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La geologia del bacino montano del Tagliamento: dagli

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La geologia del bacino montano del Tagliamento: dagli
[dal volume “Il Tagliamento”, CiErre edizioni, 2006]
La geologia del bacino montano del Tagliamento:
dagli antichi oceani alle montagne d’oggi
Adriano Zanferrari
(Dipartimento di Georisorse e Territorio, Università di Udine)
Una storia geologica di 500 milioni di anni
Il bacino montano del fiume Tagliamento è inciso in rocce che abbracciano un intervallo di quasi mezzo miliardo di
anni, sicuramente dall’Ordoviciano superiore, forse anche dal Cambriano, ad oggi. Nelle caratteristiche sedimentarie e
nelle successive strutture tettoniche si può leggere un’evoluzione paleogeografica e paleotettonica assai complessa, che
in una lunga successione di eventi ha prodotto il quadro geologico attuale. Anche il paesaggio della regione carnicogiulia, così vario, spesso aspro e selvaggio, trae in buona parte origine dalla complessa articolazione litologica e
tettonica che la caratterizza. In sintesi, le rocce del bacino del Tagliamento hanno registrato due cicli orogenici: quello
varisico (o ercinico) nel Paleozoico tra 500 e 280 milioni di anni (o Ma, usando il simbolo internazionale: Fig. 1) e
quello alpino nel Mesozoico e Cenozoico, da circa 270 Ma ad oggi. Il secondo è caratterizzato, a sua volta, da due
eventi tettonici principali, il dinarico e quello neoalpino. In quest’ultimo noi stiamo vivendo e con varia cadenza ne
registriamo i momenti di più rapida e intensa evoluzione, cioè i maggiori terremoti.
E’ bene precisare che un ciclo orogenico, la cui durata è compresa fra 200 e 250 milioni di anni, non corrisponde
solo alla formazione delle grandi strutture tettoniche (pieghe e sovrascorrimenti di estensione regionale, cioè la catena
in senso geologico), che, progressivamente sollevate, creano le montagne e le catene in senso orografico. La nascita di
una catena – sia geologica che orografica – è sì il momento parossistico e centrale (alcune decine di milioni di anni), ma
è preceduto da un periodo ben più lungo (100-150 Ma), in cui si formano le rocce che serviranno alla sua edificazione.
Il ciclo termina con un terzo momento, nel corso del quale le montagne sono progressivamente erose e spianate e
vengono così alla luce le parti più profonde della catena (geologica), costituite in gran parte da rocce magmatiche e
metamorfiche: si tratta del basamento (o basamento magnetico, quando è individuato in profondità con metodi
geofisici). Esso costituirà il substrato su cui cominceranno a deporsi le prime successioni sedimentarie e vulcaniche di
un nuovo ciclo orogenico.
Il motore di tali grandiose trasformazioni geologiche è la dinamica delle placche litosferiche, ovvero i movimenti
reciproci delle numerose porzioni in cui è suddivisa la parte esterna della Terra, appunto la litosfera, dello spessore da
poche decine a un paio di centinaia di km, fredda e meccanicamente a comportamento rigido. Attualmente la velocità
media dei movimenti relativi delle placche, registrati con metodi satellitari, va da pochi millimetri per anno (è il caso
della traslazione verso nord della microplacca adriatica su cui ci troviamo) a quasi una ventina di cm/a di alcune placche
del Pacifico. La separazione e l’allontanamento di due placche in conseguenza di stiramento, assottigliamento e, infine,
lacerazione della litosfera (rifting) creano l’apertura e l’ampliamento di un nuovo oceano, come il Mar Rosso che si sta
aprendo da 34 milioni di anni. Viceversa, il moto di convergenza e la collisione fra i margini di due placche continentali
generano una nuova catena a pieghe e sovrascorrimenti e infine il suo sollevamento. Va sottolineato che i movimenti
avvengono prevalentemente “a scatti” e pertanto determinano terremoti.
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Fig. 1 - Scala dei tempi geologici in età
assolute (a destra) e in età relative.
[da Gradstein et al. (2004) – A Geologic
Time Scale. Cambridge Univ. Press, 589
pp.]
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Fig. 2 - Il mosaico delle placche all’inizio del Paleozoico mostra una loro distribuzione completamente diversa
dall’attuale: la microplacca carnico-dinarica (C) è accostata a quella del Kazakhstan; la placca turco-iraniana (T e
IR) la separa sia dalla microplacca sudalpino-austroalpina (I), cui si unirà nel Carbonifero, sia dal futuro
“Promontorio africano” (AP) con il quale condividerà tutta l’evoluzione alpina. E’ impressionante la posizione della
placca indiana, stretta con quella del Madagascar fra l’africana e l’australiana. In rigato verde le aree marine, in
giallo le terre emerse; S, F e P: Spagna, Francia e Polonia.
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Le rocce paleozoiche e la storia varisica : la catena Paleocarnica
Una forte evidenza della dinamica delle placche litosferiche ci viene fornita dal quadro (o mosaico) delle placche
(Fig. 1) alla fine del grandioso ciclo orogenico Panafricano, cioè tra la fine del Proterozoico e il Cambriano (tra 750 e
550 Ma). La microplacca carnico-dinarica, comprendente le Alpi Carniche a oriente del meridiano di Forni Avoltri,
vasti settori di Austria meridionale, Slovenia e Croazia, parte del Veneto orientale, il Friuli e l’alto Adriatico, era
accostata alla placca del Kazakhstan e separata dalla microplacca adriatica, di cui ora fa parte, ad opera di quella turcoiraniana [Vai, 1991]. Le prove sono fornite da dati paleomagnetici e soprattutto paleontologici, in quanto le faune del
Paleozoico carnico e delle regioni prima elencate sono le stesse del Kazakhstan e degli Urali e viceversa uniche
nell’area europeo-mediterranea, in quanto appartengono alla medesima provincia paleobiogeografica uraliana (o uraloasiatica, comprendendo anche Tien-Shan e Altai).
Il lungo viaggio della microplacca carnico-dinarica, dal suo distacco dal margine kazakhstano fino al suo
consolidamento con un margine dell’Adria, è durato oltre 200 milioni di anni e corrisponde, appunto, al ciclo orogenico
varisico (Ordoviciano - Carbonifero superiore): nel bacino del Tagliamento il suo “prodotto” è la Catena Paleocarnica.
Noi vediamo affiorare le strutture varisiche e le rocce paleozoiche di tale antica catena lungo tutta la cresta di confine,
spartiacque tra il bacino del Tagliamento e quello del Gail in Carinzia, a formare una fascia larga appena una decina di
km che è limitata a sud dall’allineamento di valli che si estendono da forcella Lavardet fino alla sella di Camporosso (e
ancora oltre in Slovenia).
In realtà tale allineamento si è impostato in corrispondenza di una gigantesca faglia di età alpina (faglia ValsuganaFella-Sava: Fig. 3) che si estende da Trento fino a tutta la Slovenia ed ha agito più volte con differenti tipologie di
movimento nel Mesozoico e nel Cenozoico. In particolare, durante il Neogene essa ha sollevato il settore settentrionale,
dove si estende la catena Paleocarnica, rispetto alla restante regione carnico-giulia, dove affiorano rocce che
appartengono solo al ciclo alpino. Ma, come evidenziato da indagini geofisiche a scala regionale (precisamente,
aereomagnetiche), le medesime rocce paleozoiche che vediamo in affioramento si estendono anche a sud della grande
faglia al di sotto dei rilievi, nel sottosuolo della pianura friulana e anche nell’Alto Adriatico. Qui, a più di 7 km di
profondità nel pozzo AGIP Amanda 1 bis, situato a una ventina di chilometri dalla foce del Tagliamento, sono stati
incontrati calcari organogeni del Permiano inferiore con gli stessi fossili - fusuline (macroforaminiferi) ed alghe - che
possiamo trovare lungo i sentieri tra passo Pramollo e la Creta di Lanza.
In sintesi, la catena Paleocarnica, profondamente erosa e spianata tra il Carbonifero superiore e la prima metà del
Permiano superiore (tra circa 310 e 270 Ma), è diventata a partire dalla seconda metà del Permiano superiore il
basamento delle rocce del ciclo orogenico alpino; le principali strutture tettoniche delle montagne del settore
settentrionale del bacino non sono quelle varisiche (di cui troviamo solo i relitti frammentari), ma sono di età alpina e
hanno rideformato e risollevato le antiche rocce paleozoiche, producendo una architettura tettonica di eccezionale
complessità [Selli, 1963; Cantelli et alii, 1982; Spalletta et alii, 1982; Venturini, 1990; 2002; Läufer, 1996; Vai et alii,
2002].
Anche per questo motivo la storia varisica della catena Paleocarnica presenta ancora vari aspetti oscuri e
controversi: può essere più agevolmente compresa se immaginiamo di esaminarla come in una serie di fotogrammi che
rappresentano i momenti e gli eventi geologici salienti che, come per un edificio, hanno prodotto prima i materiali per
costruirla, poi l’hanno edificata e infine, per concludere il ciclo, l’hanno spianata.
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Fig. 3 - Schema tettonico del settore friulano della catena Sudalpina orientale, con i principali sovrascorrimenti (linee
blu dentellate) e faglie trascorrenti (linee blu con freccia indicante il senso di moto). Queste ultime sono
particolarmente attive e sismogeniche in Slovenia (sistema di Idrija), i primi sono attivi specie dal sovrascorrimento
Periadriatico (PE) verso sud: faglie Susans-Tricesimo (ST), di Udine (UD), di Pozzuolo (PZ) e di Medea (ME). In
grigio chiaro: catena Paleocarnica, in grigio scuro: catena varisica metamorfica; VB: faglia della val Bordaglia; linea
punteggiata: parte del margine sud-occidentale della Piattaforma Carbonatica Friulana nel sottosuolo della pianura;
in rosso la traccia del profilo di pag. 17.
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Il primo momento riconoscibile risale all’Ordoviciano superiore (da 460 a 443 Ma), età delle più antiche rocce
fossilifere delle Alpi Carniche. Dobbiamo immaginare un vastissimo mare epicontinentale, profondo poche decine di
metri, che copriva tutta la regione e in cui i fiumi depositavano sabbie quarzose e fanghi oppure vi si accumulavano
resti di organismi marini (soprattutto brachiopodi, trilobiti, briozoi e crinoidi). Tali rocce nel loro insieme costituiscono
la Formazione dell’Uqua, che ha la sua sezione stratigrafica (cioè lo standard geologico di riferimento, valido in tutto il
mondo) presso il rifugio Nordio alla testata della valle che scende a Ugovizza.
