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Gli inchiostri ferrogallici negli archivi e nelle biblioteche

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Gli inchiostri ferrogallici negli archivi e nelle biblioteche
Gli inchiostri ferrogallici negli archivi e nelle biblioteche
Daniele Ruggiero
Laboratorio di fisica dell’Istituto per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio
Archivistico e Librario
Liberamente tratto dall’Agenda 2004 della Direzione Generale per gli Archivi, Servizio
documentazione e pubblicazioni archivistiche: “… Il patrimonio documentario italiano è uno dei
più importanti del mondo e alla sua conservazione è preposta l’Amministrazione archivistica, che
si avvale di una rete di Archivi di Stato e di Soprintendenze archivistiche.
Agli Archivi di Stato (Archivio Centrale dello Stato, 103 archivi periferici e 35 sezioni) è affidata la
conservazione degli archivi degli organi centrali e periferici dello Stato, preunitari e postunitari, e
degli archivi che lo Stato abbia in proprietà o in deposito.
Le 20 Soprintendenze archivistiche esercitano la vigilanza sugli archivi degli enti pubblici e sugli
archivi privati dichiarati di notevole interesse storico.
Gli Archivi, oltre alla documentazione statale, unitaria e preunitaria risalente all’Alto Medioevo,
conservano gli archivi notarili anteriori agli ultimi cento anni e gli archivi di quegli enti
ecclesiastici e corporazioni religiose che, a seguito di soppressione, ebbero i beni confiscati dallo
Stato. Possono ricevere in deposito archivi degli enti pubblici (regioni, province, comuni, enti
pubblici non territoriali) e archivi privati (di famiglie, di persone, di impresa, di istituzioni), che
possono essere acquisiti dallo Stato anche per acquisto, per donazione, per lascito.
La documentazione conservata negli istituti archivistici consta di circa un milione di pergamene
sciolte (oltre a quelle frammiste ad altra documentazione in varie serie archivistiche) e di circa otto
milioni di unità tra buste, filze, mazzi, fasci, volumi e registri, per un totale non calcolabile di
singoli documenti cartacei e pergamenacei. L’insieme del materiale occupa circa 1.500.000 metri
lineari.”
Come si vede una immensa quantità di materiale documentario, di cui una grossa percentuale è
manoscritto prevalentemente con inchiostro ferrogallico.
E’ stata scritta, ad esempio, con inchiostro ferrogallico la lettera che Galileo Galilei inviò
nell’agosto del 1609 al Senato della Repubblica di Venezia per presentare il cannocchiale di sua
creazione (conservata all’Archivio di Stato di Venezia) (fig. 1) così come lettera del 1797,
certamente meno importante della precedente, di accompagnamento di 52 anolini, di cui lo
scrivente dà anche la ricetta del ripieno (conservata all’Archivio di Stato di Piacenza) (fig. 2).
Fig. 1: Lettera di Galileo Galilei al Senato della
Repubblica di Venezia per presentare il
cannocchiale di sua creazione, agosto 1609 (A.
S. Venezia, Senato, Deliberazioni terra).
Fig. 2: Lettera di accompagnamento di 52 anolini
da parte di Giuseppe Canesi alla marchesa Landi
Scotti, 26 aprile 1797. Nella lettera lo scrivente
dà anche la ricetta del ripieno: formaggio
stagionato, uova, pane raffermo, midollo di
manzo e cervellato, un tipo di salsiccia locale (A.
S. Piacenza, Archivio Scotti Douglas da Fombio
e da Sarmato).
Questa notevole quantità di documenti manoscritti ha attraversato i secoli e si presenta oggi nelle
più disparate condizioni, vuoi per la qualità dei vari costituenti i documenti stessi (carta, inchiostro,
legature, etc.), vuoi per l’azione dei fattori esterni (temperatura, umidità, luce, inquinanti
atmosferici, contenitori, etc.).
Gli inchiostri ferrogallici sia per la loro produzione artigianale, sia perché costituiti da sostanze
naturali di composizione variabile non sono mai uno identico all’altro e si presentano oggi nelle più
differenti tonalità di colore (dal nero intenso, al bruno ruggine, spaziando dal bruno scuro al giallo
debole, al rossiccio) e diverso è anche l’effetto che nel corso del tempo essi hanno esercitato sul
supporto1.
Ma cos’è un inchiostro ferrogallico? Le pagine che seguono cercano di rispondere a questa
domanda, anche con l’aiuto di numerose ricette antiche.
Anticamente l'inchiostro era una semplice miscela di carbone di legna polverizzato in acqua a cui
talvolta era aggiunto un agente con funzione addensante e legante delle particelle di carbone
1
D. DORNING, Iron Gall inks: variations on a theme that can be both ironic and galling, The Iron Gall Ink meeting,
4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne, The University of Northumbria, 2001, pp. 7-11
2
(gomma arabica2, colla ricavata da corna di bue e di rinoceronte, colla di pesce3, albume d’uovo,
miele, olio di semi di lino, olio d’oliva).
Fig. 3: Scaglie di gomma arabica.
Successivamente il carbone di legna venne sostituito dal nerofumo un prodotto di origine artificiale,
di cui si distinguono due principali varietà:
• il nero di resina ottenuto dalla combustione di radici di conifere o per calcinazione della
colofonia4
2
La gomma arabica è il prodotto di secrezione di alcune acacie (famiglia Leguminose) diffuse in Africa; le più sfruttate
sono l’Acacia Senegal che cresce nella fascia geografica che va dal Senegal al Mar Rosso e in India e l’Acacia Seyal del
sud del Sahara. La gomma arabica viene prodotta dagli alberi a seguito di un processo naturale chiamato “gommosi”
finalizzato a rimarginare o riempire le ferite che vengono provocate sulla corteccia producendo gomma. Questo
processo dura circa dalle 3 alle 8 settimane. La gomma arabica si ottiene sotto forma di gocce che induriscono e
possono poi essere polverizzate oppure si può ottenere un prodotto in scaglie (fig. 3) dopo averle disperse in acqua ed
essiccate.
Chimicamente è un polisaccaride di peso molecolare 250.000-300.000.
L’uso della gomma arabica ha una lunga storia. Sappiamo che gli Egiziani l’usavano come addensante in cosmesi e per
la mummificazione.
3
La colla di pesce è tra le colle animali più pure, cioè costituite quasi esclusivamente da collagene e da quantità minori
di sostanze non proteiche organiche ed inorganiche (sali, etc). Rientra nel gruppo delle gelatine.
4
La colofonia è una resina naturale che è stata impiegata per la collatura in pasta della carta a partire dal 1807. E
costituita dal residuo solido della distillazione in corrente di vapore di svariate oleoresine presenti in alcune specie di
pino; il distillato è l’essenza di trementina (acqua ragia vegetale) largamente impiegata come solvente, sgrassante e
detergente.
Chimicamente è una miscela di acidi organici, principalmente acido abietico (C20H30O2), un derivato di terpenico che
contiene un gruppo acido –COOH e due doppi legami coniugati, i più reattivi della molecola.
H3C
COOH
CH3
CH3
CH
H3C
Acido abietico
3
• il nero di lampada (lamp black) proveniente dalla combustione di sostanze che erano impiegate
come combustibile per le lampade (pece, olio di semi di lino o di canapa); poteva contenere residui
di olio che rendevano difficoltosa la sua dispersione in acqua, motivo per cui alcune ricette
raccomandavano il degrassaggio del carbone.
E’ talvolta citato il nero di vite, ottenuto dalla combustione del legno di vite, avente un sotto-tono
bluastro e potere coprente non elevato e il nero d’avorio, ottenuto dalla combustione dell’avorio e/o
ossa di animali, avente sotto-tono bluastro e buon potere coprente. Quest’ultimo contiene fosfati e
carbonato di calcio.
La combustione veniva effettuata, in presenza di pochissima aria (combustione incompleta), in
recipienti di terracotta sormontati da coni destinati a raccogliere il denso fumo che, mediante
passaggi in serpentine depositava una polvere nera, a granulometria sottile ed uniforme, vellutata e
leggera.
L'inchiostro al carbone o al nerofumo possedeva la preziosa proprietà di non essere aggressivo nei
confronti del supporto grazie alla inerzia chimica del carbonio; oltretutto le particelle di inchiostro
non si alteravano nel tempo e non sbiadivano alla luce. Purtuttavia la presenza di umidità poteva
provocare l'insorgere di macchie e inoltre l’inchiostro, non penetrando in profondità, poteva essere
rimosso dal supporto anche per semplice abrasione.
L'opera di cancellazione di pergamene manoscritte fu particolarmente diffusa fra il VII e il XII
secolo d.C. quando i monaci si servirono di pergamene recanti testi classici per trascrivervi testi
teologici e liturgici, i cosiddetti "palinsesti". Ad esempio il paleografo cardinale Angelo Maj in un
palinsesto del VII secolo d.C. intitolato "Commento ai Salmi di Sant'Agostino", conservato nella
Biblioteca Ambrosiana di Milano, rinvenne nel 1820 tracce di una scrittura sottostante che si scoprì
appartenevano al “De Republica” di Cicerone (I secolo a.C.).
Per ovviare alla facilità di rimozione venne aggiunto del solfato ferroso il quale molto solubile in
acqua penetrava in profondità nella carta e produceva nel tempo incrostazioni marroni, dovute alla
formazione di ossidi di ferro, difficili da eliminare. Ma l’aggiunta di questo sale, in quantità in certi
casi troppo abbondanti, comportava che il marrone degli ossidi di ferro si sovrapponeva al nero
delle particelle di carbone rendendo più tenue il colore dell’inchiostro.
