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L`Inno di Garibaldi
Antonella Fischetti, Garibaldi fu cantato L’inno di Garibaldi e le macchine per la riproduzione sonora Garibaldi fu subito consapevole della importanza delle nuove tecnologie, che contribuirono a diffondere il suo mito, come la fotografia, il nuovo strumento tecnologico che nasce e si afferma proprio durante il periodo della epopea garibaldina, e oltre che da pittori e disegnatori fu spesso circondato da fotografi. I nuovi mezzi che nascevano avrebbero reso accessibile la comunicazione e la propaganda anche a un pubblico non colto e sicuramente, se fosse vissuto ancora qualche anno, avrebbe fatto arrivare la sua voce registrata nel mondo. Non abbiamo la sua voce, ma abbiamo il suo inno, l’Inno di Garibaldi, registrato in moltissime versioni e la cui storia è oggetto di questo breve intervento. “Voi mi dovreste scrivere un Inno per i miei volontari: lo canteremo andando alla carica e lo ricanteremo tornando vincitori”. Con queste parole la sera del 19 dicembre 1858, nel fermento dei preparativi per riprendere le armi alla vigilia di quella che sarà la seconda guerra di indipendenza, Giuseppe Garibaldi si rivolse a Luigi Mercantini. Costanza Giglioli Casella, presente all’incontro, ricordò queste parole ventiquattro anni dopo, alla morte di Garibaldi, e il suo racconto, pubblicato nella Rassegna del 12 giugno 1882, è stato ripreso negli anni successivi da tutti coloro che hanno trattato dell'inno, ispirando anche le successive rappresentazioni iconografiche dell'evento1. Costanza Casella era la nipote di Gabriele Camozzi, un patriota bergamasco - aveva combattuto contro gli austriaci nel 1848 e Garibaldi ne aveva grande considerazione - rifugiatosi a Genova dopo il ritorno di Radetzky in Lombardia. Il salotto della sua villa allo Zerbino era diventato il punto di ritrovo dei più noti patrioti del tempo, e lì ebbe luogo l’incontro. Per il centenario della nascita di Garibaldi, nel 1907, tra le riflessioni e iniziative che caratterizzano queste ricorrenze, erano apparsi sulla stampa vari articoli in cui si cercava, tra l’altro, di stabilire la data precisa della nascita dell'inno diventato ormai famosissimo, per appurare se i versi fossero stati scritti in occasione della campagna del 1859 o si riferissero invece alla spedizione in Sicilia. Non deve certo meravigliare tanto interesse intorno a un inno, considerato il significato identitario oltre che esortativo che molti canti hanno assunto nel corso di cruciali vicende storiche. Nel suo libro Jessie White Mario introduce il capitolo dedicato all’inno di Garibaldi con alcune righe di Giuseppe Guerzoni in cui viene descritto il volontario garibaldino; a leggendari tratti fisici di bellezza e intelligenza e al tipico modo di vestire si unisce naturalmente il canto: “mettetegli negli occhi l’allegria, nel cuore l’entusiasmo, nello stomaco l’appetito, e sulle labbra la perpetua canzone: Addio, mia bella, addio; e avrete il Cacciatore delle Alpi”2 Vittore Ravà, ritenendo che la questione non fosse stata sufficientemente approfondita, a due anni dalle celebrazioni del centenario, cercò di ricostruire con precisione la genesi dell’inno, sia attraverso una ricognizione bibliografica della documentazione cartacea esistente al Museo storico milanese del Risorgimento italiano, nell’archivio musicale della Casa Giulio Ricordi e sia attraverso il racconto orale, o epistolare, dei superstiti o dei discendenti dei Cacciatori delle Alpi e delle persone che avrebbero potuto fornire notizie e documenti in merito. 