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Thomas Mann - La morte a Venezia

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Thomas Mann - La morte a Venezia
Thomas Mann
La morte a Venezia
(Der Tod in Venedig, 1912)
I
Gustav Aschenbach o von Aschenbach, come suonava ufficialmente il
suo nome dal giorno del suo cinquantesimo compleanno, in un pomeriggio
di primavera di quell'anno 19... che per mesi e mesi mostrò al nostro
continente una faccia tanto bieca, era uscito dalla sua casa della
Prinzregentenstrasse in Monaco di Baviera per intraprendere una lunga
passeggiata. Sovreccitato dal lavoro difficile e insidioso compiuto nelle ore
antimeridiane, che esigeva proprio allora estrema sagacia, prudenza,
sottigliezza e rigore della volontà, nemmeno dopo il pranzo di
mezzogiorno lo scrittore aveva saputo arrestare l'impulso produttivo che
gli vibrava dentro, quel motus animi continuus in cui consiste secondo
Cicerone l'essenza dell'oratoria, e non era riuscito a trovare il sollievo del
sonno, a lui tanto necessario nel corso della giornata contro il progressivo
logoramento delle sue forze. Così, poco dopo il tè, aveva preso il largo
nella speranza che l'aria e il moto l'avrebbero rimesso in sesto e gli
avrebbero procurato una serata fruttuosa.
Si era al principio di maggio, e dopo settimane di freddo e d'umido era
sopravvenuta una falsa estate. Il Giardino Inglese, quantunque appena
lievemente inverdito di tenere fronde, era afoso come in agosto e, verso la
città, gremito di carrozze e di passeggiatori. Vicino alla trattoria Aumeister,
dov'era giunto per viottoli sempre più silenziosi e deserti, egli aveva
sostato alquanto a osservare l'osteria popolaresca e affollata, davanti alla
quale attendevano vetture di piazza ed equipaggi padronali; di là, mentre il
sole volgeva al tramonto, era uscito dal parco, e aveva preso la via del
ritorno per l'aperta campagna, ma sentendosi stanco e vedendo addensarsi
un temporale al di sopra di Föhring pensò di attendere davanti al Cimitero
Nord il tram elettrico che l'avrebbe riportato in città per la strada più breve.
Per caso trovò la fermata e le sue adiacenze deserte di gente. Né sulla
lastricata Ungererstrasse le cui rotaie si allungavano luccicanti in direzione
di Schwabing, né sulla strada provinciale di Föhring si scorgeva un
veicolo; nei recinti dei marmisti, dove croci, lapidi e monumenti esposti in
vendita formavano un secondo cimitero senza morti, non si muoveva nulla,
e l'edificio bizantino dell'obitorio giaceva cheto nell'ultimo riflesso del
giorno morente. La facciata, adorna di croci greche e di pitture ieratiche
dai tenui colori, presenta inoltre iscrizioni simmetriche a lettere d'oro,
massime scelte sulla vita eterna, come: «Essi entrano nella casa di Dio» o:
«Risplenda per essi la luce perpetua» ; e da alcuni minuti egli ingannava
l'attesa leggendo gravemente le sentenze e lasciando che il suo occhio
spirituale si perdesse nella loro mistica trasparente, quando, ridesto dalle
sue fantasticherie, vide nel portico, al di sopra dei due animali apocalittici
che custodiscono la scalea, un uomo il cui aspetto abbastanza fuor del
comune diede tutt'altro indirizzo ai suoi pensieri.
Se l'uomo fosse uscito dall'interno dell'edificio attraverso il portone
bronzeo o se fosse venuto di fuori e salito fin là, era difficile a dirsi.
Aschenbach, senza approfondir troppo la questione, propendeva per la
prima ipotesi. Di statura mezzana, magro, sbarbato e col naso notevolmente camuso, l'uomo apparteneva al tipo di pelo rosso e ne aveva la pelle
lattiginosa e lentigginosa. Evidentemente non era di razza bajuvara;
almeno il largo cappello di paglia dalla tesa diritta che portava in capo gli
dava un aspetto forestiero e venuto di lontano. E vero però ch'egli aveva
sulle spalle il tradizionale sacco da montagna, un abito di loden gialliccio
con la martingala, sul braccio sinistro puntato contro l'anca un
impermeabile grigio e nella mano destra un bastone dalla punta di ferro
che aveva conficcato obliquamente nel terreno e al cui manico appoggiava
il fianco, tenendo incrociati i piedi. Con la testa eretta, così che sul collo
scarno fuor della floscia camicia sportiva spiccava nudo e prominente il
pomo d'Adamo, egli fissava attentamente lo spazio con occhi incolori
orlati di rosso, fra i quali, in bizzarra armonia col breve naso schiacciato,
eran scavate due rughe diritte ed energiche. Così — e forse contribuiva a
tale impressione il suo posto elevato ed elevante — l'atteggiamento
dell'uomo pareva quello di chi domina e sovrasta, ardito o addirittura
feroce; perché sia che egli, abbacinato, ghignasse verso il sole cadente, sia
che si trattasse di una deformità permanente del volto: le sue labbra
apparivano troppo corte, eran tutte ritratte dai denti, di modo che questi,
scoperti fino alle gengive, ne sporgevano fuori lunghi e bianchi.
È possibile che Aschenbach nel suo esame tra distratto e inquisitivo
dello sconosciuto avesse mancato di cautela, perché improvvisamente
s'accorse che quegli ricambiava il suo sguardo, e anzi in modo così
bellicoso, così fisso negli occhi, così manifestamente risoluto a spingere la
cosa all'estremo e a costringere l'avversario alla ritirata, che Aschenbach,
spiacevolmente colpito, si voltò e incominciò a passeggiare lungo gli
steccati con l'opportuna decisione di non badar più a quell'individuo.
L'istante dopo l'aveva già dimenticato. Ma, sia che quell'aria da giramondo
dello straniero avesse agito sulla sua fantasia, sia che si trattasse d'altro
influsso fisico o morale, s'avvide con meraviglia di uno strano
allargamento del proprio animo, una specie di vagante irrequietezza, un
desiderio assetato e giovanile di lontananze, un sentimento così vivace,
così nuovo, o almeno così inconsueto e disappreso, che egli, le mani dietro
la schiena e gli occhi fissi a terra, si fermò assorto per scandagliare quella
sensazione nella sua natura e nel suo fine.
Era voglia di viaggiare, nient'altro; ma insorta come un accesso
morboso, ed esaltata fino alla passione, anzi fino all'illusione dei sensi. Il
suo desiderio divenne veggente, la sua fantasia, non ancora acquetata dopo
le ore di lavoro, si foggiò un esempio di tutte le meraviglie e gli orrori
della terra che in un sol tratto si sforzava di immaginare: egli vide, vide un
paesaggio, una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umida
lussureggiante e mostruosa, una specie di giungla del mondo primitivo,
fatta di isole, lagune e acquitrini melmosi — vide tra esuberanti viluppi di
felci, tra un intricato ammasso di piante turgide grasse fantasticamente
pullulanti, svettare vicino e lontano tronchi pelosi di palmizi, vide alberi
bizzarramente deformi affondare attraverso l'aria le radici nel suolo o nei
verdi specchi d'ombra delle acque stagnanti, dove tra i fiori acquatici
bianchi e larghi come zuppiere uccelli esotici dalla testa insaccata fra le
spalle, dal becco mostruoso, stavano appollaiati su qualche lembo di terra
e guardavano immobili da un lato, vide fra i tronchi nodosi dei bambù
scintillare le pupille di una tigre accovacciata — e sentì il suo cuore battere
di spavento e di una smania misteriosa. Poi la visione scomparve; e
scrollando la testa Aschenbach riprese la sua passeggiata lungo i recinti
degli scalpellini.
Egli considerava il viaggiare — almeno da quando disponeva dei mezzi
per godere a piacer suo i vantaggi delle comunicazioni internazionali —
non altrimenti che una precauzione igienica, in realtà contro senso e contro
natura, che occorreva prendere di quando in quando; ma, troppo occupato
dai problemi che gli eran posti dal proprio Io e dall'anima europea, troppo
oppresso dal dovere di produrre, troppo alieno dalle distrazioni per essere
amante del variopinto mondo esteriore, si era sempre accontentato dell'idea
che ognuno può farsi della superficie terrestre senza allontanarsi troppo
dalla propria cerchia e non aveva mai avuto la più lontana aspirazione a
lasciare l'Europa. Soprattutto da quando la sua vita volgeva lentamente al
tramonto, da quando la sua paura d'artista di non compire l'opera — quel
timore che l'orologio giunga alla fine della carica prima ch'egli abbia
terminato il suo compito e dato tutto di se stesso — da quando quella paura
non si poteva più scacciare come un'ubbia, la sua vita esteriore si era quasi
esclusivamente limitata alla bella città che gli era ormai patria adottiva e
alla casa rustica che si era costruito in montagna e dove trascorreva le
piovose estati.
Quindi l'impulso così improvviso o tardivo fu tosto moderato e corretto
dalla ragione e dalla disciplina a cui aveva sempre assoggettato se stesso
fin dall'età giovanile. Era sua intenzione condurre fino a un certo punto,
prima di trasferirsi in campagna, l'opera per la quale viveva, e il pensiero
di un vagabondaggio attraverso il mondo, che l'avrebbe tenuto per mesi e
mesi lontano dal suo lavoro, appariva troppo slegato e contrario ai progetti,
non si poteva prenderlo seriamente in considerazione. Eppure egli sapeva
fin troppo bene da quale causa fosse scaturita così inattesa la tentazione.
Impulso alla fuga era, ed egli se lo confessò, anelito verso cose nuove e
lontane, desiderio smanioso di liberazione, di sgravio e di oblio — fuga
dall'opera, dal luogo giornaliero di un servizio rigido, freddo benché
appassionato. Lo amava, è vero, e quasi amava già anche la lotta snervante
quotidianamente rinnovata fra la sua volontà fiera e tenace tante volte
posta a cimento e questa crescente stanchezza che bisognava celare, che
l'opera non doveva tradire nemmeno col minimo segno di rilassamento e di
rinunzia. Ma sembrava ragionevole non tendere troppo l'arco e non
soffocare cocciutamente un bisogno che prorompeva così violento. Egli
pensò al suo lavoro, pensò alla pagina che oggi come già ieri aveva dovuto
lasciare in sospeso poiché non pareva volersi piegare né alla cura paziente
né all'attacco improvviso. La esaminò nuovamente, cercò di spezzare o di
sciogliere l'ostacolo e abbandonò l'impresa con un brivido di ribrezzo. Il
passo non presentava straordinarie difficoltà, ma paralizzavano lo scrittore
gli scrupoli di un disgusto che diventava incontentabilità impossibile a
soddisfare. L'incontentabilità a dir vero era stata per lui fin da giovinetto
essenza e intima natura del talento letterario, e per amor suo egli aveva
domato e raffreddato il sentimento, poiché sapeva che esso tende ad
accontentarsi di un allegro suppergiù e di una mezza perfezione. E ora il
sentimento conculcato si vendicava forse abbandonandolo, rifiutando di
continuare a sostenere la sua arte e a darle ali, e si portava via tutto il
piacere, tutta la felicità della forma e della espressione? Non che egli
producesse roba mediocre: questo almeno era il vantaggio della sua età,
che egli si sentiva ormai serenamente sicuro della propria maestria. Ma lui
stesso, mentre tutto il paese la celebrava, non godeva di essa, e gli pareva
che alla sua opera mancassero quei segni di estro ardente e giocoso che,
generati dalla gioia, più che qualsiasi contenuto interiore, che qualsiasi
pregio più eminente, davano gioia al mondo dei lettori. Gli faceva paura
l'estate in campagna, solo nella piccola casa con la fantesca che gli
preparava il pranzo e col domestico che glielo serviva; gli faceva paura
l'aspetto familiare delle vette e delle pareti montane che avrebbero di
nuovo circondato la sua malcontenta lentezza. E dunque era necessaria
un'interruzione, un periodo di vita nomade, scioperatezza, aria di paesi
lontani e acquisizione di sangue nuovo, affinché l'estate diventasse
sopportabile e proficua. Viaggiare dunque; vi acconsentiva. Non troppo
lontano, non proprio fra le tigri. Una notte in vagone letto e una siesta di
tre, quattro settimane in uno di quei luoghi di villeggiatura dove vanno
tutti, nell'amabile Mezzogiorno...
Così pensava mentre il rumore del tram elettrico si andava
approssimando per la Ungererstrasse, e nel salire risolse di dedicar la
serata allo studio delle carte geografiche e degli orari. Sulla piattaforma
volle cercare con lo sguardo l'uomo dal cappello di paglia, il compagno di
quella sosta pur ricca di conseguenze. Ma non poté scorgerlo, perché non
si trovava nel luogo dov'era prima, né alla fermata del tram, e neppure
nell'interno della carrozza.
II
L'autore della limpida e forte epopea in prosa sulla vita di Federico di
Prussia; l'artista paziente che con lunga solerzia aveva tessuto il romanzo I
Maja, arazzo ricco di figure raccogliente tanto destino umano all'ombra di
un'idea; il creatore della possente novella intitolata Un miserabile, che
addita a tutta una gioventù riconoscente la via della risolutezza morale al
di là della più profonda conoscenza; lo scrittore infine (e basti questo breve
cenno all'opera della sua maturità) dell'appassionato saggio Spirito e arte
che per la potenza chiarificatrice e l'eloquenza antitetica molti giudici
autorevoli ponevano accanto alla dissertazione di Schiller sulla poesia
ingenua e sentimentale: Gustav Aschenbach in una parola, figlio d'un alto
funzionario della magistratura, era nato a L., capoluogo d'un distretto della
provincia di Slesia. I suoi antenati erano stati ufficiali, giudici, impiegati
dell'amministrazione, uomini che avevano condotto vita austera, onorata e
modesta al servizio del re e dello stato. Una spiritualità più profonda aveva
avuto un'incarnazione in famiglia nella persona di un predicatore; sangue
più impetuoso e più caldo v'era entrato nella generazione precedente grazie
alla madre del poeta, figlia di un maestro di cappella boemo. Da lei erano
stati trasmessi al figlio quei segni caratteristici di una razza forestiera. Il
connubio della rigida coscienziosità burocratica con impulsi più oscuri e
focosi aveva prodotto un artista, questo artista singolare.
Poiché tutto il suo essere aspirava alla gloria, egli si dimostrò se non
proprio precocissimo, tuttavia, grazie alla decisione e all'efficacia
personale del suo eloquio, assai presto maturo e adatto alla vita pubblica.
Era ancora studente liceale e già aveva un nome. Dieci anni dopo già sapeva, stando alla sua scrivania, rappresentare un personaggio,
amministrare la sua gloria, mostrarsi benevolo e importante in una lettera
che doveva esser corta (perché molte esigenze premono l'uomo arrivato e
degno di confidenza). A quarantanni, affaticato dagli strapazzi e dalle alterne vicende del lavoro creativo, doveva giornalmente rispondere alle
numerose lettere che portavano francobolli di tutti i paesi del mondo.
Tanto lontano dal banale come dall'eccentrico, il suo talento era fatto per
conquistare al tempo stesso la fede del largo pubblico e l'ammirata
esigente partecipazione dei raffinati. Così, ancor giovinetto, obbligato da
tutte le parti alla produzione, e a una produzione straordinaria, non aveva
mai conosciuto la spensierata indolenza della gioventù. Quando, intorno ai
trentacinque anni, si era ammalato durante un soggiorno a Vienna, un fine
osservatore disse di lui in un salotto: — Vedete, Aschenbach è sempre
vissuto così, — e serrò forte a pugno le dita della mano sinistra: — Mai
così, — e lasciò comodamente penzolare la mano aperta dalla spalliera
della sedia. Nulla di più esatto; e la coraggiosa moralità di tale
atteggiamento stava in questo, che, di costituzione tutt'altro che robusta, a
compiere quello sforzo costante egli non era fatto, ma soltanto chiamato.
I medici avevano prescritto che il ragazzo non frequentasse la scuola e
studiasse in casa. Solo, senza compagni egli era cresciuto, e tuttavia aveva
dovuto accorgersi assai presto di appartenere a una razza in cui non già il
talento era una rarità, ma la base fisica di cui il talento aveva bisogno per
aver pieno sviluppo; una razza che dà presto i suoi frutti migliori e in cui
l'eccellenza raramente perdura. Ma il suo motto preferito era: «Resistere!»;
nel suo romanzo su Federico di Prussia egli vedeva soprattutto l'apoteosi di
quel precetto, che gli sembrava il compendio d'ogni virtù attiva e passiva.
Del resto desiderava ardentemente di giungere alla vecchiezza perché
aveva sempre reputato che fosse da chiamarsi veramente grande, compiuto
e degno d'onore solo quell'artista a cui era dato produrre una messe
caratteristica di tutte le età della vita umana.
Poiché dunque doveva portare su gracili spalle i compiti di cui il suo
talento lo gravava, e voleva andare lontano, gli era necessaria una severa
disciplina — e disciplina era per fortuna il suo naturale retaggio dal lato
paterno. A quaranta, a cinquant'anni, come già nell'età in cui gli altri
scialacquano, fantasticano, rimandano tranquillamente l'esecuzione di
grandi progetti, egli incominciava la sua giornata di buon'ora, con docce
fredde sul dorso e sul petto, e poi, accese le alte candele di cera nei
doppieri d'argento ai due lati del manoscritto, sacrificava all'arte in due o
tre ore di lavoro fervido e coscienzioso le forze raccolte nel sonno. Era
perdonabile, e anzi significava la vittoria della sua moralità di scrittore,
che gli ignari prendessero per il prodotto di una forza incoercibile e di un
lungo respiro il mondo dei Maja o le masse epiche fra cui si svolgeva la
vita eroica di Federico, mentre invece si innalzavano alla grandezza strato
per strato, in piccoli compiti quotidiani fatti di cento e cento singole
ispirazioni, ed erano così profondamente e assolutamente perfetti in ogni
punto perché il loro creatore, con una tenacia di volontà simile a quella che
aveva conquistato la sua Slesia natia, resisteva per anni sotto la tensione di
una stessa opera e dedicava esclusivamente alla produzione le sue ore più
gagliarde e più degne.
Affinché un importante prodotto dello spirito possa esercitare
immediatamente un influsso vasto e profondo, dev'esserci un'affinità
segreta, anzi una concordanza, fra il destino personale del suo autore e
quello generale dei contemporanei. Gli uomini non sanno perché
conferiscono gloria a un'opera d'arte. Tutt'altro che intenditori, credono di
scoprirvi mille pregi per giustificare tanto consenso; ma il vero motivo del
loro plauso è qualcosa di imponderabile: è simpatia. Aschenbach aveva
affermato una volta in una sua pagina, alla sfuggita ma senza ambagi, che
quasi tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione di
resistenza, è sorto cioè nonostante il dolore e la sofferenza, nonostante la
povertà, l'abbandono, la debolezza fisica, il vizio, la passione e mille
ostacoli. Ma più ancora che un'osservazione questo era un'esperienza, era
addirittura la formula della sua vita e della sua gloria, la chiave dell'opera
sua; perché stupirsi dunque se era anche il carattere etico, l'aspetto
esteriore delle sue figure più singolari?
Del nuovo tipo d'eroe che questo scrittore preferiva, tipo che si ripeteva
nelle più varie forme individuali, un analista intelligente aveva scritto già
molto tempo innanzi che era la concezione «di una virilità intellettuale e
giovanile che con fiero pudore stringe i denti e rimane salda e tranquilla
mentre lance e spade le trafiggono il corpo». Era bene espresso, con spirito
ed esattezza, ma in apparenza puntava troppo sulla passività. Giacché
fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza non vuol dire
semplicemente subire; è un'azione attiva, un trionfo positivo, e la figura di
san Sebastiano è il più bel simbolo se non dell'arte in genere, certamente
dell'arte di cui si parla. A guardare in quel mondo narrato, si discerneva
l'elegante dominio di sé, che dissimula fino all'ultimo istante agli occhi del
mondo un logoramento interno, il declino biologico; la gialla bruttezza,
sensualmente svantaggiata, che è capace di far divampare in purissima
fiamma la brace della sua libidine, e di salire addirittura al dominio nel
regno della bellezza; la pallida impotenza, che dalle profondità ardenti
dello spirito ricava la forza di gettare un intero popolo protervo ai piedi
della croce, ai propri piedi; l'atteggiamento amabile al vuoto e rigido
servizio della forma; la vita falsa, pericolosa, la nostalgia snervante e l'arte
dell'impostore nato: a considerare tutto quel destino, e quanto altro simile,
ci si poteva chiedere se esiste eroismo all'infuori della debolezza. E ad
ogni modo quale eroismo sarebbe più di questo consono ai tempi? Gustav
Aschenbach era il poeta di tutti coloro che lavorano all'orlo dello
sfinimento, gli oppressi da carico soverchio, già estenuati eppure ancora in
piedi, questi moralisti della produzione che, esili di corporatura e scarsi di
mezzi, con l'estasi della volontà e la saggia amministrazione ottengono
almeno per un periodo di tempo i risultati della grandezza. Costoro sono in
molti, sono essi gli eroi del nostro tempo. E tutti si riconoscevano nella sua
opera, vi si vedevano confermati, esaltati, celebrati, gli erano riconoscenti
e annunziavano il suo nome.