Solo quando si conobbe la reazione tra tannino e sale di ferro che dava luogo a particelle nere si
poté ovviare a questo inconveniente, ottenendo una miscela di inchiostro al nerofumo e ferrogallico.
E’ dunque questa una delle ipotesi sulla nascita degli inchiostri ferrogallici la cui diffusione ebbe
inizio nel medioevo anche se non mancano testimonianze antecedenti. Filone di Bisanzio nel III
secolo a.C. scrive di un inchiostro simpatico costituito da estratti di noci di galla che rimaneva
invisibile finché il foglio di carta non veniva immerso in una soluzione di sali di ferro e solo allora
la scrittura assumeva il colore nero. Plinio il Vecchio (I secolo a.C.) nella sua “Naturalis Historia”
descrive un metodo per distinguere l’adulterazione del verdigris (acetato basico di rame,
Cu(CH3COO)2 . 2Cu(OH)2), utilizzato nel processo di lavorazione della pelle, con il più economico
solfato ferroso (FeSO4 . 7H2O): “La frode può venir rivelata per mezzo di una foglia di papiro che è
stata inzuppata in una infusione di noci di galla: essa diviene immediatamente nera se gli viene
applicato verdigris adulterato……..”.
Fino al XII secolo i manoscritti dell'Europa occidentale che descrivono la preparazione degli
inchiostri da scrivere sono molto scarsi. Si può presumere che l'inchiostro era preparato
direttamente dagli scribi nelle biblioteche o dentro le mura dei conventi; le ricette sono difficilmente
filtrate nel mondo esterno e sono state trasmesse da un amanuense all'altro senza lasciare tracce
scritte.
In Europa la prima descrizione dettagliata sulla fabbricazione degli inchiostri ferrogallici è quella
che ci ha lasciato il monaco tedesco Teofilo, vissuto tra l’XI e il XII secolo, nel suo trattato
Questi gruppi tendono ad ossidarsi facilmente nel tempo per azione dell’umidità, della luce e degli agenti inquinanti con
conseguente imbrunimento e opacizzazione.
4
“Schedula Diversarum Artium” dove precisa che le materie prime da impiegare sono la corteccia
essiccata e polverizzata di alcune piante ed il vetriolo verde (sale di ferro).
Nei secoli XIV, XV e XVI Firenze è al primo posto in Europa nella produzione degli inchiostri che
ebbero una larga diffusione.
Una ricetta di Pietro Maria Canepario contenuta nel trattato “De atramentis cuiscumque generis”
del 1619 descrive in dettaglio la metodologia di preparazione dell’inchiostro: “Si mescolino per
quattro giorni, quattro libbre di vino bianco, un bicchiere di aceto fortissimo e due once di galla
fratturata. Poi si cuociano al fuoco fino alla evaporazione di un quarto di essi. Dopo si colino e
alla colatura si può aggiungere due once di gomma arabica tritata e mescolando bene bene si
rimettano al fuoco perché bolla il tempo necessario di dire tre ”Pater noster”. Quindi si tolga dal
fuoco e si aggiungano tre once di vetriolo romano tritato mescolando continuamente con un
bastoncino finché sia quasi freddo. Quindi si riponga in una coppetta di vetro che deve essere
tenuta ben riparata dalla luce e dall’aria. Dopo che sia stato bello per tre giorni completi si coli e
si usi.”
Gli ingredienti principali dell’inchiostro ferrogallico erano i seguenti: tannino, vetriolo (solfato
ferroso), solvente e legante.
I tannini sono molto diffusi nel regno vegetale. Tra le loro proprietà si ricorda il gusto astringente
(che conferiscono, ad esempio, al vino anche se la loro presenza è indispensabile per garantirne la
longevità), la capacità di formare complessi con i sali di ferro di colore nero, bruno scuro o verde, la
capacità di dare precipitati con soluzioni di gelatina, l’attitudine a proteggere la pelle animale dalla
putrefazione (processo di concia).
Chimicamente sono dei polifenoli5 ad alto peso molecolare (da 500 a 2000) e si dividono in:
- tannini idrolizzabili
- tannini condensati.
I tannini idrolizzabili si dividono a loro volta in:
- gallotannini, che per idrolisi danno acido gallico e glucosio
- ellagitannini che per idrolisi formano una piccola quantità di acido gallico e, soprattutto, acido
ellagico, acidi di altra natura e glucosio.
Della famiglia dei gallotannini, l’acido tannico (fig. 4) è stato il più utilizzato nella fabbricazione
degli inchiostri. L’acido tannico consiste in una molecola di glucosio con cinque gruppi di acido
gallico o di acido di-gallico6.
5
I polifenoli sono molecole che contengono anelli benzenici nella loro struttura e almeno uno di questi anelli presenta
due o più gruppi ossidrilici.
6
V. DANIELS, The chemistry of Iron Gall ink, The Iron Gall Ink meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne,
The University of Northumbria, 2001, pp. 31-35
5
Fig. 4: Formula di struttura dell’acido tannico di formula bruta C76H52O46 (da V. DANIELS , The
chemistry of Iron Gall ink, The Iron Gall Ink meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne,
The University of Northumbria, 2001, pp. 31-35).
E’ presente in numerose materie vegetali, in elevata percentuale in alcuni tipi di noci di galla7.
Queste sono escrescenze di varia forma e grandezza (fig. 5, 6) che si formano su alcune parti di
piante (foglie, giovani rami, gemme) in seguito alla puntura che taluni insetti vi fanno allo scopo di
depositare le loro uova. La pianta reagisce alla ferita sviluppando tutto intorno un tessuto legnoso,
più o meno ricco in tannino e a forma più o meno tondeggiante, dove le uova si schiudono e si
compiono le metamorfosi dell’insetto. Preferite a parità di altre condizioni, perché più ricche in
tannino, sono quelle in cui le uova non sono ancora schiuse, oppure l’insetto è all’inizio della sua
vita larvale. Le noci di galla in cui l’insetto è ancora presente, più ricche in tannino, si chiamano
“galle blu”, quelle nelle quali l’insetto se ne è andato “galle bianche”. Queste ultime si riconoscono
per via del foro di uscita dell’insetto. Nel passato commercianti truffaldini hanno provato a
spacciare le galle bianche per le migliori galle blu chiudendo in qualche maniera il foro di uscita.
7
T. OZAWA, Isolation and characteristics of new phenolic glycosides of chestnut galls, in "Agric. Biol. Chem.", n. 41,
1977, pp. 1249-1256
6
Fig. 5: Noce di galla in una quercia.
Fig. 6: Noci di galla.
Le più frequentemente citate nelle ricette antiche sono:
• le galle di Aleppo o “noci di galla di Turchia”, molto ricche in tannino, prodotte dalla puntura
della Cynips tinctoria sulle gemme della Quercus infectoria della famiglia delle Fagaceae, che si
trova generalmente nel vicino Oriente, in Africa del Nord e nell’Europa meridionale8. La femmina
dell’insetto fora le gemme e depone lì le sue uova. La puntura provoca la formazione delle galle
nelle quali le uova si schiudono e fuoriescono le larve che poi diverranno insetti adulti
• le galle di Cina, anch’esse ricche in tannino e chimicamente simili alle precedenti, prodotte dalla
puntura dell’Aphis chinensis sulle foglie della Rhus semialata, della famiglia delle Anacardiaceae,
diffusa in Cina e Giappone. L’Aphis chinensis è un pidocchio che punge la foglia col suo rostro e
depone della saliva i cui costituenti contribuiscono a formare la galla.
Pure le galle ungheresi ed istriane fornivano escrescenze abbastanza buone, mentre le galle inglesi
erano considerate di qualità inferiore.
Moderni metodi di estrazione hanno mostrato che le galle di Aleppo contengono dal 53 al 70% di
acido tannico e un 2-4% di acido gallico, le galle di Cina dal 50 al 60% di acido tannico, le galle
inglesi fino ad un massimo del 36% di acido tannico e dallo 0 all’1,5% di acido gallico9. Come si
può notare si hanno percentuali variabili anche all’interno di una stessa specie, valori che
dipendono, tra l’altro, dall’epoca della raccolta.
Altre fonti di sostanza tannica sono:
• le vallonee, ossia le cupole delle ghiande di alcune querce10
• il legno e la corteccia della quercia11 e del castagno12
• la scorza della melagrana13.
8
M. IKRAM, F. NOWSHAD, Constituents of Quercus infectoria, in "Planta Med.", n. 31, 1977, pp. 286-287
9
F. CAPASSO, R. DE PASQUALE, G. GRANDOLINI, N. MASCOLO, Farmacognosia. Farmaci naturali, loro
preparazioni ed impiego terapeutico, Spinger Verlag, 2000
10
Le cupole delle ghiande sono formate dal calice ricoperto di squame di forma concava e rivestite all'interno di peluria
grigia. Nel frutto completo la cupola con le squame costituisce circa l'80% in peso e la ghianda il rimanente; contiene
circa il 30% di sostanza tannica.
11
Tutte le querce possiedono corteccia più o meno ricca in sostanza tannica a seconda della specie, del luogo e del
modo di coltivazione, dell'età. Il contenuto di sostanza tannica può variare dal 5 al 17%.
12
A seconda dell'età e della provenienza, la corteccia del castagno contiene fino al 12% di sostanza tannica.
