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Thomas Mann - La morte a Venezia
Thomas Mann La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, 1912) I Gustav Aschenbach o von Aschenbach, come suonava ufficialmente il suo nome dal giorno del suo cinquantesimo compleanno, in un pomeriggio di primavera di quell'anno 19... che per mesi e mesi mostrò al nostro continente una faccia tanto bieca, era uscito dalla sua casa della Prinzregentenstrasse in Monaco di Baviera per intraprendere una lunga passeggiata. Sovreccitato dal lavoro difficile e insidioso compiuto nelle ore antimeridiane, che esigeva proprio allora estrema sagacia, prudenza, sottigliezza e rigore della volontà, nemmeno dopo il pranzo di mezzogiorno lo scrittore aveva saputo arrestare l'impulso produttivo che gli vibrava dentro, quel motus animi continuus in cui consiste secondo Cicerone l'essenza dell'oratoria, e non era riuscito a trovare il sollievo del sonno, a lui tanto necessario nel corso della giornata contro il progressivo logoramento delle sue forze. Così, poco dopo il tè, aveva preso il largo nella speranza che l'aria e il moto l'avrebbero rimesso in sesto e gli avrebbero procurato una serata fruttuosa. Si era al principio di maggio, e dopo settimane di freddo e d'umido era sopravvenuta una falsa estate. Il Giardino Inglese, quantunque appena lievemente inverdito di tenere fronde, era afoso come in agosto e, verso la città, gremito di carrozze e di passeggiatori. Vicino alla trattoria Aumeister, dov'era giunto per viottoli sempre più silenziosi e deserti, egli aveva sostato alquanto a osservare l'osteria popolaresca e affollata, davanti alla quale attendevano vetture di piazza ed equipaggi padronali; di là, mentre il sole volgeva al tramonto, era uscito dal parco, e aveva preso la via del ritorno per l'aperta campagna, ma sentendosi stanco e vedendo addensarsi un temporale al di sopra di Föhring pensò di attendere davanti al Cimitero Nord il tram elettrico che l'avrebbe riportato in città per la strada più breve. Per caso trovò la fermata e le sue adiacenze deserte di gente. Né sulla lastricata Ungererstrasse le cui rotaie si allungavano luccicanti in direzione di Schwabing, né sulla strada provinciale di Föhring si scorgeva un veicolo; nei recinti dei marmisti, dove croci, lapidi e monumenti esposti in vendita formavano un secondo cimitero senza morti, non si muoveva nulla, e l'edificio bizantino dell'obitorio giaceva cheto nell'ultimo riflesso del giorno morente. La facciata, adorna di croci greche e di pitture ieratiche dai tenui colori, presenta inoltre iscrizioni simmetriche a lettere d'oro, massime scelte sulla vita eterna, come: «Essi entrano nella casa di Dio» o: «Risplenda per essi la luce perpetua» ; e da alcuni minuti egli ingannava l'attesa leggendo gravemente le sentenze e lasciando che il suo occhio spirituale si perdesse nella loro mistica trasparente, quando, ridesto dalle sue fantasticherie, vide nel portico, al di sopra dei due animali apocalittici che custodiscono la scalea, un uomo il cui aspetto abbastanza fuor del comune diede tutt'altro indirizzo ai suoi pensieri. Se l'uomo fosse uscito dall'interno dell'edificio attraverso il portone bronzeo o se fosse venuto di fuori e salito fin là, era difficile a dirsi. Aschenbach, senza approfondir troppo la questione, propendeva per la prima ipotesi. Di statura mezzana, magro, sbarbato e col naso notevolmente camuso, l'uomo apparteneva al tipo di pelo rosso e ne aveva la pelle lattiginosa e lentigginosa. Evidentemente non era di razza bajuvara; almeno il largo cappello di paglia dalla tesa diritta che portava in capo gli dava un aspetto forestiero e venuto di lontano. E vero però ch'egli aveva sulle spalle il tradizionale sacco da montagna, un abito di loden gialliccio con la martingala, sul braccio sinistro puntato contro l'anca un impermeabile grigio e nella mano destra un bastone dalla punta di ferro che aveva conficcato obliquamente nel terreno e al cui manico appoggiava il fianco, tenendo incrociati i piedi. Con la testa eretta, così che sul collo scarno fuor della floscia camicia sportiva spiccava nudo e prominente il pomo d'Adamo, egli fissava attentamente lo spazio con occhi incolori orlati di rosso, fra i quali, in bizzarra armonia col breve naso schiacciato, eran scavate due rughe diritte ed energiche. Così — e forse contribuiva a tale impressione il suo posto elevato ed elevante — l'atteggiamento dell'uomo pareva quello di chi domina e sovrasta, ardito o addirittura feroce; perché sia che egli, abbacinato, ghignasse verso il sole cadente, sia che si trattasse di una deformità permanente del volto: le sue labbra apparivano troppo corte, eran tutte ritratte dai denti, di modo che questi, scoperti fino alle gengive, ne sporgevano fuori lunghi e bianchi. È possibile che Aschenbach nel suo esame tra distratto e inquisitivo dello sconosciuto avesse mancato di cautela, perché improvvisamente s'accorse che quegli ricambiava il suo sguardo, e anzi in modo così bellicoso, così fisso negli occhi, così manifestamente risoluto a spingere la cosa all'estremo e a costringere l'avversario alla ritirata, che Aschenbach, spiacevolmente colpito, si voltò e incominciò a passeggiare lungo gli steccati con l'opportuna decisione di non badar più a quell'individuo. L'istante dopo l'aveva già dimenticato. Ma, sia che quell'aria da giramondo dello straniero avesse agito sulla sua fantasia, sia che si trattasse d'altro influsso fisico o morale, s'avvide con meraviglia di uno strano allargamento del proprio animo, una specie di vagante irrequietezza, un desiderio assetato e giovanile di lontananze, un sentimento così vivace, così nuovo, o almeno così inconsueto e disappreso, che egli, le mani dietro la schiena e gli occhi fissi a terra, si fermò assorto per scandagliare quella sensazione nella sua natura e nel suo fine. Era voglia di viaggiare, nient'altro; ma insorta come un accesso morboso, ed esaltata fino alla passione, anzi fino all'illusione dei sensi. Il suo desiderio divenne veggente, la sua fantasia, non ancora acquetata dopo le ore di lavoro, si foggiò un esempio di tutte le meraviglie e gli orrori della terra che in un sol tratto si sforzava di immaginare: egli vide, vide un paesaggio, una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umida lussureggiante e mostruosa, una specie di giungla del mondo primitivo, fatta di isole, lagune e acquitrini melmosi — vide tra esuberanti viluppi di felci, tra un intricato ammasso di piante turgide grasse fantasticamente pullulanti, svettare vicino e lontano tronchi pelosi di palmizi, vide alberi bizzarramente deformi affondare attraverso l'aria le radici nel suolo o nei verdi specchi d'ombra delle acque stagnanti, dove tra i fiori acquatici bianchi e larghi come zuppiere uccelli esotici dalla testa insaccata fra le spalle, dal becco mostruoso, stavano appollaiati su qualche lembo di terra e guardavano immobili da un lato, vide fra i tronchi nodosi dei bambù scintillare le pupille di una tigre accovacciata — e sentì il suo cuore battere di spavento e di una smania misteriosa. Poi la visione scomparve; e scrollando la testa Aschenbach riprese la sua passeggiata lungo i recinti degli scalpellini. Egli considerava il viaggiare — almeno da quando disponeva dei mezzi per godere a piacer suo i vantaggi delle comunicazioni internazionali — non altrimenti che una precauzione igienica, in realtà contro senso e contro natura, che occorreva prendere di quando in quando; ma, troppo occupato dai problemi che gli eran posti dal proprio Io e dall'anima europea, troppo oppresso dal dovere di produrre, troppo alieno dalle distrazioni per essere amante del variopinto mondo esteriore, si era sempre accontentato dell'idea che ognuno può farsi della superficie terrestre senza allontanarsi troppo dalla propria cerchia e non aveva mai avuto la più lontana aspirazione a lasciare l'Europa. Soprattutto da quando la sua vita volgeva lentamente al tramonto, da quando la sua paura d'artista di non compire l'opera — quel timore che l'orologio giunga alla fine della carica prima ch'egli abbia terminato il suo compito e dato tutto di se stesso — da quando quella paura non si poteva più scacciare come un'ubbia, la sua vita esteriore si era quasi esclusivamente limitata alla bella città che gli era ormai patria adottiva e alla casa rustica che si era costruito in montagna e dove trascorreva le piovose estati. Quindi l'impulso così improvviso o tardivo fu tosto moderato e corretto dalla ragione e dalla disciplina a cui aveva sempre assoggettato se stesso fin dall'età giovanile. Era sua intenzione condurre fino a un certo punto, prima di trasferirsi in campagna, l'opera per la quale viveva, e il pensiero di un vagabondaggio attraverso il mondo, che l'avrebbe tenuto per mesi e mesi lontano dal suo lavoro, appariva troppo slegato e contrario ai progetti, non si poteva prenderlo seriamente in considerazione. Eppure egli sapeva fin troppo bene da quale causa fosse scaturita così inattesa la tentazione. Impulso alla fuga era, ed egli se lo confessò, anelito verso cose nuove e lontane, desiderio smanioso di liberazione, di sgravio e di oblio — fuga dall'opera, dal luogo giornaliero di un servizio rigido, freddo benché appassionato. Lo amava, è vero, e quasi amava già anche la lotta snervante quotidianamente rinnovata fra la sua volontà fiera e tenace tante volte posta a cimento e questa crescente stanchezza che bisognava celare, che l'opera non doveva tradire nemmeno col minimo segno di rilassamento e di rinunzia. Ma sembrava ragionevole non tendere troppo l'arco e non soffocare cocciutamente un bisogno che prorompeva così violento. Egli pensò al suo lavoro, pensò alla pagina che oggi come già ieri aveva dovuto lasciare in sospeso poiché non pareva volersi piegare né alla cura paziente né all'attacco improvviso. La esaminò nuovamente, cercò di spezzare o di sciogliere l'ostacolo e abbandonò l'impresa con un brivido di ribrezzo. Il passo non presentava straordinarie difficoltà, ma paralizzavano lo scrittore gli scrupoli di un disgusto che diventava incontentabilità impossibile a soddisfare. L'incontentabilità a dir vero era stata per lui fin da giovinetto essenza e intima natura del talento letterario, e per amor suo egli aveva domato e raffreddato il sentimento, poiché sapeva che esso tende ad accontentarsi di un allegro suppergiù e di una mezza perfezione. E ora il sentimento conculcato si vendicava forse abbandonandolo, rifiutando di continuare a sostenere la sua arte e a darle ali, e si portava via tutto il piacere, tutta la felicità della forma e della espressione? Non che egli producesse roba mediocre: questo almeno era il vantaggio della sua età, che egli si sentiva ormai serenamente sicuro della propria maestria. Ma lui stesso, mentre tutto il paese la celebrava, non godeva di essa, e gli pareva che alla sua opera mancassero quei segni di estro ardente e giocoso che, generati dalla gioia, più che qualsiasi contenuto interiore, che qualsiasi pregio più eminente, davano gioia al mondo dei lettori. Gli faceva paura l'estate in campagna, solo nella piccola casa con la fantesca che gli preparava il pranzo e col domestico che glielo serviva; gli faceva paura l'aspetto familiare delle vette e delle pareti montane che avrebbero di nuovo circondato la sua malcontenta lentezza. E dunque era necessaria un'interruzione, un periodo di vita nomade, scioperatezza, aria di paesi lontani e acquisizione di sangue nuovo, affinché l'estate diventasse sopportabile e proficua. Viaggiare dunque; vi acconsentiva. Non troppo lontano, non proprio fra le tigri. Una notte in vagone letto e una siesta di tre, quattro settimane in uno di quei luoghi di villeggiatura dove vanno tutti, nell'amabile Mezzogiorno... Così pensava mentre il rumore del tram elettrico si andava approssimando per la Ungererstrasse, e nel salire risolse di dedicar la serata allo studio delle carte geografiche e degli orari. Sulla piattaforma volle cercare con lo sguardo l'uomo dal cappello di paglia, il compagno di quella sosta pur ricca di conseguenze. Ma non poté scorgerlo, perché non si trovava nel luogo dov'era prima, né alla fermata del tram, e neppure nell'interno della carrozza. II L'autore della limpida e forte epopea in prosa sulla vita di Federico di Prussia; l'artista paziente che con lunga solerzia aveva tessuto il romanzo I Maja, arazzo ricco di figure raccogliente tanto destino umano all'ombra di un'idea; il creatore della possente novella intitolata Un miserabile, che addita a tutta una gioventù riconoscente la via della risolutezza morale al di là della più profonda conoscenza; lo scrittore infine (e basti questo breve cenno all'opera della sua maturità) dell'appassionato saggio Spirito e arte che per la potenza chiarificatrice e l'eloquenza antitetica molti giudici autorevoli ponevano accanto alla dissertazione di Schiller sulla poesia ingenua e sentimentale: Gustav Aschenbach in una parola, figlio d'un alto funzionario della magistratura, era nato a L., capoluogo d'un distretto della provincia di Slesia. I suoi antenati erano stati ufficiali, giudici, impiegati dell'amministrazione, uomini che avevano condotto vita austera, onorata e modesta al servizio del re e dello stato. Una spiritualità più profonda aveva avuto un'incarnazione in famiglia nella persona di un predicatore; sangue più impetuoso e più caldo v'era entrato nella generazione precedente grazie alla madre del poeta, figlia di un maestro di cappella boemo. Da lei erano stati trasmessi al figlio quei segni caratteristici di una razza forestiera. Il connubio della rigida coscienziosità burocratica con impulsi più oscuri e focosi aveva prodotto un artista, questo artista singolare. Poiché tutto il suo essere aspirava alla gloria, egli si dimostrò se non proprio precocissimo, tuttavia, grazie alla decisione e all'efficacia personale del suo eloquio, assai presto maturo e adatto alla vita pubblica. Era ancora studente liceale e già aveva un nome. Dieci anni dopo già sapeva, stando alla sua scrivania, rappresentare un personaggio, amministrare la sua gloria, mostrarsi benevolo e importante in una lettera che doveva esser corta (perché molte esigenze premono l'uomo arrivato e degno di confidenza). A quarantanni, affaticato dagli strapazzi e dalle alterne vicende del lavoro creativo, doveva giornalmente rispondere alle numerose lettere che portavano francobolli di tutti i paesi del mondo. Tanto lontano dal banale come dall'eccentrico, il suo talento era fatto per conquistare al tempo stesso la fede del largo pubblico e l'ammirata esigente partecipazione dei raffinati. Così, ancor giovinetto, obbligato da tutte le parti alla produzione, e a una produzione straordinaria, non aveva mai conosciuto la spensierata indolenza della gioventù. Quando, intorno ai trentacinque anni, si era ammalato durante un soggiorno a Vienna, un fine osservatore disse di lui in un salotto: — Vedete, Aschenbach è sempre vissuto così, — e serrò forte a pugno le dita della mano sinistra: — Mai così, — e lasciò comodamente penzolare la mano aperta dalla spalliera della sedia. Nulla di più esatto; e la coraggiosa moralità di tale atteggiamento stava in questo, che, di costituzione tutt'altro che robusta, a compiere quello sforzo costante egli non era fatto, ma soltanto chiamato. I medici avevano prescritto che il ragazzo non frequentasse la scuola e studiasse in casa. Solo, senza compagni egli era cresciuto, e tuttavia aveva dovuto accorgersi assai presto di appartenere a una razza in cui non già il talento era una rarità, ma la base fisica di cui il talento aveva bisogno per aver pieno sviluppo; una razza che dà presto i suoi frutti migliori e in cui l'eccellenza raramente perdura. Ma il suo motto preferito era: «Resistere!»; nel suo romanzo su Federico di Prussia egli vedeva soprattutto l'apoteosi di quel precetto, che gli sembrava il compendio d'ogni virtù attiva e passiva. Del resto desiderava ardentemente di giungere alla vecchiezza perché aveva sempre reputato che fosse da chiamarsi veramente grande, compiuto e degno d'onore solo quell'artista a cui era dato produrre una messe caratteristica di tutte le età della vita umana. Poiché dunque doveva portare su gracili spalle i compiti di cui il suo talento lo gravava, e voleva andare lontano, gli era necessaria una severa disciplina — e disciplina era per fortuna il suo naturale retaggio dal lato paterno. A quaranta, a cinquant'anni, come già nell'età in cui gli altri scialacquano, fantasticano, rimandano tranquillamente l'esecuzione di grandi progetti, egli incominciava la sua giornata di buon'ora, con docce fredde sul dorso e sul petto, e poi, accese le alte candele di cera nei doppieri d'argento ai due lati del manoscritto, sacrificava all'arte in due o tre ore di lavoro fervido e coscienzioso le forze raccolte nel sonno. Era perdonabile, e anzi significava la vittoria della sua moralità di scrittore, che gli ignari prendessero per il prodotto di una forza incoercibile e di un lungo respiro il mondo dei Maja o le masse epiche fra cui si svolgeva la vita eroica di Federico, mentre invece si innalzavano alla grandezza strato per strato, in piccoli compiti quotidiani fatti di cento e cento singole ispirazioni, ed erano così profondamente e assolutamente perfetti in ogni punto perché il loro creatore, con una tenacia di volontà simile a quella che aveva conquistato la sua Slesia natia, resisteva per anni sotto la tensione di una stessa opera e dedicava esclusivamente alla produzione le sue ore più gagliarde e più degne. Affinché un importante prodotto dello spirito possa esercitare immediatamente un influsso vasto e profondo, dev'esserci un'affinità segreta, anzi una concordanza, fra il destino personale del suo autore e quello generale dei contemporanei. Gli uomini non sanno perché conferiscono gloria a un'opera d'arte. Tutt'altro che intenditori, credono di scoprirvi mille pregi per giustificare tanto consenso; ma il vero motivo del loro plauso è qualcosa di imponderabile: è simpatia. Aschenbach aveva affermato una volta in una sua pagina, alla sfuggita ma senza ambagi, che quasi tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione di resistenza, è sorto cioè nonostante il dolore e la sofferenza, nonostante la povertà, l'abbandono, la debolezza fisica, il vizio, la passione e mille ostacoli. Ma più ancora che un'osservazione questo era un'esperienza, era addirittura la formula della sua vita e della sua gloria, la chiave dell'opera sua; perché stupirsi dunque se era anche il carattere etico, l'aspetto esteriore delle sue figure più singolari? Del nuovo tipo d'eroe che questo scrittore preferiva, tipo che si ripeteva nelle più varie forme individuali, un analista intelligente aveva scritto già molto tempo innanzi che era la concezione «di una virilità intellettuale e giovanile che con fiero pudore stringe i denti e rimane salda e tranquilla mentre lance e spade le trafiggono il corpo». Era bene espresso, con spirito ed esattezza, ma in apparenza puntava troppo sulla passività. Giacché fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza non vuol dire semplicemente subire; è un'azione attiva, un trionfo positivo, e la figura di san Sebastiano è il più bel simbolo se non dell'arte in genere, certamente dell'arte di cui si parla. A guardare in quel mondo narrato, si discerneva l'elegante dominio di sé, che dissimula fino all'ultimo istante agli occhi del mondo un logoramento interno, il declino biologico; la gialla bruttezza, sensualmente svantaggiata, che è capace di far divampare in purissima fiamma la brace della sua libidine, e di salire addirittura al dominio nel regno della bellezza; la pallida impotenza, che dalle profondità ardenti dello spirito ricava la forza di gettare un intero popolo protervo ai piedi della croce, ai propri piedi; l'atteggiamento amabile al vuoto e rigido servizio della forma; la vita falsa, pericolosa, la nostalgia snervante e l'arte dell'impostore nato: a considerare tutto quel destino, e quanto altro simile, ci si poteva chiedere se esiste eroismo all'infuori della debolezza. E ad ogni modo quale eroismo sarebbe più di questo consono ai tempi? Gustav Aschenbach era il poeta di tutti coloro che lavorano all'orlo dello sfinimento, gli oppressi da carico soverchio, già estenuati eppure ancora in piedi, questi moralisti della produzione che, esili di corporatura e scarsi di mezzi, con l'estasi della volontà e la saggia amministrazione ottengono almeno per un periodo di tempo