Egli era stato giovane e rude con il suo secolo e, mal consigliato da esso,
aveva pubblicamente incespicato, aveva commesso errori, s'era
compromesso, aveva trasgredito con le parole e con le opere alle regole del
tatto e della prudenza. Ma aveva conquistato la dignità, verso la quale, a
parer suo, ogni grande talento si sente naturalmente spinto e pungolato,
anzi si può dire che tutta la sua evoluzione era stata un'ascesa verso la
dignità, un'ascesa cosciente e ostinata, sprezzante tutti gli ostacoli del dubbio e dell'ironia.
La viva palpabilità della raffigurazione, che non impegna lo spirito,
forma la delizia delle masse borghesi, ma la gioventù assoluta e
appassionata è attratta esclusivamente dai problemi; e Aschenbach era
stato problematico, era stato assoluto più di qualunque altro giovane. Era
stato prono alla cerebralità, aveva saccheggiato la scienza, macinato per sé
le messi, profanato misteri, incriminato il talento, tradito l'arte... sì, mentre
le sue opere divertivano, elevavano, animavano, deliziavano i creduli
lettori, lui, il giovane artista, mozzava il fiato ai ventenni con i suoi cinismi
sulla dubbia natura dell'arte e della professione artistica.
Ma a quanto pare nulla in uno spirito nobile e sagace si ottunde più
rapidamente e più radicalmente che l'acuto amaro fascino della
conoscenza; ed è certo che la coscienziosa e malinconica esattezza del
giovane diventa aridità in confronto alla profonda risoluzione maturata
nell'uomo cresciuto a maestro di negare la scienza, di ripudiarla, di
passarvi sopra a testa alta in quanto essa può, sia pure in minima parte,
paralizzare scoraggiare avvilire l'azione, il sentimento e perfino la
passione. In quale altro modo interpretare la famosa novella Un
miserabile, se non come uno scoppio di ribrezzo per l'indecente
psicologismo dell'epoca, personificato nella figura di quel molle e goffo
furfante che carpisce un destino d'accatto gettando sua moglie per
impotenza, per depravazione, per velleità etica nelle braccia di un imberbe
e si crede in diritto di commettere per una presunta profondità delle azioni
indegne? La vigoria del linguaggio, col quale nel libro era condannata
l'infamia, annunziava l'abbandono di ogni incertezza morale, di ogni
simpatia per l'abisso, il rifiuto al lassismo espresso nel proverbio pietoso
che tutto comprendere significa tutto perdonare; e ciò che vi era preparato,
anzi già compiuto, era quel «miracolo della schiettezza rinata» di cui poco
oltre l'autore trattava in uno dei dialoghi, espressamente e non senza una
enigmatica accentuazione. Strane correlazioni! Era per una conseguenza
spirituale di questa «rinascita», di questa nuova dignità e rigore, che
proprio a quel tempo si osservava un quasi eccessivo rafforzamento del
suo senso estetico, quella nobile purezza, semplicità e armonia di
modellazione che da allora in poi avrebbero dato alle sue opere
un'impronta di maestria e di classicità così evidente e addirittura voluta?
Ma la risolutezza morale al di là della scienza, della conoscenza che
scioglie e inceppa, non è a sua volta una semplificazione, una
chiarificazione morale del mondo e dell'anima, e quindi anche un
invigorimento verso il male, l'illecito, il moralmente proibito? E la forma
non ha due facce diverse? Non è morale e immorale a un tempo — morale
come risultato ed espressione della decenza, immorale invece e addirittura
antimorale in quanto contiene in sé per natura un'indifferenza morale, e
anzi tende essenzialmente a sommettere l'etica al suo dominio superbo e
assoluto?
Comunque sia, un'evoluzione è un destino; e come non dovrebbe
svolgersi diversamente l'evoluzione accompagnata dalla fiducia, dal
consenso unanime di un largo pubblico, da quella che si effettua senza il
lustro e le lusinghe della gloria? Solo l'eterna bohême giudica tedioso e
degno di scherno un grande talento che, superato il libertino stadio larvale,
si abitua a distinguere ed esprimere la dignità dello spirito, accetta la
regola di una solitudine piena di dure sofferenze e lotte senza consiglio e
senza aiuto, e assurge in mezzo agli uomini a una posizione di potere e di
gloria. Quanta parte hanno d'altronde sfida, gioco, godimento
nell'automodellazione dell'ingegno! L'opera di Gustav Aschenbach col
tempo prese una tinta ufficioso-educativa, negli anni più tardi il suo stile si
liberò dalle sùbite audacie, dalle sfumature sottili e nuove, si volse alla
classica esemplarità, alla tradizione e alla levigatezza, alla conservazione e
alla forma e fors'anche alla formula, e, come si narra di Luigi XIV,
invecchiando bandì dal suo linguaggio ogni parola volgare. Fu allora che
le autorità scolastiche accorsero nei libri di testo pagine scelte dalle sue
opere. Gli si addiceva profondamente, ed egli infatti non rifiutò che un
principe tedesco, appena salito al trono, conferisse al poeta di «Federico»
un titolo di nobiltà per il suo cinquantesimo compleanno.
Dopo qualche anno d'irrequietezza, tentativi di stabilirsi qua o là, egli
aveva scelto Monaco di Baviera come residenza stabile ed era vissuto
quivi in onorevole condizione borghese, come accade a qualche
intellettuale in certi casi particolari. Il matrimonio contratto in età ancor
giovane con una fanciulla di famiglia colta, era stato sciolto dalla morte
dopo un breve periodo di felicità. Gli era rimasta una figlia, già maritata.
Non aveva mai avuto un figlio.
Gustav von Aschenbach era di statura un po' inferiore alla media, bruno,
glabro. La testa era un po' troppo grande in confronto al corpo quasi
gracile. I capelli spazzolati all'indietro, diradati a sommo del capo, molto
folti e brizzolati sulle tempie, incorniciavano una fronte alta, solcata da
rughe che parevano cicatrici. Il ponticello d'oro delle lenti non cerchiate
tagliava la radice del naso massiccio, nobilmente arcuato. La bocca era
grande, a volte cascante a volte improvvisamente sottile e stretta; le guance
magre e grinzose, il mento ben modellato con una fossetta morbida. Molto
fato sembrava esser passato su quella testa per lo più dolorosamente
reclinata, eppure l'affinamento della sua fisionomia era opera dell'arte e
non, come solitamente accade, di una vita agitata e difficile. Dietro quella
fronte erano nate le lampeggianti battute del dialogo sulla guerra fra
Voltaire e il re di Prussia; quegli occhi che guardavano stanchi e penetranti
attraverso le lenti avevano veduto l'inferno sanguinoso dei lazzaretti della
Guerra dei Sette Anni. Anche sotto l'aspetto individuale l'arte è una vita più
intensa. Essa dona felicità più profonda, e divora più in fretta. Scava nel
volto del suo servo le tracce di avventure spirituali e immaginarie, e anche
nella pace claustrale della vita esteriore porta a lungo andare un'ipersensibilità, un raffinamento, una stanchezza e una curiosità di nervi che
nemmeno la vita più piena di sfrenati godimenti e passioni saprebbe
suscitare.
III
Dopo quella passeggiata, molti impegni di natura mondana e letteraria
trattennero ancora a Monaco per una quindicina di giorni il viaggiatore
voglioso. Finalmente egli diede ordine di preparare la casa di campagna
per il suo ritorno entro quattro settimane, e parti fra la metà e la fine di
maggio col treno della sera per Trieste, dove si fermò solo ventiquattrore, e
la mattina dell'indomani s'imbarcò per Pola.
Egli cercava qualcosa di esotico, di avulso dalla vita abituale; ma doveva
essere un luogo dove si arrivasse facilmente; perciò scelse un'isola
dell'Adriatico, da alcuni anni famosa, non lontana dalla costa istriana, con
una popolazione variopinta e cenciosa dalla parlata incomprensibile, e con
bellissime scogliere frastagliate verso il mare aperto. Ma la pioggia e l'aria
pesante, la meschina e chiusa clientela austriaca dell'albergo e la mancanza
di quel placido e intimo contatto col mare che solo una spiaggia dolce e
sabbiosa può consentire, lo misero di cattivo umore, lo convinsero di non
aver trovato il luogo della sua destinazione; una irrequietezza interiore lo
spingeva, non sapeva ancor bene dove; egli si rimise a studiare le linee di
navigazione, si guardò intorno cercando, e d'improvviso, sorprendente e
naturale insieme, la mèta gli stette davanti agli occhi. Quando si
desiderava trasportarsi dall'oggi al domani in un'aura incomparabile,
meravigliosa, fiabesca, dove si andava? Ma era chiaro. Che cosa faceva
qui? Si era sbagliato. Era là ch'egli voleva andare. Non tardò a disdire il
soggiorno erroneo. A una settimana e mezzo dal suo arrivo nell'isola un
veloce motoscafo riportò lui e il suo bagaglio nel porto di Pola, ed egli vi
sbarcò per raggiungere subito attraverso una passerella l'umido ponte di
una nave pronta a salpare per Venezia.
Era un vecchio vapore italiano antiquato, fuligginoso e tetro. Nella
cabina sotto coperta, simile a un antro e illuminata artificialmente, dove
Aschenbach appena salito a bordo era stato subito introdotto con ghignante
cortesia da un marinaio gobbo e poco pulito, sedeva dietro un tavolo, il
cappello a sghimbescio calato sulla fronte e un mozzicone di sigaretta
nell'angolo della bocca, un uomo dalla barbetta caprina, dall'aspetto di un
direttore di circo all'antica, il quale torcendo il volto con disinvoltura
professionale registrava le generalità dei viaggiatori e distribuiva loro i
biglietti. — Per Venezia! — egli disse ripetendo la richiesta di
Aschenbach, allungò il braccio e intinse la penna nella feccia spessa di un
calamaio inclinato.
— Per Venezia, prima classe! Il signore è servito —. E scarabocchiati
grossi caratteri sbilenchi versò dal polverino una sabbia azzurra sullo
scritto, la fece scorrere in una scodella di coccio, piegò la carta con dita
gialle e ossute e si rimise a scrivere. — Ottima scelta! — commentava
intanto.
— Ah, Venezia! Magnifica città! Città che affascina irresistibilmente le
persone colte, tanto per la sua storia che per le sue attrattive moderne! —
La forbita sveltezza dei suoi gesti e le vuote chiacchiere con cui li
accompagnava sembravano fatte per intontire e distrarre, come se egli
temesse che il viaggiatore potesse ancora mutare il suo proposito di partir
per Venezia. Incassò frettolosamente, e con destrezza da croupier lasciò
cadere il resto sul panno macchiato del tavolino. — Buon divertimento,
signore! — disse con un inchino teatrale, — è stato un onore per me
poterla servire... Signori! — riprese subito alzando il braccio, e fece come
se il lavoro procedesse alacremente, mentre invece non c'era più nessuno
da sbrigare. Aschenbach risalì sul ponte.
Con un braccio appoggiato al parapetto egli osservò la folla oziosa che
bighellonava sul molo per assistere alla partenza del piroscafo, e i
passeggeri a bordo. Quelli della seconda classe, uomini e donne, si erano
ammassati a prua, e usavano come sedili valige e fagotti. Sul ponte c'era
un gruppo di turisti di Pola, giovani commessi a quanto pareva, radunati in
grande allegria per una gita in Italia. Erano molto fieri di sé e della loro
impresa, chiacchieravano, ridevano, godevano compiaciuti dei propri lazzi
e gesti, e spenzolandosi dai parapetti gridavano spigliate frasi di scherno ai
colleghi che con le borse sotto il braccio percorrevano per i loro affari la
zona portuale e minacciavano coi bastoni i gitanti. Uno, che portava un
abito estivo giallo chiaro all'ultima moda, una cravatta rossa e un panama
dalla tesa audacemente rivoltata, si distingueva fra tutti gli altri per il buon
umore e per la voce gracchiante. Ma Aschenbach appena l'ebbe osservato
un po' meglio s'accorse con una specie d'orrore che era un falso giovane.
Era vecchio, non si poteva dubitarne. Aveva rughe profonde intorno agli
occhi e alla bocca. Il carminio opaco delle guance era belletto, la chioma
bruna sotto il cappello di paglia dal nastro variopinto era una parrucca; il
collo era floscio e grinzoso, i baffetti all'insù e la mosca sul mento erano
tinti, la dentatura gialla e completa ch'egli scopriva nel riso era una
dentiera da poco prezzo, e le sue mani con anelli stemmati ai due indici
erano quelle di un vecchio. Colto da un senso di ribrezzo Aschenbach
notava con stupore la sua familiarità con gli amici. Non sapevano, non
vedevano quei giovani ch'egli era vecchio, che non aveva il diritto di
portare quegli abiti chiassosi da bellimbusto, di comportarsi come uno di
loro? Sembrava che considerassero naturale e abituale la sua compagnia,
lo trattavano come un loro pari, gli restituivano senza ripugnanza i suoi
scherzosi pugni nelle costole. Com'era possibile? Aschenbach si coprì la
fronte con la mano e chiuse gli occhi che gli bruciavano perché aveva
dormito troppo poco. Gli sembrava che tutto incominciasse in modo
alquanto inconsueto, che avesse inizio un trasognato allontanamento, una
strana deformazione del mondo che forse si poteva arrestare se egli velava
per un poco la sua vista e poi si guardava intorno di nuovo. In quel
momento però sentì l'impressione del galleggiare e alzando gli occhi con
irragionevole sgomento si avvide che il pesante oscuro corpo della nave si
staccava lentamente dalla riva di pietra. A palmo a palmo, sotto la spinta
alterna delle macchine si allargò la striscia d'acqua sudicia e iridescente fra
la banchina e la fiancata della nave e dopo lente manovre il vapore volse la
prora verso il mare aperto. Aschenbach andò a dritta, dove il gobbo gli
aveva preparato la sedia a sdraio, e un cameriere in marsina bisunta venne
a prendere i suoi ordini.
Il cielo era grigio, umido il vento. Il porto e le isole erano rimasti
indietro e presto la terra svanì dal nebbioso campo visivo. Fiocchi di
polvere di carbone, gonfiati dall'umidità, scendevano sul ponte lavato che
non voleva asciugare. Dopo un'ora appena fu teso un tendone perché
incominciava a piovere.
Imbacuccato nel soprabito, con un libro in grembo, il viaggiatore
riposava, e le ore trascorsero inavvertite. La pioggia era cessata; il tetto di
tela fu rimosso. L'orizzonte era tutto scoperto. Sotto la cupola nuvolosa del
cielo si stendeva all'intorno la sterminata superficie del mare deserto. Ma
nello spazio vuoto, disarticolato, manca ai nostri sensi anche la misura del
tempo e noi sonnecchiamo nell'immensità. Strane figure spettrali, il
vecchio bellimbusto, il bigliettinaio dalla barba caprina, passavano con
gesti trasognati, con parole vaghe attraverso la mente del passeggero, ed
egli s'addormentò.
A mezzogiorno lo fecero scendere per la colazione nella sala da pranzo,
una specie di corridoio sul quale si aprivano le porte delle cabine, e dove,
all'estremità opposta della lunga tavola a cui egli si era seduto, i giovani
commessi, compreso il vecchio, trincavano fin dalle dieci con il gioviale
capitano. Il pranzo era misero, ed egli lo terminò in fretta. Era impaziente
di tornare all'aperto, di scrutare il cielo, se non volesse rischiararsi verso
Venezia.
Era persuaso che così dovesse essere, perché la città l'aveva sempre
accolto in pieno splendore. Ma cielo e mare rimasero foschi e plumbei,
ogni tanto cadeva una pioggerella nebbiosa, ed egli si rassegnò a
raggiungere per mare una Venezia diversa da quella che aveva sempre
trovato avvicinandosi dalla terraferma. Stava accanto all'albero di
trinchetto e guardava lontano aspettando la terra. Pensava al poeta
malinconico-entusiasta che in un tempo lontano aveva veduto sorgere da
quelle acque le cupole e i campanili del suo sogno, e ripeteva fra sé
qualche frammento di quel suo canto ove felicità mestizia e venerazione
erano diventate poesia misurata e perfetta; e commosso senza fatica da
sensazioni già modellate esaminò il proprio cuore grave e stanco, se mai
una tardiva avventura del sentimento potesse ancora essere riservata al
viaggiatore ozioso.
Ed ecco, a destra spuntò la costa piatta, barche di pescatori animarono il
mare, l'isola del Lido apparve, il vapore se la lasciò a sinistra, scivolò ad
andatura rallentata entro il canale che ne porta il nome, e sulla laguna, di
fronte a un gruppo di catapecchie dai colori vivaci, si fermò ad aspettare la
barca del Servizio sanitario.
Passò un'ora prima che comparisse. Si era arrivati e non si era arrivati;
non s'aveva fretta eppure si ribolliva d'impazienza. I giovani di Pola,
patriotticamente attirati dai segnali militari di tromba che echeggiavano
sulle acque provenendo dai Giardini, erano saliti sul ponte, e, esilarati
dall'Asti, gridavano evviva ai bersaglieri che facevano gli esercizi laggiù.
Ma era ripugnante vedere in quale stato la falsa comunanza con la
gioventù aveva messo l'anziano zerbinotto. Il suo cervello di vecchio non
aveva resistito al vino come quello dei giovani gagliardi, ed egli era
lamentevolmente ubriaco. Con lo sguardo imbambolato, una sigaretta fra
le dita tremanti, egli barcollava sulle gambe mantenendo a stento
l'equilibrio, sbatacchiato di qua e di là dall'ubriachezza. Poiché al primo
passo sarebbe caduto non s'arrischiava a camminare, però ostentava una
penosa allegria, s'attaccava ai bottoni di tutti quelli che gli passavano a
tiro, balbettava, ammiccava, ridacchiava, alzava il dito rugoso e inanellato
a stolido motteggio e si leccava con la punta della lingua gli angoli della
bocca in maniera abominevolmente ambigua. Aschenbach lo guardava corrugando le sopracciglia, e di nuovo un senso di oppressione lo vinse, quasi
che il mondo dimostrasse una tendenza lieve ma invincibile a deformarsi
in una smorfia caricaturale; un'impressione a cui però le circostanze gli
vietarono d'abbandonarsi, perché la pulsante attività delle macchine
ricominciò tosto, e il vapore riprese il suo viaggio attraverso il bacino di
San Marco.
Ed ecco la rivedeva, quella stupefacente riva d'approdo,
quell'abbagliante composizione di edifici fantastici che la Serenissima
presentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si approssimavano:
l'aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonne
sulla riva col Leone e col Santo, il pomposo aggetto del tempio fiabesco, il
traforo della Porta dell'Orologio coi Mori, e mentre contemplava si disse
che arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzo
dalla porta di servizio, e che solo per nave, dall'alto mare, come aveva fatto
lui questa volta, bisognava giungere nella più inverosimile città del mondo.
Le macchine s'arrestarono, molte gondole s'avvicinarono alla nave, la
scala del passavanti venne abbassata e gli impiegati di dogana salirono a
bordo per adempiere al loro ufficio; lo sbarco poteva incominciare.
Aschenbach fece intendere che voleva una gondola, per esser portato col
suo bagaglio alla stazione dei vaporetti che fanno servizio tra la città e il
Lido; voleva prendere alloggio in riva al mare. Si approva la sua
intenzione, si grida il suo desiderio giù verso lo specchio dell'acqua dove i
gondolieri si bisticciano in dialetto. La sua discesa è ostacolata, il baule
che viene spinto e trascinato a fatica giù per la scaletta gli impedisce il
passaggio. Così per qualche minuto non gli riesce di sfuggire alle
importunità dell'orribile vecchio, che l'ubriachezza spinge oscuramente a
rivolgere solenni addii al forestiero. — Le auguriamo un felicissimo
soggiorno, — egli bela tra una riverenza e l'altra. — Ci raccomandiamo al
suo benevolo ricordo. Au revoir, excusez e bonjour, Eccellenza! — La
saliva gli cola dalla bocca, egli chiude gli occhi, si lecca le labbra e la
mosca tinta sul suo mento di vecchio s'arriccia tutta. — I nostri
complimenti,
— egli farfuglia portandosi due dita alla bocca, — i nostri complimenti
all'innamorata, alla vezzosa, alla bellissima...
— E improvvisamente la dentiera gli cade dalla mandibola sul labbro
inferiore. Aschenbach riesce a fuggire. —All'innamorata, alla bellissima...
— sente gemere alle sue spalle, in suoni cavernosi e stentati, mentre
scende la scala tenendosi alla ringhiera di corda.
Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e
angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una
gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai
tempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di
questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose
avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte
stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all'ultimo silenzioso viaggio. E si è
osservato che il sedile di una tal barca, quel divano laccato di un nero
funereo e rivestito di luttuose gramaglie, è il più morbido, il più
voluttuoso, il più sfibrante sedile del mondo? Aschenbach se ne accorse
quando sedette ai piedi del gondoliere, di fronte al suo bagaglio che era
stato disposto in bell'ordine a prora. I gondolieri altercavano ancora, rauchi, incomprensibili, con gesti di minaccia. Ma la quiete della città
lagunare pareva accogliere blandamente le loro voci, smaterializzarle,
disperderle sulle acque. Faceva caldo nel porto. Avvolto dall'alito tiepido
dello scirocco, abbandonato sui cuscini cedevoli il viaggiatore chiuse gli
occhi godendo di quell'inerzia tanto inconsueta quanto dolce. «La
traversata sarà breve, — egli pensò; — potesse durare sempre!»