La seconda immagine abbraccia una quarantina di milioni d’anni, ovvero il Siluriano (443-416 Ma), periodo in cui
anche l’area carnica fu caratterizzata da un generale innalzamento del livello marino, effetto sia di processi iniziali di
rifting, e quindi di approfondimento dei fondali, sia di risalita del livello marino a scala globale (eustatismo) in seguito
alla fusione della calotta polare sahariana nel Siluriano inferiore (un’altra impressionante evidenza della mobilità delle
placche litosferiche: la regione africana che per antonomasia richiama alla mente paesaggi aridi e infuocati, era allora al
Polo Sud, mentre la microplacca carnico-dinarica si trovava vicina all’Equatore). I fondali marini si differenziarono così
in zone di altofondo o comunque di mare aperto, sede di sedimentazione carbonatica (tipici i calcari nodulari a
Ortoceratidi, ammonoidi non avvolti a spirale come le Ammoniti del Mesozoico) e in zone relativamente più profonde
dove si deponevano argille nere con finissime impronte organiche: sono le argilliti a graptoliti, specie di meduse di
allora e di grande importanza come fossili-guida, che nella sezione stratigrafica della Creta di Collinetta/Cellon, assieme
agli altrettanto importanti conodonti (microscopici apparati masticatori di enigmatici organismi vermiformi, vissuti dal
Cambriano alla fine del Triassico) hanno uno standard di riferimento a livello mondiale. Per lo più le zone di altofondo
erano separate da quelle più profonde da scarpate di faglia diretta (faglia con movimento di abbassamento del blocco
che sta sulla superficie di movimento ed è originata da estensione crostale), probabile testimonianza che il viaggio della
microplacca carnico-dinarica verso quella Adriatica era ormai iniziato.
Tutte le rocce del Siluriano hanno spessori di poche decine di metri e pertanto, come quelle altrettanto sottili della
Formazione dell’Uqua, si trovano solo in piccoli lembi sparsi sul versante meridionale della cresta spartiacque (monti
Cuestalta, Lodin, Cocco, Osternig), sopravvissuti ai tanti eventi tettonici ed erosionali varisici ed alpini.
Il Devoniano e l’inizio del Carbonifero inferiore (da 416 a circa 340 Ma) corrispondono al terzo “fotogramma” e
rappresentano il penultimo episodio della fase di raccolta dei mattoni per l’edificio tettonico varisico: in gran parte si
tratta di calcari, talora dolomitici, formatisi in ambiente di piattaforma carbonatica. Il termine definisce aree marine
anche vastissime, di bassa profondità e soggette all’escursione di marea, come la piattaforma delle Bahamas attuali. Su
queste zone di altofondo e con clima tropicale o equatoriale prospera la vita e si accumulano grandi quantità di resti
calcarei di organismi marini (coralli, molluschi di ogni tipo, alghe, foraminiferi, briozoi, …). A questi sistemi
deposizionali si possono riferire anche i vari tipi di complesso di scogliera, quali gli atolli, le barriere coralline, le
piattaforme orlate. Caratteristica comune a tutte le piattaforme è il grande spessore – da molte centinaia ad alcune
migliaia di metri – che esse raggiungono, per il sostanziale equilibrio tra subsidenza e accrescimento organogeno
durante tempi anche lunghissimi. Un altro fondamentale aspetto è che le piattaforme sono circondate da bacini, aree
marine profonde da molte centinaia ad alcune migliaia di metri e caratterizzate da bassissimi tassi di sedimentazione: da
0,5 mm/1.000 anni per le argille brune abissali, a 5-80 mm/1.000 anni per i fanghi formati da plancton calcareo
(microforaminiferi, alghe), a 5 mm/1.000 anni per i fanghi silicei a radiolari. Dalla loro litificazione traggono origine
rispettivamente: argilliti; finissimi calcari spesso selciferi; radiolariti. Tutti formano sottili successioni di rocce
pelagiche, spesse solo da qualche decina a poche centinaia di metri. Piattaforme e bacini sono collegati fra loro dalle
scarpate o dalle rampe, pendii più o meno dolci, talora con gradinate date da faglie dirette, e sono caratterizzate da
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sedimentazione assai variabile. Per completare il quadro va aggiunto che le piattaforme carbonatiche prima o poi
emergono stabilmente e cessano di esistere come tali, oppure annegano, cioè sprofondano diventando fondali di bacini
e quindi si estingue rapidamente la vita rigogliosa che le caratterizzava.
Per tutto il bacino del Tagliamento tali elementi fisiografici sono di eccezionale importanza non solo nell’evoluzione
geologica, in quanto si sono ripresentati per ben sei volte (Devoniano, Permiano inferiore, Triassico medio e superiore,
Liassico, Dogger-Cretacico superiore), ma anche per la risposta che i calcari e le dolomie danno agli agenti esogeni che
modellano il paesaggio e vi producono le classiche forme “dolomitiche” oppure valli con versanti ripidi, aspri e
dirupati.
Nel Devoniano, pertanto, la paleogeografia carnica si differenziò in bacini e in piattaforme di vario tipo (soprattutto
complessi di scogliera), ma con forte dinamismo evolutivo per effetto di processi di rifting sempre più intensi: già nel
Devoniano medio le piattaforme cominciarono a disarticolarsi, per annegare rapidamente verso la metà del Devoniano
superiore (attorno a 370 Ma), lasciando solo alcuni relitti che sopravvissero fino all’inizio del Carbonifero. I bacini
furono interessati fino al Carbonifero inferiore dalla deposizione di sottili strati di selce nera o verdastra (lidite), cioè da
radiolariti, e da argille e da calcari pelagici, per spessori di poche decine di metri in totale. Viceversa le piattaforme con
scogliera devoniane superarono il migliaio di metri: formano ora le grandiose pareti dei monti di Volaia, del Coglians e
della Creta delle Chianevate, le dorsali selvagge del monte Zermula e del monte Cavallo di Pontebba e le cime più
tondeggianti tra il monte Poludnig e l’Osternig.
Merita qualche parola in più la scogliera devoniana del Coglians, splendidamente conservata assieme alla sua rampa
che scendeva ad est nel bacino: infatti, nella Creta di Collina - Pal Piccolo troviamo calcari ancora assai fossiliferi,
calcareniti grossolane e anche brecce depostisi sulla rampa prossima al margine della scogliera, mentre alla Creta di
Timau si incontrano calcareniti più fini, calcisiltiti e calcilutiti (calcari formatisi dalla litificazione di fanghi carbonatici)
del settore distale della rampa [Vai, 1963; 1980]. La scogliera aveva un’estensione di circa 10 km per 5, paragonabile a
quella di atolli attuali del Pacifico e corrisponde a un accumulo organogeno di oltre 1200 m, con più di 500 specie
descritte in gran parte dal grande geologo carnico Michele Gortani (stromatopore e tabulati, tetracoralli, briozoi, alghe,
brachiopodi, gasteropodi, ortoceratidi, trilobiti ...). La specie di brachiopode della fine del Devoniano inferiore
Karpinskia conjugula consuelo, tipica di (ora) lontane regioni uralo-asiatiche e comunissima alla Creta delle
Chianevate, fu definita da Gortani “la più bella specie” della pur ricchissima fauna paleozoica carnica e fu da lui
dedicata con il secondo nome specifico alla memoria della sorella [Vai in Vai et alii, 2002].
Nel quarto “fotogramma” geologico, comprendente parte del Carbonifero inferiore e del superiore (ovvero dal
Tournaisiano medio al Bashkiriano: da circa 350 a 315 Ma) dominano drastici cambiamenti sia litologici che
paleogeografici. I processi di rifting approfondirono ulteriormente i bacini (fino ad almeno 2000 m di profondità) e
crearono nella litosfera carnica condizioni estensionali tali da permettere la risalita di magmi basaltici lungo profonde
faglie dirette, l’effusione di colate basaltiche e la deposizione di materiali piroclastici (tufi e brecce vulcaniche) sia sui
fondali che su aree emerse circostanti [Flora et alii, 1984; Läufer et alii, 1993]. Le colate sottomarine (visibili ad
esempio lungo la strada da Paularo a Casera Ramaz) spesso mostrano forme globose, “a cuscini” (o pillow), identiche a
quelle di lave fotografate su fondali oceanici dai batiscafi. I materiali vulcanici e piroclastici, e i loro prodotti
risedimentati nel bacino dopo erosione subaerea su terre emerse vicine ma di cui non c’è traccia nel bacino del
Tagliamento, formano i rilievi tra Rigolato e Paularo (gruppi Crostis-Zoufplan e del monte Dimon, il quale dà il nome a
tale insieme di rocce). Alla Formazione del Dimon si interdigita e si sovrappone, per uno spessore totale di oltre 2000
metri, un grande volume di strati sottili di arenarie e siltiti nerastre prodotti dalla sedimentazione veloce per frana
sottomarina di sabbie e fanghi (torbiditi, chiamate anche, nel loro insieme, flysch). E’ il Flysch dell’Hochwipfel, dal
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nome di un monte presso la Creta di Lanza subito oltre il confine austriaco, formazione caratteristica per il colore
nerastro delle rocce, che contengono solo pochi resti di piante di ambiente tropicale. Essa è particolarmente diffusa nel
settore fra Rigolato e Collina e nella fascia Pal Grande-Cuestalta-monte Lodin-Forca Pizzul/Paularo. Come quelle della
Formazione del Dimon sono ben note al geologo e all’ingegnere anche per la loro erodibilità e franosità.
Ai piedi del versante meridionale del Coglians, tra forcella Monumenz e il rifugio Marinelli e da qui al monte Floriz,
esiste una classica sezione stratigrafica che da nord a sud in circa 1500 metri condensa e rappresenta 60-70 milioni di
anni. Sui calcari di scogliera del Devoniano superiore poggiano calcari pelagici e radiolariti nere e verdastre bacinali
(liditi) del Devoniano superiore-Carbonifero inferiore, depostisi dopo l’annegamento della scogliera. Sulle liditi
troviamo una successione di arenarie con brecciole e siltiti nerastre contenenti la “flora del Rifugio Marinelli” [van
Amerom et alii, 1984] che data a circa 335 Ma fa l’inizio della sedimentazione torbiditica nella zona centrale della
catena Paleocarnica. Infine, dal rifugio fino al monte Floriz affiorano le rocce arenacee e vulcanoclastiche della
Formazione del Dimon, la quale si estende verso sud, con un gran numero di ripetizioni per piega e per faglia, al monte
Crostis e poi giù fino a Ravascletto.
Il significato delle rocce clastiche carbonifere travalica quello banale di riempimento sedimentario di un profondo
bacino: la caratteristica presenza di brecciole a liditi e di ciottoli di calcari pelagici del Viseano superiore sta a indicare
che in zone non lontane (i ciottoli sono spigolosi, non hanno subito un lungo trasporto) rocce di profondi bacini sono già
state sollevate e deformate da intensi processi tettonici che le hanno portate alla luce per formare montagne, dalla cui
erosione i ciottoli stessi derivano. Ma anche il meccanismo stesso di messa in posto delle torbiditi e delle altre frane
sottomarine (che di solito sono prodotte da terremoti, a loro volta originati dai movimenti tettonici), prova che nella
parte centrale del Carbonifero si era avviata una grande rivoluzione: la tettonica estensionale, che aveva dominato fino
ad allora sulla microplacca carnico-dinarica e ne aveva regolato la paleogeografia e la sedimentazione, stava lasciando il
posto a quella compressiva, cioè al regime tettonico che genera le catene a pieghe e sovrascorrimenti e infine le
montagne. In termini più generali è il segnale che il viaggio verso la microplacca adriatica è terminato ed è iniziato il
momento parossistico del ciclo orogenico varisico. Come in tutti i processi geologici si tratta però di una lunga
transizione sia nello spazio che nel tempo: le rocce della catena Paleocarnica che ancora vediamo sono state raggiunte
dal “fronte orogenico” solo nel Carbonifero superiore, in quel periodo geologico che un tempo si chiamava Westfaliano
ed ora è denominato Moscoviano (311-306 Ma). Questo brevissimo tempo è dedicato alla formazione delle principali
strutture tettoniche compressive (pieghe, faglie inverse e sovrascorrimenti) e delle montagne [Venturini,1990]. E’
impressionante anche per il geologo il contrasto tra il “silenzio geologico” che domina questi pochi milioni di anni, di
cui non troviamo alcuna testimonianza di rocce e di fossili, e quello che deve essere stato lo scenario di allora, quando
grandi strutture tettoniche lentamente emergevano dal mare per formare terre emerse sempre più vaste e montagne, tra
continui e violenti terremoti, e vi si impostava un reticolo idrografico in rapida evoluzione anche per le frane di ogni
tipo e dimensione che i terremoti stessi originavano. E’ il quinto fotogramma, e anche quello centrale del ciclo varisico.