13
La scorza della melagrana costituisce circa 1/5 del frutto e contiene sino al 28% di materia tannica.
7
E’ oramai accertato che il colore dell’inchiostro ferrogallico è fornito dal complesso di pirogallato
ferrico ottenuto per reazione tra l’acido gallico (fig. 7) e il solfato ferroso. L’acido gallico era
presente in piccola quantità nelle materie vegetali di partenza, ricche invece di acido tannico, ma
aumentava nel corso del processo di fabbricazione.
La bollitura delle noci di galla frantumate favoriva, infatti, oltre all'estrazione dell'acido tannico, la
sua trasformazione per idrolisi in acido gallico e glucosio14. L'eventuale aggiunta di acido (vino,
aceto, acido cloridrico) favoriva, ovviamente, questo processo.
Fig. 7: Formula di struttura dell’acido gallico, di formula bruta C6H2(OH)3COOH, costituito da un
anello benzenico a cui sono legati tre gruppi ossidrilici e un gruppo carbossilico.
L’idrolisi dell’acido tannico poteva essere ottenuta anche lasciando la soluzione di tannino esposta
all'aria; si sviluppavano muffe (Aspergillus niger, Pennicillium glaucum) sulla superficie e gli
enzimi rilasciati favorivano l’idrolisi dell’acido tannico ad acido gallico e glucosio. Varie ricette,
infatti, raccomandavano una "fermentazione del decotto di noci di galla di almeno dieci giorni".
Talvolta invece le muffe erano ritenute nocive e venivano combattute, in special modo quando lo
sviluppo della chimica permise l’uso degli antisettici. Un ricercatore tedesco, nella seconda metà
del 1800, afferma a tale riguardo: ”In accordo agli esperimenti che sono stati recentemente
completati a Berlino e Liepzig da un gruppo di batteriologi tedeschi, risulta che i comuni inchiostri
pullulano letteralmente di bacilli pericolosi; i batteri sono sufficienti ad uccidere nel giro di 1-3
giorni un topo o un coniglio a cui vengono inoculati”.
C'è comunque da considerare che, vista la natura prevalentemente organica dei componenti,
l'inchiostro era facilmente soggetto ad alterazioni provocate dai microrganismi, i quali trovavano in
tali sostanze organiche il mezzo necessario al loro sviluppo. L'inchiostro lasciato all'aria spesso si
ricopriva di una muffa bianca diventando denso, filante e si formava una sostanza mucillagginosa
che si depositava sul fondo del recipiente trattenendo le particelle di inchiostro che veniva pertanto
14
E. HASLAM, Chemistry of Vegetable Tannins, Academic Press, New York, 1966
L. JURD, The hydrolyzable tannins, Wood Extractives, ed. W. E. Hills, New York, Academic Press, 1974, p. 405
F. FLIEDER, R. BARROSO, C. ORUEZABAL, Analyse des tannins hydrolysables susceptibles d'entrer dans la
composition des encres ferro-galliques, ICOM Committe for Conservation 4th Triennal Meeting, Venezia, 1985, pp. 116
8
decolorato. L'aggiunta di aceto, canfora, chiodi di garofano o succo d'aglio aveva appunto la scopo
di migliorare la conservabilità dell'inchiostro.
Il solvente più frequentemente utilizzato era l’acqua piovana, cioè l’acqua più pura che si poteva
generalmente trovare; qualche volta veniva menzionata l’acqua di fiume o di sorgente. Una ricetta
tratta dal “Libro di ricette medicinali” del XV secolo conservato nella Biblioteca Laurentiana di
Firenze consiglia “A far inchiostro da scrivere togli 24 libbre d’acqua piovana, 2 libbre di galla
pestata, riscalda insieme tanto che rientri per metà, poi cola in una stamegna e ritornala al fuoco e
quando bolle metti dentro una libbra di gomma e levala dal fuoco e mettigli una libbra di vetriolo e
mezzo bicchiere di vino, poi la metti al sereno e lascia stare quattro dì e quattro notti, poi cola e
avrai buon inchiostro”. Anche nello “Zibaldone di ricette e segreti di alchimia, di chimica per arti
e mestier diversi, e di medicina umana e veterinaria” scritto nel XV secolo da Ioanne de Toleto e
conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze si trovano numerose ricette che consigliano
l’impiego dell’acqua piovana, come ad esempio: “..... libbre dieci di vino bianco sottile e libbre
cinque di acqua piovana e a ogni libbra di vino once due di galla ben pesta e polverizzata e tutto
metti in un vasello netto, aggiungi oncia una di gomma arabica chiara e polverizzata e oncia una di
vetriolo”. E ancora una ricetta del XVII secolo tratta dal manuale “Les secrets du Seigneur
Piemontais” raccomanda “Prendi una libbra e mezzo di acqua piovana, insieme a 3 once di galla,
rompile a piccoli pezzi e mettile in uso nell’acqua suddetta, lasciale due giorni al sole, poi aggiungi
due once di vetriolo romano, pestalo bene e mescola il tutto insieme molto bene e lascia ancora al
sole altri due giorni. Finalmente aggiungi un’oncia di gomma arabica messa in polvere e un’oncia
di scorza di melograno, poi fai un po’ bollire a fuoco lento, poi conservali in vasellame di piombo
di vetro”.
L’acqua, contenendo in soluzione vari elementi, poteva dar luogo a prodotti con caratteristiche
diverse. Per esempio, acque contenenti idrogeno solforato potevano dare precipitati dei sali di ferro;
acque contenenti sostanze organiche potevano facilitare l’ammuffimento dell’inchiostro.
Molto popolare era anche il vino, di solito bianco.
Gli scribi nel Medioevo apprezzavano il vino perché secondo loro rendeva le scritture più
permanenti. Il testo che segue è esplicito: "E sappi che l'inchiostro preparato con il vino è buono
per scrivere libri di scienza perché quando i libri sono scritti con esso le lettere non possono essere
cancellate, né raschiate né dalla carta né dal papiro".
Una ricetta tratta dal manoscritto di Jehan Le Bègue del XV secolo, trascritto in “Original
Treatises” di Merrifield consiglia l’impiego di ottimo vino rosso o bianco per scrivere
particolarmente i libri: “Per fare un buon inchiostro per scrivere particolarmente i libri prendi
quattro bottiglie di ottimo vino rosso o bianco e una libbra di galla poco fratturata, poni questo nel
vino e ci stia per dodici giorni e mescola ogni giorno con un bastoncino. Il dodicesimo giorno filtra
con un pezzo di lino fine e versa in un pentolone sterilizzato e riscalda finché non bolla. Poi leva
dal fuoco e quando si sia raffreddato tanto da essere tiepido poni quattro once di gomma arabica
ben lucida e bianca e agita con un bastoncino. Poi aggiungi mezza libbra di vetriolo romano e
agita bene sempre con un bastoncino finché tutto sia ben amalgamato, fai raffreddare e sarà pronto
per l’uso.....”.
Singolare è la ricetta del 1555 del chimico alchimista Alessio Piemontese, il quale consiglia di
soffriggere le noci di galla, frantumate in tre o quattro pezzi, in padella con un poco di olio prima di
metterle a macerare nel vino bianco.
“A' fare inchiostro, o tinta da scrivere in tutta perfettione.
Pigliate galletta buona, e rompetela in tre o quattro parti l'una, cioè soppesatela cosi grossamente
e mettetela in una padella di ferro, con un poco d’olio e fatela cosi soffriggere un poco, e di essa
pigliate poi una libbra, mettetela in una pignatta invetriata, e sopra mettete vin bianco, tanto che
sopravanzi un buon palmo o più. Poi abbiate mezza libbra di gomma arabica, ben pestata, e
mettetela con detto vino e galla, et da poi mettete once otto di vetriolo ben pestato, e mescolate
bene ogni cosa, e tenetelo al sole alquanti giorni, rimescolando più spesso che potete. Poi fatelo
bollire un pochetto se vi par che n'abbia bisogno, colatelo, che sarà perfetto. E sopra quelle fecce
9
che rimangono nella pignatta, potete metter nuovo vino, e far bollire un poco, poi levarlo via e
colarlo, e di nuovo sopra le medesime fecce aggiungere altro vino, e bollire, e colare, e cosi far
tanto che vediate che il vino che mettete non si tinga più, e questi vini mescolate tutti insieme, et poi
aggiungetevi galla, gomma e vetriolo nuovi, secondo che faceste da principio, e tenete al sole, e
bollite, e avrete inchiostro miglior che il primo. E cosi potrete venir facendo sempre, onde quanto
più berrete più l'avrete buono, e con manco spesa. E se l'inchiostro fosse troppo spesso che non
corresse mettetevi un poco di lessia chiara, che lo farà corrente, se fosse troppo corrente che
restasse svanito, e come rognoso nella carta, e mal lustro, aggiungetevi gomma arabica.
La galletta vuol`essere minuta, crespa e soda di dentro per esser buona. Il vetriolo vuol`esser di
buon colore celeste di dentro. E la gomma vuol`esser di color chiaro, fragile, cioè che pestandola
vada in polvere, e non si attacchi.”
Lo scienziato Lewis nel trattato “Commercium Philosophico-Technicum” (Londra, 1773) stabilisce
che “Il vino bianco dava un colore migliore all’inchiostro appena fatto; questo effetto era più
pronunciato con l’aceto” e racconta “Ho provato a fare un inchiostro con del vino francese e
secondo me, l’odore piacevolmente alcolico è probabilmente la ragione del suo uso frequente. Visto
che gli odori colpiscono il cervello, sarà giusto suggerire di usare l’aceto come solvente quando si
scrive a un medico e il vino quando si scrive ad un amico”.
