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Carmassi: una “questione di discrezione”

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Carmassi: una “questione di discrezione”
L’intervista
Elisabetta Pieri
Carmassi:
una “questione
di discrezione”
Nel panorama internazionale del Novecento, quali sono
i modelli di maggiore importanza per cogliere il rapporto
tra architettura e laterizio?
Qual è il ruolo del mattone nell’architettura italiana dal
dopoguerra ad oggi?
Credo di conoscere tutte le architetture in laterizio
costruite nel Novecento.Tra queste, molte le ho visitate e fotografate dal vero: gli edifici tedeschi di Fritz
Hogher e Mies Van der Rohe, quelli olandesi di
Berlage, Dudok, De Klerk, le architetture americane di
Sullivan e la Jonson Wax di Wright. Naturalmente
ammiro molto L. Kahn nella biblioteca di Exter e le
due chiese di Lewerentz costruite con un singolare
paramento a maglia larga di mattoni di Goteborg. Ho
studiato con molta attenzione anche gli edifici in mattoni di Moneo, il Bankinter di Madrid, il Museo di
Merida, la Compagnia di Assicurazioni di Siviglia e la
stazione di Atocha a Madrid realizzate ciascuna con
ottimi mattoni diversi. In particolare, sono rimasto sorpreso dall’uso di mattoni rossi e regolari sovrapposti
senza malta nella Banca Madrilena.Tutte queste opere,
al di là della loro bellezza e perfezione compositiva,
sono caratterizzate da sapienza e originalità costruttive
eccezionali e da materiali di grande qualità e robustezza. Più recentemente, mi sono piaciute le opere in
mattoni di Kollhoff a Berlino. Ma in Europa, soprattutto nel nord, negli ultimi due decenni sono stati realizzati moltissimi edifici in mattoni e intere parti di
città, apprezzabili per la proprietà nell’uso del laterizio
e per la varietà delle tipologie, della pasta e dei colori.
Tuttavia le suggestioni più notevoli le ho ricevute dalle
città e dalle grandi architetture del passato. Dalle vestigia romane del Palatino alle città e architetture orientali fino alla Cina, dai rossi quartieri signorili di Londra
e Boston alle Casetorre medievali di Pisa, dalla
Bauakademie di Schinkel all’ edilizia industriale tedesca dei primi del ‘900. Ghery a Dusseldorf ha dimostrato quale potenzialità espressive possa offrire il laterizio anche in architetture così diverse dal consueto.
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Sul numero 20 di Zodiac del ’70 venne presentata, ancora in costruzione, la casa in mattoni che Tobia Scarpa
stava realizzando per se stesso a Treviso nel ’69: la più
bella casa costruita nel dopoguerra in Italia.
Mi fece un’impressione profonda e indimenticabile;
conservo quel numero come la cosa più preziosa della
mia biblioteca.
Non posso negare che quelle immagini abbiano provocato una scossa nel giovane appena uscito dalla
scuola di architettura di Firenze, dove dominavano il
cemento armato di Ricci e Savioli e le forme libere di
Michelucci. Mi sorprese in modo particolare il disegno
esatto della tessitura dei mattoni dei muri portanti a tre
teste, sia in pianta che in alzato, la chiarezza della struttura compositiva, solo apparentemente elementare, la
correttezza estrema della sintassi e della grammatica, la
forma libera della grande apertura verso sud, un rarissimo esempio di sintesi tra tradizione e modernità.
Dopo molti anni ho rivisto quella casa, pubblicata su
Casa Vogue, e solo una certa timidezza e la difficoltà di
trovarla mi hanno impedito fino ad oggi di andare a vederla. Ho assistito alla costruzione della chiesa di Muratori a Pisa, perché abitavo accanto; rammento ancora
il lavoro paziente degli operai nel posare i mattoni
compatti, dalla superficie liscia, che venivano tagliati
per formare archi e strombature ed ottenere un paramento murario massiccio e preciso, inusuale nell’architettura contemporanea. Alcuni anni orsono ho
avuto modo di ammirare le potenti murature del teatro di Sagunto di Grassi, quasi compiuto, e mi piace in
generale l’astrazione delle sue opere costruite in mattoni, come la biblioteca di Gromingen.