1 Il racconto è riportato per esteso in Jessie White Mario, Garibaldi e i suoi tempi, Napoli, Antonino de Dominicis, 1982 (stampa anastatica della edizione del 1905, Milano, Fratelli Treves editori), e in Achille Bizzoni, Garibaldi nella sua epopea, Milano, Sonzogno, 1907. In entrambi però Costanza Giglioli è citata come “signor C. Giglioli” 2 Giuseppe Guerzoni, Garibaldi, cit. in Jessie White Mario, op. cit., p. 232 1 Il risultato di quella indagine fu la pubblicazione di un testo che rimane uno dei principali punti di riferimento per ricostruire la storia dell’inno3. Gabriele Camozzi aveva organizzato un incontro tra patrioti proprio su richiesta di Garibaldi4. Il 19 dicembre 1858 – la data sembra ormai certa - Garibaldi si trovava quindi allo Zerbino, a Genova, e lì incontrò tra gli altri l’allora trentasettenne poeta marchigiano Luigi Mercantini – il Rouget de l’Isle italiano come è stato definito da alcuni - al quale chiese di scrivere un inno che accompagnasse i suoi volontari nell’impresa ambiziosa che si stava preparando. Luigi Mercantini aveva scritto l’anno prima La spigolatrice di Sapri, una poesia romantica e patriottica sulla tragedia di Carlo Pisacane nel Regno delle due Sicilie; ma il nuovo inno avrebbe accompagnato vittoriosamente verso l’obiettivo dell’unificazione d’Italia, per il quale tanti “giovani e forti” avevano perso la vita. Nella vasta produzione di composizioni musicali e canti ispirati e dedicati a Giuseppe Garibaldi e alle sue imprese, in italiano o nei vari dialetti delle regioni attraversate, questo è l’unico da lui personalmente richiesto. L’inno, composto da quattro strofe, che Mercantini titolò La canzone italiana era pronto dopo pochi giorni dall'incarico e il manoscritto fu consegnato a Agostino Bertani - Garibaldi era partito da Genova - il quale apportò una serie di correzioni; quasi sicuramente il poeta preparò la redazione definitiva del testo per la fine di dicembre del 1858. Il racconto di Costanza Casella, con il ricordo commosso della sfilata improvvisata dai patrioti presenti nel salotto genovese per provare la forza esortativa dell'inno ha ispirato, come detto, le successive rappresentazioni iconografiche, tra cui quella, molto famosa, riportata da Jessie White Mario5 Le immagini, disegni e dipinti, titolati “La prima prova dell'Inno di Garibaldi” o “L’inno di Garibaldi cantato per la prima volta” riportano spesso la data dicembre 1858; è sempre presente Giuseppina Mercantini, moglie del poeta, al pianoforte con il marito accanto; in altre c’è anche Garibaldi seduto in casa Camozzi, lo spartito dell’Inno nella mano destra, la sinistra infilata nella camicia, rossa. La fine dell'anno 1858 sarebbe quindi stata festeggiata sulle note dell'Inno di Garibaldi, con una cena e un brindisi augurale tra amici e patrioti per la buona riuscita dell’impresa da anni perseguita e ormai imminente. Probabilmente nel racconto di Costanza Casella, scritto dopo oltre vent'anni dagli avvenimenti, si erano sovrapposti i ricordi di diversi momenti: la prova dell'inno non fu fatta la sera del 31 dicembre 1858 - come emergeva dal racconto da lei tramandato e su cui anch’essa espresse dubbi in seguito - in quanto la musica fu composta più tardi. Appena elaborato il testo definitivo, infatti, Mercantini e gli altri si rivolsero a Francesco Sanguinetti, un appaltatore teatrale a Genova, per scegliere il compositore. Concordarono su Alessio Olivieri, capo musica del 2° Reggimento Brigata del Re, allora di stanza a Torino; contattato il 4 gennaio 1859, compose la musica al pianoforte in brevissimo tempo e ne fece anche la versione per la Guardia Nazionale di Genova. 