’inevitabile distorsione
degli avvenimenti.
Un'altra forte barriera per i giornalisti all'estero è la diversità linguistica. Said denuncia che la
maggior parte degli inviati statunitensi non conosce la lingua delle regioni che dovrebbero
raccontare. Critica inoltre il modo con il quale le compagnie televisive e le testate giornalistiche
affidano gli incarichi esteri ai giornalisti. È impossibile descrivere un paese essendo privi di
un'adeguata conoscenza della storia della regione e senza averlo visitato per lungo tempo. Said
sostiene con fermezza che non si possono raccontare paesi così complessi come l'Iran, la Turchia
o l'Egitto senza una preparazione, senza avervi prima risieduto. L'autore critica dunque il fatto
che i corrispondenti vengano spostati incessantemente da un paese all'altro, dopo aver
cominciato a svolgere un lavoro da poco tempo. Per esemplificare tale situazione l'autore
racconta i ritmi lavorativi dei giornalisti del «New York Times» inviati nei paesi islamici. Il
reporter James Markham raccontò la guerra civile libanese tra il 1975 e il 1976 dopo essere stato
in Vietnam. Dopodiché, trascorso solo un anno in Medio Oriente, fu mandato a lavorare in
Spagna. Marvine Howe, l'ex corrispondente da Beirut, trascorse solo un anno in Libano, paese
dal quale dovette riferire anche ciò che avveniva in Giordania, Siria, Iraq e in Golfo Persico.
Dopodiché fu spostato in Portogallo e, dopo appena un anno, fu inviato ad Ankara. Per un
periodo temporaneo poi, durante l'assenza dell'inviato John Kifner a Tehran, le notizie sull'Iran
vennero riportate da Henry Tanner che risiedeva a Roma16. Il modo stesso di lavorare dei
giornalisti quindi induce alla costruzione di immagini distorte e confuse.
15
16
32
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 50-51.
Ivi, p. 108.
CAPITOLO 6
DESCRIVERE L’ISLAM
L'immagine dell'Islam oggi, dovunque la incontriamo, è svincolata e
immediata. Vi è una supposizione non dichiarata, in primo luogo, che denota con
il nome “Islam” qualcosa alla quale si può far subito riferimento con facilità.
(E. Said, Covering Islam, p. 40-41)
Covering Islam
Said nel 1981 analizzò in Covering Islam come i paesi musulmani vengono rappresentati nei
media. Le teorie ricalcano quelle esposte nella sua pubblicazione precedente, Orientalism1, ma in
questa nuova opera vengono applicate al linguaggio utilizzato dai giornali e dalle televisioni.
Dopo sedici anni, nel 1997, l'autore decise di aggiornare il testo modificando in parte i contenuti.
L'argomento era rimasto attuale poiché in più occasioni il Medio Oriente aveva continuato ad
attirare l'attenzione dei media internazionali. Negli anni '80 si accese il conflitto in Afghanistan,
fece clamore l'uccisione di 240 marines statunitensi nel 1983 a Beirut e l'attentato a Lockerbie
nel 1988 rivitalizzò la paura del terrorismo. Nel 1987 scoppiò l'Intifada in Palestina, nel 1989
una fatwa fu pronunciata contro lo scrittore Salman Rushdie2 e nel 1993 furono fatte esplodere
bombe presso il World Trade Center a New York. Nel corso degli anni le notizie sui paesi
islamici furono abbondanti, e con esse vennero ripetute le immagini tipiche dell'orientalismo.
Queste rappresentazioni non si limitano dunque soltanto al campo delle discipline accademiche e
della letteratura; sono anzi un fenomeno complesso che perdura e coinvolge le comunicazioni
nel loro complesso, televisioni e stampa inclusi.
Il ruolo dei media, l'uso del linguaggio e la prassi di chi racconta i fatti favoriscono il
proliferare di descrizioni erronee. Specialmente quando bisogna raccontare paesi molto
differenti, come quelli musulmani, è facile il diffondersi di rappresentazioni stereotipate. Per
raggiungere un ampio pubblico, i media cercano di esprimersi in un linguaggio che sia il più
conforme possibile a quello maggiormente diffuso, presumendo che le persone abbiano un
pensiero piuttosto uniforme. Così l'immagine dell'Islam, e similmente anche quella degli altri
argomenti, viene mostrata in maniera omogenea, riduttiva e monocromatica. Ciò produce il
ripetersi di stesse rappresentazioni che, nei media statunitensi ed europei, sono in genere
denigratorie nei confronti dei paesi musulmani. Spesso nelle televisioni e nei giornali si sentono
infatti espressioni come “mentalità islamica” o l'“inclinazione degli sciiti al martirio”. Said
denuncia allora il modo in cui i musulmani e gli arabi sono essenzialmente rappresentati, ad
esempio, o come avidi fornitori di petrolio oppure come potenziali terroristi da temere. I mass
1
2
Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in
Europa, Milano, Feltrinelli.
La ragione della sentenza fu la pubblicazione del libro che, paradossalmente, rese lo scrittore famoso in tutto il mondo,
vale a dire: Salman Rushdie, 1988, The Satanic Verses, London, Viking Press; trad. it. 1994, Versi Satanici, Milano,
Mondadori.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
media, in effetti, mostrano caricature della realtà, immagini di folle in lotta, fanatismo religioso o
punizioni islamiche. Sono interessati solo in minima parte a indagare la religione e le società. Il
risultato è il trionfo di una sola particolare conoscenza dell'Islam, di una sola interpretazione.
Facili generalizzazioni
Una visione monolitica del mondo musulmano è il frutto di interpretazioni generiche, facili da
immaginare, ma in effetti questo presunto “mondo musulmano” è inesistente nella realtà; è
impossibile raggruppare sotto una medesima etichetta di “Islam” tanti paesi culturalmente
differenti, dalla Nigeria alla Cina. Said commenta che una confusione così enorme nella
copertura delle notizie sarebbe inaccettabile se riguardasse i paesi europei.
Uno dei modi per studiare l'ampio uso delle generalizzazioni è ricorrere all'analisi della
comunicazione giornalistica. Negli Stati Uniti e in Europa molti stati islamici e personaggi sono
appena conosciuti dalla maggioranza della popolazione, tuttavia in maniera rapidissima possono
ritrovarsi al centro dell'attenzione dei media e acquisire lo status di notizia. Il passaggio è molto
veloce. Solo poche persone sono in grado di comprendere quel che appare come un fenomeno
nuovo, cosicché il termine Islam, dovunque lo incontriamo, tende a essere associato a
un'immagine diretta, senza che vi sia un discorso articolato sentito come una spiegazione
necessaria: il solo nome denota subito qualcosa al quale si possa far riferimento
immediatamente.
Spesso il mondo musulmano è descritto con le caratteristiche tipiche dei paesi totalitari. Ogni
volta che vengono espressi tali giudizi sembra che si faccia ricorso alla teoria del contenimento
elaborata nel periodo della guerra fredda, quando l'obiettivo degli Stati Uniti era arginare il
diffondersi del comunismo nel mondo. Alle società islamiche in genere viene attribuita la
presenza di un potere repressivo. Secondo Said questi giudizi sono troppo astratti, rapide prese di
posizione su temi estremamente complessi. In Covering Islam sono riportate come esempio frasi
di John Kifner («New York Times» – 14 settembre 1980), corrispondente da Beirut, il quale
sostenne che nel mondo musulmano non vi è separazione tra stato e chiesa e non vi è distinzione
tra religione e vita quotidiana3. Ancora una volta l'Islam è rappresentato come qualcosa di
atavico, il regresso da tenere a bada. Insomma, al mondo musulmano vengono associati i mali da
esorcizzare, tutto quel che non piace, e poco importata se le analisi non sono accurate.
Addirittura George Carpozi, reporter del «New York Post», nel 1979 pubblicò un libro intitolato
Ayatollah Khomeini's Mein Kampf nel quale paragona il leader della rivoluzione iraniana a
Hitler4.
Disattenzione sulla storia
Tutte le espressioni che definiscono il mondo islamico come arretrato concordano con
un'ideologia di fondo: la volontà di modernizzare i paesi non occidentali. Ovviamente portare la
modernità è un modo per giustificare l'ingerenza politica ed economica in un paese straniero. Nel
ventennio che seguì la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si sforzarono enormemente di
modernizzare l'Iran, dove il governo dello Shah era appunto appoggiato ed esaltato per la sua
3
4
34
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 11-12.
George Carpozi, 1979, Ayatollah Khomeini's Mein Kampf, New York, Manor Books, cit. in Edward Said, Covering
Islam, cit., p. 43-44.
DESCRIVERE L’ISLAM
modernità. Per mostrare come queste idee permangano fino ai tempi recenti, Said cita il giornalista
Ernest Conine («Los Angeles Times» – 10 dicembre 1979) nel quale emergono le posizioni
dell'orientalismo classico, coloniale. In un suo articolo spiega che la modernizzazione in stile
occidentale è stato come un tentativo in buona fede per portare l'Iran e l'Islam fuori dal passato, verso
la contemporaneità. Gli iraniani però non hanno apprezzato gli sforzi degli Stati Uniti e dei Pahlavi
perché non conoscono il valore della modernità5.
Negli avvenimenti dove sono coinvolti i musulmani si tende ad eliminare il contesto
geografico e temporale, come se si potesse interpretare allo stesso modo ciò che accade in Iran,
in Palestina o nelle Filippine. C'è la tendenza a trattare l'Islam senza indagare adeguatamente la
storia nel suo spessore. Il passato o è ritenuto irrilevante, oppure è utilizzato per rapide
spiegazioni, dal momento che violenza, dispotismo e fanatismo sembrano replicarsi uguali nel
corso dei secoli. Sull'Islam, quindi, i giornalisti esprimono formule estremamente imprecise. In
genere ripetono l'esistenza di un Islam “classico”, supponendo che il modo di vivere islamico sia
immodificabile, e trascurano i processi storici. Anche gli esperti accademici, non prendendo in
considerazioni i mutamenti dell’Islam nella storia moderna, si focalizzano su un passato risalente
al settimo secolo ed erroneamente se ne servono per spiegare gli eventi presenti. Per quanto
riguarda questa tematica, della collocazione temporale dell’Islam, Said dimostra apprezzamento
nei confronti del lavoro dell’antropologo Johannes Fabian, che ha messo in evidenza nelle
ricerche antropologiche la frequente disattenzione sulla storia, da lui definita una negazione della
contemporaneità, invitando così a ripensare le “politiche del tempo”, vale a dire le modalità con
cui il pensiero occidentale ha collocato l’Alterità culturale in un passato immutabile o, il più
delle volte, in un’allocronia che è, di fatto, una naturalizzazione definitiva dell’Altro6.
5
6
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 115-116.
Johannes Fabian, 1983, Time and the Other: How Anthropology Makes its object, New York, Columbia University
Press; trad. it. 2000, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, Napoli, L'ancora del Mediterraneo.
35
CAPITOLO 7
CONTRASTI MEDIATICI
Si tende a dimenticare che tutte le guerre hanno due linee di trincee, due
barricate, due apparati miliari. Come la guerra contro l'Islam sembra aver
unificato l'Occidente attorno all'opposizione contro l'Islam, così anche la guerra
contro l'Occidente ha unificato molti settori del mondo arabo.
(E. Said, Covering Islam, p. 65)
Ostilità televisive
Covering Islam non descrive solamente l'immaginario dei media statunitensi ed europei
riguardo ai paesi musulmani. Said commenta anche come venga recepita nel modo islamico
l'informazione occidentale. I notiziari prodotti negli Stati Uniti, specialmente dai network
satellitari, non sono diretti solamente agli americani, ma sono pensati anche per un pubblico
mondiale. Ad esempio, il canale televisivo Cnn è guardato in tutti i paesi, nei più disparati angoli
del mondo, anche nelle nazioni antagoniste agli Stati Uniti. Said ricorda infatti che durante la
guerra del Golfo del 1991 era noto che perfino il presidente dell'Iraq Saddam Hussein si teneva
aggiornato sulle operazioni militari statunitensi guardando il celebre canale satellitare
americano1. Tutto il mondo utilizza le informazioni provenienti da poche agenzie giornalistiche.
Si verifica così che anche i paesi mediorientali ricevono le notizie sui loro stessi territori da
aziende straniere. A Said pare quindi che i paesi occidentali abbiano nelle loro mani il potere di
rappresentare il resto del mondo, che detengano la capacità di raccontare gli eventi.
Analizzando la diffusione globale dei media occidentali, in Covering Islam viene esaminato
anche come i paesi mediorientali rispondono ai giudizi su di loro formulati. Secondo l'autore
entrambe le parti si comportano in maniera erronea poiché si arroccano su posizioni ideologiche,
chiuse a ogni dialogo. Per esemplificare questo aspetto, estremamente rilevante nella sua
argomentazione, racconta una disputa avvenuta nel 1980 tra l'Arabia Saudita e il Regno Unito,
un conflitto causato proprio dalla rappresentazione della religione musulmana. Il 9 aprile in
Inghilterra fu trasmesso il film Death of a Princess, prodotto dal regista britannico Antony
Thomas2, nel quale si raccontano le esecuzioni di una donna adultera, una principessa saudita, e
del suo amante. La trama della fiction riprendeva un fatto realmente avvenuto, la condanna della
diciannovenne Misha'al bint Fahd al Saud nel 1977, e l'opera televisiva fu realizzata come un
documentario investigativo. Il film provocò subito una forte protesta delle autorità saudite, che lo
giudicarono non solo denigratorio della religione islamica, ma particolarmente offensivo nei
confronti del loro paese. Dopo un mese dalla messa in onda in televisione, il governo saudita
ritirò perfino l'ambasciatore da Londra. L'evento sul quale il film era basato venne considerato
solo un pretesto dell'Occidente per giudicare male la religione islamica e la monarchia saudita.
Dopo un mese di polemiche, il 12 maggio 1980 il film fu mostrato anche al pubblico statunitense
1
2
Edward Said, Cultura e Imperialismo, cit., p. 321. Edward Said, Covering Islam, cit., p. 56.
Antony Thomas, Death Of A Princess, 1980, United Kingdom, Associated Television (ATV).
CONTRASTI MEDIATICI
dalla televisione Pbs, ma non in tutti gli Stati Uniti. Alcuni governatori non ne permisero la
trasmissione poiché giudicarono l'argomento controverso.
Said non indaga la vicenda della condanna e dell'esecuzione mostrati nel film, intende invece
commentare sia le accuse dei sauditi contro il documentario, sia le intenzioni dell'autore. Critica
entrambi i comportamenti poiché hanno innescato un conflitto senza alcun dialogo. Secondo
Said sia il regista Thomas, sia le emittenti televisive si sentivano nel loro pieno diritto di
rappresentare l'Islam, in quanto la possibilità di raccontare è attualmente un potere nelle mani
dell'Occidente. Per loro tale prerogativa era indiscutibile, e poco importava se i sauditi siano più
ricchi e posseggano maggior capitale economico. Tramite il film hanno voluto mostrare che la
produzione e la distribuzione delle notizie di fatto incarnano una forma di potere ancora più
influente di quello economico. I sauditi invece accusarono l'opera definendola un grave insulto
all'Islam. Criticarono la presunzione dei paesi occidentali e rigettarono per intero il film, senza
rilasciare commenti sull'evento in esso raccontato. Le autorità saudite tentarono di controbattere
mostrando gli aspetti migliori dell'Islam, ma la mossa non apportò nessun beneficio. Non rese
possibile alcun dibattito poiché tale risposta si basava sulla negazione del caso stesso. Secondo
Said i sauditi non hanno colto l'occasione per discutere sulla loro società, inoltre dovrebbero
rispettare maggiormente le inchieste giornalistiche e abolire il rigido controllo sull'informazione
vigente all'interno del loro paese.
Said dunque non condanna il film nel complesso, anzi, secondo il suo parere doveva essere
mostrato su tutto il territorio degli Stati Uniti, e non trasmesso in maniera limitata. L'opera aveva
il difetto di essere impregnata di rappresentazioni stereotipate e discriminatorie nei confronti
dell'Islam, tanto diffuse in Europa e negli Stati Uniti, però avrebbe potuto dar luogo a un serio
dibattito sui fatti raccontati. Ciò non avvenne a causa dello scontro ideologico che ne è
scaturito3.
A quindici anni dalla realizzazione di Death of a Princess l'arroccamento ideologico
sembrava non aver subito modifiche, al punto che nel 1995 la Pbs trasmise il film Jihad in
America4 del regista Steven Emerson. L'opera, prodotta un anno dopo l'attentato contro il World
Trade Center di New York, rappresenta i musulmani con una visione irreale, esotica e ideologica.
Piccoli gruppi di terroristi vengono considerati come se fossero i portavoce della religione
musulmana. Per Said il film è nettamente discriminatorio e contro l'Islam poiché rappresenta i
fedeli come violenti, sempre pronti ad attaccare occidentali ed ebrei. È quindi un'opera che non
fa altro che ripetere erroneamente l'esistenza di una netta separazione tra le culture5.
L'orientalismo riflesso
Said interpreta il conflitto tra i paesi occidentali e orientali sempre in maniera bidirezionale.
La contrapposizione agisce non solo nei paesi ritenuti aggressori, ma anche nelle nazioni che
occupano il ruolo delle vittime. Gli effetti sono presenti in entrambe le parti. L'opposizione
contro la religione musulmana da parte dei paesi occidentali ha unito differenti settori del mondo
islamico. Sembra infatti averli accomunati la condivisione di una stessa guerra contro
l'Occidente. Coloro che percepiscono tale conflitto tendono a rafforzare la loro identità
musulmana per tenere testa allo scontro con una civilizzazione presunta occidentale. Pertanto le
generalizzazioni diffuse nel pensiero orientalista vengono riprodotte in maniera speculare anche
3
4
5
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 69-76.
Steven Emerson, 1994, Terrorists Among Us: Jihad in America, United States, Pbs.
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 76-79.
37
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
da coloro che si riconoscono come vittime. Ad esempio, durante la rivoluzione iraniana settori
del clero sciita definirono gli Stati Uniti come il “grande Satana”, portatore di rovina e causa dei
mali. Ovviamente Said commenta quanto sia erronea tale affermazione poiché gli Stati Uniti
sono una società complessa6. Non si può considerare un paese come un'unica entità aggressiva,
così come è sbagliato ritenere l'Islam un blocco compatto.
Settori del mondo islamico tendono a inasprire le proprie posizioni ogni volta che ricevono
critiche contro il fanatismo medievale e la crudele tirannia della regione musulmana. La difesa di
un'identità islamica diventa pertanto un atto di sfida cosmica, e trincerarsi viene considerata una
necessità per la sopravvivenza. Una contrapposizione questa che secondo Said rischia di
alimentare la deprecabile tesi dello scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington7. Sia nei
paesi occidentali sia nel mondo islamico è necessario quindi evitare l'uso di formule
semplicistiche per inquadrare le appartenenze perché ciò comporta il perpetuarsi di uno sterile
conflitto.
Diverse rappresentazioni dell'Islam
Come Said critica l'orientalismo, in maniera analoga invita gli arabi e musulmani a smettere
di lamentarsi dell'ostilità dell'Occidente. I paesi mediorientali dovrebbero evitare di considerarsi
soltanto delle vittime, ponendosi sempre dalla parte della ragione, oltraggiati ma in rettitudine.
Un cambiamento è possibile, ma deve essere intrapreso un ruolo più attivo nella produzione dei
significati. Said si augura dunque che gli stati musulmani possano mostrare la capacità di
articolare una consapevole immagine di sé, per evitare di essere rappresentati secondo modelli
che non appartengono neanche alla loro cultura.