L’alcool dava numerosi vantaggi, tra cui:
• migliore estrazione dei tannini dalle sostanze vegetali e leggero aumento della solubilità
dell’acido tannico15
• migliore penetrazione dell’inchiostro nella carta
• migliore conservazione della gomma arabica
• azione protettiva contro muffe e batteri
• una più veloce asciugatura della scrittura con la contropartita di una più rapida evaporazione
dell’inchiostro nel calamaio.
Viene citato anche l’aceto che funge più da antisettico che da solvente; infatti è di solito presente in
ricette dove il solvente principale è l’acqua e raro in quelle dove è presente il vino. L’aceto viene
talora consigliato, aggiunto all’acqua o al vino, per rendere l’inchiostro meno denso.
Per proteggere l’inchiostro dal gelo si raccomandava di aggiungere acquavite, brandy o spirito il
che provocava d’altronde una più veloce evaporazione nei contenitori e sulla carta. Se aggiunto
prima o durante la bollitura delle noci di galla, l'alcool tendeva a volatilizzare per cui non poteva
più esercitare l'azione protettiva. Alcune ricette menzionano a tale scopo l'aggiunta di sale; è noto
infatti che il sale abbassa il punto di congelamento di una soluzione acquosa, fenomeno noto come
abbassamento crioscopico.
Per la produzione dell’inchiostro l’acido tannico veniva fatto reagire con il solfato ferroso.
Quest’ultimo, il più importante composto del ferro bivalente16, è un sale verde chiaro che
cristallizza con sette molecole di acqua di idratazione. Il solfato ferroso allo stato naturale è citato in
alcuni dizionari chimici come melanterite17 che rappresenta il sale idrato; nelle ricette antiche sugli
inchiostri e i pigmenti è citato, invece, col nome di vetriolo verde o copperas. A seconda di dove era
situata la miniera, il solfato ferroso poteva contenere concentrazioni più o meno elevate di altri
solfati (rame(I), manganese, zinco e alluminio). Nel minerale è presente anche solfato ferrico,
prodotto di ossidazione del sale ferroso ad opera dell’ossigeno atmosferico.
15
Oggi sappiamo che nella fermentazione degli zuccheri per la produzione di vino, birra o aceto si forma, tra l'altro, la
glicerina. Questa sostanza favorisce l'estrazione dell'acido tannico dalle sostanze vegetali che lo contengono.
16
Il ferro forma composti in cui presenta stato di ossidazione +2 (composti ferrosi) e +3 (composti ferrici).
17
J. C. THOMPSON, Manuscript inks, Caber Press, Portland, Oregon, USA, 1996
10
La tab. 1 riporta la concentrazione di alcuni sali presenti in due differenti tipi di vetriolo: il vetriolo
Romanum estratto dalle miniere nei pressi di Tolfa18 in provincia di Roma e il vetriolo Goslariensis
proveniente dalla miniera di Rammelsberg vicino a Goslar in Germania19.
Formula chimica
Vetriolo romanum
Vetriolo goslarinensis
FeSO4 x 7 H2O
82%
50%
Fe2(SO4)3 x 18 H2O
6%
3%
CuSO4 x 5 H2O
2%
7%
ZnSO4 x 7 H2O
11%
MnSO4 x 5 H2O
9%
Al2(SO4)3 x 18 H2O
12%
KAl(SO4)2 x 12 H2O
10%
MgSO4 x 7 H2O
8%
Tab. 1: Percentuale di alcuni solfati presenti in due differenti tipi di vetriolo; i dati sono stati ricavati
da Krekel nel 1999 prendendo spunto dalle precedenti esperienze di Hickel del 1963 (da G.
BANIK, G. KOLBE, J. WOUTERS, Analytical procedures to evaluate conservation treatments of
iron gall ink corrosion, in “Conservation à l’ère numérique”, actes des quatrièmes journées
internationales d’études de l’ARSAG (Association pour la Recherche Scientifique sur les Arts
Graphiques), Parigi, 27-30 maggio 2002, pp. 205-217)
Il solfato ferroso, oltre ad essere estratto dalle miniere allo stato naturale, poteva anche essere
ottenuto in altri modi.
Nei tempi antichi il solfato ferroso era estratto per evaporazione dell’acqua dalle terre ferrose.
Verso la fine del XVI secolo era prodotto trattando i chiodi con l’acido solforico.
Era ottenuto anche come sottoprodotto della lavorazione dell’allume (solfato doppio di alluminio e
potassio, KAl(SO4)2 ⋅ 12 H2O) per cui conteneva sali di alluminio come principale impurezza, come
sottoprodotto del decapaggio20 del ferro e per ossidazione all’aria delle piriti ferrose (disolfuro di
ferro FeS2). In questi processi si formava anche l’acido solforico che veniva estratto con l'acqua
assieme al solfato.
Riscaldando ad alta temperatura il vetriolo verde si otteneva l’acido solforico che veniva appunto
chiamato "spirito di vetriolo".
18
Sui monti della Tolfa venne scoperta nel 1460 l'alunite, un minerale che deriva da rocce vulcaniche ricche di
alluminio sottoposte all'azione di acque termali. Chimicamente è un solfato doppio di alluminio e potassio. L'alunite si
presenta in cristalli delle dimensioni di alcuni millimetri; unico caso al mondo è proprio quello dei monti della Tolfa
dove le dimensioni arrivano anche oltre il centimetro.
Dall'alunite, mediante la sua lavorazione in forno, si ottiene l'allume. In passato, l'allume era molto importante ed
insostituibile nelle industrie tessili (come fissatore dei colori e nella lavorazione della lana), nella realizzazione delle
stampe su pergamena, nella conciatura delle pelli, nella collatura della carta in superficie con gelatina e nella collatura
in impasto con colofonia, nella produzione del vetro e in medicina (come emostatico).
19
J. G. NEEVEL, (Im)possibilities of the phytate treatment, The Iron Gall Ink meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle
upon Tyne, University of Northumbria, pp. 125-133.
Goslar si trova alle pendici dei rilievi montuosi dell’Harz che, per chi vi arriva da sud, sono l’ultimo avamposto
montagnoso prima delle grandi pianure settentrionali della Germania bagnate dal Mare del Nord e dal Baltico.
Attraversata fino a dieci anni fa dal confine che tagliava in due la Germania, grazie alla riunificazione questa regione ha
ritrovato la sua compattezza e si propone con una miriade di curiosità naturali e culturali. Secoli fa la leggenda voleva
popolate le montagne dell’Harz da un nutrito drappello di streghe. Non è un caso se proprio qui, sul monte Brocken,
Goethe ideò il personaggio di Mephisto per il suo «Faust». All’origine di molte leggende c’è la conformazione del
territorio, con singolari formazioni rocciose, grotte e antiche miniere che hanno fornito argento, rame, ferro e carbone;
molte oggi fungono da musei, in cui si scende nelle viscere della terra. La più interessante è quella di Rammelsberg
presso Goslar.
20
Trattamento del ferro con un acido per eliminare le tracce di ruggine.
11
Talvolta nella composizione dell’inchiostro era presente anche il solfato di rame, il vetriolo azzurro
anche detto di Cipro o chalcantum, sostanza da sempre comunemente utilizzata come
anticrittogamico in agricoltura.
La presenza di allume, raramente menzionato nelle ricette, rendeva l’inchiostro più pallido per via
del suo colore giallastro.
Risultava invece nero l’inchiostro contenente una elevata quantità di zinco e una significativa
presenza di manganese.
I sali utilizzati non erano mai puri e spesso erano impiegati in miscela per cui, specialmente negli
inchiostri più antichi, si possono trovare assieme il ferro e il rame e talvolta altri metalli. La
definizione “inchiostro ferrogallico” può essere ritenuta esatta in Europa solo a partire dal XVII
secolo in poi, quando si iniziò ad utilizzare esclusivamente il solfato ferroso.
Chimica degli inchiostri ferrogallici
Numerosi studi, a partire dalle esperienze dello scienziato irlandese Robert Boyle (1627-1691) e del
chimico americano Gilbert Newton Lewis (1875-1946), hanno tentato di spiegare il meccanismo di
formazione dell'inchiostro ferrogallico, ma solo recentemente si è giunti ad una formulazione
teorica precisa.
Nel 1994 Wunderlich21 riuscì ad ottenere cristalli neri impiegando cloruro ferrico e acido gallico in
un gel di silicato di sodio. Suggerì che il ferro reagisce con i tre gruppi ossidrilici e con il gruppo
carbossilico dell’acido gallico (fig. 7), originando un complesso Fe3+-acido gallico, nel rapporto
molecolare 1:1, a struttura tridimensionale. La formazione del colore nel complesso è dovuta allo
scorrimento degli elettroni di valenza nell’anello benzenico e ai legami ossigeno-ferro.
Successivamente Krekel, a seguito di numerose sperimentazioni nelle quali realizzò pigmenti neri
utilizzando la reazione tra l’acido gallico e sali di ferro diversi, asserì che il complesso che si
originava non era Fe3+-acido gallico, ma Fe3+-pirogallolo. Le sue ricerche furono pubblicate negli
atti di un meeting svoltosi nel 1997 a Ludwigsburg.
Nel 1999, poi, sviluppò la teoria attualmente accettata2 illustrata in fig. 8: l'acido gallico reagendo
col solfato ferroso forma inizialmente il gallato ferroso, un complesso debolmente colorato e
solubile in acqua.