Rapidamente si passò al sesto e ultimo momento: l’erosione e lo spianamento della catena fino a diventare un
basamento e la deposizione di rocce clastiche (cioè detritiche) e carbonatiche localizzata in aree depresse sia in
ambiente subaereo che marino costiero. Oltre a una piccola parte del Moscoviano questo momento comprende il resto
del Carbonifero e gran parte del Permiano inferiore, tra circa 307 e 270 milioni di anni. Dapprima, fino alla fine del
Carbonifero, si deposero ghiaie quarzose e sabbie torrentizie, poi alluvioni più fini ad opera di fiumi più maturi che
sfociavano con delta in zone marine costiere. Sono i conglomerati e le arenarie del Gruppo di Pramollo, in quanto nel
bacino del Tagliamento si trovano solo in tale area, alternati a rocce calcaree ricche di alghe e di gusci fusiformi o
subsferici di macroforaminiferi, le fusuline. Misure di declinazione paleomagnetica [Manzoni et alii, 1985] indicano
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che in tale periodo l’area carnica si trovava ad appena 4° di latitudine nord. Nel Permiano inferiore le rocce calcaree
ricchissime di fossili diventano dominanti e formano ora la Creta di Lanza e la Creta di Aip/Trogkofel (oltre a minori
affioramenti presso Forni Avoltri). Caratteristici sono i massicci calcari di colore rosa chiaro del Calcare del Trogkofel;
essi costituiscono la torreggiante montagna omonima, che nella forma attuale sembra ancora conservare quella della
originaria scogliera a fusuline, alghe, briozoi e altri organismi incrostanti. Un grande blocco di calcare rosato ricco di
venature bianche di calcite e con i caratteristici gusci a camerette delle fusuline, dopo esser stato trasportato dal
ghiacciaio del Tagliamento fin alle porte di Udine, è stato scavato e scolpito a formare l’antica e bellissima vera da
pozzo che si trova incastonata nel verde piazzale sul colle del castello di Udine.
Sulla cima della Creta di Aip si sono conservati pochi metri di un conglomerato a frammenti spigolosi dei calcari
permiani sottostanti, contenuti in una matrice argillosa rossastra. La Breccia di Tarvisio, è questo il suo nome
stratigrafico, è stata deposta da torrenti sulla superficie erosa e incarsita dei calcari della scogliera della Creta di Aip
estintasi dopo emersione verso la fine del Permiano inferiore; tra la superficie di erosione e la base della Breccia (che è
stata incontrata a oltre 7.000 metri di profondità nel pozzo AGIP Amanda 1 bis) il geologo ha calcolato manchino un
centinaio di metri di calcari, erosi in una decina di milioni di anni (tra circa 280 e 270 Ma) al passaggio tra Permiano
inferiore e superiore. Questa lacuna stratigrafica (cioè assenza di rocce e quindi del tempo da esse materializzato) è
dovuta a una delle tante fasi tettoniche permiane, ma è di enorme significato, perché in essa cade il passaggio tra il ciclo
varisico e l’alpino, del quale la Breccia di Tarvisio rappresenta la prima formazione depostasi.
Fig. 4 - Due sezioni geologiche nord-sud attraverso la catena Paleocarnica, dal Wolayer Bach a Ravascletto: la più
corta rappresenta lo stato attuale; dopo aver eliminato gli effetti della tettonica alpina, l’altra ipotizza la struttura della
catena varisica, spianata e divenuta “basamento”, al momento della deposizione dei primi sedimenti permiani e
triassici del ciclo alpino (VG: Arenaria di Valgardena, B: Formazione a Bellerophon, W: F. di Werfen). E’ evidente il
significato di “raccorciamento tettonico” e l’entità di questo nei due cicli orogenici. OR: rocce ordoviciane; S:
siluriane; DE: devoniane; CB: carbonifere; f: faglia.
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La catena varisica a falde metamorfiche: un’altra placca del mosaico paleozoico
Chi da Forni Avoltri risale la val Bordaglia verso Passo Giramondo non può non notare la differenza tra la grandiosa
muraglia calcarea di Volaia e le più slanciate pareti dei monti Chiadenis, Avanza e Navastolt; la prima mostra
chiaramente anche da lontano strutture sedimentarie e un aspetto generale comune a “normali” rocce calcaree, mentre
negli altri rilievi la stratificazione non si rileva che in alcuni punti, e con forme meno definite, in un certo senso
“confuse”. Nei blocchi dell’alveo del torrente Degano e del Rio Bordaglia, ben levigati dalle acque, ci si può accorgere
che i calcari sono cristallini, grigio scuri o biancastri con liste sfumate grigiastre o molto nette di colore bruno: sono dei
marmi, cioè calcari che hanno subito un processo metamorfico, che li ha ricristallizzati, stirati e pieghettati alla
profondità di 8-12 chilometri e a temperature attorno ai 400-450°C. Se ci si inoltra nelle abetaie ai piedi dell’Avanza
verso l’antica miniera, troviamo dapprima arenarie e siltiti rosse del Permiano superiore e poi, in prossimità dei marmi
devoniani, rocce grigio scure lucenti suddivise in fitti e sottili “foglietti” e con lenticelle bianche di quarzo di aspetto
vetroso. Sono le filladi, rocce finemente scistose che derivano dal metamorfismo di argille e arenarie fini nelle
medesime condizioni termo-bariche. Altrove le rocce hanno colore grigio verde e un aspetto più granulare, in quanto i
materiali di partenza erano arenarie grossolane o conglomerati minuti.
Al tramonto, quando queste vette e il vicino monte Peralba cambiano colori dal bianco al rosa e infine a un grigio
metallico, la luce radente evidenzia la loro struttura tettonica (varisica), data da gigantesche pieghe schiacciate e stirate,
con i fianchi e il piano assiale verticali, ben più complessa di quella, pur coeva, a monotoni piastroni immersi a ovest e
poi a sud di Volaia e del Coglians.
Nel bacino del Tagliamento queste e altre rocce metamorfiche affiorano solo alla testata della val Degano, ma da qui
si estendono sempre più ampiamente verso nord in Austria e verso ovest nel Veneto e nel Sudtirolo. Si tratta di
originarie rocce paleozoiche (nelle rocce filladiche di Agordo sono stati trovati fossili del Cambriano e del Siluriano)
differenti per evoluzione e associazioni litologiche da quelle carniche e che si ritiene si siano deposte su un’altra
microplacca, quella sudalpino-austroalpina. L’edificio tettonico è particolarmente complesso, a grandi pieghe e a falde
di ricoprimento formate da rocce metamorfiche [Poli, Zanferrari, in Vai et alii, 2002], strutture dalle quali trae il nome.
L’unione fra le due placche è avvenuta nel Carbonifero medio, ma il loro contatto originario è completamente
mascherato dalla faglia alpina della val Bordaglia, che da passo Giramondo scende verso Forni Avoltri. Una prova
dell’avvenuto consolidamento fra le due placche paleozoiche (che nel ciclo alpino faranno parte del settore
settentrionale della microplacca adriatica) è rappresentata dai frammenti di queste rocce filladiche che antichi torrenti
hanno più volte deposto nei bacini marini poco profondi del Gruppo di Pramollo e in quelli del Permiano inferiore sotto
forma di ghiaie alluvionali alternate alle sabbie ricche di organismi marini. Questi frammenti, fatto apparentemente
insignificante, testimoniano invece che sulle terre emerse e in erosione affioravano - allora come oggi nel bacino del
torrente Degano - sia le rocce metamorfiche della placca sudalpino-austroalpina che quelle della carnico-dinarica
Inizia il ciclo alpino: la microplacca adriatica, nuove piattaforme carbonatiche e altri bacini
La catena Paleocarnica, pur così limitata nella sua estensione, rappresenta un elemento geologico unico in tutto il
territorio italiano e fondamentale anche a livello mondiale, un compendio particolarmente ricco della storia paleozoica.
Nella parte restante del bacino del Tagliamento affiorano rocce la cui storia geologica appartiene solo al ciclo alpino,
sviluppatosi dal Permiano superiore ad oggi. Salvo qualche eccezione, le caratteristiche di tali rocce e delle relative
strutture tettoniche e, in generale, la loro evoluzione sono comuni a quelle della regione dolomitica e al resto del Friuli.
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Saranno pertanto illustrati soprattutto i momenti più significativi, di nuovo come in una sequenza di fotogrammi, non
dimenticando di sottolineare gli impulsi del motore geodinamico responsabile dell’evoluzione mesozoica e cenozoica
della regione.
L’inizio della storia alpina vera e propria fu preceduto da una specie di fase preparatoria, che molti studiosi
considerano la transizione fra i due cicli orogenici. Nel Carbonifero non furono solo le nostre due microplacche a
consolidarsi, ma una serie di collisioni a scala globale (e di conseguenti catene varisiche: Appalachi, Ardenne,
Massiccio Scistoso Renano, Massiccio Centrale francese, Massiccio Boemo, Urali …) portò alla concentrazione della
maggior parte delle masse continentali litosferiche in un solo “supercontinente”, noto come Pangea. A causa del forte
disequilibrio prodottosi nella distribuzione delle masse litosferiche, esso ebbe vita effimera e già alla fine del
Carbonifero e soprattutto nel Permiano cominciò a riaprirsi in lontane regioni orientali, mentre nel settore centrooccidentale veniva attraversato da lunghissime faglie trascorrenti (faglie con superficie più o meno verticale e con
prevalente scorrimento orizzontale dei due blocchi che separano); esse furono caratterizzate da complessi rapporti
reciproci, anche perché spesso curvilinee. Il sistema di faglie trascorrenti era anche accompagnato da sistemi di faglie
normali, che producevano fasce in estensione nella crosta o addirittura nell’intera litosfera. In alcuni casi quest’ultima
fu lacerata e, a partire dal tardo Triassico o dal Giurassico, si aprirono e si espansero oceani come l’Atlantico, o minori
bracci oceanici come la Tetide, la quale assieme ad altri bacini oceanici separò l’Africa dall’Eurasia. Limitandoci a
considerare solo la futura area mediterranea centrale, i sistemi di faglie trascorrenti e di faglie normali diedero origine
nel Permo-Trias a fasce di stiramento e di assottigliamento litosferico in una zona che correva fra le gigantesche placche
africana e euroasiatica, allora ancora sostanzialmente unite. Al margine (nella forma attuale!) dell’Africa settentrionale
cominciò così a individuarsi una specie di protuberanza a forma di trapezio isoscele allungato verso nord: è la futura
microplacca adriatica (chiamata anche promontorio africano o Adria o microplacca apula). Nel Mesozoico sui suoi lati
si apriranno tre oceani minori: l’oceano ligure-piemontese a ovest e quello del Vardar (nei Balcani) a est, entrambi
larghi molte centinaia di km ed estesi in direzione circa nord-sud, e un braccio oceanico stretto e allungato che più o
meno li collegava in direzione ovest-est (ad esempio, il piccolo oceano dei (futuri) monti Tauri in Austria). Si tratta
appunto di una piccola parte della Tetide, il sistema di oceani delle catene alpino-himalayane. Dalla chiusura diacrona
dei tre bracci oceanici in seguito a subduzione della loro litosfera oceanica (cioè “inghiottimento” di quest’ultima –
fredda e pesante - al di sotto del margine di un’altra placca), seguita da collisione fra i margini continentali sui suoi
bordi, nasceranno alla fine del Mesozoico e nel Cenozoico le Alpi, le Dinaridi e l’Appennino.