Lievemente cullato sentì di scivolare via dal tumulto, dal vocio.
Intorno a lui sempre più si faceva il silenzio. Non si udiva nulla, tranne
lo sciacquio del remo, lo sciabordare delle piccole onde contro il
tagliamare, che s'alzava sull'acqua, erto, nero e armato sulla punta di un
rostro in forma d'alabarda, e un terzo rumore, un chiacchierio, un sussur-
ro... il borbottare del gondoliere che parlava fra sé a voce bassa, in suoni
sconnessi, soffocati dal lavoro delle sue braccia. Aschenbach si guardò
intorno e con lieve sorpresa s'avvide che la laguna s'allargava e il
gondoliere vogava verso il mare aperto. Dunque bisognava non
abbandonarsi troppo al riposo e sorvegliare l'esecuzione della propria
volontà.
— Alla stazione dei vaporetti voglio andare, — disse voltandosi a mezzo
verso poppa. Il borbottio cessò, ma non giunse risposta.
— Ho detto, alla stazione dei vaporetti, — ripete girandosi del tutto e
fissando in faccia il gondoliere che ritto sull'alto bordo torreggiava nel
cielo livido. Era un uomo di aspetto sgradevole, quasi brutale, vestito alla
marinara di turchino scuro, con una sciarpa verde alla cintola e un informe
cappello di paglia piantato arditamente sul capo. La sua fisionomia, i suoi
baffi biondi e ricci sotto il naso schiacciato lo rivelavano di razza non
italiana. Sebbene la sua corporatura fosse piuttosto mingherlina, cosi che
non appariva molto adatto al suo mestiere, egli manovrava il remo con
grande energia, impiegando a ogni colpo tutta la sua forza. Ogni tanto
nello sforzo ritraeva le labbra, scoprendo i denti bianchi. Aggrottò le
sopracciglia rossicce, e guardando al di sopra del passeggero replicò in
tono risoluto, quasi aspro:
— Lei va al Lido. Aschenbach rispose:
— Certo. Ma ho preso la gondola solo per farmi traghettare a San
Marco. Desidero servirmi del vaporetto.
— Non può prendere il vaporetto, signore.
— E perché?
— Perché il vaporetto non trasporta bagagli.
Era vero; Aschenbach se ne ricordò e tacque. Ma il tono rude, arrogante,
così insolito in quel paese verso un forestiero, gli parve insopportabile.
Disse: — Questo è affar mio. Forse voglio mettere il bagaglio in deposito.
Bisogna che lei torni indietro.
Silenzio. Il remo sciaguattava, l'onda percuoteva la chiglia con un suono
cupo. E ricominciò il borbottio, il sussurro: il gondoliere parlava con se
stesso fra i denti.
Che fare? Solo in mezzo al mare con quell'individuo strano, ribelle,
inquietante e risoluto, il viaggiatore non vedeva mezzo di imporre la
propria volontà. Come poteva abbandonarsi mollemente al riposo,
d'altronde, se non s'arrabbiava! Non s'era augurato che la traversata
durasse a lungo, per sempre? La risoluzione più saggia era lasciar andare
le cose per il loro verso, e soprattutto era la più piacevole. Un incantesimo
della pigrizia sembrava emanare dal suo sedile, da quel divano basso
rivestito di nero, così dolcemente cullato dalle vogate del dispotico
gondoliere dietro le sue spalle. L'idea di esser caduto nelle mani di un criminale sfiorò vagamente il cervello di Aschenbach — senza poter incitare i
suoi pensieri a un'attiva difesa, più irritante era la possibilità che tutto
mirasse a una semplice estorsione di denaro. Una specie di orgoglio o di
senso del dovere, il trasognato ricordo che a cose simili bisognava opporsi,
fece sì ch'egli si riscotesse ancora una volta. Domandò:
— Qual è il prezzo che lei pretende?
E guardando al di sopra del suo capo il gondoliere rispose:
— Lei pagherà.
La replica era ovvia. Aschenbach ribatté meccanicamente:
— Non pagherò neanche un soldo se lei non mi porta dove voglio io.
— Lei vuole andare al Lido.
— Ma non con lei.
— Io la porto benissimo.
«Questo è vero, — pensò Aschenbach e si lasciò andare. — È vero, mi
porti benissimo. Anche se aspiri al mio gruzzolo e con un colpo di remo
sulla testa mi mandi alla Casa di Ade, mi avrai traghettato bene».
Ma nulla di simile accadde. Anzi, trovarono compagnia, una barca di
musicanti predoni, uomini e donne, che cantavano accompagnati da
chitarre e mandolini, e s'appiccicarono insistentemente alla gondola
riempiendo l'equoreo silenzio con la loro poesia avida di spillar soldi al
forestiero. Aschenbach gettò del denaro nel cappello che quelli tendevano.
Allora tacquero e si allontanarono, e si udì di nuovo il mormogio dei
gondoliere che parlava fra sé a frasi spezzate.
Così la gondola giunse a destinazione, dondolata dalla scia di un vapore
che navigava verso la città. Due impiegati municipali, con le mani sul
dorso, le facce rivolte verso la laguna, passeggiavano su e giù in riva al
mare. Davanti al pontile, Aschenbach lasciò la gondola, aiutato da quel
vecchio col suo gancio di accosto che si trova in tutti i luoghi d'approdo di
Venezia; e poiché non aveva spiccioli, entrò nell'albergo di faccia al ponte
di sbarco, per cambiare, e pagare il gondoliere secondo il proprio giudizio.
Nel vestibolo è subito servito, torna indietro, trova i suoi bagagli su una
carretta sul molo, e gondola e gondoliere sono scomparsi.
— E scappato, — dice il vecchio col gancio. — Un malandrino, signore,
l'unico dei gondolieri che non ha la licenza. Gli altri hanno telefonato qui.
S'è accorto che lo aspettavano. E allora s'è squagliato.
Aschenbach si strinse nelle spalle.
— Il signore ha viaggiato gratis, — disse il vecchio e tese il cappello.
Aschenbach vi gettò qualche moneta. Ordinò che gli portassero le valige
all'Albergo dei Bagni e seguì il carretto lungo il viale biancofiorito,
fiancheggiato da caffè, bazar e pensioni, che attraversa l'isola fino alla
spiaggia.
Entrò nel vasto albergo per l'ingresso posteriore, dalla terrazza a
giardino, e attraversando il salone e il vestibolo si recò nell'ufficio. Poiché
si era prenotato, fu accolto con servizievole premura. Il manager, un uomo
piccolo, sommesso, ossequioso, con baffetti neri e una finanziera di taglio
francese, lo accompagnò in ascensore al secondo piano e gli indicò la sua
stanza, una camera piacevole, adorna di fiori fortemente profumati, coi
mobili di ciliegio e due alte finestre prospicenti il mare aperto. Uscito il
manager, Aschenbach si affacciò a una delle finestre, e mentre portavan
dentro il bagaglio e lo mettevano a posto egli stette a contemplare la
spiaggia pomeridiana, quasi spopolata, e il mare in ombra che era in fase
di flusso e mandava contro la riva con ritmo tranquillo onde basse e
lunghe.
Le osservazioni e gli incontri di chi va attorno in silente solitudine sono
al tempo stesso più sfumati e più netti di quelli dell'uomo socievole, i suoi
pensieri sono più gravi, più bizzarri, e mai esenti da un'ombra di tristezza.
Impressioni e immagini, che si potrebbero facilmente scrollar via con
un'occhiata, un sorriso, uno scambio d'opinioni, lo preoccupano oltre
misura, s'approfondiscono nel silenzio, diventano importanti, si
trasformano in avventura, episodio, sentimento. La solitudine fa maturare
l'originalità, la bellezza strana e inquietante, la poesia. Ma genera anche il
contrario, lo sproporzionato, l'assurdo e l'illecito. Così ancora adesso le
visioni del viaggio, il vecchio ripugnante damerino col suo cianciare
dell'innamorata, il gondoliere sospetto frodato della sua mercede turbavano
l'animo del viaggiatore. Senza mettere la ragione in difficoltà, senza dar
vera materia alla riflessione, erano tuttavia di natura singolarissima,
almeno così pareva a lui, e conturbanti appunto per tale contraddizione.
Intanto egli salutava il mare con gli occhi e gioiva di sapere Venezia in
così prossima vicinanza. Finalmente si staccò dalla finestra, si lavò il viso,
diede qualche ordine alla cameriera a perfezionamento delle proprie
comodità, e dallo svizzero vestito di verde che manovrava l'ascensore si
fece calare al piano terreno.
Prese il tè sulla terrazza verso il mare, poi uscì e percorse un bel pezzo
della passeggiata lungo la spiaggia, verso l'Albergo Excelsior. Quando
tornò, doveva esser già l'ora di cambiar abito per il pranzo. Egli lo fece con
lentezza e precisione, com'era sua indole, perché mentre si vestiva era
abituato a lavorare, e ciò nonostante scese un po' troppo presto nel salone
dove trovò radunata una gran parte degli ospiti dell'albergo, sconosciuti gli
uni agli altri e ostentanti reciproca indifferenza ma accomunati dall'attesa
del pranzo. Egli prese un giornale da un tavolino, s'accomodò su una
poltrona di cuoio e osservò la compagnia, che gli parve piacevolmente
diversa da quella del suo primo soggiorno in quell'albergo.
Si apriva un altro orizzonte, più tollerante e più largo. I suoni delle
lingue principali si mescolavano sommessi. L'internazionale abito da sera,
uniforme della civiltà, raccoglieva esteriormente in un solo galateo i vari
tipi umani. Si vedeva la faccia lunga e asciutta dell'americano, la numerosa
famiglia russa, signore inglesi, bambini tedeschi con governanti francesi.
Gli slavi sembravano in maggioranza. Lì vicino si parlava polacco.
Era un gruppo di giovani e di appena adolescenti, radunati intorno a un
tavolino di vimini sotto la custodia di una istitutrice o dama di compagnia:
tre ragazze apparentemente fra i quindici e i diciassette anni, un ragazzo
dai lunghi capelli che poteva avere quattordici anni. Con meraviglia
Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso,
pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso
diritto, la bocca amabile, un'espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima
perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve
al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così
felicemente riuscito. Si notava inoltre l'aperto contrasto fra i principi
educativi secondo i quali i fanciulli apparivano vestiti e generalmente
trattati. L'acconciatura delle tre ragazze, di cui la maggiore poteva
considerarsi adulta, era castigata e austera fino alla contraffazione. Abiti
monacali color ardesia, di media lunghezza, di taglio semplice e
volutamente sgraziato, unicamente rischiarati da grandi colletti bianchi,
impedivano e nascondevano ogni piacevolezza della figura. I capelli lisci
appiccicati al capo davano alle facce un'aria vuota e insignificante. Certo
una madre aveva disposto così, ma non pensava affatto di applicare anche
al ragazzo la severità pedagogica che le sembrava indicata per le fanciulle.
Era chiaro che dolcezza e tenerezza governavano la sua vita. Ci si era ben
guardati dall'accostare le forbici alla sua bella capigliatura; come quella
dello Spinario capitolino, essa si inanellava sulla fronte, sugli orecchi, e
ancor più sulla nuca. L'abito inglese alla marinara, le cui maniche larghe si
stringevano verso il basso, intorno ai polsi delicati delle mani ancora
infantili ma affusolate, coi suoi ricami, cordoni e fiocchi conferiva alla
figurina esile alcunché di ricco e di viziato. Era volto di tre quarti verso
colui che lo osservava, i piedi incrociati nelle scarpette di vernice nera, un
gomito puntato sul bracciolo della poltrona e la guancia appoggiata alla
mano chiusa, in un atteggiamento di grazia negligente, e senz'ombra della
rigidità quasi sommessa alla quale le sorelle sembravano avvezze. Che
fosse malato? Infatti la pelle del suo viso spiccava bianca come l'avorio
sull'oro scuro dei ricci che lo incorniciavano. Oppure era semplicemente
un beniamino viziato, circondato da un amore capriccioso e parziale?
Aschenbach propendeva a crederlo. In quasi tutti gli artisti è innata la
tendenza voluttuosa e ingannatrice a consacrare l'ingiustizia che genera
bellezza e a offrire omaggio e simpatia alla predilezione aristocratica.
Un cameriere girò fra i tavoli, e annunziò in inglese che il pranzo era
pronto. A poco a poco tutti passarono attraverso la porta a vetri nella sala
da pranzo. Dal vestibolo giunsero alcuni ritardatari, scesi dagli ascensori.
Di là incominciavano già a servire, ma i giovani polacchi rimanevano
ancora intorno al loro tavolo di vimini e Aschenbach, comodamente
sprofondato nella sua poltrona, e per di più con la bellezza sott'occhio,
aspettò con loro.
La governante, una mezza signora piccola e corpulenta con la faccia
rossa, diede finalmente il segnale di alzarsi. Spinse indietro la sua seggiola
e s'inchinò inarcando le sopracciglia, mentre una signora alta, vestita di
bianco-grigio e molto riccamente adorna entrava nel salone. Il contegno
della signora era freddo e compassato, l'acconciatura dei capelli
leggermente incipriati come pure la foggia del suo vestito avevano quella
semplicità che sempre determina il gusto in coloro che considerano la
religiosità una componente della distinzione. Avrebbe potuto essere la
moglie di un alto funzionario tedesco. Un tocco fantastico e sfarzoso era
dato alla sua apparizione soltanto dai gioielli che in verità sembravano
inestimabili: pendenti agli orecchi e una lunghissima collana a tre giri di
perle grosse come ciliege, mitemente splendenti.
I ragazzi s'erano subito alzati. Si chinarono per il bacio sulla mano della
madre che con un sorriso contegnoso nel volto ben curato, ma un po'
stanco e dal naso aguzzo, guardava al di sopra del loro capo rivolgendo
qualche parola in lingua francese all'istitutrice. Poi si mosse verso la porta
a vetri. I figlioli la seguirono: prima le tre signorine in ordine di età, poi la
governante, ultimo il ragazzo. Per un motivo qualsiasi egli si voltò prima
di oltrepassare la soglia, e poiché nel salone non era rimasto nessun altro, i
suoi strani occhi di un grigio crepuscolare incontrarono quelli di
Aschenbach, che, col giornale sulle ginocchia, assorto in contemplazione,
seguiva il gruppo con lo sguardo.
Quella scena non aveva nulla di sorprendente nei particolari. I ragazzi
non erano andati a tavola prima della madre, l'avevano aspettata, l'avevano
salutata rispettosamente, e nell'entrare in sala da pranzo si erano attenuti
alle forme consuete. Tutto questo però si era svolto così espressivamente,
con un tale accento di modestia, impegno e decoro che Aschenbach ne fu
singolarmente commosso. Indugiò ancora qualche istante, poi entrò anche
lui nella sala da pranzo e si fece indicare il suo tavolo che, come rilevò con
un breve moto di rincrescimento, era molto lontano da quello della
famiglia polacca.
Stanco e tuttavia spiritualmente desto egli si occupò durante il lungo
pranzo di cose astratte e addirittura trascendenti, meditò sul misterioso
legame che il regolare deve contrarre con l'individuale perché ne risulti la
bellezza umana, di lì passò a problemi generali della forma e dell'arte e alla
fine trovò che i suoi pensieri e le sue conclusioni somigliavano a certe
ispirazioni del sogno, apparentemente felici, che poi a mente desta si
rivelano del tutto scipite e inservibili. Dopo cena indugiò nel parco
vespertino e fragrante, fumando, sostando e passeggiando, andò presto a
coricarsi e passò la notte in un sonno ininterrotto e profondo, ma
variamente animato da immagini e visioni.
Il giorno seguente il tempo prometteva male. Soffiava brezza di terra.
Sotto un cielo coperto e smorto il mare giaceva in torpida calma, quasi
raggricciato, con l'orizzonte prosaicamente vicino, e la marea era così
bassa che emergevano in varie file lunghi banchi di sabbia. Quando
Aschenbach aprì la finestra gli parve di fiutare l'odore putrido della laguna.
Lo assalì il malumore. In quel momento egli pensò alla partenza. Una
volta, anni prima, dopo giorni sereni di primavera un tempo simile a
questo lo aveva funestato ed era stato così dannoso alla sua salute che egli
aveva dovuto lasciare Venezia come un fuggiasco. E ora non si
ripresentava la febbrile svogliatezza di allora, il cerchio alle tempie, la pesantezza delle palpebre? Cambiare nuovamente dimora sarebbe stato
fastidioso; ma se il vento non girava, era impossibile restare. Per sicurezza
non disfece completamente le valige. Alle nove fece colazione
nell'apposita saletta, fra il salone e la sala da pranzo.
Nella stanza regnava la quiete solenne che è vanto dei grandi alberghi. I
camerieri facevano il loro servizio a passi silenziosi. Un tintinnio del
vasellame da tè, una parola mormorata a mezza voce, era tutto quel che si
poteva sentire. In un angolo, diagonalmente alla porta, due tavoli più in là
del suo, Aschenbach vide le giovani polacche con la loro istitutrice.
Sedevano molto diritte, i capelli di un biondo cenere lisciati da poco e gli
occhi arrossati, vestite di rigida tela azzurra con colletti e polsini bianchi, e
si passavano dall'una all'altra una coppa di marmellata. Avevano quasi
finito di far colazione. Il ragazzo non c'era.
Aschenbach sorrise. «Evvia, piccolo Feace! — pensò. — A quanto pare
tu hai sulle tue sorelle la prerogativa di dormire quanto ti aggrada». E
subitamente rasserenato recitò fra sé il verso:
Monili spesso mutati e tiepidi bagni e riposo...
Fece colazione senza fretta, ricevette dalle mani del portiere, che era
entrato nel salone col berretto gallonato in mano, la corrispondenza
rispedita da casa, e fumando una sigaretta aprì due o tre lettere. Così poté
ancora assistere all'ingresso del dormiglione che era atteso all'altro tavolo.
Egli entrò dalla porta a vetri e attraversando in diagonale la saletta
silenziosa venne al tavolo delle sorelle. Il suo incedere, tanto per il
portamento del busto quanto per il movimento dei ginocchi e il passo dei
piedi calzati di bianco, era di una grazia straordinaria, molto leggero,
delicato e superbo insieme, e abbellito ancora dalla timidezza infantile con
la quale egli cammin facendo alzò e abbassò due volte gli occhi volgendo
il viso verso la sala. Sorridente, con una parola a mezza voce nella sua
lingua fluida e dolce, egli sedette al suo posto; e soprattutto ora, vedendolo
nettamente di profilo, Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi da
sgomento per la bellezza veramente divina del giovane mortale. Oggi il
ragazzo portava una blusa leggera di cotone a righe bianche e azzurre, con
un fiocco rosso sul petto, chiusa al collo da un semplice solino bianco
diritto. Da quel solino, non molto adatto d'altronde al genere del vestito, la
testa sbocciava come un fiore, con leggiadria incomparabile — una testa di
Eros, che aveva la lucentezza eburnea del marmo pario, con sopracciglia
sottili e gravi, tempie e orecchi morbidamente coperti dai riccioli scuri
tagliati ad angolo retto.
«Bene, bene! — pensò Aschenbach, con la fredda approvazione tecnica
con cui gli artisti a volte travestono il loro rapimento, la loro esaltazione
davanti a un capolavoro. E continuando il suo pensiero, soggiunse: —
Davvero, se non mi attendessero il mare e la spiaggia, resterei qui finché
resti tu!» Ma invece, fra gl'inchini dei camerieri, attraversò il salone, scese
dalla terrazza, e per la passerella di legno andò direttamente alla spiaggia
riservata dell'albergo. Dal vecchio bagnino scalzo in calzoni di tela,
camiciotto da marinaro e cappello di paglia, si fece aprire la cabina che
aveva preso in affìtto, e mettere fuori sulla piattaforma di assi il tavolino e
le sedie; e si distese comodamente sulla poltrona a sdraio dopo averla tirata
più presso al mare, nella sabbia giallastra.
Lo spettacolo della spiaggia, di questa civiltà che gode sensuale e
spensierata in riva all'elemento, lo divertiva e lo rallegrava più che mai.
Già il piatto grigiore del mare era animato da bambini sguazzanti, da
nuotatori, da figure variopinte coricate sui banchi di sabbia con le mani
incrociate dietro il capo. Altri remavano in sandolini rossi e azzurri e si
rovesciavano in acqua ridendo. Davanti alla lunga fila delle capanne, che
avevano ognuna una piattaforma simile a una piccola veranda, c'era
giocosa agitazione e pigro riposo, visite e conversazioni, raffinata eleganza
mattutina e nudità ardita che godeva con gusto la libertà della spiaggia, più
avanti, sulla sabbia umida e salda, alcuni passeggiavano vestiti di
accappatoi bianchi o di camiciotti dai colori sgargianti. A destra una
complicata fortezza di sabbia costruita dai bambini era guarnita tutt'intorno
di bandierine d'ogni paese. Venditori di molluschi, di frittelle e di frutta
disponevano, ginocchioni, la loro merce. A sinistra, davanti a una delle
cabine che eran poste perpendicolarmente alle altre e al mare e chiudevano
così la spiaggia da quella parte, era accampata una famiglia russa: uomini
con lunghe barbe e con grossi denti, donne fragili e neghittose, una
signorina delle province baltiche, che seduta davanti a un cavalletto
dipingeva una marina fra sospiri di disperazione, due bambini brutti ma
simpatici, una vecchia domestica col fazzoletto in capo che si comportava
con umile tenerezza. Vivevano lì in riconoscente beatitudine, chiamando
instancabilmente per nome i loro bambini indocili e scatenati, scherzando
lungamente per mezzo di poche parole italiane col vecchio faceto che
vendeva dolciumi, baciandosi sulle guance, non curandosi affatto dei
testimoni della loro vita di famiglia.