In acqua e in presenza di ossigeno il gallato ferroso è ossidato a ferrico (non mostrato in figura).
Quindi gli ioni Fe+3 liberi, gia presenti nel solfato ferroso, catalizzano la scissione dei gruppi
carbossilici del gallato ferrico così da formare il pirogallato ferrico, un complesso ottaedrico di
colore nero violetto insolubile in acqua. Il colore nero violetto è dovuto al fatto che il pirogallato
ferrico assorbe fortemente la luce ultravioletta e visibile in un ampio campo di lunghezze d’onda.
L’inchiostro si forma, pertanto, in due stadi successivi: una reazione acido-base (secondo la
definizione di acido e base data da Lewis) seguita da una reazione di ossido-riduzione (vedi
appendice n° 1).
21
C. H. WUNDERLICH, Geschichte und chemie der eisengallustinte, Restauro, 1994, pp. 412-414
12
Fig. 8: Schema di formazione del complesso di pirogallato ferrico secondo Krekel (J. G. NEEVEL,
(Im)possibilities of the phytate treatment, The Iron Gall Ink meeting, Newcastle upon 4-5 settembre
2000, The University of Northumbria, 2001, pp. 125-133).
Quattro molecole di acqua sono incorporate nella struttura del pirogallato ferrico legate agli ioni
Fe+3 e posizionate perpendicolarmente agli ioni stessi sopra e sotto il piano dei legami ossigenoferro.
La scissione dei gruppi carbossilici del gallato ferrico porta alla formazione di anidride carbonica
che stratificata sopra l'inchiostro nel suo contenitore lo protegge da una ulteriore ossidazione22.
Nella reazione tra l'acido gallico e il solfato ferroso si forma l’acido solforico per reazione tra gli
ioni H+ e gli ioni solfato. Il basso pH dell’inchiostro, compreso tra 2 e 3, favorisce l’idrolisi acida
della cellulosa23 il cui più importante effetto è la depolimerizzazione della catena polimerica per via
dell'attacco al legame 1-4 β glucosidico che unisce le molecole di glucosio.
22
V. DANIELS, The chemistry of Iron Gall ink, The Iron Gall Ink meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne,
The University of Northumbria, 2001, pp. 31-35
Ch. KREKEL, The chemistry of Historical Iron Gall Inks, International Journal of Forensic Document Examiners,
Ottawa, 1999, pp. 54-58
J. G. NEEVEL, T. J. MENSCH CORNELIS, The behaviour of iron and sulphuric acid during iron-gall ink corrosion,
14th Triennal Meeting of ICOM, Lione 29 agosto - 3 settembre 1999, vol. 2, pp. 528-533.
23
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York, Wiley, 1971, p. 991
A. F. CLAPP, Factors Potentially Harmful to Paper: Acidity, Curatorial Care of Works of Art and Paper, Oberlin,
Ohio, Intermuseum Conservation Association, 1978 (3rd rev. ed.)
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T. P. NEVELL, Degradation of cellulose by acids, alkalis and mechanical means, Cellulose Chemistry and its
applications, T. P. Nevell & S. H Zeronian ed., New York, 1985
N. S. BAER, S. M. BERMAN, An Evaluation of the Statistical Significance of Hudson’s Acidity Data for 17th & 18th
Century Books in Two Libraries, Restaurator, n. 7, 1986, pp. 119-124
13
Altre cause di acidità sono rappresentate dalla presenza di acido solforico nel solfato ferroso e dal
fatto che talvolta per rendere più fluido l’inchiostro si era soliti aggiungere appunto un acido.
Poiché in ambiente acido la velocità di ossidazione Fe(II) → Fe(III) è molto lenta, mentre è alta a
pH alcalino, la reazione di formazione del pirogallato ferrico procede lentamente.
Pertanto l'inchiostro appena preparato non è intensamente colorato poiché contiene ancora del
gallato ferroso solubile che interferisce col colore nero-violaceo del pirogallato ferrico. Solo dopo
alcuni giorni si completa l'ossidazione per azione dell'ossigeno atmosferico e tutto il gallato ferroso
è trasformato in pirogallato ferrico.
E' questo il motivo per cui numerose ricette antiche raccomandavano la maturazione dell’inchiostro
nel contenitore per alcune settimane o l'aggiunta di indaco24, alizarina25 o carbone26 per dare una
colorazione che permetteva un suo immediato impiego. Poiché i coloranti organici sono solitamente
piuttosto instabili, probabilmente sono stati alterati dal basso valore di pH che si andava instaurando
con la formazione del pirogallato ferrico e quindi la loro influenza sul colore definitivo
dell’inchiostro è risultata molto lieve. Questo non accade invece per il carbone.
La lentezza della reazione di ossidazione in ambiente acido è comunque un fattore positivo perché
la presenza del gallato ferroso solubile fa si che l’inchiostro, comportandosi come un colorante,
riesca a penetrare più facilmente nella struttura fibrosa della carta, dando una stesura uniforme, un
tratto continuo (fig. 9, 10) e tingendo le fibre di cellulosa (fig. 11) per poi trasformarsi nel
complesso insolubile di pirogallato ferrico. Questo più intimo contatto con il supporto conferisce
all’inchiostro la solidità alla luce, la resistenza ai solventi e agli agenti esterni compresi i tentativi di
rimozione.
P. M. WHITMORE, J. BOGAARD, Determination of the cellulose scission route in the hydrolytic and oxidative
degradation of paper, Restaurator, n. 15, 1994, pp. 26-45
S. MARGUTTI., G. CONIO, P. CALVINI, E. PEDEMONTE, Hydrolitic and Oxidative Degradation of Paper,
Restaurator, n. 22, 2001, pp. 67-83
O. MANTOVANI, Degradazione del materiale cartaceo, Chimica e biologia applicate alla conservazione degli archivi,
Direzione generale per gli Archivi, 2002, pp. 298-320
24
L’indaco si ricava da numerose piante del genere Indigofera tinctoria, una specie tropicale diffusa in Asia e in
America e dalla Isatis tinctoria (nome volgare guado), pianta appartenente alla famiglia delle Crucifere) indigena nelle
regioni temperate dell’Europa.
Il guado è una specie biennale a fiori gialli; lo troviamo frequentemente lungo i bordi delle strade e in luoghi calpestati;
fiorisce da maggio a settembre.
Nelle piante il colorante blu non è presente ma esiste l’indacano (un estere del glucosio) che viene idrolizzato per
fermentazione ponendo le piante fresche a macerare con acqua e lasciando che gli enzimi presenti nella stessa pianta
agiscano. La fermentazione porta all’eliminazione del glucosio e ne risulta una soluzione giallo-verdognola che viene
agitata per favorire il contatto e l’ossidazione all’aria che porta alla trasformazione in indaco che precipita sotto forma
di fiocchi blu.
Nell’Europa medievale si sviluppò una fiorente industria intorno alla produzione dell’indaco dal guado; all’inizio del
XVII secolo, però, tale attività conobbe il declino in seguito alla competizione dovuta all’importazione dell’indaco
derivato dall’Indigofera.
25
L’alizarina è una sostanza colorante rossa estratta dalla radice di robbia (Rubia tinctorum o Rubia maior), una pianta
erbacea comune nelle siepi e tra i ruderi, diffusa nel bacino del Mediterraneo e in Asia Minore e che sembra venisse
coltivata già agli inizi del X secolo. L’alizarina fu aggiunta all’inchiostro ferrogallico solo attorno alla metà del 1800.
26
La presenza del carbone si nota meglio se esso è stato aggiunto ad un inchiostro ferrogallico molto corrosivo. I
componenti colorati derivanti dalla degradazione dell’inchiostro e della carta migrando lateralmente provocano
alonatura attorno allo scritto e migrando attraverso lo spessore del foglio di carta divengono visibili sul verso, mentre le
particelle di carbone restano in superficie sul recto del documento.
14
Fig. 9: Tratto grafico ad inchiostro ferrogallico Fig. 10: Tratto grafico ad inchiostro ferrogallico
allo stereomicroscopio (6x).
allo stereomicroscopio (20x).
Fig. 11: Colorazione delle fibre di cellulosa
(40x).
Era pertanto consigliabile che l’inchiostro venisse utilizzato appena preparato in modo che
l’ossidazione che portava alla formazione del pirogallato ferrico avvenisse solo dopo che era stato
steso sulla carta ed era penetrato al suo interno.
Indicativo a tale proposito è l’ammonimento di Giovanbattista Palatino, un autore italiano del XVI
secolo: “Tu devi versare l’inchiostro lentamente nel calamaio e non agitarlo come molti fanno,
cosicché lo hai puro, privo di depositi e prima di tutto non deve essere ammuffito. Questo è perché
chi vuole scrivere bene solitamente si prepara l’inchiostro come gli necessita e in piccola quantità
in modo da averlo sempre fresco”.
Le rare ricette degli inchiostri secchi illustrano chiaramente il problema di evitare l’ossidazione
prima dell’uso.
15
Una ricetta del monaco Teofilo relativa alla preparazione di un inchiostro secco da viaggio riporta
quanto segue: "Prendi le migliori noci di galla verdi e polverizzale bene come una pasta. Aggiungi
la stessa quantità di gomma arabica. Poi metà del loro peso di vetriolo verde. Il vetriolo
polverizzalo bene e impasta il tutto nell’albume di una o due uova. Modella l’impasto a forma di
palla e ponilo in un recipiente chiuso per evitare l’ingresso dell’aria e della polvere”. Il recipiente
doveva essere chiuso per evitare l’ingresso dell’aria poiché la reazione chimica tra il tannino e il
vetriolo non doveva avvenire prima della preparazione della soluzione d’uso. Un inchiostro così
prodotto era certamente bruno poiché l'ossidazione avveniva solo dopo la sua stesura sulla carta.