3 Vittore Ravà, L’Inno di Garibaldi. Ricordi storici, Milano, Stab. Tip. Manini-Wiget, 1909 4 5 Gustavo Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Rizzoli & C., 1933, p. 549 Jessie White Mario, op. cit. 2 Nel suo racconto Costanza Casella ricordava che nello stesso giorno dell'incarico a Mercantini, Camozzi aveva proposto per la composizione della musica Giuseppina Mercantini, moglie del poeta e considerata una brava pianista. Luigi Mercantini, trentaquattrenne ma già vedovo da alcuni anni, aveva incontrato questa ventenne ragazza milanese a Genova, nell'Istituto dove si ritrovarono entrambi a insegnare e nel febbraio del 1855 si erano sposati.6 Enrico Liburdi ricostruendo nel 1952 le vicende legate all'inno sostenne che fu solo per la poca ambizione di Giuseppina Mercantini De Filippi che Alessio Olivieri legasse il suo nome a un inno così importante. Era stato certo un onore per Giuseppina Mercantini l'invito a scrivere la musica di un inno per Garibaldi, ma prevalse evidentemente la convinzione che le note marziali proprie di un inno di guerra, quella che doveva essere la Marsigliese italiana, non avrebbe potuto scriverle una donna, ma solo un maestro soldato, come Olivieri. Fu quindi proprio lei a indicare Olivieri come compositore7. La stampa dell'inno fu curata dall'editore N. Armanino - che aveva una litografia a Genova - cugino di Nino Bixio, al quale, dopo aver distrutto le matrici, furono consegnate tutte le copie prodotte. Fu stampato in quattro pagine compreso il frontespizio con il titolo Inno nazionale e i proventi della vendita sarebbero serviti per la causa italiana. Un esemplare di questa prima edizione dell'inno è conservato nell'archivio musicale di Casa Ricordi a Milano. Garibaldi ricevette lo spartito dell'inno a Torino, chiamato dal Re all'inizio di marzo del 1859, e lo considerò bellissimo, come scrisse in una lettera del 7 marzo 1859 a Mercantini; non era in grado di cantarlo in quanto non conosceva la musica, ma sperava “d'intonarlo presto caricando i nemici del nostro paese”8. Non era della stessa opinione Cavour, che ne ricevette una copia dalla polizia alcuni giorni dopo, ritenendo che “delle canzoni per liberare l'Italia ce ne sono già in numero soverchio”9. L'inno cominciò a circolare tra i volontari che stavano formando i Cacciatori delle Alpi - Ravà nella sua ricerca svoltasi quando gli eventi non erano troppo lontani e si trovavano ancora testimoni diretti degli avvenimenti, trovò conferma che fu già cantato in treno il 25 aprile 1859 nel tragitto tra Cuneo e Chivasso – alternato spesso alle strofe de La bella Gigogin, una canzone che Garibaldi amava molto, presentata a Milano alla fine del 1858 mentre a Genova veniva eseguito l'Inno di Garibaldi.10 La grande diffusione avvenne però a partire dalla primavera del 1860 a Genova durante la preparazione della spedizione di Sicilia. Alessio Olivieri, che si trovava lì con il suo reggimento insegnò l'inno a suo fratello Pietro, uno dei Mille di Garibaldi, e da questo momento la sua trasmissione orale fu inarrestabile, più immediata e veloce della circolazione dei fogli volanti con gli spartiti e i canzonieri sociali. 6 Enrico Liburdi, Di Giuseppina Mercantini De Filippi e dell'Inno di Garibaldi che non volle musicare, Estratto dalla “Rassegna Storica del Risorgimento”, anno XXXIX, Fascicolo IV, Ottobre-dicembre 1952, Roma, La Libreria dello Stato, 1952 7 Enrico Liburdi, op. cit., p. 9. La scelta di Olivieri da parte della Mercantini era stata sottolineata anche da Gustavo Sacerdote, La vita di Giuseppe Garibaldi, Milano, Rizzoli, 1933 8 Vittore Ravà, op. cit., p. 16 9 Lettera di Cavour all'intendente di Genova, in Gustavo Sacerdote, op. cit., p. 551 10 Romano Calisi, Francesco Rocchi, La poesia popolare nel Risorgimento italiano, Roma Milano Napoli, Vito Bianco Editore, 1961, p. 210 3 Quasi subito il titolo Inno Nazionale pubblicato sul primo spartito fu accantonato e dopo la liberazione di Napoli era ormai ribattezzato dai volontari come Inno di Garibaldi. Gli inni spesso