Può apparire sorprendente, ma tutta questa complessa vicenda di aperture e successive chiusure di oceani, di
collisioni continentali e di creazione di catene montuose è interamente causata e regolata dalle varie fasi di apertura ed
espansione dell’oceano Atlantico [Coward, Dietrich, 1989; Dewey et alii, 1989]. La nostra dipendenza da ciò che
accadeva così lontano nell’Atlantico è dovuta al fatto che i differenti impulsi di rifting e di espansione oceanica si
propagarono anche nel Pangea, con differenti cinematiche e mutevoli velocità relative tra le placche. Precisamente: la
fase di apertura ed espansione dell’oceano Atlantico centrale (a partire dal Triassico superiore) produsse prima il rifting
e l’apertura dei tre bracci oceanici che a ovest, nord ed est circondavano l’Adria. La fase di apertura ed espansione
dell’oceano Atlantico settentrionale, che viene fatta iniziare nell’Aptiano (circa 120 Ma, a metà del Cretacico inferiore),
causò l’inversione dei movimenti ai margini dell’Adria; dall’estensione litosferica si passò alla compressione, i bracci
oceanici della Tetide circum-adriatica progressivamente tornarono a chiudersi per subduzione e alla fine, fra il tardo
Cretacico e l’Eocene, i margini continentali si scontrarono formando le maggiori strutture tettoniche delle Alpi e della
catena dinarica esterna. Infine, l’apertura e l’espansione dell’Atlantico meridionale iniziate nel tardo Cretacico
causarono un progressivo cambio della direzione di movimento della placca africana e del suo “promontorio” – l’Adria
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- rispetto a quella euroasiatica: abbandonato il moto circa est-ovest, l’Africa prese a ruotare in senso antiorario e a
scorrere mediamente tra nord-est e nord-ovest [Mazzoli, Helman, 1994]. L’Adria passò dalle latitudini equatoriali a
quella attuale e fu ulteriormente “schiacciata” contro l’Europa e deformata, per creare l’Appennino e, negli ultimi 23
Ma, una nuova più piccola catena addossata al margine meridionale delle Alpi, la catena sudalpina orientale, quella in
cui è scavato il bacino del Tagliamento. Il 6 maggio e il 15 settembre 1976 abbiamo percepito – o ne siamo stati
drammaticamente coinvolti – alcuni momenti violenti e rapidi della sua evoluzione. Questa panoramica sintetica e
molto semplificata sarà la chiave di lettura degli ultimi 260 milioni d’anni di evoluzione geologica della regione in cui
si trova il bacino del Tagliamento.
Il lungo viaggio per arrivare ai monti e alle valli attuali riparte con un primo fotogramma che abbraccia 25 milioni di
anni, l’ultima parte del Permiano superiore e il Triassico inferiore: la lenta avanzata dell’ambiente marino sui resti
spianati delle catene varisiche. Si riparte perciò dalla Breccia di Tarvisio con suoi ciottoli spigolosi di calcari permiani,
che passa rapidamente a caratteristici conglomerati rossastri a clasti più tondeggianti bianchi e rossi (Conglomerato di
Sesto), altro deposito alluvionale ma con i ciottoli che derivano dall’erosione di rocce metamorfiche e, rispettivamente,
dei porfidi permiani così diffusi in Trentino e in Sudtirolo, i quali, sagomati in cubetti, sono poi un materiale ancora più
comune per pavimentazioni stradali. Molti massi e blocchi di tali conglomerati si trovano fino ad altezze di varie
centinaia di metri sopra i fondovalle attuali, abbandonati nel Pleistocene medio e nel superiore durante il ritiro delle
lingue glaciali del Tagliamento. Sono anche le rocce usate per le macine sia domestiche che di mulino in tutte le Alpi
orientali, a partire almeno dall’Età del ferro e fino al secolo scorso.
I conglomerati si addentellano e poi sfumano superiormente verso un corpo di alcune centinaia di metri di arenarie
rosse e siltiti di colore rosso scuro, l’Arenaria di Valgardena, antiche sabbie e fanghi deposti da fiumi che divagavano
su una vastissima area pianeggiante in un clima caldo arido, da cui deriva il vivace e caratteristico colore che
sicuramente colpisce chi le incontra tra Paularo e Ravascletto, da Rigolato a Forni Avoltri e alla testata della val Degano
da Pierabech a passo Avanza.
L’ambiente continentale equatoriale e una sedimentazione alluvionale caratterizzarono pertanto la regione in questa
parte del Permiano superiore per una decina di milioni di anni, durante i quali continuò la distruzione degli ultimi rilievi
varisici e la paleotopografia diventò sempre più livellata. In un certo senso, si stavano preparando le condizioni
morfologiche per consentire la nuova avanzata di un mare epicontinentale poco profondo sulle terre emerse: dalla fine
del Permiano l’ambiente marino non abbandonerà più l’area del bacino del Tagliamento fino all’Eocene, permanendovi
per oltre 200 milioni di anni.
L’ultima parte del Permiano (e del Paleozoico), un’altra decina di milioni di anni, registrò dunque la prima avanzata
delle acque marine sulla terraferma (trasgressione) che in vastissime aree marine costiere e lagunari, in parte analoghe a
quelle di sabkha del Golfo Persico, determinò la deposizione di gessi, dolomie e calcari neri. Deformazioni tettoniche e
processi di altro tipo (autoclastesi) hanno spesso trasformato le rocce carbonatiche in brecce di aspetto spugnoso
(calcari e dolomie vacuolari o “a cellette”). Si tratta della Formazione a Bellerophon, diffusa nel medio bacino
soprattutto in prossimità dei fondovalle (Paularo, Ligosullo, Sutrio; Ovaro, Comeglians e tutta la val Pesarina). Ma è la
conca di Sauris ad essere caratterizzata dalle erodibili rocce permiane, su cui i processi esogeni hanno modellato forme
dolci ammantate di prati e boschi. La formazione è anche caratteristica per le sorgenti di acque “pudie” (puzzolenti di
uova marce per la presenza di idrogeno solforato H2S) che si originano dalla dissoluzione dei gessi, prima tra tutte la
sorgente solfato-alcalino-terrosa solfurea, la Fons Putens o Aqua julia dei Romani, che alimenta le Terme di Arta
[Martinis, 1979]; ma la formazione è anche causa di tanti dissesti che si producono sui versanti, oppure in superficie,
quando i gessi sono disciolti nel sottosuolo e vi originano sistemi carsici: ecco la causa di cedimenti del terreno ad
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Ovaro e a Prato Carnico. Per la facile lavorabilità le brecce calcareo-dolomitiche sono state spesso usate per colonne,
cornici e volte nelle antiche case padronali carniche, dove con i secoli hanno acquistato un caldo colore avorio antico.
Il Triassico inferiore (Scitico), iniziato 251 milioni di anni fa, è caratteristico per le rocce assai varie della
Formazione di Werfen (calcari, arenarie, marne, dolomie), sottilmente stratificate e colorate dal rosso al grigio, al
violetto, al giallastro; i sedimenti originari si sono deposti in un mare poco profondo non dissimile dall’alto Adriatico e
raggiungono sempre spessori ragguardevoli, che superano addirittura i 700 metri presso Pontebba. Come le rocce
precedenti sono molto erodibili e danno quindi origine a rilievi dolci e tondeggianti ma anche a forre profonde e a
versanti ripidi e franosi; sono particolarmente diffuse nel settore occidentale del bacino, dalla valle del torrente Chiarsò
allo spartiacque con il bacino del Piave (monte Arvenis, Col Gentile, monte Pieltinis), oltre che nella fascia medioinferiore del monte Tersadia e, in sinistra Fella, da Camporosso a Pontebba.
Il secondo momento della storia alpina comprende il Triassico medio (Anisico e Ladinico, da 245 a 228 Ma) e il
Carnico, primo intervallo del superiore (228-216 Ma). In tale periodo si verificò un’accelerazione dei movimenti
tettonici sia trascorrenti che estensionali nell’area carnica, dove, come nelle Dolomiti, si produsse una paleogeografia
molto differenziata in piattaforme carbonatiche, scarpate e bacini, ma anche aree emerse e vulcani sottomarini che
talora emergevano dal mare [Jadoul, Nicora, 1986; Jadoul et alii, 2002; Vai et alii, 2002]. Una nostra peculiarità è la
Dorsale paleocarnica anisica di Pontebba [Fois, Jadoul, 1983], sviluppatasi da Pontebba a Tarvisio e caratterizzata da
una paleogeografia, e quindi da una successione stratigrafica, particolarmente complesse a causa di ben tre fasi
tettoniche in appena otto milioni di anni (245-237 Ma). Due formazioni caratteristiche di questo settore sono la Breccia
di Ugovizza (cui corrisponde in Dolomiti il Conglomerato di Richthofen), originarie ghiaie fluviali e deltizie policrome
provenienti dall’erosione delle aree emerse, e le Torbiditi d’Aupa, depositi di frana sottomarina accumulatisi nei bacini
che si aprivano tra le piattaforme carbonatiche.
Altri depositi bacinali anisici intrapiattaforma, con più ampia distribuzione nella regione, sono dati da sottili corpi di
calcilutiti nere selcifere ad ammoniti (Formazione di Dont), mentre la Formazione del monte Bivera (calcari argillosi
nodulari e marne e siltiti rossastre) rappresenta un deposito di pochi metri di spessore di altofondo (o plateau) pelagico.
Più significative per spessore e ampiezza di affioramento, e quindi per il paesaggio carnico, sono le piattaforme
carbonatiche del Triassico medio, piastroni dolomitici di centinaia e centinaia di metri di spessore, costruiti da alghe,
coralli e da numerosi altri organismi che prosperavano nelle calde acque equatoriali di allora. La piattaforma anisica è
quella della Dolomia del Serla, che si estinse alla fine dell’Anisico a causa degli impulsi tettonici che in certi settori la
fece annegare e in altri emergere. Sulla sua sommità si depositarono perciò litologie assai varie, che danno un’idea di
quanto fosse tettonicamente mobile e paleogeograficamente differenziata la regione carnico-dolomitica nel Triassico
medio. Sulle piattaforme emerse ed erose troviamo i depositi alluvionali della Breccia di Ugovizza, con sopra calcari
bituminosi e marne nerastri di ambiente lagunare (Calcare di Morbiac); su quelle annegate e divenute plateau pelagico
si depose la Formazione del monte Bivera, oppure calcilutiti selcifere e marne bacinali (Formazione dell’Ambata) se il
collasso della piattaforma fu completo, fino a raggiungere i fondali dei bacini.