Ma, naturalmente, non posso dimenticare l’impressione provata di fronte alla Bottega di Erasmo di Gabetti e Isola, e la loro raffinata sapienza costruttiva.
CIL 99
Piano urbano a Roma: intervento di riqualificazione dell’ex Federazione Consorzi Agricoli.
Forme e materiali della città contemporanea: quali le strategie seguite dal vostro studio per conciliare i bisogni
dell’oggi con la memoria storica?
In Europa, ma soprattutto in Italia, la città contemporanea corrisponde alla periferia, oppure alla città disseminata o continua delle conurbazioni.
Se ne può parlare, male ma è il luogo dove vive la maggior parte delle persone e non credo che sarà facile
modificarla o migliorarla nel breve termine.
D’altra parte, la periferia sembra essere il soggetto preferito dai fotografi contemporanei e come set cinematografico, e penso che effettivamente la rapidità e la casualità della nascita e della crescita di questi territori
abbiano prodotto anche molte nuove suggestioni, almeno sul piano estetico. I tentativi recenti di costruire
nuove parti di città, nonostante l’impegno di molte intelligenze, e salvo qualche rara eccezione di modesta
entità, non sembrano avere dato finora risultati entusiasmanti e dunque la città antica continua in Italia ad
essere il luogo dei sogni.
Tuttavia, penso che sarebbe possibile oggi costruire
nuove città o parti di città del tutto competitive con la
città antica quanto a qualità estetica e piacere di vivere.
Non so se l’economia, la cultura dei cittadini e le abitudini imprenditoriali di questo Paese saranno in grado
di dare vita a qualche sperimentazione significativa.
Alcuni quartieri olandesi di recente costruzione, come
il Borneo, e altri agli antipodi, come l’espansione di
Montperlier di Bofill, dovrebbero incoraggiare a seguire l’esempio attraverso un radicale snellimento della
maglia normativa ed il recupero di alcune radici della
nostra tradizione antica e moderna, lontane anni luce
dagli eccessi di originalità e irresponsabilità generate
ovunque dalla disponibilità dei nuovi materiali leggeri
e dalle suggestioni della realtà virtuale.
È evidente che penso al mattone come materiale fondamentale nelle sue infinite possibili varietà, per la co-
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struzione o la ricostruzione delle nuove città italiane.
Destano invece preoccupazione le derive della moda,
la diffusione non sempre giustificata delle pareti ventilate, in vetro o laterizio, l’uso sconsiderato di superfici
metalliche esposte alle temperature impossibili delle
nostre estati, l’adozione anche in situazioni del tutto
standard di forme e tecnologie che si possono accettare solo in edifici eccezionali, progettati magari da
grandi architetti, in un Paese dalle scarse risorse dove
ritengo esistano altri modi per essere discretamente
originali.
Perché il mattone è così importante per l’architettura dei
Carmassi?
Non ci interessa il mattone come materiale da rivestimento o per le sue potenzialità decorative.
Il mattone ci ha consentito di costruire edifici con murature portanti a basso costo in contesti dove questo
materiale era necessario dal punto di vista ambientale,
come a San Michele in Borgo.
In altri casi è stata la soluzione migliore per garantire
un plusvalore di dignità e durevolezza a funzioni pubbliche come scuole, residenze, cimiteri, ecc.
Ma il tipo di muratura che preferiamo è quella a sacco,
di forte spessore, dove buone pareti di mattoni pieni a
vista fanno da cassaforma a perdere per il getto dell’anima in calcestruzzo, debitamente armata. Questa antica tipologia costruttiva, resa attuale dalla combinazione con l’acciaio e il cemento,è capace di fornire opportunità strutturali e compositive molto innovative
che abbiamo cercato di sfruttare nel modo migliore e
sulle quali direi che sono fondati il nostro modo di
progettare ed il nostro linguaggio.