i risultati della grandezza. Costoro sono in molti, sono essi gli eroi del nostro tempo. E tutti si riconoscevano nella sua opera, vi si vedevano confermati, esaltati, celebrati, gli erano riconoscenti e annunziavano il suo nome. Egli era stato giovane e rude con il suo secolo e, mal consigliato da esso, aveva pubblicamente incespicato, aveva commesso errori, s'era compromesso, aveva trasgredito con le parole e con le opere alle regole del tatto e della prudenza. Ma aveva conquistato la dignità, verso la quale, a parer suo, ogni grande talento si sente naturalmente spinto e pungolato, anzi si può dire che tutta la sua evoluzione era stata un'ascesa verso la dignità, un'ascesa cosciente e ostinata, sprezzante tutti gli ostacoli del dubbio e dell'ironia. La viva palpabilità della raffigurazione, che non impegna lo spirito, forma la delizia delle masse borghesi, ma la gioventù assoluta e appassionata è attratta esclusivamente dai problemi; e Aschenbach era stato problematico, era stato assoluto più di qualunque altro giovane. Era stato prono alla cerebralità, aveva saccheggiato la scienza, macinato per sé le messi, profanato misteri, incriminato il talento, tradito l'arte... sì, mentre le sue opere divertivano, elevavano, animavano, deliziavano i creduli lettori, lui, il giovane artista, mozzava il fiato ai ventenni con i suoi cinismi sulla dubbia natura dell'arte e della professione artistica. Ma a quanto pare nulla in uno spirito nobile e sagace si ottunde più rapidamente e più radicalmente che l'acuto amaro fascino della conoscenza; ed è certo che la coscienziosa e malinconica esattezza del giovane diventa aridità in confronto alla profonda risoluzione maturata nell'uomo cresciuto a maestro di negare la scienza, di ripudiarla, di passarvi sopra a testa alta in quanto essa può, sia pure in minima parte, paralizzare scoraggiare avvilire l'azione, il sentimento e perfino la passione. In quale altro modo interpretare la famosa novella Un miserabile, se non come uno scoppio di ribrezzo per l'indecente psicologismo dell'epoca, personificato nella figura di quel molle e goffo furfante che carpisce un destino d'accatto gettando sua moglie per impotenza, per depravazione, per velleità etica nelle braccia di un imberbe e si crede in diritto di commettere per una presunta profondità delle azioni indegne? La vigoria del linguaggio, col quale nel libro era condannata l'infamia, annunziava l'abbandono di ogni incertezza morale, di ogni simpatia per l'abisso, il rifiuto al lassismo espresso nel proverbio pietoso che tutto comprendere significa tutto perdonare; e ciò che vi era preparato, anzi già compiuto, era quel «miracolo della schiettezza rinata» di cui poco oltre l'autore trattava in uno dei dialoghi, espressamente e non senza una enigmatica accentuazione. Strane correlazioni! Era per una conseguenza spirituale di questa «rinascita», di questa nuova dignità e rigore, che proprio a quel tempo si osservava un quasi eccessivo rafforzamento del suo senso estetico, quella nobile purezza, semplicità e armonia di modellazione che da allora in poi avrebbero dato alle sue opere un'impronta di maestria e di classicità così evidente e addirittura voluta? Ma la risolutezza morale al di là della scienza, della conoscenza che scioglie e inceppa, non è a sua volta una semplificazione, una chiarificazione morale del mondo e dell'anima, e quindi anche un invigorimento verso il male, l'illecito, il moralmente proibito? E la forma non ha due facce diverse? Non è morale e immorale a un tempo — morale come risultato ed espressione della decenza, immorale invece e addirittura antimorale in quanto contiene in sé per natura un'indifferenza morale, e anzi tende essenzialmente a sommettere l'etica al suo dominio superbo e assoluto? Comunque sia, un'evoluzione è un destino; e come non dovrebbe svolgersi diversamente l'evoluzione accompagnata dalla fiducia, dal consenso unanime di un largo pubblico, da quella che si effettua senza il lustro e le lusinghe della gloria? Solo l'eterna bohême giudica tedioso e degno di scherno un grande talento che, superato il libertino stadio larvale, si abitua a distinguere ed esprimere la dignità dello spirito, accetta la regola di una solitudine piena di dure sofferenze e lotte senza consiglio e senza aiuto, e assurge in mezzo agli uomini a una posizione di potere e di gloria. Quanta parte hanno d'altronde sfida, gioco, godimento nell'automodellazione dell'ingegno! L'opera di Gustav Aschenbach col tempo prese una tinta ufficioso-educativa, negli anni più tardi il suo stile si liberò dalle sùbite audacie, dalle sfumature sottili e nuove, si volse alla classica esemplarità, alla tradizione e alla levigatezza, alla conservazione e alla forma e fors'anche alla formula, e, come si narra di Luigi XIV, invecchiando bandì dal suo linguaggio ogni parola volgare. Fu allora che le autorità scolastiche accorsero nei libri di testo pagine scelte dalle sue opere. Gli si addiceva profondamente, ed egli infatti non rifiutò che un principe tedesco, appena salito al trono, conferisse al poeta di «Federico» un titolo di nobiltà per il suo cinquantesimo compleanno. Dopo qualche anno d'irrequietezza, tentativi di stabilirsi qua o là, egli aveva scelto Monaco di Baviera come residenza stabile ed era vissuto quivi in onorevole condizione borghese, come accade a qualche intellettuale in certi casi particolari. Il matrimonio contratto in età ancor giovane con una fanciulla di famiglia colta, era stato sciolto dalla morte dopo un breve periodo di felicità. Gli era rimasta una figlia, già maritata. Non aveva mai avuto un figlio. Gustav von Aschenbach era di statura un po' inferiore alla media, bruno, glabro. La testa era un po' troppo grande in confronto al corpo quasi gracile. I capelli spazzolati all'indietro, diradati a sommo del capo, molto folti e brizzolati sulle tempie, incorniciavano una fronte alta, solcata da rughe che parevano cicatrici. Il ponticello d'oro delle lenti non cerchiate tagliava la radice del naso massiccio, nobilmente arcuato. La bocca era grande, a volte cascante a volte improvvisamente sottile e stretta; le guance magre e grinzose, il mento ben modellato con una fossetta morbida. Molto fato sembrava esser passato su quella testa per lo più dolorosamente reclinata, eppure l'affinamento della sua fisionomia era opera dell'arte e non, come solitamente accade, di una vita agitata e difficile. Dietro quella fronte erano nate le lampeggianti battute del dialogo sulla guerra fra Voltaire e il re di Prussia; quegli occhi che guardavano stanchi e penetranti attraverso le lenti avevano veduto l'inferno sanguinoso dei lazzaretti della Guerra dei Sette Anni. Anche sotto l'aspetto individuale l'arte è una vita più intensa. Essa dona felicità più profonda, e divora più in fretta. Scava nel volto del suo servo le tracce di avventure spirituali e immaginarie, e anche nella pace claustrale della vita esteriore porta a lungo andare un'ipersensibilità, un raffinamento, una stanchezza e una curiosità di nervi che nemmeno la vita più piena di sfrenati godimenti e passioni saprebbe suscitare. III Dopo quella passeggiata, molti impegni di natura mondana e letteraria trattennero ancora a Monaco per una quindicina di giorni il viaggiatore voglioso. Finalmente egli diede ordine di preparare la casa di campagna per il suo ritorno entro quattro settimane, e parti fra la metà e la fine di maggio col treno della sera per Trieste, dove si fermò solo ventiquattrore, e la mattina dell'indomani s'imbarcò per Pola. Egli cercava qualcosa di esotico, di avulso dalla vita abituale; ma doveva essere un luogo dove si arrivasse facilmente; perciò scelse un'isola dell'Adriatico, da alcuni anni famosa, non lontana dalla costa istriana, con una popolazione variopinta e cenciosa dalla parlata incomprensibile, e con bellissime scogliere frastagliate verso il mare aperto. Ma la pioggia e l'aria pesante, la meschina e chiusa clientela austriaca dell'albergo e la mancanza di quel placido e intimo contatto col mare che solo una spiaggia dolce e sabbiosa può consentire, lo misero di cattivo umore, lo convinsero di non aver trovato il luogo della sua destinazione; una irrequietezza interiore lo spingeva, non sapeva ancor bene dove; egli si rimise a studiare le linee di navigazione, si guardò intorno cercando, e d'improvviso, sorprendente e naturale insieme, la mèta gli stette davanti agli occhi. Quando si desiderava trasportarsi dall'oggi al domani in un'aura incomparabile, meravigliosa, fiabesca, dove si andava? Ma era chiaro. Che cosa faceva qui? Si era sbagliato. Era là ch'egli voleva andare. Non tardò a disdire il soggiorno erroneo. A una settimana e mezzo dal suo arrivo nell'isola un veloce motoscafo riportò lui e il suo bagaglio nel porto di Pola, ed egli vi sbarcò per raggiungere subito attraverso una passerella l'umido ponte di una nave pronta a salpare per Venezia. Era un vecchio vapore italiano antiquato, fuligginoso e tetro. Nella cabina sotto coperta, simile a un antro e illuminata artificialmente, dove Aschenbach appena salito a bordo era stato subito introdotto con ghignante cortesia da un marinaio gobbo e poco pulito, sedeva dietro un tavolo, il cappello a sghimbescio calato sulla fronte e un mozzicone di sigaretta nell'angolo della bocca, un uomo dalla barbetta caprina, dall'aspetto di un direttore di circo all'antica, il quale torcendo il volto con disinvoltura professionale registrava le generalità dei viaggiatori e distribuiva loro i biglietti. — Per Venezia! — egli disse ripetendo la richiesta di Aschenbach, allungò il braccio e intinse la penna nella feccia spessa di un calamaio inclinato. — Per Venezia, prima classe! Il signore è servito —. E scarabocchiati grossi caratteri sbilenchi versò dal polverino una sabbia azzurra sullo scritto, la fece scorrere in una scodella di coccio, piegò la carta con dita gialle e ossute e si rimise a scrivere. — Ottima scelta! — commentava intanto. — Ah, Venezia! Magnifica città! Città che affascina irresistibilmente le persone colte, tanto per la sua storia che per le sue attrattive moderne! — La forbita sveltezza dei suoi gesti e le vuote chiacchiere con cui li accompagnava sembravano fatte per intontire e distrarre, come se egli temesse che il viaggiatore potesse ancora mutare il suo proposito di partir per Venezia. Incassò frettolosamente, e con destrezza da croupier lasciò cadere il resto sul panno macchiato del tavolino. — Buon divertimento, signore! — disse con un inchino teatrale, — è stato un onore per me poterla servire... Signori! — riprese subito alzando il braccio, e fece come se il lavoro procedesse alacremente, mentre invece non c'era più nessuno da sbrigare. Aschenbach risalì sul ponte. Con un braccio appoggiato al parapetto egli osservò la folla oziosa che bighellonava sul molo per assistere alla partenza del piroscafo, e i passeggeri a bordo. Quelli della seconda classe, uomini e donne, si erano ammassati a prua, e usavano come sedili valige e fagotti. Sul ponte c'era un gruppo di turisti di Pola, giovani commessi a quanto pareva, radunati in grande allegria per una gita in Italia. Erano molto fieri di sé e della loro impresa, chiacchieravano, ridevano, godevano compiaciuti dei propri lazzi e gesti, e spenzolandosi dai parapetti gridavano spigliate frasi di scherno ai colleghi che con le borse sotto il braccio percorrevano per i loro affari la zona portuale e minacciavano coi bastoni i gitanti. Uno, che portava un abito estivo giallo chiaro all'ultima moda, una cravatta rossa e un panama dalla tesa audacemente rivoltata, si distingueva fra tutti gli altri per il buon umore e per la voce gracchiante. Ma Aschenbach appena l'ebbe osservato un po' meglio s'accorse con una specie d'orrore che era un falso giovane. Era vecchio, non si poteva dubitarne. Aveva rughe profonde intorno agli occhi e alla bocca. Il carminio opaco delle guance era belletto, la chioma bruna sotto il cappello di paglia dal nastro variopinto era una parrucca; il collo era floscio e grinzoso, i baffetti all'insù e la mosca sul mento erano tinti, la dentatura gialla e completa ch'egli scopriva nel riso era una dentiera da poco prezzo, e le sue mani con anelli stemmati ai due indici erano quelle di un vecchio. Colto da un senso di ribrezzo Aschenbach notava con stupore la sua familiarità con gli amici. Non sapevano, non vedevano quei giovani ch'egli era vecchio, che non aveva il diritto di portare quegli abiti chiassosi da bellimbusto, di comportarsi come uno di loro? Sembrava che considerassero naturale e abituale la sua compagnia, lo trattavano come un loro pari, gli restituivano senza ripugnanza i suoi scherzosi pugni nelle costole. Com'era possibile? Aschenbach si coprì la fronte con la mano e chiuse gli occhi che gli bruciavano perché aveva dormito troppo poco. Gli sembrava che tutto incominciasse in modo alquanto inconsueto, che avesse inizio un trasognato allontanamento, una strana deformazione del mondo che forse si poteva arrestare se egli velava per un poco la sua vista e poi si guardava intorno di nuovo. In quel momento però sentì l'impressione del galleggiare e alzando gli occhi con irragionevole sgomento si avvide che il pesante oscuro corpo della nave si staccava lentamente dalla riva di pietra. A palmo a palmo, sotto la spinta alterna delle macchine si allargò la striscia d'acqua sudicia e iridescente fra la banchina e la fiancata della nave e dopo lente manovre il vapore volse la prora verso il mare aperto. Aschenbach andò a dritta, dove il gobbo gli aveva preparato la sedia a sdraio, e un cameriere in marsina bisunta venne a prendere i suoi ordini. Il cielo era grigio, umido il vento. Il porto e le isole erano rimasti indietro e presto la terra svanì dal nebbioso campo visivo. Fiocchi di polvere di carbone, gonfiati dall'umidità, scendevano sul ponte lavato che non voleva asciugare. Dopo un'ora appena fu teso un tendone perché incominciava a piovere. Imbacuccato nel soprabito, con un libro in grembo, il viaggiatore riposava, e le ore trascorsero inavvertite. La pioggia era cessata; il tetto di tela fu rimosso. L'orizzonte era tutto scoperto. Sotto la cupola nuvolosa del cielo si stendeva all'intorno la sterminata superficie del mare deserto. Ma nello spazio vuoto, disarticolato, manca ai nostri sensi anche la misura del tempo e noi sonnecchiamo nell'immensità. Strane figure spettrali, il vecchio bellimbusto, il bigliettinaio dalla barba caprina, passavano con gesti trasognati, con parole vaghe attraverso la mente del passeggero, ed egli s'addormentò. A mezzogiorno lo fecero scendere per la colazione nella sala da pranzo, una specie di corridoio sul quale si aprivano le porte delle cabine, e dove, all'estremità opposta della lunga tavola a cui egli si era seduto, i giovani commessi, compreso il vecchio, trincavano fin dalle dieci con il gioviale capitano. Il pranzo era misero, ed egli lo terminò in fretta. Era impaziente di tornare all'aperto, di scrutare il cielo, se non volesse rischiararsi verso Venezia. Era persuaso che così dovesse essere, perché la città l'aveva sempre accolto in pieno splendore. Ma cielo e mare rimasero foschi e plumbei, ogni tanto cadeva una pioggerella nebbiosa, ed egli si rassegnò a raggiungere per mare una Venezia diversa da quella che aveva sempre trovato avvicinandosi dalla terraferma. Stava accanto all'albero di trinchetto e guardava lontano aspettando la terra. Pensava al poeta malinconico-entusiasta che in un tempo lontano aveva veduto sorgere da quelle acque le cupole e i campanili del suo sogno, e ripeteva fra sé qualche frammento di quel suo canto ove felicità mestizia e venerazione erano diventate poesia misurata e perfetta; e commosso senza fatica da sensazioni già modellate esaminò il proprio cuore grave e stanco, se mai una tardiva avventura del sentimento potesse ancora essere riservata al viaggiatore ozioso. Ed ecco, a destra spuntò la costa piatta, barche di pescatori animarono il mare, l'isola del Lido apparve, il vapore se la lasciò a sinistra, scivolò ad andatura rallentata entro il canale che ne porta il nome, e sulla laguna, di fronte a un gruppo di catapecchie dai colori vivaci, si fermò ad aspettare la barca del Servizio sanitario. Passò un'ora prima che comparisse. Si era arrivati e non si era arrivati; non s'aveva fretta eppure si ribolliva d'impazienza. I giovani di Pola, patriotticamente attirati dai segnali militari di tromba che echeggiavano sulle acque provenendo dai Giardini, erano saliti sul ponte, e, esilarati dall'Asti, gridavano evviva ai bersaglieri che facevano gli esercizi laggiù. Ma era ripugnante vedere in quale stato la falsa comunanza con la gioventù aveva messo l'anziano zerbinotto. Il suo cervello di vecchio non aveva resistito al vino come quello dei giovani gagliardi, ed egli era lamentevolmente ubriaco. Con lo sguardo imbambolato, una sigaretta fra le dita tremanti, egli barcollava sulle gambe mantenendo a stento l'equilibrio, sbatacchiato di qua e di là dall'ubriachezza. Poiché al primo passo sarebbe caduto non s'arrischiava a camminare, però ostentava una penosa allegria, s'attaccava ai bottoni di tutti quelli che gli passavano a tiro, balbettava, ammiccava, ridacchiava, alzava il dito rugoso e inanellato a stolido motteggio e si leccava con la punta della lingua gli angoli della bocca in maniera abominevolmente ambigua. Aschenbach lo guardava corrugando le sopracciglia, e di nuovo un senso di oppressione lo vinse, quasi che il mondo dimostrasse una tendenza lieve ma invincibile a deformarsi in una smorfia caricaturale; un'impressione a cui però le circostanze gli vietarono d'abbandonarsi, perché la pulsante attività delle macchine ricominciò tosto, e il vapore riprese il suo viaggio attraverso il bacino di San Marco. Ed ecco la rivedeva, quella stupefacente riva d'approdo, quell'abbagliante composizione di edifici fantastici che la Serenissima presentava agli sguardi riverenti dei navigatori che si approssimavano: l'aerea magnificenza del Palazzo Ducale e il Ponte dei Sospiri, le colonne sulla riva col Leone e col Santo, il pomposo aggetto del tempio fiabesco, il traforo della Porta dell'Orologio coi Mori, e mentre contemplava si disse che arrivare a Venezia dalla terraferma era come entrare in un palazzo dalla porta di servizio, e che solo per nave, dall'alto mare, come aveva fatto lui questa volta, bisognava giungere nella più inverosimile città del mondo. Le macchine s'arrestarono, molte gondole s'avvicinarono alla nave, la scala del passavanti venne abbassata e gli impiegati di dogana salirono a bordo per adempiere al loro ufficio; lo sbarco poteva incominciare. Aschenbach fece intendere che voleva una gondola, per esser portato col suo bagaglio alla stazione dei vaporetti che fanno servizio tra la città e il Lido; voleva prendere alloggio in riva al mare. Si approva la sua intenzione, si grida il suo desiderio giù verso lo specchio dell'acqua dove i gondolieri si bisticciano in dialetto. La sua discesa è ostacolata, il baule che viene spinto e trascinato a fatica giù per la scaletta gli impedisce il passaggio. Così per qualche minuto non gli riesce di sfuggire alle importunità dell'orribile vecchio, che l'ubriachezza spinge oscuramente a rivolgere solenni addii al forestiero. — Le auguriamo un felicissimo soggiorno, — egli bela tra una riverenza e l'altra. — Ci raccomandiamo al suo benevolo ricordo. Au revoir, excusez e bonjour, Eccellenza! — La saliva gli cola dalla bocca, egli chiude gli occhi, si lecca le labbra e la mosca tinta sul suo mento di vecchio s'arriccia tutta. — I nostri complimenti, — egli farfuglia portandosi due dita alla bocca, — i nostri complimenti all'innamorata, alla vezzosa, alla bellissima... — E improvvisamente la dentiera gli cade dalla mandibola sul labbro inferiore. Aschenbach riesce a fuggire. —All'innamorata, alla bellissima... — sente gemere alle sue spalle, in suoni cavernosi e stentati, mentre scende la scala tenendosi alla ringhiera di corda. Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle ballate e così inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor più alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all'ultimo silenzioso viaggio. E si è osservato che il sedile di una tal barca, quel divano laccato di un nero funereo e rivestito di luttuose gramaglie, è il più morbido, il più voluttuoso, il più sfibrante sedile del mondo? Aschenbach se ne accorse quando sedette ai piedi del gondoliere, di fronte al suo bagaglio che era stato disposto in bell'ordine a prora. I gondolieri altercavano ancora, rauchi, incomprensibili, con gesti di minaccia. Ma la quiete della città lagunare pareva accogliere blandamente le loro voci, smaterializzarle, disperderle sulle acque. Faceva caldo nel porto. Avvolto dall'alito tiepido dello scirocco, abbandonato sui cuscini cedevoli il viaggiatore chiuse gli occhi godendo di quell'inerzia tanto inconsueta quanto dolce. «La traversata sarà breve, — egli pensò; — potesse durare sempre!» Lievemente cullato sentì di scivolare via dal tumulto, dal vocio. Intorno a lui sempre più si faceva il silenzio. Non si udiva nulla, tranne lo sciacquio del remo, lo sciabordare delle piccole onde contro il tagliamare, che s'alzava sull'acqua, erto, nero e armato sulla punta di un rostro in forma d'alabarda, e un terzo rumore, un chiacchierio, un sussur- ro... il borbottare del gondoliere che parlava fra sé a voce bassa, in suoni sconnessi, soffocati dal lavoro delle sue braccia. Aschenbach si guardò intorno e con lieve sorpresa s'avvide che la laguna s'allargava e il gondoliere vogava verso il mare aperto. Dunque bisognava non abbandonarsi troppo al riposo e sorvegliare l'esecuzione della propria volontà. — Alla stazione dei vaporetti voglio andare, — disse voltandosi a mezzo verso poppa. Il borbottio cessò, ma non giunse risposta. — Ho detto, alla stazione dei vaporetti, — ripete girandosi del tutto e fissando in faccia il gondoliere che ritto sull'alto bordo torreggiava nel cielo livido. Era un uomo di aspetto sgradevole, quasi brutale, vestito alla marinara di turchino scuro, con una sciarpa verde alla cintola e un informe cappello di paglia piantato arditamente sul capo. La sua fisionomia, i suoi baffi biondi e ricci sotto il naso schiacciato lo rivelavano di razza non italiana. Sebbene la sua corporatura fosse piuttosto mingherlina, cosi che non appariva molto adatto al suo mestiere, egli manovrava il remo con grande energia, impiegando a ogni colpo tutta la sua forza. Ogni tanto nello sforzo ritraeva le labbra, scoprendo i denti bianchi. Aggrottò le sopracciglia rossicce, e guardando al di sopra del passeggero replicò in tono risoluto, quasi aspro: — Lei va al Lido. Aschenbach rispose: — Certo. Ma ho preso la gondola solo per farmi traghettare a San Marco. Desidero servirmi del vaporetto. — Non può prendere il vaporetto, signore. — E perché? — Perché il vaporetto non trasporta bagagli. Era vero; Aschenbach se ne ricordò e tacque. Ma il tono rude, arrogante, così insolito in quel paese verso un forestiero, gli parve insopportabile. Disse: — Questo è affar mio. Forse voglio mettere il bagaglio in deposito. Bisogna che lei torni indietro. Silenzio. Il remo sciaguattava, l'onda percuoteva la chiglia con un suono cupo. E ricominciò il borbottio, il sussurro: il gondoliere parlava con se stesso fra i denti. Che fare? Solo in mezzo al mare con quell'individuo strano, ribelle, inquietante e risoluto, il viaggiatore non vedeva mezzo di imporre la propria volontà. Come poteva abbandonarsi mollemente al riposo, d'altronde, se non s'arrabbiava! Non s'era augurato che la traversata durasse a lungo, per sempre? La risoluzione più saggia era lasciar andare le cose per il loro verso, e soprattutto era la più piacevole. Un incantesimo della pigrizia sembrava emanare dal suo sedile, da quel divano basso rivestito di nero, così dolcemente cullato dalle vogate del dispotico gondoliere dietro le sue spalle. L'idea di esser caduto nelle mani di un criminale sfiorò vagamente il cervello di Aschenbach — senza poter incitare i suoi pensieri a un'attiva difesa, più irritante era la possibilità che tutto mirasse a una semplice estorsione di denaro. Una specie di orgoglio o di senso del dovere, il trasognato ricordo che a cose simili bisognava opporsi, fece sì ch'egli si riscotesse ancora una volta. Domandò: — Qual è il prezzo che lei pretende? E guardando al di sopra del suo capo il gondoliere rispose: — Lei pagherà. La replica era ovvia. Aschenbach ribatté meccanicamente: — Non pagherò neanche un soldo se lei non mi porta dove voglio io. — Lei vuole andare al Lido. — Ma non con lei. — Io la porto benissimo. «Questo è vero, — pensò Aschenbach e si lasciò andare. — È vero, mi porti benissimo. Anche se aspiri al mio gruzzolo e con un colpo di remo sulla testa mi mandi alla Casa di Ade, mi avrai traghettato bene». Ma nulla di simile accadde. Anzi, trovarono compagnia, una barca di musicanti predoni, uomini e donne, che cantavano accompagnati da chitarre e mandolini, e s'appiccicarono insistentemente alla gondola riempiendo l'equoreo silenzio con la loro poesia avida di spillar soldi al forestiero. Aschenbach gettò del denaro nel cappello che quelli tendevano. Allora tacquero e si allontanarono, e si udì di nuovo il mormogio dei gondoliere che parlava fra sé a frasi spezzate. Così la gondola giunse a destinazione, dondolata dalla scia di un vapore che navigava verso la città. Due impiegati municipali, con le mani sul dorso, le facce rivolte verso la laguna, passeggiavano su e giù in riva al mare. Davanti al pontile, Aschenbach lasciò la gondola, aiutato da quel vecchio col suo gancio di accosto che si trova in tutti i luoghi d'approdo di Venezia; e poiché non aveva spiccioli, entrò nell'albergo di faccia al ponte di sbarco, per cambiare, e pagare il gondoliere secondo il proprio giudizio. Nel vestibolo è subito servito, torna indietro, trova i suoi bagagli su una carretta sul molo, e gondola e gondoliere sono scomparsi. — E scappato, — dice il vecchio col gancio. — Un malandrino, signore, l'unico dei gondolieri che non ha la licenza. Gli altri hanno telefonato qui. S'è accorto che lo aspettavano. E allora s'è squagliato. Aschenbach si strinse nelle spalle. — Il signore ha viaggiato gratis, — disse il vecchio e tese il cappello. Aschenbach vi gettò qualche moneta. Ordinò che gli portassero le valige all'Albergo dei Bagni e seguì il carretto lungo il viale biancofiorito, fiancheggiato da caffè, bazar e pensioni, che attraversa l'isola fino alla spiaggia. Entrò nel vasto albergo per l'ingresso posteriore, dalla terrazza a giardino, e attraversando il salone e il vestibolo si recò nell'ufficio. Poiché si era prenotato, fu accolto con servizievole premura. Il manager, un uomo piccolo, sommesso, ossequioso, con baffetti neri e una finanziera di taglio francese, lo accompagnò in ascensore al secondo piano e gli indicò la sua stanza, una camera piacevole, adorna di fiori fortemente profumati, coi mobili di ciliegio e due alte finestre prospicenti il mare aperto. Uscito il manager, Aschenbach si affacciò a una delle finestre, e mentre portavan dentro il bagaglio e lo mettevano a posto egli stette a contemplare la spiaggia pomeridiana, quasi spopolata, e il mare in ombra che era in fase di flusso e mandava contro la riva con ritmo tranquillo onde basse e lunghe. Le osservazioni e gli incontri di chi va attorno in silente solitudine sono al tempo stesso più sfumati e più netti di quelli dell'uomo socievole, i suoi pensieri sono più gravi, più bizzarri, e mai esenti da un'ombra di tristezza. Impressioni e immagini, che si potrebbero facilmente scrollar via con un'occhiata, un sorriso, uno scambio d'opinioni, lo preoccupano oltre misura, s'approfondiscono nel silenzio, diventano importanti, si trasformano in avventura, episodio, sentimento. La solitudine fa maturare l'originalità, la bellezza strana e inquietante, la poesia. Ma genera anche il contrario, lo sproporzionato, l'assurdo e l'illecito. Così ancora adesso le visioni del viaggio, il vecchio ripugnante damerino col suo cianciare dell'innamorata, il gondoliere sospetto frodato della sua mercede turbavano l'animo del viaggiatore. Senza mettere la ragione in difficoltà, senza dar vera materia alla riflessione, erano tuttavia di natura singolarissima, almeno così pareva a lui, e conturbanti appunto per tale contraddizione. Intanto egli salutava il mare con gli occhi e gioiva di sapere Venezia in così prossima vicinanza. Finalmente si staccò dalla finestra, si lavò il viso, diede qualche ordine alla cameriera a perfezionamento delle proprie comodità, e dallo svizzero vestito di verde che manovrava l'ascensore si fece calare al piano terreno. Prese il tè sulla terrazza verso il mare, poi uscì e percorse un bel pezzo della passeggiata lungo la spiaggia, verso l'Albergo Excelsior. Quando tornò, doveva esser già l'ora di cambiar abito per il pranzo. Egli lo fece con lentezza e precisione, com'era sua indole, perché mentre si vestiva era abituato a lavorare, e ciò nonostante scese un po' troppo presto nel salone dove trovò radunata una gran parte degli ospiti dell'albergo, sconosciuti gli uni agli altri e ostentanti reciproca indifferenza ma accomunati dall'attesa del pranzo. Egli prese un giornale da un tavolino, s'accomodò su una poltrona di cuoio e osservò la compagnia, che gli parve piacevolmente diversa da quella del suo primo soggiorno in quell'albergo. Si apriva un altro orizzonte, più tollerante e più largo. I suoni delle lingue principali si mescolavano sommessi. L'internazionale abito da sera, uniforme della civiltà, raccoglieva esteriormente in un solo galateo i vari tipi umani. Si vedeva la faccia lunga e asciutta dell'americano, la numerosa famiglia russa, signore inglesi, bambini tedeschi con governanti francesi. Gli slavi sembravano in maggioranza. Lì vicino si parlava polacco. Era un gruppo di giovani e di appena adolescenti, radunati intorno a un tavolino di vimini sotto la custodia di una istitutrice o dama di compagnia: tre ragazze apparentemente fra i quindici e i diciassette anni, un ragazzo dai lunghi capelli che poteva avere quattordici anni. Con meraviglia Aschenbach vide che il ragazzo era di una bellezza perfetta. Il suo viso, pallido e graziosamente chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca amabile, un'espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima perfezione della forma recava un fascino così unico e personale, che parve al riguardante di non aver mai veduto né in arte né in natura nulla di così felicemente riuscito. Si notava inoltre l'aperto contrasto fra i principi educativi secondo i quali i fanciulli apparivano vestiti e generalmente trattati. L'acconciatura delle tre ragazze, di cui la maggiore poteva considerarsi adulta, era castigata e austera fino alla contraffazione. Abiti monacali color ardesia, di media lunghezza, di taglio semplice e volutamente sgraziato, unicamente rischiarati da grandi colletti bianchi, impedivano e nascondevano ogni piacevolezza della figura. I capelli lisci appiccicati al capo davano alle facce un'aria vuota e insignificante. Certo una madre aveva disposto così, ma non pensava affatto di applicare anche al ragazzo la severità pedagogica che le sembrava indicata per le fanciulle. Era chiaro che dolcezza e tenerezza governavano la sua vita. Ci si era ben guardati dall'accostare le forbici alla sua bella capigliatura; come quella dello Spinario capitolino, essa si inanellava sulla fronte, sugli orecchi, e ancor più sulla nuca. L'abito inglese alla marinara, le cui maniche larghe si stringevano verso il basso, intorno ai polsi delicati delle mani ancora infantili ma affusolate, coi suoi ricami, cordoni e fiocchi conferiva alla figurina esile alcunché di ricco e di viziato. Era volto di tre quarti verso colui che lo osservava, i piedi incrociati nelle scarpette di vernice nera, un gomito puntato sul bracciolo della poltrona e la guancia appoggiata alla mano chiusa, in un atteggiamento di grazia negligente, e senz'ombra della rigidità quasi sommessa alla quale le sorelle sembravano avvezze. Che fosse malato? Infatti la pelle del suo viso spiccava bianca come l'avorio sull'oro scuro dei ricci che lo incorniciavano. Oppure era semplicemente un beniamino viziato, circondato da un amore capriccioso e parziale? Aschenbach propendeva a crederlo. In quasi tutti gli artisti è innata la tendenza voluttuosa e ingannatrice a consacrare l'ingiustizia che genera bellezza e a offrire omaggio e simpatia alla predilezione aristocratica. Un cameriere girò fra i tavoli, e annunziò in inglese che il pranzo era pronto. A poco a poco tutti passarono attraverso la porta a vetri nella sala da pranzo. Dal vestibolo giunsero alcuni ritardatari, scesi dagli ascensori. Di là incominciavano già a servire, ma i giovani polacchi rimanevano ancora intorno al loro tavolo di vimini e Aschenbach, comodamente sprofondato nella sua poltrona, e per di più con la bellezza sott'occhio, aspettò con loro. La governante, una mezza signora piccola e corpulenta con la faccia rossa, diede finalmente il segnale di alzarsi. Spinse indietro la sua seggiola e s'inchinò inarcando le sopracciglia, mentre una signora alta, vestita di bianco-grigio e molto riccamente adorna entrava nel salone. Il contegno della signora era freddo e compassato, l'acconciatura dei capelli leggermente incipriati come pure la foggia del suo vestito avevano quella semplicità che sempre determina il gusto in coloro che considerano la religiosità una componente della distinzione. Avrebbe potuto essere la moglie di un alto funzionario tedesco. Un tocco fantastico e sfarzoso era dato alla sua apparizione soltanto dai gioielli che in verità sembravano inestimabili: pendenti agli orecchi e una lunghissima collana a tre giri di perle grosse come ciliege, mitemente splendenti. I ragazzi s'erano subito alzati. Si chinarono per il bacio sulla mano della madre che con un sorriso contegnoso nel volto ben curato, ma un po' stanco e dal naso aguzzo, guardava al di sopra del loro capo rivolgendo qualche parola in lingua francese all'istitutrice. Poi si mosse verso la porta a vetri. I figlioli la seguirono: prima le tre signorine in ordine di età, poi la governante, ultimo il ragazzo. Per un motivo qualsiasi egli si voltò prima di oltrepassare la soglia, e poiché nel salone non era rimasto nessun altro, i suoi strani occhi di un grigio crepuscolare incontrarono quelli di Aschenbach, che, col giornale sulle ginocchia, assorto in contemplazione, seguiva il gruppo con lo sguardo. Quella scena non aveva nulla di sorprendente nei particolari. I ragazzi non erano andati a tavola prima della madre, l'avevano aspettata, l'avevano salutata rispettosamente, e nell'entrare in sala da pranzo si erano attenuti alle forme consuete. Tutto questo però si era svolto così espressivamente, con un tale accento di modestia, impegno e decoro che Aschenbach ne fu singolarmente commosso. Indugiò ancora qualche istante, poi entrò anche lui nella sala da pranzo e si fece indicare il suo tavolo che, come rilevò con un breve moto di rincrescimento, era molto lontano da quello della famiglia polacca. Stanco e tuttavia spiritualmente desto egli si occupò durante il lungo pranzo di cose astratte e addirittura trascendenti, meditò sul misterioso legame che il regolare deve contrarre con l'individuale perché ne risulti la bellezza umana, di lì passò a problemi generali della forma e dell'arte e alla fine trovò che i suoi pensieri e le sue conclusioni somigliavano a certe ispirazioni del sogno, apparentemente felici, che poi a mente desta si rivelano del tutto scipite e inservibili. Dopo cena indugiò nel parco vespertino e fragrante, fumando, sostando e passeggiando, andò presto a coricarsi e passò la notte in un sonno ininterrotto e profondo, ma variamente animato da immagini e visioni. Il giorno seguente il tempo prometteva male. Soffiava brezza di terra. Sotto un cielo coperto e smorto il mare giaceva in torpida calma, quasi raggricciato, con l'orizzonte prosaicamente vicino, e la marea era così bassa che emergevano in varie file lunghi banchi di sabbia. Quando Aschenbach aprì la finestra gli parve di fiutare l'odore putrido della laguna. Lo assalì il malumore. In quel momento egli pensò alla partenza. Una volta, anni prima, dopo giorni sereni di primavera un tempo simile a questo lo aveva funestato ed era stato così dannoso alla sua salute che egli aveva dovuto lasciare Venezia come un fuggiasco. E ora non si ripresentava la febbrile svogliatezza di allora, il cerchio alle tempie, la pesantezza delle palpebre? Cambiare nuovamente dimora sarebbe stato fastidioso; ma se il vento non girava, era impossibile restare. Per sicurezza non disfece completamente le valige. Alle nove fece colazione nell'apposita saletta, fra il salone e la sala da pranzo. Nella stanza regnava la quiete solenne che è vanto dei grandi alberghi. I camerieri facevano il loro servizio a passi silenziosi. Un tintinnio del vasellame da tè, una parola mormorata a mezza voce, era tutto quel che si poteva sentire. In un angolo, diagonalmente alla porta, due tavoli più in là del suo, Aschenbach vide le giovani polacche con la loro istitutrice. Sedevano molto diritte, i capelli di un biondo cenere lisciati da poco e gli occhi arrossati, vestite di rigida tela azzurra con colletti e polsini bianchi, e si passavano dall'una all'altra una coppa di marmellata. Avevano quasi finito di far colazione. Il ragazzo non c'era. Aschenbach sorrise. «Evvia, piccolo Feace! — pensò. — A quanto pare tu hai sulle tue sorelle la prerogativa di dormire quanto ti aggrada». E subitamente rasserenato recitò fra sé il verso: Monili spesso mutati e tiepidi bagni e riposo... Fece colazione senza fretta, ricevette dalle mani del portiere, che era entrato nel salone col berretto gallonato in mano, la corrispondenza rispedita da casa, e fumando una sigaretta aprì due o tre lettere. Così poté ancora assistere all'ingresso del dormiglione che era atteso all'altro tavolo. Egli entrò dalla porta a vetri e attraversando in diagonale la saletta silenziosa venne al tavolo delle sorelle. Il suo incedere, tanto per il portamento del busto quanto per il movimento dei ginocchi e il passo dei piedi calzati di bianco, era di una grazia straordinaria, molto leggero, delicato e superbo insieme, e abbellito ancora dalla timidezza infantile con la quale egli cammin facendo alzò e abbassò due volte gli occhi volgendo il viso verso la sala. Sorridente, con una parola a mezza voce nella sua lingua fluida e dolce, egli sedette al suo posto; e soprattutto ora, vedendolo nettamente di profilo, Aschenbach fu colpito da meraviglia e quasi da sgomento per la bellezza veramente divina del giovane mortale. Oggi il ragazzo portava una blusa leggera di cotone a righe bianche e azzurre, con un fiocco rosso sul petto, chiusa al collo da un semplice solino bianco diritto. Da quel solino, non molto adatto d'altronde al genere del vestito, la testa sbocciava come un fiore, con leggiadria incomparabile — una testa di Eros, che aveva la lucentezza eburnea del marmo pario, con sopracciglia sottili e gravi, tempie e orecchi morbidamente coperti dai riccioli scuri tagliati ad angolo retto. «Bene, bene! — pensò Aschenbach, con la fredda approvazione tecnica con cui gli artisti a volte travestono il loro rapimento, la loro esaltazione davanti a un capolavoro. E continuando il suo pensiero, soggiunse: — Davvero, se non mi attendessero il mare e la spiaggia, resterei qui finché resti tu!» Ma invece, fra gl'inchini dei camerieri, attraversò il salone, scese dalla terrazza, e per la passerella di legno andò direttamente alla spiaggia riservata dell'albergo. Dal vecchio bagnino scalzo in calzoni di tela, camiciotto da marinaro e cappello di paglia, si fece aprire la cabina che aveva preso in affìtto, e mettere fuori sulla piattaforma di assi il tavolino e le sedie; e si distese comodamente sulla poltrona a sdraio dopo averla tirata più presso al mare, nella sabbia giallastra. Lo spettacolo della spiaggia, di questa civiltà che gode sensuale e spensierata in riva all'elemento, lo divertiva e lo rallegrava più che mai. Già il piatto grigiore del mare era animato da bambini sguazzanti, da nuotatori, da figure variopinte coricate sui banchi di sabbia con le mani incrociate dietro il capo. Altri remavano in sandolini rossi e azzurri e si rovesciavano in acqua ridendo. Davanti alla lunga fila delle capanne, che avevano ognuna una piattaforma simile a una piccola veranda, c'era giocosa agitazione e pigro riposo, visite e conversazioni, raffinata eleganza mattutina e nudità ardita che godeva con gusto la libertà della spiaggia, più avanti, sulla sabbia umida e salda, alcuni passeggiavano vestiti di accappatoi bianchi o di camiciotti dai colori sgargianti. A destra una complicata fortezza di sabbia costruita dai bambini era guarnita tutt'intorno di bandierine d'ogni paese. Venditori di molluschi, di frittelle e di frutta disponevano, ginocchioni, la loro merce. A sinistra, davanti a una