Le formazioni anisiche sono quasi sempre di modesto spessore e, com’è regola in questi casi, non hanno particolare
rilievo morfologico e paesaggistico; la loro distribuzione è limitata alla fascia centrale del bacino del Tagliamento, in
modo irregolare e in piccoli affioramenti. Anche la Dolomia del Serla non è molto significativa, pur con alcune
importanti eccezioni: il Bivera, la dorsale Crete dal Cronz-Clapeit di Glazzat (Aupa), il monte Salinchiet (Paularo), il
monte Strabut (Tolmezzo) e soprattutto il gruppo dei monti Tersadia-Cucco.
Sulle rocce bacinali o lagunari anisiche crebbero e si espansero vivacemente nel Ladinico (237-228 Ma) le
piattaforme assai più ampie e spesse (oltre 500 m) della Dolomia dello Sciliar (o Schlern), formate dagli stessi
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organismi costruttori della Dolomia del Serla. Le Dolomiti Pesarine e l’aguzza piramide del monte Tuglia sono le più
belle montagne carniche scolpite nelle dolomie ladiniche. Ma la loro diffusione è ben più ampia: in sinistra Tagliamento
da Forni di Sopra a Tolmezzo (monti Lagna, Tinisa e Sesilis, altopiano di Lauco), tra le valli Chiarsò e Aupa, dove
formano il basamento settentrionale del monte Sernio e del Zuc dal Bor. Ma è soprattutto la val Canale che da queste
dolomie riceve un’impronta determinante, in quanto esse affiorano fin dal fondovalle in destra (dorsale dei monti
Bruca-Scinauz-Mirnig-Vetta Secca), mentre in sinistra formano la parte superiore, aspra e dirupata, della dorsale Jof di
Dogna-Jof di Miezegnot-Cima del Cacciatore.
A questo punto non si può non fare una considerazione stupefacente: le dolomie ladiniche che in val Canale
producono un paesaggio selvaggio e cupo sono le stesse della Marmolada, del Catinaccio di Antermoia o delle Pale di
San Martino! La spiegazione è semplice e risiede nel fatto che la val Canale è percorsa dalla gigantesca faglia FellaSava, che con i suoi ripetuti movimenti ha letteralmente “sbriciolato” le rocce, predisponendole ad azioni erosive di
drammatica intensità. Il monte Nebria, con forme di incisione e degradazione quasi calanchive (e si tratta di dolomie,
non di argille), un rilievo che chi percorre la valle si trova di fronte prima di superare Ugovizza e di entrare a Valbruna
e nella splendida val Saisera, dà perfettamente l’idea dell’intensità delle deformazioni tettoniche distruttive che si sono
sviluppate lungo la faglia.
Il quadro delle rocce ladiniche si completa con le successioni bacinali e con quelle vulcaniche. Nei bacini
intrapiattaforma continuò la deposizione di sedimenti misti, carbonatici, terrigeni e vulcanoclastici, spesso torbiditici,
che sono raggruppati nelle formazioni di Buchenstein (o di Livinallongo) e in quella di Wengen (o di La Valle), dello
spessore di molte centinaia di metri. Oltre ad affioramenti minori fra le valli del torrente Lumiei e dell’alto
Tagliamento, queste rocce assai erodibili e spesso franose caratterizzano la sinistra Chiarsò da Lovea a Dierico, da dove
si estendono in val Aupa fino a Sella Cereschiatis e da qui a Tarvisio in una fascia ininterrotta a mezza costa sul
versante sinistro della valle del Fella. Qui sono sormontate dalla piattaforma dello Sciliar che sulle rocce bacinali era
progradata (cioè avanzata) nel Ladinico superiore.
Infine sono da ricordare i prodotti dei tre eventi vulcanici che si sono verificati tra l’Anisico superiore e il Ladinico,
con lave e materiali piroclastici sia sottomarini di tipo basaltico (Forni di Sopra) che subaerei (val Chiarsò, val DognaValbruna); questi ultimi, chiamati Porfidi di Rio Freddo, sono rappresentati da vulcaniti e vulcanoclastiti di colore rosso
o violetto a chimismo acido, cioè analogo a quello dei graniti.
Come alla chiusura di uno spettacolo pirotecnico il Carnico (228-216 Ma) ci presenta un crescendo di
differenziazioni paleogeografiche e litologiche, legate a una tettonica trascorrente ed estensionale vivacissima ma che
alla fine del periodo quasi cesserà. Senza entrare nel puzzle della stratigrafia del Carnico e della nomenclatura delle sue
tante formazioni, è chiaro che si produssero rocce sedimentarie di ogni tipo, da nuove piattaforme (la Dolomia
cassiana) a successioni bacinali carbonatico-terrigene a rocce clastiche (in particolare argille varicolori e arenarie
violette) oppure carbonatiche di mare poco profondo fino a successioni lagunari con dolomie vacuolari, marne e gessi.
Le due ultime successioni litologiche costituiscono la Formazione di Raibl, caratteristica di tutta l’area carnicodolomitica, che ha tipici affioramenti dal Passo della Mauria a Forni di Sotto ed Ampezzo, nel vasto settore di Raveo,
Enemonzo, Claudinico (dove vi veniva estratta lignite), Lauco, Verzegnis e Zuglio. Queste eterogenee ed erodibili rocce
affiorano anche attorno al lago di Sauris, lungo il fondovalle della val Aupa da Dordolla a Moggio e da qui a Moggessa,
lungo tutto il fondovalle della val Dogna e della val Resia. Gli spessori sono assai variabili e possono superare il
migliaio di metri, in quanto tali materiali andarono anche a colmare bacini e depressioni. Questo fatto, assieme a un
rapido quietarsi alla fine del Carnico della tettonica che nel Triassico medio aveva tormentato la regione carnicodolomitica (ma non solo questa), fece sì che la precedente paleogeografia, così accidentata e articolata, si uniformasse
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batimetricamente in condizioni di mare poco profondo discretamente subsidente e con sedimentazione carbonatica (per
lo più dolomie grigiastre o nere ben stratificate di ambiente scarsamente ossigenato: la Formazione del Monticello, di
età forse in parte norica).
Il Norico e il Retico (da 216 a 199 Ma), ultima parte del Triassico, ci forniscono la terza immagine, un quadro di
grande uniformità che corrisponde all’esplosione delle piattaforme carbonatiche tipo Bahamas, cioè di aree vastissime
soggette all’escursione di marea, in cui si alternano ciclicamente la sedimentazione di fanghi calcarei e l’accumularsi di
lamine calcaree millimetriche (stromatoliti) di incrostazione da parte di alghe cianoficee. Sulle piattaforme bahamiane
del Triassico superiore, estese per migliaia di kmq, erano presenti anche aree emerse più stabilmente, su cui
pascolavano e migravano branchi di dinosauri, le cui orme sono state trovate anche in val Dogna, oppure si aprivano
piccoli bacini intrapiattaforma profondi solo poche centinaia di metri [Carulli et alii, 1998]. In questi ultimi, le
condizioni anossiche (assenza di ossigeno per mancanza di ricambio delle acque) hanno consentito la conservazione dei
resti spettacolari di vertebrati (rettili volanti e pesci) rinvenuti nella zona di Preone: la formazione è la Dolomia di Forni
del Norico, caratteristica della media valle del Tagliamento con le sue dolomie grigie o nere in strati sottili alternati ad
argilliti nere bituminose [Scotti et alii, 2002].
La prima formazione di questo intervallo – la Dolomia Principale, di età norica (216-203 Ma) – è anche la più
importante con i suoi 1000-1500 m di spessore e la sua enorme area di affioramento nel bacino idrografico. E’ in questa
piattaforma che si aprivano i piccoli bacini della Dolomia di Forni. La Dolomia Principale forma quasi interamente i
rilievi a sud dell’alta valle del Tagliamento e della linea congiungente Tolmezzo con la bassa valle del Chiarsò (Lovea)
e da qui a est fino a Valbruna. A sud l’area può essere delimitata dal parallelo di Gemona. Vi sono scolpite le montagne
più belle ed imponenti: Jof Fuart e Jof di Montasio, Sernio e Grauzaria, il vasto gruppo del Zuc dal Bor e del monte
Cimone, l’Amariana, il monte Plauris, il gruppo Pramaggiore-Monfalconi-Cridola, il monte Miaron con le sorgenti del
Tagliamento, oltre ad altri rilievi, sicuramente meno belli ma significativi per altre ragioni, come il Chiampon sopra
Gemona e il gruppo del Brancot che domina Trasaghis e si affaccia ormai sulla pianura. I processi erosivi hanno scavato
nella Dolomia Principale intere valli come la val Raccolana o gran parte di esse, come la val Arzino e la val Resia.
Verso le Alpi Giulie la Dolomia Principale passa lateralmente, fino a venirne quasi sostituita (è, cioè, in eteropia), a
un’altra formazione di piattaforma, molto simile ma costituita da calcari invece che da dolomie, il Calcare del
Dachstein, che poi le si sovrappone nel Retico (203-199 Ma). Esso forma il gruppo del Canin, del monte Sart e parti
minori dei rilievi nell’area dei monti Amariana, Plauris e Verzegnis.
Con queste due formazioni termina il Triassico e inizia il quarto fotogramma geologico, che arriva a comprendere
addirittura tutto il Giurassico (199-145 Ma) e quasi tutto il Cretacico (fino a circa 75-70 milioni di anni fa). Si tratta di
un periodo lunghissimo, in cui gli avvenimenti tettonici verificatisi nel Liassico (da 199 a 175 Ma, Giurassico inferiore),
hanno imposto la loro impronta ai rimanenti 100 Ma. La causa, come sempre, va ricercata a scala globale cioè nella
dinamica delle placche. Mentre nel Triassico medio e nel Carnico la litosfera nelle fasce che poi diventeranno i tre
piccoli oceani della Tetide circum-adriatica fu sottoposta a intensi e generalizzati processi di rifting che si propagavano
dalla futura zona atlantica centrale, nel Triassico superiore e soprattutto nel Liassico le zone di separazione si erano
ormai individuate e quindi i processi di rifting hanno trovato dei “binari” ben definiti (i sistemi di grandi faglie dirette e
trascorrenti) e poterono svilupparsi in modo, per così dire, più regolare ed ordinato.
Per il bacino idrografico del Tagliamento questo significò dapprima la crescita di una nuova piattaforma carbonatica
(la quinta!) sulla sommità di quella norico-retica, cioè la piattaforma liassica dei Calcari grigi. Poi, già nel Liassico
inferiore nei settori più settentrionali dell’attuale bacino idrografico, iniziò il suo collasso con annegamento in veloce
propagazione da nord verso sud, per raggiungere in momenti via via più recenti del Liassico l’area prealpina carnica.