Contrariamente al passato, è possibile ad esempio costruire lunghissimi muri senza l’ausilio di contrafforti.
Credo che questo sia l’aspetto più originale del nostro
lavoro anche se non è del tutto facile da cogliere per la
L’ I N T E R V I S T A
Progetto di ampliamento del cimitero
di Bavari (Ge), 1999.
Nella pagina a fianco:
esempi di texture murarie
a Pisa, retro di San Michele in Borgo;
Arezzo, nuovo cimitero comunale;
Santa Croce sull’Arno, Museo della Concia.
critica, avvezza a sistemi costruttivi più sbrigativi.
Insomma noi contrapponiamo alla leggerezza e alla
provvisorietà, oggi così ricercate, la pesantezza e la durata, qualità che offrono, oltre alla maggiore sicurezza,
una serie notevole di altri vantaggi per quanto riguarda
il microclima, un giusto equilibrio tra luce ed ombra,
il piacere e la qualità di vivere.
Dove è necessario, la robustezza delle nostre opere è
mitigata da elementi sovrastrutturali in larga misura di
acciaio e vetro, come i lucernari e gli infissi del cimitero di Arezzo e San Piero, oppure i diaframmi trasparenti sostenuti da telai di legno o di ottone usati con
una certa larghezza nei restauri, ad esempio nella biblioteca di Senigallia, oppure nel teatro Verdi di Pisa.
Naturalmente le strutture portanti dei nostri edifici più
grandi sono in cemento armato e, quando non sono
combinate con superfici a mattone, sono costituite prevalentemente da costole, solette e pilastri di c.a. a vista
gettate in casseforme appositamente realizzate in acciaio in modo da ottenere superfici lisce e lucide.
Usiamo anche notevoli quantità di travertino per realizzare piani orizzontali molto regolari, come il campo
del cimitero di San Piero, o rivestire grandi superfici
verticali. L’ampliamento della Galleria d’Arte Moderna di Roma, progettato per il concorso, è completamente rivestito (muri perimetrali, pavimenti e soffitti) di grande lastre di travertino, all’interno come all’esterno. A noi piace un certo livello di omogeneità
nell’aspetto dei nostri edifici, e le combinazioni con altri materiali sono risolte con discrezione.
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In che cosa risiede la qualità di un muro in laterizio?
È difficile capire perché usiamo così spesso il laterizio se non si tiene conto che in ogni edificio adottiamo un tipo di mattone diverso, pensato, cercato e
scelto con molta difficoltà, precisamente per quella
occasione. Probabilmente la cultura italiana è viziata
da una relativamente scarsa disponibilità di tipi, rispetto all’ abbondanza dei Paesi del Nord Europa,
dovuta alla qualità delle nostre argille e alla povertà
del mercato edilizio, oppure ad una certa banalità
nell’uso di questo materiale negli ultimi decenni.
Non possiamo dimenticare che nei primi anni ’70
era molto difficile trovare un buon mattone pieno e
dalle mie parti quasi tutte le fornaci avevano cessato
o stavano cessando l’attività.
Dunque, senza insistere troppo sulle caratteristiche
strutturali di un muro in laterizio nelle tipologie
portante a più teste o a sacco, preme sottolineare
come quello che noi cerchiamo di ottenere per i nostri muri non sia semplicemente l’omogeneità di una
generica superficie regolare di colore uniforme, dove
le vibrazioni sono date dalla trama più o meno complessa della posa dei mattoni e del giunto di malta,
ma una qualità più sofisticata determinata dalle caratteristiche materiali intime del mattone e della sua
precisione geometrica, che consenta una posa molto
accurata.
Purtroppo non è possibile disporre degli antichi
mattoni dalla pasta così densa e dalla superficie vellutata che ammiriamo nelle fabbriche romane o di
CIL 99
quelli più caldi e recenti delle città marchigiane, rettificati in modo da essere posati senza giunto di malta
e levigati in opera con gli stessi mattoni così da offrire una superficie liscia e grassa e quasi riflettente.
