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Quando sei nato non puoi più nasconderti
Rai Cinema e Cattleya presentano un film di Marco Tullio Giordana Quando sei nato non puoi più nasconderti scritto da Sandro Petraglia Stefano Rulli Marco Tullio Giordana liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace Ottieri edito da Nottetempo srl la sceneggiatura del film è pubblicata da Marsilio Editori, Venezia una produzione Cattleya (Italia), Rai Cinema (Italia) in coproduzione con Once You Are Born Films (UK) Ltd (Gran Bretagna), Babe (Francia) ufficio stampa: Studio PUNTOeVIRGOLA Distribuzione 01 Distribution Cast tecnico Regia Marco Tullio Giordana Soggetto Tratto dall’omonimo romanzo di Edito da Marco Tullio Giordana Maria Pace Ottieri Nottetempo Sceneggiatura Direttore della fotografia Scenografia Costumi Suono Microfonista Montaggio Casting Organizzatore generale Co-produttori Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Marco Tullio Giordana Roberto Forza Giancarlo Basili Maria Rita Barbera Fulgenzio Ceccon Decio Trani Roberto Missiroli Barbara Melega, Otello Enea Ottavi Gianfranco Barbagallo Fabio Conversi, Terence S. Potter, Jaqueline Quella Produzione Cattleya (Italia), Rai Cinema (Italia), Once You Are Born Films (UK), Babe (Francia) Prodotto da Riccardo Tozzi Giovanni Stabilini Marco Chimenz Distribuzione Ufficio stampa Ufficio stampa 01 Distribution Venditore estero Durata 01 Distribution Studio PUNTOeVIRGOLA tel. +39.06.39388909 Olivia Alighiero e Flavia Schiavi +335.6303795 +335.6793144 [email protected] Annalisa Paolicchi Tel. +39.06.68470209 a.paolicchi@01 distribution.it TF1 International 115’ Crediti non contrattuali Cast Artistico Bruno Alessio Boni Lucia Michela Cescon Popi Rodolfo Corsato Sandro Matteo Gadola Alina Ester Hazan Radu Vlad Alexandru Toma Tore Marcello Prayer Barracano Maura Giovanni Martorana Simonetta Solder e con Andrea Tidona nel ruolo di Padre Celso Con la partecipazione di Adriana Asti Sinossi Al centro della vicenda è Sandro, un ragazzo di dodici anni, cresciuto in una famiglia bresciana benestante. Il padre - Bruno - è un piccolo imprenditore, la madre – Lucia - lavora anch’essa in ditta, nell’amministrazione. Durante una crociera in barca a vela nel Mediterraneo, Sandro cade nottetempo in mare. Quando gli altri se ne accorgono e tornano indietro, non riescono più a trovarlo; con orrore si rendono conto che il bambino dev’essere affogato. Invece è riuscito a salvarsi. Ormai giunto allo stremo delle forze, Sandro viene avvistato da un barcone di migranti clandestini. Sfidando la rabbia degli scafisti che vorrebbero tirare dritto, qualcuno si tuffa e lo tira a bordo. è Radu, un ragazzo rumeno di diciassette anni che viaggia in compagnia della sorella minore, Alina. È l’inizio per Sandro di un avventuroso viaggio di ritorno verso l’Italia. L’incontro con gli altri passeggeri – l’eterogeneo gruppo di extracomunitari, gli scafisti, i due ragazzi rumeni di cui diventa amico - offre a Sandro l’occasione di scoprire un mondo completamente diverso e di misurare la propria capacità di adattamento. Impara a dividere l’acqua, a scaldarsi stringendosi agli altri, a subire la prepotenza del più forte, a mordere come un animale che deve difendersi. Finalmente la nave riesce a raggiungere l’Italia, Sandro può riabbracciare i genitori. Ma qualcosa dentro di lui è cambiato; il viaggio lo ha messo alla prova. Misuratosi con la solitudine, la paura, le aspettative e le disillusioni, Sandro è ora oltre la “linea d’ombra” che separa l’adolescenza dal mondo degli adulti. Una volta varcatane la soglia, nulla sarà più come prima. Marco Tullio Giordana, regista I miei ultimi film erano tutti ambientati negli anni ’70: Pasolini, I cento passi, anche gran parte de La meglio gioventù era ambientata in quegli anni che considero la preparazione, il “laboratorio” dell’Italia che ci ritroviamo oggi. Volevo fare un film sul presente, ho pensato di prendere spunto da uno dei fenomeni che più ci riguardano: l’irruzione dei migranti nella nostra vita. Una delle cose che più ha cambiato la fisionomia delle nostre città e il tessuto delle nostre relazioni. Volevo raccontare la nostra capacità, o incapacità, di affrontare la loro presenza. Ho chiesto a Sandro Petraglia e Stefano Rulli di aiutarmi a sviluppare questa