Per contrastare la visione del mondo islamico inteso come un'entità monolitica, presentata dai
media, Said mostra come all'interno del pensiero musulmano vi siano molte sfaccettature. In
Medio Oriente infatti vi sono numerose realtà che si possono porre perfino all'opposto dei soliti
stereotipi diffusi in Occidente. Ad esempio, in Covering Islam viene ricordato il pensiero politico
di Alì Shariati, personalità che ha contribuito molto al diffondersi delle idee rivoluzionarie in
Iran. Per il noto intellettuale iraniano l'Islam, specialmente quello sciita, è contrario alla passiva
sottomissione nei confronti di un'autorità. Nella sua interpretazione la religione si concilia con il
continuo sforzo per pretendere un giusto governo ed è legittima la ribellione contro ogni forma
di oppressione. Esponendo il pensiero di Shariati, Said intende mostrare come, all'interno
dell'Islam stesso, siano sorte idee che si battono per la libertà e la democrazia. La religione
musulmana quindi può anche essere l'opposto di come viene spiegata nei media, dato che non è
necessariamente connessa al totalitarismo e alla dittatura8. Secondo l'autore nei paesi occidentali
le rappresentazioni di un Islam legato all'autoritarismo, alle punizioni e alla teocrazia sono il
frutto di una scelta. Si preferisce evidenziare certi aspetti piuttosto di altri perché si ritiene
maggiormente utile che il conflitto permanga.
Nell'ambito del pensiero islamico ci sono molti aspetti che differiscono dagli stereotipi
raccontati nei media statunitensi ed europei. Se adeguatamente esposte, le diverse realtà possono
contribuire a elaborare un'immagine del mondo musulmano meno dipendente dallo sguardo degli
occidentali. Said ricorda che c'è una grande varietà di Islam. A seconda delle interpretazioni, la
religione sembra giustificare sia il capitalismo che il socialismo, sia la militanza che il fatalismo,
6
7
8
38
Ivi, p. lxvii.
Samuel Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon &
Schuster; trad. it 2000, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti Libri.
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 67-68.
CONTRASTI MEDIATICI
sia l'ecumenismo che l’esclusivismo. Ogni stato nazionale, ogni componente della società,
sembra rivendicare il proprio Islam. Per l'Arabia Saudita, la religione si concilia con il
conservatorismo e l'anticomunismo, per i ribelli dell'Afghanistan significa resistenza contro gli
invasori e invece per il libico Gheddafi è terzomondista; c'è un Islam per la Fratellanza
Musulmana in Egitto, uno per il partito Baath in Siria e un altro per i Mujahideen in Iran,
differenti visioni circolano nelle scuole, nelle moschee, nei partiti, nelle associazioni, nelle
università e nei movimenti, vari approcci alla religione cambiano da paese a paese, e c'è
differenza tra centri urbani e piccoli paesi9.
Insomma, la situazione è variegata e complessa, e non si può certo dire che la religione
musulmana sia un'entità monolitica. I media occidentali invece sembrano focalizzarsi su un solo
modo di considerare la fede islamica. In Covering Islam Said ricorda pertanto le opinioni di
Mohammed Arkoun, professore di filosofia islamica all'Università Sorbonne di Parigi, il quale
ribadisce che il mondo musulmano non è a una dimensione e che negli studi sulle società
orientali è doveroso indagare i dettagli10.
9
10
Ivi, p. 64.
Ivi, p.117.
39
CAPITOLO 8
RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA
Durante la lunga crisi iraniana fu evidente come non mai quanto agli
americani fu fornita costantemente un'informazione sulla gente, sulla cultura,
sulla religione – in genere imprecisa e con erronee astrazioni – che sempre, nel
caso dell'Iran, rappresentava il paese come militante, pericoloso e antiamericano.
(E. Said, Covering Islam, p. 83)
La rivoluzione iraniana
In Covering Islam un ampio spazio è dedicato alla copertura giornalistica sulla rivoluzione
iraniana del 1979 e sul periodo del sequestro degli americani all'interno dell'ambasciata
statunitense a Tehran, episodio avvenuto tra il novembre 1979 e il gennaio 1981. In tale arco di
tempo, nei giorni della rivoluzione e nei mesi successivi, Said sottopose a rassegna il linguaggio
utilizzato dalle televisioni e dai quotidiani statunitensi, che quasi quotidianamente parlavano
dell'Iran e dell'Islam descrivendoli in toni caricaturali e con estreme generalizzazioni, cioè
secondo le pratiche tipiche dell'orientalismo.
In Iran, dopo mesi di proteste contro la monarchia, nel febbraio 1979 ritornò dall'esilio
l'Ayatollah Khomeini, leader carismatico che fu capace di ispirare e guidare la rivoluzione. In
seguito fu redatta una nuova costituzione e venne stabilito un nuovo governo: la repubblica
islamica. Il precedente sovrano Reza Pahlavi dovette lasciare l'Iran e, dopo aver risieduto in
diversi paesi, trascorse un breve periodo negli Stati Uniti, tra i mesi di ottobre e dicembre 1979.
L'ospitalità che l'ex monarca ricevette dal presidente statunitense Carter fu però malvista da una
parte del movimento rivoluzionario iraniano. Per protesta il 4 novembre a Tehran un gruppo di
studenti prese in ostaggio cittadini americani nell'ambasciata degli Stati Uniti, azione che per la
maggior parte delle vittime sequestrate durò oltre un anno, fino al rilascio avvenuto il 20 gennaio
1981.
Gli avvenimenti ebbero molta risonanza negli Stati Uniti. I media americani parlarono spesso
di quel che accadeva in Iran, dedicando a questo tema programmi televisivi in prima serata.
Specialmente durante il sequestro a Tehran, furono trasmessi numerosi notiziari e dibattiti, con
interviste ai parenti degli ostaggi e opinioni sulla politica iraniana. Said fa notare che, prima che
tali eventi accadessero, la gran parte degli americani non conosceva quasi nulla della
popolazione, della cultura e della religione dell'Iran. Eppure, durante il periodo della rivoluzione
e del sequestro, gli avvenimenti vennero presentati quotidianamente, quasi si trattasse di una
serie televisiva a puntate. Mai prima di allora un problema internazionale fu mostrato dai media
in maniera così istantanea e con tanta regolarità.
La situazione iraniana, con i suoi processi politici, la vita di tutti i giorni, i personaggi, la sua
geografia e storia, secondo Said fu trascurata nei media statunitensi. Ad esempio, raramente
venne ricordato il regime autoritario e repressivo dell'ultimo Shah, mentre il pubblico riceveva
informazioni incomplete, che riducevano la complessità dell’intera questione a una pura partita
RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA
letta in termini pro o contro gli americani. Sui giornali erano quasi assenti sia i riferimenti alla
storia del paese sia alle questioni politiche che si svilupparono durante la rivoluzione.
La stampa statunitense
Said nel periodo della rivoluzione sottopose a rassegna i principali quotidiani statunitensi,
come «Los Angeles Times», «New York Times», «Atlanta Costitution», «Washington Post»,
«Wall Street Journal», «Boston Globe». Gli eventi iraniani vennero regolarmente raccontati
tramite immagini televisive di folle per le strade, accompagnate dai commenti
sull'antiamericanismo. Si mise così in risalto la distanza culturale e le caratteristiche estreme
dell'Islam. Il paese fu descritto come pericoloso e la religione musulmana rappresentata come
differente e antagonista. Spesso si leggevano e sentivano espressioni fortemente generalizzanti,
che denotavano innanzitutto una confusione sull'argomento. L'Islam sciita venne spiegato in
maniera molto discutibile, definito un'"ideologia del martirio", oppure ritratto con il “complesso
di persecuzione”. Perfino i casi di tortura riscontrati nel paese vennero spiegati all'interno della
tradizione iraniana. Il giornalista James Yuenger («Chicago Tribune» – 18 novembre 1979)
riportò frasi del tipo “non ci sono i presupposti per discussioni razionali”, gli iraniani “sono
votati al martirio” e hanno “la tendenza a cercare un capro espiatorio”1.
Nelle spiegazioni furono messe in evidenza le caratteristiche che sembravano irrazionali,
poiché la rivoluzione islamica appariva drammaticamente estranea agli occhi degli occidentali,
sia per il linguaggio e sia per la resistenza politica. Ray Mosley («Chigaco Tribune» - 25
novembre 1979) accusò l'Ayatollah Khomeini di aver dichiarato la guerra santa al mondo2 e, con
un tono analogo, Edmund Bosworth («Los Angeles Times» - 12 dicembre 1979) si spinse ad
affermare che tutta l'attività politica dell'Islam per dodici secoli è consistita nella jihad, la guerra
santa3. I giornali e le televisioni si espressero poi con tanta enfasi nel raccontare la figura
dell'Ayatollah Khomeini, non solo descritto irrazionale, ma delineandone anche un profilo
psicologico, senza tener conto adeguatamente della storia e delle società iraniana; non furono poi
analizzate le vicende politiche interne al paese. Il giornalista Don A. Schanche («Los Angeles
Times» - 5 dicembre 1979) condannò sinteticamente la nuova costituzione definendola “il più
bizzarro documento politico dei tempi moderni”4. Lo spessore della storia fu eliminato e ogni
volta nei media venivano ripetuti riferimenti a un'ipotetica “psiche persiana”. In quel periodo
giornalisti giudicati da Said incompetenti, come Morton Dean, John Cochran e George Lewis,
assunsero il ruolo di “esperti” di fronte agli occhi del pubblico, pur senza saperne molto in
sostanza, come confermato dal fatto che la gran parte dei corrispondenti statunitensi in Iran non
conosceva la lingua persiana. Riportando un articolo di John Kifner («New York Times» - 15
dicembre 1979), dal quale si apprende che a Tehran erano stanziati non meno di trecento reporter
occidentali nel 1979, Said commenta che molti di quegli inviati necessitavano di interpreti5.
Informazione e politica
L'Iran venne rappresentato come un'entità monolitica e tutti i mezzi di informazione si
1
2
3
4
5
Edward Said, Covering Islam, cit., p. 104.
Ivi, p. 114.
Ibid.
Ivi, p. 117.
Ivi, p. 103.
41
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
espressero offrendo una stessa immagine, coerente e riconoscibile. Secondo Said tale visione era
funzionale alle esigenze politiche statunitensi. Soprattutto dopo il sequestro degli americani
nell'ambasciata di Tehran, immediatamente i media si sforzarono di creare un clima di consenso
nei riguardi degli interessi nazionali. La stampa e le televisioni diffusero notizie in accordo con
le politiche del governo degli Stati Uniti, che aveva come obiettivo quello di mantenere unito il
paese per poter richiedere il rilascio incondizionato degli ostaggi.
L'autore ricorda che i media sono anche uno strumento diplomatico. Sia gli iraniani che il
governo statunitense erano consapevoli che le frasi pronunciate nelle televisioni non sono dirette
solo alle persone che vogliono ascoltare le notizie, ma sono rivolte anche ai governi, ai politici,
ai partiti. Questo aspetto provoca necessariamente un'informazione di parte, dove permane lo
scontro tra fazioni, tra un “noi” contro un “loro”. Spesso le notizie vengono plasmate dagli
obiettivi politici. Ad esempio, dopo la rivoluzione furono pubblicate molte riflessioni sulla
perdita dell'Iran, opinioni, scrive Said, simili a quelle che furono espresse negli Stati Uniti dopo
la seconda guerra mondiale, sulla perdita della Cina, e dopo la guerra del Vietnam, sulla perdita
del paese asiatico. Anche nel 1996, dopo la vittoria del partito islamico moderato alle elezioni in
Turchia, vennero riportate posizioni sulla perdita del paese. Il giornalista Joseph Kraft in maniera
esplicita definì («Washington Post» - 11 novembre 1979) la caduta dello Shah una calamità per
l'interesse nazionale degli Stati Uniti6. Said comunque precisa che non intende dire che c'è una
diretta collusione tra i media e il governo e rifiuta una teoria del complotto, e ammette che non
tutto quel che venne riportato sull'Iran è stato necessariamente distorto da ideologie e dalla
politica. Ricorda infatti l'ambasciatore iraniano Mansour Farhang, quando riferì sul sequestro
degli ostaggi, ammise una ricostruzione uguale a quella che fu esposta il 5 novembre 1979 dai
giornalisti americani durante il MacNeil/Lehrer Report, nota trasmissione della televisione Pbs7.
Un giornalismo onesto
Come appena accennato, non tutta l'informazione diffusa negli Stati Uniti fu di scarso valore.
Said riscontrò anche casi di eccellenza, in particolare negli articoli investigativi di Walter Pincus
e Dan Morgan pubblicati sul «Washington Post» nel 1980, poiché mettevano in risalto il legame
economico tra lo Shah e gli Stati Uniti8. Inoltre giudicò positivamente giornalisti come Richard
Falk sull'«Atlanta Constitution», Roger Fisher sul «Newsweek», Doyle McManus su «Los
Angeles Times» e di John Kifner sul «New York Times». In Gran Bretagna anche il «Guardian»
affidò l'incarico a un inviato competente, David Hirst, conoscitore delle lingue e con molti anni
di esperienza.
Specialmente nei quotidiani francesi l'informazione fu in genere più accurata. Said apprezzò
infatti gli articoli di Eric Rouleau pubblicati su «Le Monde», giudicandoli completamente
differenti dai pessimi interventi di Flora Lewis sul «New York Times». L'Iran nei racconti del
giornalista francese sembrava un paese differente rispetto a quello rappresentato dai media
americani. Non usò mai l'Islam per spiegare direttamente gli eventi e le persone e non si servì di
una retorica mistificante. Fu consapevole della complessità della situazione e pose l'attenzione
sul dibattito costituzionale, cioè sulle effettive modalità politiche con cui la rivoluzione veniva
portata avanti. «Le Monde» pubblicò anche articoli di Maxime Rodinson, noto orientalista
marxista francese, nei quali non vi erano mai frasi sensazionalistiche, e nessuna opinione pro o
6
7
8
42
Ivi, p. 98.
Ivi, p. 106.
Ivi, p. 101.
RACCONTARE LA RIVOLUZIONE IRANIANA
anti islamica. Un'informazione onesta, senza toni aggressivi e priva di un'ostilità ideologica, è
quindi possibile.
Il salvataggio fallito e le ripercussioni sui media
Secondo Said negli Stati Uniti un evento che ha influito sulla copertura mediatica dell'Iran è
stato il fallimento dell'operazione militare americana per liberare gli ostaggi. Il sequestro di
cittadini statunitensi in Iran, avvenuto il 4 novembre 1979, venne considerato una dichiarazione
di guerra e in America si diffuse presto un forte consenso a favore della loro liberazione. Le
notizie sugli ostaggi vennero spesso poste in evidenzia sulla stampa e in televisione, insistendo
molto sul contrasto tra l'eroismo americano e la barbarie iraniana. Il governo degli Stati Uniti
organizzò allora una missione militare aerea con l'intento di liberare le vittime e il 24 aprile 1980
partirono velivoli diretti a Tehran ma, per una serie di errori tecnici, durante il viaggio un
elicottero si scontrò contro un aereo dello stesso contingente. Precipitarono entrambi sul suolo
iraniano provocando la morte di otto militari statunitensi, cosicché l'operazione fallì e gli ostaggi
rimasero sequestrati nell'ambasciata.
L'evento provocò molto clamore negli Stati Uniti e, da quel momento, secondo Said emerse
nel paese un sentimento di impotenza nazionale, visibile soprattutto negli articoli di Joseph Kraft
sul «Washington Post». Il giornalista infatti cominciò a porre il problema che di fatto vi fossero
aspetti della questione non facilmente discernibili, e che quindi un intervento diretto degli
americani fosse di fatto impossibile9. Said fa notare dunque che, dopo l'insuccesso, in genere i
media modificarono non solo il loro linguaggio, ma anche la scelta degli argomenti da trattare.
Prima dell'intervento aereo, televisioni e giornali descrivevano l'Iran come una folla anonima.
Erano frequenti le generalizzazioni sull'Islam e sull'irrazionalità della rivoluzione. Non vi erano
né analisi sui protagonisti della rivoluzione, né commenti sui politici e sul clero. Insomma, non
appariva la complessità politica della vicenda.
Dopo il fallito tentativo di salvataggio dell'aprile 1980, invece, l'informazione cominciò a
focalizzarsi maggiormente sulle lotte di potere all'interno del paese. In quel periodo si erano
aperte diverse ragioni di conflitto, tra il clero del Partito della Repubblica Islamica presieduto
dall'Ayatollah Beheshti, i liberali guidati da Bazergan, i progressisti di Bani-Sadr e i partiti di
sinistra non religiosi. Erano presenti in effetti divergenze nella politica iraniana. Bazergan ad
esempio si dimise dall'incarico di primo ministro poiché era contrario al sequestro degli
americani. Stampa e televisioni statunitensi iniziarono così a trattare delle lotte politiche,
specialmente delle divergenze tra Bani-Sadr, laico, e l'Ayatollah Beheshti. Nei media BaniSadr fu mostrato a quel punto come il tipo di interlocutore con il quale era possibile trattare,
mentre l'Ayatollah Beheshti venne dipinto come il fanatico religioso, al quale furono attribuiti
tutti gli aspetti negativi. Eppure, ricorda Said, quando, mesi prima, si era affacciata sulla scena
la figura di Bani-Sadr, primo presidente dell'Iran eletto il 25 gennaio 1980, i media statunitensi
l’avevano praticamente ignorato.
Le notizie sull'Iran dunque continuarono a essere trasmesse con regolarità, sempre visibili,
però cambiarono impostazione, iniziando a raccontare la politica interna del paese. Said riflette
su questo mutamento e formula un'interessante considerazione: pare che negli Stati Uniti un tipo
di potere venne sostituito con un altro. Presa coscienza del fallimento della missione, e
dell'incapacità di intervenire sul territorio iraniano, il potere militare prese il posto di quello dei
media. Durante l'occupazione dell'ambasciata americana, un'azione dei militari risultò essere
9
Ivi, p. 101.
43
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
irrealizzabile, impedita da una forza che non poteva essere controllata dal potere americano.
Cosicché quella stessa volontà di intervenire, una volta bloccata sul campo militare, secondo
Said si riversò nel potere simbolico dell'informazione e della rappresentazione. Da allora sembrò
che i media avessero intrapreso una guerra contro l'Iran. Gli Stati Uniti continuarono a sforzarsi
di imporre la loro presenza e a contrastare la rivoluzione islamica, però cominciando a utilizzare
i media come arma.
Specialmente durante i mesi del sequestro, l'Iran sembrò essere entrato nelle vite degli
americani, con una grande intensità. Le notizie erano presentate con martellante costanza, e la
loro apparente infinitezza non faceva che alzare ulteriormente il livello dell’ansia delle audience
e dei lettori. Con il trascorrere dei mesi, la copertura mediatica divenne quasi una narrazione in
grado di vivere autonomamente: sembrò che gli americani nei racconti sull'Iran potessero vedere
riflessi se stessi, e in secondo piano osservare quel che succedeva all'estero. Per spiegare questo
aspetto quasi paradossale, Said sostiene che certamente in quella fase più americani rispetto al
passato comprendevano che cosa significasse una lotta per il potere, ciò grazie alle costanti
notizie sul conflitto tra Bani-Sadr e Beheshti, con Khomeini che agiva misteriosamente dietro di
loro10.
10
44
Ivi, p. 132-133.
CAPITOLO 9
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
I sostenitori di Israele hanno capito qualcosa di essenziale alla politica moderna e
che per ora è sfuggito agli arabi: vale a dire, che una politica della persuasione e del
consenso che si serva dell'informazione e della comunicazione è, sul lungo periodo,
assai più efficace di una propaganda insistente basata sulla menzogna e
sull'esagerazione. [...] La nostra tragedia è che, come popolo e come cultura, non ci
siamo liberati da un modello di potere rozzo, dimenticando che conoscenza,
informazione e consenso contano assai più della forza bruta e degli agenti di polizia.
(E. Said, Fine del processo di pace, p. 47-49)
Said e la Palestina
Said nacque nel 1935 a Gerusalemme da genitori entrambi di origini palestinesi e, pur avendo
trascorso gran parte della sua gioventù a Il Cairo e poi la sua vita professionale a New York, egli
sentì sempre forte il legame con la sua terra natale. Per quattordici anni, dal 1977 al 1991, fu membro
indipendente del parlamento palestinese in esilio, il Palestine National Council, al quale aderì per
contribuire dall'estero alla lotta dei palestinesi per la difesa dei loro diritti.