delle cabine che eran poste perpendicolarmente alle altre e al mare e chiudevano così la spiaggia da quella parte, era accampata una famiglia russa: uomini con lunghe barbe e con grossi denti, donne fragili e neghittose, una signorina delle province baltiche, che seduta davanti a un cavalletto dipingeva una marina fra sospiri di disperazione, due bambini brutti ma simpatici, una vecchia domestica col fazzoletto in capo che si comportava con umile tenerezza. Vivevano lì in riconoscente beatitudine, chiamando instancabilmente per nome i loro bambini indocili e scatenati, scherzando lungamente per mezzo di poche parole italiane col vecchio faceto che vendeva dolciumi, baciandosi sulle guance, non curandosi affatto dei testimoni della loro vita di famiglia. «Dunque rimango, — pensò Aschenbach. — Dove trovare di meglio?» E con le mani intrecciate in grembo lasciò errare i suoi occhi sulle lontananze del mare, e il suo sguardo ruggire, dissolversi, spezzarsi nel vapore monotono dello spazio deserto. Egli amava il mare per ragioni profonde: il bisogno di riposo dell'artista costretto a una dura fatica, che davanti all'esigente proteismo dei fenomeni cerca rifugio nel seno della semplicità, dell'immensità; la tendenza vietata, in netto contrasto con la sua missione e appunto per questo così irresistibile, all'inarticolato, l'incommensurabile, l'eterno, il nulla. Riposare nella perfezione è il sogno di chi s'affatica per giungere all'eccellenza; e il nulla non è una forma della perfezione? Ora, mentre egli lasciava che il suo sogno s'immergesse così nel vuoto, la linea orizzontale della riva fu tagliata all'improvviso da una forma umana, e quando egli raggiunse e ricondusse il suo sguardo dall'infinito vide il bel fanciullo che venendo da sinistra gli passava davanti sulla sabbia. Era scalzo, pronto a sguazzare nell'acqua, le gambe snelle nude fin sopra il ginocchio: camminava adagio ma con passo leggero e superbo, come se fosse abituato ad andare senza scarpe, e si voltò verso le cabine che delimitavano la spiaggia. Ma appena ebbe scorto la famiglia russa che se la godeva in dolce armonia, una nube di iroso disprezzo gli oscurò il viso. La sua fronte si corrugò, il labbro superiore si storse, dalla bocca a uno degli zigomi corse una smorfia amara che gli sformò la guancia, e le sopracciglia erano così increspate che gli occhi parvero incavarsi sotto la pressione e fattisi scuri e cattivi parlarono eloquentemente il linguaggio dell'odio. Egli abbassò lo sguardo, ancora una volta si girò indietro minaccioso, fece poi con la spalla un brusco movimento di disprezzo, e si lasciò il nemico alle terga. Un senso di discrezione o di spavento, qualcosa come rispetto e vergogna indusse Aschenbach a distoglier lo sguardo come se non avesse veduto nulla; giacché all'uomo serio che per caso è testimonio della passione ripugna far uso anche soltanto dentro se stesso di ciò che ha visto. Aschenbach però era divertito e commosso insieme, vale a dire felice. Quel fanatismo infantile rivolto contro gente innocua e bonaria metteva in rapporti umani l'inespressività divina, rivelava degno di un interesse più profondo un prezioso capolavoro della natura che era parso destinato solo alla gioia degli occhi; e la figura dell'adolescente già così notevole per la sua bellezza ne otteneva un rilievo che permetteva di prenderlo sul serio più di quanto la sua età non comportasse. Ancora voltato, Aschenbach ascoltava la voce del fanciullo, quella voce chiara, un po' sottile, con cui egli cercava di annunciarsi già da lontano ai compagni di gioco occupati intorno alla fortezza. Gli risposero parecchie voci, gridando il suo nome o un vezzeggiativo, e Aschenbach ascoltò con una certa curiosità, senza poter cogliere nulla di più preciso che due sillabe melodiose come «Adgio» o più sovente «Adgiu» con un u prolungato alla fine. Il suono gli piacque, egli giudicò che l'eufonia corrispondeva all'oggetto, lo ripete mentalmente e poi ritornò soddisfatto alle sue carte e alle sue lettere. Con la piccola cartella da viaggio sulle ginocchia prese la penna stilografica e incominciò a sbrigare un po' di corrispondenza. Ma dopo un quarto d'ora giudicò che era un peccato abbandonare così in ispirito e trascurare per un'attività indifferente uno stato tanto degno d'esser goduto. Buttò da parte carta e penna e ritornò al mare; e ben presto, attirato dalle voci fanciullesche dei costruttori del forte, voltò verso destra la testa comodamente appoggiata allo schienale della poltrona per assistere di nuovo ai fatti e ai gesti del delizioso «Adgio». Lo trovò alla prima occhiata; il fiocco rosso che aveva sul petto lo distingueva fra tutti. Occupato insieme con gli altri a collocare una vecchia tavola a guisa di ponte sul fossato umido della fortezza, egli dirigeva l'opera con parole e con cenni del capo. Erano con lui una diecina di compagni, maschi e femmine, della sua età e qualcuno più giovane, che parlavano insieme in tutte le lingue, polacco, francese e anche idiomi balcanici. Ma il suo nome risonava più sovente degli altri. Egli era fra tutti il più ricercato, ammirato, corteggiato. Specialmente uno, polacco come lui, che si chiamava «Yaschu» o qualcosa di simile, un ragazzo robusto dai capelli neri impomatati, vestito di una leggera veste di tela, sembrava il suo più fedele vassallo e amico. Finito per quella volta il lavoro intorno alla fortezza, se ne andarono abbracciati lungo la riva, e quello chiamato «Yaschu» baciò il bellissimo compagno. Aschenbach fu tentato di minacciarlo col dito. «A te, Critobulo, — pensò sorridendo, — consiglio di viaggiare per un anno! Perché tanto ti occorre per guarire, non meno!» E poi fece una colazione di grosse fragole ben mature, che comperò da un venditore ambulante. Adesso faceva molto caldo, benché il sole non fosse riuscito a bucare lo strato di vapori che copriva il cielo. La pigrizia incatenava lo spirito, mentre i sensi assaporavano il formidabile e stordente discorso del silenzio marino. Indovinare, indagare quale fosse quel nome che sonava press'a poco «Adgio» parve all'uomo serio e pensoso un compito degno di tutta la sua attenzione. E con l'aiuto di qualche reminiscenza polacca, concluse che doveva essere «Tadzio», abbreviazione di Tadeusz che nel vocativo si prolungava in «Tadziu». Tadzio faceva il bagno. Aschenbach, che l'aveva perso di vista, scorse la sua testa, il suo braccio che egli alzava battendo l'acqua, laggiù molto al largo; il mare infatti doveva esser calmo fino a grande distanza. Ma già la gente s'inquietava per lui, già voci di donne lo chiamavano dalle cabine e ripetevano quel nome che dominava la spiaggia quasi come una parola d'ordine e con le sue consonanti dolci, il suo u finale prolungato aveva qualcosa di mite e di selvaggio insieme: — Tadziu! Tadziu! — Egli tornò indietro, a testa arrovesciata traversò di corsa l'acqua bassa facendo sollevare in spuma l'onda che resisteva alle sue gambe; e vedere la forma viva, acerba e graziosa nella sua previrilità, sorgere con i ricci grondanti, bella come un giovane nume, dalle profondità del mare, uscire e fuggire dall'elemento, era uno spettacolo che suggeriva mitiche fantasie, qualcosa come una leggenda poetica di età primitive che narra le origini della forma e la nascita degli dèi. Aschenbach ascoltava con gli occhi chiusi quel canto che gli vibrava nell'anima, e di nuovo pensò che lì stava bene e che lì sarebbe rimasto. Più tardi Tadzio si riposò del bagno, sdraiato sulla sabbia, avvolto in un lenzuolo bianco che passava sotto la spalla destra e con la testa appoggiata sul braccio nudo; e Aschenbach, anche se non lo guardava e leggeva invece qualche pagina del suo libro, non dimenticava mai che egli giaceva là, e che bastava voltare leggermente il capo verso destra per contemplare la mirabile visione. Gli sembrava quasi di esser lì per proteggere il suo riposo, occupandosi delle cose proprie e tuttavia in costante vigilanza sulla creatura ideale che giaceva poco lontano. E una tenerezza paterna, l'affetto commosso di colui che sacrificandosi in ispirito crea la bellezza, verso colui che la possiede, riempiva e agitava il suo cuore. Dopo mezzogiorno lasciò la spiaggia, tornò all'albergo e salì in camera sua. Ivi rimase a lungo davanti allo specchio, osservando i suoi capelli grigi, il suo viso stanco e scavato. In quel momento pensò alla sua gloria, ricordò che molti per la strada lo riconoscevano e lo guardavano reverenti, per la precisione infallibile e coronata di grazia della sua parola; evocò tutti i fortunati successi del suo talento, senza dimenticare il titolo nobiliare che gli era stato conferito. Poi scese in sala da pranzo per il lunch, e mangiò al proprio tavolino. Quando, finito il pasto, entrò nell'ascensore, alcuni giovani che venivano anch'essi dalla sala da pranzo lo seguirono nella gabbietta sospesa, e Tadzio era fra loro. Aschenbach se lo trovò accanto, così vicino che invece di vederlo a distanza d'immagine lo sentiva e lo riconosceva minutamente in tutti gli elementi della sua umanità. Qualcuno rivolse la parola al fanciullo e questi, mentre rispondeva con un sorriso indescrivibilmente amabile, già usciva a ritroso, con gli occhi bassi, sul primo ripiano. «La bellezza genera il pudore», pensò Aschenbach e si chiese insistentemente perché. Intanto aveva notato che i denti di Tadzio non erano perfetti; un po' frastagliati e pallidi, senza lo smalto delle dentature sane, con quella particolare fragilità e trasparenza che accompagna talvolta la clorosi. «E molto delicato, non ha salute, — pensò Aschenbach. — Probabilmente non diventerà vecchio». E rinunziò a cercare la ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo suscitato da quel pensiero. Passò due ore nella sua stanza e nel pomeriggio andò a Venezia col vaporetto che attraversava la putrescente laguna. Scese a San Marco, prese il tè in piazza e poi, secondo il suo programma veneziano, fece un giro per le vie. Ma proprio quella passeggiata produsse un rovesciamento completo del suo umore e delle sue decisioni. Sui vicoli stagnava una calura afosa e ripugnante; l'aria era così spessa che gli odori provenienti da abitazioni, botteghe, cucine — vapori oleosi, nuvole di profumo e molti altri —, restavano sospesi senza dissolversi. Il fumo delle sigarette fluttuava dov'era e si disperdeva solo con estrema lentezza. La folla che si pigiava nello spazio ristretto infastidiva il passeggiatore invece di divertirlo, più andava, e più sentiva il tormento dell'orribile stato in cui l'aria di mare unita allo scirocco solevan farlo cadere, uno stato di prostrazione e di eccitazione insieme. Il suo corpo stillava di molesto sudore. Gli si annebbiava la vista, il petto era oppresso, un brivido di febbre lo scosse, il sangue gli pulsava alle tempie. Fuggì dalle Mercerie affollate, verso i quartieri dei poveri. Ma qui lo importunavano i mendicanti, e il fetore dei canali gli mozzava il respiro. In una piazza tranquilla, uno di quei luoghi nel cuore di Venezia che sembrano addormentati in un magico oblio, egli si riposò su una vera di pozzo, s'asciugò la fronte e capì che doveva partire. Per la seconda volta e ormai in modo definitivo era dimostrato che la città, con quella temperie, aveva un pessimo effetto sulla sua salute. Ostinarsi a restare era irragionevole, la probabilità di un cambiamento di atmosfera appariva molto incerta. Bisognava prendere una decisione immediata. Ritornare a casa subito non era possibile. Né il quartiere d'inverno né quello d'estate eran pronti ad accoglierlo. Ma il mare e la spiaggia non si trovavano soltanto a Venezia, e anzi altrove non avevano il malefico complemento della laguna e dei suoi miasmi. Si ricordò di un piccolo villaggio balneare poco distante da Trieste, che qualcuno gli aveva segnalato. Perché non andar là? E senza indugio, affinché mettesse ancora conto di cambiare un'altra volta villeggiatura. Si dichiarò risoluto e si alzò. Alla prima stazione di barche prese una gondola e attraverso il tetro labirinto dei canali, sotto balconi leggiadri fiancheggiati da leoni di marmo, girando intorno a speroni di muraglie vischiose, lungo squallide facciate di palazzi in rovina che specchiavano grandi insegne di fondachi nelle acque cosparse di galleggianti detriti, si fece portare a San Marco. Non vi giunse senza fatica, perché il gondoliere, in combutta con fabbriche di merletti e vetrerie, cercava continuamente di sbarcarlo per visitare negozi e fare acquisti, e quando quella bizzarra traversata di Venezia in- cominciava a esercitare il suo incanto, il mercantilismo rapace della decaduta regina dei mari interveniva spiacevolmente a sciogliere la magia. Ritornato all'albergo, prima ancora di pranzare dichiarò al bureau che circostanze impreviste lo costringevano a partire l'indomani mattina. Furono scambiate frasi di rincrescimento, gli venne rilasciata quietanza del suo conto. Egli pranzò e trascorse la tiepida serata a legger giornali seduto in poltrona a dondolo sulla terrazza verso il giardino. Prima di andare a letto preparò tutti i bagagli per la partenza. Non dormi troppo bene, agitato dal nuovo distacco. Al mattino, quando aprì la finestra, il cielo era coperto come il giorno prima, ma l'aria pareva più fresca, e tosto incominciò il suo rimpianto. Quella precipitosa disdetta non era un errore, la conseguenza di uno stato di malessere che non costituiva norma? Se l'avesse differita di qualche giorno, se, prima di rinunziare a priori, avesse corso l'alea di un adattamento al clima veneziano o di un miglioramento del tempo, adesso, in luogo di agitazione e trambusto, avrebbe avuto davanti una mattinata sulla spiaggia come quella di ieri. Troppo tardi. Adesso doveva continuare a volere ciò che aveva voluto ieri. Si vestì e alle otto scese a pianterreno per far colazione. Nella saletta, quando egli entrò, non c'era ancora nessuno. Qualcuno giunse mentre egli aspettava la colazione che aveva ordinato. Sorbiva già il tè quando arrivarono le giovani polacche con la loro accompagnatrice; austere e fresche, con gli occhi un po' rossi, andarono al loro tavolino presso la finestra. Subito dopo s'avvicinò il portiere col berretto in mano e gli annunciò ch'era l'ora della partenza. L'automobile era pronta per condurre lui e altri viaggiatori all'Albergo Excelsior, di dove il motoscafo avrebbe trasportato i signori alla stazione attraverso il canale privato della Società dei Grandi Alberghi. Non c'era tempo da perdere... Secondo Aschenbach, invece, non c'era nessuna fretta. Mancava più di un'ora alla partenza del treno. Egli si impazientì contro l'abitudine alberghiera di spedir via troppo presto i partenti, e disse al portiere che intendeva far colazione in pace. L'uomo si ritirò a malincuore per ricomparire dopo cinque minuti. Impossibile far aspettare più a lungo la macchina. — E allora vada pure, basta che trasporti il mio baule, — rispose Aschenbach irritato. Quanto a lui, aggiunse, avrebbe preso il vaporetto all'ora che gli faceva comodo, e pregava che lo lasciassero sbrogliare da solo. L'impiegato s'inchinò. Aschenbach, contento di aver respinto le fastidiose insistenze, terminò senza fretta di far colazione e si fece persino portare un giornale. Aveva davvero i minuti contati quando finalmente si alzò. Il caso volle che proprio in quel momento Tadzio entrasse dalla porta a vetri. Nell'andare verso il tavolo dei suoi, egli s'incontrò con l'ospite che partiva; davanti a quel signore dalla fronte alta e dai capelli grigi chinò modestamente gli occhi a terra, per risollevarli tosto, com'era suo amabile vezzo, larghi e dolci verso di lui, ed era già passato. «Addio, Tadzio! — pensò Aschenbach. — Per breve tempo ti ho veduto». E mentre contro la sua abitudine formulava il pensiero con le labbra e lo mormorava a voce bassa, soggiunse: — Sii benedetto! — Poi procedette alla partenza, distribuì mance, ricevette il saluto del piccolo discreto manager in finanziera alla moda francese, e uscì dall'albergo a piedi com'era venuto, seguito dal domestico che portava il bagaglio a mano, per recarsi all'imbarcatoio, lungo il viale biancofiorito che traversa l'isola. Vi giunge, sale sul vaporetto... e quel che seguì fu il cammino della passione, un angoscioso discendere a tutti gli abissi del pentimento. Era la traversata ben nota della laguna, passando davanti a San Marco, e su per il Canal Grande. Aschenbach era seduto sulla panca circolare a prua, col braccio appoggiato alla ringhiera e la mano alzata a proteggere gli occhi dal riverbero. I Giardini Pubblici restarono alle sue spalle, la Piazzetta s'aprì ancora una volta nella sua grazia regale e scomparve, poi venne la grande fuga di palazzi, e alla svolta del canale apparve lo splendido arco marmoreo del Ponte di Rialto. Il viaggiatore guardava, e si sentiva strappare il cuore. L'atmosfera, della città, quell'odore un po' marcio d'acqua stagnante che aveva avuto tanta fretta di fuggire... adesso egli lo respirava a lunghi tratti, con dolorosa tenerezza. Possibile che egli non avesse saputo, che non avesse ricordato come il suo cuore era attaccato a tutto ciò? Quello che al mattino era stato un vago rammarico, un leggero dubbio sull'opportunità della sua decisione, diventava adesso dolore, vero cordoglio, una tortura dell'anima, così amara che più volte le lacrime gli empirono gli occhi, e di cui si diceva che non avrebbe mai potuto prevederla. Ciò che più gli pareva penoso, anzi in certi momenti addirittura intollerabile, era il pensiero che non avrebbe mai più riveduto Venezia, che quello era un addio per sempre. Poiché aveva accertato per la seconda volta che la città era nociva alla sua salute, poiché per la seconda volta era costretto a fuggir via precipitosamente, doveva considerarla d'ora in poi come una residenza impossibile e proibita, al di sopra delle sue forze, e che sarebbe stato assurdo ritentare. Sentiva anzi che se ora partiva, orgoglio e vergogna gli avrebbero vietato di vedere mai più la città amata davanti alla quale per ben due volte egli aveva fallito fisicamente; e quel conflitto fra inclinazione spirituale e capacità corporale parve improvvisamente così grave e significativo all'uomo in declino, la disfatta fisica così vergognosa, così da evitare a qualunque prezzo, che non capiva più la facile rassegnazione con cui ieri aveva deciso di subirla e di ammetterla senza una dura lotta. Intanto il vaporetto s'avvicina alla stazione, sofferenza e perplessità crescono fino allo sconvolgimento. In tanta angoscia il partire sembra impossibile e non meno impossibile il rimanere. Cosi egli entra in stazione, con l'animo lacerato. E molto tardi, non c'è un minuto da perdere se vuole prendere il treno. Egli vuole e non vuole. Ma il tempo stringe, lo incalza; egli si affretta a prendere il biglietto e nel trambusto della sala cerca l'impiegato della Società. L'uomo si mostra e annunzia che il baule è stato spedito. — Già spedito? — Si, tutto in ordine, per Como. — Per Como? — E da un rapido scambio di irritate domande e di costernate risposte risulta che il baule, confuso con altri bagagli, è partito dall'ufficio spedizioni dell'Albergo Excelsior in direzione completamente sbagliata. Aschenbach stentò a conservare l'espressione di rincrescimento adatta alle circostanze. Una gioia stravagante, una incredibile gaiezza gli squassò internamente il petto quasi come uno spasimo. L'impiegato si precipitò a fermare il baule, se era ancora possibile, ma com'era da prevedersi ritornò a mani vuote. Allora Aschenbach dichiarò che non intendeva partire senza il suo baule, e perciò decideva di tornare all'Albergo dei Bagni per attendervi il ritorno del collo. Chiese se il motoscafo della Società fosse ancora lì. L'uomo assicurò che era davanti alla porta della stazione. Con italiana facondia persuase il bigliettario a riprendersi indietro il biglietto, giurò che si sarebbe telegrafato, che non si sarebbe risparmiato né trascurato nulla per riavere il baule al più presto — e così fu che il viaggiatore, venti minuti dopo il suo ingresso in stazione, si ritrovò sul Canal Grande di ritorno verso il Lido. Avventura bizzarra, incredibile, umiliante, tra la farsa e il sogno: deviato e risospinto indietro dal destino, rivedere, prima che un'ora sia passata, i luoghi a cui si è appena detto addio con acerbo dolore! Sollevando un'onda di spuma, bordeggiando agile fra gondole e vaporetti, la piccola rapida imbarcazione vola verso la sua mèta, mentre l'unico passeggero nasconde sotto la maschera dell'imbronciata