assumono il nome dell'autore del testo, come ad esempio dell’Inno di Mameli (nato La canzone degli italiani); in questo caso si impose naturalmente il nome di colui che lo aveva commissionato. Un nome che peraltro non compare nella prima versione dell’inno, ma soltanto nelle due strofe aggiunte dopo l’impresa dei Mille11, che Mercantini in qualche modo si vide costretto a inserire, in quanto Camozzi gli aveva inviato una copia che circolava a Napoli, con due strofe aggiunte da un tale T. Ruffa, non meglio identificato. A parte questo caso specifico, soprattutto nel meridione d'Italia circolavano versioni scritte dell'inno diverse da quelle dell'autore e non essendo ormai più in vendita l'edizione di Armanino, si ritenne opportuna una nuova stampa. Superati alcuni problemi relativi ai diritti di proprietà12 nel 1861 due editori milanesi, Tito Ricordi e Francesco Lucca ripubblicarono lo spartito. E negli anni varie altre edizioni si aggiunsero.13 L'edizione di Francesco Lucca si intitolava Inno di Garibaldi. All'armi!... All'armi! Ossia Inno di guerra dei Cacciatori delle Alpi “Si scopron le tombe si levano i morti” . A due anni dalla prima edizione, ufficialmente il titolo è diventato quello che circolava fin da subito, anche se forse a Garibaldi avrebbe fatto piacere che l’inno portasse il nome di chi l’aveva scritto, come dirà alla moglie di Mercantini nel 1882, quando, ormai al termine della sua vita, si recò a Palermo per il sesto centenario dei Vespri siciliani14. Ci fu un solo momento in cui l'autore dell'inno in qualche modo rivendicò la “proprietà” dell'ingegno. Mercantini, che forse non aveva immaginato che la costruzione d’Italia avrebbe portato necessariamente a combattere una guerra civile tra i volontari garibaldini che risalivano dalla Sicilia e l'esercito regio, in una lettera a Garibaldi del 24 agosto 1862 (che fu oggetto anche di successivi fraintendimenti di cui si rammaricò molto) scrisse “... io vi chieggo ora una grazia: se per estrema sventura avvenisse che i fratelli combattessero contro i fratelli (rabbrividisco a pensarlo), io vi prego che voi ordiniate che nessuno osi d'intuonare un inno consacrato dal sangue di tanti eroi morti pugnando contro lo straniero con quella canzone sul labbro”.15 Ma è certo difficile se non impossibile impedire che un inno venga cantato: i canti, seppure d’autore come questo, una volta composti vivono poi di vita propria. L’unificazione d’Italia consacrò il mito di Garibaldi e sancì anche la fortuna di questo canto, da allora uno degli inni più riprodotto e cantato con poche varianti16, come in genere i testi d’autore, 11 “ Se ancora dell'Alpi tentasser gli spaldi,/Il grido dell'armi darà Garibaldi...” 12 Vittore Ravà, op. cit., p. 19-20. Parole e musica rimasero poi di proprietà di Ricordi 13 Un elenco delle più importanti edizioni musicali si trova nell'allegato alla edizione discografica Camicia rossa. Antologia della canzone giacobina e garibaldina, a cura di Cesare Bermani, disco a 33 giri, I Dischi del Sole DS 1117/19, 1979 14 Enrico Liburdi, op. cit., p. 19 15 riportata in Enrico Liburdi, op. cit., p. 13 16 vedi Camicia rossa..., op. cit., pp. 30-31 4 meno soggetti - come ha sottolineato Cesare Bermani - dei “testi sociali” a variazioni e adattamenti17. Tra le moltissime composizioni ispirate a Garibaldi quindi - di origine popolare o colta, nate durante le sue imprese, quasi una cronaca in musica delle sue gesta, in italiano ma anche nei vari dialetti delle regioni attraversate, quasi sempre prive di autori - nessuna ha avuto la diffusione e l’affermazione dell’Inno di Garibaldi. Le sue note seguirono Garibaldi – e i garibaldini - nelle sue battaglie in Francia con l'esercito dei Vosgi nel 1871 e fu anche tradotto in altre