Said dedicò molti studi al conflitto israelo-palestinese. Nel 1979 scrisse la sua prima opera
dedicata al tema, The Question of Palestine1, libro che pubblicò nuovamente nel 1992
aggiornandone il contenuto, dato che negli anni '80 erano accaduti eventi importanti come la
guerra in Libano e il sorgere dell'Intifada. In quel periodo scrisse anche, in collaborazione con il
fotografo Jean Mohr, After the Last Sky: Palestinian Lives2.
Specialmente negli anni successivi al 1987, cioè dopo il sorgere della prima Intifada, Said
cominciò a entrare in contrasto con le politiche dell'Olp, da lui ritenute troppo accomodanti nei
confronti delle pressioni israeliane e statunitensi. Scelse così di dimettersi dal Palestine National
Council nel 1991, dopodiché, a due anni di distanza, criticò fortemente gli accordi di Oslo siglati
tra il presidente dell'Olp Yasser Arafat e il primo ministro di Israele Yitzhak Rabin. Considerò i
documenti redatti una resa per i palestinesi poiché non prevedevano né il ritiro degli israeliani
dai territori occupati né soluzioni per i rifugiati.
Negli anni '90 Said, sebbene avesse abbandonato il suo incarico politico, continuò ad
esprimere le sue opinioni e pubblicò due raccolte di saggi The Politics of Dispossession: The
Struggle for Palestinian Self-Determination, 1969-19943 e Peace and Its Discontents: Essays on
Palestine in the Middle East Peace Process4. Negli ultimi anni della sua vita scrisse con
1
2
3
4
Edward Said, 1992, The Question of Palestine, New York, Vintage Books; trad. it. 1995, La questione palestinese. La
tragedia di essere vittima delle vittime, Roma, Gamberetti.
Edward Said, 1986, After the Last Sky: Palestinian Lives, New York, Pantheon Books.
Edward Said, 1994, The Politics of Dispossession: The Struggle for Palestinian Self-Determination, 1969-1994, New
York, Pantheon Books.
Edward Said, 1995, Peace and Its Discontents: Essays on Palestine in the Middle East Peace Process, London,
Vintage Books.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
regolarità numerosi articoli sul conflitto israelo-palestinese, soprattutto destinati alla stampa
araba, e la gran parte dei suoi testi furono poi raccolti in due libri, The End of the Peace Process:
Oslo and After5 e From Oslo to Iraq and the Road Map6. Nel 2002, un anno prima della sua
scomparsa, aderì al nascente partito Palestinian National Initiative guidato da Mustafa
Barghouti, una formazione politica di ispirazione laica, democratica e riformista, che si
proponeva alternativa ad Al Fatah e ad Hamas.
Raccontare la storia
Said volle difendere i diritti dei palestinesi raccontando nei minimi dettagli gli eventi passati,
in primo luogo per evitare che questi scompaiano dalla memoria. Considerò questo compito una
necessità poiché era consapevole che la storia, se raccontata solamente dal potere, difficilmente
può rendere giustizia alle tante vittime. Ritenne pertanto necessario svolgere un accurato lavoro
di documentazione, affinché le cronache quotidiane sul conflitto israelo-palestinese potessero
essere comprese nella loro complessità, senza riduttive semplificazioni ideologiche.
Riprendendo le osservazioni esposte in Orientalism e in Culture and Imperialism, evidenzia
come in un contesto di guerra giochi un ruolo fondamentale il potere di descrivere gli eventi.
Secondo Said infatti prevarranno sempre coloro che sanno meglio raccontare i fatti, rendendo
così la loro versione della storia comprensibile e convincente per un maggior numero di persone.
Attualmente, riguardo alla guerra israelo-palestinese sono infatti descritte due storie
estremamente contrastanti (come scrisse il 10 gennaio 1999 nel suo articolo Truth and
Reconciliation) dal momento che vi è
inconciliabilità tra la narrazione ufficiale sionista/israeliana e quella palestinese. Gli israeliani
dicono che la loro è stata una guerra di liberazione e che grazie a essa hanno raggiunto
l'indipendenza; i palestinesi affermano che la loro società è stata distrutta e che la maggior
parte della loro gente è stata cacciata7.
Comparando queste due storie così diverse, Said critica la condotta di molte fazioni che si scontrano
violentemente, incapaci di cogliere i legami sottostanti al conflitto. Se una parte rivendica un passato
completamente diverso dall'altra, si innesca un pericoloso processo che contribuisce a inasprire la
guerra. Secondo Said lottare per una “Palestina storica” è ormai una causa persa, come lo è per le stesse
ragioni il difendere un ”Israele storico”. Se lo scontro è mosso da motivazioni ideologiche, la speranza
di una via risolutiva pare lontana perché è precluso ogni dialogo. Condanna quindi tutti coloro che nel
conflitto vogliono prevalere con la forza, sia l'esercito israeliano, sia le fazioni palestinesi
eccessivamente cruente. Per Said la disputa non potrà mai essere risolta sul campo militare, pertanto
invita a riflettere sul passato, cogliendo i legami tra gli israeliani e i palestinesi, senza imporre barriere.
Per Said le due storie non sono affatto inconciliabili, perché entrambe sono segnate dalle stesse
sofferenze dell'esilio e dai drammi di guerre e persecuzioni. Nell'articolo Bases for Coexistence del 5
novembre 1997 scrisse che, poiché i due popoli hanno ormai le loro storie intrecciate,
bisogna aspirare dunque a un'idea di coesistenza che rispetti le differenze tra ebreo e palestinese,
5
6
7
46
Edward Said, 2000, The end of the peace process. Oslo and after, New York, Pantheon Books; trad. It. 2002, Fine del
processo di pace: Palestina/Israele dopo Oslo, Milano, Feltrinelli.
Edward Said, 2004, From Oslo to Iraq and the Road Map, New York, Pantheon Books; trad. it. 2005, La pace
possibile, Milano, Il Saggiatore.
Edward Said, Truth and Reconciliation, «The New York Times Magazine», 10 gennaio 1999, in Fine del processo di
pace, cit., p. 147.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
ma che – pur nella diversità e nella disparità – rispetti anche la comune storia di lotta e
sopravvivenza che li lega. […] Chi, in coscienza, si sentirebbe di equiparare uno sterminio di
massa con un'espropriazione di massa? Sarebbe folle anche solo tentare. Eppure essi sono
connessi8.
Nell'intervento auspica quindi una politica della convivenza, che preveda un'unica nazione
condivisa tra due popoli; conclude spiegando appunto che
l'esperienza degli ebrei e quella dei palestinesi sono storicamente, anzi organicamente, connesse:
separarle equivale a falsificare ciò che ciascuna ha di autentico. Per quanto difficile possa essere,
dobbiamo pensare insieme alle nostre storie, se vogliamo che ci sia un futuro comune. E tale
futuro deve includere, gli uni accanto agli altri, arabi ed ebrei, senza esclusioni, senza schemi
basati sul diniego e miranti a lasciar fuori l'una o l'altra parte, teoricamente o politicamente. La
vera sfida è questa. Il resto è assai più facile9.
Pur sapendo quanto l'obiettivo sia arduo, e le condizioni sfavorevoli, Said specialmente negli
ultimi dieci anni della sua vita considerò il progetto della coesistenza come l'unica soluzione
possibile. Sostenne che un solo Stato debba includere entrambi i popoli, un progetto non nuovo dal
momento che lui stesso ricordò che già nel periodo fra le due guerre mondiali importanti pensatori
ebrei come Judah Magnes, Martin Buber e Hannah Arendt si pronunciarono a favore di uno Stato binazionale10. Affinché ciò si realizzi, più volte ribadì la necessità di considerare il valore della
cittadinanza, concetto laico capace di accomunare insieme persone di diversa lingua e religione.
L'hasbara e la propaganda
Individuare nel passato i legami tra le diverse esperienze, seppur contrastanti, è per Said un
compito fondamentale, capace di riconciliare i conflitti. Tale insegnamento dovrebbe essere
appreso non solo dagli storici ma anche dai giornalisti, dal momento che è necessario raccontare
gli eventi in maniera onesta, se non si vuol alimentare la guerra. Riconoscere la dignità alle
vittime e le colpe agli assassini, di qualsiasi fronte essi siano, è un modo per iniziare a riportare
giustizia in una terra dilaniata dalle ostilità.
Secondo Said invece la storia raccontata degli israeliani sionisti è piena di mistificazioni
poiché oscura il trattamento ostile nei confronti dei palestinesi, e proprio per contestare tali
ricostruzioni del passato nelle sue opere ricorda innumerevoli volte i drammi patiti dalle vittime.
Il problema fondamentale che Said formula però non è rispondere alla domanda perché tutto ciò
avvenga, piuttosto come sia possibile che i soprusi siano fatti e perpetuati per così tanto tempo,
senza che nel mondo si sollevino considerevoli voci di protesta. Per poter risolvere un tale
quesito Said si focalizza sul piano della conoscenza e dell'informazione.
Denuncia gli attacchi delle forze armate israeliane negli insediamenti palestinesi
evidenziando, non solo l'efficienza dell'esercito, ma soprattutto la capacità dei governi israeliani
di saperne giustificare le azioni agli occhi mondo. Le operazioni contro i palestinesi vengono
sempre motivate come se fossero inevitabili, provvedimenti duri ma necessari per arginare la
violenza degli arabi e per garantire la sicurezza degli israeliani. Ogni decisione è spiegata con
nobili fini, in modo che il paese nell'immaginario comune possa essere considerato un baluardo
della democrazia. Di conseguenza, la controparte viene considerata invece sempre mossa
dall'odio fanatico, dall'intolleranza e dall'antisemitismo, cosicché i palestinesi e gli arabi sono
8
9
10
Edward Said, Bases for Coexistence, «Al-Hayat», 5 novembre 1997, in Fine del processo di pace, cit., p. 102.
Ivi, p. 103.
Edward Said, Truth and Reconciliation, cit., in Fine del processo di pace, cit., p. 147-148.
47
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
giudicati fanatici e aggressivi. Queste motivazioni sono state ripetute così tante volte che
attualmente l'opinione pubblica mondiale giudica in maniera positiva le politiche israeliane. Said
analizza proprio questo aspetto, che è appunto una problematica costante nei suoi studi: quanto
sia importante elaborare spiegazioni per poter mantenere il potere. Quel che contraddistingue
Israele secondo Said non sono tanto le risorse economiche e belliche, ma è il possesso
dell'“apparato propagandistico più imponente e temuto del mondo”11, come lo definisce
nell'articolo What Has Israel Done? del 18 aprile 2002. L'arma più potente dei governi israeliani
per Said è proprio la propaganda, la capacità di esporre e attribuire un senso accettabile a ogni
loro operazione. Nei suoi saggi e articoli infatti Said pone spesso l'attenzione sugli sforzi
israeliani di fornire continuamente idee e informazioni a giornalisti, intellettuali e opinionisti di
tutti i paesi del mondo. Il 3 luglio 1996 in un articolo intitolato proprio Modernity, Information
and Governance scrive che
la preminenza di Israele è innanzitutto la risultante di un lavoro e di un'organizzazione che si
sono dati un unico compito: produrre, nel corso del tempo, consenso nei confronti di Israele
non solo nelle menti dei suoi cittadini, ma anche di molti americani e arabi. […] Il loro metodo
consiste nel tentare di sedurre i consumatori di notizie attraverso l'utilizzo di immagini
semplificate e attraenti, fondate su realtà che conquistano l'approvazione con un minimo di
resistenza da parte dei lettori di quotidiani e degli spettatori televisivi americani. In cinque
decenni Israele ha consolidato la sua posizione di stato amante della pace accerchiato da
nemici crudeli che vogliono sterminare gli ebrei12.
Said si focalizza dunque sulla capacità di Israele di ottenere approvazioni attorno alla sua
causa poiché, proprio grazie a tale strategia, riesce a giustificare i suoi obiettivi, con qualsiasi
mezzo siano perseguiti. Come scrive il 2 novembre 2000 nell'articolo American Zionism - The
Real Problem, il consenso acquisito è così influente che
trasforma in vero e proprio merito la persistente punizione e disumanizzazione del popolo
palestinese. Oggi quali altri esseri umani al mondo possono venire uccisi in diretta sugli schermi
televisivi col beneplacito di gran parte degli spettatori americani, per i quali si tratta di una
punizione meritata? È il caso dei palestinesi13.
L'immagine pubblica di Israele secondo Said deve assolutamente essere studiata con
attenzione dagli arabi i quali non hanno ancora ben compreso che il paese è forte perché
padroneggia gli strumenti della propaganda, in special modo nei media statunitensi ed europei.
Rimprovera pertanto quelle fazioni palestinesi che ritengono necessaria la sola lotta armata,
ricordando loro quanto sia insensato reagire violentemente, senza poi neanche saper spiegare i
motivi delle rivolte. Spiega infatti nell'articolo The Price of Camp David del 19 luglio 2001 che
nemmeno una coraggiosa rivolta anticoloniale si spiega da sola e che ciò che noi (e gli altri
arabi) vediamo come espressione del nostro diritto di resistenza all'oppressione può essere
presentato da Israele come una forma di terrorismo o di violenza estranea a ogni principio. Nel
frattempo, Israele ha persuaso il mondo a dimenticare la sua occupazione violenta e le sue
11
12
13
48
Edward Said, What Has Israel Done?, «Al-Ahram Weekly», 18-24 aprile 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 202.
Edward Said, Modernity, Information and Governance, «Al-Hayat», 3 luglio 1996, in Fine del processo di pace, cit.,
p. 47-48.
Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), «Al-Ahram Weekly», 7 dicembre 2000, in Fine del processo
di pace, cit., p. 187.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
azioni terroristiche di punizione collettiva contro il popolo palestinese14.
Sollecita pertanto a fronteggiare le politiche israeliane non nel campo militare, ma sul piano
della diffusione della conoscenza, poiché in tale conflitto è centrale l'arte della retorica. Il 29
marzo 2001 intitolò un articolo proprio Time to Turn to the Other Front, che in italiano significa
“È ora di occuparsi dell'altro fronte”, nel quale per “altro fronte” intende il settore
dell'informazione. Invita i palestinesi e il mondo arabo a impiegare le energie su questo tema
cruciale, dal momento che c'è un
nesso tra la propaganda che trasforma i palestinesi in terroristi orrendi e fanatici e la facilità
con cui Israele, pur perpetrando ogni giorno orribili crimini di guerra, riesce a farsi considerare
ancora un piccolo stato coraggioso che si batte contro lo sterminio, nonché a conservare il
sostegno incondizionato degli Stati Uniti, finanziato totalmente dall'ignaro contribuente
americano15.
Le politiche israeliane per Said traggono forza da questa triplice capacità: descrivere le
proprie azioni come positive e costruttive, associare gli oppositori al terrorismo cieco e
distruttivo, e mantenere il consenso negli Stati Uniti e in Europa. Nel suo articolo Propaganda
and War del 30 agosto 2001 spiega proprio lo stretto legame tra il proseguimento della guerra e
l'informazione che la sostiene. Ricorda appunto che
Israele ha già speso centinaia di milioni di dollari per quella che in ebraico si chiama hasbara,
ovvero informazione diretta al mondo esterno (in altre parole, propaganda)16.
Tali investimenti riguardano una serie di attività ideate specialmente per i professionisti
dell'informazione in tutto il mondo. Scrive Said che giornalisti, politici, professori e studenti
sono invitati a partecipare a corsi e seminari dedicati all'attuale situazione di Israele, offrendo
loro abbondante materiale informativo. Viene spiegato ai commentatori come parlare del paese
attraverso i media, difendendolo dalle opinioni avversarie. Si cerca di indirizzare i fotografi e i
cronisti operativi in Medio Oriente affinché presentino certe immagini e non altre. Vengono
inoltre acquistati spazi pubblicitari sui giornali di ogni paese. Said considera questa loro strategia
vincente poiché
il connubio attivo tra propaganda in Occidente e forza militare sul campo, messo a punto da
Israele e dai suoi sostenitori, ha reso possibile il protrarsi della punizione collettiva dei
palestinesi17.
La copertura mediatica
Said si concentra dunque sugli effetti della propaganda israeliana nei media di tutto il mondo.
È un aspetto cruciale poiché non è casuale che gran parte delle opinioni, specialmente negli Stati
Uniti e in Europa, siano estremamente favorevoli alle politiche di Israele. Spiega quanto sia
14
15
16
17
Edward Said, The Price of Camp David, «Al-Ahram Weekly», 19-25 luglio 2001, in La Pace Possibile, cit. p. 115.
Edward Said, Time to Turn to the Other Front, «Al-Ahram Weekly», 26 marzo-4 aprile 2001, in La Pace Possibile,
cit. p. 86.
Edward Said, Propaganda and War, «Al-Ahram Weekly», 30 agosto-5 settembre 2001, in La Pace Possibile, cit., p.
124.
Ivi, p. 129.
49
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
solido il consenso del paese mostrando ad esempio come viene di solito presentato in televisione,
in particolar modo dalle personalità illustri. Quando vennero celebrati i cinquant'anni dalla
fondazione dello Stato di Israele nel 1998, Said nel suo articolo Fifty Years of Dispossession
scrisse che i festeggiamenti negli Stati Uniti furono accompagnati da commenti che esaltavano in
maniera unanime i meriti della nazione, senza alcuna menzione ai drammi dei palestinesi. La
Cbs trasmise in prima serata da Hollywood un programma di due ore, condotto da celebrità dello
spettacolo (parteciparono gli attori Michael Douglas, Kevin Kostner, Arnold Schwarzenegger,
Kathy Bates e Winona Ryder), durante il quale il presidente Bill Clinton apparve sullo schermo
definendo Israele “una piccola oasi” che “ha saputo far fiorire quello che un tempo era deserto
sterile” e “costruire una democrazia che cresce rigogliosa su un terreno ostile”18. Said riporta
questo evento, e molti altri casi simili, poiché ritiene importante riflettere su come Israele viene
definito nei media, dal momento che il consenso si acquisisce proprio grazie a un accurato
utilizzo della comunicazione.
Per analizzare quanto la propaganda israeliana sia egemonica, in molti testi Said commenta
come viene generalmente rappresentato il conflitto israelo-palestinese in televisione e sui
giornali più famosi. Nell'articolo American Zionism - The Real Problem scrive di aver passato in
rassegna la stampa statunitense per dimostrare come i fatti vengono raccontati il più delle volte
in accordo con gli interessi israeliani. Spiega infatti:
Ho svolto un'indagine sulle principali testate nordamericane. A partire dal 28 settembre [2000],
«The New York Times», «The Washington Post», «The Wall Street Journal», «The Los
Angeles Times», «The Boston Globe», hanno pubblicato in media uno/tre articoli di commento
al giorno. Fatta eccezione per non più di tre articoli di «The Los Angeles Times» scritti da un
punto di vista filopalestinese e per due (…) del «The New York Times», tutti gli articoli (…)
sostengono Israele, il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti e l'idea che la violenza
palestinese, la scarsa cooperazione di Arafat e il fondamentalismo islamico siano da
biasimare19.
Il mese successivo, il 14 dicembre 2000, nell'intervento Palestinians Under Siege, riporta poi
un paio di sondaggi analoghi, ricordando che
il 25 Ottobre [2000] «Ha'aretz», citando un'analisi condotta dall'Anti-Defamation League sugli
articoli di fondo pubblicati dai principali giornali statunitensi, affermava che c'era “una tendenza
a sostenere Israele simpatizzando con la sua condizione”, con diciannove giornali che
appoggiavano Israele, diciassette che fornivano “un'analisi equilibrata” e soltanto nove “critici
nei confronti dei leader israeliani”. Il 3 Novembre [2000] Fairness and Accuracy in Media
(FAIR) riferiva che i tre principali network americani avevano trasmesso novantanove servizi
sull'Intifada tra il 28 settembre e il 2 novembre, ma che solo in quattro di questi si menzionavano
i “territori occupati”20.