Una ricetta di Alessio Piemontese nel suo trattato “De secretis libri septern” del 1555 descrive un
modo meraviglioso di preparare inchiostri in polvere: “… Prendi quanto ti occorre di carbone di
fiamma, una porzione di carbone da noccioli di frutti, una porzione di vetriolo, due porzioni di noci
di galla, quattro porzioni di gomma arabica. Polverizzali, setacciali e miscelali bene tra di loro.
Conserva questa polvere in piccole borse di lino o cuoio perché diventerà migliore col tempo.
Quando vuoi usarla per fare l’inchiostro, prendine un poco, discioglila nel vino, acqua o aceto che
è meglio che siano caldi. Tu otterrai un inchiostro perfetto, preparato all’istante, che puoi portare
con te in ogni dove senza inzaccherarti. E se tu hai un inchiostro che non è buono, aggiungi un
poco di questa polvere ed esso diventerà all’improvviso molto nero, bello e brillante”. In questa
ricetta di nuovo l’ossidazione può partire solo quando la polvere è disciolta e pronta per l’uso;
l’inchiostro sarà nero fin dall’inizio per la presenza del carbone, ma il colore definitivo verrà
raggiunto solo dopo la sua stesura sulla carta per via della formazione del pirogallato ferrico.
Le particelle di pirogallato ferrico si trovavano in sospensione nel solvente e tendevano a riunirsi in
aggregati di maggior volume e quindi più pesanti, i quali si raccoglievano al fondo del recipiente
provocando la decolorazione dell’inchiostro. Per prolungare la stabilità della sospensione si
aggiungeva un prodotto con proprietà addensanti e leganti che, accrescendo la viscosità del mezzo
liquido, rallentava la deposizione delle particelle solide. Tale sostanza aveva, inoltre, le seguenti
funzioni:
• manteneva in sospensione e legava fra loro le particelle di pirogallato ferrico (funzione coesiva)
e le faceva aderire al supporto (funzione adesiva)
• dava viscosità all’inchiostro così da farlo scorrere bene
• riduceva la velocità con cui l’inchiostro bagna la carta, evitandone lo spandimento così da avere
un segno più nitido
• conferiva una certa brillantezza allo scritto
• operava un rivestimento dell’inchiostro che lo proteggeva dall’ambiente esterno.
Era diffusamente impiegata a tale riguardo la gomma arabica. Alcune ricette riportano anche il
bianco d’uovo, la colla di pesce, la gomma adragante27, la gomma di ciliegio28, l’olio di oliva, l’olio
di lino, l’olio di noce, il miele.
Alcune ricette consigliano di agitare l’inchiostro prima dell’uso, il che fa presumere l’assenza del
legante.
Il rapporto ottimale in peso tra solfato ferroso e acido tannico è 1:3, equivalente ad un rapporto
molecolare pari circa ad 1. Alcuni ricercatori hanno esaminato oltre cento ricette di inchiostri
ferrogallici che vanno dal XV al XIX secolo rilevando che per la maggioranza di esse il rapporto in
peso è 1:2 (equivalente ad un rapporto molecolare attorno a 5,5), il che indica un eccesso di solfato
ferroso29.
27
E’ il prodotto essiccato della gomma che trasuda per incisione dei rami dell’Astragalus, della famiglia delle
Leguminose, proveniente principalmente dalla Grecia, Turchia, Asia Minore e Iran.
28
E’ il nome generico dato agli essudati di diversi alberi da frutto.
29
J. G. NEEVEL, Phytate: A Potential Conservation Agent for the Treatment of Ink Corrosion Caused by Irongall Inks,
Restaurator, n. 16, 1995, pp. 143-160
J. G. NEEVEL, T. J. MENSCH CORNELIS, The behaviour of iron and sulphuric acid during iron-gall ink corrosion,
14th Triennal Meeting of ICOM, Lione 29 agosto - 3 settembre 1999, vol. 2, pp. 528-533
16
Non è sorprendente che molti inchiostri contengano un eccesso di ioni Fe2+ in quanto diversi autori
consigliavano che se l’inchiostro ottenuto non era ben nero occorreva aggiungere vetriolo. In una
antica ricetta la miscela di un estratto di noci di galle verdi, vetriolo e gomma arabica “è lasciata al
sole per un giorno. Se non si ottiene un bel colore nero, aggiungi vetriolo", suggerimento riportato
anche in numerose ricette successive. Una classica ricetta, trascritta da J. Le Bègue, dice: "Se
l'inchiostro è troppo pallido aggiungere un po' di copperas". Il monaco tedesco Teofilo consiglia:
"Se l’inchiostro non è abbastanza nero per mancanza di cura prendi un pezzo di ferro della
grandezza di un dito, mettilo sul fuoco, lascialo diventare incandescente e poi buttalo
nell’inchiostro".
Un tale eccesso ha dato scritture che, originariamente nere, tendevano a diventare col tempo
marrone ruggine, spaziando dal bruno scuro al giallo debole, come si osserva in numerosi
documenti e libri conservati negli archivi e nelle biblioteche (fig. 12, 13). Il colore marrone è
dovuto alle successive trasformazioni che il solfato ferroso subisce, per azione dell’ossigeno
atmosferico, fino ad arrivare allo stato di ossidi di ferro; processo, simile ad un “arrugginimento”,
molto lento che può richiedere anche un centinaio di anni.
Fig. 12: Codice liturgico membranaceo n. 7 “Cantorini” del XIV secolo (Sovrintendenza
Archivistica per l’Umbria), inchiostro ferrogallico bruno.
D. LA CAMERA, Crystal formations within iron gall ink: observations and analysis, Journal of the American Institute
for Conservation, n. 46, 2007, pp. 153-174
17
Fig. 13: Un disegno architettonico con tratti e campiture in inchiostro ferrogallico bruno.
La degradazione della gomma arabica, per effetto principalmente dell’umidità, ha favorito questa
trasformazione perché è venuto disintegrandosi nel tempo lo strato protettivo. Tra gli agenti leganti,
la colla di pesce30 si è rivelata la più stabile e quindi ha fornito una più prolungata protezione della
scrittura contro l’azione degli elementi naturali e dei reagenti chimici.
Divenendo l’inchiostro marrone, il testo scritto tendeva ad essere più difficilmente leggibile per
riduzione del contrasto con il colore di fondo del foglio di carta. Questa variazione di colore ha
influito anche sull’aspetto estetico di diversi disegni accentuando, ad esempio, il contrasto con le
campiture, solitamente realizzate con inchiostro al nerofumo che è rimasto nero.
30
G. KOLBE, Gelatine und ihre Verwendung in der Papierrestaurierung, Diplomarbeit, Staatliche Akademie der
Bildenden Kőnste Stuttgart, Studiengang Restaurierung und Konservierung von Graphik, Archivund Bibliotheksgut,
Stuttgart, 1999
B. REISSLAND, Iron-gall ink corrosion – progress in visible degradation, The iron gall ink meeting, 4-5 settembre
2000, Newcastle upon Tyne, The University of Northumbria, 2001, pp. 67-72
18
Per ravvivare scritture poco leggibili o riportare in vita le tracce cancellate nel caso dei palinsesti31
si era soliti intervenire nel passato stendendo a pennello un decotto di noci di galla che aveva lo
scopo di riformare direttamente sulla scrittura il pirogallato ferrico, ossia di ricostituire l’inchiostro
nella sua composizione originale. La tragica conseguenza di una tale operazione era quella di un
successivo imbrunimento irreversibile di tutta la zona trattata (fig. 14), in quanto il tannino di per sé
tende a colorare. Ne è un esempio la tipica colorazione bruna assunta dalla pelle con esso conciata.
Fig. 14: Registro cartaceo dell’Archivio
Storico del Comune di Gubbio segnato
Fondo Armanni “Cronaca di Pietro
Cantinelli”
del
XIII
secolo.
Imbrunimento a seguito di un tentativo
di ravvivamento della scrittura con il
tannino.
In alcuni disegni l’inchiostro ferrogallico si presenta bruno rossiccio il che fa presupporre l’aggiunta
di sanguigna, un’ocra rossa, allo scopo di ottenere una tonalità più calda.
L’acidità non è la sola causa dell’effetto corrosivo degli inchiostri ferrogallici.
Gli ioni Fe2+, infatti, partecipano attivamente alla degradazione ossidativa della cellulosa32 (vedi
appendice n° 2) catalizzando la formazione di radicali ossidrilici (OH•) a partire dal perossido di
idrogeno nella cosiddetta reazione di Fenton33.
31
D. MOSCHINI, Restauro virtuale. La tecnica per il recupero digitale delle informazioni nascoste, Kermes, anno
XIV, n. 41, 2001, pp. 45–54
32
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19
Possono agire come catalizzatori della degradazione ossidativa della cellulosa anche gli ioni di altri
metalli di transizione (rame, zinco, manganese)34 aggiunti come sali assieme al solfato ferroso o
presenti come impurezze del solfato ferroso stesso.
Le immagini che seguono illustrano l’azione esercitata sulla carta da un inchiostro ferrogallico
corrosivo (fig. 15, 16, 17, 18).