lingue18. A lungo fu anche più popolare dell’Inno di Mameli, scritto dieci anni prima, nel 1847, dal ventenne Goffredo Mameli che meno di due anni dopo morirà per le ferite ricevute durante la difesa della Repubblica Romana19. Più popolare, con meno riferimenti “colti” alla storia d'Italia (c'è solo il comune richiamo alla battaglia di Legnano); forse meno raffinato artisticamente dell'universale Chant de guerre de l'armée du Rhin, ma di uguale forza per sostenere l'eroismo di chi lo cantò: “Come la Marsigliese frantumò il trono de' Borboni in Francia e impaurì l'aquila prussiana e austriaca a Valmy e a Jemappes, così l'inno immortale di Garibaldi, vittorioso dell'aquila austriaca, intuonato a Calatafimi dai Mille, scosse dalle fondamenta la reggia di Napoli, travolgendo, bufera irresistibile, il vecchio trono insanguinato dei re lazzaroni. All'inno fatidico, come al suono delle bibliche trombe di Gerico, crollarono le fortezze del dispotismo”20 L'Inno di Mameli e l'Inno di Garibaldi, con la loro enfasi declamatoria propria dei salotti risorgimentali, avranno un percorso comune almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale. La popolarità dell’inno è testimoniata dalle varie edizioni discografiche pubblicate fin dagli inizi della registrazione sonora: su cilindro (la versione di Ettore Campana su cilindro Edison Amberol 7553 del 1910), su dischi a 78 giri, (la registrazione di Enrico Caruso su disco Grammofono DA 116); durante il ventennio fascista non sarà incluso negli elenchi dei dischi considerati sovversivi come accadde a molti altri canti; parole e musica furono pubblicate alla fine degli anni venti dal Ministero della Pubblica Istruzione nei canzonieri del maestro Achille Schinelli, trascritti anche per voci di fanciulli delle scuole elementari21. Il fascismo e Mussolini cercarono un allaccio ideale con Garibaldi, una icona difficilmente relegabile in secondo piano e utile da sfruttare a proprio vantaggio: non ovviamente il Garibaldi simpatizzante della Prima Internazionale; si cerca di individuarne in qualche modo l'anticipatore del fascismo e per questo legame fu utile anche l'appoggio al regime di Ezio Garibaldi, figlio di Ricciotti e il suo testo Fascismo garibaldino . In questo contesto il fascismo inserisce ogni percorso celebrativo: le manifestazioni per il cinquantesimo anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi nel 1932, che coincisero con il decennale della Marcia su Roma, in cui per l’occasione fu riservata una particolare considerazione per la figura di Anita, immaginata come prototipo di donna fascista 22; l'inaugurazione dell’Ossario 17 Cesare Bermani, Guerra guerra ai palazzi e alle chiese... Saggio sul canto sociale, Roma, Odradek, 2003, p. 4 . 18 Una versione tedesca, Garibaldi-Hymne, fu tradotta nel 1860 dal poeta Georg Herweg (1817-1875) 19 Morì giovane anche Alessio Olivieri, a trentasette anni per tubercolosi; a cinquant'anni morì Luigi Mercantini 20 Achille Bizzoni, Garibaldi nella sua epopea, Milano, Sonzogno, 1907, p. 141 21 Camicia rossa, op. cit., pp. 31-32 22 Nell’occasione fu inaugurato il monumento di Anita al Gianicolo, alla cui base furono traslate le ceneri 5 Garibaldino al Gianicolo, il 3 novembre 1941, dedicato ai caduti per la liberazione di Roma tra il 1849 e il 1870, quando le note dell’Inno di Garibaldi risuonarono, accanto a quelle di Giovinezza, durante il corteo che dall’altare della Patria portava su un cannone le ceneri di Goffredo Mameli. Anche nell’ultimo periodo del fascismo, quello della Repubblica Sociale Italiana, Garibaldi e gli altri eroi del Risorgimento trovarono un posto di rilievo nella ispirazione antimonarchica e repubblicana che la caratterizzava. L’Inno di Garibaldi non fu quindi solo il filo