Nelle stesso testo sostiene inoltre che, secondo quest'ultima indagine,
il più autorevole quotidiano americano, il «New York Times», ha ospitato solo una volta un
opinionista palestinese o arabo (che tra l'altro è un fautore di Oslo) in mezzo a una vera e
propria valanga di editoriali sostanzialmente favorevoli alle posizioni americane e israeliane; il
18
19
20
50
Edward Said, Fifty Years od Dispossession, «The Guardian», 2 maggio 1998, in Fine del processo di pace, cit., p. 134.
Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), cit., in Fine del processo di pace, cit., p. 185-186.
Edward Said, Palestinians Under Siege, «London Review of Books», 14 dicembre 2000, in La Pace Possibile, cit., p.
33.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
«Wall Street Journal» e il «Washington Post» non hanno fatto neanche questo21.
Said non si limita a riportare la grande quantità delle opinioni sostenitrici di Israele, indaga
anche la costruzione delle notizie, facendo notare come vengano selezionati determinati fatti a
discapito di altri. Denuncia che la gran parte dei media ripeta frequentemente le notizie degli
attentati palestinesi, ponendo tanta enfasi sulla brutalità dei gesti, trascurando però gli attacchi
dell'esercito israeliano, annunciati in modo più distaccato. Riferisce che molte volte
l'informazione è strutturata in tal modo, ad esempio nell'articolo del 14 marzo 2002 What Price
Oslo? ricorda che
l'8 marzo [2002], finora il giorno più cruento per i palestinesi dall'inizio – sedici mesi fa –
dell'Intifada, il notiziario serale della Cnn ha riferito che erano morte quaranta “persone”,
senza neppure spiegare che tra loro c'erano diversi operatori della Mezzaluna rossa, uccisi
quando i carri armati israeliani hanno crudelmente impedito alle ambulanze di raggiungere
i feriti. Solo “persone”, e nessuna immagine dell'inferno in cui vivevano in questo
trentacinquesimo anno di occupazione militare22.
Molte volte denuncia la scarsa obiettività della maggior parte dei giornalisti, sempre
disposti a giustificare le politiche israeliane e a condannare i palestinesi. Critica soprattutto
la stampa americana poiché racconta i fatti con una visione fortemente ideologica, senza
menzionare la storia e il contesto entro il quale avvengono i drammi dei palestinesi.
Nell'articolo Time to Turn to the Other Front scrive appunto che negli Stati Uniti
le testate e i giornalisti più importanti di solito non ammettono opinioni filopalestinesi. Il
«New York Times» ha dato spazio due o tre volte a posizioni di questo tipo, contro
un'infinità di articoli “neutrali” o filoisraeliani, e lo stesso vale per tutti i principali
quotidiani americani. Così il lettore medio viene sommerso da decine di articoli sulla
“violenza”, come se tale violenza fosse peggiore degli attacchi israeliani condotti con
elicotteri, carri armati e missili. Se è tristemente vero che sul campo un morto israeliano
pare valere quanto molti palestinesi, è vero anche che i palestinesi nei media, nonostante le
loro sofferenze reali e le loro umiliazioni quotidiane, non sembrano molto più umani degli
scarafaggi e dei terroristi ai quali vengono paragonati23.
Nei suoi articoli Said spesso accusa il «New York Times» di essere troppo benevolo nei
confronti di Israele, specialmente quando il celebre quotidiano pubblica gli interventi di Thomas
Friedman, noto editorialista che non ammette mai le nefandezze commesse contro i palestinesi.
Said rimprovera frequentemente molti opinionisti, anche i più celebri negli Stati Uniti e in
Europa, giudicandoli negativamente perché sempre pronti a elogiare le ragioni del potere.
Nell'opera The Question of Palestine afferma appunto che
gli intellettuali occidentali e israeliani per trent'anni hanno esaltato Israele e il sionismo. Essi
hanno impersonato perfettamente il ruolo di “esperti di legittimazione” di cui parlava Gramsci,
disonesti e irrazionali nonostante le loro pretese di saggezza e di umanità. […] Qualunque
intellettuale che si rispetti è disponibile oggi a levare la sua voce contro gli abusi dei diritti
umani in Argentina, Cile, Sudafrica, eppure nulla viene detto nel caso di Israele24.
21
22
23
24
Ivi, p. 34.
Edward Said, What Price Oslo?, «Al-Ahram Weekly», 14-20 marzo 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 191.
Edward Said, Time to Turn to the Other Front, cit., in La Pace Possibile, cit. p. 85.
Edward Said, La questione palestinese, cit. p. 118-119.
51
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
La scelta del linguaggio
Analizzando la diffusione e il contenuto delle notizie sul conflitto israelo-palestinese, Said
dedica particolare attenzione al linguaggio che viene utilizzato nei discorsi e nei testi. In
American Zionism - The Real Problem sostiene che, soprattutto nei principali media statunitensi,
è presente una distorsione di stampo orwelliano poiché le parole sembrano aver perduto i loro
veri significati25. Un'informazione spiegata con abusi verbali non è corretta, è solamente un
modo per assolvere le azioni illegali; nell'articolo Propaganda and War scrive appunto che
per designare questo genere di disinformazione George Orwell utilizzava due termini,
“neolingua” (newspeak) e “doppio pensiero” (doublethink) che servono a coprire azioni
criminali, come l'uccisione ingiustificata di persone, con una patina di razionalità26.
Said sottolinea dunque quanto siano frequenti le espressioni che intendono disumanizzare i
nemici, come denuncia in What Has Israel Done? dal momento che
“smantellare la rete terroristica”, “distruggere l'infrastruttura del terrore”, “attaccate i covi
dei terroristi”: simili slogan sono stati ripetuti così spesso che hanno conferito a Israele il
diritto di fare ciò che vuole, ovvero, in sostanza, di distruggere la vita civile palestinese 27.
I palestinesi e gli arabi sono definiti tramite la denigrazione, associando alle persone parole
come “militante” o “presunto terrorista”. Come spiega il 19 dicembre 2002 in Immediate
Imperatives, tali termini servono a giustificare la guerra e gli attacchi mirati, cosicché
Israele se la cava impunemente perché i giornalisti usano espressioni come “presunto” o
“secondo fonti ufficiose” per coprire la maniera irresponsabile in cui svolgono il loro
lavoro di cronisti. Sul «New York Times» in particolare queste espressioni ricorrono
talmente spesso nelle cronache dal Medio Oriente (Iraq incluso) che la testata potrebbe
ormai chiamarsi “Secondo fonti ufficiose”28.
Nell'articolo Israel, Iraq and the United States del 10 ottobre 2002 scrive appunto che “la
formuletta 'sospetto terrorista' funge da giustificazione per qualunque uccisione decisa da Sharon
e nel contempo da epitaffio per la vittima”29. Said mostra dunque che certe espressioni sono
capaci di nascondere la realtà e il contesto; la parola “terrorista”, ad esempio, è molto utilizzata
proprio perché priva di significato le azioni e di umanità le persone. Nello stesso articolo precisa
infatti che
vale la pena ricordare che Israele cominciò a ricorrere sistematicamente al termine
“terrorista” a metà degli anni settanta, per definire qualunque atto di resistenza palestinese.
Da allora, e soprattutto durante la prima Intifada, dal 1987 al 1993, si è regolarmente
mirato a eliminare la distinzione tra resistenza e terrore e a spoliticizzare di fatto le
25
26
27
28
29
52
Edward Said, American Zionism - The Real Problem (3), cit., in Fine del processo di pace: Palestina/Israele dopo
Oslo, cit., p. 186. Said si riferisce alla lingua descritta nel romanzo di fantascienza scritto da George Orwell: 1949,
1984, London, Harvill Secker, trad. it. 1973, 1984, Milano, Mondadori.
Edward Said, Propaganda and War, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 125.
Edward Said, What Has Israel Done?, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 201.
Edward Said, Immediate Imperatives, «Al-Ahram Weekly», 19-25 dicembre 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 268.
Edward Said, Israel, Iraq and the United States, «Al-Ahram Weekly», 10-16 ottobre 2002, in La Pace Possibile, cit.,
p. 254.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
motivazioni della lotta armata30.
La scelta del linguaggio è una questione cruciale, poiché da tale processo deriva la capacità di
attribuire senso alla realtà, accentuando determinati aspetti e offuscandone altri. In One-Way
Street dell'11 luglio 2002 scrive appunto anche che
è come se i palestinesi non esistessero, se non quando viene commesso un attentato
terroristico: allora l'apparato mediatico mondiale arriva di corsa a gettare un'enorme
coperta soffocante con la scritta “terrorista” sulla loro esistenza di esseri senzienti dotati di
una storia e di una società reali31.
Ascoltando i notiziari televisivi inoltre, nell'articolo What Price Oslo? Said osserva che la
Cnn
non parla mai di territori “occupati” (ma sempre di “violenza in Israele”, come se i
campi di battaglia principali fossero le sale da concerto e i caffè di Tel Aviv e non i
ghetti e i campi profughi assediati della Palestina, già circondati da almeno
centocinquanta insediamenti israeliani illegali) 32.
Per Said infatti i media americani raramente spiegano correttamente i dettagli geografici, ad
esempio distinguono tra arabi israeliani e palestinesi, quando in realtà sono lo stesso popolo.
Seguire l'esempio della lotta sudafricana
Secondo Said stampa e televisioni, in particolar modo negli Stati Uniti, quando trattano il
conflitto israelo-palestinese forniscono discorsi che mascherano la realtà e gli squilibri, cosicché
inevitabilmente coloro che ricevono le notizie acquisiscono una conoscenza distorta. In The Only
Alternative dell'1 marzo 2001 afferma che, poiché le informazioni generalmente concordano con
le politiche israeliane,
oggi la maggior parte degli spettatori televisivi non sa nulla delle politiche fondiarie razziste di
Israele, delle sue spoliazioni, delle torture, della discriminazione sistematica dei palestinesi
soltanto perché non sono ebrei33.
Nell'articolo Propaganda and War Said pone attenzione proprio sul problema dell'opinione
pubblica, in quanto nota che “l'americano medio non ha la più pallida idea del fatto che esiste
una storia di sofferenze ed espropriazioni palestinesi vecchia almeno quanto Israele”34. Nello
stesso testo illustra i risultati di una ricerca commissionata dall'American-Arab AntiDiscrimination Committee su come il conflitto israelo-palestinese sia giudicato negli Stati Uniti.
Said è impressionato dalle risposte dei suoi concittadini poiché la maggior parte considera
Israele un paese all'avanguardia nella democrazia. Durante il sondaggio meno del 3-4% degli
intervistati dichiarava infatti di essere al corrente della presenza di un'occupazione illegale, e
quasi tutti invece associavano i palestinesi alla violenza e al terrorismo, giudicandoli
intransigenti e aggressivi. Esaminata questa indagine di opinione, Said afferma che
30
31
32
33
34
Ivi, p. 245.
Edward Said, One-Way Street, «Al-Ahram Weekly», 11-17 luglio 2002, in La Pace Possibile, cit., p. 221.
Edward Said, What Price Oslo?, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 190-191.
Edward Said, The Only Alternative, «Al-Ahram Weekly», 1-7 marzo 2001, in La Pace Possibile, cit., p. 75.
Edward Said, Propaganda and War, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 125.
53
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
la propaganda israeliana ha avuto un tale successo che i palestinesi sembrano davvero
possedere poche connotazioni positive, o nessuna. Sono quasi del tutto disumanizzati.
Cinquant'anni di propaganda israeliana incontrastata in America ci ha portato a questo punto:
noi perdiamo migliaia di vite umane e di ettari di terra senza che alcuna coscienza ne sia
turbata, perché non ci opponiamo, non contestiamo seriamente queste terribili falsificazioni
con immagini e messaggi nostri35.
Said è dunque fortemente preoccupato della scarsa conoscenza sul conflitto presente tra i
cittadini statunitensi. Giudicando tale ignoranza l'effetto di un'informazione costantemente
distorta, sostiene la necessità di divulgare notizie più obiettive, per raccontare quanto siano gravi
le sofferenze dei palestinesi. Cambiare l'opinione pubblica negli Stati Uniti, in Europa e nel resto
del mondo è un compito fondamentale poiché la partita più importante si gioca nel settore della
conoscenza, non nel campo militare, come ha dimostrato la vittoria del movimento sudafricano
contro l'apartheid.
Nel 1991 e nel 1999 Said visitò il Sud Africa e da entrambi i viaggi trasse insegnamenti che
gli consentirono di capire meglio il conflitto israelo-palestinese e di intravedere una possibile
soluzione. Innanzitutto cominciò a considerare un obiettivo sbagliato la creazione di due entità
statali indipendenti, una per gli ebrei e l'altra per i palestinesi. Vide una stretta somiglianza tra i
bantustan sudafricani, ideati in regime di apartheid, e i territori autonomi progettati negli accordi
di Oslo, intesi come aree da destinare ai palestinesi all'interno di Israele. Comprese inoltre
quanto sia importante la funzione di un'organizzazione che promuova la lotta in maniera
coordinata, con pratiche non violente di disobbedienza civile, affinché la rabbia non sfoci in
attacchi cruenti, azioni isolate che non portano a nessun risultato. Nell'articolo The Tragedy
Deepens del 7 dicembre 2000 scrive infatti che
soltanto un movimento di massa dotato di una tattica e di una strategia che esaltino
l'elemento popolare può mettere in difficoltà l'occupante o l'oppressore. In secondo luogo
soltanto un movimento di massa politicizzato, permeato dall'idea di una partecipazione
diretta a un futuro che contribuisce a creare, ha storicamente una possibilità di liberarsi
dall'oppressione e dall'occupazione militare. […] Un gran numero di palestinesi deve
interferire nei processi di insediamento, bloccando le strade, impedendo l'arrivo dei materiali
da costruzione, in altre parole isolando le colonie invece di permettere che queste, con un
numero di abitanti molto inferiore, isolino e accerchino i palestinesi come avviene oggi36.
Affinché tali strategie si possano realizzare, è fondamentale avere l'appoggio dell'opinione
pubblica mondiale, ottenibile solamente avviando molte campagne di informazione negli Stati
Uniti, in Europa e anche in Medio Oriente, per favorire il dialogo e la comprensione reciproca
tra palestinesi e israeliani.
Parlando con i membri dell'African National Congress (Anc) che condussero la lotta per i
diritti dei neri, Said apprese appunto come possa essere pianificato un movimento di liberazione
all'estero. Durante gli anni '80, in una situazione fortemente svantaggiosa per l'Anc e con molti
leader in carcere, i militanti contro l'apartheid capirono che l'unica arma che avevano a
disposizione era far condannare il governo sudafricano sul piano morale, ponendo in risalto la
dimensione umana e universale della loro causa. Walter Sisulu, personalità di prestigio dell'Anc,
nel 1991 così gli raccontò la lotta:
Capimmo che la nostra sola speranza era concentrarsi sull'arena internazionale e lì
35
36
54
Ivi, p. 128.
Edward Said, The Tragedy Deepens, «Al-Ahram Weekly», 7-13 dicembre 2000, in La Pace Possibile, cit., p. 54.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
delegittimare l'apartheid. Ci organizzammo in tutte le principali città occidentali: avviammo
comitati, pungolammo i media, tenemmo incontri e manifestazioni, non una o due, bensì
migliaia di volte. Organizzammo campus universitari e chiese, sindacati dei lavoratori, uomini
d'affari e gruppi professionali. […] Ogni vittoria che registravamo a Londra o a Glasgow, a
Iowa City, Tolosa, Berlino o Stoccolma, dava un senso di speranza alla nostra gente in patria, e
rinnovava la sua determinazione a non abbandonare la lotta37.
Said ricorda tale discorso nel articolo Strategies of Hope del 25 settembre 1997, poiché da
allora comprese quanto sia importante l'attività di propaganda, unico modo per ottenere il
consenso dell'opinione pubblica. Ritenne tale strategia necessaria per la lotta dei palestinesi, dal
momento che negli Stati Uniti e in Europa è diffusa una pessima conoscenza riguardo al
conflitto. Invitò dunque a controbattere l'informazione israeliana organizzando campagne di
sensibilizzazione all'estero, specialmente in Occidente, poiché in questi paesi
media, accademie, istituti di ricerca, università, sindacati, chiese, associazioni, e le altre
organizzazioni della società civile, giocano nella vita politica un ruolo altrettanto importante a
quello del governo centrale38.
Seguendo l'esempio del Sudafrica, nella speranza che partecipazione civile e conoscenza
possano alimentare la democrazia, Said propose di isolare moralmente le politiche
segregazioniste di Israele, affinché possa realizzarsi una nazione unita che rispetti ugualmente i
diritti dei cittadini ebrei e palestinesi. Auspicando questo obiettivo, afferma inoltre il 3 agosto
2000 in One More Chance che “sarebbe un'ottima idea dare vita a una Commissione per la verità
e la riconciliazione costituita da israeliani e palestinesi”39.
Informazione e partecipazione
Condurre iniziative nel settore dell'informazione è dunque un compito fondamentale, tuttavia
trascurato per troppo tempo dai palestinesi. Secondo Said solamente una volta in passato fu
preso seriamente in considerazione il potenziale delle comunicazioni, evento riportato
nell'articolo Time to Turn to the Other Front, quando ricorda che durante la guerra in Libano
nel 1982 si riunì a Londra un consistente numero di uomini d'affari e intellettuali
palestinesi. L'idea era di contribuire ad alleviare le sofferenze dei palestinesi e organizzare
una campagna d'informazione negli Stati Uniti: la resistenza dei palestinesi sul campo e
l'immagine dei palestinesi erano considerate due fronti di uguale importanza. Con l'andar
del tempo, però, il secondo fronte è stato del tutto abbandonato per ragioni che continuo a
non capire40.
Said si rammarica dunque che stessi palestinesi non abbiano saputo catturare l'immaginazione
mondiale, e critica in primo luogo i leader arabi di non essersi mai impegnati al riguardo.
Denunciò in One-Way Street che questa incapacità è uno dei motivi delle tante sconfitte poiché
37
38
39
40
Edward Said, Strategies of Hope, «Al-Hayat», 25 settembre 1997, cit., p. 94-95.
Edward Said, La questione palestinese, cit., p. 239. La Truth and Reconciliation Commission fu istituita in Sud Africa
nel 1995, dopo la fine dell'apartheid. Fu un tribunale straordinario costituito per registrare le testimonianze delle
vittime, prevedendo la possibilità di concedere l'amnistia a coloro che ammettevano le colpe.
Edward Said, One More Chance, «Al-Ahram Weekly», 3-9 dicembre 2000, in Fine del processo di pace, cit., p. 179.
Edward Said, Time to Turn to the Other Front, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 86.
55
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
insieme, la propaganda israeliana, il disprezzo antiarabo degli Stati Uniti e l'incapacità degli
stessi arabi (e dei palestinesi) di formulare e rappresentare gli interessi del proprio popolo
hanno condotto a una disumanizzazione generalizzata dei palestinesi41.
Dal momento che le condizioni sono sfavorevoli per i palestinesi, propose come unica
strategia plausibile di rivolgersi alla società civile di tutto il mondo, in primo luogo ebraica,
dentro e fuori di Israele. Nell'articolo These Are the Realities del 19 aprile 2001 invita infatti a
dialogare con i settori migliori del paese, con le “centinaia di riservisti che hanno rifiutato di
prestare servizio miliare durante l'Intifada”42 e con gli “individui e gruppi eroici come i Rabbis
for Human Rights e il movimento contro le demolizioni di case guidato da Jeff Halper”43.