Recentemente, siamo riusciti a trovare e usare ottimi
mattoni stampati molto resistenti e dalle superfici regolari, caratterizzati da una sottile cavità su una delle
facce di posa che permette di sovrapporre le file dei
mattoni senza i consueti ricorsi più o meno spessi di
malta. Si ottengono murature molto compatte e sincere, dal colore chiaro variabile, in due possibili tonalità, che abbiamo impiegato in due edifici diversi.
Per contro, nel Cimitero di Arezzo sono stati usati
mattoni a pasta molle studiati appositamente su nostra richiesta affinché fossero più resistenti e di colore vivo grazie ad una più alta temperatura di cottura e privi di sabbia superficiale in modo da ottenere potenti murature ferrigne.
È stato necessario anche realizzare mattoni speciali di
forma trapezoidale per ottenere una sequenza ben
fatta di grandi pilastri strombati lunga cento metri.
Si potrebbe dire che questi mattoni sono stati necessari per il cimitero di Arezzo come il marmo di San
Giuliano per i monumenti del Campo dei Miracoli.
L’Architetto e il cantiere in Italia: un rapporto difficile?
Passo molto tempo nei cantieri anche se questo mi
obbliga a frequenti e defatiganti spostamenti in auto
in giro per l’Italia. E se è bello e talvolta emozionante
veder nascere e crescere le nostre opere, spesso la vi-
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sita al cantiere si risolve nella dolorosa constatazione
di errori di esecuzione irrecuperabili, di sviste progettuali, di trascuratezze causate dalla bassa remuneratività degli appalti, combinate alla inadeguatezza
delle imprese.
Oggi è usuale che le imprese siano attrezzate con agguerrite competenze legali piuttosto che tecniche,
poiché è sicuramente più utile difendersi dal mostro
burocratico che realizzare correttamente un edificio,
cosa che a molti committenti pubblici sembra non
interessare affatto.
Anche per questa ragione non è possibile allentare
l’attenzione e cedere alla fatica o all’ottimismo. Bisogna partire e fare anche novecento chilometri in
un giorno per andare a controllare un dettaglio, magari inutilmente, perché non è stato realizzato il
campione richiesto.
È anche però vero che non è del tutto semplice costruire i nostri edifici per le tecnologie desuete impiegate, per il livello di precisione esecutiva richiesto
e l’esigenza di fedeltà ai disegni di progetto, che a
volte non sono neppure disponibili nella baracca di
cantiere, generalmente precaria e inospitale.
Ed è altrettanto vero che abbiamo imparato moltissimo dalla frequentazione di cantieri e dall’esperienza di muratori, fabbri e capi cantiere con i quali
si costruiscono spesso rapporti molto piacevoli e di
reciproca stima.
D’altra parte una dolorosa esperienza ci insegna che
senza una diretta responsabilità, come direttori dei
L’ I N T E R V I S T A
lavori, la qualità delle nostre opere viene irrimediabilmente compromessa. Contemporaneamente non
è possibile concedersi la minima distrazione rispetto
alle innumerevoli normative da rispettare, sia per gli
aspetti strutturali che impiantistici e della sicurezza.
In relazione a questo ultimo argomento, devo rilevare che, nonostante le più recenti normative e la
presenza della nuova, costosa e demagogica figura del
responsabile della sicurezza, gli operai continuano a
lavorare in assenza spesso delle condizioni igieniche
più elementari nei casi peggiori, esposti al sole d’estate a torso nudo, con temperature talvolta impossibili così come d’inverno per ragioni opposte.
Quale la “croce” e quale la “delizia” di un architetto
italiano?
La croce è sicuramente la burocrazia, il mostro che
tutto avvolge e contamina, allevata amorevolmente
da una società che si illude di supplire ad un diffuso
e basso livello di moralità con miliardi di leggi e
norme che si accavallano e si confondono.