idea. Pensavamo che servisse un punto di vista “innocente”, come di qualcuno che guardasse ai migranti fuori dagli schemi del razzismo o della solidarietà di maniera, uno sguardo senza ideologia. Per questo il protagonista è un adolescente, anzi un bambino, che non ha ancora consolidato il pregiudizio e si ritrova esposto a qualsiasi suggestione. Nella fase delicatissima della crescita, Sandro s’interroga sulla sessualità, sul futuro, su chi sono i suoi genitori. Inizia a essere critico e a non accettare più le cose come gli vengono (o non gli vengono) raccontate. Abbiamo raccontato poco la provincia e soprattutto il Nord. Del Nord conosciamo solo l’autoritratto vagamente pittoresco fattone dai leghisti. Io sono del Nord, di Crema, una città a pochi chilometri da Brescia. Quel paesaggio, quelle persone, quei tic, li conosco bene e li amo, non ne sono scandalizzato. Conosco tutte le frustrazioni della gente del Nord, le ingenuità, le volgarità, ma conosco anche la loro grande energia, la voglia di fare, la generosità. Brescia ha fatto i conti per prima coi migranti, si trova in vantaggio su tutto il resto dell’Italia. Ha avuto bisogno degli stranieri per rimpiazzare i suoi operai. Gli italiani non vogliono più andare in fabbrica, senza gli stranieri molte piccole e medie aziende avrebbero dovuto chiudere. Brescia ha dovuto porsi il problema di come accoglierli e integrarli. Senza fatica? Naturalmente no. Con problemi enormi di convivenza e di rigetto. Ma il tessuto della città ha resistito, ha saputo far fronte a questa emergenza. A Brescia il tasso di disoccupazione è del 2%, il più basso d’Europa. Ci sembrava interessante che il nostro Sandro avesse fatto esperienza degli stranieri, che li conoscesse già, che non ne fosse allarmato come uno che se li ritrova in casa per la prima volta. Sandro vede gli immigranti a scuola, li vede in fabbrica, ma per lui è come se fossero un’estensione dei macchinari, un’appendice del tornio o del banco di scuola. Si intuisce perfino - nel rapporto col compagno di classe Samuel - una sorta di rivalità. Esiste infatti una coabitazione con gli stranieri ma non certo un’integrazione culturale. L’idea che possa imparare qualcosa da loro, che possa averne delle rivelazioni, non lo sfiora nemmeno. Cosa succede se il figlio di un piccolo imprenditore si trova all’improvviso in mezzo al mare senza speranza di salvarsi e viene invece raccolto da un barcone di clandestini? Come raccontare non le solite cose che vediamo in televisione - gli sbarchi, le forze dell’ordine, le organizzazioni umanitarie - ma il loro viaggio, i rischi cui si espongono, le dinamiche innescate dalla loro forzata convivenza.? Naturalmente non m’illudo di essere uno di loro, di saperlo raccontare come potrebbero fare loro. Il mio punto di vista è condannato a rimanere esterno, non può che essere come quello di Sandro, che condivide un pezzo della loro storia ma non è - e non sarà mai uno di loro. Tra le fonti: il libro di Maria Pace Ottieri che ha dato il titolo al film, Migranti di Claudio Camarca, un piccolo saggio di Giuseppe Mantovani che s’intitola Intercultura... e naturalmente il cinema. Per quanto non esplicita c’è un’eco di Germania, anno zero di Roberto Rossellini o de I bambini ci guardano di Vittorio De Sica. La passeggiata finale del ragazzo nella “Corea” milanese è un po’, in orizzontale, la passeggiata che in Germania, anno zero il piccolo Edmund fa in verticale, prima di buttarsi giù. Come ne La meglio gioventù, c’è anche Truffaut – qui citato con un tema musicale composto da Georges Delerue per la La peau douce -, perché pochi come lui hanno saputo raccontare la fragilità dell’adolescenza e i traumi del passaggio verso la maturità. Per il ruolo di Sandro, il protagonista, c’erano diversi candidati. I ragazzini - se accetti di assecondarli - sono sempre molto bravi. Matteo Gadola aveva forse qualcosa in più. Non so nemmeno se cercare di definire questo qualcosa, non vorrei caricarlo di aspettative quando sarebbe forse più giusto lasciarlo alla sua vita di adolescente, con la musica, la playstation e gli amici. Matteo Gadola ha la struttura morale di un adulto, non di un adulto qualsiasi (ne conosco molti che ne sono privi) ma di un adulto assai responsabile dell’impresa che ha deciso d’intraprendere. È una persona leale