rassegnazione l'allegra baldanza di un ragazzo scappato di casa. Di tanto in tanto gli vien da ridere al pensiero di quella fatalità che non avrebbe potuto trattare con maggior compiacenza un beniamino della fortuna. «Bisognerà dare spiegazioni, — egli si disse, — affrontare sguardi stupiti; poi tutto tornerà a posto»: una infelicità sarà stata evitata, un grave errore riparato, e tutto ciò che egli aveva creduto di abbandonare si sarebbe di nuovo offerto, sarebbe stato suo finché egli voleva... E lo illudeva la velocità del battello, o davvero, per colmo di fortuna, il vento adesso soffiava dal mare? Le onde battevano contro le pareti di cemento dello stretto canale che taglia l'isola fino all'Excelsior. Un'automobile-omnibus aspettava il reduce e lungo il mare increspato lo ricondusse diritto all'Albergo dei Bagni. Il piccolo manager baffuto in abito a falde scese la scalinata per venirgli incontro. Con delicate blandizie deplorò l'incidente, lo definì assai penoso per lui stesso e per l'albergo, ma approvò in tono convinto la decisione presa da Aschenbach di aspettare lì il ritorno del baule. La sua camera sventuratamente era stata occupata, ma gliene poteva offrire un'altra, non meno buona. — Pas de chance, monsieur, — disse sorridendo il liftboy svizzero, mentre lo accompagnava su. E così il fuggiasco fu di nuovo acquartierato, in una stanza quasi identica alla prima per posizione e arredamento. Affaticato, intontito dal turbinio di quella strana mattinata, Aschenbach dopo aver messo a posto il contenuto della sua valigetta a mano si sedette in poltrona accanto alla finestra aperta. Il mare aveva preso una tinta verde chiara, l'aria sembrava più sottile e più pura, la spiaggia con le cabine e le barche più colorata, sebbene il cielo fosse ancora grigio. Aschenbach guardava fuori, con le mani congiunte in grembo, lieto di esser di nuovo lì, ma crollando il capo e malcontento della sua volubilità, della sua ignoranza dei propri desideri. Così rimase per un'ora buona, senza pensare, in riposo e in vaga fantasticheria. Verso mezzogiorno vide Tadzio nell'abito di tela rigata col fiocco rosso che ritornava dal mare lungo lo steccato della spiaggia e rientrava in albergo dalla passerella. Aschenbach di lassù lo riconobbe subito, prima ancora di averlo visto bene, e stava per pensare qualcosa come: «Oh Tadzio, anche tu sei di nuovo qui!» Ma nell'attimo stesso sentì che quel saluto indolente crollava e ammutoliva davanti alla verità del suo cuore — sentì l'esaltazione del suo sangue, la gioia, il dolore dell'anima sua e capì che proprio per Tadzio gli era stato così penoso il distacco. Rimase seduto in silenzio, lassù dove nessuno lo poteva vedere, e scrutò dentro se stesso. Il suo viso s'era animato, le sue sopracciglia si rialzarono, un sorriso attento di sottile curiosità gl'increspò la bocca. Poi alzò il capo e con le due braccia che pendevano inerti dai braccioli della poltrona descrisse un movimento ascendente e rotatorio, con le palme rivolte verso l'alto, come ad accennare un aprirsi e un allargarsi delle braccia. Era un gesto di fervido benvenuto e di serena accoglienza. IV Ormai, giorno per giorno, il dio dalle guance ardenti conduceva nudo la quadriga di fuoco attraverso gli spazi del cielo, e la sua chioma d'oro ondeggiava al vento di levante subitamente calmato. Una serica bianchezza posava sulle distese del Ponto torpido e ondoso. La sabbia bruciava. Sotto l'etere azzurro dai barbagli d'argento erano tese davanti alle cabine tende di traliccio color ruggine, e sulla netta macchia d'ombra da esse proiettata si passavan le ore del pomeriggio. Ma non meno deliziosa era la sera, quando gli alberi del parco esalavano profumi balsamici, le stelle compivano lassù la loro danza, e il mormorio del mare notturno saliva dolcemente e parlava alle anime. Quelle sere portavano in sé la lieta promessa di una nuova giornata di sole, di facili e ordinati piaceri, abbellita da infinite occasioni di gradevoli casi. L'ospite che una compiacente disdetta aveva trattenuto colà era ben lontano dal vedere nel ricupero dei suoi averi il motivo di un'altra partenza. Per due giorni aveva dovuto sopportare qualche privazione e partecipare al pranzo nella gran sala in tenuta da viaggio. Poi, quando gli fu riportato finalmente il baule smarrito, lo disfece fino in fondo e riempì della sua roba armadi e cassetti, deciso a fermarsi per un periodo indeterminato, soddisfatto di passare le ore alla spiaggia in leggeri vestiti di seta e di potersi recare a pranzo in abito da sera. Il ritmo regolare e agevole di quell'esistenza lo teneva già sotto il suo incanto, la dolcezza morbida e sontuosa di quel vivere lo inebriò rapidamente. Soggiorno ineguagliabile, infatti, che unisce le attrattive di una comoda villeggiatura su una spiaggia meridionali con la vicinanza familiare della città stupefacente e stupenda! Aschenbach non era amante dei piaceri. Quando si trattava di far vacanza, di riposare, di darsi bel tempo, provava ben presto — ed era stato così specialmente quand'era più giovane — un'inquietudine e un disgusto che lo riconducevano all'ardua fatica, alla sacra e tranquilla opera quotidiana. Solo questo luogo lo ammaliava, allentava la sua volontà, lo rendeva felice. Qualche volta al mattino, sotto la tenda del suo capanno, mentre contemplava sognando il mare azzurro, o nella notte tiepida sdraiato sui cuscini della gondola che dopo una lunga sosta in Piazza San Marco lo riportava a casa sotto il vasto cielo stellato — e le luci varie, i suoni armoniosi delle serenate si spegnevano in lontananza —, egli ripensava alla casa fra i monti, scenario delle sue battaglie estive, dove le nuvole passavano basse sul giardino e tremendi temporali notturni spegnevano le luci domestiche e i corvi da lui nutriti si dondolavano in cima agli abeti. Gli sembrava allora di essere trasportato nei campi d'Elisio, ai confini della terra dove gli uomini vivono una vita beata, dove non c'è neve né tempesta né piogge torrenziali, ma Oceano spira un'aura mite e fresca e i giorni trascorrono in ozi deliziosi, senza fatica, senza lotta, unicamente consacrati al sole e alle sue feste. Spesso, quasi di continuo Aschenbach vedeva il giovane Tadzio; lo spazio ristretto, l'orario uguale per tutti facevano sì che il bel fanciullo fosse quasi costantemente nelle sue vicinanze; tranne brevi interruzioni lo vedeva, lo incontrava dappertutto; nelle sale a pianterreno dell'albergo, nei rinfrescanti viaggi in vaporetto tra il Lido e la città, sulla splendida Piazza e sovente anche nei vicoli e nei campielli quando il caso era benigno. Ma soprattutto, e con la più felice regolarità, le mattinate sulla spiaggia gli offrivano largamente il destro di contemplare con fervore e raccoglimento la leggiadra apparizione. Anzi, proprio questa fedeltà della fortuna, questo favore delle circostanze regolarmente e quotidianamente rinnovato, lo riempiva di contentezza e di gioia di vivere e gli rendeva caro il soggiorno facendo seguire una giornata di sole all'altra in compiacente offerta. Egli si alzava presto, come nei giorni in cui lo incalzava l'assillo del lavoro, ed era sulla spiaggia prima di tutti gli altri, quando il sole era ancora mite e il mare bianco abbagliante sognava ancora i suoi sogni mattutini. Salutava affabilmente il guardiano del recinto, familiarmente il bagnino scalzo dalla barba bianca che gli aveva preparato il posto tirando la tenda bruna, mettendo fuori sulla piattaforma i mobili della cabina, e si sdraiava. Allora tre ore o quattro erano sue, in cui il sole salendo nel cielo acquistava una forza terribile, e l'azzurro del mare si faceva sempre più intenso ed egli poteva contemplare Tadzio. Lo vedeva venire da sinistra, lungo la riva, oppure sbucar fuori tra le capanne, o anche s'accorgeva improvvisamente, non senza un lieto sussulto, di aver perduto il suo arrivo e ch'egli era già lì col suo vestito bianco e turchino, l'unico indumento che portava sulla spiaggia, e già si dedicava alle sue consuete occupazioni al sole e sulla sabbia — quella vita amabilmente vuota, oziosamente irrequieta che era gioco e riposo, bighellonare, sguazzare nell'acqua, scavare la sabbia, rincorrersi, stare coricati e nuotare, sotto la sorveglianza delle signore che con voci acute lo chiamavano per nome: —Tadziu! Tadziu! — ed egli accorreva al richiamo, con gesti animati, per raccontar loro le sue avventure e mostrare il bottino: conchiglie, ippocampi, meduse e granchi che camminavano di traverso. Aschenbach non capiva una parola di quel che diceva, forse erano le cose più comuni del mondo, ma al suo orecchio suonavano come una vaga melodia. Così l'incomprensibilità trasformava in musica la lingua del fanciullo, un sole sfolgorante versava su di lui una profusione di luce, e lo sfondo sublime del mare dava risalto alla sua figura. Ormai Aschenbach conosceva ogni linea e ogni atteggiamento di quel corpo così squisito e così liberamente rivelato; salutava con gioia sempre nuova ogni bellezza già nota, e non si saziava di ammirare con delicato piacere dei sensi. Il ragazzo era chiamato a salutare un conoscente che faceva visita alle signore davanti alla loro cabina; egli giungeva di corsa, talvolta era appena uscito grondante dal mare, buttava indietro i riccioli e porgendo la mano riposava su una gamba, mentre l'altro piede sfiorava appena il terreno, con una incantevole torsione del corpo, un gesto di grazia e di attesa, di amabile perplessità, di doverosa aristocratica civetteria. Altre volte se ne stava coricato per terra, l'accappatoio avvolto intorno al petto, il gracile braccio scultoreo puntato sulla rena, il mento nel cavo della mano; accoccolato accanto a lui il ragazzo che chiamavano «Yaschu» gli faceva mille finezze, e nulla era più affascinante che il sorriso delle labbra e degli occhi con cui il beniamino ricompensava il suo umile cortigiano. Oppure se ne stava ritto in riva al mare, solo, lontano dai suoi e vicinissimo ad Aschenbach — con le mani intrecciate dietro la nuca, dondolandosi lento sulla punta dei piedi, e fantasticava assorto, mentre le piccole onde venivano a lambirgli gli alluci. I suoi capelli color del miele si arricciolavano sulle tempie e sulla nuca, il sole faceva brillare la peluria fra le scapole, il disegno delicato delle costole, la simmetria del petto si distinguevano attraverso lo scarno rivestimento del torso, le ascelle erano ancora lisce come in una statua, il cavo delle ginocchia splendeva e le venature azzurrine facevano sembrare il suo corpo ancora più luminoso. Quale disciplina, quale precisione del pensiero si esprimeva in quel corpo agile e giovanilmente perfetto! Ma la volontà pura e severa che agendo oscuramente aveva potuto dare alla luce quella divina opera d'arte non era forse nota e familiare a lui, all'artista? Non agiva anche in lui, quando egli pieno di serena passione sprigionava dal blocco marmoreo del linguaggio la forma snella che aveva concepito con la mente e che presentava agli uomini come specchio ed effigie della bellezza spirituale? Specchio ed effigie! I suoi occhi abbracciarono la nobile figura che campeggiava nell'azzurro, e con estatica esaltazione egli credette di comprendere con quello sguardo l'essenza stessa della bellezza, la forma come pensiero divino, l'unica e pura perfezione che vive nello spirito e di cui era qui offerta all'adorazione un'immagine umana, un simbolo chiaro e leggiadro. Questa era l'ebbrezza! E l'artista invecchiarne l'accolse senza esitare, anzi con avidità. La sua cultura era in travaglio, il suo spirito ribolliva, la sua memoria mise alla luce pensieri vecchissimi che gli erano stati trasmessi in gioventù e che egli finora non aveva mai ravvivato con la propria fiamma. Non sta scritto che il sole storna la nostra attenzione dalle cose intellettuali e la rivolge verso le cose materiali? Esso stordisce l'intelligenza e la memoria, e le ammalia in tal modo che l'anima nel piacere dimentica il proprio stato e s'attacca al più bello degli oggetti illuminati dal sole; sicché soltanto con l'aiuto di un corpo essa trova poi la forza di innalzarsi a più alta contemplazione. Amore in verità fa come i matematici che mostrano ai fanciulli di poco talento le immagini tangibili delle pure forme. Così anche il dio, per renderci visibile l'astratto, ricorre volentieri alla forma e al colore della giovinezza umana che egli, per farne uno strumento del ricordo, riveste di tutto lo splendore della bellezza, cosi che a tal vista noi ardiamo di dolore e di speranza. Così egli pensava nel suo entusiasmo; così gli era dato di sentire. E l'ebbrezza del mare e il fulgore del sole gli intesserono un'immagine maliosa. Era il vecchio platano poco lungi dalle mura di Atene, il sacro recesso ombroso profumato dagli agnocasti in fiore, adorno di tavolette votive e di pie offerte in onore delle ninfe e di Acheloo. Limpidissimo il ruscello scorreva ai piedi dell'albero dai grandi rami, su un letto di ciottoli levigati; i grilli stridevano. Ma sul prato in dolce declivio, che permetteva di giacere con il capo sollevato, erano distesi due uomini, riparati quivi dall'ardore del giorno; l'uno quasi vecchio e l'altro giovane, l'uno brutto e l'altro bello, il saggio presso l'amabile. E fra gentilezze e lusinghevoli arguzie Socrate istruiva il discepolo Fedro sul desiderio e sulla virtù. Gli parlava della fervida angoscia che coglie l'uomo sensibile quando i suoi occhi scorgono un simbolo della bellezza eterna; gli parlava degli appetiti dell'empio e del malvagio, che non può immaginare la bellezza quando ne vede il simulacro, e che non è capace di rispetto; gli parlava del sacro sgomento che afferra l'uomo di nobili sensi quando un volto divino, un corpo perfetto gli appare... come egli trema ed è fuori di sé, e osa appena guardare e venera colui che possiede la bellezza, e gli recherebbe sacrifici come alla statua di un dio se non dovesse temere di esser preso per pazzo. Giacché la bellezza, mio Fedro, solo essa è amabile e visibile al tempo stesso; essa è, notalo bene, la sola forma dell'immateriale che noi possiamo percepire coi sensi e che i nostri sensi possono sopportare. O altrimenti che sarebbe di noi se il divino, se la ragione la virtù la verità ci apparissero sensibilmente? Non saremmo noi distrutti e inceneriti dall'amore, come Semele al cospetto di Giove? Così la bellezza è, per colui che sente, la via che conduce allo spirito — solo la via, solo il mezzo, piccolo Fedro... E poi disse la cosa più sottile, l'astuto seduttore; disse che l'amante è più divino dell'amato perché Dio è nel primo ma non nell'altro... forse il pensiero più tenero e più beffardo che sia mai stato pensato e dal quale scaturisce tutta la malizia e la più segreta voluttà del desiderio. Felicità dello scrittore è il pensiero che può tutt'intero divenir sentimento, il sentimento che può tutto trasformarsi in pensiero. Tali erano il pensiero palpitante, il sentimento rigoroso che appartenevano e obbedivano in quel momento al solitario: cioè, che la natura rabbrividisce di voluttà quando lo spirito s'inchina davanti alla bellezza. Improvvisamente sentì il desiderio di scrivere. Si dice, è vero, che Eros ami l'infingardaggine e solo per questa sia creato. Ma a quel punto della crisi l'orgasmo della vittima era volto verso la produzione. Il motivo gli era quasi indifferente. Un'interrogazione, un invito a pronunciarsi su un certo problema vasto e scottante della cultura e del gusto era stato rivolto al mondo intellettuale ed egli l'aveva ricevuto dopo la sua partenza. L'argomento gli era familiare, era per lui esperienza vissuta; la voglia di illuminarlo con la luce della propria parola proruppe in lui irresistibile. E il suo impulso lo spingeva a lavorare in presenza di Tadzio, a prendere come modello la figura dell'adolescente, ad accordare il suo stile con quel corpo che gli sembrava divino e trasportare la sua bellezza nell'ordine spirituale come l'aquila innalzò un giorno nell'etere il pastore troiano. Mai egli aveva sentito più soavemente la voluttà della parola, mai aveva così ben compreso che Eros è nella parola, come sentiva e capiva adesso durante le ore pericolose e squisite in cui, seduto al suo tavolino rozzo sotto la tenda, contemplando l'idolo e ascoltando la musica della sua voce, componeva a immagine della bellezza di Tadzio la sua breve dissertazione — quella pagina e mezzo di prosa altissima la cui purezza, nobiltà e vibrante energia doveva suscitare di lì a poco l'ammirazione universale. È certamente un bene che il mondo conosca soltanto la bella opera e non le sue origini, non le condizioni e le circostanze del suo sviluppo; giacché la conoscenza delle fonti onde scaturisce l'ispirazione dell'artista potrebbe turbare, spaventare, e così annullare gli effetti della perfezione. Ore singolari! Strana fatica snervante! Strano e fecondo accoppiamento dello spirito con un corpo! Quando Aschenbach ripose il suo lavoro e andò via dalla spiaggia si sentì esausto, anzi distrutto, e gli pareva che la coscienza lo rimproverasse come dopo un'orgia. Fu il mattino seguente che egli, mentre stava uscendo dall'albergo, vide dalla scalinata Tadzio, già incamminato verso il mare, avvicinarsi tutto solo alla barriera della spiaggia. Il desiderio, la semplice idea di approfittare dell'occasione e di stringere una facile, gaia conoscenza con quello che inconsapevolmente tanto lo esaltava e lo commuoveva, di parlargli, gioire della sua risposta e del suo sguardo, si presentava naturalmente e s'imponeva. Il bel fanciullo camminava senza fretta, era facile raggiungerlo e Aschenbach affrettò il passo. Gli arriva accanto sulla passerella dietro le cabine, vuol posargli la mano sul capo, sulla spalla, e una parola, una frase amichevole in francese gli viene alle labbra: ma in quell'attimo sente che il suo cuore batte come un martello, forse anche per l'andatura accelerata, e che col fiato così corto egli potrà parlare solo ansando e tremando: esita, cerca di dominarsi, all'improvviso teme di seguire già da troppo tempo l'adolescente, teme di destare la sua attenzione, il suo sguardo interrogativo, prende un ultimo avvio, fallisce, rinunzia e passa col capo chino. «Troppo tardi!» pensò in quel momento. Troppo tardi! Era poi davvero troppo tardi? Quel passo mancato avrebbe forse avuto conseguenze benefiche, lo avrebbe rasserenato, alleggerito, avrebbe disperso salutarmente l'ebbrezza. Ma di questo appunto si trattava: l'uomo già anziano non voleva saperne di tornare in sé, l'ebbrezza gli era troppo cara. Chi può decifrare la natura e il carattere dell'artista? Chi può capire l'amalgama istintivo di disciplina e di licenza che è fondamento della sua vocazione? Giacché essere incapaci di volere il salutare ritorno alla ragione è dissolutezza. Aschenbach non era più disposto a criticare se stesso; il gusto, l'ordinamento mentale proprio della sua età, stima di sé, maturità e semplicità acquisita, non lo rendevano incline ad anatomizzare i motivi e a determinare se per scrupolo, per dissolutezza o per viltà non aveva attuato il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, non fosse che il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato il suo inseguimento e la sua sconfitta; aveva molta paura del ridicolo. Del resto rideva tra sé del suo tragicomico terrore. «Sbigottito, — egli pensò, — sbigottito come un gallo che colto dallo spavento abbassa le ali nel bel mezzo della lotta. E davvero il dio stesso che spezza il nostro coraggio alla vista dell'oggetto amabile e così umilia fino a terra la nostra superbia...» Così scherzava coi suoi pensieri, fantasticava ed era troppo orgoglioso per aver paura di un sentimento. Già non pensava più al termine prestabilito del riposo che si era concesso; l'idea della partenza non lo sfiorava neppure. Si era provvisto di molto denaro. Sua unica preoccupazione era la possibile partenza della famiglia polacca; ma informandosi incidentalmente presso il parrucchiere dell'albergo aveva appreso di sottomano che quei signori erano arrivati poco prima di lui. Il sole gli abbronzava il viso e le mani, l'eccitante soffio salino rinvigoriva i suoi sensi, e come per l'addietro egli soleva spendere tosto in un'opera tutte le forze che il sonno, il nutrimento o la natura gli avevano donato, così adesso con improvvida generosità consumava in sentimento ed ebbrezza il quotidiano ristoro di gagliardia che gli apportavano il sole, l'ozio e l'aria di mare. Il suo sonno era di poca durata; notti brevi, piene di