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Attualmente troviamo i Calcari Grigi e le altre formazioni giurassico-cretaciche solo a sud di Tolmezzo e in aree
limitate: versante meridionale dell’Amariana, dei monti Valcalda e Verzegnis, versanti settentrionali della catena del
Piombada, del Cuar-Covria, del Chiampon-Cuel di Lanis, sul monte San Simeone e sul Plauris e infine, ormai sulla
pianura, nella bassa val d’Arzino e sul monte Cuarnan. In molte di queste montagne il geologo osserva gli effetti del
progressivo annegamento da nord a sud di settori della piattaforma dei Calcari Grigi, che passano a formare parti di
scarpata e infine di bacino. Si tratta del Bacino Carnico giurassico-cretacico, settore centrale di un fondamentale
elemento paleogeografico mesozoico delle Alpi orientali: il Bacino Bellunese-Carnico-Sloveno, una specie di cintura di
bacini profondi sui 1500 m che circondava il margine di una zona di altofondo, su cui si sviluppò appunto la piattaforma
dei Calcari Grigi nel Lias e la poi la Piattaforma Carbonatica Friulana dal Dogger (Giurassico medio) alla fine del
Cretacico (la sesta e ultima). Sui settori annegati si depose così nel Liassico la Formazione di Soverzene (dolomie
selcifere nere in strati sottili), poi nel Dogger (175-161 Ma) il Calcare del Vajont, formato soprattutto da calcareniti
oolitiche, derivate dalla risedimentazione violenta e rapida in bacino, a causa di uragani e di terremoti, delle sabbie
oolitiche che il moto ondoso e il vento accumulavano in dune e barre sui margini della Piattaforma Friulana. Mentre
quest’ultima continuava a crescere con l’accumulo di gusci di molluschi (fra i quali le ben note Rudiste), di coralli,
briozoi e resti di alghe calcaree, che il clima tropicale faceva prosperare, sulle scarpate e nella parte contigua del bacino
si depositavano sia resti organogeni per processi gravitativi di risedimentazione che finissimi fanghi carbonatici e
silicei, ora trasformati in sottili strati di calcilutiti selcifere e di radiolariti (Calcare di Fonzaso del Giurassico superiore,
Maiolica del Cretacico inferiore).
In differenti momenti del Cretacico superiore (tra circa 90 e 75 Ma) iniziò la sedimentazione di finissimi fanghi
calcareo-argillosi e silicei rossastri, la Scaglia Rossa, ricca di gusci microscopici di plancton calcareo e siliceo. Ma la
Scaglia Rossa, un prodotto minore di grandiose trasformazioni in atto più a nord (la chiusura dell’oceano dei Tauri e
l’inizio della costruzione delle grandi strutture tettoniche delle Alpi centro-orientali) è ormai il principio di una nuova
parte della storia alpina del bacino del Tagliamento.
Si formano le montagne: la catena dinarica esterna e la catena sudalpina orientale
Si è visto che l’apertura e l’espansione dell’Atlantico settentrionale determinarono nel Cretacico inferiore
l’inversione dei movimenti relativi tra Africa ed Eurasia e quindi la progressiva chiusura dei tre oceani della Tetide
circum-adriatica e la collisione tra i relativi margini continentali. Nella nostra regione, situata in posizione interna
rispetto ai margini dell’Adria, tali grandiosi processi tettonici che alla fine crearono le Alpi e le Dinaridi, produssero nel
Cretacico solo effetti relativamente modesti, quali variazioni di velocità di subsidenza, episodi di emersione o di
momentaneo annegamento di settori della piattaforma, nonché, sui margini di quest’ultima e sulle scarpate, episodi di
risedimentazione in bacino per frane sottomarine e correnti di torbida. Esse erano prodotte da eventi sismici avvenuti in
aree ancora lontane, ma in cui la tettonica alpina compressionale stava agendo energicamente e produceva ben più
grandi frane sottomarine: la parte più fine di tali correnti di torbida, una nuvola di fanghi rossastri in sospensione,
poteva avanzare per decine e decine di km verso sud nel Bacino Carnico-Sloveno e si mescolava, decantando
lentamente, alla pioggia di gusci planctonici minutissimi. La Scaglia Rossa, di età cretacica superiore nella maggior
parte degli affioramenti nel bacino tilaventino, stabilisce l’inizio del quinto momento, che si estende tra 70 a 45 Ma.
Alla Scaglia seguì subito la sedimentazione torbiditica vera e propria tra la fine del Cretacico e l’Eocene medio nel
Bacino Carnico-Sloveno fino al suo riempimento; queste rocce bacinali, assieme al loro substrato mesozoico e
paleozoico, furono coinvolte in intense deformazioni tettoniche, alle quali seguì il sollevamento delle pieghe e dei
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sovrascorrimenti a formare montagne, ma anche la loro contemporanea erosione subaerea. Tutto questo può essere
ancora più sinteticamente definito come l’evento tettonico dinarico, qui sviluppatosi nella sua globalità tra la fine del
Cretacico e la fine dell’Eocene (da 75-70 a circa 40 Ma fa) [Doglioni, Bosellini, 1987].
Fig. 5 - La sezione geologica nord-sud attraverso la catena Sudalpina mostra la complessa architettura tettonica della
crosta superiore in Friuli, evidenziata dalla ripetizione di volumi rocciosi di varie età (fasce colorate) che le faglie
hanno sovrapposto gli uni sugli altri. Le linee dentellate indicano i maggiori sovrascorrimenti dinarici (ad es.: s. di
Palmanova), che si sono mossi nel Paleogene verso ovest (cioè verso il lettore), appilando una prima volta varie
porzioni crostali, che i sovrascorrimenti neoalpini stanno tagliando e accatastando ulteriormente, trasportandole
stavolta verso sud. Legenda: grigio: basamento magnetico (≈ Paleozoico catena varisica); rosa: Permiano-Trias
medio; giallo: Trias sup. (Dolomia Principale, in pareticolare); blu: Giurassico inf. e medio (di piattaforma
carbonatica e di bacino); verde: Giurassico sup.-Cretacico sup. (di piattaforma carbonatica e di bacino); marrone:
Paleocene-Eocene (flysch); nero: Miocene inf. e medio p.p.; verde oliva: Miocene medio p.p. e sup. e Pliocene; celeste:
Quaternario.
La catena dinarica dell’area friulana e veneto-dolomitica viene chiamata esterna, in quanto è la parte più occidentale
(e anche la più recente) di una catena sviluppatasi nei Balcani con direzione nord-ovest – sud-est. Le pieghe e i
sovrascorrimenti dinarici hanno appilato porzioni crostali da est verso ovest, come le tegole di un tetto, in tempi via via
più recenti (gli ultimi “sussulti” tettonici sono probabilmente dell’Eocene superiore); contemporaneamente venivano
prodotte gigantesche frane sottomarine e correnti di torbida (i flysch del Tarcentino e delle colline di Buia) che
venivano alimentate sia dai detriti alluvionali che l’erosione delle montagne emergenti accumulava sulle aree emerse al
margine orientale del Bacino Sloveno sia dalle enormi frane che si staccavano dal margine orientale della Piattaforma
Carbonatica Friulana in progressivo annegamento da est verso ovest. Per dare un senso al termine “gigantesco” basta
ricordare il Megastrato di Vernasso: lo spessore del singolo strato è di 165 m e si può seguire per una quarantina di km
dalla zona di Cividale fin nei pressi del monte Cuarnan; si tratta del prodotto di uno dei tanti violentissimi terremoti che
accompagnavano l’avanzare dei sovrascorrimenti, cioè di una sismo-torbidite [Tunis, Venturini, 1992].
In termini geologici si realizzò un sistema catena-avanfossa (l’avanfossa è il bacino torbiditico antistante) che migrò
verso ovest: tutta l’area del bacino idrografico ne venne interessata e subì un raccorciamento crostale in direzione estovest dell’ordine di almeno 50 km.
Come sempre, il sollevamento delle nuove montagne fu accompagnato da erosione fino ad arrivare allo
spianamento, e quindi - sempre ciclicamente! – a nuove avanzate del mare sui resti dei rilievi dinarici. Ed è una
testimonianza affascinante delle successive deformazioni tettoniche neoalpine trovare ora a 1075 m di quota sul monte
Amariana [Carulli et alii, 1986] e a circa 500 m a Tugliezzo (presso Carnia) calcareniti ricchissime di
macroforaminiferi (grandi Nummuliti, Alveoline, Assiline) di età eocenica media (Luteziano, 48-40 Ma), primi depositi
17
marini (ma gli unici sopravvissuti agli eventi successivi) che poggiano su dolomie noriche con forte discordanza
angolare.
Il sesto fotogramma è “vuoto”, privo di contenuti perché rispecchia l’assenza di sedimentazione e quindi di
testimonianze geologiche tra l’Eocene superiore e l’Oligocene (da circa 40 a 23 Ma). In questi 17 milioni d’anni
nell’area del bacino tilaventino si completò lo spianamento della catena dinarica esterna e si preparò la regione a
ricevere – stavolta in modo generalizzato - le acque di un mare poco profondo che la coprirà a partire dal Miocene
inferiore (23 Ma fa).
Da questo momento il tempo sembra correre più velocemente, con cesure sempre più brevi via via che ci
avviciniamo ad oggi. Conviene allora raggruppare in un'unica immagine, la settima, i molteplici avvenimenti che si
sono verificati nella quasi totalità del Miocene cioè fra l’Aquitaniano e il Messiniano inferiore (da 23 a circa 6 Ma fa).
Sinteticamente, si possono identificare una prima parte (dall’Aquitaniano al Langhiano) caratterizzata in quasi tutta
l’area del bacino da sedimentazione marina e una seconda dominata invece dalla tettonica, dall’inizio del Serravalliano
(13,6 Ma fa) fino a 6 Ma fa (più precisamente 5,96: si noti che ora l’orologio geologico non batte più solo i milioni di
anni ma anche le centinaia e le decine di migliaia!). Stavolta il motore geodinamico è rappresentato dalla convergenza
in media nord-sud tra Adria ed Eurasia, che portò il margine settentrionale, ancora indeformato, dell’Adria a indentarsi
nella catena alpina: nella zona di “incastro crostale” si formò un altro sistema di sovrascorrimenti e un’altra avanfossa
che migrarono stavolta verso sud-est. E’ il sistema catena-avanfossa della catena sudalpina orientale, quella in cui
viviamo, dovuta all’evento tettonico neoalpino, complessivamente dal Miocene inferiore ad oggi.
La trasgressione miocenica portò il mare ad avanzare fino a coprire quasi completamente l’area carnico-dolomitica.
La sedimentazione fu in massima parte di tipo terrigeno (ovvero con materiali provenienti da terre emerse in erosione) e
si depositarono soprattutto sabbie e fanghi, talora anche ghiaie, ad opera di antichi fiumi che inizialmente sfociavano
nella parte più settentrionale e in quella orientale del bacino del Tagliamento provenendo da nord e da est. Le varie
formazioni del Miocene inferiore e medio sono state battezzate con nomi di località dell’area prealpina bellunesetrevigiana e carnica, dove le rocce sono ancora conservate e sono state studiate: Arenaria di Preplans, Marna di Bolago,
Arenaria di S. Gregorio, Calcarenite del monte Baldo, Marna di Tarzo, tutte con spessori di alcune centinaia di metri al
massimo [Stefani, 1984; Massari et alii, 1986]. Assieme alle altre unità mioceniche esse affiorano solo nelle ultime
colline del bacino, alla confluenza tra torrente Arzino e Tagliamento e a Ragogna e Susans, oltre che in piccoli lembi
presso Peonis e Trasaghis e alla base dei colli di Osoppo. Viceversa, le rocce mioceniche sono, ovviamente, conservate
nella loro interezza nel sottosuolo della pianura friulana, dove le indagini geofisiche eseguite per la ricerca di
idrocarburi hanno consentito di ricostruirne anche l’architettura sedimentaria [Fantoni et alii, 2002].