«Dunque rimango, — pensò Aschenbach. — Dove trovare di meglio?»
E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle
lontananze del mare, e il suo sguardo ruggire, dissolversi, spezzarsi nel
vapore monotono dello spazio deserto. Egli amava il mare per ragioni
profonde: il bisogno di riposo dell'artista costretto a una dura fatica, che
davanti all'esigente proteismo dei fenomeni cerca rifugio nel seno della
semplicità, dell'immensità; la tendenza vietata, in netto contrasto con la sua
missione e appunto per questo così irresistibile, all'inarticolato,
l'incommensurabile, l'eterno, il nulla. Riposare nella perfezione è il sogno
di chi s'affatica per giungere all'eccellenza; e il nulla non è una forma della
perfezione? Ora, mentre egli lasciava che il suo sogno s'immergesse così
nel vuoto, la linea orizzontale della riva fu tagliata all'improvviso da una
forma umana, e quando egli raggiunse e ricondusse il suo sguardo
dall'infinito vide il bel fanciullo che venendo da sinistra gli passava
davanti sulla sabbia.
Era scalzo, pronto a sguazzare nell'acqua, le gambe snelle nude fin sopra
il ginocchio: camminava adagio ma con passo leggero e superbo, come se
fosse abituato ad andare senza scarpe, e si voltò verso le cabine che
delimitavano la spiaggia. Ma appena ebbe scorto la famiglia russa che se la
godeva in dolce armonia, una nube di iroso disprezzo gli oscurò il viso. La
sua fronte si corrugò, il labbro superiore si storse, dalla bocca a uno degli
zigomi corse una smorfia amara che gli sformò la guancia, e le
sopracciglia erano così increspate che gli occhi parvero incavarsi sotto la
pressione e fattisi scuri e cattivi parlarono eloquentemente il linguaggio
dell'odio. Egli abbassò lo sguardo, ancora una volta si girò indietro
minaccioso, fece poi con la spalla un brusco movimento di disprezzo, e si
lasciò il nemico alle terga.
Un senso di discrezione o di spavento, qualcosa come rispetto e
vergogna indusse Aschenbach a distoglier lo sguardo come se non avesse
veduto nulla; giacché all'uomo serio che per caso è testimonio della
passione ripugna far uso anche soltanto dentro se stesso di ciò che ha visto.
Aschenbach però era divertito e commosso insieme, vale a dire felice.
Quel fanatismo infantile rivolto contro gente innocua e bonaria metteva in
rapporti umani l'inespressività divina, rivelava degno di un interesse più
profondo un prezioso capolavoro della natura che era parso destinato solo
alla gioia degli occhi; e la figura dell'adolescente già così notevole per la
sua bellezza ne otteneva un rilievo che permetteva di prenderlo sul serio
più di quanto la sua età non comportasse.
Ancora voltato, Aschenbach ascoltava la voce del fanciullo, quella voce
chiara, un po' sottile, con cui egli cercava di annunciarsi già da lontano ai
compagni di gioco occupati intorno alla fortezza. Gli risposero parecchie
voci, gridando il suo nome o un vezzeggiativo, e Aschenbach ascoltò con
una certa curiosità, senza poter cogliere nulla di più preciso che due sillabe
melodiose come «Adgio» o più sovente «Adgiu» con un u prolungato alla
fine. Il suono gli piacque, egli giudicò che l'eufonia corrispondeva all'oggetto, lo ripete mentalmente e poi ritornò soddisfatto alle sue carte e
alle sue lettere.
Con la piccola cartella da viaggio sulle ginocchia prese la penna
stilografica e incominciò a sbrigare un po' di corrispondenza. Ma dopo un
quarto d'ora giudicò che era un peccato abbandonare così in ispirito e
trascurare per un'attività indifferente uno stato tanto degno d'esser goduto.
Buttò da parte carta e penna e ritornò al mare; e ben presto, attirato dalle
voci fanciullesche dei costruttori del forte, voltò verso destra la testa
comodamente appoggiata allo schienale della poltrona per assistere di
nuovo ai fatti e ai gesti del delizioso «Adgio».
Lo trovò alla prima occhiata; il fiocco rosso che aveva sul petto lo
distingueva fra tutti. Occupato insieme con gli altri a collocare una vecchia
tavola a guisa di ponte sul fossato umido della fortezza, egli dirigeva
l'opera con parole e con cenni del capo. Erano con lui una diecina di
compagni, maschi e femmine, della sua età e qualcuno più giovane, che
parlavano insieme in tutte le lingue, polacco, francese e anche idiomi
balcanici. Ma il suo nome risonava più sovente degli altri. Egli era fra tutti
il più ricercato, ammirato, corteggiato. Specialmente uno, polacco come
lui, che si chiamava «Yaschu» o qualcosa di simile, un ragazzo robusto dai
capelli neri impomatati, vestito di una leggera veste di tela, sembrava il
suo più fedele vassallo e amico. Finito per quella volta il lavoro intorno
alla fortezza, se ne andarono abbracciati lungo la riva, e quello chiamato
«Yaschu» baciò il bellissimo compagno.
Aschenbach fu tentato di minacciarlo col dito. «A te, Critobulo, —
pensò sorridendo, — consiglio di viaggiare per un anno! Perché tanto ti
occorre per guarire, non meno!» E poi fece una colazione di grosse fragole
ben mature, che comperò da un venditore ambulante. Adesso faceva molto
caldo, benché il sole non fosse riuscito a bucare lo strato di vapori che
copriva il cielo. La pigrizia incatenava lo spirito, mentre i sensi
assaporavano il formidabile e stordente discorso del silenzio marino.
Indovinare, indagare quale fosse quel nome che sonava press'a poco «Adgio» parve all'uomo serio e pensoso un compito degno di tutta la sua
attenzione. E con l'aiuto di qualche reminiscenza polacca, concluse che
doveva essere «Tadzio», abbreviazione di Tadeusz che nel vocativo si
prolungava in «Tadziu».
Tadzio faceva il bagno. Aschenbach, che l'aveva perso di vista, scorse la
sua testa, il suo braccio che egli alzava battendo l'acqua, laggiù molto al
largo; il mare infatti doveva esser calmo fino a grande distanza. Ma già la
gente s'inquietava per lui, già voci di donne lo chiamavano dalle cabine e
ripetevano quel nome che dominava la spiaggia quasi come una parola
d'ordine e con le sue consonanti dolci, il suo u finale prolungato aveva
qualcosa di mite e di selvaggio insieme: — Tadziu! Tadziu! — Egli tornò
indietro, a testa arrovesciata traversò di corsa l'acqua bassa facendo
sollevare in spuma l'onda che resisteva alle sue gambe; e vedere la forma
viva, acerba e graziosa nella sua previrilità, sorgere con i ricci grondanti,
bella come un giovane nume, dalle profondità del mare, uscire e fuggire
dall'elemento, era uno spettacolo che suggeriva mitiche fantasie, qualcosa
come una leggenda poetica di età primitive che narra le origini della forma
e la nascita degli dèi. Aschenbach ascoltava con gli occhi chiusi quel canto
che gli vibrava nell'anima, e di nuovo pensò che lì stava bene e che lì
sarebbe rimasto.
Più tardi Tadzio si riposò del bagno, sdraiato sulla sabbia, avvolto in un
lenzuolo bianco che passava sotto la spalla destra e con la testa appoggiata
sul braccio nudo; e Aschenbach, anche se non lo guardava e leggeva
invece qualche pagina del suo libro, non dimenticava mai che egli giaceva
là, e che bastava voltare leggermente il capo verso destra per contemplare
la mirabile visione. Gli sembrava quasi di esser lì per proteggere il suo
riposo, occupandosi delle cose proprie e tuttavia in costante vigilanza sulla
creatura ideale che giaceva poco lontano. E una tenerezza paterna, l'affetto
commosso di colui che sacrificandosi in ispirito crea la bellezza, verso
colui che la possiede, riempiva e agitava il suo cuore.
Dopo mezzogiorno lasciò la spiaggia, tornò all'albergo e salì in camera
sua. Ivi rimase a lungo davanti allo specchio, osservando i suoi capelli
grigi, il suo viso stanco e scavato. In quel momento pensò alla sua gloria,
ricordò che molti per la strada lo riconoscevano e lo guardavano reverenti,
per la precisione infallibile e coronata di grazia della sua parola; evocò
tutti i fortunati successi del suo talento, senza dimenticare il titolo nobiliare
che gli era stato conferito. Poi scese in sala da pranzo per il lunch, e
mangiò al proprio tavolino. Quando, finito il pasto, entrò nell'ascensore,
alcuni giovani che venivano anch'essi dalla sala da pranzo lo seguirono
nella gabbietta sospesa, e Tadzio era fra loro. Aschenbach se lo trovò
accanto, così vicino che invece di vederlo a distanza d'immagine lo sentiva
e lo riconosceva minutamente in tutti gli elementi della sua umanità.
Qualcuno rivolse la parola al fanciullo e questi, mentre rispondeva con un
sorriso indescrivibilmente amabile, già usciva a ritroso, con gli occhi bassi,
sul primo ripiano. «La bellezza genera il pudore», pensò Aschenbach e si
chiese insistentemente perché. Intanto aveva notato che i denti di Tadzio
non erano perfetti; un po' frastagliati e pallidi, senza lo smalto delle
dentature sane, con quella particolare fragilità e trasparenza che
accompagna talvolta la clorosi. «E molto delicato, non ha salute, — pensò
Aschenbach. — Probabilmente non diventerà vecchio». E rinunziò a
cercare la ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo suscitato
da quel pensiero.
Passò due ore nella sua stanza e nel pomeriggio andò a Venezia col
vaporetto che attraversava la putrescente laguna. Scese a San Marco, prese
il tè in piazza e poi, secondo il suo programma veneziano, fece un giro per
le vie. Ma proprio quella passeggiata produsse un rovesciamento completo
del suo umore e delle sue decisioni.
Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l'aria era così spessa
che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine — vapori oleosi,
nuvole di profumo e molti altri —, restavano sospesi senza dissolversi. Il
fumo delle sigarette fluttuava dov'era e si disperdeva solo con estrema
lentezza. La folla che si pigiava nello spazio ristretto infastidiva il
passeggiatore invece di divertirlo, più andava, e più sentiva il tormento
dell'orribile stato in cui l'aria di mare unita allo scirocco solevan farlo
cadere, uno stato di prostrazione e di eccitazione insieme. Il suo corpo stillava di molesto sudore. Gli si annebbiava la vista, il petto era oppresso, un
brivido di febbre lo scosse, il sangue gli pulsava alle tempie. Fuggì dalle
Mercerie affollate, verso i quartieri dei poveri. Ma qui lo importunavano i
mendicanti, e il fetore dei canali gli mozzava il respiro. In una piazza
tranquilla, uno di quei luoghi nel cuore di Venezia che sembrano
addormentati in un magico oblio, egli si riposò su una vera di pozzo,
s'asciugò la fronte e capì che doveva partire.
Per la seconda volta e ormai in modo definitivo era dimostrato che la
città, con quella temperie, aveva un pessimo effetto sulla sua salute.
Ostinarsi a restare era irragionevole, la probabilità di un cambiamento di
atmosfera appariva molto incerta. Bisognava prendere una decisione
immediata. Ritornare a casa subito non era possibile. Né il quartiere
d'inverno né quello d'estate eran pronti ad accoglierlo. Ma il mare e la
spiaggia non si trovavano soltanto a Venezia, e anzi altrove non avevano il
malefico complemento della laguna e dei suoi miasmi. Si ricordò di un
piccolo villaggio balneare poco distante da Trieste, che qualcuno gli aveva
segnalato. Perché non andar là? E senza indugio, affinché mettesse ancora
conto di cambiare un'altra volta villeggiatura. Si dichiarò risoluto e si alzò.
Alla prima stazione di barche prese una gondola e attraverso il tetro
labirinto dei canali, sotto balconi leggiadri fiancheggiati da leoni di
marmo, girando intorno a speroni di muraglie vischiose, lungo squallide
facciate di palazzi in rovina che specchiavano grandi insegne di fondachi
nelle acque cosparse di galleggianti detriti, si fece portare a San Marco.
Non vi giunse senza fatica, perché il gondoliere, in combutta con fabbriche
di merletti e vetrerie, cercava continuamente di sbarcarlo per visitare
negozi e fare acquisti, e quando quella bizzarra traversata di Venezia in-
cominciava a esercitare il suo incanto, il mercantilismo rapace della
decaduta regina dei mari interveniva spiacevolmente a sciogliere la magia.
Ritornato all'albergo, prima ancora di pranzare dichiarò al bureau che
circostanze impreviste lo costringevano a partire l'indomani mattina.
Furono scambiate frasi di rincrescimento, gli venne rilasciata quietanza del
suo conto. Egli pranzò e trascorse la tiepida serata a legger giornali seduto
in poltrona a dondolo sulla terrazza verso il giardino. Prima di andare a
letto preparò tutti i bagagli per la partenza.
Non dormi troppo bene, agitato dal nuovo distacco. Al mattino, quando
aprì la finestra, il cielo era coperto come il giorno prima, ma l'aria pareva
più fresca, e tosto incominciò il suo rimpianto. Quella precipitosa disdetta
non era un errore, la conseguenza di uno stato di malessere che non
costituiva norma? Se l'avesse differita di qualche giorno, se, prima di
rinunziare a priori, avesse corso l'alea di un adattamento al clima
veneziano o di un miglioramento del tempo, adesso, in luogo di agitazione
e trambusto, avrebbe avuto davanti una mattinata sulla spiaggia come
quella di ieri. Troppo tardi. Adesso doveva continuare a volere ciò che
aveva voluto ieri. Si vestì e alle otto scese a pianterreno per far colazione.
Nella saletta, quando egli entrò, non c'era ancora nessuno. Qualcuno
giunse mentre egli aspettava la colazione che aveva ordinato. Sorbiva già il
tè quando arrivarono le giovani polacche con la loro accompagnatrice;
austere e fresche, con gli occhi un po' rossi, andarono al loro tavolino
presso la finestra. Subito dopo s'avvicinò il portiere col berretto in mano e
gli annunciò ch'era l'ora della partenza. L'automobile era pronta per
condurre lui e altri viaggiatori all'Albergo Excelsior, di dove il motoscafo
avrebbe trasportato i signori alla stazione attraverso il canale privato della
Società dei Grandi Alberghi. Non c'era tempo da perdere... Secondo
Aschenbach, invece, non c'era nessuna fretta. Mancava più di un'ora alla
partenza del treno. Egli si impazientì contro l'abitudine alberghiera di
spedir via troppo presto i partenti, e disse al portiere che intendeva far
colazione in pace. L'uomo si ritirò a malincuore per ricomparire dopo
cinque minuti. Impossibile far aspettare più a lungo la macchina. — E
allora vada pure, basta che trasporti il mio baule, — rispose Aschenbach
irritato. Quanto a lui, aggiunse, avrebbe preso il vaporetto all'ora che gli
faceva comodo, e pregava che lo lasciassero sbrogliare da solo.
L'impiegato s'inchinò. Aschenbach, contento di aver respinto le fastidiose
insistenze, terminò senza fretta di far colazione e si fece persino portare un
giornale. Aveva davvero i minuti contati quando finalmente si alzò. Il caso
volle che proprio in quel momento Tadzio entrasse dalla porta a vetri.
Nell'andare verso il tavolo dei suoi, egli s'incontrò con l'ospite che
partiva; davanti a quel signore dalla fronte alta e dai capelli grigi chinò
modestamente gli occhi a terra, per risollevarli tosto, com'era suo amabile
vezzo, larghi e dolci verso di lui, ed era già passato. «Addio, Tadzio! —
pensò Aschenbach. — Per breve tempo ti ho veduto». E mentre contro la
sua abitudine formulava il pensiero con le labbra e lo mormorava a voce
bassa, soggiunse: — Sii benedetto! — Poi procedette alla partenza,
distribuì mance, ricevette il saluto del piccolo discreto manager in
finanziera alla moda francese, e uscì dall'albergo a piedi com'era venuto,
seguito dal domestico che portava il bagaglio a mano, per recarsi
all'imbarcatoio, lungo il viale biancofiorito che traversa l'isola. Vi giunge,
sale sul vaporetto... e quel che seguì fu il cammino della passione, un
angoscioso discendere a tutti gli abissi del pentimento.
Era la traversata ben nota della laguna, passando davanti a San Marco, e
su per il Canal Grande. Aschenbach era seduto sulla panca circolare a prua,
col braccio appoggiato alla ringhiera e la mano alzata a proteggere gli
occhi dal riverbero. I Giardini Pubblici restarono alle sue spalle, la
Piazzetta s'aprì ancora una volta nella sua grazia regale e scomparve, poi
venne la grande fuga di palazzi, e alla svolta del canale apparve lo
splendido arco marmoreo del Ponte di Rialto. Il viaggiatore guardava, e si
sentiva strappare il cuore. L'atmosfera, della città, quell'odore un po'
marcio d'acqua stagnante che aveva avuto tanta fretta di fuggire... adesso
egli lo respirava a lunghi tratti, con dolorosa tenerezza. Possibile che egli
non avesse saputo, che non avesse ricordato come il suo cuore era
attaccato a tutto ciò? Quello che al mattino era stato un vago rammarico,
un leggero dubbio sull'opportunità della sua decisione, diventava adesso
dolore, vero cordoglio, una tortura dell'anima, così amara che più volte le
lacrime gli empirono gli occhi, e di cui si diceva che non avrebbe mai
potuto prevederla. Ciò che più gli pareva penoso, anzi in certi momenti
addirittura intollerabile, era il pensiero che non avrebbe mai più riveduto
Venezia, che quello era un addio per sempre. Poiché aveva accertato per la
seconda volta che la città era nociva alla sua salute, poiché per la seconda
volta era costretto a fuggir via precipitosamente, doveva considerarla d'ora
in poi come una residenza impossibile e proibita, al di sopra delle sue
forze, e che sarebbe stato assurdo ritentare. Sentiva anzi che se ora partiva,
orgoglio e vergogna gli avrebbero vietato di vedere mai più la città amata
davanti alla quale per ben due volte egli aveva fallito fisicamente; e quel
conflitto fra inclinazione spirituale e capacità corporale parve
improvvisamente così grave e significativo all'uomo in declino, la disfatta
fisica così vergognosa, così da evitare a qualunque prezzo, che non capiva
più la facile rassegnazione con cui ieri aveva deciso di subirla e di ammetterla senza una dura lotta.
Intanto il vaporetto s'avvicina alla stazione, sofferenza e perplessità
crescono fino allo sconvolgimento. In tanta angoscia il partire sembra
impossibile e non meno impossibile il rimanere. Cosi egli entra in
stazione, con l'animo lacerato. E molto tardi, non c'è un minuto da perdere
se vuole prendere il treno. Egli vuole e non vuole. Ma il tempo stringe, lo
incalza; egli si affretta a prendere il biglietto e nel trambusto della sala
cerca l'impiegato della Società. L'uomo si mostra e annunzia che il baule è
stato spedito. — Già spedito? — Si, tutto in ordine, per Como. — Per
Como? — E da un rapido scambio di irritate domande e di costernate
risposte risulta che il baule, confuso con altri bagagli, è partito dall'ufficio
spedizioni dell'Albergo Excelsior in direzione completamente sbagliata.
Aschenbach stentò a conservare l'espressione di rincrescimento adatta
alle circostanze. Una gioia stravagante, una incredibile gaiezza gli squassò
internamente il petto quasi come uno spasimo. L'impiegato si precipitò a
fermare il baule, se era ancora possibile, ma com'era da prevedersi ritornò
a mani vuote. Allora Aschenbach dichiarò che non intendeva partire senza
il suo baule, e perciò decideva di tornare all'Albergo dei Bagni per
attendervi il ritorno del collo. Chiese se il motoscafo della Società fosse
ancora lì. L'uomo assicurò che era davanti alla porta della stazione. Con
italiana facondia persuase il bigliettario a riprendersi indietro il biglietto,
giurò che si sarebbe telegrafato, che non si sarebbe risparmiato né
trascurato nulla per riavere il baule al più presto — e così fu che il
viaggiatore, venti minuti dopo il suo ingresso in stazione, si ritrovò sul
Canal Grande di ritorno verso il Lido.