È importante, nella visione prospettata da Said, non considerare Israele come un'entità
monolitica, in quanto il paese è composto da realtà disparate, anche disponibili al confronto. Said
insiste affinché i palestinesi instaurino legami con gli ebrei, i cittadini israeliani e la società civile
nel mondo, poiché il dialogo e la conoscenza reciproca sono il primo passo verso il
riconoscimento dei diritti. Nel 1996, durante un suo viaggio in Palestina, volle appunto
conoscere meglio le organizzazioni dedite alla diffusione delle notizie. Incontrò Ghassan Khatib,
fondatore del Jerusalem Media and Communications Center, un ente palestinese che offre
informazioni al giornalisti stranieri, e Michael Warschawski, direttore dell'Alternative
Information Center, un'organizzazione israeliana che insieme ai palestinesi intende praticare un
giornalismo schierato contro le discriminazioni44. Conobbe anche esponenti della società civile
palestinese come Hassan Barghouti, segretario del sindacato Democracy and Workers Rights
Center45, e Raja Shehadeh, fondatore di Al Haq, un'organizzazione palestinese per la difesa dei
diritti umani46.
Seguendo l'esempio della lotta sudafricana, invita dunque coloro che intendono migliorare il
paese a mobilitare la società civile e gli intellettuali in tutto il mondo, in modo che un numero
crescente di persone possa comprendere la drammaticità della situazione. Molte volte Said nei
suoi articoli elogia il coraggio di quei giornalisti che raccontano all'estero le sofferenze dei
palestinesi. Apprezza Robert Fisk, corrispondente dal Medio Oriente dell'«Independent», e sullo
stesso quotidiano gli interventi di Phil Reeves, invece sul «Guardian» ammira quelli di David
Hirst47. Reputa ottimi gli articoli di John Pilger e la partecipazione attiva dell'italiana Luisa
Morgantini, ma più di tutti elogia la giornalista Amira Hass del quotidiano israeliano «Ha'aretz»,
per il quale descrive la cronaca delle città palestinesi e dei territori occupati.
Alla fine degli anni '90, negli ultimi anni della sua vita, Said conobbe anche il crescere della
diffusione di Internet nel mondo delle comunicazioni. Ne apprezzò le potenzialità poiché offre la
possibilità a un gran numero di persone di ottenere molte informazioni, grazie alla facilità con
cui si possono trasmettere, riprodurre e conservare. Scrive infatti in Palestinians Under Siege
che, sebbene vi siano un
controllo paralizzante dei media negli Stati Uniti e (in minor misura) in Europa e la pesante
censura vigente nel mondo arabo, ora su Internet è disponibile un'enorme quantità di
41
42
43
44
45
46
47
56
Edward Said, One-Way Street, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 221.
Edward Said, These Are the Realities, «Al-Ahram Weekly», 19-25 aprile 2001, in La Pace Possibile, cit., p. 89.
Ivi, p. 90
Edward Said, Perduti tra guerrra e pace, “The London Review of Books”, settembre 1996, in 1998, Tra guerra e
pace. Ritorno in Palestina-Israele, Milano, Feltrinelli, p. 69-75
Ivi, p. 66-68.
Ivi, p. 83.84.
Edward Said, Palestinians Under Siege, cit., in La Pace Possibile, cit., p. 48.
IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
informazione alternativa. Cyberattivisti e hackers hanno reso accessibile una gran copia di
materiale a chiunque sia minimamente alfabetizzato in campo informatico48.
La possibilità di ricevere notizie slegate dagli interessi dei governi aiuterà a conoscere meglio
il conflitto israelo-palestinese. Nell'articolo What Has Israel Done? infatti ricorda che
nonostante i tentativi di Israele di limitare la copertura mediatica della sua invasione
devastante delle città e dei campi profughi palestinesi in Cisgiordania, informazioni e
immagini sono ugualmente circolate. Centinaia di testimonianze dirette, verbali e visive,
sono state diffuse via internet, ma sono comparse anche nelle tv arabe ed europee, mentre
non sono state diffuse dai media americani principali49.
Said esalta anche il potenziale liberatorio di internet, specialmente riflettendo
sull'introduzione delle connessioni in Palestina. Giudicò infatti positivamente la realizzazione di
un laboratorio informatico in Cisgiordania nell'Ibdaa Center, uno strumento utile per far
comunicare tra loro i rifugiati palestinesi50.
Divulgare un'informazione onesta e instaurare ponti tra persone e culture sono compiti
importanti, capaci di favorire la convivenza pacifica, e passi di un cammino che potrà condurre,
si augura Said, verso uno stato bi-nazionale. Solamente coltivando i legami tra le differenze, tra
ebrei e palestinesi, sarà possibile raggiungere questo arduo obiettivo, come afferma al termine di
un'intervista rilasciata nel 2000 al giornalista dell'«Ha'aretz» Ari Shavit.
Edward Said: Adorno sostiene che nel XX secolo l'idea di casa sia passata di moda.
Credo che parte della mia critica al sionismo sia rivolta proprio a quel suo attribuire
troppa importanza alla casa. Quell'affermare “noi abbiamo bisogno di una casa” e
“faremo qualsiasi cosa per ottenerla anche se questo significa toglierla ad altri”. Perché
crede che io sia così interessato allo stato bi-nazionale? Perché desidero un qualche
tessuto sociale talmente ricco che nessuno possa interamente comprendere e nessuno
possa del tutto possedere. Non ho mai capito l'idea del “questo è il posto mio e tu
restane fuori”. Non amo tornare all'origine, alla purezza. Penso che i maggiori disastri
politici e intellettuali siano stati provocati da movimenti riduttivi che tentano di
semplificare e purificare. Che dicevano: “Dobbiamo piantare tende o kibbutz o eserciti
e cominciare da zero”. Non credo in tutto questo. Non lo desidererei per me stesso.
Anche se fossi ebreo, mi ci opporrei. E non durerà. Mi creda, Ari. Mi prenda in parola.
Sono più anziano di lei. Non ne resterà memoria.
Ari Shavit: Sembra molto ebraico quello che dice.
Edward Said: Certamente. Io sono l’ultimo intellettuale ebreo. Non ne conosco altri.
Tutti i vostri altri intellettuali ebrei oggigiorno sono dei gretti signorotti di provincia.
Da Amos Oz a tutti questi qui in America. Dunque sono l’ultimo. L’unico vero
continuatore di Adorno. Mettiamola così: sono un ebreo-palestinese 51.
48
49
50
51
Ibid.
Edward Said, What Has Israel Done?, cit., in La Pace Possibile, cit. p. 201.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 154-155. Purtroppo l'iniziativa, costruita nell'ambito del
progetto Across Borders, dopo poche settimane nell'agosto del 2000 fu distrutta da un attacco vandalico, evento
estremamente negativo che fece tornare i residenti nell'isolamento.
Edward Said, My Right of Return, «Ha'aretz Magazine», 18 agosto 2000, pubblicato in: Edward Said, 2004, Power,
Politics and Culture, London, Bloomsbury Publishing, p. 457-458. Articolo tradotto in italiano, 2007, Il mio diritto al
ritorno. Intervista con Ari Shavit, Ha'aretz Magazine, Tel Aviv 2000, Roma, Nottetempo, p. 47-48.
57
PARTE 3
GLI INTELLETTUALI
GLI INTELLETTUALI
In questa sezione prendiamo in esame il ruolo degli intellettuali, questione cruciale per Said
poiché, essendo la società pervasa dalle rappresentazioni, sono proprio gli intellettuali a dover
gestire una posizione centrale, grazie alla loro capacità di operare nel campo delle narrazioni.
L'argomento è collegato ai temi trattati in precedenza, ovvero cultura, potere e media, dal
momento che il nostro Autore invita sempre a non ricevere in maniera passiva le informazioni
che ci vengono offerte. Giudica intellettuali coloro che rielaborano la conoscenza, agendo così in
maniera attiva nella società, appunto quel che esorta a fare Said. Dal momento che la cultura e il
mondo dei media, che è parte di essa, sono composti da interpretazioni, è necessario soffermarsi
sugli intellettuali, poiché questi hanno coltivato maggiormente l'abilità di formulare ed esporre
discorsi.
Riflettendo sulla produzione culturale nel suo complesso, Said esalta il valore dell'umanesimo
poiché non induce a cercare spiegazioni in concetti astratti, in quanto ogni idea e pensiero
derivano necessariamente dalle attività umane. Nel 2000 preparò un ciclo di conferenze sul tema
dell'umanesimo, pubblicate postume in Humanism and Democratic Criticism1, nelle quali spiegò
quanto tale filosofia possa essere importante oggi per meglio comprendere il mondo e per
rafforzare i valori democratici. Dal momento che le rappresentazioni sono sempre incarnate nella
società entro la quale sono prodotte, ogni volta che si giudicano gli intellettuali non bisogna
dimenticare la rete di relazioni che li sostiene e, quando si prendono in esame le culture, mai
trascurare i processi storici che le hanno prodotte.
Said afferma che le culture, essendo il frutto di situazioni ben determinate, sono sempre
immerse in quella che lui chiama mondanità, e pertanto non devono mai essere considerate
isolate, poiché sono sempre legate le une alle altre. Secondo questo principio, le varie culture del
mondo, benché siano lontane tra loro e molto diverse, si richiamano reciprocamente, così come
nel campo della musica classica avviene nel contrappunto. Un aspetto del pensiero di Said è
proprio dedicato a tale concetto, l'invito a interpretare le opere culturali in maniera comparata,
mantenendo sempre aperta la possibilità del dialogo. Il fascino di tale visione può essere
apprezzato specialmente da coloro che non sentono di appartenere completamente a nessun
luogo, vivendo perennemente esuli, come dovrebbero essere secondo l'autore gli intellettuali.
Benché comporti sofferenze, Said considera l'esilio un valore, dato che offre una prospettiva
privilegiata sul mondo; invita pertanto gli intellettuali a mantenersi il più possibile autonomi,
non attratti da benefici immediati e slegati dai potenti di turno. Tali riflessioni furono esposte da
Said nel 1993 durante le Reith Lectures, le celebri conferenze radiofoniche della Bbc, per le quali
decise di trattare proprio l'argomento delle rappresentazioni degli intellettuali2. In quei discorsi
sostenne quanto sia importante prendere parte attivamente alla sfera sociale, specialmente per gli
intellettuali, affermando che il loro ruolo dovrebbe essere sempre pubblico, senza alcun timore di
esporre le proprie opinioni.
Secondo Said gli intellettuali, quando non allineati con il potere, sono in grado di mostrare
1
2
Edward Said, 2004, Humanism and Democratic Criticism, New York, Columbia University Press; trad. it. 2007,
Umanesimo e critica democratica, Milano, Il Saggiatore.
Edward Said, 1994, Representations of the Intellectual: The 1993 Reith Lectures, Vintage; trad. it. 1995, Dire la
verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
che è possibile controbattere le ragioni maggiormente diffuse, di solito ripetute da coloro che
detengono il comando. In particolar modo gli umanisti, grazie alle loro competenze nell'analisi
del linguaggio, sono importanti per la resistenza che svolgono, in quanto possono smascherare i
discorsi dei media, rendendo palesi le eventuali menzogne, e offrire spiegazioni alternative.
60
CAPITOLO 10
L’UMANESIMO
La riflessione umanistica deve spezzare la dipendenza dal formato breve, dal
sommario, dalla citazione fuori dal contesto e cercare di introdurre invece un
processo di riflessione, ricerca, discussione informata che sia in grado di vagliare
a fondo l'argomento in oggetto.
(E. Said, Umanesimo e critica democratica, p. 99)
I valori dell'umanesimo
Nelle sue opere Said sostiene la necessità di considerare i valori dell'umanesimo, rivalutando
tale concetto sia come pratica negli studi letterari sia più in generale nel pensiero politico.
Secondo il suo parere può contribuire a rafforzare le riflessioni critiche e a rigenerare la
democrazia; ne esalta il valore mettendo in evidenza la sua natura di potenziale antidoto contro
le semplificazioni dell'informazione giornalistica e per arginare i pericoli del nazionalismo.
Nel 2004 fu pubblicato il primo libro postumo, Humanism and Democratic Criticism1, in cui
sono raccolte le osservazioni di Said in merito agli studi letterari. Il testo comprende una raccolta
di tre conferenze tenute alla Columbia University nel gennaio 2000, un saggio dedicato all'opera
di Erich Auerbach Mimesis e l'articolo The Public Role of Writers and Intellectuals, scritto per
un intervento alla Oxford University svoltosi nel settembre 2000.
La convinzione di Said è chiara: l'umanesimo non è composto da concetti impersonali, da
ideali astratti, al di fuori della realtà sociale, al contrario è un processo da coltivare di continuo,
un'attitudine che si persegue osservando le azioni umane con spirito critico. Ricorda l'origine di
questo pensiero e i valori a esso connessi quando scrive che
nel cuore dell'umanesimo si trova la convinzione, laica, che il mondo storico è fatto dagli
uomini e dalle donne, e non da Dio, e che può essere compreso razionalmente secondo i
principi formulati da Vico nella Scienza nuova2. Secondo questi principi, possiamo realmente
conoscere solo ciò che facciamo, o, per dirlo in altri termini, possiamo conoscere le cose in
base al modo in cui sono fatte3.
Said considera Giambattista Vico importante poiché sostenne che tutte le idee sono incarnate
negli individui umani e, di conseguenza, sono strettamente legate alla storia reale, e mutano con
il tempo. Egli contestò così il pensiero di Cartesio, che riteneva possibile l'esistenza di idee
chiare e distinte, svincolate sia dalla mente che le pensa sia dal contesto storico. L'apporto di
Vico è quindi rilevante poiché induce a considerare la realtà dal punto di vista dell'artefice
umano. Said, traendo insegnamenti dal suo pensiero, afferma che bisogna sempre sforzarsi di
ripercorre le origini umane e storiche degli avvenimenti, senza alcuna necessità di cercare
1
2
3
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit..
Giambattista Vico, 1977 [1725], La scienza nuova, Milano, Rizzoli.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 40.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
spiegazioni in concetti astratti. Poiché il mondo contemporaneo è estremamente mutevole e non
può essere incasellato in categorie rigide e ideologiche, l'umanesimo, grazie alla sua
predisposizione nei confronti del cambiamento, secondo il parere di Said è attualmente il miglior
modo per valutare la realtà.
La resistenza umanistica
Notando che le materie letterarie attualmente tendono a essere marginalizzate, essendo
sempre di più richiesti saperi tecnocratici ed efficientisti, Said riflette su come l'umanesimo
possa essere rivalutato. Sostiene che non bisogna considerare tale studio un sapere nozionistico,
pertanto invita a
intendere la pratica umanistica come parte integrante e funzionale di questo mondo e non come
un abbellimento e un esercizio di nostalgica rievocazione del passato4.
L'umanesimo per Said trae vitalità dal linguaggio, dall'uso appropriato e dall'analisi dei
contenuti dei testi, cosicché analizzare la comunicazione dei media, ad esempio, può divenire
un compito degli studi letterari. Dal momento che televisioni e giornali riportano le
informazioni mostrandole come fossero certezze, sotto forma di uno spettacolo da consumare
immediatamente, l'umanesimo ha il merito di stimolare il sorgere delle domande, del dubbio.
Grazie al lavoro letterario si possono indagare i contenuti dei discorsi, riportando in luce tutto
ciò che viene tralasciato, contestando così tutte quelle sintesi eccessive e fuorvianti che,
nonostante siano inadeguate, purtroppo sono adoperate comunemente. Una riflessione
consapevole esercitata sul significato dei testi costituisce quindi l'opposto della ricezione
passiva e, come afferma Said:
in questo, appunto, consiste l'atto di resistenza: nella capacità di distinguere tra quello che può
essere colto direttamente e quello che risulta essere nascosto5.
L'umanesimo può così controbattere l'informazione giornalistica, agendo come una tecnica di
disturbo; è in effetti una pratica di resistenza poiché si oppone alle strategie esercitate da coloro
che intendono fornire immagini rapide e preconfezionate. Permette di interrogare quel che viene
raccontato, in modo tale da mettere in discussione
ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da
ogni elemento controverso e acriticamente codificante6.
Durante le conferenze sopra citate Said ricordò alcune espressioni molto diffuse nelle
televisioni e nella stampa. I media spesso ripetevano la definizione di "intervento umanitario",
cioè la motivazione con cui la Nato giustificò le azioni militari nei Balcani nel 1999, il termine
"asse del male", cioè l'insieme dei paesi non sottomessi agli Stati Uniti, o frasi del tipo "l'Iraq
possiede armi di distruzione di massa e rappresenta una minaccia", asserzione riportata
acriticamente7. Anche le semplici parole "guerra" o "pace" meriterebbero di essere spiegate ogni
volta, elencando gli elementi che le caratterizzano e i significati sottostanti, altrimenti risultano
4
5
6
7
62
Ivi, p. 80.
Ivi, p. 101.
Ivi, p. 57.
Ivi, p. 36-37.
L’UMANESIMO
essere termini vuoti. Tutte queste espressioni, così rapide da sembrare spettacolari, secondo Said
dovrebbero essere ogni volta discusse, convalidate o contestate, secondo modalità critiche che
traggono beneficio dall'analisi letteraria, poiché "la resistenza umanistica, al contrario, ha
bisogno di forme più distese, di saggi e di lunghi periodi di riflessione"8. Posto di fronte a un
linguaggio che si mostra compatto e coerente, l'umanista può attuare pratiche di resistenza grazie
alla sua capacità di inquadrare i testi nel contesto entro il quale sono prodotti.
Contro il canone
Said si serve dell'umanesimo, della sua visione laica che considera le società in perenne
movimento, per criticare alcune opinioni diffuse nelle università statunitensi nei riguardi delle
discipline letterarie. Contesta i sostenitori del conservatorismo culturale, coloro che intendono
difendere le radici della cultura occidentale arroccando le discipline entro confini ben delimitati.
In Humanism and Democratic Criticism Said ricorda che nel 1937 alla Columbia University
fu fondato il corso "The Humanities", nel quale venivano insegnati i classici della cultura
occidentale come Omero, Erodoto, Eschilo, Euripide, Platone, Aristotele, Virgilio, Dante,
Agostino, Shakespeare, Cervantes e Dostoevskij. Said sostiene l'importanza dello studio di
questi autori affinché gli studenti acquisiscano una completa conoscenza di base. Non condivide
invece le celebrazioni eccessive dei testi e degli autori, quando vengono considerati "sacri",
poiché la troppa riverenza è utilizzata per esaltare la “cultura occidentale”, entità presupposta
omogenea e coerente dalle radici fino alla contemporaneità.
Said critica le opinioni di Allan Bloom, autore dell'opera Closing of the American Mind9, il
quale critica l'introduzione nelle scuole di insegnamenti eccessivamente relativisti, da lui ritenuti
banali prodotti della cultura popolare. Quel che comunemente è considerata un'apertura, cioè
l'accettazione di nuove teorie nei programmi scolastici, nel saggio di Bloom, al contrario, viene
giudicata una chiusura mentale. Said è fortemente critico verso tali considerazioni perché le
ritiene pervase da un moralismo riduttivo che induce ad arroccarsi entro confini impermeabili.
Considera Allan Bloom, e gli altri sostenitori del conservatorismo culturale come William
Bennett10 e Samuel Huntington11, il sintomo evidente del fatto che stanno riemergendo idee
reazionarie e retrive che già furono diffuse dai New Humanists durante gli anni trenta negli Stati
Uniti. Tali autori, consacrando lo studio della letteratura all'insegnamento di determinate opere,
intendono difendere la cultura occidentale; vogliono tramandare i valori a questa connessa, virtù
da loro ritenute sempre valide e immutabili. Difendono un cosiddetto "canone ufficiale" e
giudicano nefasto l'emergere di una serie di materie, ad esempio i nuovi corsi sugli studi di
genere, etnici, gay, culturali e postcoloniali. Considerano questi campi una degenerazione delle
discipline umanistiche e, di conseguenza, hanno elaborato teorie autodifensive. L'avanzare della
cultura popolare è ritenuta una minaccia nei confronti della centralità dei grandi testi letterari,
così come l'eterogeneità di nuove e ribelli teorie in filosofia, linguistica, politica, psicanalisi,
antropologia. Questo atteggiamento, chiuso verso le contaminazioni, secondo Said considera la
cultura in termini aristocratici, come patrimonio di una ristretta élite di autori. Il respingimento
8
9
10
11
Ivi, p. 99.