felice agitazione, interrompevano i giorni deliziosamente monotoni. Egli si ritirava prestissimo, perché alle nove, quando Tadzio era scomparso dalla scena, la giornata gli pareva finita. Ma ai primi bagliori dell'alba lo svegliava uno sgomento dolce e penetrante, il cuore si ricordava della sua avventura; egli non resisteva più tra le coltri, si alzava, e, leggermente coperto contro la frescura mattutina, andava a sedersi presso la finestra aperta e aspettava il levar del sole. L'avvenimento meraviglioso empiva di religiosità la sua anima santificata dal sonno. Ancora il cielo, la terra e il mare erano immersi in uno spettrale vitreo biancore crepuscolare; ancora una stella morente navigava nell'irreale. Ma ecco giungeva un soffio, un alato messaggio da sedi inaccessibili annunziava che Eos, l'Aurora, sorgeva dal letto maritale; e appariva quel primo tenue rossore delle zone più lontane del mare e del cielo, col quale il creato si rivela ai sensi. S'avvicinava la dea, la rapitrice di adolescenti che involò Clito e Cefalo e che sfidando l'invidia di tutto l'Olimpo godette l'amore del bel cacciatore Orione. Ai confini del mondo incominciava la pioggia di rose, un chiarore e una fiorita di grazia ineffabile, nuvole nascenti, immateriali, luminose si libravano come amorini obbedienti fra rosei e cilestrini vapori; un velo di porpora si stendeva sul mare che sembrava portarlo ondeggiando verso la riva, dardi dorati guizzavano dal basso verso l'alto del cielo, lo splendore diveniva incendio; silenziosamente, con divina strapotenza, il fuoco, le fiamme, il rogo divampante invadevano il cielo, e i sacri corsieri di Febo, il dio fratello, con zoccoli travolgenti s'innalzavano sull'orizzonte. Illuminato dal fulgore divino il vegliante solitario chiudeva gli occhi e offriva le sue palpebre al bacio dell'astro glorioso. Sentimenti del passato, antichi deliziosi tormenti che erano morti durante la sua vita di rigida disciplina ritornavano adesso cosi stranamente mutati — egli li riconosceva con un sorriso di perplessità, di meraviglia. Pensoso, trasognato; formava lentamente un nome con le labbra e sorridendo sempre col viso levato verso il cielo, le mani giunte in grembo, si assopiva ancora una volta. Ma il giorno incominciato con tanta gloria di fuoco restava stranamente sublimato e trasformato miticamente. Da quali regioni, da quali origini, veniva quel soffio che a un tratto cosi dolce e persuasivo, quasi un suggerimento dall'alto, gli accarezzava le tempie e l'orecchio? Bianche nuvolette fioccose erano sparse nel cielo come greggi pascenti degli dèi. S'alzava un vento più forte e i cavalli di Posidone accorrevano, s'impennavano, e anche i tori del dio glaucoricciuto si avventavano mugghiando, a testa bassa. Ma sugli scogli lontani della spiaggia le onde saltellavano come capre vivaci. Un mondo santamente stravolto, pieno di fervore panico, circondava l'uomo affascinato, e il suo cuore sognava dolci favole. Spesso, quando il sole tramontava dietro Venezia, egli stava seduto su una panchina del parco a guardare Tadzio che, vestito di bianco con una cintura di colore, giocava a palla sul piazzale inghiaiato, e credeva di vedere Giacinto che deve morire perché è amato da due numi. Sentiva persino l'invidia dolorosa di Zefiro per il rivale che dimenticava l'oracolo, l'arco e la cetra per trastullarsi sempre con il bel giovinetto; vedeva il disco guidato da crudele gelosia colpire il capo leggiadro, impallidendo anch'egli riceveva tra le braccia il corpo spezzato, e il fiore nato dal dolce sangue recava le parole del suo dolore senza fine... Nulla è più singolare, più imbarazzante che il rapporto fra persone che si conoscono solamente di vista... s'incontrano tutti i giorni a tutte le ore, si osservano, e tuttavia sono costrette dall'educazione o dal puntiglio a fìngere l'indifferenza e a passarsi accanto come estranei senza una parola e senza un saluto. V'è fra loro una relazione d'inquietudine e di esasperata curiosità, l'isterismo prodotto dal bisogno insoddisfatto e innaturalmente represso di conoscersi e di comunicare l'uno con l'altro, e soprattutto una specie di ansioso rispetto. Giacché l'uomo ama e onora l'uomo finché non lo può giudicare, e il desiderio è il frutto d'una conoscenza imperfetta. Ma qualche relazione e conoscenza doveva pur stabilirsi fra Aschenbach e il giovane Tadzio, e con gioia penetrante il più vecchio dovette accorgersi che la sua simpatia e la sua attenzione non restavano del tutto senza contraccambio. Perché, ad esempio, il bel fanciullo venendo alla spiaggia non passava più sul tavolato dietro le capanne, ma sempre sulla sabbia davanti ad Aschenbach e qualche volta, senza bisogno, così vicino da sfiorare quasi il suo tavolino, la sua sedia, prima di andarsene lemme lemme alla cabina dei suoi? Era l'attrazione, il fascino d'un sentimento superiore che operava così sull'oggetto più debole e ignaro? Aschenbach aspettava ogni giorno la comparsa di Tadzio, e qualche volta faceva finta di essere occupato e lo lasciava passare senza apparentemente notarlo. Altre volte invece alzava gli occhi e i loro sguardi s'incontravano. Quando ciò accadeva restavano tutti e due molto seri. Nel viso saggio e dignitoso del più vecchio nulla tradiva un'intima commozione; ma negli occhi di Tadzio c'era un'espressione indagatrice, una pensosa domanda, i suoi passi si facevano esitanti, egli abbassava lo sguardo e lo rialzava con grazia, e quando era passato qualcosa nel suo atteggiamento sembrava dicesse che solo la buona creanza gli impediva di voltarsi. Una volta però, era di sera, le cose andarono diversamente. I giovani polacchi e la governante non erano venuti a pranzo, con grave preoccupazione di Aschenbach. Dopo tavola, molto inquieto per la loro assenza, egli passeggiava in abito da sera e cappello di paglia davanti all'albergo, ai piedi della terrazza, quando vide all'improvviso comparire sotto il lume delle lampade ad arco le tre monacali sorelle con l'istitutrice e qualche passo più indietro il giovane Tadzio. Evidentemente venivano dalla banchina del vaporetto dopo aver pranzato per qualche ragione in città. Doveva far fresco sull'acqua; Tadzio portava una giacca da marinaio color turchino scuro con bottoni d'oro, e in capo un berretto pure da marinaio. Il sole e l'aria di mare non lo abbronzavano, la sua pelle era rimasta pallida e marmorea come i primi giorni; oggi però sembrava più smorto del solito sia per il fresco sia per la livida luce lunare dei fanali. Le sopracciglia ben disegnate spiccavano più nettamente, gli occhi erano più scuri e profondi. La sua bellezza era inesprimibile e, come altre volte, Aschenbach sentì con dolore che la parola può, sì, celebrare la bellezza, ma non è capace di esprimerla. Non si aspettava la cara apparizione, essa giungeva improvvisa, senza ch'egli avesse avuto tempo di atteggiare il suo viso a serena dignità. Gioia, sorpresa, ammirazione vi si dipinsero senza dubbio chiaramente quando il suo sguardo incontrò colui del quale aveva sentito l'assenza; ed ecco, in quell'istante Tadzio gli sorrise, d'un sorriso eloquente, confidenziale, carezzevole e schietto, schiudendo le labbra a poco a poco. Era il sorriso di Narciso che si piega sullo specchio della fonte, quel sorriso profondo, incantevole, prolungato col quale egli tende le braccia al riflesso della propria bellezza — un sorriso un poco contratto dalla vanità dell'aspirazione a baciare le labbra soavi della propria ombra, pieno di civetteria, di curiosità, di lieve sofferenza, affascinato e affascinante. L'uomo al quale era destinato quel sorriso se lo portò via come un dono fatale. Era così commosso che dovette fuggire la luce della terrazza e del giardino, e a passi rapidi cercò rifugio nell'ombra del parco. E stranamente eruppe in rimostranze tenere e indignate: «Non devi sorridere così! Hai capito? Non bisogna sorridere così a nessuno!» Si gettò su una panca, fuori di sé, respirando il profumo notturno degli alberi. E riverso sulla spalliera, con le braccia penzoloni, abbattuto e scosso da brividi intermittenti, mormorò la formula eterna del desiderio... assurda in quel caso, inammissibile, infame, ridicola e tuttavia santa anche questa volta e degna di rispetto: —Ti amo! V Nella quarta settimana del suo soggiorno al Lido, Gustav von Aschenbach fece alcune spiacevoli osservazioni riguardo al mondo che lo circondava. Anzitutto gli pareva che, mentre si andava verso il colmo della stagione, la clientela dell'albergo diminuisse invece di aumentare, e specialmente la lingua tedesca tacesse sempre più intorno a lui, sicché a tavola e sulla spiaggia ormai solo accenti stranieri gli giungevano all'orecchio. Poi un giorno dal parrucchiere, di cui ora era diventato assiduo cliente, colse a volo una parola che gli diede da pensare. L'uomo aveva accennato a una famiglia tedesca che era ripartita dopo essersi trattenuta pochissimo, e soggiunse in tono di scherzosa adulazione: — Lei rimane, signore; non ha paura del male —. Aschenbach lo guardò: — Del male? — chiese. Il chiacchierone ammutolì, si finse tanto immerso nel suo lavoro da non aver udito la domanda. E, quando essa fu ripetuta insistentemente, dichiarò di non saper nulla e cercò di sviare il discorso con loquace imbarazzo. Questo accadde a mezzogiorno. Dopo pranzo Aschenbach si recò a Venezia con calma di vento e sole scottante; era spinto dalla smania di seguire la famiglia polacca che aveva veduto avviarsi con la governante al pontile del vaporetto. Non trovò il suo idolo a San Marco. Ma mentre prendeva il tè, seduto al tavolino rotondo di ferro dalla parte ombreggiata della piazza, fiutò improvvisamente nell'aria un odore speciale, che adesso gli sembrava di aver già sentito da parecchi giorni senza rendersene conto — un odore dolciastro, medicinale, che evocava miseria, ferite e dubbia pulizia. Lo analizzò e lo riconobbe; terminò impensierito di prendere il tè e lasciò la piazza dalla parte opposta alla basilica. Nelle viuzze strette l'odore s'accentuava. Alle cantonate erano affissi avvisi stampati che mettevano paternamente in guardia la popolazione, per via di certe malattie gastrointestinali che erano da prevedersi con un tempo simile, a non cibarsi di ostriche e di telline, e a guardarsi anche dall'acqua dei canali. Era chiaro che il tono rassicurante del manifesto nascondeva di peggio. Gruppi silenziosi sostavano sui ponti e nei campielli, e il forestiero si mescolò a loro annusando preoccupato. Egli chiese a un negoziante, che stava sulla porta della sua bottega tra collane di corallo e finimenti di ametista falsa, le ragioni di quell'odore sospetto. L'uomo lo squadrò con occhio grave, poi in fretta si rianimò. — Semplici precauzioni, signore! — rispose gesticolando. — Provvedimenti di polizia che non si può fare a meno di approvare. Quest'afa opprimente, questo scirocco non sono propizi alla salute. Insomma, lei capisce... una cautela forse esagerata... Aschenbach lo ringraziò e proseguì per la sua strada. Anche sul vaporetto che lo riportava al Lido sentiva adesso quell'odore di disinfettante. Rientrato in albergo andò subito al tavolo dei giornali nell'atrio e li sfogliò in cerca di notizie. Non trovò niente in quelli di varie lingue straniere. Solo i giornali tedeschi registravano voci, riportavano cifre incerte, riproducevano smentite ufficiali e ne mettevano in dubbio la veridicità. Così si spiegava l'esodo dei tedeschi e degli austriaci. I villeggianti d'altre nazioni evidentemente non sapevano, non sospettavano nulla, non erano ancora inquieti. «Bisogna nascondere la realtà! — pensò Aschenbach agitato, gettando i giornali sul tavolo. — La consegna è di tacere!» Ma nello stesso tempo il suo cuore si rallegrava dell'avventura in cui il mondo stava per incappare. Perché alla passione, come al delitto, non s'addice l'ordine stabilito e il benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni turbamento e flagello del mondo le torna gradito perché può sperare vagamente di trarne vantaggio. Così Aschenbach provava un'oscura contentezza per quello che accadeva sotto il complice mantello dell'autorità nei vicoli sporchi di Venezia — tristo segreto della città che si confondeva con il segreto del suo cuore, e di cui anch'egli paventava la scoperta. Giacché nulla temeva l'innamorato quanto la possibile partenza di Tadzio, e non senza sgomento dovette riconoscere che non avrebbe più saputo vivere se quella partenza fosse avvenuta. Ormai non si accontentava più di ricevere in dono dalla vita quotidiana e dalla fortuna la vicinanza e la vista del bel giovinetto; lo seguiva, gli faceva la posta. La domenica, per esempio, i polacchi non comparivano mai sulla spiaggia; Aschenbach aveva indovinato che andavano alla messa in San Marco, vi si recava tosto e lasciando la piazza infocata per entrare nella penombra dorata del tempio vedeva colui che cercava chino sull'inginocchiatoio a seguir la funzione. Allora si fermava in fondo, sul rotto pavimento di mosaico, in mezzo alla folla prosternata e mormorante, e lo splendore del tempio orientale opprimeva voluttuosamente i suoi sensi. Laggiù, coperto di paramenti sontuosi, il celebrante salmodiava e compiva i gesti rituali; l'incenso saliva dai turiboli velando le deboli fiammelle dei ceri sull'altare, mentre alla greve dolcezza dei sacri aromi sembrava mescolarsi sottilmente un altro odore: quello della città ammalata. Ma attraverso i vapori e il luccichio Aschenbach vedeva che Tadzio là davanti voltava la testa, lo cercava e lo scorgeva. Quando poi la folla sgorgava fuori dei portali aperti sulla piazza luminosa brulicante di colombi, l'inebriato amante si nascondeva sotto il portico, in agguato. Vedeva i polacchi uscire dalla chiesa, vedeva i ragazzi congedarsi cerimoniosamente dalla madre, e questa dirigersi verso la piazzetta per rincasare; s'assicurava che il bell'adolescente, le monacali sorelle e la governante prendevano a destra, per la porta dell'Orologio, ed entravano nelle Mercerie; e dopo aver lasciato loro qualche attimo di vantaggio, li seguiva furtivamente nella loro passeggiata attraverso Venezia. Doveva fermarsi quando essi sostavano, rifugiarsi nelle friggitorie e nei cortili per lasciarli passare quando ritornavano indietro; li perdeva, li cercava accaldato ed esausto per ponti e per vicoli immondi e pativa minuti di angoscia mortale se improvvisamente in un passaggio angusto dove non c'era via di scampo se li vedeva venire incontro; tuttavia non si può dire ch'egli soffrisse. Aveva il cuore e la testa pieni d'ebbrezza e i suoi passi obbedivano al demone che gode di calpestare la ragione e la dignità dell'uomo. A un certo punto Tadzio e i suoi prendevano una gondola e Aschenbach, che mentre s'imbarcavano si era nascosto dietro uno spigolo o un pozzo, non appena s'erano staccati dalla riva faceva lo stesso. Con voce ansante e smorzata ordinava al rematore, promettendogli una grossa mancia, di seguire senza dar nell'occhio e a una certa distanza la gondola che stava svoltando l'angolo; e sudava freddo quando l'uomo col servilismo bricconesco del mezzano gli assicurava nello stesso tono che l'avrebbe servito coscienziosamente. Cosi scivolava ondeggiando sull'acqua, riverso sui cuscini morbidi e neri dietro l'altra gondola rostrata nella cui scia lo trascinava la passione. Qualche volta la barca spariva; allora egli sentiva inquietudine e angoscia. Ma il suo gondoliere, esperto di simili incarichi, sapeva sempre con astute manovre e rapide scorciatoie riportarlo in vista dell'oggetto dei suoi desideri. L'aria era calma e greve di odori, il sole dardeggiava attraverso la foschia che colorava il cielo di un grigio plumbeo. L'acqua batteva gorgogliando contro il legno e la pietra. Al grido del gondoliere, avviso e saluto insieme, per strano accordo giungeva risposta dai lontani meandri del labirinto. Piccoli giardini pensili riversavano sui muri scrostati grappoli di fiori bianchi e purpurei dal profumo di mandorla. Cornicioni di finestre moresche si specchiavano nei canali torbidi. La scalinata marmorea di una chiesa scendeva nell'acqua; un mendicante accovacciato sui gradini tendeva il cappello gridando la sua miseria e mostrando il bianco degli occhi come se fosse cieco; con gesti servili un antiquario dalla sua spelonca invitava il passante ad arrestarsi, nella speranza d'imbrogliarlo. Quest'era Venezia; beltà lusingatrice e ambigua — racconto di fate e insieme trappola per i forestieri, città nella cui atmosfera corrotta l'arte ebbe in passato un esuberante rigoglio, e i musici composero suadenti melodie che addormentano voluttuosamente. Sembrava all'avventuroso viandante che i suoi occhi bevessero quella sontuosità, che i suoi orecchi fossero accarezzati da quella musica; si ricordava anche che la città era ammalata e lo teneva nascosto per sete di guadagno, e con maggior frenesia spiava la gondola che gli ondeggiava davanti. Così lo sconvolto innamorato non aveva più altro pensiero che inseguire senza requie l'oggetto della sua passione, sognare di lui quando era assente, e, come sogliono gli amanti, rivolgere parole di tenerezza persino alla sua ombra. La solitudine, il paese straniero e la felicità di un'ebbrezza tardiva e profonda lo incoraggiavano e lo persuadevano a permettersi senza paura e senza vergogna le cose più sorprendenti, com'era avvenuto una sera che, tornando tardi da Venezia, egli si era fermato al primo piano dell'albergo davanti alla stanza di Tadzio e in preda a totale follia aveva appoggiato la fronte allo stipite della porta e per molto tempo non era più stato capace di staccarsi di lì, a rischio di essere obbrobriosamente sorpreso in un atto così insensato. Eppure non mancavano i momenti di tregua e di parziale ritorno in sé. «Su quale strada mi sono messo! — egli pensava costernato. — Su quale strada!» Come ogni uomo al quale i meriti naturali ispirano un interesse aristocratico per la sua prosapia, egli sempre nelle fatiche e nei successi della sua carriera rivolgeva il pensiero ai suoi antenati, per assicurarsi in ispirito della loro approvazione, della loro soddisfazione, della loro stima necessaria. Anche adesso, irretito in un'avventura così inammissibile, travolto in così esotiche sregolatezze del cuore, si rappresentava la dignitosa severità, la virile purezza del loro costume, e sorrideva malinconicamente. Che cosa avrebbero detto? Del resto, che cosa avrebbero detto della sua vita tutt'intera, differente dalla loro fino alla degenerazione, di questa vita dominata dall'arte, di cui lui stesso in altri tempi, fedele alla tradizione borghese dei padri, aveva dato giovanili giudizi così sarcastici, e che tuttavia in fondo era tanto simile alla loro! Anche lui aveva servito, anche lui era stato soldato e guerriero, come alcuni di essi — giacché l'arte è una guerra, una lotta logorante alla quale oggidì non si può reggere a lungo. Una vita di vittorie su se stesso, di sfide caparbie, una vita aspra, risoluta e parca, da lui innalzata a simbolo di un eroismo delicato, consono ai nostri tempi — egli poteva ben chiamarla virile, poteva chiamarla eroica, e gli sembrava anzi che l'Eros che si era impadronito di lui, a una simile vita fosse in qualche modo particolarmente adatto e inclinato. Non era stato egli in altissimo onore soprattutto presso i popoli più valorosi, non si era detto che proprio il valore l'aveva fatto fiorire nelle loro città? Numerosi guerrieri dell'antichità avevano portato volentieri il suo giogo, perché non erano considerate umiliazioni quelle inflitte dal dio; e atti, che sarebbero stati biasimati come segni di viltà, se fossero stati compiuti per altri scopi: genuflessioni, giuramenti, suppliche e contegno servile, non gettavano onta sull'amante, ma anzi gli procuravano lode. Ecco come ragionava l'invasato, come cercava di sostenersi, di salvare la propria dignità. Ma nel tempo stesso prestava un'attenzione tenace e indagatrice agli avvenimenti poco puliti che si svolgevano in città, a quell'avventura del mondo esterno che confluiva oscuramente con quella del suo cuore e alimentava la sua passione di vaghe speranze senza legge. Nell'accanita ricerca di notizie sicure sullo stato e il progresso della malattia, egli sfogliava febbrilmente nei caffè di Venezia i giornali tedeschi, che da parecchi giorni erano spariti dai tavolini dell'albergo. Vi si alternavano affermazioni e smentite. Il numero degli ammalati e dei morti ascendeva a venti, a quaranta, a cento e più, e, poche righe più sotto, l'apparizione del morbo era, se non