Avventura bizzarra, incredibile, umiliante, tra la farsa e il sogno: deviato
e risospinto indietro dal destino, rivedere, prima che un'ora sia passata, i
luoghi a cui si è appena detto addio con acerbo dolore! Sollevando un'onda
di spuma, bordeggiando agile fra gondole e vaporetti, la piccola rapida
imbarcazione vola verso la sua mèta, mentre l'unico passeggero nasconde
sotto la maschera dell'imbronciata rassegnazione l'allegra baldanza di un
ragazzo scappato di casa. Di tanto in tanto gli vien da ridere al pensiero di
quella fatalità che non avrebbe potuto trattare con maggior compiacenza
un beniamino della fortuna. «Bisognerà dare spiegazioni, — egli si disse,
— affrontare sguardi stupiti; poi tutto tornerà a posto»: una infelicità sarà
stata evitata, un grave errore riparato, e tutto ciò che egli aveva creduto di
abbandonare si sarebbe di nuovo offerto, sarebbe stato suo finché egli
voleva... E lo illudeva la velocità del battello, o davvero, per colmo di
fortuna, il vento adesso soffiava dal mare?
Le onde battevano contro le pareti di cemento dello stretto canale che
taglia l'isola fino all'Excelsior. Un'automobile-omnibus aspettava il reduce
e lungo il mare increspato lo ricondusse diritto all'Albergo dei Bagni. Il
piccolo manager baffuto in abito a falde scese la scalinata per venirgli
incontro.
Con delicate blandizie deplorò l'incidente, lo definì assai penoso per lui
stesso e per l'albergo, ma approvò in tono convinto la decisione presa da
Aschenbach di aspettare lì il ritorno del baule. La sua camera
sventuratamente era stata occupata, ma gliene poteva offrire un'altra, non
meno buona. — Pas de chance, monsieur, — disse sorridendo il liftboy
svizzero, mentre lo accompagnava su. E così il fuggiasco fu di nuovo
acquartierato, in una stanza quasi identica alla prima per posizione e
arredamento.
Affaticato, intontito dal turbinio di quella strana mattinata, Aschenbach
dopo aver messo a posto il contenuto della sua valigetta a mano si sedette
in poltrona accanto alla finestra aperta. Il mare aveva preso una tinta verde
chiara, l'aria sembrava più sottile e più pura, la spiaggia con le cabine e le
barche più colorata, sebbene il cielo fosse ancora grigio. Aschenbach
guardava fuori, con le mani congiunte in grembo, lieto di esser di nuovo lì,
ma crollando il capo e malcontento della sua volubilità, della sua
ignoranza dei propri desideri. Così rimase per un'ora buona, senza pensare,
in riposo e in vaga fantasticheria. Verso mezzogiorno vide Tadzio nell'abito
di tela rigata col fiocco rosso che ritornava dal mare lungo lo steccato della
spiaggia e rientrava in albergo dalla passerella. Aschenbach di lassù lo
riconobbe subito, prima ancora di averlo visto bene, e stava per pensare
qualcosa come: «Oh Tadzio, anche tu sei di nuovo qui!» Ma nell'attimo
stesso sentì che quel saluto indolente crollava e ammutoliva davanti alla
verità del suo cuore — sentì l'esaltazione del suo sangue, la gioia, il dolore
dell'anima sua e capì che proprio per Tadzio gli era stato così penoso il
distacco.
Rimase seduto in silenzio, lassù dove nessuno lo poteva vedere, e scrutò
dentro se stesso. Il suo viso s'era animato, le sue sopracciglia si rialzarono,
un sorriso attento di sottile curiosità gl'increspò la bocca. Poi alzò il capo e
con le due braccia che pendevano inerti dai braccioli della poltrona
descrisse un movimento ascendente e rotatorio, con le palme rivolte verso
l'alto, come ad accennare un aprirsi e un allargarsi delle braccia. Era un
gesto di fervido benvenuto e di serena accoglienza.
IV
Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance ardenti conduceva nudo la
quadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d'oro
ondeggiava al vento di levante subitamente calmato. Una serica
bianchezza posava sulle distese del Ponto torpido e ondoso. La sabbia
bruciava. Sotto l'etere azzurro dai barbagli d'argento erano tese davanti alle
cabine tende di traliccio color ruggine, e sulla netta macchia d'ombra da
esse proiettata si passavan le ore del pomeriggio. Ma non meno deliziosa
era la sera, quando gli alberi del parco esalavano profumi balsamici, le
stelle compivano lassù la loro danza, e il mormorio del mare notturno
saliva dolcemente e parlava alle anime. Quelle sere portavano in sé la lieta
promessa di una nuova giornata di sole, di facili e ordinati piaceri,
abbellita da infinite occasioni di gradevoli casi.
L'ospite che una compiacente disdetta aveva trattenuto colà era ben
lontano dal vedere nel ricupero dei suoi averi il motivo di un'altra partenza.
Per due giorni aveva dovuto sopportare qualche privazione e partecipare al
pranzo nella gran sala in tenuta da viaggio. Poi, quando gli fu riportato
finalmente il baule smarrito, lo disfece fino in fondo e riempì della sua
roba armadi e cassetti, deciso a fermarsi per un periodo indeterminato,
soddisfatto di passare le ore alla spiaggia in leggeri vestiti di seta e di
potersi recare a pranzo in abito da sera.
Il ritmo regolare e agevole di quell'esistenza lo teneva già sotto il suo
incanto, la dolcezza morbida e sontuosa di quel vivere lo inebriò
rapidamente. Soggiorno ineguagliabile, infatti, che unisce le attrattive di
una comoda villeggiatura su una spiaggia meridionali con la vicinanza
familiare della città stupefacente e stupenda! Aschenbach non era amante
dei piaceri. Quando si trattava di far vacanza, di riposare, di darsi bel
tempo, provava ben presto — ed era stato così specialmente quand'era più
giovane — un'inquietudine e un disgusto che lo riconducevano all'ardua
fatica, alla sacra e tranquilla opera quotidiana. Solo questo luogo lo
ammaliava, allentava la sua volontà, lo rendeva felice. Qualche volta al
mattino, sotto la tenda del suo capanno, mentre contemplava sognando il
mare azzurro, o nella notte tiepida sdraiato sui cuscini della gondola che
dopo una lunga sosta in Piazza San Marco lo riportava a casa sotto il vasto
cielo stellato — e le luci varie, i suoni armoniosi delle serenate si
spegnevano in lontananza —, egli ripensava alla casa fra i monti, scenario
delle sue battaglie estive, dove le nuvole passavano basse sul giardino e
tremendi temporali notturni spegnevano le luci domestiche e i corvi da lui
nutriti si dondolavano in cima agli abeti. Gli sembrava allora di essere
trasportato nei campi d'Elisio, ai confini della terra dove gli uomini vivono
una vita beata, dove non c'è neve né tempesta né piogge torrenziali, ma
Oceano spira un'aura mite e fresca e i giorni trascorrono in ozi deliziosi,
senza fatica, senza lotta, unicamente consacrati al sole e alle sue feste.
Spesso, quasi di continuo Aschenbach vedeva il giovane Tadzio; lo
spazio ristretto, l'orario uguale per tutti facevano sì che il bel fanciullo
fosse quasi costantemente nelle sue vicinanze; tranne brevi interruzioni lo
vedeva, lo incontrava dappertutto; nelle sale a pianterreno dell'albergo, nei
rinfrescanti viaggi in vaporetto tra il Lido e la città, sulla splendida Piazza
e sovente anche nei vicoli e nei campielli quando il caso era benigno. Ma
soprattutto, e con la più felice regolarità, le mattinate sulla spiaggia gli
offrivano largamente il destro di contemplare con fervore e raccoglimento
la leggiadra apparizione. Anzi, proprio questa fedeltà della fortuna, questo
favore delle circostanze regolarmente e quotidianamente rinnovato, lo
riempiva di contentezza e di gioia di vivere e gli rendeva caro il soggiorno
facendo seguire una giornata di sole all'altra in compiacente offerta.
Egli si alzava presto, come nei giorni in cui lo incalzava l'assillo del
lavoro, ed era sulla spiaggia prima di tutti gli altri, quando il sole era
ancora mite e il mare bianco abbagliante sognava ancora i suoi sogni
mattutini. Salutava affabilmente il guardiano del recinto, familiarmente il
bagnino scalzo dalla barba bianca che gli aveva preparato il posto tirando
la tenda bruna, mettendo fuori sulla piattaforma i mobili della cabina, e si
sdraiava. Allora tre ore o quattro erano sue, in cui il sole salendo nel cielo
acquistava una forza terribile, e l'azzurro del mare si faceva sempre più
intenso ed egli poteva contemplare Tadzio.
Lo vedeva venire da sinistra, lungo la riva, oppure sbucar fuori tra le
capanne, o anche s'accorgeva improvvisamente, non senza un lieto
sussulto, di aver perduto il suo arrivo e ch'egli era già lì col suo vestito
bianco e turchino, l'unico indumento che portava sulla spiaggia, e già si
dedicava alle sue consuete occupazioni al sole e sulla sabbia — quella vita
amabilmente vuota, oziosamente irrequieta che era gioco e riposo,
bighellonare, sguazzare nell'acqua, scavare la sabbia, rincorrersi, stare
coricati e nuotare, sotto la sorveglianza delle signore che con voci acute lo
chiamavano per nome: —Tadziu! Tadziu! — ed egli accorreva al richiamo,
con gesti animati, per raccontar loro le sue avventure e mostrare il bottino:
conchiglie, ippocampi, meduse
e granchi che camminavano di traverso. Aschenbach non capiva una
parola di quel che diceva, forse erano le cose più comuni del mondo, ma al
suo orecchio suonavano come una vaga melodia. Così l'incomprensibilità
trasformava in musica la lingua del fanciullo, un sole sfolgorante versava
su di lui una profusione di luce, e lo sfondo sublime del mare dava risalto
alla sua figura.
Ormai Aschenbach conosceva ogni linea e ogni atteggiamento di quel
corpo così squisito e così liberamente rivelato; salutava con gioia sempre
nuova ogni bellezza già nota, e non si saziava di ammirare con delicato
piacere dei sensi. Il ragazzo era chiamato a salutare un conoscente che
faceva visita alle signore davanti alla loro cabina; egli giungeva di corsa,
talvolta era appena uscito grondante dal mare, buttava indietro i riccioli e
porgendo la mano riposava su una gamba, mentre l'altro piede sfiorava
appena il terreno, con una incantevole torsione del corpo, un gesto di
grazia e di attesa, di amabile perplessità, di doverosa aristocratica
civetteria. Altre volte se ne stava coricato per terra, l'accappatoio avvolto
intorno al petto, il gracile braccio scultoreo puntato sulla rena, il mento nel
cavo della mano; accoccolato accanto a lui il ragazzo che chiamavano
«Yaschu» gli faceva mille finezze, e nulla era più affascinante che il
sorriso delle labbra e degli occhi con cui il beniamino ricompensava il suo
umile cortigiano. Oppure se ne stava ritto in riva al mare, solo, lontano dai
suoi e vicinissimo ad Aschenbach — con le mani intrecciate dietro la nuca,
dondolandosi lento sulla punta dei piedi, e fantasticava assorto, mentre le
piccole onde venivano a lambirgli gli alluci. I suoi capelli color del miele
si arricciolavano sulle tempie e sulla nuca, il sole faceva brillare la peluria
fra le scapole, il disegno delicato delle costole, la simmetria del petto si
distinguevano attraverso lo scarno rivestimento del torso, le ascelle erano
ancora lisce come in una statua, il cavo delle ginocchia splendeva e le
venature azzurrine facevano sembrare il suo corpo ancora più luminoso.
Quale disciplina, quale precisione del pensiero si esprimeva in quel corpo
agile e giovanilmente perfetto! Ma la volontà pura e severa che agendo
oscuramente aveva potuto dare alla luce quella divina opera d'arte non era
forse nota e familiare a lui, all'artista? Non agiva anche in lui, quando egli
pieno di serena passione sprigionava dal blocco marmoreo del linguaggio
la forma snella che aveva concepito con la mente e che presentava agli
uomini come specchio ed effigie della bellezza spirituale?
Specchio ed effigie! I suoi occhi abbracciarono la nobile figura che
campeggiava nell'azzurro, e con estatica esaltazione egli credette di
comprendere con quello sguardo l'essenza stessa della bellezza, la forma
come pensiero divino, l'unica e pura perfezione che vive nello spirito e di
cui era qui offerta all'adorazione un'immagine umana, un simbolo chiaro e
leggiadro. Questa era l'ebbrezza! E l'artista invecchiarne l'accolse senza
esitare, anzi con avidità. La sua cultura era in travaglio, il suo spirito
ribolliva, la sua memoria mise alla luce pensieri vecchissimi che gli erano
stati trasmessi in gioventù e che egli finora non aveva mai ravvivato con la
propria fiamma. Non sta scritto che il sole storna la nostra attenzione dalle
cose intellettuali e la rivolge verso le cose materiali? Esso stordisce
l'intelligenza e la memoria, e le ammalia in tal modo che l'anima nel piacere dimentica il proprio stato e s'attacca al più bello degli oggetti
illuminati dal sole; sicché soltanto con l'aiuto di un corpo essa trova poi la
forza di innalzarsi a più alta contemplazione. Amore in verità fa come i
matematici che mostrano ai fanciulli di poco talento le immagini tangibili
delle pure forme. Così anche il dio, per renderci visibile l'astratto, ricorre
volentieri alla forma e al colore della giovinezza umana che egli, per farne
uno strumento del ricordo, riveste di tutto lo splendore della bellezza, cosi
che a tal vista noi ardiamo di dolore e di speranza.
Così egli pensava nel suo entusiasmo; così gli era dato di sentire. E
l'ebbrezza del mare e il fulgore del sole gli intesserono un'immagine
maliosa. Era il vecchio platano poco lungi dalle mura di Atene, il sacro
recesso ombroso profumato dagli agnocasti in fiore, adorno di tavolette
votive e di pie offerte in onore delle ninfe e di Acheloo. Limpidissimo il
ruscello scorreva ai piedi dell'albero dai grandi rami, su un letto di ciottoli
levigati; i grilli stridevano. Ma sul prato in dolce declivio, che permetteva
di giacere con il capo sollevato, erano distesi due uomini, riparati quivi
dall'ardore del giorno; l'uno quasi vecchio e l'altro giovane, l'uno brutto e
l'altro bello, il saggio presso l'amabile. E fra gentilezze e lusinghevoli
arguzie Socrate istruiva il discepolo Fedro sul desiderio e sulla virtù. Gli
parlava della fervida angoscia che coglie l'uomo sensibile quando i suoi
occhi scorgono un simbolo della bellezza eterna; gli parlava degli appetiti
dell'empio e del malvagio, che non può immaginare la bellezza quando ne
vede il simulacro, e che non è capace di rispetto; gli parlava del sacro
sgomento che afferra l'uomo di nobili sensi quando un volto divino, un
corpo perfetto gli appare... come egli trema ed è fuori di sé, e osa appena
guardare e venera colui che possiede la bellezza, e gli recherebbe sacrifici
come alla statua di un dio se non dovesse temere di esser preso per pazzo.
Giacché la bellezza, mio Fedro, solo essa è amabile e visibile al tempo
stesso; essa è, notalo bene, la sola forma dell'immateriale che noi possiamo
percepire coi sensi e che i nostri sensi possono sopportare. O altrimenti che
sarebbe di noi se il divino, se la ragione la virtù la verità ci apparissero
sensibilmente? Non saremmo noi distrutti e inceneriti dall'amore, come
Semele al cospetto di Giove? Così la bellezza è, per colui che sente, la via
che conduce allo spirito — solo la via, solo il mezzo, piccolo Fedro... E
poi disse la cosa più sottile, l'astuto seduttore; disse che l'amante è più
divino dell'amato perché Dio è nel primo ma non nell'altro... forse il
pensiero più tenero e più beffardo che sia mai stato pensato e dal quale
scaturisce tutta la malizia e la più segreta voluttà del desiderio.
Felicità dello scrittore è il pensiero che può tutt'intero divenir
sentimento, il sentimento che può tutto trasformarsi in pensiero. Tali erano
il pensiero palpitante, il sentimento rigoroso che appartenevano e
obbedivano in quel momento al solitario: cioè, che la natura rabbrividisce
di voluttà quando lo spirito s'inchina davanti alla bellezza.
Improvvisamente sentì il desiderio di scrivere. Si dice, è vero, che Eros
ami l'infingardaggine e solo per questa sia creato. Ma a quel punto della
crisi l'orgasmo della vittima era volto verso la produzione. Il motivo gli era
quasi indifferente. Un'interrogazione, un invito a pronunciarsi su un certo
problema vasto e scottante della cultura e del gusto era stato rivolto al
mondo intellettuale ed egli l'aveva ricevuto dopo la sua partenza.
L'argomento gli era familiare, era per lui esperienza vissuta; la voglia di
illuminarlo con la luce della propria parola proruppe in lui irresistibile. E il
suo impulso lo spingeva a lavorare in presenza di Tadzio, a prendere come
modello la figura dell'adolescente, ad accordare il suo stile con quel corpo
che gli sembrava divino e trasportare la sua bellezza nell'ordine spirituale
come l'aquila innalzò un giorno nell'etere il pastore troiano. Mai egli aveva
sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben
compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le
ore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda,
contemplando l'idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva a
immagine della bellezza di Tadzio la sua breve dissertazione — quella
pagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energia
doveva suscitare di lì a poco l'ammirazione universale. È certamente un
bene che il mondo conosca soltanto la bella opera e non le sue origini, non
le condizioni e le circostanze del suo sviluppo; giacché la conoscenza delle
fonti onde scaturisce l'ispirazione dell'artista potrebbe turbare, spaventare,
e così annullare gli effetti della perfezione. Ore singolari! Strana fatica
snervante! Strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo!
Quando Aschenbach ripose il suo lavoro e andò via dalla spiaggia si sentì
esausto, anzi distrutto, e gli pareva che la coscienza lo rimproverasse come
dopo un'orgia.
Fu il mattino seguente che egli, mentre stava uscendo dall'albergo, vide
dalla scalinata Tadzio, già incamminato verso il mare, avvicinarsi tutto
solo alla barriera della spiaggia. Il desiderio, la semplice idea di
approfittare dell'occasione e di stringere una facile, gaia conoscenza con
quello che inconsapevolmente tanto lo esaltava e lo commuoveva, di
parlargli, gioire della sua risposta e del suo sguardo, si presentava
naturalmente e s'imponeva. Il bel fanciullo camminava senza fretta, era
facile raggiungerlo e Aschenbach affrettò il passo. Gli arriva accanto sulla
passerella dietro le cabine, vuol posargli la mano sul capo, sulla spalla, e
una parola, una frase amichevole in francese gli viene alle labbra: ma in
quell'attimo sente che il suo cuore batte come un martello, forse anche per
l'andatura accelerata, e che col fiato così corto egli potrà parlare solo
ansando e tremando: esita, cerca di dominarsi, all'improvviso teme di
seguire già da troppo tempo l'adolescente, teme di destare la sua
attenzione, il suo sguardo interrogativo, prende un ultimo avvio, fallisce,
rinunzia e passa col capo chino.
«Troppo tardi!» pensò in quel momento. Troppo tardi! Era poi davvero
troppo tardi? Quel passo mancato avrebbe forse avuto conseguenze
benefiche, lo avrebbe rasserenato, alleggerito, avrebbe disperso
salutarmente l'ebbrezza. Ma di questo appunto si trattava: l'uomo già
anziano non voleva saperne di tornare in sé, l'ebbrezza gli era troppo cara.
Chi può decifrare la natura e il carattere dell'artista? Chi può capire
l'amalgama istintivo di disciplina e di licenza che è fondamento della sua
vocazione? Giacché essere incapaci di volere il salutare ritorno alla
ragione è dissolutezza. Aschenbach non era più disposto a criticare se
stesso; il gusto, l'ordinamento mentale proprio della sua età, stima di sé,
maturità e semplicità acquisita, non lo rendevano incline ad anatomizzare i
motivi e a determinare se per scrupolo, per dissolutezza o per viltà non
aveva attuato il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, non
fosse che il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato il suo
inseguimento e la sua sconfitta; aveva molta paura del ridicolo. Del resto
rideva tra sé del suo tragicomico terrore. «Sbigottito, — egli pensò, —
sbigottito come un gallo che colto dallo spavento abbassa le ali nel bel
mezzo della lotta. E davvero il dio stesso che spezza il nostro coraggio alla
vista dell'oggetto amabile e così umilia fino a terra la nostra superbia...»
Così scherzava coi suoi pensieri, fantasticava ed era troppo orgoglioso per
aver paura di un sentimento.
Già non pensava più al termine prestabilito del riposo che si era
concesso; l'idea della partenza non lo sfiorava neppure. Si era provvisto di
molto denaro. Sua unica preoccupazione era la possibile partenza della
famiglia polacca; ma informandosi incidentalmente presso il parrucchiere
dell'albergo aveva appreso di sottomano che quei signori erano arrivati
poco prima di lui. Il sole gli abbronzava il viso e le mani, l'eccitante soffio
salino rinvigoriva i suoi sensi, e come per l'addietro egli soleva spendere
tosto in un'opera tutte le forze che il sonno, il nutrimento o la natura gli
avevano donato, così adesso con improvvida generosità consumava in
sentimento ed ebbrezza il quotidiano ristoro di gagliardia che gli
apportavano il sole, l'ozio e l'aria di mare.