Allan Bloom, 1988, Closing of the American Mind, New York, Simon & Schuster; trad. it. 2009, La chiusura della
mente americana, Torino, Lindau.
William Bennett, 1993, The Book of Virtues: A Treasury of Great Moral Stories, New York, Simon & Schuster; trad.
it. 1996, Il libro delle virtù. Il tesoro morale dell'umanità, Milano, Neri Pozza.
Samuel Huntington, 1996, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster; trad. it
2000, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti Libri.
63
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
di nuovi studi sembra voler dire che troppe categorie scomode di persone sono comparse nella
società, e pretendono perfino di parlare.
L'umanesimo è democratico
Per contrastare il conservatorismo che tende a diffondersi nel mondo della cultura è
necessario l'umanesimo che, essendo fondamentalmente democratico, si dirige in senso opposto.
L'umanesimo è contrario alla supremazia di un minuscolo gruppo di autori e lettori selezionati e
approvati, non considera l'istruzione un modo per far emergere un'élite di persone alla quale
affidare la conservazione del sapere. Del resto, è assurdo credere che gli studi letterari siano una
pratica disciplinare esclusivamente occidentale, tant’è che l'umanesimo è un movimento
inclusivo, poiché secondo Said induce a considerare la “storia umana come un processo
continuo di autocomprensione e autorealizzazione, non solo per noi, maschi, europei e
americani”12.
I conservatori nel campo della cultura come Bloom, definito da Said “il culmine dell'antiintellettualismo americano”13, invece difendono la cultura elencando proibizioni: gli studi
umanistici però non dovrebbero implicare nessuna barriera. L'umanesimo si alimenta grazie
all'inclusione, e pertanto deve essere inteso come
democratico, aperto a tutte le classi e a tutte le provenienze e come un processo di rivelazione e
scoperta senza fine, un processo di autocritica e di liberazione14.
L'umanesimo, poiché si mostra aperto sia nei confronti dei mutamenti storici sia nei rapporti
con l'alterità, può aiutare a contrastare la collocazione della letteratura entro confini nazionali.
I conservatori nel campo della cultura, vale a dire coloro che considerano il patrimonio
culturale situato nella mente di pochi autori selezionati con cura, tendono ad associare ogni
opera letteraria direttamente con l'autore, e a legare quest'ultimo in maniera quasi naturale al
luogo di provenienza. Per loro ogni scrittore è collocabile su un suolo, e perciò ammettono
l'esistenza di una letteratura nazionale ben definibile. Al contrario, secondo Said bisogna
rivedere il concetto secondo cui si associa in maniera semplicistica la letteratura a un
determinato contesto nazionale. Gli oggetti letterari, le critiche, i romanzi non hanno
un'esistenza stabile e bene identificabile perché "le nozioni di opera, autore e nazione non sono
più le affidabili categorie di un tempo"15. Coloro che difendono le culture nazionali, o esaltano
la letteratura di un popolo, hanno certamente interessi politici, e a riguardo di questi usi
bisogna essere sempre cauti.
A volte però anche l'umanesimo rischia di porsi al servizio del nazionalismo, ad esempio nei
contesti coloniali. In questi casi la rinascita delle lingue e delle culture, che prima erano
oppresse, secondo Said può essere spiegata entro le logiche della liberazione. Non dimentica
però di osservare che bisognare stare in guardia quando quel nazionalismo, che prima ha portato
all'indipendenza di un paese, tende in un secondo momento a prevalere, poiché sfocia facilmente
nella xenofobia e nell'intolleranza. Per questa ragione, Said avverte dunque che è sempre
pericoloso formulare teorie sull'identità, dato che ciò "ha provocato più problemi e sofferenze
12
13
14
15
64
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 56.
Ivi, p. 48.
Ivi, p. 51.
Ivi, p. 68.
L’UMANESIMO
che vantaggi, soprattutto quando associata alla cultura umanistica, alle tradizioni, all'arte"16.
Pertanto, uno dei compiti dell'umanista è saper utilizzare il piano estetico per mettere in
discussione, riesaminare e resistere al nazionalismo.
Said inoltre spiega che l'umanesimo dovrebbe essere valorizzato perché aiuta a comprendere
le società contemporanee. Tutte le nazioni sono demograficamente e culturalmente eterogenee; i
flussi migratori, le comunicazioni telematiche e intercontinentali, la globalizzazione economica
hanno riempito i territori con un'enorme varietà di elementi, provenienti da molti paesi. Il mondo
è sempre più integrato, cosicché anche nel campo delle opere culturali, sia la produzione sia il
consumo interessano un pubblico nuovo e variegato. Dunque, dal momento che l'approccio
dell'umanesimo insegna che le idee non possono essere mai separate dal mondo della storia e del
lavoro umano, non è possibile considerare una cultura legata interamente a un territorio
nazionale, perché essa è sempre in viaggio.
16
Ivi, p. 103.
65
CAPITOLO 11
IL CONTRAPPUNTO
Abbiamo a che fare con la formazione di identità culturali intese non come
essenze date (nonostante parte del loro perduto fascino è che esse sembrino e
siano considerate tali), ma come insiemi contrappuntistici, poiché si dà il caso
che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti,
negazioni e opposizioni.
(E. Said, Cultura e imperialismo, p. 77)
La musica
Prendendo in prestito un'espressione che deriva dal linguaggio della musica classica, Said
invita ad avvicinarsi alla cultura con un approccio fondato sul contrappunto. Il termine indica il
tipo di composizione che si realizza quando numerose voci si imitano l'una con l'altra1, così
come avviene ad esempio nelle fughe di Bach. In modo analogo ritiene che si debba esaminare il
campo della cultura, dal momento che è sempre necessario comparare esperienze differenti.
Benché le varie espressioni possano sembrare lontane, coesistono e interagiscono
reciprocamente. Per spiegare il concetto, applicandolo ad esempio allo studio della storia, Said
scrive che
per trovare i nessi tra il rituale dell'incoronazione in Inghilterra e le cerimonie presso le corti
indiane della fine dell'Ottocento, è necessario assumere un'ottica comparata o meglio
contrappuntistica2.
Le pratiche culturali per essere comprese devono essere considerate in relazione con i
moltissimi elementi circostanti a loro legati, in quanto non sussiste un'identità completamente
pura, isolata, che non sia in relazione o in opposizione con qualche altra forma. Così, un
approccio musicale può offrire gli strumenti per meglio comprendere la diversità culturale,
poiché le varie manifestazioni non sono mai completamente isolate fra loro. Nel contrappunto
della musica classica i vari suoni separati si combinano l'uno con l'altro, e il risultato è una
polifonia; un concerto è infatti un'interazione reciproca organizzata che deriva dai temi stessi,
non da un principio esterno dell'opera3. Similmente le culture, benché possano essere lontane e
differenti, si richiamano in maniera reciproca, cosicché è possibile mantenere sempre aperto il
dialogo.
Osservare la realtà in maniera contrappuntistica significa spiegare il presente non solo per
quel che è, ma anche perché è diventato tale. Con una doppia prospettiva, tipica del
contrappunto, è possibile mantenere uno sguardo ampio, con un occhio rivolto a quel che è alle
1
2
3
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 54.
Edward Said, 1993, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knope; trad. it. 1998, Cultura e Imperialismo.
Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente, Roma, Gamberetti, p. 58.
Ivi, p. 76.
IL CONTRAPPUNTO
spalle e l'altro a quel che è presente. Significa dare senso alla realtà, comprenderla in tutto il suo
spessore della storia, e considerarla come un processo nel quale le situazioni evolvono passo
dopo passo.
La mondanità della cultura
Said evidenzia dunque quanto “le forme culturali siano ibride, miste e impure, e che sia
giunto il tempo di analizzarle collegando l'analisi delle forme culturali con la loro realtà
mondana”4. Per indicare la situazione storica e reale all'interno della quale ogni persona agisce,
e di conseguenza dove ogni cosa è prodotta, Said utilizza il termine "mondanità". L'autore con
tale concetto intende che "tutti i testi e tutte le rappresentazioni si collocano nel mondo e sono
soggetti alle sue numerose ed eterogenee realtà" e ciò "implica la contaminazione e il
coinvolgimento"5. Avvicinarsi alla cultura in modo mondano significa mantenere una
dimensione aperta e interdisciplinare, in opposizione a qualsiasi approccio che tenda a
dividere. È necessario accomunare le esperienze provenienti dai vari paesi, non dividerle,
ponendo in evidenza i legami tra l'umanità.
Tali teorie invitano a superare l'opposizione tra Oriente e Occidente, evidenziando quel che
lega le varie regioni del mondo, vale a dire le molte connessioni che si sono instaurate nel
corso della storia. Nei paesi islamici, ad esempio, molte idee sono state attinte dall'Occidente
in maniera costruttiva. Numerosi partiti e personaggi di spicco in Medio Oriente si sono
formati grazie a pensieri sorti in Europa e negli Stati Uniti. Molte contestazioni e movimenti
politici infatti si sono costituiti in nome di progetti e obiettivi che sono originari
dell'Occidente. Tuttavia questi contributi positivi e costruttivi vengono in genere poco
considerati, giacché si tende invece a dare maggiore spazio alla nefasta contrapposizione tra
paesi orientali e occidentali.
La letteratura comparata e la filologia
Bisogna saper trarre insegnamento dal contrappunto musicale anche nelle discipline letterarie
perché le storie si incontrano e si sovrappongono, come le melodie. Grazie al carattere mondano
della letteratura, lo studio dei testi non può che essere condotto in maniera comparativa, perché
le opere sono necessariamente connesse tra loro, e allo stesso tempo legate a un determinato
contesto. Per Said la letteratura comparata intende proprio “andare oltre il provincialismo e la
ristrettezza di vedute per esaminare insieme, contrappuntisticamente, varie culture e letterature”6.
Bisogna considerare solo provvisoriamente i testi come oggetti discreti, per poi stabilire nessi tra
le varie opere e con il contesto. Saper leggere significa riuscire a inquadrare i prodotti culturali
nella loro situazione storica, interpretandoli nella loro complessità. I legami inoltre si creano non
solo sul piano geografico, unendo autori di paesi diversi, ma anche nella dimensione temporale.
Entra in gioco un altro tipo di nesso, quello tra il lettore, immerso nel presente, e l'opera
letteraria, calata in un periodo preciso. Anche questo altro aspetto rende vivo e complesso il
concetto di mondanità della cultura. I testi sono costantemente in viaggio e, poiché sono mossi
sia in termini spaziali che temporali, sono sempre sottoposti a processi di collocazione e
4
5
6
Ivi, p. 40.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 76.
Edward Said, Cultura e imperialismo, cit., p. 68.
67
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
dislocazione. Per tutti questi motivi Said considera importate rivalutare la filologia, perché ogni
testo contiene in sé storicità, materialità, corporeità.
La lettura dei testi nel loro contesto è un valore intrinseco apportato dall'umanesimo. Non si può
separare la letteratura dalla storia perché bisogna sempre prendere in considerazione il tempo, il
luogo e le circostanze nelle quali è vissuto un autore. Said afferma infatti che è da rivedere il
concetto di "creazione" rivolto alle opere artistiche poiché questo verbo è erroneamente associato
all'idea di un parto miracoloso e di un'attività totalmente autonoma. Ogni impresa umanistica
dipende non solo dall'impegno e dall'originalità di un individuo, ma anche dal contesto sociale nel
quale l'autore è immerso. Un'opera culturale pertanto deve essere calata nel suo tempo, in modo da
poterla considerare "come parte di un'ampia rete di relazioni la cui struttura e influenza giocano un
ruolo essenziale nel testo scelto"7. Per inquadrare la produzione letteraria nella storia bisogna
sempre chiedersi chi legge, quando e per quale scopo; sono proprio queste le domande che
vanificano ogni ipotesi sull'esistenza di una pura fruizione estetica e di una sacralità astratta attorno
alla letteratura.
Il mutamento
È necessario considerare la storia come frutto delle azioni umane per allontanare ogni forma di
intolleranza e violenza. Said critica chi difende le proprie convinzioni come fossero un dogma, una
verità assoluta inconciliabile con le altre posizioni; ciò crea conflitti irresolubili perché non si
pongono le condizioni per alcun dialogo. Non esistendo idee che siano al di sopra della storia,
sempre valide in tutte le società, perenni nel corso degli anni, Said considera il cambiamento un
elemento fondamentale, soprattutto nel campo della cultura poiché
nessuna grande conquista umanistica avrebbe mai potuto avere luogo senza questa importante
componente: relazione o accettazione del nuovo, di tutto quanto vi è di più nuovo, vero ed eccitante
nel campo delle arti, del pensiero o della cultura in ogni specifico periodo8.
Gli studi legati all'umanesimo hanno continuamente e strutturalmente bisogno di una
revisione, devono essere sempre ripensati per rimanere vitali. Tale processo, in continuo
mutamento, è importante poiché le discipline "una volta fossilizzate su un'astrazione, smettono
di essere quello che veramente sono per divenire strumenti di venerazione e di repressione"9. Un
discorso analogo, inoltre, si può secondo Said applicare anche al linguaggio poiché, nonostante
debba essere difeso e usato correttamente, anch'esso deve mantenersi pronto per essere
rivitalizzato dal cambiamento. L'umanesimo contempla il continuo mutamento della società,
rinnovata dalle trasformazioni. Said non rimpiange con nostalgia un passato, considerandolo
migliore, come se fosse collocato in un tempo mitico. Critica dunque il vagheggiamento di un
tempo ormai andato migliore del presento, dato che riconosce in questo atteggiamento la volontà
di custodire la cultura con sacralità, difendendola dalle contaminazioni.
7
8
9
68
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 87.
Ivi, p. 52.
Ivi, p. 60.
CAPITOLO 12
L’INTELLETTUALE PUBBLICO
Non esiste la figura privata dell'intellettuale, poiché nel momento stesso in cui
mette per iscritto alcune parole per poi pubblicarle, è già una figura pubblica. [...]
Ciò che qualifica l'intellettuale è il suo essere figura rappresentativa: ossia
qualcuno che rappresenta un certo punto di vista dandogli visibilità.
(E. Said, Dire la verità, p. 27)
Il ruolo sociale degli intellettuali
Considerata l'importanza delle interpretazioni nelle società, per Said gli intellettuali rivestono un
ruolo significativo perché sono coloro che intervengono attivamente sul linguaggio. Tutti coloro che
ricorrono all'arte di rappresentare, parlando, scrivendo, insegnando, ricoprendo incarichi politici,
intervenendo nei media, svolgono attività che non si possono spiegare semplicemente con il
perseguimento degli interessi individuali. L'argomento è cruciale poiché le persone guardano agli
intellettuali, o ai leader di una fazione o tendenza, per poter meglio comprendere la realtà.
Quando nel 1993 Said fu invitato dalla Bbc a tenere le Reith Lectures, decise di analizzare
proprio le rappresentazioni che gli intellettuali offrono, e di conseguenza il ruolo di questi nella
società contemporanea. L'emittente britannica ogni anno, a partire dal 1948, invita una personalità
del mondo della cultura a discorrere su un tema liberamente scelto dall'ospite di turno. Tali
conferenze radiofoniche portano il nome di John Reith, il primo direttore generale della Bbc,
poiché furono istituite in suo onore per ribadire i valori della celebre emittente. Reith teorizzò quali
dovessero essere le caratteristiche e gli obiettivi di un servizio di radiodiffusione nazionale.
Secondo il famoso direttore l'organizzazione deve essere di proprietà pubblica ma politicamente
indipendente dallo Stato, e i compiti fondamentali da svolgere sono informare, educare e divertire1.
Tali conferenze, avendo l'obiettivo di aggiornare un ampio pubblico su un tema importante, di
interesse attuale, perseguono appunto la finalità di diffondere la conoscenza e al contempo
mantengono l'ideale che il direttore Reith aveva prefissato, ossia arricchire la vita culturale di una
nazione. Consapevole del valore dell'incarico a lui affidato, Said nei suoi discorsi volle illustrare
l'importanza dei compiti degli intellettuali, esprimendo ammonimenti e consigli rivolti
specialmente a chi opera nel campo dell'informazione e della conoscenza. Per cercare di
identificare chi siano gli intellettuali in una società, nelle Reith Lectures Said riporta due visioni
contrapposte: il pensiero di Antonio Gramsci e quello di Julien Benda. Anche se sono molto
differenti, secondo Said da entrambi si possono trarre insegnamenti validi.
Per Gramsci tutti gli uomini sono intellettuali, anche se non tutti hanno tale funzione nella società.
Nei Quaderni del carcere2 distinse tra “intellettuali tradizionali”, cioè coloro che sentono il loro
incarico riconosciuto come tale nel corso della storia, ad esempio gli insegnanti e gli ecclesiastici, e
"intellettuali organici", cioè coloro che si sono formati essendo funzionali a un gruppo sociale, ad
1
2
Matthew Hibberd, 2005, Il grande viaggio della Bbc, Roma, Rai-Eri.
Antonio Gramsci, 1975, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, p. 1513-1540.
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
esempio perché utili alla produzione economica. Questi ultimi svolgono essenzialmente una funzione
organizzativa, ossia compiti capaci di rafforzare la coesione interna e l'influenza dei gruppi ai quali
appartengono, e pertanto le classi sociali se ne servono perché il loro lavoro incide sul consenso. Said
riprende il pensiero di Gramsci perché vuole affermare che gli intellettuali non sono distanti dalla
società. Dichiara che si possono definire tali infatti anche coloro che svolgono incarichi in molti
settori dell'economia contemporanea, precisando che
il pubblicitario o l'esperto in pubbliche relazioni, chi studia ed elabora tecniche idonee a
conquistare una più larga fetta di mercato a un detersivo o a una compagnia aerea, sarebbero
oggi considerati da Gramsci intellettuali organici3.
Il filosofo francese Benda invece, nella sua opera La trahison des clercs4, sostenne che si può
definire intellettuale soltanto chi è risoluto nella difesa delle proprie idee. È tale solo chi
ribadisce le proprie convinzioni, sulla verità e sulla giustizia, senza alcun interesse per fini
pratici e senza scendere a compromessi. L'intellettuale, in questa prospettiva, è visto distaccato
dal mondo, considerato una persona dura e risoluta, di straordinario coraggio, che incute
soggezione ed è sempre pronto a scagliare anatemi. Nonostante Said non condivida le opinioni di
Benda, considera validi alcuni aspetti da lui delineati. Bisogna apprezzare infatti la capacità degli
intellettuali di tenersi in disparte e di essere sempre disposti a esprimere senza timore le proprie
opinioni.
Ponderando i due differenti punti di vista, Said ritiene che il mondo contemporaneo possa
essere compreso meglio grazie alle analisi di Gramsci. Oggi sono molte le persone che ricoprono
incarichi da intellettuale, specialmente coloro che svolgono un ruolo connesso al campo della
diffusione delle rappresentazioni. Poiché queste ultime influiscono sulla conoscenza comune,
tutti coloro che lavorano intervenendo sul linguaggio sono capaci di accresce il consenso di
un'istituzione o di una compagnia. Quindi, chiunque operi in un campo legato alla produzione o
alla diffusione del sapere oggi è un intellettuale in senso gramsciano e, secondo Said, questo
ambito è il perno sul quale ruota la società contemporanea. Tutti coloro che lavorano nel settore
radiofonico e televisivo, nel mondo universitario, gli analisti, gli esperti assicurativi, i consulenti
aziendali e di governo, svolgono delle attività legate alla conoscenza, vale a dire forniscono
rappresentazioni che hanno la capacità di influire sulle persone. Dunque, tutto il moderno
giornalismo si può analizzare riflettendo sul ruolo degli intellettuali nella società.