negata, ridotta a pochi casi isolati portati di fuori. Riserve, avvertimenti, proteste contro il gioco pericoloso delle autorità italiane erano frammezzati al resto. Impossibile acquistare una certezza. Tuttavia il solitario era persuaso d'un suo diritto speciale di partecipare al segreto; e poiché tuttavia ne era escluso, provava una strana soddisfazione nel tempestare gli iniziati di domande insidiose, per costringerli, loro che avevan fatto lega per serbare il silenzio, a mentire espressamente. Una mattina a colazione nella grande sala da pranzo mise così alle strette il direttore, quell'ometto dal passo leggero che salutando e sorvegliando s'aggirava fra i tavolini e s'era fermato anche davanti ad Aschenbach a dirgli due parole di convenevoli. Perché mai, gli chiese l'ospite con noncuranza, si erano messi da qualche tempo a disinfettare Venezia? — Si tratta, — rispose il sornione, — di doverosi provvedimenti di polizia destinati a prevenire tempestivamente disordini o perturbazioni della salute pubblica che la stagione afosa ed eccezionalmente calda potrebbe provocare. — La polizia è davvero encomiabile, — disse Aschenbach; e, dopo uno scambio di osservazioni meteorologiche, il direttore si congedò. La sera di quello stesso giorno, dopo cena, una piccola compagnia di musicisti ambulanti venne a cantare nel giardino davanti all'albergo. Erano due uomini e due donne che se ne stavano ritti presso l'asta di ferro d'una lampada ad arco, e alzavano le facce sbiancate dalla luce verso la grande terrazza dove i bagnanti sorbendo caffè e bevande ghiacciate si godevano il concerto popolare. La servitù dell'albergo, liftboys, camerieri e impiegati, era venuta ad ascoltare sulle porte dell'atrio. La famiglia russa, sempre diligente e pronta al piacere, aveva fatto portare in giardino le poltrone di vimini per esser più vicina agli esecutori, e sedeva là in semicerchio con evidente soddisfazione. Dietro i padroni, con un fazzoletto in testa a guisa di turbante, stava la vecchia schiava. Mandolino, chitarra, fisarmonica e un violino stridulo formavano l'orchestra di quei virtuosi in cenci. Numeri di canto si alternavano a pezzi strumentali; così la donna più giovane unì la sua voce acuta e stridente al falsetto dolciastro del tenore per cantare un appassionato duetto amoroso. Ma il vero talento e capo della compagnia era senza dubbio l'altro uomo, il suonatore di chitarra, che cantava quasi senza voce ma con mimica geniale e notevole comicità le parti di baritono-buffo. Spesso si staccava dal gruppo degli altri, col suo grande strumento in braccio, e avanzava gesticolando verso la scalinata, dove le sue buffonate erano accolte con risa incoraggianti. Specialmente i russi, che costituivano la platea, si mostravano entusiasti di tanto brio meridionale, e lo eccitavano a prodursi in modo sempre più sfrenato e ardito. Aschenbach era seduto presso la balaustrata e ogni tanto si rinfrescava le labbra con il miscuglio di granatina e acqua di Seltz che, rosso come rubino, scintillava davanti a lui nel bicchiere. I suoi nervi accoglievano con avidità quegli strimpellamenti languidi e volgari, poiché la passione soffoca il discernimento e s'abbandona in buona fede a piaceri che la sana ragione giudicherebbe ridicoli o rifiuterebbe con fastidio. Ai lazzi dell'istrione i suoi lineamenti s'erano contratti in un sorriso fìsso e già doloroso. Sedeva lì con aria indolente mentre un'attenzione estrema lo faceva spasimare: perché a sei passi da lui Tadzio era appoggiato alla balaustrata di pietra. Stava lì, nell'abito bianco che metteva talvolta per il pranzo, con quella sua grazia innata e inevitabile, il braccio sinistro sul parapetto, i piedi incrociati, la mano destra sorretta dall'anca, e guardava giù verso i saltimbanchi con un'espressione che non era neanche un sorriso, tutt'al più una lontana curiosità, una cortese accettazione. Di tanto in tanto si raddrizzava e allargando il petto tirava giù la blusa bianca sotto la cintura di cuoio, con un bel gesto d'ambo le braccia. Ma qualche volta anche, e Aschenbach lo notava con gioia trionfante, con una vertigine della sua ragione e anche con terrore, Tadzio si voltava incerto e guardingo, oppure rapido e improvviso come per una sorpresa, e gettava uno sguardo al di sopra della spalla sinistra verso il suo amatore. Non incontrava i suoi occhi, perché una vergognosa apprensione costringeva l'infatuato a frenare paurosamente i propri sguardi. In fondo alla terrazza eran sedute le donne che sorvegliavano Tadzio, e ormai le cose eran giunte a tal punto che l'innamorato doveva temere di essersi fatto notare e di aver destato sospetti. Anzi con una specie di agghiacciamento gli era toccato di osservare più volte, sulla spiaggia, nell'atrio dell'albergo e in piazza San Marco, che le donne chiamavano Tadzio quand'era nelle sue vicinanze, che badavano a tenerlo lontano da lui — e ne aveva risentito un'offesa crudele, che infliggeva al suo orgoglio tormenti mai provati, ai quali la sua coscienza gli impediva di sottrarsi. Intanto il chitarrista aveva incominciato un assolo, una canzonetta di parecchie strofe allora molto in voga in Italia, il cui ritornello era ripreso ogni volta col canto e con tutti gli strumenti dall'intera compagnia, e da lui era interpretata con plastica drammaticità. Di corpo mingherlino, e anche in faccia emaciato e scarno, col cappello sordido sulla nuca, che lasciava fuoruscire di sotto la tesa una cresta di capelli rossi, egli stava separato dai suoi in una posa d'impertinente spavalderia, e scagliava i suoi frizzi verso la terrazza in un recitativo efficace, pizzicando le corde, mentre nello sforzo produttivo gli si gonfiavano le vene sulla fronte. Non sembrava di sangue veneto, piuttosto della razza dei comici napoletani, mezzo ruffiani mezzo commedianti, brutali e audaci, pericolosi e divertenti. La sua canzone, dal testo semplicemente idiota, acquistava in bocca sua, grazie alla mimica, alle contorsioni, alla maniera significativa di strizzare gli occhi e di lingueggiare lascivo agli angoli della bocca, qualcosa di ambiguo e vagamente indecente. Dal colletto floscio della camicia sportiva che egli portava sotto un abito da città sporgeva il collo magro con un pomo d'Adamo enorme e nudo. La faccia rincagnata, pallida e glabra, sì da non permettere di indovinar la sua età, appariva segnata dalle smorfie e dai vizi, e stranamente contrastavano col ghigno della sua mobile bocca i due solchi che si scavavano protervi, imperiosi, quasi feroci fra le sue sopracciglia rossicce. Ma la profonda attenzione del solitario fu attirata particolarmente su quell'individuo sospetto dal fatto che egli diffondeva intorno a sé un'aura altrettanto sospetta. Infatti a ogni ripresa del ritornello il cantante intraprendeva un grottesco giro fra il pubblico, con molte buffonerie e cenni di saluto, e passava così proprio sotto il posto di Aschenbach, sprigionando dal corpo e dai vestiti un intenso odore di acido fenico che saliva verso il terrazzo. Finita la canzone, egli incominciò la questua. Andò prima dai russi, che furono visti donare generosamente, poi salì i gradini. Quanto era stato sfacciato durante la rappresentazione, tanto umile si mostrava adesso. Sprofondandosi in inchini e riverenze sgattaiolava fra i tavoli e un sorriso di servilità ipocrita gli scopriva i denti robusti, mentre le due rughe si disegnavano sempre minacciose fra le rosse sopracciglia. I villeggianti squadravano con curiosità e con un certo ribrezzo lo strano individuo che accattava il suo pane, gli gettavano qualche moneta nel cappello con la punta delle dita, e badavano di non toccarlo. L'abolizione della distanza fisica fra il commediante e la gente per bene produce sempre, per grande che sia stato il divertimento, un certo disagio. Egli lo sentiva e cercava di scusarsene con una cortesia strisciante. Giunse davanti ad Aschenbach, e con lui l'odore di cui nessun altro pareva darsi pensiero. — Senti un po', — disse il solitario in tono sommesso, quasi macchinalmente. — Perché disinfettano Venezia? — Il buffone rispose con voce rauca: — Ordine della polizia! È la regola, signore, con questo caldo e con questo scirocco. Lo scirocco deprime. Non fa bene alla salute... — Sembrava stupito che gli si chiedesse una cosa simile e con un gesto della mano a piatto dimostrò com'era opprimente lo scirocco. — Allora non c'è pestilenza a Venezia? — domandò Aschenbach molto piano, fra i denti. I lineamenti muscolosi del pagliaccio composero una smorfia di comica stupefazione. — Pestilenza? O quale pestilenza? Lo scirocco sarebbe una pestilenza? Oppure la nostra polizia? Ma lei vuol scherzare! Pestilenza? Questa è bella! Sono giuste precauzioni, capisce? Precauzioni della polizia contro gli effetti della temperatura afosa... — E gesticolava. — Va bene, — ribatté Aschenbach seccamente e lasciò cadere nel capello un'offerta eccessiva. Poi con gli occhi accennò all'uomo di andarsene. Quegli obbedì, con sorrisi e riverenze. Ma non era ancora arrivato alla scala che due impiegati dell'albergo si gettarono su di lui e a faccia a faccia lo sottoposero a un interrogatorio in sordina. L'uomo alzò le spalle e giurò, lo si vedeva bene, di non aver detto nulla. Lasciato libero ridiscese in giardino e, dopo un breve conciliabolo con i suoi sotto la lampada ad arco, si fece innanzi ancora una volta per cantare una canzone di ringraziamento e d'addio. Era una canzone che il solitario non ricordava d'aver mai intesa; uno strambotto ardito in dialetto incomprensibile, con un ritornello di risate che la banda riprendeva regolarmente a gola spiegata. Al ritornello cessavano tanto le parole quanto l'accompagnamento degli strumenti e non restava che un riso ordinato secondo un certo ritmo, ma con molta naturalezza, che specialmente il solista sapeva emettere con grande talento in modo da dare un'illusione perfetta. Ristabilita la distanza fra sé e l'uditorio, egli aveva ritrovato tutta la sua impudenza, e il riso scagliato sfacciatamente verso la terrazza era un riso di scherno. Già alle ultime parole della strofa egli sembrava lottare contro un solletico irresistibile. Singhiozzava, gli tremava la voce, si premeva la mano sulla bocca, scuoteva le spalle e, venuto il momento, il riso sfrenato prorompeva, scoppiava, esplodeva con tale verità che diveniva contagioso e si comunicava all'uditorio, di modo che anche sulla terrazza dilagava un'ilarità senza oggetto che s'alimentava soltanto di se stessa. E ciò appunto pareva raddoppiare la pazza allegria del cantante. Egli piegava i ginocchi, si batteva sulle cosce, si scrollava tutto, non rideva più, ululava, e mostrava a dito la società che rideva lassù, come se non ci fosse nulla di più comico, e alla fine si sbellicavano tutti in giardino e sulla veranda, compresi i camerieri, i ragazzini dell'ascensore e i facchini. Aschenbach non stava più adagiato sulla poltrona, s'era tirato su come per un tentativo di difesa o di fuga. Ma gli scoppi di risa, l'odore d'ospedale che saliva a buffate e la vicinanza del bellissimo Tadzio gli avevano ordito intorno una magia che imprigionava inesorabilmente il suo cervello, i suoi sensi. Nell'agitazione e distrazione generale egli osò gettare uno sguardo a Tadzio e poté vedere che il bel fanciullo, rispondendo al suo sguardo, restava anch'egli serio, come se regolasse contegno ed espressione su quelli di lui, e il buon umore regnante non potesse toccarlo, poiché egli vi si sottraeva. Quella docilità infantile e significativa aveva qualcosa di così disarmante, di così travolgente, che l'uomo dai capelli grigi si trattenne a stento dal celarsi la faccia tra le mani. Gli era anche sembrato che quell'abitudine che aveva Tadzio di raddrizzarsi ogni tanto e di respirare profondamente rivelasse una mancanza di fiato, un'oppressione al petto. «È malaticcio, probabilmente non giungerà alla vecchiaia», pensò di nuovo con quella oggettività a cui ebbrezza e desiderio possono talvolta stranamente emanciparsi; e il suo cuore si riempì contemporaneamente di pura sollecitudine e di illecita soddisfazione. I veneziani intanto avevano finito e se ne andarono, accompagnati da applausi, mentre il loro capo non trascurava di ornare il suo commiato con nuove buffonerie. I suoi inchini, i baci che mandava con la mano suscitavano altre risa, ed egli quindi li moltiplicava. Quando i suoi compagni erano già usciti finse ancora di andare a sbattere violentemente contro l'asta di un fanale e si trascinò verso l'uscita come stravolto dal dolore. Ma colà giunto gettò via di colpo la maschera del guitto perseguitato dalla scalogna, si raddrizzò, anzi balzò su come spinto da una molla, mostrò sfrontatamente la lingua agli ospiti sulla terrazza e scomparve nel buio. La compagnia dei bagnanti si sciolse; Tadzio da molto tempo si era allontanato dalla balaustrata. Ma il solitario, con stupore dei camerieri, rimase per un pezzo seduto al suo tavolo, davanti al resto della granatina. La notte avanzava, le ore scorrevano. Nella casa dei suoi genitori, molti anni prima, c'era una clessidra... egli rivide a un tratto quel piccolo strumento, così fragile e così importante, come se gli stesse dinanzi. Fine e silenziosa scorreva la sabbia color ruggine attraverso la strozzatura del vetro, e poiché la cavità superiore era già quasi vuota, si era formato lì un piccolo vortice impetuoso. L'indomani, nel pomeriggio, il testardo fece un nuovo tentativo d'indagine, e questa volta con pieno successo. Entrò nell'agenzia turistica inglese di piazza San Marco e, dopo aver cambiato un po' di denaro alla cassa, con l'aria del forestiero diffidente rivolse al clerk che lo serviva la fatale domanda. Era un inglese ancora giovane, vestito di lana, coi capelli spartiti nel mezzo, gli occhi molto ravvicinati; aveva quell'aspetto di placida lealtà che contrasta gradevolmente con la sveltezza birbonesca del sud. Egli incominciò: — Non c'è motivo d'inquietudine, Sir. Un provvedimento che non significa nulla di grave. Sono precauzioni che si prendono sovente per evitare gli effetti malefici del caldo e dello scirocco... — Ma alzando gli occhi celesti incontrò lo sguardo dello straniero, uno sguardo stanco e un po' triste che fissava le sue labbra con una leggera espressione di disprezzo. Allora l'inglese arrossì. — Questa, — continuò a mezza voce, un poco agitato, — è la spiegazione ufficiale che qui si crede di dare. Io le dirò che dietro c'è dell'altro —. E nella sua lingua semplice e onesta rivelò la verità. Già da parecchi anni il colera asiatico aveva mostrato un'accresciuta tendenza a diffondersi e a migrare. Sorto nelle calde paludi del delta del Gange, propagato con le esalazioni mefitiche di quel mondo primitivo di isole e di foreste schivato dagli uomini, lussureggiante e inutile, dove solo la tigre s'appiatta in mezzo alle macchie di bambù, il morbo aveva infuriato in tutto l'Indostan con persistenza e violenza, si era esteso a oriente fin nella Cina, a ovest aveva invaso l'Afganistan e la Persia, e seguendo le principali strade carovaniere aveva portato i suoi terrori fino ad Astrachan e persino a Mosca. Ma mentre l'Europa tremava di vedere il flagello entrare di là, per via di terra, esso, trasportato sui mari da mercanti siriaci, aveva fatto la sua comparsa quasi contemporaneamente in parecchi porti del Mediterraneo, s'era imbaldanzito a Tolone e a Malaga, a Palermo e a Napoli aveva mostrato più volte il suo ceffo, e pareva che già non volesse più abbandonare la Calabria e la Puglia. Il nord della penisola era stato risparmiato. Ma alla metà di maggio di quell'anno, in uno stesso giorno, si trovarono a Venezia i terribili vibrioni nei cadaveri nerastri e scheletriti di un barcaiolo e di un'erbivendola. I casi furono tenuti segreti. Ma dopo una settimana ce n'erano dieci, ce n'erano venti, trenta, e per di più in diversi sestieri. Un austriaco, che s'era trattenuto qualche giorno a Venezia per diporto, morì con sintomi evidenti appena tornato nella sua cittadina di provincia, e così fu che le prime notizie dell'epidemia scoppiata nella città lagunare apparvero nei giornali tedeschi. Le autorità di Venezia risposero che le condizioni sanitarie della città non erano mai state migliori, e presero le più urgenti precauzioni profilattiche. Ma probabilmente erano già contaminati generi alimentari, verdura, carne e latte, perché, negata e occultata, la moria imperversava nelle calli anguste e la canicola estiva, sopraggiunta anzitempo, intiepidendo l'acqua dei canali favoriva il contagio. Sembrava che la pestilenza avesse acquistato nuove forze, che la tenacia e la virulenza dei germi si fosse raddoppiata. I casi di guarigione erano rari; moriva l'ottanta per cento dei colpiti, e moriva di una morte terribile perché il male si manifestava con estrema violenza e sovente nella sua forma più pericolosa, il colera secco. In quella forma il corpo non riusciva nemmeno a espellere l'acqua prodotta in gran copia dai vasi sanguigni. Entro poche ore il malato si disseccava e moriva soffocato dal proprio sangue divenuto denso come la pece, tra spasimi e rochi lamenti. Buon per lui se, come succedeva talvolta, la malattia si dichiarava, dopo un lieve malessere, sotto forma di un deliquio profondo dal quale il colpito non si svegliava più, o solo per poco. Al principio di giugno si riempirono chetamente le baracche d'isolamento dell'Ospedale Civico; nei due orfanotrofi i posti incominciarono a scarseggiare e un lugubre viavai regnava tra le Fondamenta Nuove e San Michele, l'isola del cimitero. Ma la paura di un danno generale, le grosse perdite che in caso di panico e di discredito minacciavano di colpire l'Esposizione d'Arte recentemente aperta ai Giardini Pubblici, gli alberghi, i negozi, tutta la complessa industria turistica, quella paura fu più forte che l'amore per la verità e il rispetto per le convenzioni internazionali; e persuase l'autorità a perseverare ostinatamente nella sua politica del silenzio e delle smentite. Il direttore dell'Ufficio d'Igiene, un benemerito della sua città, si era dimesso con indignazione ed era stato sostituito alla chetichella da una persona più malleabile. La popolazione lo sapeva; e la corruzione delle autorità insieme con l'incertezza regnante, lo stato eccezionale in cui la moria aveva posto la città, provocarono un certo rilassamento di costumi nelle classi inferiori, incoraggiarono gli istinti vergognosi e antisociali, che si manifestarono in intemperanza, impudicizia e criminalità dilaganti. Contro il solito, si vedevano la sera molti ubriachi; di notte, si diceva, malintenzionati rendevan pericolosa la circolazione; rapine e persino omicidi si susseguivano, e già due volte era risultato che persone apparentemente morte di colera eran state invece avvelenate dai famigliari che volevano sbarazzarsi di loro; il vizio professionale prendeva forme insistenti e depravate, che quassù non s'erano mai viste prima ed erano di casa soltanto nelle regioni meridionali e nell'oriente. Di queste cose l'inglese raccontò l'essenziale. — Lei farebbe bene, — concluse, — a partire piuttosto oggi che domani. Il decreto di quarantena non può più tardare che di due o tre giorni. — La ringrazio, — disse Aschenbach e uscì dall'agenzia. Sulla piazza incombeva un'afa senza sole. Turisti ignari eran seduti nei caffè oppure stavano davanti alla chiesa, tra il fitto volo dei colombi, e si divertivano a guardare le bestiole che agitandosi, battendo le ali, cacciandosi via l'un l'altra beccavano i chicchi di granturco che venivan loro offerti nel palmo della mano. In preda a un'irrequietezza febbrile, trionfante di possedere la verità, ma con un sapore di ribrezzo in bocca e un imaginoso sgomento nel cuore, il solitario calpestava i lastroni della piazza fastosa. Meditava un'azione onesta e purificatrice. Quella sera stessa dopo cena avrebbe potuto avvicinarsi alla signora dalle perle e dirle la frase che già andava formulando: «Signora, permetta a un estraneo di darle un consiglio, un avvertimento di cui l'egoismo degli altri la priva. Parta subito, con Tadzio e con le sue figliole. C'è il colera a Venezia!» Allora avrebbe potuto posare la mano in segno d'addio sul capo del fanciullo che era stato strumento di una beffarda divinità e poi, ritraendosi, fuggire da quella palude. Ma al tempo stesso sentiva che era infinitamente lontano dal voler compiere per davvero quell'atto. Era un passo che l'avrebbe ricondotto indietro, che l'avrebbe restituito a se stesso; ma chi è fuori di sé nulla teme quanto