Fig. 15: Manoscritto musicale seicentesco danneggiato dall’inchiostro
ferrogallico corrosivo con foratura della carta e alonatura bruna della
scrittura.
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33
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Institute for Conservation, 1982, pp. 75-78
G. BANIK, Discoloration of green copper pigments in manuscripts and work of graphic art, Restaurator, n. 19, 1989,
pp. 61-73
20
Fig. 16: Fibre di canapa e/o lino molto frammentate (microscopio ottico, 63x).
Fig. 17: Fibre di cellulosa e cristalli esagonali Fig. 18: Particolare della rottura delle fibre di
dell’inchiostro
ferrogallico
(microscopio cellulosa (microscopio elettronico a scansione,
elettronico a scansione, immagine ad elettroni immagine ad elettroni retrodiffusi, 2780x).
retrodiffusi, 2000x).
La chimica della degradazione della carta catalizzata dai metalli è complessa. Comunque va
sottolineato che la mera presenza di ferro o rame nella carta, in un inchiostro o pigmento non è
sufficiente per la degradazione. E’ importante la possibilità di un agevole accesso alle fibre che
favorisce l’attività del metallo, ossia la facilità con cui partecipa ai processi di deterioramen.
21
L’ambiente chimico, ad esempio basso valore di pH, presenza di altri ioni metallici e quantità di
acqua che veicola gli ioni, influenza significativamente la reattività.
Gli ioni Fe2+, catalizzatori delle reazioni di degradazione ossidativa della cellulosa, sono ossidati
dall'ossigeno atmosferico a ioni Fe3+ cataliticamente inattivi, ma per via delle sostanze riducenti
presenti nella carta, solitamente formatesi a seguito dell'idrolisi acida della cellulosa, e negli
inchiostri vengono continuamente ripristinati. Infatti l'analisi chimica di manoscritti antichi
danneggiati ha evidenziato nelle zone inchiostrate una significativa percentuale di ioni Fe2+ rispetto
al ferro totale. Essendo gli ioni Fe2+ solubili in acqua può accadere che documenti che sono rimasti
stabili per molti secoli vengano per così dire attivati da trattamenti di restauro in base acquosa.
La degradazione ossidativa della cellulosa spesso si combina con la sua degradazione idrolitica
provocata dall’acidità ed anzi quest’ultima si esplica con maggiore efficacia proprio laddove c’è
presenza di gruppi ossidati.
Nel corso della degradazione della cellulosa si ha, altresì, la formazione di legami trasversali in
virtù dei quali le catene polimeriche risultano riunite in una trama più compatta con meno spazio a
disposizione delle molecole di acqua per formare legami idrogeno. Pertanto le zone al di sotto
dell’inchiostro scure e totalmente degradate risulteranno idrofobiche e conseguentemente
assorbiranno meno acqua rispetto alle zone prossime al tratto inchiostrato che saranno invece
idrofile, presumibilmente anche per effetto della migrazione dell’acido solforico. Il differente
assorbimento di acqua tra le due zone comporta un diverso rigonfiamento delle fibre di cellulosa
con lo stabilirsi di una tensione molto elevata nelle aree già infragilite che può condurre a fratture e
sollevamenti dell’inchiostro35 (fig. 19, 20, 21, 22). Si rivela deleteria a questo proposito una elevata
umidità dell’ambiente di conservazione, nonché le sue fluttuazioni a causa delle differenti
escursioni dimensionali tra carta ed inchiostro.
35
B. REISSLAND, Ink corrosion: side-effects caused by aqueous treatments for paper objects, The Iron Gall Ink
meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne, The University of Northumbria, 2001, pp. 109-114
22
Fig. 19: Schematizzazione delle tensioni che si creano a seguito del differente assorbimento di
acqua tra le zone corrose e non (da B. REISSLAND, Ink corrosion: side-effects by aqueous
treatments for paper objects, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne, The University of
Northumbria, 2001, pp. 109-114).
Fig. 20: Inchiostro saltato in alcuni punti.
23
Fig. 21: Lettera fotografata allo stereomicroscopio Fig. 22: Particelle di inchiostro.
(20x). Notare le zone in cui l’inchiostro è
mancante.
Tra i fattori che favoriscono l’azione corrosiva dell’inchiostro c’è da considerare la composizione
del substrato (tipo di impasto fibroso, grado di collatura, trattamenti superficiali), la scrittura
ravvicinata e su ambedue le facce del foglio, l’uso di larghi tratti di penna (fig. 23) e la sua forza di
incisione. Queste ultime due considerazioni sono avvalorate da alcuni codici musicali nei quali la
testa delle note risulta più corrosa del gambo (fig. 24).
Fig. 23: Estesa perforazione della carta nelle zone maggiormente
inchiostrate.
24
Fig. 24: Manoscritto musicale seicentesco. La testa delle note musicali appare più corrosa del
gambo.
I danni maggiori si sono riscontrati su manoscritti del XVI, XVII e XVIII secolo. Tali danni non
sono tuttavia imputabili esclusivamente all’inchiostro, ma anche ad altri fattori, non ultimo la
qualità della carta che è andata progressivamente peggiorando.
La pergamena, al contrario della carta, non ha subito solitamente gli effetti distruttivi dell’acidità
poiché possiede al suo interno una sufficiente riserva alcalina derivante dal processo di lavorazione
della pelle. La pelle, infatti, nello stadio di calcinazione viene immersa in vasche contenenti una
soluzione satura di latte di calce (Ca(OH)2) per facilitare la successiva operazione di depilazione ed
eliminare le sostanze indesiderate. Durante il trattamento una parte dell’idrossido rimane nella pelle
e, quindi, nella pergamena sottoforma di carbonato (CaCO3).
L’alone bruno usualmente osservato nell’immediata prossimità delle regioni inchiostrate è
provocato dalla migrazione, per un fenomeno cromatografico, di prodotti bruni solubili in acqua,
derivanti dall'inchiostro (prodotti di degradazione del pirogallato ferrico, ossidi e idrossidi ferrici,
prodotti di degradazione del tannino) e dalla degradazione della cellulosa. Possono migrare anche
composti non colorati, e quindi non visibili, alcuni dei quali possono essere evidenziati sotto luce
ultravioletta. Questi sono i prodotti più pericolosi in quanto solitamente costituiti da acido solforico
e composti dei metalli di transizione (ferro, rame, manganese, etc.).
L’acido solforico, il tannino e i suoi prodotti di degradazione e i prodotti di degradazione della
cellulosa hanno una notevole tendenza a migrare al contrario dei composti del ferro. La riluttanza a
migrare mostrata dal ferro può essere spiegata dal fatto che gran parte di esso è sottoforma di
composti ferrici insolubili (tannato, pirogallato, idrossido). Il solfato ferrico, che si forma per
ossidazione del solfato ferroso, è solubile in acqua ma in soluzione si forma rapidamente idrossido
ferrico, persino nell’ambiente acido delle zone inchiostrate. Possono migrare, quindi, solo gli ioni
Fe2+ i quali però giunti al di fuori della zona inchiostrata si fermano poiché trovano un ambiente
meno acido che favorisce la loro ossidazione a ioni Fe3+ ad opera dell’ossigeno atmosferico e la
successiva trasformazione a idrossido ferrico.
25
Questo comportamento è confermato dalle recenti ricerche condotte da Eusman e Mensch36 e dalle
sperimentazioni di Neevel e Mensch37 i quali hanno ricavato tramite la tecnica non distruttiva PIXE
(Proton Induced X-ray Emission) i profili delle concentrazioni elementali dai quali risulta che lo
zolfo e qualche altro elemento (Mg, Al, Mn, Cu) mostrano profili di concentrazione più allargati,
ossia estesi oltre il tratto inchiostrato, mentre per molti “elementi tipici dell’inchiostro” (Na, K, Cr,
Fe, Ni, Zn) i profili appaiono più ristretti.
L’alonatura incide sulla chiarezza e nitidezza del tratto, per cui rappresenta un aspetto negativo in
particolare per i disegni.
L’acido e i prodotti colorati possono anche migrare sul verso del foglio o provenire dalle pagine a
contatto producendo una scritta marrone in senso inverso come davanti ad uno specchio (fig. 25).
Talvolta l’inchiostro corrosivo provoca sulle pagine a contatto una impronta visibile in fluorescenza
ultravioletta che si pensa rappresenti un inizio di degradazione della carta ad opera degli ioni
metallici provenienti dall’inchiostro38 (fig. 26).
Fig. 25: Scrittura forata ed alonata; si nota,
inoltre, la traccia della scrittura in senso inverso
provocata dalla migrazione dalle pagine
adiacenti.
36
E. EUSMAN, K. MENSCH, Ink on the run – measuring migration of iron in Iron Gall Ink, The Iron Gall Ink
meeting, 4-5 settembre 2000, Newcastle upon Tyne, The University of Northumbria, 2001, pp. 115-122
37
J. G NEEVELL., T. J. MENSCH CORNELIS, The behaviour of iron and sulphuric acid during iron-gall ink
corrosion, 14th Triennal Meeting of ICOM, Lione 29 agosto - 3 settembre 1999, vol. 2, pp. 528-533
38
V. DANIELS, Aging of Paper and Pigments Containing Iron and Copper: A Review, The broad spectrum: studies in
the materials, techniques and conservation of colour on paper, H. K. Stratis and B. Salvesen ed., London, Archetype
Publications, 2002, p. 120
26
Fig. 26: Impronta fluorescente (si nota un volto e delle colonne) provocata dall’inchiostro corrosivo
di una pagina a contatto.