e orgogliosa. Non c’è mai stato un momento in cui si sia comportato “da ragazzino”, che abbia fatto un capriccio o si sia trincerato dietro il verde dei suoi anni. Un compagno di lavoro serio, accurato, molto esigente con se stesso. Potrebbe sembrare il ritratto di un piccolo mostro, tutt’altro: Matteo è un ragazzo allegro, socievole, spiritoso e linguacciuto, un grande compagno di lavoro. Tenevo molto ad Adriana Asti; è stata molto affettuosa ad accettare di comparire solo per pochi minuti. Tenevo molto anche ad Andrea Tidona, mi piace lavorare con attori che conosco bene. Boni non avevo pensato subito di scritturarlo. Gli avevo solo chiesto il favore di venire con me a Brescia a fare da “spalla” nei provini per il ruolo del piccolo Sandro. Alessio è di quelle parti, parla il dialetto, conosce quella realtà anche meglio di me. Mi sono subito reso conto di quanto fosse credibile nella parte del padre, il ruolo sembrava scritto su misura per lui. Michela Cescon l’avevo vista in Primo amore di Matteo Garrone e mi era molto piaciuta, un’autentica rivelazione. Ma dove si nascondono questi attori così sensibili, così capaci di spessore, di profondità? In teatro, ecco dove si nascondono. Mi piace lavorare con gli attori che conoscono il palcoscenico, sarà anche una banalità ma sento che hanno una marcia in più. L’ho scelta senza neanche farle un provino. Ha aggiunto al suo personaggio una vena di follia surreale, inventata da lei, estratta dal suo cappello di prestidigitatrice. Cerco sempre di non imprigionare gli attori, di lasciarli liberi di aggiungere del loro. Un film dovrebbe dare l’idea della vita reale, non della perfetta orditura, dell’artificio del demiurgo, come Minerva che discende dalla testa di Giove. La regia migliore è quella che non si vede. Nel copione era scritto che i due ragazzi immigranti erano moldavi. Non sono riuscito a trovarne di convincenti e alla fine ho allargato il campo anche ad altre nazionalità. Ho cominciato a vedere albanesi, montenegrini, kosovari, pronto a correggere la sceneggiatura. Alla fine ho scelto un ragazzo rumeno, Vlad Alexandru Toma. Mi sembrava che avesse, oltre al physique du rôle, una sensibilità fuori dal comune, pur non avendo mai recitato prima. Ester Hazan invece è italiana, anche se di padre egiziano. All’inizio ero preoccupato che risultasse credibile nei panni di una piccola rumena. Ma devo dire che fin dai primi giornalieri la sua grazia, così angelica e conturbante, ha convinto subito tutti. Fin dall’inizio ho pensato di mettere poca musica. Per quanto la consideri un tessuto connettivo straordinario, ho pensato che dovevano aver rilievo i suoni dell’ambiente: il traffico, i macchinari, lo scricchiolìo del legno, il vento, l’aria, il rumore del mare. Ho resistito alla tentazione di usare musica “etnica”, mi sembrava troppo ovvia. Ho usato la musica di altri film: La peau douce di François Truffaut (musica di Georges Delerue) e Lezioni di piano di Jane Campion (musica di Michael Nyman). C’é poi una canzone di Eros Ramazzotti che ha una funzione cruciale: la canticchia Alina sul barcone e fa da guida a Sandro nella fabbrica abbandonata, un po’ come la voce di Doris Day ne L’uomo che sapeva troppo. Ramazzotti è molto conosciuto fuori d’Italia; è perfettamente plausibile che una ragazzina rumena la conosca a memoria. L’idea è nata durante le riprese. Ho chiesto alla piccola Ester di cantarla tra sé, come se in quelle note si condensassero tutte le illusioni che dalla sua terra l’hanno portata in Italia. Marco Tullio Giordana ha realizzato il suo primo film Maledetti vi amerò nel 1 980. Nel 1 981 ha realizzato La caduta degli angeli ribelli, nel 1 982 il video Young Person’s Guide to the Orchestra, ispirato alla partitura di Benjamin Britten, nel 1 983 gira per la televisione Notti e nebbie, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Castellaneta, e nel 1 988 Appuntamento a Liverpool. Nel 1 991 gira La neve sul fuoco, episodio del film La domenica specialmente. Nel 1 994 partecipa al film collettivo L’unico paese al mondo e nel 1 995 realizza Pasolini, un delitto italiano. Nel 1 996 produce e realizza per RAI e UNICEF il film Scarpette bianche, nel 1 997 ha realizzato il film di montaggio La rovina della patria, nel 2000 realizza I cento passi e nel 2003 la saga in due parti