Professionisti e dilettanti
Dal momento che gli intellettuali sono parte integrante della società, Said si sofferma sul
problema della loro autonomia e riflette se sia possibile esprimere un'opinione indipendente
oppure, nel caso opposto, fino a che punto una persona possa essere intenzionata a rappresentare
una causa, identificandosi con essa. Secondo Said nessuno è totalmente svincolato dalla società;
per quanto libera questa possa essere, anche uno scrittore bohémien ne è coinvolto.
L'intellettuale è sempre soggetto alle istanze del suo tempo, pertanto nel corso delle Reith
Lectures riflette su quali possano essere i vari tipi di condizionamento. Uno di questi, che Said
considera negativo, è il desiderio di diventare specialisti in un determinato settore, da evitare
poiché induce a separare la conoscenza, dividendola in compartimenti entro discipline. Secondo
3
4
70
Edward Said, Dire la verità, cit., p. 20.
Julien Benda, 1975, La trahison des clercs, Paris, Grasset & Fasquelle; trad. it. 1976, Il tradimento dei chierici,
Torino, Einaudi.
L’INTELLETTUALE PUBBLICO
l'autore, ad esempio, nel campo degli studi letterari tale condotta ha comportato un formalismo
tecnico esasperato che ha distolto l'attenzione dal contesto storico delle opere. Le esperienze
concrete che hanno contribuito alla realizzazione dei testi letterari rischiano di non essere prese in
considerazione, in quanto la specializzazione induce a “perdere di vista il lavoro materialmente
necessario alla produzione dell'arte o della conoscenza”5. È un comportamento che, sebbene sia da
evitare perché soffoca il gusto della scoperta, attualmente pervade tutti i sistemi scolastici.
Un altro tipo di condizionamento, legato al precendente, è l'ambizione ricorrente di far parte
della categoria degli esperti. Said critica ad esempio gli area studies delle università americane,
poiché tali discipline producono esperti funzionali nel perseguimento degli interessi geopolitici
nazionali. Secondo Said l'ottenimento di un qualsiasi titolo che possa inserire una persona entro
il novero degli esperti è legato alle esigenze del potere. Partiti, industrie, lobbies e fondazioni per
accrescere l'influenza nei settori di loro competenza si avvalgono di questi stessi esperti. Inoltre,
un altro condizionamento che influisce sugli intellettuali è la voglia di appartenere a quella
minoranza che detiene il diritto di prendere decisioni, consigli o direttivi che siano.
Benché vengano criticati tutti quegli intellettuali che agiscono sulla base del proprio
rendiconto, Said non accusa di tradimento coloro che si guadagnano da vivere scrivendo su un
giornale o insegnando. Intende contestare quelli che affermano le proprie posizioni volendole
imporre con una parvenza di autorevolezza, come fanno in genere gli esperti, i consulenti, i
professori, vale a dire chiunque offra pareri vendendoli come se fossero dati obiettivi. Gli
intellettuali dovrebbero comportarsi in maniera differente, ossia evitare di mostrarsi come
professionisti, sforzandosi così di raggiungere una relativa indipendenza.
Nel suo invito a sganciarsi dai condizionamenti sopra citati, Said articola con sapiente spirito
provocatorio la sua predilezione verso un'altra categoria di studiosi: i dilettanti. Considera questi
contraddistinti da una maggiore responsabilità e passione, non restii ad affermare platealmente le
proprie opinioni. Gli intellettuali dovrebbero considerarsi sempre dei dilettanti, poiché solo così
possono dedicarsi ai loro interessi con la necessaria autonomia. I dilettanti infatti non hanno
nessun ruolo da difendere, possono cambiare il proprio campo di ricerche, uscire dai confini
delle discipline e sperimentare strade differenti. Sono liberi di esprimersi con maggior
autonomia, senza la cautela di quei professionisti sempre spaventati di mandare tutto all'aria,
preoccupati dall'idea di non scandalizzare i colleghi che lavorano nel loro stesso campo. I
dilettanti non sono dei funzionari che dipendono fortemente dagli incarichi loro assegnati.
Diversamente dai professionisti, non cercano di soddisfare ambizioni immediate, in quanto sono
stimolati da motivazioni che trascendono i doveri lavorativi e agiscono spinti delle proprie idee.
Il valore dell'esilio
Il sociologo americano Charles Wright Mills ritiene che gli intellettuali siano di fronte a un
dilemma: o rimanere outsiders, marginali e con un senso di impotenza, oppure diventare
insiders, cioè entrare nei ranghi istituzionali, aziendali o governativi. Said concorda con questa
osservazione poiché gli intellettuali sembrano essere sempre al bivio tra solitudine e
allineamento, divisi entro due categorie, a seconda che scelgano la strada dell'integrazione o
dell'estraneità. Gli insiders sentono di appartenere pienamente alla loro società, alla loro fazione,
e si possono definire uomini del consenso. Gli outsiders invece vivono come esiliati, ovunque
stranieri, e si pongono sempre in contrasto con la realtà vigente. Per Said questi ultimi
rappresentano i veri intellettuali. Non seguono sentieri già tracciati e sono sempre in movimento
5
Edward Said, Dire la verità, cit., p. 85.
71
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
perché, non sentendosi mai perfettamente a proprio agio, sono costretti a reinventarsi di
continuo.
Porsi come dilettante, o outsider, aiuta non solo a preservare una maggiore autonomia, ma
anche a rapportarsi nella sfera pubblica. Scegliere tale condotta significa preferire una posizione
marginale, collocazione che non è necessariamente svantaggiosa, anzi secondo Said è portatrice
di benefici, al punto che, paradossalmente, afferma che un intellettuale dovrebbe sentirsi un
esiliato, un emarginato. Per la maggior parte delle persone sentirsi ai margini può costituire uno
dei peggiori stati d’animo, associato a una triste sorte, mentre al contrario Said elogia il valore
dell'esilio. La condizione dell'esule può essere non soltanto una circostanza reale, in quanto può
simboleggiare anche uno stato metaforico, da esaltare. Said sostiene in effetti che
l'esilio per l'intellettuale significa irrequietezza, movimento, la sensazione irrimediabile di
essere dislocati, a disagio, e di mettere a disagio gli altri 6.
Significa quindi non abitare in nessun posto, non appartenere completamente a nessun luogo,
e tale condizione produce un “effetto destabilizzante; provoca scosse sismiche, sconvolgimento
in chi ha vicino”7. Privo del conforto degli onori e delle gioie del sentirsi a casa, l'intellettuale è
capace di apprezzare il piacere della scoperta, essendo un perenne viaggiatore, non obbligato a
seguire sentieri già tracciati e orme venerabili. Non sentendosi mai perfettamente a proprio agio,
è costretto a muoversi e a reinventarsi di continuo, sempre disponibile all'innovazione, dato che è
svincolato da un iter professionale. Può così svolgere ricerche di volta in volta nei campi verso i
quali sente maggior interesse e questo, secondo Said, è un piacere senza eguali. Inoltre, proprio
perché è un esule, può osservare il mondo da una posizione privilegiata.
L'uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni
suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello per cui l'intero mondo è un
paese straniero8.
Questa è la sentenza, scritta nel Didascalicon del teologo Ugo di San Vittore e citata dal filologo
Erich Auerbach, che Said riporta in Orientalism quando intende spiegare il valore del distacco
culturale.
L'impegno sociale
Sebbene Said consideri un intellettuale come una persona disposta a collocarsi ai margini, è
consapevole che non esiste nessun ruolo sociale che sia totalmente isolato. Anzi, un intellettuale ha
risonanza soltanto quando si coniuga con un ideale collettivo, se è capace di rappresentare dei
significati condivisi. Dovendo dunque affrontare il problema della collocazione nella sfera sociale,
Said si domanda quale sia il modo giusto di partecipare alla vita pubblica, e fino a che punto può
arrivare il coinvolgimento nell'impegno politico. Riflette dunque se sia possibile mettersi al
servizio di un'idea senza diventarne completamente parte, e come si possa aderire a un partito, in
maniera seria ma non appariscente, senza dover patire le delusioni o i tormenti del tradimento.
Said, nonostante dichiari di essere stato sempre stato restio a iscriversi ai partiti, non provando
piacere nell'essere arruolato, afferma che è necessario un impegno appassionato e che è giusto
6
7
8
72
Ivi, p. 64.
Ivi, p. 67.
Edward Said, 1978, Orientalism, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Orientalismo. L'immagine dell'Oriente in
Europa, Milano, Feltrinelli, p. 255.
L’INTELLETTUALE PUBBLICO
esporsi e correre rischi in prima persona.
Spiega infatti che il timore di mostrarsi troppo schierati politicamente uccide la vitalità
intellettuale. Questo errore comune viene commesso proprio quando si teme di apparire
polemici, tensione provocata dal desiderio di essere inseriti nel novero delle persone che
decidono. Si tende a mascherare le proprie opinioni quando si vuol ottenere la benevolenza
altrui, mostrandosi equilibrati, oggettivi e moderati. Un intellettuale agisce sempre all'interno
della sfera pubblica, ma dovrebbe coltivare opinioni autonome. È uno sforzo costante, ma
concede la possibilità di esprimersi liberamente, senza dover temere conseguenze spiacevoli,
come l'esclusione o l'abiura. Said invita inoltre a non essere dogmatici nei confronti delle idee,
soprattutto in politica, ambito in cui bisogna evitare di essere fedeli a un "dio" poiché tale
atteggiamento nel corso del tempo comporta sempre fallimenti9.
Chiunque presta servizio ciecamente a una determinata causa, in un secondo momento rischia
di dover ribaltare le proprie idee. Esprime appunto critiche contro "lo spettacolo particolarmente
indecoroso della conversione e della ritrattazione"10, ossia quando gli intellettuali cambiano
platealmente opinioni, anche in maniera radicale, in genere ogni volta che i poteri mutano. Said
sostiene che è infruttuoso esaltare l'ideale che appare al momento vincente, è meschino modellare
le proprie opinioni in funzione del potente; un intellettuale dovrebbe preservare una posizione
autonoma, il più possibile slegata dall'immediata convenienza. Questa scelta non offre rapidi
benefici, però in fin dei conti una collocazione più distaccata risulta essere vantaggiosa poiché
concede una maggiore libertà di espressione.
Contrastare le rappresentazioni del potere
L'intellettuale dunque, grazie alla sua collocazione marginale e poiché non svolge un
ossequioso servizio, può elaborare una visione più ampia rispetto a quella di chi ambisce ad
affermarsi come uno specialista o un professionista. Può soppesare scrupolosamente le varie
alternative, dopodiché scegliere la migliore e rappresentarla con sapienza. Non rappresenta le
posizioni che sostiene come se fossero oggettive e quindi inevitabilmente condivisibili, come
tendono a fare coloro che ricoprono posizioni dominanti, bensì esprime quel che ritiene essere
più efficace per modificare la realtà secondo i suoi valori. In tal modo, l'intellettuale ha la
capacità di smascherare le apparenze e di fornire visioni diverse, può essere capace di proporre la
verità al potere. Dunque l'intellettuale, quando è dilettante, outsider, ha la possibilità di
rappresentare le situazioni in maniera differente dalle ragioni di coloro che detengono il
comando; può contrastare le immagini che sono presentate comunemente dalle televisioni e dai
giornali, può controbattere i resoconti ufficiali. Con queste affermazioni, Said mostra quindi che
è possibile opporsi alle giustificazioni che il potere mette in circolo nei media. È compito
dell'intellettuale abbattere quel pensiero che tende a mantenere le cose entro una visione
accettabile e omologata. Si possono superare gli stereotipi, le categorie che limitano le
comunicazioni e le dottrine che si basano sul senso del privilegio.
Secondo Said l'umanista non ha soltanto l'incarico di commentare le opere di scrittori e artisti,
ma ha anche il compito di analizzare l'enorme quantità di informazioni e discorsi che
quotidianamente riceviamo dalla televisione, radio, giornali e cyberspazio, cioè da
quell’“enorme archivio di materiali che aggrediscono i sensi da tutti i lati, assediano oggi la
9
10
Edward Said, Dire la verità, cit. p. 114.
Ivi, p. 118.
73
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
conoscenza di ognuno di noi”11. L'umanesimo infatti aiuta a lavorare con i testi e i discorsi,
indica come cogliere le connessioni e le differenze, in breve insegna a “leggere bene”12. Pertanto
spetta agli intellettuali analizzare le notizie giornalistiche smontandole analiticamente, ponendo
in evidenza tutti quei processi, di esclusione o di rafforzamento, sui quali si basano i discorsi.
Poiché ogni racconto è frutto di un lavoro di selezione degli eventi, il compito da svolgere è far
riemergere gli elementi che sono stati considerati volontariamente irrilevanti. Secondo Said, gli
umanisti possono agire sul linguaggio perché hanno coltivato la capacità di spiegare, analizzare,
criticare o convalidare i discorsi che noi tutti riceviamo quotidianamente.
É necessario svelare gli intenti politici celati nell'informazione fornita dai potenti media. Nei
notiziari televisivi si utilizza generalmente il "noi" per coinvolgere il pubblico, comunicando in
maniera più o meno diretta quanto sia importante difendere degli stessi valori, di solito in accordo
con l'interesse nazionale. Said pertanto invita a riflettere ogni volta che la politica fa ricorso alle
appartenenze collettive. L'intellettuale in questi casi dovrebbe spiegare che "i tentativi di
mobilitazione collettiva rischiano di risultare distruttivi"13 e “mostrare come il gruppo non sia
un'entità naturale o stabilita da Dio, bensì un oggetto costruito, fabbricato pezzo per pezzo, talora
addirittura inventato”14. Grazie all'analisi dei discorsi è possibile ragionare sugli artefici della
comunicazione e sui destinatari, distinguere tra gli interessi in gioco, degli uni e degli altri. Secondo
Said le idee "sono sempre collegate a un'esperienza radicata nella società"15 e, dal momento che
nessuno può rappresentare “astrazioni o divinità da servire, remote e disincarnate"16, bisogna
diffidare di chi propone certezze assolute.
Offrire alternative
Per controbattere i discorsi del potere bisogna domandarsi anche quale sia il linguaggio più
adatto, quali siano le parole migliori per opporre resistenza. Said sostiene paradossalmente che
bisogna esprimersi con “lo stesso linguaggio usato dal Dipartimento di Stato o dal Presidente
quando dichiarano di sostenere i diritti umani e scatenano una guerra per ‘liberare’ l’Iraq”17. É
necessario servirsi di quello stesso tipo di linguaggio per riappropriarsi degli argomenti, per
recuperare tutto ciò che è stato semplificato, tradito, sminuito e cancellato. Questa tecnica rende
evidente che gli oratori, grazie alla loro posizione privilegiata, hanno effettuato tecniche di
manipolazione. Utilizzare le medesime espressioni serve dunque per smascherare i processi di
occultamento: la strategia è smontare le parole, per poi ricomporre un altro discorso, diretto
verso lo stesso pubblico, ma con differenti finalità. Spiega infatti che bisogna saper sfruttare nel
modo migliore quel che si ha a disposizione, utilizzandolo però su piattaforme diverse.
Ogni rappresentazione è relativa, perciò è importante contrastare le visioni totalizzanti, che il più
delle volte mostrano il mondo statico. Per interagire, comunque, dobbiamo necessariamente
condividere delle storie che attribuiscono un senso alla realtà. Queste rappresentazioni entro le quali
viviamo secondo Said sono importanti perché smuovono le persone, quindi non ritiene convincenti le
teorie di Francois Lyotard18 riguardo al postmoderno; non crede che siano finite le “grandi
11
12
13
14
15
16
17
18
74
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 69.
Ivi, p. 101.
Ivi, p. 105.
Edward Said, Dire la verità, cit., p. 46.
Ivi, p. 118.
Ibid.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 153.
Francois Lyotard, 1979, La condition postmoderne, Paris, Editions De Minuit; trad. it. 1985, La condizione
L’INTELLETTUALE PUBBLICO
narrazioni” perché siamo sempre esposti a dei discorsi. Poiché generalmente le spiegazioni appaiono
coerenti e pervadono il linguaggio, è necessario mantenere la mente sempre aperta al dubbio.
Dunque un ulteriore compito dell'intellettuale è far emergere i lati controversi, quel che è offuscato, e
mostrare che possono esistere anche altre rappresentazioni. Said sostiene appunto che
l'umanista deve saper proporre alternative, alternative ora ridotte al silenzio o non accessibili
tramite i canali di comunicazione controllati da un ristretto numero di gestori
dell'informazione19.
Così si realizza un atto di resistenza che, di conseguenza, gratifica il piacere della scoperta.
Secondo Said “l'intellettuale deve sempre partire dal presupposto che sia possibile indicare
alternative”20 e il suo ruolo è dialettico e oppositivo perché può “sfidare e sconfiggere, ovunque
e ogni volta sia possibile, il silenzio imposto e la calma normalizzata”21. In relazione ai discorsi
dei media pertanto l'intellettuale deve essere come una sentinella, sempre pronto a presentare
narrazioni alternative e prospettive diverse sulla storia rispetto a quelle offerte da chi si schiera a
fianco della memoria ufficiale, dell'identità e della missione nazionale22.
19
20
21
22
postmoderna, Milano, Feltrinelli.
Edward Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 96.
Ivi, p. 156.
Ibid.
Ivi, p. 161.
75
CONCLUSIONI
QUANTO È ATTUALE SAID
Nel corso di questo lavoro ho descritto gran parte del pensiero di Said, dalle teorie
sull'orientalismo e sull'imperialismo culturale, fino alle osservazioni sul giornalismo, riportando i
commenti sulla copertura mediatica del Medio Oriente. Ho inoltre esposto le sue opinioni sui
valori dell'umanesimo, sul ruolo delle rappresentazioni e sulla funzione degli intellettuali nella
società, sottolineando le esortazioni rivolte a tutti coloro che lavorano nel campo della
conoscenza.
Traendo insegnamento dai libri che ho trattato nei capitoli, intendo ora analizzare Said alla
luce delle sue stesse teorie, per giudicare quali aspetti sono validi tuttora e quali altri invece
necessitano un ripensamento. Voglio mettere in pratica quel che l'autore suggerisce di fare:
contestualizzare le opere culturali e considerare i testi legati alla mondanità. Per commentare le
opere di Said colgo quindi i suoi inviti a prendere in considerazione il periodo storico e il
panorama culturale entro il quale l'autore visse e, dal momento che le critiche più radicali contro
i media furono scritte negli anni '90, desidero ricostruire quel determinato contesto.
Due sue opere estremamente polemiche nei confronti del settore dell'informazione sono
Culture and Imperialism, pubblicata nel 1993, e le Reith Lectures, tenute alla Bbc proprio
durante lo stesso anno. In entrambe Said raffigura una situazione molto negativa, poiché sostiene
che tutte le persone inevitabilmente ricevono un'informazione fortemente plasmata dai poteri
politici ed economici. In Culture and Imperialism ritiene che i media predominano sulla
conoscenza, imponendosi in maniera totalitaria, e difatti Said per spiegarne l'influenza pervasiva
fa riferimento alle analisi sociologiche di Herbert Marcuse e di Theodor Adorno, e ai romanzi di
Aldous Huxley e di George Orwell. Nelle Reith Lectures, similmente, considera i potenti media
uno strumento di propaganda nelle mani di coloro che detengono il comando e, data la situazione
drammatica, agli intellettuali spetta il compito di smascherare le false spiegazioni. Nello stesso
periodo inoltre Said ha voluto aggiornare due sue opere, ripubblicando nel 1992 The Question of
Palestine e nel 1997 Covering Islam, anch'esse critiche nei confronti delle opinioni
maggiormente diffuse, la prima riguardo al conflitto israelo-palestinese e la seconda sulla
copertura mediatica del Medio Oriente. Questi libri e i numerosi suoi articoli scritti in quegli
anni in effetti sono accomunati da un vivo antagonismo contro il mondo dell'informazione,
specialmente degli Stati Uniti, da Said giudicato strettamente legato alle forze politiche e agli
interessi delle compagnie private.