che attraversò le vicende risorgimentali fino alla unificazione dell’Italia; la sua carica simbolica e la figura a cui si richiamava riemersero con una forza di coinvolgimento intatta in altri momenti della storia italiana, destino fatale dei simboli su cui si sedimentano nel tempo idee e aspirazioni diverse. Il nome e il volontarismo risorgimentale ricomparirà infatti nelle formazioni antifasciste garibaldine in Spagna e in Italia. Sarà il sottofondo che inciterà gli italiani al riscatto durante la Resistenza da Radio Bari, una delle prime stazioni trasmittenti dell’Italia liberata; la rubrica L’Italia combatte, una delle più popolari trasmessa da Radio Bari, da Radio Palermo e da Radio Napoli, sarà introdotta e chiusa dalle note dell’Inno di Garibaldi che si alternavano a quello di Mameli sulle quali gli speakers annunciavano “questa trasmissione è dedicata ai patrioti italiani che lottano contro i tedeschi”. Il ritornello dell’inno“Va fuora d'Italia, va fuora ch'è l'ora! Va fuora d'Italia, va fuora o stranier! “ ben si adattava all’idea della Resistenza come secondo Risorgimento veicolata dalla radio (controllata dal Psychologic Warfare Branch). La Marcia reale che Giuseppe Gabetti aveva composto nel 1831 per incarico di Carlo Alberto di Savoia – eseguita per tutto il ventennio durante le cerimonie pubbliche accanto a Giovinezza, e così pubblicata anche in varie edizioni discografiche23 – sebbene formalmente la monarchia fosse ancora regnante, non sarebbe stata in grado di chiamare il paese alla guerra di liberazione. E subito dopo la guerra di liberazione è ancora l’Inno di Garibaldi che introduce la notizia della apertura della assemblea costituente trasmessa dalla Settimana Incom del 27 giugno 1946. Al momento della scelta di un inno nazionale provvisorio per la Repubblica italiana, nel 1946, l’Inno di Garibaldi fu però accantonato, nonostante si fossero espressi in suo favore anche vari intellettuali, tra i quali Massimo Mila. La figura di Garibaldi, diventata ormai simbolica tra gli internazionalisti come precursore del socialismo era ormai probabilmente troppo connotata a sinistra – “garibaldine” come ricordato prima, si chiamavano le formazioni comuniste durante la Resistenza - e l’inno a lui dedicato, che aveva accomunato repubblicani, anarchici e socialisti che si richiamavano alle idealità della rivoluzione francese e del risorgimento, identificava ora più che la nazione nel suo insieme il movimento operaio. Oltre a rappresentare la tradizione anticlericale e massonica. L’ultimo momento in cui l’inno – e l’effige di Garibaldi – risuonerà per raccogliere simbolicamente una tradizione ideale fu la campagna per le elezioni del 18 aprile 1948 da parte del Fronte popolare delle sinistre. Ma la figura di Garibaldi con l’incipit e il ritornello dell’inno saranno utilizzati nella stessa campagna elettorale anche dagli avversari del Fronte Popolare: un manifesto mostra Garibaldi a cavallo con la spada sguainata alla testa dei suoi volontari mentre insegue un uomo (Togliatti) che scappa con il cartello con la testa di Garibaldi incastonata nella stella, in alto “si scopron le tombe si levano i morti” e in basso: “va fuori d'Italia va fuori o stranier!...” 23 Dischi a 78rpm Grammofono GW 715, Vis Radio VI 4486, La Voce del Padrone HN 3894 6 La sconfitta del Fronte Popolare social-comunista che aveva scelto l’immagine di Garibaldi riuscendo a chiamare a raccolta nuove masse con l'inno che aveva ormai novant'anni, chiude definitivamente la tradizione che a quell'ideale risorgimentale si era ispirata. Le strofe dell’inno sono andate lentamente sparendo anche dalle manifestazioni di protesta e le sue note risuonano, ma prive ormai di ogni legame ideale con la sua origine, nei repertori classici bandistici e orchestrali. 