Il suo sonno era di poca durata; notti brevi, piene di felice agitazione,
interrompevano i giorni deliziosamente monotoni. Egli si ritirava
prestissimo, perché alle nove, quando Tadzio era scomparso dalla scena, la
giornata gli pareva finita. Ma ai primi bagliori dell'alba lo svegliava uno
sgomento dolce e penetrante, il cuore si ricordava della sua avventura; egli
non resisteva più tra le coltri, si alzava, e, leggermente coperto contro la
frescura mattutina, andava a sedersi presso la finestra aperta e aspettava il
levar del sole. L'avvenimento meraviglioso empiva di religiosità la sua
anima santificata dal sonno. Ancora il cielo, la terra e il mare erano
immersi in uno spettrale vitreo biancore crepuscolare; ancora una stella
morente navigava nell'irreale. Ma ecco giungeva un soffio, un alato
messaggio da sedi inaccessibili annunziava che Eos, l'Aurora, sorgeva dal
letto maritale; e appariva quel primo tenue rossore delle zone più lontane
del mare e del cielo, col quale il creato si rivela ai sensi. S'avvicinava la
dea, la rapitrice di adolescenti che involò Clito e Cefalo e che sfidando
l'invidia di tutto l'Olimpo godette l'amore del bel cacciatore Orione. Ai
confini del mondo incominciava la pioggia di rose, un chiarore e una
fiorita di grazia ineffabile, nuvole nascenti, immateriali, luminose si
libravano come amorini obbedienti fra rosei e cilestrini vapori; un velo di
porpora si stendeva sul mare che sembrava portarlo ondeggiando verso la
riva, dardi dorati guizzavano dal basso verso l'alto del cielo, lo splendore
diveniva incendio; silenziosamente, con divina strapotenza, il fuoco, le
fiamme, il rogo divampante invadevano il cielo, e i sacri corsieri di Febo,
il dio fratello, con zoccoli travolgenti s'innalzavano sull'orizzonte.
Illuminato dal fulgore divino il vegliante solitario chiudeva gli occhi e
offriva le sue palpebre al bacio dell'astro glorioso. Sentimenti del passato,
antichi deliziosi tormenti che erano morti durante la sua vita di rigida
disciplina ritornavano adesso cosi stranamente mutati — egli li riconosceva con un sorriso di perplessità, di meraviglia. Pensoso, trasognato;
formava lentamente un nome con le labbra e sorridendo sempre col viso
levato verso il cielo, le mani giunte in grembo, si assopiva ancora una
volta.
Ma il giorno incominciato con tanta gloria di fuoco restava stranamente
sublimato e trasformato miticamente. Da quali regioni, da quali origini,
veniva quel soffio che a un tratto cosi dolce e persuasivo, quasi un
suggerimento dall'alto, gli accarezzava le tempie e l'orecchio? Bianche
nuvolette fioccose erano sparse nel cielo come greggi pascenti degli dèi.
S'alzava un vento più forte e i cavalli di Posidone accorrevano,
s'impennavano, e anche i tori del dio glaucoricciuto si avventavano
mugghiando, a testa bassa. Ma sugli scogli lontani della spiaggia le onde
saltellavano come capre vivaci. Un mondo santamente stravolto, pieno di
fervore panico, circondava l'uomo affascinato, e il suo cuore sognava dolci
favole. Spesso, quando il sole tramontava dietro Venezia, egli stava seduto
su una panchina del parco a guardare Tadzio che, vestito di bianco con una
cintura di colore, giocava a palla sul piazzale inghiaiato, e credeva di
vedere Giacinto che deve morire perché è amato da due numi. Sentiva
persino l'invidia dolorosa di Zefiro per il rivale che dimenticava l'oracolo,
l'arco e la cetra per trastullarsi sempre con il bel giovinetto; vedeva il disco
guidato da crudele gelosia colpire il capo leggiadro, impallidendo anch'egli
riceveva tra le braccia il corpo spezzato, e il fiore nato dal dolce sangue
recava le parole del suo dolore senza fine...
Nulla è più singolare, più imbarazzante che il rapporto fra persone che si
conoscono solamente di vista... s'incontrano tutti i giorni a tutte le ore, si
osservano, e tuttavia sono costrette dall'educazione o dal puntiglio a
fìngere l'indifferenza e a passarsi accanto come estranei senza una parola e
senza un saluto. V'è fra loro una relazione d'inquietudine e di esasperata
curiosità, l'isterismo prodotto dal bisogno insoddisfatto e innaturalmente
represso di conoscersi e di comunicare l'uno con l'altro, e soprattutto una
specie di ansioso rispetto. Giacché l'uomo ama e onora l'uomo finché non
lo può giudicare, e il desiderio è il frutto d'una conoscenza imperfetta.
Ma qualche relazione e conoscenza doveva pur stabilirsi fra Aschenbach
e il giovane Tadzio, e con gioia penetrante il più vecchio dovette
accorgersi che la sua simpatia e la sua attenzione non restavano del tutto
senza contraccambio. Perché, ad esempio, il bel fanciullo venendo alla
spiaggia non passava più sul tavolato dietro le capanne, ma sempre sulla
sabbia davanti ad Aschenbach e qualche volta, senza bisogno, così vicino
da sfiorare quasi il suo tavolino, la sua sedia, prima di andarsene lemme
lemme alla cabina dei suoi? Era l'attrazione, il fascino d'un sentimento
superiore che operava così sull'oggetto più debole e ignaro? Aschenbach
aspettava ogni giorno la comparsa di Tadzio, e qualche volta faceva finta
di essere occupato e lo lasciava passare senza apparentemente notarlo.
Altre volte invece alzava gli occhi e i loro sguardi s'incontravano. Quando
ciò accadeva restavano tutti e due molto seri. Nel viso saggio e dignitoso
del più vecchio nulla tradiva un'intima commozione; ma negli occhi di
Tadzio c'era un'espressione indagatrice, una pensosa domanda, i suoi passi
si facevano esitanti, egli abbassava lo sguardo e lo rialzava con grazia, e
quando era passato qualcosa nel suo atteggiamento sembrava dicesse che
solo la buona creanza gli impediva di voltarsi.
Una volta però, era di sera, le cose andarono diversamente. I giovani
polacchi e la governante non erano venuti a pranzo, con grave
preoccupazione di Aschenbach. Dopo tavola, molto inquieto per la loro
assenza, egli passeggiava in abito da sera e cappello di paglia davanti
all'albergo, ai piedi della terrazza, quando vide all'improvviso comparire
sotto il lume delle lampade ad arco le tre monacali sorelle con l'istitutrice e
qualche passo più indietro il giovane Tadzio. Evidentemente venivano
dalla banchina del vaporetto dopo aver pranzato per qualche ragione in
città. Doveva far fresco sull'acqua; Tadzio portava una giacca da marinaio
color turchino scuro con bottoni d'oro, e in capo un berretto pure da
marinaio. Il sole e l'aria di mare non lo abbronzavano, la sua pelle era
rimasta pallida e marmorea come i primi giorni; oggi però sembrava più
smorto del solito sia per il fresco sia per la livida luce lunare dei fanali. Le
sopracciglia ben disegnate spiccavano più nettamente, gli occhi erano più
scuri e profondi. La sua bellezza era inesprimibile e, come altre volte,
Aschenbach sentì con dolore che la parola può, sì, celebrare la bellezza,
ma non è capace di esprimerla.
Non si aspettava la cara apparizione, essa giungeva improvvisa, senza
ch'egli avesse avuto tempo di atteggiare il suo viso a serena dignità. Gioia,
sorpresa, ammirazione vi si dipinsero senza dubbio chiaramente quando il
suo sguardo incontrò colui del quale aveva sentito l'assenza; ed ecco, in
quell'istante Tadzio gli sorrise, d'un sorriso eloquente, confidenziale,
carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso di
Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della
propria bellezza — un sorriso un poco contratto dalla vanità
dell'aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno di
civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante.
L'uomo al quale era destinato quel sorriso se lo portò via come un dono
fatale. Era così commosso che dovette fuggire la luce della terrazza e del
giardino, e a passi rapidi cercò rifugio nell'ombra del parco. E stranamente
eruppe in rimostranze tenere e indignate: «Non devi sorridere così! Hai
capito? Non bisogna sorridere così a nessuno!» Si gettò su una panca, fuori
di sé, respirando il profumo notturno degli alberi. E riverso sulla spalliera,
con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti,
mormorò la formula eterna del desiderio... assurda in quel caso,
inammissibile, infame, ridicola e tuttavia santa anche questa volta e degna
di rispetto: —Ti amo!
V
Nella quarta settimana del suo soggiorno al Lido, Gustav von
Aschenbach fece alcune spiacevoli osservazioni riguardo al mondo che lo
circondava. Anzitutto gli pareva che, mentre si andava verso il colmo della
stagione, la clientela dell'albergo diminuisse invece di aumentare, e
specialmente la lingua tedesca tacesse sempre più intorno a lui, sicché a
tavola e sulla spiaggia ormai solo accenti stranieri gli giungevano
all'orecchio. Poi un giorno dal parrucchiere, di cui ora era diventato
assiduo cliente, colse a volo una parola che gli diede da pensare. L'uomo
aveva accennato a una famiglia tedesca che era ripartita dopo essersi
trattenuta pochissimo, e soggiunse in tono di scherzosa adulazione: — Lei
rimane, signore; non ha paura del male —. Aschenbach lo guardò: — Del
male? — chiese. Il chiacchierone ammutolì, si finse tanto immerso nel suo
lavoro da non aver udito la domanda. E, quando essa fu ripetuta
insistentemente, dichiarò di non saper nulla e cercò di sviare il discorso
con loquace imbarazzo.
Questo accadde a mezzogiorno. Dopo pranzo Aschenbach si recò a
Venezia con calma di vento e sole scottante; era spinto dalla smania di
seguire la famiglia polacca che aveva veduto avviarsi con la governante al
pontile del vaporetto. Non trovò il suo idolo a San Marco. Ma mentre
prendeva il tè, seduto al tavolino rotondo di ferro dalla parte ombreggiata
della piazza, fiutò improvvisamente nell'aria un odore speciale, che adesso
gli sembrava di aver già sentito da parecchi giorni senza rendersene conto
— un odore dolciastro, medicinale, che evocava miseria, ferite e dubbia
pulizia. Lo analizzò e lo riconobbe; terminò impensierito di prendere il tè e
lasciò la piazza dalla parte opposta alla basilica. Nelle viuzze strette l'odore
s'accentuava. Alle cantonate erano affissi avvisi stampati che mettevano
paternamente in guardia la popolazione, per via di certe malattie
gastrointestinali che erano da prevedersi con un tempo simile, a non cibarsi
di ostriche e di telline, e a guardarsi anche dall'acqua dei canali. Era chiaro
che il tono rassicurante del manifesto nascondeva di peggio. Gruppi
silenziosi sostavano sui ponti e nei campielli, e il forestiero si mescolò a
loro annusando preoccupato.
Egli chiese a un negoziante, che stava sulla porta della sua bottega tra
collane di corallo e finimenti di ametista falsa, le ragioni di quell'odore
sospetto. L'uomo lo squadrò con occhio grave, poi in fretta si rianimò. —
Semplici precauzioni, signore! — rispose gesticolando. — Provvedimenti
di polizia che non si può fare a meno di approvare. Quest'afa opprimente,
questo scirocco non sono propizi alla salute. Insomma, lei capisce... una
cautela forse esagerata... Aschenbach lo ringraziò e proseguì per la sua
strada. Anche sul vaporetto che lo riportava al Lido sentiva adesso
quell'odore di disinfettante.
Rientrato in albergo andò subito al tavolo dei giornali nell'atrio e li
sfogliò in cerca di notizie. Non trovò niente in quelli di varie lingue
straniere. Solo i giornali tedeschi registravano voci, riportavano cifre
incerte, riproducevano smentite ufficiali e ne mettevano in dubbio la
veridicità. Così si spiegava l'esodo dei tedeschi e degli austriaci. I
villeggianti d'altre nazioni evidentemente non sapevano, non sospettavano
nulla, non erano ancora inquieti.
«Bisogna nascondere la realtà! — pensò Aschenbach agitato, gettando i
giornali sul tavolo. — La consegna è di tacere!» Ma nello stesso tempo il
suo cuore si rallegrava dell'avventura in cui il mondo stava per incappare.
Perché alla passione, come al delitto, non s'addice l'ordine stabilito e il
benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni
turbamento e flagello del mondo le torna gradito perché può sperare
vagamente di trarne vantaggio. Così Aschenbach provava un'oscura
contentezza per quello che accadeva sotto il complice mantello
dell'autorità nei vicoli sporchi di Venezia — tristo segreto della città che si
confondeva con il segreto del suo cuore, e di cui anch'egli paventava la
scoperta. Giacché nulla temeva l'innamorato quanto la possibile partenza
di Tadzio, e non senza sgomento dovette riconoscere che non avrebbe più
saputo vivere se quella partenza fosse avvenuta.
Ormai non si accontentava più di ricevere in dono dalla vita quotidiana e
dalla fortuna la vicinanza e la vista del bel giovinetto; lo seguiva, gli
faceva la posta. La domenica, per esempio, i polacchi non comparivano
mai sulla spiaggia; Aschenbach aveva indovinato che andavano alla messa
in San Marco, vi si recava tosto e lasciando la piazza infocata per entrare
nella penombra dorata del tempio vedeva colui che cercava chino
sull'inginocchiatoio a seguir la funzione. Allora si fermava in fondo, sul
rotto pavimento di mosaico, in mezzo alla folla prosternata e mormorante,
e lo splendore del tempio orientale opprimeva voluttuosamente i suoi
sensi. Laggiù, coperto di paramenti sontuosi, il celebrante salmodiava e
compiva i gesti rituali; l'incenso saliva dai turiboli velando le deboli
fiammelle dei ceri sull'altare, mentre alla greve dolcezza dei sacri aromi
sembrava mescolarsi sottilmente un altro odore: quello della città
ammalata. Ma attraverso i vapori e il luccichio Aschenbach vedeva che
Tadzio là davanti voltava la testa, lo cercava e lo scorgeva.
Quando poi la folla sgorgava fuori dei portali aperti sulla piazza
luminosa brulicante di colombi, l'inebriato amante si nascondeva sotto il
portico, in agguato. Vedeva i polacchi uscire dalla chiesa, vedeva i ragazzi
congedarsi cerimoniosamente dalla madre, e questa dirigersi verso la
piazzetta per rincasare; s'assicurava che il bell'adolescente, le monacali
sorelle e la governante prendevano a destra, per la porta dell'Orologio, ed
entravano nelle Mercerie; e dopo aver lasciato loro qualche attimo di
vantaggio, li seguiva furtivamente nella loro passeggiata attraverso Venezia. Doveva fermarsi quando essi sostavano, rifugiarsi nelle friggitorie e
nei cortili per lasciarli passare quando ritornavano indietro; li perdeva, li
cercava accaldato ed esausto per ponti e per vicoli immondi e pativa
minuti di angoscia mortale se improvvisamente in un passaggio angusto
dove non c'era via di scampo se li vedeva venire incontro; tuttavia non si
può dire ch'egli soffrisse. Aveva il cuore e la testa pieni d'ebbrezza e i suoi
passi obbedivano al demone che gode di calpestare la ragione e la dignità
dell'uomo.
A un certo punto Tadzio e i suoi prendevano una gondola e Aschenbach,
che mentre s'imbarcavano si era nascosto dietro uno spigolo o un pozzo,
non appena s'erano staccati dalla riva faceva lo stesso. Con voce ansante e
smorzata ordinava al rematore, promettendogli una grossa mancia, di
seguire senza dar nell'occhio e a una certa distanza la gondola che stava
svoltando l'angolo; e sudava freddo quando l'uomo col servilismo
bricconesco del mezzano gli assicurava nello stesso tono che l'avrebbe servito coscienziosamente.
Cosi scivolava ondeggiando sull'acqua, riverso sui cuscini morbidi e neri
dietro l'altra gondola rostrata nella cui scia lo trascinava la passione.
Qualche volta la barca spariva; allora egli sentiva inquietudine e angoscia.
Ma il suo gondoliere, esperto di simili incarichi, sapeva sempre con astute
manovre e rapide scorciatoie riportarlo in vista dell'oggetto dei suoi
desideri. L'aria era calma e greve di odori, il sole dardeggiava attraverso la
foschia che colorava il cielo di un grigio plumbeo. L'acqua batteva
gorgogliando contro il legno e la pietra. Al grido del gondoliere, avviso e
saluto insieme, per strano accordo giungeva risposta dai lontani meandri
del labirinto. Piccoli giardini pensili riversavano sui muri scrostati grappoli
di fiori bianchi e purpurei dal profumo di mandorla. Cornicioni di finestre
moresche si specchiavano nei canali torbidi. La scalinata marmorea di una
chiesa scendeva nell'acqua; un mendicante accovacciato sui gradini
tendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degli
occhi come se fosse cieco; con gesti servili un antiquario dalla sua spelonca invitava il passante ad arrestarsi, nella speranza d'imbrogliarlo.
Quest'era Venezia; beltà lusingatrice e ambigua — racconto di fate e
insieme trappola per i forestieri, città nella cui atmosfera corrotta l'arte
ebbe in passato un esuberante rigoglio, e i musici composero suadenti
melodie che addormentano voluttuosamente. Sembrava all'avventuroso
viandante che i suoi occhi bevessero quella sontuosità, che i suoi orecchi
fossero accarezzati da quella musica; si ricordava anche che la città era
ammalata e lo teneva nascosto per sete di guadagno, e con maggior
frenesia spiava la gondola che gli ondeggiava davanti.
Così lo sconvolto innamorato non aveva più altro pensiero che inseguire
senza requie l'oggetto della sua passione, sognare di lui quando era
assente, e, come sogliono gli amanti, rivolgere parole di tenerezza persino
alla sua ombra. La solitudine, il paese straniero e la felicità di un'ebbrezza
tardiva e profonda lo incoraggiavano e lo persuadevano a permettersi
senza paura e senza vergogna le cose più sorprendenti, com'era avvenuto
una sera che, tornando tardi da Venezia, egli si era fermato al primo piano
dell'albergo davanti alla stanza di Tadzio e in preda a totale follia aveva
appoggiato la fronte allo stipite della porta e per molto tempo non era più
stato capace di staccarsi di lì, a rischio di essere obbrobriosamente
sorpreso in un atto così insensato.
Eppure non mancavano i momenti di tregua e di parziale ritorno in sé.
«Su quale strada mi sono messo! — egli pensava costernato. — Su quale
strada!» Come ogni uomo al quale i meriti naturali ispirano un interesse
aristocratico per la sua prosapia, egli sempre nelle fatiche e nei successi
della sua carriera rivolgeva il pensiero ai suoi antenati, per assicurarsi in
ispirito della loro approvazione, della loro soddisfazione, della loro stima
necessaria. Anche adesso, irretito in un'avventura così inammissibile,
travolto in così esotiche sregolatezze del cuore, si rappresentava la dignitosa severità, la virile purezza del loro costume, e sorrideva
malinconicamente. Che cosa avrebbero detto? Del resto, che cosa
avrebbero detto della sua vita tutt'intera, differente dalla loro fino alla
degenerazione, di questa vita dominata dall'arte, di cui lui stesso in altri
tempi, fedele alla tradizione borghese dei padri, aveva dato giovanili
giudizi così sarcastici, e che tuttavia in fondo era tanto simile alla loro!
Anche lui aveva servito, anche lui era stato soldato e guerriero, come
alcuni di essi — giacché l'arte è una guerra, una lotta logorante alla quale
oggidì non si può reggere a lungo. Una vita di vittorie su se stesso, di sfide
caparbie, una vita aspra, risoluta e parca, da lui innalzata a simbolo di un
eroismo delicato, consono ai nostri tempi — egli poteva ben chiamarla
virile, poteva chiamarla eroica, e gli sembrava anzi che l'Eros che si era
impadronito di lui, a una simile vita fosse in qualche modo particolarmente
adatto e inclinato. Non era stato egli in altissimo onore soprattutto presso i
popoli più valorosi, non si era detto che proprio il valore l'aveva fatto
fiorire nelle loro città? Numerosi guerrieri dell'antichità avevano portato
volentieri il suo giogo, perché non erano considerate umiliazioni quelle
inflitte dal dio; e atti, che sarebbero stati biasimati come segni di viltà, se
fossero stati compiuti per altri scopi: genuflessioni, giuramenti, suppliche e
contegno servile, non gettavano onta sull'amante, ma anzi gli procuravano
lode.
Ecco come ragionava l'invasato, come cercava di sostenersi, di salvare la
propria dignità. Ma nel tempo stesso prestava un'attenzione tenace e
indagatrice agli avvenimenti poco puliti che si svolgevano in città, a
quell'avventura del mondo esterno che confluiva oscuramente con quella
del suo cuore e alimentava la sua passione di vaghe speranze senza legge.
Nell'accanita ricerca di notizie sicure sullo stato e il progresso della
malattia, egli sfogliava febbrilmente nei caffè di Venezia i giornali
tedeschi, che da parecchi giorni erano spariti dai tavolini dell'albergo. Vi si
alternavano affermazioni e smentite. Il numero degli ammalati e dei morti
ascendeva a venti, a quaranta, a cento e più, e, poche righe più sotto,
l'apparizione del morbo era, se non negata, ridotta a pochi casi isolati
portati di fuori. Riserve, avvertimenti, proteste contro il gioco pericoloso
delle autorità italiane erano frammezzati al resto. Impossibile acquistare
una certezza.