Per meglio comprendere tali opere, ritengo dunque necessario ricordare il periodo storico
degli anni '90 poiché, visto nel contesto, il pensiero di Said sembra concorde a quello di altri
intellettuali critici verso l'egemonia culturale allora dominante. Negli anni '90, e specialmente
nella prima metà del decennio, era in effetti evidente la supremazia della cultura americana in
tutto il mondo, situazione che destava molte preoccupazioni. La globalizzazione veniva giudicata
un pericolo perché comportava l'omologazione dei pensieri, dei consumi e perfino dei gusti, e
sembrava incontrastabile, producendo molteplici visioni di un futuro cupo incombente, dal
momento che non si intravedevano forze politiche in grado di opporsi, ma solamente gli
ammonimenti di intellettuali e scrittori. I primi anni '90 infatti videro la luce dopo un decennio
CONCLUSIONI: QUANTO È ATTUALE SAID
caratterizzato dal crescente predominio culturale degli Stati Uniti in tutto il mondo, ad esempio
tramite il successo su larga scala di film hollywoodiani che esaltavano lo stile di vita americano
(come Rocky, Superman, Rambo e Top Gun), e la diffusione dei fast food McDonald's che
offrivano gli stessi cibi negli angoli più disparati del mondo, tanto che l'omologazione degli stili
di vita sembrava imporsi nella quotidianità delle persone. Così, mentre per tutto il corso degli
anni '80 l'Unione Sovietica aveva mostrato evidenti e a più riprese i segni della crescente crisi
politica ed economica che l’avrebbe portata alla dissoluzione, i governi del presidente Reagan
negli Stati Uniti e della primo ministro Thatcher in Gran Bretagna mostravano i muscoli e
davano prova della loro forza morale esaltando il libero mercato vincente.
Gli anni '90 anche in Medio Oriente furono caratterizzati dal disorientamento poiché, ormai
privo di vigore il nazionalismo arabo di Nasser, avanzarono ideologie di stampo localistico e
religioso e si rafforzò il fondamentalismo islamico. Il primo attentato di Al Qaeda avvenne
appunto nel 1992, ad Aden in Yemen, e l'anno successivo fu posta un’autobomba al World Trade
Center di New York, entrambi eventi che ravvivarono la paura del terrorismo. Dopo l'invasione
del Kuwait da parte dell'Iraq nel 1990, gran parte dei paesi arabi si schierarono al fianco degli
emirati del Golfo e dell'Arabia Saudita, supportati dagli Stati Uniti. Nel 1993, inoltre, furono
firmati a Washington gli accordi di Oslo con i quali l'Olp riconobbe ufficialmente Israele, e
quest'ultimo concesse ai palestinesi una relativa autonomia, decisioni importanti che però non
comportarono la fine dei contrasti.
Negli anni in cui Said riflette sistematicamente sui temi centrali di questo lavoro, pertanto,
l'Occidente sembrava prevalere incontrastato sul resto del mondo e, non essendoci alternative
valide, le ideologie dei vincitori si riflettevano non solo in ambito politico ed economico, ma
anche nel panorama culturale. Nel 1992, ad esempio, Francis Fukuyama pubblicò The End of
History and the Last Man1 e l'anno successivo comparve per la prima volta sulla rivista «Foreign
Affair»s il saggio The Clash of Civilizations di Samuel Huntington2, due testi fortemente criticati
da Said in quanto il primo prevede il dominio indiscusso di un solo modello politico, mentre
l'altro ritiene che lo scontro tra civiltà sia inevitabile in futuro.
Nel campo delle comunicazioni mondiali, poi, i primi anni '90 rappresentarono il trionfo della
Cnn come canale satellitare, affermandosi nel mondo specialmente durante la guerra del Golfo
del 1991, dal momento che fornì ai telegiornali di tutti i paesi le immagini e le notizie delle
operazioni militari statunitensi. In quel periodo, del resto, internet non era ancora diffuso su larga
scala; gli utenti connessi erano molto pochi e non erano ancora stati realizzati i programmi che
consentivano la fruizione dei testi in rete, dato che Netscape Navigator fu creato nel 1994 e
Microsoft Explorer nel 1995.
Said dunque, quando nel 1993 espresse in Culture and Imperialism e nelle Reith Lectures le
sue critiche sul dominio dei media, era immerso in un contesto in cui il “pensiero unico”
sembrava veramente poter regnare incontrastato, con la maggior parte degli opinionisti che
presentava un futuro prevedibile, retto dalle sorti del mercato e dal predominio culturale degli
Stati Uniti. Pertanto, nei suoi discorsi si colloca all'opposizione e cerca di controbattere le
ideologie dei vincitori, sforzandosi di smascherare le omissioni dell'informazione e di offrire
spiegazioni differenti e antagoniste. Contrastare l'egemonia culturale statunitense pareva
un'urgenza e, non essendoci mezzi di comunicazione alternativi ai potenti media, l'unica arma
sembravano essere le voci solitarie di alcuni intellettuali dissidenti, e Said era uno di questi.
Giudicava drammatica la situazione dell'informazione, poiché accentrata in poche mani,
1
2
Francis Fukuyama, 1992, The end of history and the last man, New York, Free Press; trad. it. 2003, La fine della
storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli.
Samuel Huntington, Estate 1993, The Clash of Civilizations, «Foreing Affairs», New York, Council on Foreign
Relations.
77
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
considerava un grave pericolo la supremazia della Cnn e di pochi altri canali televisivi satellitari,
in quanto capaci di influenzare la conoscenza in tutto il mondo, e criticava il predominio sulla
creazione e sulla diffusione delle notizie detenuto dalle agenzie di stampa statunitensi ed
europee.
Secondo il mio parere, a partire dalla fine degli anni '90 il contesto è cambiato, dal momento
che sono emersi nel campo delle comunicazioni molti altri soggetti e nuovi strumenti capaci di
sfidare l'egemonia mediatica proveniente da pochi centri di comando. In primo lungo la vasta
diffusione delle connessioni internet ha scalfito la preminenza dell'informazione televisiva,
soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, comportando effetti reali anche nel campo sociale e
politico. Non mi soffermo su questo argomento complesso, che richiederebbe lunghe riflessioni,
ma ritengo necessario ricordare brevemente l'evoluzione di internet nell'ultimo decennio. Nel
1999 è stata creata la rete Indymedia, ossia un progetto che intende dare la possibilità a tutte le
persone di diffondere notizie, e tale innovazione ha incentivato lo sviluppo delle comunicazioni
in maniera orizzontale e partecipativa. Questa logica presto ha cominciato a riscuotere successo e
si è diffusa rapidamente tramite l'utilizzo dei blogs e recentemente dei social networks, entrambi
strumenti che consentono a chiunque di partecipare a delle comunità in piazze virtuali.
Non intendo affermare né che le comunicazioni telematiche abbiano migliorato la qualità
della conoscenza, né che i potenti media siano in declino, dato che per la maggior parte delle
persone il ruolo di televisioni e stampa rimane centrale per apprendere i fatti. Inoltre, non ritengo
che internet possa risolvere i dislivelli di potere, dal momento che gli utenti nelle diverse parti
del mondo non hanno ugualmente accesso alla rete e non la utilizzano allo stesso modo. Tuttavia,
bisogna apprezzare i nuovi strumenti ora a disposizione poiché concedono la possibilità a
chiunque di comunicare le proprie opinioni, un aspetto che ritengo non vada assolutamente
trascurato in un qualsiasi discorso sui media.
È necessario notare dunque che Said, quando parla dell'imperialismo culturale, si focalizza
soprattutto sui messaggi che televisioni e stampa forniscono, dal momento che, quando ha
esaminato i media, internet ancora non era stato ancora sviluppato come oggi lo conosciamo.
Said accenna in qualche suo ultimo articolo al potenziale delle comunicazioni informatiche,
ma nella maggior parte dei testi si riferisce all'onnipresenza della televisione e all'autorità dei
quotidiani più celebri, poiché quello era il contesto entro il quale viveva.
Rispetto ai primi anni '90 è cambiato anche il panorama delle offerte televisive, grazie al
diffondersi di un'ampia varietà di canali satellitari (sia gratuiti che a pagamento) e all'aumento
del numero di persone fornite di strumenti per la ricezione. A quasi venti anni di distanza da
quando la Cnn deteneva il predominio nel raccontare la guerra del Golfo, tanto criticato da Said,
adesso l'informazione televisiva è più eterogenea e l'egemonia statunitense può essere messa in
discussione. A partire dalla seconda metà degli anni '90 e nel corso del decennio successivo, nel
settore dei canali giornalistici molte voci provenienti da tutti i continenti sono comparse sulle
scena, diversificando i linguaggi e i punti di vista. L'informazione in lingua inglese non arriva
più solamente dagli stati anglosassoni, e le notizie in arabo non sono prodotte solo dai paesi
mediorientali, dal momento che le televisioni e i giornali di molti paesi hanno cominciato a
comunicare in più di una lingua, via satellite e via internet. Molti paesi ora non intendono
rivolgersi solamente ai propri cittadini entro i confini nazionali, bensì mirano a un pubblico
mondiale, e tale fenomeno sta ormai facendo perdere alle redazioni giornalistiche occidentali la
supremazia sull'informazione.
Ad esempio, nel 2000 la televisione cinese Cctv ha creato un canale satellitare di notizie
interamente in inglese, seguito dall'avvento di due nuove reti in spagnolo e francese nel 2007, e
poi da altre due in arabo e russo nel 2009. In Russia nel 2005 è stato fondato un canale satellitare
che diffonde informazioni in inglese, Russia Today, al quale ha fatto seguito nel 2007 un
78
CONCLUSIONI: QUANTO È ATTUALE SAID
secondo in lingua araba, Rusiya Al-Yaum. In Medio Oriente la rete satellitare araba Al Jazeera,
fondata in Qatar nel 1996 e divenuta famosa nel mondo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001,
nel 2006 ha messo in onda un nuovo canale in inglese. Anche in Europa le emittenti nazionali
hanno cominciato a comunicare in lingue differenti, dal momento che hanno avviato trasmissioni
in inglese il canale tedesco Deutsche Welle a partire dal 2003 e la francese France 24 nel 2006,
invece la britannica Bbc ha fondato un canale in arabo nel 2008 e uno in persiano nel 2009.
Anche i siti internet delle più importanti televisioni e dei famosi quotidiani hanno iniziato a
pubblicare testi in diverse lingue, per ampliare il proprio pubblico e rivolgersi al mondo; è da
notare infatti che le notizie online della Bbc sono attualmente scritte in oltre trenta lingue,
dall'albanese al vietnamita. Il servizio non in lingua inglese della Bbc non è una novità, bensì
vanta una lunga storia, dato che a partire dal 1938 fu avviata la trasmissione di programmi
radiofonici in tedesco, e poi nelle principali lingue europee. In seguito, dopo la seconda guerra
mondiale, l’emittente britannica continuò a diffondere notiziari all'estero, dedicando particolare
attenzione nelle regioni dove era forte l’influenza dei governi comunisti, come l'Europa orientale
e il Sud Est asiatico. Una volta terminata la guerra fredda poi, non sussistendo più la politica del
contenimento, la Bbc ha avviato radicali cambiamenti nell'organizzazione delle redazioni in
lingue estere. Dal 1999 infatti ha smesso di produrre notiziari in alcune lingue europee, come il
tedesco e l'italiano, e ancora, a partire dal 2005, ha cominciato a interrompere anche le
trasmissioni nelle lingue dell'Europa orientale. Nel contempo però la celebre azienda britannica
ha incrementato gli investimenti in altre aree, al momento prioritarie, dato che recentemente ha
iniziato a operare in lingua araba e persiana.
Sembra che le redazioni giornalistiche siano diventate uno strumento degli Stati per
promuovere la propria immagine nel mondo, e i messaggi trasmessi attraverso le televisioni
internazionali e internet paiono in competizione fra loro, ognuno con il proprio punto di vista. Il
fenomeno si è mostrato evidente, ad esempio, nel 2005 quando il governo venezuelano ha
fondato un canale satellitare in spagnolo, Tele Sur, proprio con l'intento di raggiunge tutti i paesi
del Sud America e propagandare una visione alternativa, come appunto riporta scritto nel logo:
Nuestro Norte es el Sur, ossia "Il Nostro Nord è il Sud".
Con questa rapida descrizione sulla varietà delle reti televisive nei continenti, ho voluto
evidenziare come oggi il panorama dei media sia molto cambiato da quello raffigurato
all'inizio degli anni '90 da Said. Ovviamente, molte persone non possiedono le competenze
linguistiche e gli strumenti tecnologici per accedere a questa vasta gamma di offerte,
comunque tali informazioni sono disponibili e sicuramente non è più presente il predominio
nel mondo di un solo punto di vista, basato sui comunicati di poche agenzie di stampa
occidentali.
Non intendo sostenere che le analisi di Said siano ormai inadeguate per comprendere il
mondo dell'informazione, dal momento che nella produzione delle notizie intervengono
sempre rapporti di potere, ma voglio solamente sottolineare quanto adesso sia meno
percepito il rischio di quell'omologazione culturale da lui raffigurata, dove un’unica
interpretazione pervade la conoscenza delle persone. Come la Cnn tende a rafforzare
l'egemonia statunitense, così altri poli culturali oggi elaborano discorsi e rappresentazioni
con l'intenzione di accrescere la loro influenza, ad esempio la cinese Cctv, l'araba Al Jazeera,
la venezuelana Tele Sur e la russa Russia Today. Benché sia prevalente nel mondo, non esiste
solamente il cinema hollywoodiano, ma ci sono anche altri centri di produzione molto vitali,
come Bollywood a Mumbai e Nollywood a Lagos. I registi operanti in questi poli seguono
differenti canoni artistici e raccontano storie che, in maniera analoga ai film americani,
tendono a imporsi come egemoniche nelle località dove vengono recepite.
L'imperialismo culturale è ancora presente, dunque, ma ritengo che non si possa più
79
EDWARD SAID: CULTURA, INTELLETTUALI E POTERE
considerare attivo da un solo fronte, poiché adesso sono in azione diversi soggetti. Vorrei provare
quindi a pensare il mondo non diviso tra un solo centro egemonico produttore di discorsi e tante
periferie subalterne destinate o alla ricezione o alla resistenza, bensì costituito da diversi poli in
cui si elaborano significati, tutti con una propria sfera di influenza, a volte concordi e talvolta in
contrasto tra loro. Con queste mie considerazioni non intendo negare Said, ma riflettere sui
viaggi che percorrono le idee, cercando di applicare le sue stesse teorie al contesto mutato.
Cogliendo il suo invito a considerare la cultura sempre in movimento e sottoposta a processi di
collocazione e dislocazione, secondo la logica del contrappunto, ritengo che adesso sia
necessario indagare quali siano le traiettorie, i luoghi di origine e i destinatari dei vari significati,
nonché le interpretazioni, e sono altresì consapevole che tali considerazioni delineano un campo
di studio che richiede ricerche accurate.
Un altro aspetto interessante indagato da Said sono proprio i rapporti tra i centri culturali
nel mondo, tema affrontato in Orientalism e in Covering Islam quando riflette sulle relazioni
tra gli studi universitari nei vari paesi. Concordo quando l'autore spiega che l'Occidente
detiene un ruolo di primo piano nel campo delle ricerche non soltanto grazie alla sua forza
egemonica, di origine imperialista e coloniale, ma anche perché gli altri continenti, guardando
con fascino alla scienza statunitense ed europea, sembrano aver accettato una posizione
subalterna. Questa situazione è ancora presente poiché nelle regioni non europee i figli delle
élite sono incoraggiati a studiare all'estero; tale prassi deriva dall'epoca coloniale, ma perdura
tutt'ora, anche dopo che i paesi hanno ottenuto l'indipendenza politica. Benché recentemente si
siano sviluppati nuovi centri universitari eccellenti pure in paesi non occidentali, come in Cina
e in India, l'istruzione di matrice anglosassone o europea è ancora considerata un modello di
riferimento, dato che gli istituti scolastici nel mondo vengono strutturati seguendo le loro
logiche3.
Said osserva dunque quanto siano subalterni i paesi mediorientali nel campo degli studi
universitari e tali riflessioni, considerate alle luce dei tempi presenti, ritengo che siano ancora
attuali. Penso che sia importante ricordare ad esempio i recenti investimenti nel settore
dell'istruzione e dell'arte condotti nell'emirato di Abu Dhabi, paese che intende rinnovarsi
promuovendo una nuova immagine di sé proprio legata alla cultura. Dal 2006 è operativa una
sede dell'università parigina Sorbonne e nel 2010 è prevista l'apertura di una succursale della
New York University, inoltre nell'ambito artistico saranno inaugurati i musei Guggenheim Abu
Dhabi nel 2011 e Louvre Abu Dhabi nel 2012. Considero che la scelta di creare poli culturali
in Golfo Persico, importando direttamente dall'estero professori, saperi e opere d'arte, mostri
un'evidente dipendenza nel campo della conoscenza, proprio quel che Said sostiene riguardo
alla complicità dell'Oriente nella sua subalternità in campo culturale.
Considero infine valide le teorie di Said specialmente riguardo al legame tra potere e cultura
poiché qualunque autorità, per rimanere tale, ha bisogno del consenso, ottenibile solo se riesce a
giustificare il proprio operato come necessario. Considerato dunque che il dominio, per
sussistere, deve essere puntellato da una cultura e da un sistema di valori capace di spiegarne il
senso, rivestono un ruolo importante coloro che si dedicano alla diffusione della conoscenza,
ossia coloro che esercitano l’egemonia. Gran parte dell'informazione giornalistica è infatti legata
al potere, sia politico che economico e, di conseguenza, i discorsi maggiormente diffusi tendono
a favorire gli interessi di coloro che detengono il comando. Al riguardo penso che siano molto
attuali le osservazioni di Said sul linguaggio utilizzato per rappresentare la realtà, poiché certe
espressioni non sono scelte casualmente, bensì con molto ingegno, per promuovere determinate
3
80
Ci sono comunque modelli di istruzione alternativi, ad esempio quello proposto dall’Universidad Bolivariana in
Venezuela che, dal 2003, offre insegnamenti diversi dai corsi di studio tradizionali perché ideati con l’intenzione di far
progredire il socialismo.
CONCLUSIONI: QUANTO È ATTUALE SAID
idee e punti di vista. Sono da ricordare ad esempio le critiche di Said contro la definizione
“intervento umanitario”, per giustificare le operazioni militari, e le riflessioni sul termine
“terrorista”, usato per rendere prive di senso le azioni e disumanizzare le persone. Aggiungerei
altri termini, diffusi dai potenti media con un'evidente intenzione di giustificare le decisioni di
coloro governano, come “bomba intelligente” per definire gli attacchi mirati, “missione di pace”
per spiegare l’invio di contingenti militari e “pacificatori” in riferimento ai soldati. Il linguaggio
è scelto con cura poiché, se utilizzato frequentemente dalle televisioni, giornali, opinionisti e
politici, con il trascorrere del tempo è capace di influenzare il senso comune.
Said scrive appunto che ripetere tante volte una menzogna induce inevitabilmente a creare la
verità, ricordando così la famosa osservazione del ministro della propaganda nazista Goebbels.
Questa prospettiva d’analisi invita a riflettere molto e proprio da questa problematica
scaturiscono le ricerche più importanti di Said sull'orientalismo, sul dominio e sulle
rappresentazioni. Gli studi, la letteratura e tutto quel che concerne il campo delle comunicazioni,
media e giornalismo, ossia la cultura in senso ampio, sono rappresentazioni della realtà, che
sussistono solamente se scambiate, la cui verità è soltanto “una questione di grado”, come scrisse
in Orientalism. Per comprendere i discorsi e i testi bisogna dunque sempre tenere in mente il loro
coinvolgimento con i rapporti di potere presenti nella società.
81
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