Dal Miocene medio, con la nascita e la propagazione dei sovrascorrimenti nell’area del bacino, le aree emerse si
estesero verso meridione e quindi cambiò la composizione petrografica delle sabbie e delle ghiaie, che da
prevalentemente quarzose (di provenienza alpina) diventarono calcareo-dolomitiche [Stefani, 1987]: è la prova che
ormai comincia a configurarsi il bacino del (Paleo)-Tagliamento almeno nei settori centro-settentrionali e che là, dove
ora sono spariti, erano in erosione i calcari e le dolomie delle piattaforme mesozoiche.
Arriviamo così alla fine di questa composita e fondamentale settima immagine: un’accelerazione dei movimenti di
convergenza tra le placche durante il Miocene superiore (Tortoniano e Messiniano, 11,6 – 5,3 Ma) fece avanzare
rapidamente il sistema catena-avanfossa sudalpino e i sovrascorrimenti arrivarono a deformare e a sollevare le rocce
nell’area prealpina. L’intensità dei processi erosivi fu tale da produrre accumuli di 1.200-1.600 m di sabbie
prevalentemente carbonatiche (Arenaria di Vittorio Veneto del Tortoniano) e di ghiaie prima di delta-conoide e infine di
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piana alluvionale con corsi d’acqua a canali intrecciati, proprio come nell’attuale alta pianura del Tagliamento
(Conglomerato del Montello del Tortoniano superiore-Messiniano).
La nascita e l’evoluzione del bacino idrografico del Tagliamento
L’ottavo fotogramma è tanto breve (meno di 600.000 anni, appena l’ultima parte del Messiniano) quanto importante,
perché vi si imposta il reticolo idrografico fondamentale del bacino tilaventino. Perfino in questo caso la causa – sia
pure indiretta - risiede nella dinamica delle placche. La convergenza nord-sud produsse a 5,96 Ma una temporanea
occlusione dello Stretto di Gibilterra e l’isolamento del Mediterraneo, le cui acque in buona parte evaporarono nel clima
caldo delle latitudini tropicali di allora, e lasciarono centinaia e centinaia di m di sali (crisi di salinità del Messiniano:
Cita, 1982; Cita, Corselli, 1990). L’abbassamento del livello di base dei fiumi alpini di oltre un migliaio di m produsse
enormi escavazioni fluviali sul versante meridionale delle Alpi, nella pianura Padana e in quella veneto-friulana [Bini et
alii, 1978; Rizzini, Dondi, 1978; Cita, Corselli, 1990]: in un certo senso il reticolo idrografico principale “si stampò”,
approfondendosi, sulla paleosuperficie messiniana e tale rimarrà, nelle grandi linee fino ad oggi. A 5,60 Ma lo stretto si
riaprì e le acque dell’Atlantico, in circa 200.000 anni riportarono il livello marino nelle condizioni precedenti. Si può far
iniziare da questo momento (circa 5,4 Ma, quasi alla fine del Messiniano) la nona e ultima immagine geologica, che ci
fa vedere le fasi evolutive che hanno portato alla situazione attuale.
Durante la crisi di salinità del Messiniano la tettonica aveva continuato ad agire, in particolare nella fascia prealpina
veneto-friulana che continuò ad essere sollevata, come del resto è accaduto nel Pliocene e nel Quaternario [Peruzza et
alii, 2002; Zanferrari et alii, 2003; Zanferrari et alii, in stampa]. Di conseguenza la trasgressione pliocenica raggiunse
questa zona solo nel Pliocene inferiore-medio (attorno a 3,8 – 3,5 Ma fa), depositando poche decine di metri di argille e
sabbie fini all’interno delle valli messiniane. L’ambiente marino (da costiero a salmastro) vi rimase per brevissimo
tempo, sostituito da quello deltizio e poi dall’alluvionale, per l’avanzata della sedimentazione grossolana del Paleotagliamento. I colli di Osoppo conservano una piccolissima parte del delta ivi esistente nel Pliocene medio, testimoniata
dai corpi ghiaiosi (Conglomerato di Osoppo) che si vedono progradare verso sud sui pochi metri di siltiti argillose
marine plioceniche affioranti alla sua base. Alla sommità del colle, sabbie fini con increspature di corrente recano le
impronte di un bovide, di un piccolo rinoceronte e di Hipparion [Dalla Vecchia, Rustioni, 1996], genere di equide
estintosi nel Pliocene medio e che ci dà perciò il termine cronologico più recente dei conglomerati affioranti ad Osoppo.
I depositi alluvionali pliocenici si trovano anche all’interno della valle del Tagliamento, sormontati da altri corpi
conglomeratici più recenti di età pleistocenica inferiore (1,8-0,78 Ma) e media (0,78-0,126 Ma); formano i colli in
conglomerato che corrono soprattutto in destra valle da Cesclans ad Ampezzo, antichi riempimenti ghiaiosi della valle,
ripetutamente scavati dal fiume e modellati dai ghiacciai pleistocenici.
Quest’ultima inquadratura ci ha condotto alla fine del lunghissimo viaggio di 500 milioni di anni che le rocce e le
strutture tettoniche del bacino possono raccontare. E’ la fine del nostro viaggio nel tempo, ma non è certo la fine
dell’evoluzione del bacino, la quale prosegue in superficie con episodi di erosione, trasporto e sedimentazione fluviale,
di alluvioni e di frane e di colate detritiche che continuano a modellare le forme del paesaggio. Ma anche in profondità
nella crosta della regione friulana l’evoluzione tettonica neoalpina non è finita, poiché prosegue l’indentazione tra la
crosta europea e quella adriatica, nonché il raccorciamento crostale di quest’ultima. Attualmente i sovrascorrimenti
neoalpini si stanno propagando verso sud nel sottosuolo della pianura udinese [Poli, 1996; Zanferrari et alii, 2003;
Galadini et alii, 2005] e la sollevano assieme alla parte prealpina del bacino del Tagliamento con improvvise e violente
accelerazioni: le ultime due, alle nove di sera del 6 maggio 1976 e verso le 11 del mattino del 15 settembre, hanno
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sollevato complessivamente di circa 15 mm la zona di Udine, di 100 mm Gemona e di 180 mm Venzone [Talamo et
alii, 1978].
Per i geologi queste deformazioni superficiali cosismiche (cioè avvenute durante e per causa di un sisma)
rappresentano probabilmente l’effetto più appariscente dei terremoti del 1976, anche in termini assoluti a causa
dell’entità eccezionale dei sollevamenti misurati dai topografi dell’Istituto Geografico Militare. Per migliaia di friulani,
che in maggioranza vivevano all’interno del bacino idrografico del Tagliamento, il terremoto del 6 maggio è stato un
evento così drammatico da far dire a molti che “erano preferibili i bombardamenti [durante l’ultimo conflitto]”
[Strassoldo, Cattarinussi, 1978]. In effetti un terremoto distruttivo non è solo un fatto geologico, ma rappresenta un
evento che sconvolge ogni aspetto della nostra vita, distruggendo alcune certezze fondamentali in un certo senso insite
nella natura umana: il terreno, che non è più la terraferma, ma qualcosa che sobbalza caoticamente e si muove
oscillando sotto i piedi; la casa, per antonomasia centro stabile, sicuro e protettivo della vita personale e familiare, che
vibra, ondeggia e scricchiola con rumore sordo, fino a cedere e a crollare, divenendo una trappola o una tomba.
Ma che cos’è un terremoto, questo fenomeno che nel nostro viaggio di 500 Ma è stato più volte associato a grandiosi
processi geologici, quale la formazione delle montagne, come un fatto normale e ovvio? In effetti esso è veramente “un
fatto normale e ovvio”, perché la gran parte dei movimenti lungo faglie all’interno della crosta avviene a scatti, ad
impulsi successivi che producono una serie complessa e prolungata di oscillazioni periodiche cioè di onde sismiche.
Sono queste che, raggiunta la superficie terrestre, noi chiamiamo terremoto. La faglia sulla cui superficie all’ipocentro
le rocce sono state polverizzate, consentendo il movimento di un volume crostale rispetto ad un altro, è chiamata faglia
o sorgente sismogenica. Quanto più ampia è la superficie su cui c’è stata rottura e scorrimento, tanto più grande sarà
l’energia liberata sotto forma di onde sismiche, cioè la grandezza o magnitudo dell’evento, nonché, di norma, la sua
durata. Magnitudo e durata del terremoto ci evidenziano anche la sua potenzialità di generare danni nel contesto umano.
I grandi terremoti del passato
Attualmente, grazie alla Rete Sismometrica del Friuli – Venezia Giulia, che copre l’intera area del bacino del
Tagliamento, è diventata un’operazione di routine registrare un terremoto anche di piccola magnitudo e definirne
strumentalmente i vari parametri fisici, in modo da calcolare poi magnitudo, epicentro e profondità ipocentrale; infine si
cerca di stabilire qual è il suo meccanismo focale cioè il modo di rottura e di scorrimento sulla faglia (sovrascorrimento,
faglia trascorrente oppure diretta), risalendo quindi alla possibile o probabile sorgente sismogenica.
In parte, e solo per i grandi terremoti, alcune di tali informazioni sono ottenibili con maggior o minore grado di
incertezza anche per eventi accaduti nei primi decenni del ‘900. E’ il caso del terremoto del 1928 di Verzegnis,
magistralmente descritto nei suoi effetti sull’ambiente naturale e sugli edifici da Michele Gortani [1928].
Completamente diverse sono le condizioni in cui si trova ad agire il gruppo di specialisti (sismologo, geologo,
storico, archivista, filologo esperto di antiche lingue) che deve almeno trovare l’epicentro, stabilire l’intensità dei danni,
tracciare le curve che racchiudono le zone con uguale livello di danno (isosisme o isosiste) e tentare di risalire alla
sorgente sismogenica di terremoti avvenuti in secoli più lontani. La lettura dei Cataloghi dei terremoti [Boschi et alii,
1995; 1997; Monachesi, Stucchi, 1998; Gruppo di lavoro CPTI, 1999] per gli eventi più antichi di forte intensità è
affascinante, anche se turbata dal pensiero dei danni, delle vittime e delle sofferenze che essi hanno causato alle
popolazioni: sono cronache di antiche città e di chiese e castelli, di mercanti, di monaci e di canonici peregrinanti che
riferivano, in forma spesso colorita e immaginifica, delle distruzioni e dei morti osservati nei territori attraversati, ma
anche analisi e discussioni sulle diverse organizzazioni sociali e politiche, sulle risposte delle popolazioni e degli organi
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di governo alle calamità, sui differenti calendari e le diverse modalità di misurare il tempo della giornata, fatto che varie
volte ha portato a raddoppiare uno stesso evento del lontano passato.