7 La canzone italiana Si scopron le tombe, si levano i morti i martiri nostri son tutti risorti: Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome d'Italia nel cor. Veniamo, veniamo! Su, o giovani schiere, su al vento per tutto le nostre bandiere Su tutti col ferro, su tutti col fuoco, su tutti col fuoco d'Italia nel cor! Va fuora d'Italia, va fuora ch'è ora, Va fuora d'Italia, va fuora o stranier. La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi ritorni per poco la terra dell'armi; Di cento catene ci avvinser la mano, ma ancor di Legnano sa i ferri vibrar. Le case d'Italia son fatte per noi è là sul Danubio la casa de' tuoi; tu il loco c’ingombri, tu il pan ci divori, tu in rosso colori la terra ed il mar. Va fuora d’Italia … Bastone tedesco l'Italia non doma, non nascono al giogo le stirpi di Roma, più Italia non vuole stranieri e tiranni, già troppi son gli anni che noi li soffriam. Più l’alpi non sono d’Italia le mura Ma vendica l’arte l’offesa natura Sorvola convalli trapassa apennini Noi tutti vicini l’Italia abitiam. Va fuora d’Italia … Sien mute le lingue, sien pronte le braccia Soltanto al nemico voltiamo la faccia Nel di’ della pugna saremo italiani Se in noi dei Romani risorge il voler. Portiamo in trionfo le barbare spoglie Ma veglino i forti d’Italia alle soglie: e intanto che serve son l’altre contrade nel pugno le spade dobbiamo tener. Va fuora d’Italia… Inno di Garibaldi Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti, Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome - d'Italia nel cor. Veniamo! veniamo! Su, o giovani schiere, su al vento per tutto le nostre bandiere Su tutti col ferro, su tutti col fuoco, su tutti col fuoco - d'Italia nel cor. Va fuora d'Italia, va fuora ch'è l'ora! Va fuora d'Italia, va fuora o stranier! La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi ritorni, qual'era, la terra dell'armi; Di cento catene ci avvinser la mano, ma ancor di Legnano - sa i ferri brandir. Bastone tedesco l'Italia non doma, non crescon al giogo le stirpi di Roma; più Italia non vuole stranieri e tiranni: già troppi son gli anni - che dura il servir. Va fuora d’Italia … Le case d'Italia son fatte per noi, è là sul Danubio la casa de' tuoi; tu i campi ci guasti, tu il pane c'involi, i nostri figliuoli - per noi li vogliam. Son l'Alpi e i due mari d'Italia i confini, col carro di fuoco rompiam gli Appennini; distrutto ogni segno di vecchia frontiera, la nostra bandiera - per tutto innalziam. Va fuora d'Italia, … Sien mute le lingue, sien pronte le braccia Soltanto al nemico volgiamo la faccia E tosto oltre i monti n’andrà lo straniero Se tutta un pensiero - l’Italia sarà. Non basta il trionfo le barbare spoglie Si chiudan ai ladri d’Italia le soglie; le genti d’Italia son tutte una sola, son tutte una sola - le cento città Va fuora d’Italia… Le due strofe finali aggiunte all'Inno da Mercantini alla fine del 1860 Se ancora dell'Alpi tentasser gli spaldi, Il grido dell'armi darà Garibaldi: E s'arma allo squillo che vien da Caprera, Dei Mille la schiera – che l'Etna assaltò. E dietro alla rossa vanguardia dei bravi Si muovon d'Italia le tende e le navi: Già ratto sull'orma del fido guerriero L'ardente destriero – Vittorio spronò. Va fuora d'Italia, va fuora ch'è l'ora, Va fuora d'Italia, va fuora o stranier! Per sempre è caduto degli empi l'orgoglio, A dir – Viva Italia – va il re in Campidoglio: La Senna e il Tamigi saluta ed onora L'antica signora – che torna a regnar. Contenta del regno fra l'isole e i monti Soltanto ai tiranni minaccia le fronti: Dovunque le genti percuota un tiranno Suoi figli usciranno – per terra e per mar. Va fuora d'Italia, va fuora ch'è l'ora, Va fuora d'Italia, va fuora o stranier!