Credo che la burocrazia, madre e figlia della cultura
e della politica, sia la principale responsabile dei
gravi problemi dell’architettura italiana contemporanea.
La burocrazia italiana è un fenomeno patologico,
spesso crudele, che richiede al buon costruttore una
sorta di dedizione eroica e una pazienza indicibile.
È fatta in modo che solo le cose mediocri e mediocrissime si possano fare e non sempre velocemente,
superando comunque infinite intermediazioni corrispondenti ad altrettanti ostacoli che rendono impossibile realizzare veramente bene cose di una certa
importanza, che d’altra parte non saranno mai terminate.
Tuttavia dobbiamo ammettere che, nonostante questo handicap talvolta insormontabile, la grande complessità culturale e ambientale del nostro Paese, insieme alle sue condizioni climatiche così variabili e
alla lentezza congenita di ogni processo costruttivo,
hanno costituito terreno favorevole alla maturazione
della nostra ricerca progettuale e alla realizzazione di
alcune opere difficilmente compatibili in altri contesti nazionali.
Sicuramente la lentezza è indispensabile nel campo
del restauro e forse anche per questo motivo in Europa non ci sono esperienze di rilievo paragonabili a
quelle italiane.
Le vostre architetture propongono un uso assai moderato
della decorazione, a tutto vantaggio della semplicità:
una scelta formale, prima che materiale?
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I nostri edifici non hanno bisogno di decorazioni superficiali, anche se in gioventù abbiamo ceduto a
qualche debolezza.
Oggi cerchiamo di valorizzare la massa delle murature in laterizio con gole orizzontali che ne arricchiscono la tessitura, oppure tendiamo a perfezionare
dove è necessario la trama dei giunti delle superfici
in calcestruzzo a vista con nastrini a rilievo alla maniera di Kahn, ottenuti con un particolare disegno
delle casseforme in acciaio.
Generalmente la decorazione, se così si può chiamare, è semplicemente il risultato di un uso corretto
dei vari materiali; è la natura stessa della materia impiegata con spessori variabili ma comunque consistenti e destinati a garantire una notevole resistenza
all’uso e all’invecchiamento.
Non solo adottiamo raramente superfici intonacate,
neppure negli interni, pensando che una parete in
mattoni a vista renda più piacevole lo spazio, ma preferiamo anche soffitti in calcestruzzo armato liscio e
chiaro a vista che si imparenta meglio con le superfici in mattoni e insieme conferiscono agli ambienti
una luce più morbida.
Questo richiede una particolare cura nella predisposizione della rete impiantistica, che deve essere accolta all’interno delle strutture durante e non dopo
la costruzione, come d’abitudine, e nel prevedere con
precisione la posizione delle apparecchiature superficiali come lampade, interruttori, allarmi, ecc.
Contemporaneamente, con lo stesso desiderio di durevolezza e sincerità, rivestiamo le superfici dei servizi igienici con tessere vetrose o lastre di travertino,
dotate di un corpo omogeneo a spessore, così come
i nostri infissi non sono costruiti in profili standard
di lamiera o alluminio, ma con trafilati di acciaio od
ottone da 5 a 15 mm di spessore, debitamente combinati.
Nei nostri restauri, al contrario, il massimo rilievo
viene attribuito alla struttura decorativa degli edifici.
Grandi energie vengono spese per la scopertura ed il
restauro delle superfici decorate delle murature, delle
volte e dei soffitti, così come per la conservazione
materiale delle varie tipologie di pavimentazione
con il loro stato di usura, quale aspetto integrante
della bellezza degli spazi antichi. Non solo.
Credo che l’inclinazione a valorizzare la complessità delle stratificazioni decorative superficiali e
delle sovrapposizioni strutturali sia l’aspetto più
originale del nostro metodo di restauro che tende a
rendere sempre più limitato e sofisticato il lavoro di
integrazione progettuale secondo maniere contemporanee. ¶
CIL 99
Ricostruzione dell’isolato di San Michele in Borgo, Pisa, 1985-2002.
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