Rientra perfettamente in questa tipologia il terremoto del 25 gennaio 1348, chiamato “della Carinzia” o anche “di
Villach”, in quanto in tale località si ubicava in passato l’epicentro, che ora è stato spostato verso Pontebba. Interessò
un’area vastissima tra Carinzia, Friuli e Slovenia e causò alcune decine di migliaia di vittime, circa i tre quarti della
popolazione nell’area epicentrale, dove raggiunse l’intensità del IX° della scala MCS (Mercalli-Cancani-Sieberg)
[Hammerl, 1994]. In realtà il numero enorme di decessi attribuiti al sisma probabilmente finì per confondersi con quello
dell’epidemia di peste nera che qualche mese dopo flagellò anche queste regioni. Molte vittime sono ricordate anche a
Gemona, che rientrò nel IX° MCS e fu distrutta come Tolmezzo e Paluzza; ma anche Udine ebbe vittime e gravi danni,
come del resto Sacile, Trieste e Aquileia. Nell’Europa medioevale esso destò un’enorme impressione: vi si trovano
testimonianze anche in lettere di Francesco Petrarca, che ne ricorda gli effetti a Verona. Come probabile sorgente
sismogenica è stato individuato da Galadini et alii [2005] il segmento del grande sovrascorrimento Periadriatico tra
Gemona e Caporetto/Kobarid.
Fig. 6 – Distribuzione degli epicentri di terremoti di magnitudo superiore a 2,5 registrati dalla Rete Sismometrica del
FVG dal 1977 al 2004. Sono anche riportate le località più gravemente danneggiate dai maggiori eventi che hanno
colpito la regione dal 778 d.C. al 1976 (Intensità ≥ X MCS).
Il successivo evento che interessò disastrosamente anche il bacino idrografico del Tagliamento, il più grande del
millennio scorso, avvenne il 26 marzo 1511 e raggiunse il X° MCS, con una magnitudo calcolata attorno a 6,9 [Fitzko
et alii, 2005]. Chiamato in passato anche terremoto di Idrija, ora più correttamente è battezzato con il nome della
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regione dove ricade l’epicentro, la Slovenia occidentale. La struttura sismogenica più probabile è la grande faglia
trascorrente di Idrija, la principale di un imponente sistema a cavallo del confine tra Friuli e Slovenia. Anche in questo
caso danni e vittime furono moltissimi ed enorme fu la regione gravemente interessata: a Lubiana, Gemona, Venzone,
Osoppo si raggiunse la distruzione quasi completa, a Udine crollò anche il castello, così come altri castelli sulle colline
allo sbocco del Tagliamento in pianura (Pers, Moruzzo, Mels, Colloredo di Montalbano, Fagagna). E’ interessante
notare che i gravissimi danni del sisma si sommarono in Friuli con quelli della rivolta contadina “degli zamberlani” (o
“sacco del giovedì grasso” – 26 febbraio 1511), che fu il momento culminante di un periodo economico e sociale
particolarmente perturbato. Gli effetti cumulati furono spopolamento e carestia e, come nel 1348, si aggiunse anche
un’altra epidemia di peste.
Meritano di essere ricordati, per i loro effetti rilevanti ma limitati alla Carnia, altri due terremoti del passato. Il 28
luglio 1700 furono colpiti il Canale di Gorto e l’alta valle del Tagliamento con distruzioni gravissime e alcune decine di
vittime (IX° MCS). Raveo (da cui l’evento riceve il nome), Enemonzo, Esemon di Sotto, Mediis e Quinis furono quasi
rasi al suolo, ma anche Ovaro, Preone, Priuso e Socchieve ne risentirono pesantemente.
Più gravi furono le conseguenze anche indirette del terremoto di Tolmezzo del 20 ottobre 1788 (VIII° MCS), che vi
causò una trentina di vittime (su 1400 abitanti), la distruzione di 70 case su circa 250 e gravi danni in molte altre. In
pratica scomparvero le costruzioni medioevali e il suo centro storico, pur conservando la pianta medioevale, ha ora solo
edifici del tardo ‘700 e ottocenteschi. Le conseguenze socio-economiche furono ancora più pesanti, in quanto venne
gravemente lesionato il famoso stabilimento tessile di Jacopo Linussio, che aveva fatto di Tolmezzo uno dei centri
minori più attivi nel territorio della Repubblica di Venezia: l’arresto delle attività produttive riaprì nuovamente le vie
dell’emigrazione per molti tolmezzini.
I terremoti distruttivi del ‘900
La regione carnica fu interessata nel secolo scorso da un primo forte evento il 27 marzo del 1928 con epicentro
nell’alta val d’Arzino e nella zona Cavazzo Carnico, Tolmezzo, Verzegnis con 11 morti, 40 feriti, molti crolli di edifici
e gravi danni, oltre a numerosissime frane. Nell’accurato lavoro di raccolta di preziosi dati documentali fatto da Gortani
[1928] compaiono anche molte fotografie di edifici crollati o lesionati, di frane e di fenditure nel terreno, drammatiche
immagini anche perché, se non fosse per gli abiti delle persone ritratte, esse sarebbero indistinguibili da quelle scattate
dopo il 6 maggio 1976. Il meccanismo focale del terremoto di Verzegnis è di tipo trascorrente con magnitudo stimata
5,6; la scossa principale durò, fortunatamente, solo 7 secondi, ma fu percepita in tutta l’Italia nord-orientale.
Il secondo evento è il grande terremoto “di Gemona” o “del Friuli” del 6 maggio 1976 (IX°-X° MCS, di magnitudo
6,4 e durato per quasi 60 interminabili secondi), che aprì una lunga sequenza sismica di oltre un anno con almeno 400
repliche [Slejko et alii, 1999]; fra queste spiccano la replica dell’11 settembre, quella delle ore 5.15 del 15 settembre e
quella delle ore 11.21 dello stesso giorno, con magnitudo 6,1. Queste tre, e soprattutto l’ultima, violentissima, che
provocò altre 13 vittime, diedero il colpo di grazia a molti edifici lesionati e puntellati, primo fra tutti il Duomo di
Venzone.
La sorgente sismogenica dell’evento del 6 maggio è stata individuata nel sovrascorrimento Susans-Tricesimo; per il
sisma principale del 15 settembre viene ipotizzato un sovrascorrimento cieco (l’estremità superiore della faglia non è
ancora apparsa in superficie) sotto Trasaghis [Galadini et alii, 2005]. Il volume crostale in cui rientra la maggior parte
degli ipocentri della sequenza 1976-1977, compresi gli eventi principali, si trova tra i 5 e gli 11 km di profondità ed è
centrato esattamente sotto Gemona [Peruzza et alii, 2002; Poli et alii, 2002].
22
Le 978 vittime, gli oltre 2.400 feriti, i 189.000 senzatetto, le 17.000 abitazioni distrutte e una quindicina di comuni
con crollo di edifici fra il 50 e il 90%, migliaia di frane e danni per oltre 4.400 miliardi di lire (al valore del 1976) danno
un’idea della grandiosità degli effetti sul contesto antropico e sull’ambiente naturale [CNEN-ENEL, 1976; Martinis et
alii, 1977; Strassoldo R., Cattarinussi, 1978; Cattarinussi et alii, 1981; Geipel, 1982; 1986; Barbina, 1983; Fabbro,
1986; Doglioni et alii, 1994; Zanferrari, Crosilla, 1997; e relative bibliografie]. L’area epicentrale, estesa per 900 kmq,
comprendeva molti comuni dell’area del bacino tilaventino, in particolare la maggior parte di quelli in cui si sfiorò il X°
MCS: Forgaria, Buia, Montenars, Osoppo, Magnano, Moggio, Trasaghis, Gemona, Venzone, solo per ricordare i
maggiori. Viceversa, comuni confinanti con questi, come Cavazzo Carnico (VIII° MCS) e Tolmezzo (VII-VIII° MCS)
ebbero danni decisamente inferiori: le case ricostruite o rinforzate dopo il terremoto del 1928 con le rudimentali
tecniche antisismiche di allora, non erano crollate, evitando così le stragi dei comuni vicini, che non avevano avuto la
“fortuna” di essere stati colpiti da un sisma precedente.
Gli eventi futuri e la difesa dai terremoti
Dopo terremoti distruttivi come quelli del 1976, nonostante la tendenza alla rimozione psicologica dell’evento e dei
suoi tragici effetti, prima o poi si torna alle domande: Accadrà ancora?, Quando?, che sottintendono altri angosciosi
quesiti: Quali saranno le conseguenze?, Potremo difenderci?.
La risposta alla prima domanda è scontata: i processi geodinamici a scala continentale e quelli tettonici alla scala
regionale che hanno generato il sisma precedente, così come gli altri più antichi, sono in piena evoluzione. Lo provano
le misure topografiche con metodi tradizionali o satellitari, le registrazioni sismometriche, le analisi tettonico-strutturali,
paleosismologiche e geoarcheologiche, dalle quali si evince che una data faglia si è mossa violentemente in tempi
recenti, addirittura storici. Necessariamente le faglie sismogeniche esistenti saranno prima o poi riattivate; alla scala del
tempo geologico nuove faglie in futuro si individueranno e poi si riattiveranno ripetutamente, così come le più vecchie
sorgenti finiranno per disattivarsi.
La domanda “Quando?” invece non ha risposta, se questa deve individuare un momento definito. Il sismologo e gli
altri specialisti possono però stabilire, per un terremoto di una data magnitudo, un tempo medio e indicativo ( il periodo
di ritorno), la cui maggiore o minore durata, misurata in centinaia o migliaia di anni e ricavata dai cataloghi e dalle
indagini paleosismologiche, dà l’indicazione della probabilità che si ripresenti quel dato terremoto.
Le risposte agli ultimi due quesiti dipendono solo da noi, dalla nostra capacità di realizzare una difesa dai terremoti
preventiva. Per questo è necessario dotarsi di una normativa antisismica adeguata; di applicarla rigorosamente nella
costruzione dei nuovi edifici e nel recupero degli esistenti; di riconoscere le aree soggette a terremoti distruttivi e di
definirne i parametri di pericolosità e di rischio.
La normativa esiste; la sua applicazione rigorosa è anche un fatto deontologico…; infine, la definizione della
pericolosità e del rischio sismico è un aspetto in continuo aggiornamento e approfondimento da parte della comunità
scientifica nazionale, consapevole che si tratta di salvare vite, di risparmiare sofferenze e di salvaguardare imponenti
risorse economiche.
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Lavori citati
Barbina G., I terremoti del Friuli nel 1976. Bilancio di un’esperienza, in “Orizzonti economici”, 37, 1983, pp. 83-85.
Bini A. et alii, Southern Alpine Lakes – Hypothesis of an erosional origin related to the Messinian entrenchment, in
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Boschi E. et alii, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980, Istituto Nazionale di Geofisica, SGA,
Bologna 1995.
Boschi E. et alii, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990, Istituto Nazionale di Geofisica, SGA,
Bologna 1997.
Cantelli C. et alii, Sommersione delle piattaforme e rifting devono-dinantiano e namuriano nella geologia del Passo di
M. Croce Carnico, in Castellarin A., Vai G.B. (a cura di), Guida alla geologia del Sudalpino centro-orientale,
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Carulli G.B. et alii, L’Eocene di M. Forcella (Gruppo del M. Amariana, Carnia Orientale), in “Memorie della Società
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Cattarinussi B. et alii, Il disaster: effetti di lungo termine. Indagine psicosociologica nelle aree colpite dal terremoto del
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