il rientrare in sé. Egli ripensò l'edificio bianco ornato di iscrizioni splendenti alle ultime luci crepuscolari, nel cui trasparente misticismo s'era immerso il suo occhio spirituale; ricordò la strana figura errabonda che aveva destato nel suo cuore invecchiarne quel desiderio giovanile di avventure e di lontananze; e l'idea di ritornare a casa, alla prudenza, all'ordine, alla fatica e al magistero lo schifava a tal segno, che la sua faccia si contrasse nell'espressione del malessere fisico. — Bisogna tacere! — sussurrò con energia. E: — Io tacerò! — La coscienza della sua complicità, della sua connivenza lo inebriava come piccole quantità di vino inebriano un cervello già stanco. La visione della città colpita dal flagello e abbandonata a se stessa, confusamente vagheggiata dalla sua mente, accendeva in lui speranze inconcepibili, che disobbedivano alla ragione ed erano mostruosamente dolci. Che cos'era per lui la delicata felicità di cui aveva sognato un momento prima, a paragone di queste speranze? Che cosa potevano contare arte e virtù di fronte ai vantaggi del caos? Egli tacque e rimase. Quella notte fece un sogno terribile — se si può chiamare sogno un'avventura del corpo e dello spirito che lo colse bensì nel sonno più profondo, in piena indipendenza ed esistenza carnale, ma senza ch'egli si vedesse presente e operante nello spazio al di fuori degli avvenimenti: il teatro di tali avvenimenti era piuttosto la sua anima stessa, ed essi vi irrompevano dal di fuori, abbattendo violentemente la sua resistenza — una resistenza spirituale e profonda — e lasciando devastato e distrutto l'edificio intellettuale della sua vita. Incominciò con la paura, paura e piacere e una sgomenta curiosità di ciò che sarebbe accaduto. La notte regnava e i suoi sensi erano all'erta; giacché da lontano s'avvicinava un fragore, un tumulto, un miscuglio di rumori: strepiti, squilli e sordi boati, acute grida di giubilo e un urlìo particolare fatto di lunghi uuuh strascicati — il tutto frammezzato e talvolta coperto in modo atrocemente soave da note di flauto gravi e tubanti e insistenti e perverse, che penetravano le viscere con lasciva magia. Ma egli sapeva una parola, oscura, ma che tuttavia designava colui che stava per giungere: «Il dio straniero!» S'accese un fumoso bagliore: egli riconobbe un paesaggio di montagna, simile a quello che circondava la sua residenza estiva. E nella luce rossa, dalle cime boschive, fra tronchi e muscosi sfasciumi di rupi, rotolarono, rovinarono giù turbinosamente uomini, bestie, una frotta, una torma frenetica che inondò il pendio di corpi e di fiamme, in tumulto e in tregenda vertiginosa. Donne che inciampavano nelle lunghe vesti di pelli agitavano tamburi con sonagli al di sopra delle loro teste riverse e gementi, brandivano fiaccole sfavillanti e stili sguainati, impugnavano a mezzo il corpo serpi lingueggianti, o si reggevano i seni con le mani, ululando. Uomini che portavano corna sulla fronte, cinti di pellicce e vellosi essi stessi, curvavano la nuca dimenando braccia e gambe, e facevano rimbombare grandi piatti di bronzo o tambureggiavano furiosamente sui timpani, mentre giovinetti dai corpi lisci e glabri con bastoni inghirlandati pungolavano arieti, reggendosi alle loro corna e lasciandosi trascinare, con grida di giubilo, dai loro salti. E i forsennati guaivano quel loro grido fatto di consonanti dolci con l'uuuh prolungato alla fine, dolce e selvaggio insieme come non s'era mai udito l'uguale. Qui esso saliva nell'aria come il bramito d'un cervo, e là era ripetuto da mille voci con accenti di trionfante lascivia, eccitando alla danza, al dimenìo delle membra, senza mai tacere. Ma tutto compenetrava e dominava il suono profondo, lusinghevole del flauto. Non allettava con sfrontata insistenza anche lui, preda riluttante, alle feste, alle orge dell'estremo sacrificio? Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la sua volontà di difendere fino all'ultimo ciò che era suo contro lo straniero, il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, le grida moltiplicate dall'eco delle pareti rocciose crescevano, trionfavano, si gonfiavano in un delirio irresistibile. I vapori offuscavano la mente, acre odore di capri, esalazioni di corpi ansimanti e un tanfo come di acque corrotte misto a un altro ben noto: di piaghe, di malattia serpeggiante. Ai colpi di timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivano cieco furore, voluttà inebriante e la sua anima desiderava di unirsi al baccanale del dio. Il simbolo osceno, ligneo, gigantesco, fu svelato e innalzato: e ancor più frementi tutti gridarono la parola del rito. Con la schiuma alle labbra smaniavano, si eccitavano l'un l'altro con gesti lubrici e mani lascive, ridendo e gemendo, si cacciavano vicendevolmente pungiglioni nelle carni e leccavano il sangue che ne sgorgava. E il dormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero. Anzi essi erano lui, quando si gettarono sulle bestie dilaniando e uccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando sul terreno sconvolto incominciarono orribili congiungimenti in onore del dio. E la sua anima conobbe il gusto della lussuria e la follia della perdizione. Da quel sogno la vittima si svegliò senza forze, coi nervi spezzati, schiavo del demone. Non temeva più gli sguardi attenti di coloro che lo osservavano, non gli importava di esporsi ai loro sospetti. Del resto partivano, fuggivano tutti; sulla spiaggia molte cabine rimasero deserte, molti posti eran vuoti in sala da pranzo, e in città non si vedeva quasi più un forestiero. Sembrava che la verità fosse trapelata; il panico, nonostante la tenace concordia degli interessati, non si poteva più evitare. Ma la signora dalle perle restava lì con i suoi, sia che le dicerie non fossero giunte fino a lei, sia che ella fosse troppo orgogliosa e impavida per fuggire. Tadzio restava; e ad Aschenbach, irretito nel suo sogno, pareva talvolta che la fuga e la morte avrebbero fatto sparire all'intorno tutta la vita disturbatrice, lasciandolo solo nell'isola con il bel fanciullo; e anzi, quando al mattino posava sull'amato lo sguardo fisso, pesante, insistente, o quando al tramonto lo seguiva senza ritegno nelle calli dove vagava nascostamente la morte abietta, allora gli apparivano probabili quelle mostruose speranze, e caduche le leggi morali. Come tutti gli amanti, desiderava di piacere e aveva un'amara paura che ciò non fosse possibile. Aggiungeva al suo abbigliamento qualche nota giovanile e rallegrante, portava pietre preziose, si profumava, parecchie volte al giorno impiegava molto tempo ad agghindarsi e andava a pranzo tutto adorno, eccitato, ansioso. Di fronte alla dolce giovinezza che lo aveva innamorato, provava ribrezzo del proprio corpo in declino; quando guardava allo specchio i suoi capelli grigi, i lineamenti marcati, vergogna e disperazione lo assalivano. Istintivamente cercava di riposarsi, di riacquistare freschezza; andava sovente dal parrucchiere. Avvolto nell'accappatoio bianco, sotto le mani esperte del barbiere loquace, osservava con dolore la propria immagine nello specchio. — Grigio, — disse torcendo la bocca. — Un pochino, — rispose l'uomo. — Colpa di una certa trascuratezza, di una indifferenza alle cose esteriori che è ben comprensibile nelle persone illustri, ma che però non bisogna approvare incondizionatamente; tanto più che a tali persone non si addicono pregiudizi in fatto di natura o di artificio. Se la severità di certe persone contro l'arte cosmetica si estendesse, come sarebbe logico, anche alla cura dei denti, si griderebbe allo scandalo. Del resto noi abbiamo soltanto l'età del nostro spirito, del nostro cuore, e in certi casi i capelli grigi sono assai più menzogneri che la deprecata tintura. Nel caso suo, signore, si ha diritto a riprendere il proprio colore naturale. Mi permette semplicemente di restituirglielo? — In che modo? — chiese Aschenbach. Allora l'eloquente parrucchiere lavò la testa del cliente con due liquidi, uno chiaro e uno scuro, e i capelli divennero neri com'erano in gioventù. Poi col ferro da ricci li ondulò morbidamente, fece un passo indietro e considerò la propria opera. — E ora, — disse, — non resta che rinfrescare un poco la pelle del viso. E instancabilmente, incontentabilmente si diede a passare con sempre maggior zelo da una manipolazione all'altra. Aschenbach, comodamente adagiato, incapace di opporsi, e anzi pieno di ansiosa speranza in quel trattamento, vedeva nello specchio le sue sopracciglia disegnarsi più regolari e più nette, allungarsi il taglio degli occhi, aumentare lo splendore delle pupille grazie a un'ombreggiatura sotto le palpebre; più giù, dove la pelle era coriacea e gialliccia, vide apparire un leggero carminio morbidamente spalmato, le sue labbra esangui prendere un bel colore di fragola, sparire sotto creme e belletti i solchi delle guance, della bocca, le rughe degli occhi... con cuore palpitante, ammirò nello specchio un florido giovanotto. Infine il tecnico della cosmesi si dichiarò soddisfatto, e ringraziò con strisciante cortesia, secondo l'uso di quella gente, colui che aveva servito. — Qualche ritocco insignificante, — disse terminando l'operazione. — Adesso il signore può innamorarsi tranquillamente —. Aschenbach se ne andò come rapito in un sogno, confuso e spaventato. Portava una cravatta rossa, il suo largo cappello di paglia aveva un nastro multicolore. Si era alzato un tiepido vento burrascoso; pioveva poco e di rado, ma l'aria era umida, spessa e piena di vapori mefitici. Schiocchi, fischi, ronzii intronavano l'udito, e Aschenbach febbricitante sotto il rossetto credeva di sentir volteggiare nell'aria i maligni spiriti del vento, i biechi uccelli del mare che rodono, scompigliano e insudiciano il pasto dei condannati. Infatti l'afa toglieva l'appetito e non si poteva fare a meno d'immaginare che i cibi fossero avvelenati dai germi del contagio. Sui passi del bel giovinetto, Aschenbach si era smarrito un giorno nel centro della città ammalata. Incapace di orientarsi, giacché le calli, i canali, i ponti e i campielli del labirinto si somigliano troppo, incerto persino sui punti cardinali, egli pensava soltanto a non perder di vista l'immagine bramosamente inseguita; e, costretto a una umiliante circospezione, radendo i muri, cercando riparo dietro la schiena dei passanti, per molto tempo non si accorse della stanchezza, dello sfinimento che la passione e l'ansia continua avevano prodotto nel suo corpo e nel suo spirito. Tadzio camminava dietro ai suoi, nei passaggi angusti lasciava sempre la precedenza all'istitutrice e alle monachine sue sorelle, e girellando così solo voltava ogni tanto il capo per assicurarsi con un'occhiata dei suoi strani occhi grigi come l'alba, che il suo innamorato lo seguisse. Lo vedeva e non lo tradiva! Inebriato da quella scoperta, trascinato da quegli occhi, menato pel naso dalla passione, l'innamorato rincorreva la sua illecita speranza... e alla fine rimase gabbato. I polacchi avevano attraversato un ponte a sesto acuto, l'altezza dell'arco li sottrasse alla vista dell'inseguitore e quando questi giunse a sua volta in cima non li scorse più. Li cercò in tre direzioni, dritto davanti a sé e lungo i due lati dell'argine stretto e sporco, ma invano. L'abbattimento, la spossatezza lo obbligarono infine a desistere dalla ricerca. Aveva la testa in fiamme, il corpo bagnato di sudore appiccicoso, un tremito alla nuca, era torturato da una sete intollerabile; cercò lì intorno un qualsiasi ristoro immediato. In un piccolo negozio di verdura comprò della frutta, fragole troppo mature e sfatte, e ne mangiò camminando. Una piazzetta che pareva stregata e abbandonata gli si aperse davanti; egli la riconobbe, era li che settimane prima aveva accarezzato quel vano progetto di fuga. Si lasciò cadere sui gradini del pozzo, in mezzo al campiello, e appoggiò la testa alla vera di pietra. Tutto era silenzio, l'erba cresceva tra le lastre del selciato, rifiuti erano sparsi all'intorno. Tra le case scolorite, di altezza disuguale, che circondavano la piazza ve n'era una che pareva un palazzo, con finestre ad ogiva, dietro le quali regnava il vuoto, e balconcini sorretti da leoni. Al pianterreno di un'altra v'era una farmacia. Folate di vento caldo portavano ogni tanto odore di acido fenico. Eccolo lì il maestro, l'artista dignitoso, l'autore del Miserabile, che in una forma di esemplare purezza aveva condannato la vita zingaresca e il torbido dei bassifondi, abiurato ogni simpatia per gli abissi, riprovato il riprovevole, colui che era salito così in alto, che, superato il proprio sapere e liberatosi dall'ironia, si era abituato a considerarsi impegnato dalla fiducia che ispirava alle masse — Gustav von Aschenbach la cui gloria era ufficiale, il cui nome era stato nobilitato e il cui stile era proposto a modello nelle scuole, eccolo lì seduto a terra, con le palpebre chiuse; solo di tanto in tanto saetta uno sguardo obliquo, ironico e perplesso, e subito lo nasconde; e le sue labbra flosce ravvivate dal rossetto articolano parole staccate dei discorso che il suo cervello intorpidito compone con la strana logica del sogno. «Giacché la bellezza, poni ben mente, Fedro, la bellezza soltanto è divina e visibile a un tempo, e perciò essa è la via del sensibile, piccolo Fedro, è la via che conduce l'artista allo spirito. Ma tu, o diletto, credi che giungerà alla saggezza e alla vera dignità virile colui che s'incammina verso lo spirito per la strada dei sensi? O credi piuttosto (ti lascio libero di decidere) che questa sia una strada irta di deliziosi pericoli, che sia davvero una strada tortuosa e peccaminosa che conduce necessariamente all'errore? Giacché devi sapere che noi poeti non possiamo percorrere il cammino della bellezza senza che Eros ci accompagni e diventi la nostra guida; anche se a modo nostro siamo eroi e onesti combattenti, siamo tuttavia come le donne, poiché la passione è il nostro innalzamento, e amore deve rimanere il nostro anelito... questa è la nostra gioia e la nostra vergogna. Lo vedi adesso, che noi poeti non possiamo essere saggi né dignitosi? che dobbiamo necessariamente errare, necessariamente essere dissoluti, avventurieri del sentimento? La nostra maestria dello stile è menzogna e ciurmeria; la nostra gloria, l'onorifica riputazione, è farsa, la fiducia che il pubblico ha in noi è estremamente ridicola, l'educazione del popolo e della gioventù per mezzo dell'arte è un'impresa arrischiata che bisogna proibire. Infatti che educatore può mai essere colui che per istinto incorreggibile e naturale è attratto verso l'abisso? Bene vorremmo rinnegare l'abisso e conquistare la dignità, ma per quanto ci sforziamo, l'abisso ci attira. Così noi rinunziamo alla conoscenza che dissolve, perché la conoscenza, Fedro, non ha dignità né rigore, la conoscenza sa, comprende, perdona, è senza carattere e senza forma; ha simpatia per l'abisso, anzi è l'abisso. Noi dunque la respingiamo risolutamente e quindi la nostra aspirazione resta unicamente la bellezza, vale a dire la semplicità, la grandezza e la nuova severità, la seconda spontaneità e la forma. Ma spontaneità e forma, o Fedro, portano all'ebbrezza e al desiderio, possono trascinare un animo nobile a orrendi sacrilegi del sentimento che la sua stessa bella severità dichiara infami; conducono all'abisso, esse pure all'abisso. E vi conducono proprio noi poeti, perché noi non siamo capaci di elevatezza, ma soltanto di dissolutezza. Ed ora io vado, Fedro, tu resta qui; e quando non mi vedrai più, allora avviati anche tu». Qualche mattino dopo, Gustav von Aschenbach, non sentendosi bene, uscì dall'albergo più tardi del consueto. Doveva lottare con certe vertigini che solo in parte erano fisiche, e s'accompagnavano a violente crisi d'angoscia, a un senso di disperazione e di irresponsabilità che non sapeva se riferire al mondo esterno o alla propria vita. Nell'atrio vide una quantità di bagagli pronti per esser portati via; chiese al portiere chi partiva, e in risposta udì il nome aristocratico della famiglia polacca, proprio quello che fra sé s'attendeva. Lo ascoltò senza che i suoi lineamenti sciupati si contraessero, con quel leggero movimento del capo di chi apprende incidentalmente una notizia poco interessante, domandò ancora: — Quando? — Gli risposero: — Dopo il pranzo —. Egli fece un cenno e andò al mare. La spiaggia era inospitale. Sull'ampia distesa d'acqua bassa che separava la riva dal primo banco di sabbia correvano leggeri brividi. Un'atmosfera autunnale, di stagione perenta, gravava su quel luogo di piaceri già così animato di colori e adesso quasi abbandonato, tanto che ormai non pulivano neanche più la rena. Una macchina fotografica, apparentemente senza padrone, stava sul suo cavalletto in riva al mare, e il panno nero stesovi sopra svolazzava schioccando al vento, che era rinfrescato. Tadzio coi tre o quattro compagni che gli eran rimasti si baloccava a destra davanti alla capanna dei suoi, e Aschenbach, sdraiato in poltrona con una coperta sulle ginocchia, a mezza strada circa fra il mare e la fila di cabine, ancora una volta lo seguiva con gli occhi. Il gioco, senza sorveglianza poiché le donne dovevano essere occupate nei preparativi del viaggio, pareva senza regole e finì per degenerare. Il ragazzo robusto dai capelli neri impomatati che si chiamava «Yaschu», irritato e accecato da un lancio di sabbia in faccia, costrinse Tadzio alla lotta, che finì rapidamente con la sconfitta del più debole. Ma come se nell'ora dell'addio il sentimento servile dell'inferiore si mutasse in crudele violenza e come se egli volesse vendicarsi della lunga schiavitù, il vincitore non abbandonò ancora il vinto, anzi, inginocchiato sul suo dorso gli premette così a lungo il viso nella rena che Tadzio, già ansante per la lotta, minacciava di soffocare. I suoi sforzi per scuoter via l'avversario che l'opprimeva erano convulsi, a momenti cessavano completamente e non si ripetevano che come sussulti. Inorridito Aschenbach stava per correre in suo aiuto quando il violento finalmente lasciò libera la sua vittima. Tadzio, molto pallido, si alzò a metà e rimase immobile per parecchi minuti appoggiato su un braccio, con capelli scarmigliati e occhi incupiti. Poi s'alzò in piedi e s'allontanò lentamente. I compagni lo chiamarono, allegri dapprima, poi con voci angosciate e supplichevoli; egli non li ascoltava. Il bruno, che doveva essersi subito pentito del suo eccesso, lo raggiunse e cercò di ammansirlo. Tadzio lo respinse con una scrollata di spalle e scese obliquamente verso il mare. Era scalzo e portava l'abito di lino a righe con la cravatta rossa. Sulla riva sostò a capo chino, tracciando figure con la punta del piede nella sabbia umida e poi entrò nell'acqua bassa che non gli bagnava nemmeno i ginocchi, l'attraversò stancamente e arrivò al banco di sabbia. Là si fermò un attimo col viso rivolto al largo, poi incominciò a percorrere lentamente, tornando verso sinistra, la lunga e sottile striscia di suolo scoperto. Separato dalla terraferma da una distesa d'acqua, separato dai compagni dal suo fiero capriccio, egli errava laggiù, visione distaccata e senza legami, nel mare, nel vento, davanti all'immensità nebulosa. Ancora una volta si fermò in contemplazione. E improvvisamente, come tratto da un ricordo, da un impulso, volse graziosamente il busto dalla posizione primitiva, con una mano sul fianco, e al di sopra della spalla guardò verso la spiaggia. Aschenbach era lì come quando per la prima volta, rinviato dalla soglia dell'atrio, aveva incontrato lo sguardo di quegli occhi color del grigio crepuscolo. Appoggiato allo schienale della poltrona aveva girato lentamente il capo per seguire il moto di Tadzio che camminava laggiù; e ora si erse come per andare incontro allo sguardo, poi ricadde sul petto così che i suoi occhi guardavano di sotto in su, mentre la faccia prendeva l'espressione distesa e introspettiva di chi è caduto in un sonno profondo. Tuttavia gli parve che il pallido e soave psicagogo laggiù gli sorridesse, gli facesse cenno; che, staccando la mano dall'anca, gli indicasse l'orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell'immensità piena di promesse. E, come tante altre volte, volle alzarsi per seguirlo. Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto del poeta che s'era accasciato su un fianco. Lo portarono in camera sua. E il giorno stesso il mondo apprese con reverente commozione la notizia della sua morte. FINE