Birgit Reissland in un suo recente articolo39 ha descritto i risultati di una sperimentazione volta ad
identificare i caratteri visivi della degradazione della carta da parte degli inchiostri ferrogallici ed il
loro mutare al progredire della degradazione stessa.
Viene evidenziato che all’inizio del processo corrosivo nelle aree al di sotto delle linee di inchiostro
sul verso della carta non si nota nulla a luce visibile mentre si può osservare una fluorescenza
ultravioletta verdastra (sorgente di eccitazione centrata attorno ai 365 nm) che va sempre più
estendendosi al progredire della degradazione. Ad un certo stadio della corrosione il colore della
fluorescenza UV volge al giallo e si inizia a notare a luce visibile una leggera colorazione bruna
della carta. L’effetto in fluorescenza UV tende poi progressivamente a scomparire mentre si
accentua la colorazione bruna osservata a luce visibile.
39
BIRGIT REISSLAND, Iron-gall ink corrosion – progress in visible degradation, The iron gall ink meeting, 4-5
settembre 2000, Newcastle upon Tyne, The University of Northumbria, 2001, pp. 67-72
27
APPENDICE n° 1
Il ferro è un elemento di transizione, ossia ha una struttura elettronica incompleta negli orbitali “d”
in qualsiasi stato di ossidazione40. Avendo gli orbitali “d” incompleti gli ioni ferroso e ferrico hanno
la tendenza ad assumere la configurazione più stabile coordinando specie chimiche che gli possano
fornire coppie di elettroni.
Questi ioni possono perciò comportarsi da acidi di Lewis, accettando coppie di elettroni, non già
impegnate nella formazione di legami, da basi di Lewis, e i composti che si formano sono detti
composti di coordinazione o complessi41. I donatori di coppie di elettroni, detti usualmente ligandi,
possono essere ioni o molecole in grado di donare uno o più coppie ciascuno. Ad esempio sono
ligandi: H2O, NH3, CO, Cl-, OH-, CN-, (COO-)2, ecc.
I composti di coordinazione del ferro (III) hanno solitamente intense colorazioni come ad esempio:
Fe4[Fe(CN)6)]3 di colore blu (blu di Prussia)
Fe [SCN]3 di colore rosso sangue
il salicilato ferrico di colore violetto.
Il pirogallato ferrico è un composto di coordinazione ottaedrico di colore nero violetto. Nel
composto i ligandi di ogni catione ferrico sono due molecole di acido gallico. Il pirogallato ferrico
si forma se l’ambiente non è molto acido, condizione per cui l’acido gallico cede protoni all’acqua,
in un equilibrio acido-base (fig. 27a, 27b). In seguito a tale cessione esso presenterà alcuni gruppi
ossidrili (-OH) che possono fungere da “chele” per coordinare più facilmente lo ione Fe3+ dando
origine al complesso di pirogallato ferrico a cui si deve il colore nero violetto dell’inchiostro.
Fig. 27a: Formula semplificata dell’acido Fig. 27b: Formula semplificata dell’acido
gallico
gallico con alcuni gruppi ossidrili deprotonati
40
La struttura elettronica fondamentale dell’atomo di ferro è 1s2 2s2 2p3 3s2 3p3 4s2 3d6. Come si vede i cinque orbitali
3d che per essere completi dovrebbero avere in totale 10 elettroni ne hanno solo 6, ossia quattro di essi sono incompleti.
Anche gli ioni Fe+2 e Fe+3 hanno orbitali “d” incompleti (3d6 per il primo e 3d5 per il secondo). Da notare che non si ha
la configurazione 3d4 per lo ione Fe+2 e 3d3 per lo ione Fe+3, come ci si aspetterebbe, perché nella formazione dello ione
vengono persi per primi gli elettroni del livello 4s più esterni a più alta energia.
41
Secondo la teoria di Lewis, ogni atomo impiega i suoi elettroni di valenza per formare legami con altri atomi e
raggiungere così una configurazione stabile. Non tutti gli elettroni di valenza debbono essere necessariamente impiegati
in questo processo. Le coppie di elettroni impegnate nella formazione di legami vengono dette “coppie di legame”,
mentre quelle eventualmente non impegnate sono dette”coppie di non legame” o “coppie solitarie” (in inglese “lone
pairs”).
Quando un legame e' costituito dalla condivisione di una sola coppia di elettroni, si chiama legame singolo o legame σ.
Può accadere che due atomi condividano due o tre coppie elettroniche: si parla in questo caso di legame doppio o triplo,
in generale di legame multiplo. Un legame multiplo e' sempre costituito da un legame σ e uno o più legami π.
Se la coppia di elettroni necessaria per la formazione del legame tra due atomi viene fornita da uno solo di essi: si parla
di legame coordinato o dativo.
28
APPENDICE n° 2
Ossidazione della cellulosa
L’ossidazione della cellulosa è principalmente un meccanismo a catena radicalica e, come tutte le
reazioni a catena, il meccanismo può essere illustrato in termini di:
• reazioni di iniziazione nel corso delle quali si formano i radicali liberi42
• reazioni di propagazione nel corso delle quali i radicali liberi sono trasformati in altri radicali
• reazioni di terminazione che coinvolgono la combinazione di due radicali con formazione di
prodotti stabili.
La reazione di Fenton conduce alla formazione di radicali ossidrilici HO• a partire dal perossido di
idrogeno.
Fe2+ + H2O2 → Fe3+ + HO• + OHQuest’ultimo si forma durante la riduzione dell’ossigeno ad opera degli ioni Fe2+
Fe2+ + O2 + H+ → Fe3+ + HOO•
Fe2+ + HOO• + H+ → Fe3+ + H2O2
I radicali ossidridici sono molto reattivi ed estraggono con facilità atomi di idrogeno dalla cellulosa
con formazione di radicali idrossialchilici R•. Questi ultimi reagiscono con una reazione a catena
con l’ossigeno, convertendosi nelle corrispondenti strutture carboniliche, ed una nuova molecola di
cellulosa R’H a formare idroperossido di cellulosa ROOH e un nuovo radicale R’• per cui il
processo si propaga.
R• + O2 → ROO•
ROO• + R’H → ROOH + R’•
I gruppi carbonili, che si sono formati sugli atomi C-2, C-3 e C-6 dell’anello di anidroglucosio (fig.
28), conducono alla rottura del legame glucosidico in accordo al meccanismo di β-alcossi
eliminazione43. La reazione ha inizio con l’estrazione dell’atomo di idrogeno legato al carbonio C2.
Fig. 28: Anello di anidroglucosio.
42
I radicali liberi sono prodotti di “scarto” che si formano naturalmente all’interno delle cellule del corpo quando
l’ossigeno viene utilizzato nei processi metabolici ossidativi per produrre energia.
Dal punto di vista biochimico, i radicali liberi sono molecole particolarmente instabili in quanto possiedono un solo
elettrone anziché due (anione superossido O2-, idrossile OH-, diossido di azoto NO2, ossido nitrico NO-, idrogeno H-,
ossigeno O+, ossigeno singoletto O2+, ecc.). Questo li porta a ricercare un equilibrio appropriandosi dell’elettrone delle
altre molecole con le quali vengono a contatto, molecole che diventano instabili e che a loro volta ricercano un elettrone
e così via, innescando un meccanismo di instabilità a “catena”. Questa serie di reazioni può durare da frazioni di
secondo ad alcune ore e può essere ridimensionata o arrestata dalla presenza dei vari agenti antiossidanti.
43
J. F. KASKINS, H. J. HOGSED, Alkali oxidation of cellulose. Degradative oxidation of cellulose by hydrogen
peroxide in the presence of alkali, in “J. Org. Chem.”, n. 15, 1950, p. 1264
29
Le reazioni di ossidazione della cellulosa coinvolgono i gruppi ossidrilici primari e secondari
dell'anello di anidroglucosio con formazione di gruppi carbonilici (aldeidici e chetonici) e
carbossilici (gruppi acidi); si possono formare inoltre doppi legami C=C sull'anello della cellulosa e
si può verificare anche l'apertura dello stesso. Il gruppo ossidrilico primario (gruppo alcolico
primario) nell’anello (gruppo a in fig. 27) può dar luogo, ossidandosi, ad un gruppo aldeidico (A)
(fig. 29), che, per ulteriore ossidazione, forma un gruppo carbossilico (fig. 30).
Fig. 29: Siti di ossidazione sull’unità di
anidroglucosio (da M. BICCHIERI, S. PEPA,
The Degradation of Cellulose with Ferric and
Cupric Ions in a Low-acid Medium, Restaurator,
n. 17, 1996, pp. 165-183).
Fig. 30: Meccanismo di ossidazione.
I due gruppi ossidrilici secondari nell’anello (gruppi b in fig. 28) possono ossidarsi a gruppi
chetonici (B) e (C) e, se si rompe il legame C2-C3, si possono formare due gruppi aldeidici (D) che
possono ulteriormente ossidarsi a carbossile.
I gruppi carbonilici sono in grado di assorbire selettivamente la radiazione visibile alle lunghezze
d’onda nel campo del blu, e pertanto sono cromofori e responsabili dell'ingiallimento della carta; la
formazione dei gruppi carbossilici aumenta l'acidità favorendo la depolimerizzazione della cellulosa
(fig. 31) per scissione del legame 1-4 β glucosidico che lega le unità monomeriche di glucosio, con
conseguente diminuzione della resistenza meccanica della carta.
30
Fig. 31: Molecola di cellulosa.
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