Tuttavia il solitario era persuaso d'un suo diritto speciale di partecipare
al segreto; e poiché tuttavia ne era escluso, provava una strana
soddisfazione nel tempestare gli iniziati di domande insidiose, per
costringerli, loro che avevan fatto lega per serbare il silenzio, a mentire
espressamente. Una mattina a colazione nella grande sala da pranzo mise
così alle strette il direttore, quell'ometto dal passo leggero che salutando e
sorvegliando s'aggirava fra i tavolini e s'era fermato anche davanti ad
Aschenbach a dirgli due parole di convenevoli. Perché mai, gli chiese
l'ospite con noncuranza, si erano messi da qualche tempo a disinfettare
Venezia? — Si tratta, — rispose il sornione, — di doverosi provvedimenti
di polizia destinati a prevenire tempestivamente disordini o perturbazioni
della salute pubblica che la stagione afosa ed eccezionalmente calda
potrebbe provocare. — La polizia è davvero encomiabile, — disse
Aschenbach; e, dopo uno scambio di osservazioni meteorologiche, il
direttore si congedò.
La sera di quello stesso giorno, dopo cena, una piccola compagnia di
musicisti ambulanti venne a cantare nel giardino davanti all'albergo. Erano
due uomini e due donne che se ne stavano ritti presso l'asta di ferro d'una
lampada ad arco, e alzavano le facce sbiancate dalla luce verso la grande
terrazza dove i bagnanti sorbendo caffè e bevande ghiacciate si godevano
il concerto popolare. La servitù dell'albergo, liftboys, camerieri e impiegati,
era venuta ad ascoltare sulle porte dell'atrio. La famiglia russa, sempre
diligente e pronta al piacere, aveva fatto portare in giardino le poltrone di
vimini per esser più vicina agli esecutori, e sedeva là in semicerchio con
evidente soddisfazione. Dietro i padroni, con un fazzoletto in testa a guisa
di turbante, stava la vecchia schiava.
Mandolino, chitarra, fisarmonica e un violino stridulo formavano
l'orchestra di quei virtuosi in cenci. Numeri di canto si alternavano a pezzi
strumentali; così la donna più giovane unì la sua voce acuta e stridente al
falsetto dolciastro del tenore per cantare un appassionato duetto amoroso.
Ma il vero talento e capo della compagnia era senza dubbio l'altro uomo, il
suonatore di chitarra, che cantava quasi senza voce ma con mimica geniale
e notevole comicità le parti di baritono-buffo. Spesso si staccava dal gruppo degli altri, col suo grande strumento in braccio, e avanzava
gesticolando verso la scalinata, dove le sue buffonate erano accolte con
risa incoraggianti. Specialmente i russi, che costituivano la platea, si
mostravano entusiasti di tanto brio meridionale, e lo eccitavano a prodursi
in modo sempre più sfrenato e ardito.
Aschenbach era seduto presso la balaustrata e ogni tanto si rinfrescava le
labbra con il miscuglio di granatina e acqua di Seltz che, rosso come
rubino, scintillava davanti a lui nel bicchiere. I suoi nervi accoglievano con
avidità quegli strimpellamenti languidi e volgari, poiché la passione
soffoca il discernimento e s'abbandona in buona fede a piaceri che la sana
ragione giudicherebbe ridicoli o rifiuterebbe con fastidio. Ai lazzi
dell'istrione i suoi lineamenti s'erano contratti in un sorriso fìsso e già
doloroso. Sedeva lì con aria indolente mentre un'attenzione estrema lo
faceva spasimare: perché a sei passi da lui Tadzio era appoggiato alla
balaustrata di pietra.
Stava lì, nell'abito bianco che metteva talvolta per il pranzo, con quella
sua grazia innata e inevitabile, il braccio sinistro sul parapetto, i piedi
incrociati, la mano destra sorretta dall'anca, e guardava giù verso i
saltimbanchi con un'espressione che non era neanche un sorriso, tutt'al più
una lontana curiosità, una cortese accettazione. Di tanto in tanto si
raddrizzava e allargando il petto tirava giù la blusa bianca sotto la cintura
di cuoio, con un bel gesto d'ambo le braccia. Ma qualche volta anche, e
Aschenbach lo notava con gioia trionfante, con una vertigine della sua
ragione e anche con terrore, Tadzio si voltava incerto e guardingo, oppure
rapido e improvviso come per una sorpresa, e gettava uno sguardo al di
sopra della spalla sinistra verso il suo amatore. Non incontrava i suoi
occhi, perché una vergognosa apprensione costringeva l'infatuato a frenare
paurosamente i propri sguardi. In fondo alla terrazza eran sedute le donne
che sorvegliavano Tadzio, e ormai le cose eran giunte a tal punto che
l'innamorato doveva temere di essersi fatto notare e di aver destato
sospetti. Anzi con una specie di agghiacciamento gli era toccato di osservare più volte, sulla spiaggia, nell'atrio dell'albergo e in piazza San
Marco, che le donne chiamavano Tadzio quand'era nelle sue vicinanze, che
badavano a tenerlo lontano da lui — e ne aveva risentito un'offesa crudele,
che infliggeva al suo orgoglio tormenti mai provati, ai quali la sua
coscienza gli impediva di sottrarsi.
Intanto il chitarrista aveva incominciato un assolo, una canzonetta di
parecchie strofe allora molto in voga in Italia, il cui ritornello era ripreso
ogni volta col canto e con tutti gli strumenti dall'intera compagnia, e da lui
era interpretata con plastica drammaticità. Di corpo mingherlino, e anche
in faccia emaciato e scarno, col cappello sordido sulla nuca, che lasciava
fuoruscire di sotto la tesa una cresta di capelli rossi, egli stava separato dai
suoi in una posa d'impertinente spavalderia, e scagliava i suoi frizzi verso
la terrazza in un recitativo efficace, pizzicando le corde, mentre nello
sforzo produttivo gli si gonfiavano le vene sulla fronte. Non sembrava di
sangue veneto, piuttosto della razza dei comici napoletani, mezzo ruffiani
mezzo commedianti, brutali e audaci, pericolosi e divertenti. La sua
canzone, dal testo semplicemente idiota, acquistava in bocca sua, grazie
alla mimica, alle contorsioni, alla maniera significativa di strizzare gli
occhi e di lingueggiare lascivo agli angoli della bocca, qualcosa di
ambiguo e vagamente indecente. Dal colletto floscio della camicia sportiva
che egli portava sotto un abito da città sporgeva il collo magro con un
pomo d'Adamo enorme e nudo. La faccia rincagnata, pallida e glabra, sì da
non permettere di indovinar la sua età, appariva segnata dalle smorfie e dai
vizi, e stranamente contrastavano col ghigno della sua mobile bocca i due
solchi che si scavavano protervi, imperiosi, quasi feroci fra le sue
sopracciglia rossicce. Ma la profonda attenzione del solitario fu attirata
particolarmente su quell'individuo sospetto dal fatto che egli diffondeva
intorno a sé un'aura altrettanto sospetta. Infatti a ogni ripresa del ritornello
il cantante intraprendeva un grottesco giro fra il pubblico, con molte
buffonerie e cenni di saluto, e passava così proprio sotto il posto di
Aschenbach, sprigionando dal corpo e dai vestiti un intenso odore di acido
fenico che saliva verso il terrazzo.
Finita la canzone, egli incominciò la questua. Andò prima dai russi, che
furono visti donare generosamente, poi salì i gradini. Quanto era stato
sfacciato durante la rappresentazione, tanto umile si mostrava adesso.
Sprofondandosi in inchini e riverenze sgattaiolava fra i tavoli e un sorriso
di servilità ipocrita gli scopriva i denti robusti, mentre le due rughe si
disegnavano sempre minacciose fra le rosse sopracciglia. I villeggianti
squadravano con curiosità e con un certo ribrezzo lo strano individuo che
accattava il suo pane, gli gettavano qualche moneta nel cappello con la
punta delle dita, e badavano di non toccarlo. L'abolizione della distanza
fisica fra il commediante e la gente per bene produce sempre, per grande
che sia stato il divertimento, un certo disagio. Egli lo sentiva e cercava di
scusarsene con una cortesia strisciante. Giunse davanti ad Aschenbach, e
con lui l'odore di cui nessun altro pareva darsi pensiero.
— Senti un po', — disse il solitario in tono sommesso, quasi
macchinalmente. — Perché disinfettano Venezia? — Il buffone rispose con
voce rauca: — Ordine della polizia! È la regola, signore, con questo caldo
e con questo scirocco. Lo scirocco deprime. Non fa bene alla salute... —
Sembrava stupito che gli si chiedesse una cosa simile e con un gesto della
mano a piatto dimostrò com'era opprimente lo scirocco. — Allora non c'è
pestilenza a Venezia? — domandò Aschenbach molto piano, fra i denti. I
lineamenti muscolosi del pagliaccio composero una smorfia di comica
stupefazione. — Pestilenza? O quale pestilenza? Lo scirocco sarebbe una
pestilenza? Oppure la nostra polizia? Ma lei vuol scherzare! Pestilenza?
Questa è bella! Sono giuste precauzioni, capisce? Precauzioni della polizia
contro gli effetti della temperatura afosa... — E gesticolava. — Va bene, —
ribatté Aschenbach seccamente e lasciò cadere nel capello un'offerta
eccessiva. Poi con gli occhi accennò all'uomo di andarsene. Quegli obbedì,
con sorrisi e riverenze. Ma non era ancora arrivato alla scala che due
impiegati dell'albergo si gettarono su di lui e a faccia a faccia lo
sottoposero a un interrogatorio in sordina. L'uomo alzò le spalle e giurò, lo
si vedeva bene, di non aver detto nulla. Lasciato libero ridiscese in
giardino e, dopo un breve conciliabolo con i suoi sotto la lampada ad arco,
si fece innanzi ancora una volta per cantare una canzone di ringraziamento
e d'addio.
Era una canzone che il solitario non ricordava d'aver mai intesa; uno
strambotto ardito in dialetto incomprensibile, con un ritornello di risate che
la banda riprendeva regolarmente a gola spiegata. Al ritornello cessavano
tanto le parole quanto l'accompagnamento degli strumenti e non restava
che un riso ordinato secondo un certo ritmo, ma con molta naturalezza, che
specialmente il solista sapeva emettere con grande talento in modo da dare
un'illusione perfetta. Ristabilita la distanza fra sé e l'uditorio, egli aveva
ritrovato tutta la sua impudenza, e il riso scagliato sfacciatamente verso la
terrazza era un riso di scherno. Già alle ultime parole della strofa egli
sembrava lottare contro un solletico irresistibile. Singhiozzava, gli tremava
la voce, si premeva la mano sulla bocca, scuoteva le spalle e, venuto il
momento, il riso sfrenato prorompeva, scoppiava, esplodeva con tale verità
che diveniva contagioso e si comunicava all'uditorio, di modo che anche
sulla terrazza dilagava un'ilarità senza oggetto che s'alimentava soltanto di
se stessa. E ciò appunto pareva raddoppiare la pazza allegria del cantante.
Egli piegava i ginocchi, si batteva sulle cosce, si scrollava tutto, non rideva
più, ululava, e mostrava a dito la società che rideva lassù, come se non ci
fosse nulla di più comico, e alla fine si sbellicavano tutti in giardino e sulla
veranda, compresi i camerieri, i ragazzini dell'ascensore e i facchini.
Aschenbach non stava più adagiato sulla poltrona, s'era tirato su come
per un tentativo di difesa o di fuga. Ma gli scoppi di risa, l'odore
d'ospedale che saliva a buffate e la vicinanza del bellissimo Tadzio gli
avevano ordito intorno una magia che imprigionava inesorabilmente il suo
cervello, i suoi sensi. Nell'agitazione e distrazione generale egli osò gettare
uno sguardo a Tadzio e poté vedere che il bel fanciullo, rispondendo al suo
sguardo, restava anch'egli serio, come se regolasse contegno ed
espressione su quelli di lui, e il buon umore regnante non potesse toccarlo,
poiché egli vi si sottraeva. Quella docilità infantile e significativa aveva
qualcosa di così disarmante, di così travolgente, che l'uomo dai capelli
grigi si trattenne a stento dal celarsi la faccia tra le mani. Gli era anche
sembrato che quell'abitudine che aveva Tadzio di raddrizzarsi ogni tanto e
di respirare profondamente rivelasse una mancanza di fiato, un'oppressione
al petto. «È malaticcio, probabilmente non giungerà alla vecchiaia», pensò
di nuovo con quella oggettività a cui ebbrezza e desiderio possono talvolta
stranamente emanciparsi; e il suo cuore si riempì contemporaneamente di
pura sollecitudine e di illecita soddisfazione.
I veneziani intanto avevano finito e se ne andarono, accompagnati da
applausi, mentre il loro capo non trascurava di ornare il suo commiato con
nuove buffonerie. I suoi inchini, i baci che mandava con la mano
suscitavano altre risa, ed egli quindi li moltiplicava. Quando i suoi
compagni erano già usciti finse ancora di andare a sbattere violentemente
contro l'asta di un fanale e si trascinò verso l'uscita come stravolto dal
dolore. Ma colà giunto gettò via di colpo la maschera del guitto
perseguitato dalla scalogna, si raddrizzò, anzi balzò su come spinto da una
molla, mostrò sfrontatamente la lingua agli ospiti sulla terrazza e
scomparve nel buio. La compagnia dei bagnanti si sciolse; Tadzio da molto
tempo si era allontanato dalla balaustrata. Ma il solitario, con stupore dei
camerieri, rimase per un pezzo seduto al suo tavolo, davanti al resto della
granatina. La notte avanzava, le ore scorrevano. Nella casa dei suoi
genitori, molti anni prima, c'era una clessidra... egli rivide a un tratto quel
piccolo strumento, così fragile e così importante, come se gli stesse
dinanzi. Fine e silenziosa scorreva la sabbia color ruggine attraverso la
strozzatura del vetro, e poiché la cavità superiore era già quasi vuota, si era
formato lì un piccolo vortice impetuoso.
L'indomani, nel pomeriggio, il testardo fece un nuovo tentativo
d'indagine, e questa volta con pieno successo. Entrò nell'agenzia turistica
inglese di piazza San Marco e, dopo aver cambiato un po' di denaro alla
cassa, con l'aria del forestiero diffidente rivolse al clerk che lo serviva la
fatale domanda. Era un inglese ancora giovane, vestito di lana, coi capelli
spartiti nel mezzo, gli occhi molto ravvicinati; aveva quell'aspetto di
placida lealtà che contrasta gradevolmente con la sveltezza birbonesca del
sud. Egli incominciò: — Non c'è motivo d'inquietudine, Sir. Un
provvedimento che non significa nulla di grave. Sono precauzioni che si
prendono sovente per evitare gli effetti malefici del caldo e dello
scirocco... — Ma alzando gli occhi celesti incontrò lo sguardo dello
straniero, uno sguardo stanco e un po' triste che fissava le sue labbra con
una leggera espressione di disprezzo. Allora l'inglese arrossì. — Questa, —
continuò a mezza voce, un poco agitato, — è la spiegazione ufficiale che
qui si crede di dare. Io le dirò che dietro c'è dell'altro —. E nella sua lingua
semplice e onesta rivelò la verità.
Già da parecchi anni il colera asiatico aveva mostrato un'accresciuta
tendenza a diffondersi e a migrare. Sorto nelle calde paludi del delta del
Gange, propagato con le esalazioni mefitiche di quel mondo primitivo di
isole e di foreste schivato dagli uomini, lussureggiante e inutile, dove solo
la tigre s'appiatta in mezzo alle macchie di bambù, il morbo aveva
infuriato in tutto l'Indostan con persistenza e violenza, si era esteso a
oriente fin nella Cina, a ovest aveva invaso l'Afganistan e la Persia, e
seguendo le principali strade carovaniere aveva portato i suoi terrori fino
ad Astrachan e persino a Mosca. Ma mentre l'Europa tremava di vedere il
flagello entrare di là, per via di terra, esso, trasportato sui mari da mercanti
siriaci, aveva fatto la sua comparsa quasi contemporaneamente in parecchi
porti del Mediterraneo, s'era imbaldanzito a Tolone e a Malaga, a Palermo
e a Napoli aveva mostrato più volte il suo ceffo, e pareva che già non
volesse più abbandonare la Calabria e la Puglia. Il nord della penisola era
stato risparmiato. Ma alla metà di maggio di quell'anno, in uno stesso
giorno, si trovarono a Venezia i terribili vibrioni nei cadaveri nerastri e
scheletriti di un barcaiolo e di un'erbivendola. I casi furono tenuti segreti.
Ma dopo una settimana ce n'erano dieci, ce n'erano venti, trenta, e per di
più in diversi sestieri. Un austriaco, che s'era trattenuto qualche giorno a
Venezia per diporto, morì con sintomi evidenti appena tornato nella sua
cittadina di provincia, e così fu che le prime notizie dell'epidemia
scoppiata nella città lagunare apparvero nei giornali tedeschi. Le autorità
di Venezia risposero che le condizioni sanitarie della città non erano mai
state migliori, e presero le più urgenti precauzioni profilattiche. Ma
probabilmente erano già contaminati generi alimentari, verdura, carne e
latte, perché, negata e occultata, la moria imperversava nelle calli anguste
e la canicola estiva, sopraggiunta anzitempo, intiepidendo l'acqua dei
canali favoriva il contagio. Sembrava che la pestilenza avesse acquistato
nuove forze, che la tenacia e la virulenza dei germi si fosse raddoppiata. I
casi di guarigione erano rari; moriva l'ottanta per cento dei colpiti, e
moriva di una morte terribile perché il male si manifestava con estrema
violenza e sovente nella sua forma più pericolosa, il colera secco. In quella
forma il corpo non riusciva nemmeno a espellere l'acqua prodotta in gran
copia dai vasi sanguigni. Entro poche ore il malato si disseccava e moriva
soffocato dal proprio sangue divenuto denso come la pece, tra spasimi e
rochi lamenti. Buon per lui se, come succedeva talvolta, la malattia si dichiarava, dopo un lieve malessere, sotto forma di un deliquio profondo dal
quale il colpito non si svegliava più, o solo per poco. Al principio di
giugno si riempirono chetamente le baracche d'isolamento dell'Ospedale
Civico; nei due orfanotrofi i posti incominciarono a scarseggiare e un
lugubre viavai regnava tra le Fondamenta Nuove e San Michele, l'isola del
cimitero. Ma la paura di un danno generale, le grosse perdite che in caso di
panico e di discredito minacciavano di colpire l'Esposizione d'Arte recentemente aperta ai Giardini Pubblici, gli alberghi, i negozi, tutta la
complessa industria turistica, quella paura fu più forte che l'amore per la
verità e il rispetto per le convenzioni internazionali; e persuase l'autorità a
perseverare ostinatamente nella sua politica del silenzio e delle smentite. Il
direttore dell'Ufficio d'Igiene, un benemerito della sua città, si era dimesso
con indignazione ed era stato sostituito alla chetichella da una persona più
malleabile. La popolazione lo sapeva; e la corruzione delle autorità insieme con l'incertezza regnante, lo stato eccezionale in cui la moria aveva
posto la città, provocarono un certo rilassamento di costumi nelle classi
inferiori, incoraggiarono gli istinti vergognosi e antisociali, che si
manifestarono in intemperanza, impudicizia e criminalità dilaganti. Contro
il solito, si vedevano la sera molti ubriachi; di notte, si diceva,
malintenzionati rendevan pericolosa la circolazione; rapine e persino
omicidi si susseguivano, e già due volte era risultato che persone
apparentemente morte di colera eran state invece avvelenate dai famigliari
che volevano sbarazzarsi di loro; il vizio professionale prendeva forme
insistenti e depravate, che quassù non s'erano mai viste prima ed erano di
casa soltanto nelle regioni meridionali e nell'oriente.
Di queste cose l'inglese raccontò l'essenziale. — Lei farebbe bene, —
concluse, — a partire piuttosto oggi che domani. Il decreto di quarantena
non può più tardare che di due o tre giorni. — La ringrazio, — disse
Aschenbach e uscì dall'agenzia.
Sulla piazza incombeva un'afa senza sole. Turisti ignari eran seduti nei
caffè oppure stavano davanti alla chiesa, tra il fitto volo dei colombi, e si
divertivano a guardare le bestiole che agitandosi, battendo le ali,
cacciandosi via l'un l'altra beccavano i chicchi di granturco che venivan
loro offerti nel palmo della mano. In preda a un'irrequietezza febbrile,
trionfante di possedere la verità, ma con un sapore di ribrezzo in bocca e
un imaginoso sgomento nel cuore, il solitario calpestava i lastroni della
piazza fastosa. Meditava un'azione onesta e purificatrice. Quella sera
stessa dopo cena avrebbe potuto avvicinarsi alla signora dalle perle e dirle
la frase che già andava formulando: «Signora, permetta a un estraneo di
darle un consiglio, un avvertimento di cui l'egoismo degli altri la priva.
Parta subito, con Tadzio e con le sue figliole. C'è il colera a Venezia!» Allora avrebbe potuto posare la mano in segno d'addio sul capo del fanciullo
che era stato strumento di una beffarda divinità e poi, ritraendosi, fuggire
da quella palude. Ma al tempo stesso sentiva che era infinitamente lontano
dal voler compiere per davvero quell'atto. Era un passo che l'avrebbe
ricondotto indietro, che l'avrebbe restituito a se stesso; ma chi è fuori di sé
nulla teme quanto il rientrare in sé. Egli ripensò l'edificio bianco ornato di
iscrizioni splendenti alle ultime luci crepuscolari, nel cui trasparente misticismo s'era immerso il suo occhio spirituale; ricordò la strana figura
errabonda che aveva destato nel suo cuore invecchiarne quel desiderio
giovanile di avventure e di lontananze; e l'idea di ritornare a casa, alla
prudenza, all'ordine, alla fatica e al magistero lo schifava a tal segno, che
la sua faccia si contrasse nell'espressione del malessere fisico. — Bisogna
tacere! — sussurrò con energia. E: — Io tacerò! — La coscienza della sua
complicità, della sua connivenza lo inebriava come piccole quantità di
vino inebriano un cervello già stanco. La visione della città colpita dal
flagello e abbandonata a se stessa, confusamente vagheggiata dalla sua
mente, accendeva in lui speranze inconcepibili, che disobbedivano alla
ragione ed erano mostruosamente dolci. Che cos'era per lui la delicata
felicità di cui aveva sognato un momento prima, a paragone di queste
speranze? Che cosa potevano contare arte e virtù di fronte ai vantaggi del
caos? Egli tacque e rimase.
Quella notte fece un sogno terribile — se si può chiamare sogno
un'avventura del corpo e dello spirito che lo colse bensì nel sonno più
profondo, in piena indipendenza ed esistenza carnale, ma senza ch'egli si
vedesse presente e operante nello spazio al di fuori degli avvenimenti: il
teatro di tali avvenimenti era piuttosto la sua anima stessa, ed essi vi
irrompevano dal di fuori, abbattendo violentemente la sua resistenza —
una resistenza spirituale e profonda — e lasciando devastato e distrutto
l'edificio intellettuale della sua vita.
Incominciò con la paura, paura e piacere e una sgomenta curiosità di ciò
che sarebbe accaduto. La notte regnava e i suoi sensi erano all'erta; giacché
da lontano s'avvicinava un fragore, un tumulto, un miscuglio di rumori:
strepiti, squilli e sordi boati, acute grida di giubilo e un urlìo particolare
fatto di lunghi uuuh strascicati — il tutto frammezzato e talvolta coperto in
modo atrocemente soave da note di flauto gravi e tubanti e insistenti e
perverse, che penetravano le viscere con lasciva magia. Ma egli sapeva
una parola, oscura, ma che tuttavia designava colui che stava per giungere:
«Il dio straniero!» S'accese un fumoso bagliore: egli riconobbe un
paesaggio di montagna, simile a quello che circondava la sua residenza
estiva. E nella luce rossa, dalle cime boschive, fra tronchi e muscosi
sfasciumi di rupi, rotolarono, rovinarono giù turbinosamente uomini,
bestie, una frotta, una torma frenetica che inondò il pendio di corpi e di
fiamme, in tumulto e in tregenda vertiginosa. Donne che inciampavano
nelle lunghe vesti di pelli agitavano tamburi con sonagli al di sopra delle
loro teste riverse e gementi, brandivano fiaccole sfavillanti e stili sguainati,
impugnavano a mezzo il corpo serpi lingueggianti, o si reggevano i seni
con le mani, ululando. Uomini che portavano corna sulla fronte, cinti di
pellicce e vellosi essi stessi, curvavano la nuca dimenando braccia e
gambe, e facevano rimbombare grandi piatti di bronzo o tambureggiavano
furiosamente sui timpani, mentre giovinetti dai corpi lisci e glabri con
bastoni inghirlandati pungolavano arieti, reggendosi alle loro corna e
lasciandosi trascinare, con grida di giubilo, dai loro salti. E i forsennati
guaivano quel loro grido fatto di consonanti dolci con l'uuuh prolungato
alla fine, dolce e selvaggio insieme come non s'era mai udito l'uguale. Qui
esso saliva nell'aria come il bramito d'un cervo, e là era ripetuto da mille
voci con accenti di trionfante lascivia, eccitando alla danza, al dimenìo
delle membra, senza mai tacere. Ma tutto compenetrava e dominava il
suono profondo, lusinghevole del flauto. Non allettava con sfrontata
insistenza anche lui, preda riluttante, alle feste, alle orge dell'estremo
sacrificio? Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la
sua volontà di difendere fino all'ultimo ciò che era suo contro lo straniero,
il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, le grida
moltiplicate dall'eco delle pareti rocciose crescevano, trionfavano, si
gonfiavano in un delirio irresistibile. I vapori offuscavano la mente, acre
odore di capri, esalazioni di corpi ansimanti e un tanfo come di acque
corrotte misto a un altro ben noto: di piaghe, di malattia serpeggiante. Ai
colpi di timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivano
cieco furore, voluttà inebriante e la sua anima desiderava di unirsi al
baccanale del dio. Il simbolo osceno, ligneo, gigantesco, fu svelato e
innalzato: e ancor più frementi tutti gridarono la parola del rito. Con la
schiuma alle labbra smaniavano, si eccitavano l'un l'altro con gesti lubrici
e mani lascive, ridendo e gemendo, si cacciavano vicendevolmente
pungiglioni nelle carni e leccavano il sangue che ne sgorgava. E il
dormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero.
Anzi essi erano lui, quando si gettarono sulle bestie dilaniando e
uccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando sul terreno
sconvolto incominciarono orribili congiungimenti in onore del dio. E la
sua anima conobbe il gusto della lussuria e la follia della perdizione.
Da quel sogno la vittima si svegliò senza forze, coi nervi spezzati,
schiavo del demone. Non temeva più gli sguardi attenti di coloro che lo
osservavano, non gli importava di esporsi ai loro sospetti. Del resto
partivano, fuggivano tutti; sulla spiaggia molte cabine rimasero deserte,
molti posti eran vuoti in sala da pranzo, e in città non si vedeva quasi più
un forestiero. Sembrava che la verità fosse trapelata; il panico, nonostante
la tenace concordia degli interessati, non si poteva più evitare. Ma la signora dalle perle restava lì con i suoi, sia che le dicerie non fossero giunte
fino a lei, sia che ella fosse troppo orgogliosa e impavida per fuggire.
Tadzio restava; e ad Aschenbach, irretito nel suo sogno, pareva talvolta che
la fuga e la morte avrebbero fatto sparire all'intorno tutta la vita
disturbatrice, lasciandolo solo nell'isola con il bel fanciullo; e anzi, quando
al mattino posava sull'amato lo sguardo fisso, pesante, insistente, o quando
al tramonto lo seguiva senza ritegno nelle calli dove vagava nascostamente
la morte abietta, allora gli apparivano probabili quelle mostruose speranze,
e caduche le leggi morali.
Come tutti gli amanti, desiderava di piacere e aveva un'amara paura che
ciò non fosse possibile. Aggiungeva al suo abbigliamento qualche nota
giovanile e rallegrante, portava pietre preziose, si profumava, parecchie
volte al giorno impiegava molto tempo ad agghindarsi e andava a pranzo
tutto adorno, eccitato, ansioso. Di fronte alla dolce giovinezza che lo aveva
innamorato, provava ribrezzo del proprio corpo in declino; quando
guardava allo specchio i suoi capelli grigi, i lineamenti marcati, vergogna e
disperazione lo assalivano. Istintivamente cercava di riposarsi, di
riacquistare freschezza; andava sovente dal parrucchiere.
Avvolto nell'accappatoio bianco, sotto le mani esperte del barbiere
loquace, osservava con dolore la propria immagine nello specchio.
— Grigio, — disse torcendo la bocca.
— Un pochino, — rispose l'uomo. — Colpa di una certa trascuratezza,
di una indifferenza alle cose esteriori che è ben comprensibile nelle
persone illustri, ma che però non bisogna approvare incondizionatamente;
tanto più che a tali persone non si addicono pregiudizi in fatto di natura o
di artificio. Se la severità di certe persone contro l'arte cosmetica si
estendesse, come sarebbe logico, anche alla cura dei denti, si griderebbe
allo scandalo. Del resto noi abbiamo soltanto l'età del nostro spirito, del
nostro cuore, e in certi casi i capelli grigi sono assai più menzogneri che la
deprecata tintura. Nel caso suo, signore, si ha diritto a riprendere il proprio
colore naturale. Mi permette semplicemente di restituirglielo?
— In che modo? — chiese Aschenbach.
Allora l'eloquente parrucchiere lavò la testa del cliente con due liquidi,
uno chiaro e uno scuro, e i capelli divennero neri com'erano in gioventù.
Poi col ferro da ricci li ondulò morbidamente, fece un passo indietro e
considerò la propria opera.
— E ora, — disse, — non resta che rinfrescare un poco la pelle del viso.
E instancabilmente, incontentabilmente si diede a passare con sempre
maggior zelo da una manipolazione all'altra. Aschenbach, comodamente
adagiato, incapace di opporsi, e anzi pieno di ansiosa speranza in quel
trattamento, vedeva nello specchio le sue sopracciglia disegnarsi più regolari e più nette, allungarsi il taglio degli occhi, aumentare lo splendore
delle pupille grazie a un'ombreggiatura sotto le palpebre; più giù, dove la
pelle era coriacea e gialliccia, vide apparire un leggero carminio
morbidamente spalmato, le sue labbra esangui prendere un bel colore di
fragola, sparire sotto creme e belletti i solchi delle guance, della bocca, le
rughe degli occhi... con cuore palpitante, ammirò nello specchio un florido
giovanotto. Infine il tecnico della cosmesi si dichiarò soddisfatto, e
ringraziò con strisciante cortesia, secondo l'uso di quella gente, colui che
aveva servito. — Qualche ritocco insignificante, — disse terminando
l'operazione. — Adesso il signore può innamorarsi tranquillamente —.
Aschenbach se ne andò come rapito in un sogno, confuso e spaventato.
Portava una cravatta rossa, il suo largo cappello di paglia aveva un nastro
multicolore.
Si era alzato un tiepido vento burrascoso; pioveva poco e di rado, ma
l'aria era umida, spessa e piena di vapori mefitici. Schiocchi, fischi, ronzii
intronavano l'udito, e Aschenbach febbricitante sotto il rossetto credeva di
sentir volteggiare nell'aria i maligni spiriti del vento, i biechi uccelli del
mare che rodono, scompigliano e insudiciano il pasto dei condannati.
Infatti l'afa toglieva l'appetito e non si poteva fare a meno d'immaginare
che i cibi fossero avvelenati dai germi del contagio.
Sui passi del bel giovinetto, Aschenbach si era smarrito un giorno nel
centro della città ammalata. Incapace di orientarsi, giacché le calli, i canali,
i ponti e i campielli del labirinto si somigliano troppo, incerto persino sui
punti cardinali, egli pensava soltanto a non perder di vista l'immagine
bramosamente inseguita; e, costretto a una umiliante circospezione,
radendo i muri, cercando riparo dietro la schiena dei passanti, per molto
tempo non si accorse della stanchezza, dello sfinimento che la passione e
l'ansia continua avevano prodotto nel suo corpo e nel suo spirito. Tadzio
camminava dietro ai suoi, nei passaggi angusti lasciava sempre la
precedenza all'istitutrice e alle monachine sue sorelle, e girellando così
solo voltava ogni tanto il capo per assicurarsi con un'occhiata dei suoi
strani occhi grigi come l'alba, che il suo innamorato lo seguisse. Lo vedeva
e non lo tradiva! Inebriato da quella scoperta, trascinato da quegli occhi,
menato pel naso dalla passione, l'innamorato rincorreva la sua illecita
speranza... e alla fine rimase gabbato. I polacchi avevano attraversato un
ponte a sesto acuto, l'altezza dell'arco li sottrasse alla vista dell'inseguitore
e quando questi giunse a sua volta in cima non li scorse più. Li cercò in tre
direzioni, dritto davanti a sé e lungo i due lati dell'argine stretto e sporco,
ma invano. L'abbattimento, la spossatezza lo obbligarono infine a desistere
dalla ricerca.
Aveva la testa in fiamme, il corpo bagnato di sudore appiccicoso, un
tremito alla nuca, era torturato da una sete intollerabile; cercò lì intorno un
qualsiasi ristoro immediato. In un piccolo negozio di verdura comprò della
frutta, fragole troppo mature e sfatte, e ne mangiò camminando. Una
piazzetta che pareva stregata e abbandonata gli si aperse davanti; egli la
riconobbe, era li che settimane prima aveva accarezzato quel vano progetto
di fuga. Si lasciò cadere sui gradini del pozzo, in mezzo al campiello, e appoggiò la testa alla vera di pietra. Tutto era silenzio, l'erba cresceva tra le
lastre del selciato, rifiuti erano sparsi all'intorno. Tra le case scolorite, di
altezza disuguale, che circondavano la piazza ve n'era una che pareva un
palazzo, con finestre ad ogiva, dietro le quali regnava il vuoto, e balconcini
sorretti da leoni. Al pianterreno di un'altra v'era una farmacia. Folate di
vento caldo portavano ogni tanto odore di acido fenico.
Eccolo lì il maestro, l'artista dignitoso, l'autore del Miserabile, che in
una forma di esemplare purezza aveva condannato la vita zingaresca e il
torbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato il
riprovevole, colui che era salito così in alto, che, superato il proprio sapere
e liberatosi dall'ironia, si era abituato a considerarsi impegnato dalla
fiducia che ispirava alle masse — Gustav von Aschenbach la cui gloria era
ufficiale, il cui nome era stato nobilitato e il cui stile era proposto a
modello nelle scuole, eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse; solo
di tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lo
nasconde; e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole
staccate dei discorso che il suo cervello intorpidito compone con la strana
logica del sogno.
«Giacché la bellezza, poni ben mente, Fedro, la bellezza soltanto è
divina e visibile a un tempo, e perciò essa è la via del sensibile, piccolo
Fedro, è la via che conduce l'artista allo spirito. Ma tu, o diletto, credi che
giungerà alla saggezza e alla vera dignità virile colui che s'incammina
verso lo spirito per la strada dei sensi? O credi piuttosto (ti lascio libero di
decidere) che questa sia una strada irta di deliziosi pericoli, che sia
davvero una strada tortuosa e peccaminosa che conduce necessariamente
all'errore? Giacché devi sapere che noi poeti non possiamo percorrere il
cammino della bellezza senza che Eros ci accompagni e diventi la nostra
guida; anche se a modo nostro siamo eroi e onesti combattenti, siamo
tuttavia come le donne, poiché la passione è il nostro innalzamento, e
amore deve rimanere il nostro anelito... questa è la nostra gioia e la nostra
vergogna. Lo vedi adesso, che noi poeti non possiamo essere saggi né
dignitosi? che dobbiamo necessariamente errare, necessariamente essere
dissoluti, avventurieri del sentimento? La nostra maestria dello stile è
menzogna e ciurmeria; la nostra gloria, l'onorifica riputazione, è farsa, la
fiducia che il pubblico ha in noi è estremamente ridicola, l'educazione del
popolo e della gioventù per mezzo dell'arte è un'impresa arrischiata che
bisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istinto
incorreggibile e naturale è attratto verso l'abisso? Bene vorremmo
rinnegare l'abisso e conquistare la dignità, ma per quanto ci sforziamo,
l'abisso ci attira. Così noi rinunziamo alla conoscenza che dissolve, perché
la conoscenza, Fedro, non ha dignità né rigore, la conoscenza sa,
comprende, perdona, è senza carattere e senza forma; ha simpatia per
l'abisso, anzi è l'abisso. Noi dunque la respingiamo risolutamente e quindi
la nostra aspirazione resta unicamente la bellezza, vale a dire la semplicità,
la grandezza e la nuova severità, la seconda spontaneità e la forma. Ma
spontaneità e forma, o Fedro, portano all'ebbrezza e al desiderio, possono
trascinare un animo nobile a orrendi sacrilegi del sentimento che la sua
stessa bella severità dichiara infami; conducono all'abisso, esse pure
all'abisso. E vi conducono proprio noi poeti, perché noi non siamo capaci
di elevatezza, ma soltanto di dissolutezza. Ed ora io vado, Fedro, tu resta
qui; e quando non mi vedrai più, allora avviati anche tu».
Qualche mattino dopo, Gustav von Aschenbach, non sentendosi bene,
uscì dall'albergo più tardi del consueto. Doveva lottare con certe vertigini
che solo in parte erano fisiche, e s'accompagnavano a violente crisi
d'angoscia, a un senso di disperazione e di irresponsabilità che non sapeva
se riferire al mondo esterno o alla propria vita. Nell'atrio vide una quantità
di bagagli pronti per esser portati via; chiese al portiere chi partiva, e in
risposta udì il nome aristocratico della famiglia polacca, proprio quello che
fra sé s'attendeva. Lo ascoltò senza che i suoi lineamenti sciupati si
contraessero, con quel leggero movimento del capo di chi apprende
incidentalmente una notizia poco interessante, domandò ancora: —
Quando? — Gli risposero: — Dopo il pranzo —. Egli fece un cenno e
andò al mare.
La spiaggia era inospitale. Sull'ampia distesa d'acqua bassa che separava
la riva dal primo banco di sabbia correvano leggeri brividi. Un'atmosfera
autunnale, di stagione perenta, gravava su quel luogo di piaceri già così
animato di colori e adesso quasi abbandonato, tanto che ormai non
pulivano neanche più la rena. Una macchina fotografica, apparentemente
senza padrone, stava sul suo cavalletto in riva al mare, e il panno nero
stesovi sopra svolazzava schioccando al vento, che era rinfrescato.
Tadzio coi tre o quattro compagni che gli eran rimasti si baloccava a
destra davanti alla capanna dei suoi, e Aschenbach, sdraiato in poltrona
con una coperta sulle ginocchia, a mezza strada circa fra il mare e la fila di
cabine, ancora una volta lo seguiva con gli occhi. Il gioco, senza
sorveglianza poiché le donne dovevano essere occupate nei preparativi del
viaggio, pareva senza regole e finì per degenerare. Il ragazzo robusto dai
capelli neri impomatati che si chiamava «Yaschu», irritato e accecato da un
lancio di sabbia in faccia, costrinse Tadzio alla lotta, che finì rapidamente
con la sconfitta del più debole. Ma come se nell'ora dell'addio il
sentimento servile dell'inferiore si mutasse in crudele violenza e come se
egli volesse vendicarsi della lunga schiavitù, il vincitore non abbandonò
ancora il vinto, anzi, inginocchiato sul suo dorso gli premette così a lungo
il viso nella rena che Tadzio, già ansante per la lotta, minacciava di
soffocare. I suoi sforzi per scuoter via l'avversario che l'opprimeva erano
convulsi, a momenti cessavano completamente e non si ripetevano che
come sussulti. Inorridito Aschenbach stava per correre in suo aiuto quando
il violento finalmente lasciò libera la sua vittima. Tadzio, molto pallido, si
alzò a metà e rimase immobile per parecchi minuti appoggiato su un
braccio, con capelli scarmigliati e occhi incupiti. Poi s'alzò in piedi e
s'allontanò lentamente. I compagni lo chiamarono, allegri dapprima, poi
con voci angosciate e supplichevoli; egli non li ascoltava. Il bruno, che
doveva essersi subito pentito del suo eccesso, lo raggiunse e cercò di
ammansirlo. Tadzio lo respinse con una scrollata di spalle e scese
obliquamente verso il mare. Era scalzo e portava l'abito di lino a righe con
la cravatta rossa.
Sulla riva sostò a capo chino, tracciando figure con la punta del piede
nella sabbia umida e poi entrò nell'acqua bassa che non gli bagnava
nemmeno i ginocchi, l'attraversò stancamente e arrivò al banco di sabbia.
Là si fermò un attimo col viso rivolto al largo, poi incominciò a percorrere
lentamente, tornando verso sinistra, la lunga e sottile striscia di suolo
scoperto. Separato dalla terraferma da una distesa d'acqua, separato dai
compagni dal suo fiero capriccio, egli errava laggiù, visione distaccata e
senza legami, nel mare, nel vento, davanti all'immensità nebulosa. Ancora
una volta si fermò in contemplazione. E improvvisamente, come tratto da
un ricordo, da un impulso, volse graziosamente il busto dalla posizione
primitiva, con una mano sul fianco, e al di sopra della spalla guardò verso
la spiaggia. Aschenbach era lì come quando per la prima volta, rinviato
dalla soglia dell'atrio, aveva incontrato lo sguardo di quegli occhi color del
grigio crepuscolo. Appoggiato allo schienale della poltrona aveva girato
lentamente il capo per seguire il moto di Tadzio che camminava laggiù; e
ora si erse come per andare incontro allo sguardo, poi ricadde sul petto
così che i suoi occhi guardavano di sotto in su, mentre la faccia prendeva
l'espressione distesa e introspettiva di chi è caduto in un sonno profondo.
Tuttavia gli parve che il pallido e soave psicagogo laggiù gli sorridesse, gli
facesse cenno; che, staccando la mano dall'anca, gli indicasse l'orizzonte
lontano, lo precedesse aleggiando nell'immensità piena di promesse. E,
come tante altre volte, volle alzarsi per seguirlo.
Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto del
poeta che s'era accasciato su un fianco. Lo portarono in camera sua. E il
giorno stesso il mondo apprese con reverente commozione la notizia della
sua morte.
FINE
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