de La meglio gioventù. Nel 1 990 ha curato per il Teatro Verdi di Trieste la regia di L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti e nel 1 997 lo spettacolo Morte di Galeazzo Ciano, di Enzo Siciliano, per il Teatro Carignano di Torino. Ha pubblicato il romanzo Vita segreta del signore delle macchine (1 990) e il saggio Pasolini, un delitto italiano (1 994). Sandro Petraglia e Stefano Rulli, sceneggiatori SP Il copione non era costruito secondo regole classiche. Nella prima parte aveva tempi dilatati, raccontati in maniera piana, senza scatti, fino alla svolta della caduta in acqua del bambino. Lì, da un film che pare quasi la cronaca di un’estate, cambia tutto, si passa a un film d’avventura. Che poi, in breve tempo, diventa ancora un’altra cosa, e così via. La sceneggiatura è stata scritta pensando a una sorta di slittamenti da una situazione all’altra. Inoltre, da un certo punto in poi, ci siamo resi conto – senza dircelo – che stavamo pensando l’intero film per l’ultima scena. Come se il film dovesse essere fatto per quell’ultima– o meglio “penultima”- scena. SR Inizialmente era più centrale il momento del viaggio. Marco Tullio non voleva fare un film sul “problema” dell’immigrazione ma raccontare un incontro tra culture di adolescenti innocenti. L’innocenza permette ai personaggi di incontrarsi, mentre più in là, con l’età, tutto sarebbe diventato molto più complicato. Così abbiamo centrato il film sul triangolo dei ragazzi, mentre la parte sul mare si è ridotta. SR Nel film il padre e il figlio si vogliono bene, si comprendono. Pensavamo all’inizio di raccontare, con un montaggio alternato, Sandro sul barcone degli emigranti e i suoi genitori, da soli, a Brescia. Poi quest’idea si è poco per volta asciugata e il bambino è divenuto il centro assoluto del racconto. SP Abbiamo tolto e aggiunto varie volte, nelle successive stesure, la zona dei genitori dopo la perdita di Sandro. La decisione di restare su di lui dopo la caduta in mare e non vedere la situazione domestica, la casa vuota, la disperazione dei grandi, è stata presa a ridosso delle riprese o addirittura durante la lavorazione. SR Già la scena iniziale del nero che si spoglia fuori dalla cabina telefonica suggerisce una specie di mistero della comunicazione che attraversa tutto il film. Non sono le parole che comunicano, ma gli sguardi, i gesti. E questo è vero soprattutto nel rapporto tra i tre ragazzi. Il lavoro di regia, in questo senso, è stato determinante. SP Marco Tullio ha avuto due buone intuizioni. La prima, in fase di scrittura, riguardava l’idea del protagonista, che secondo lui doveva essere alle soglie della pubertà, senza “consapevolezza” della propria sessualità. Quell’età in cui si hanno dei turbamenti ma non si è ancora capaci di dar loro un nome. La seconda buona intuizione è stata quando ha deciso di prendere Matteo Gadola. Quando abbiamo visto i provini dei possibili protagonisti abbiamo avuto pareri diversi. A me, ad esempio, Matteo pareva troppo autonomo, autosufficiente, “risolto”. Mi preoccupava un po’. Mi sbagliavo. SR Volevamo raccontare un bambino normale, che non ha consapevolezza del cambiamento che sta avvenendo dentro di sé e che lo scopre solo dopo aver rischiato di morire. Non so se siamo riusciti a raccontare questa normalità con dei segnali precisi. Ad esempio, la scena con Sandro e sua madre in macchina quando vedono la prostituta. Il bambino non capisce perché la madre gli fa tirare su il finestrino, eppure avverte un disagio. Oppure quando la madre chiede a Sandro: “Cosa vuoi diventare?”. E lui risponde: “Niente”, ma non in modo drammatico. È un bambino serio, solido, che viene travolto da un cambiamento radicale. Avevamo fatto un lavoro simile sul personaggio della madre ne La meglio gioventù. Nelle prime versioni era aggressiva rispetto al figlio Matteo, mentre poi è diventata normale, perché il problema non era la madre in particolare ma la famiglia in sé. In Quando sei nato non puoi più nasconderti volevamo raccontare il momento, naturale e insieme drammatico, dell’uscita dall’infanzia. Un cambiamento tipico e insieme un cambiamento universale. È per questo che, solo nel finale, c’è la rivelazione di Sandro a se stesso. SP In un primo tempo abbiamo pensato che grosso modo il film bisognasse ambientarlo un terzo a Brescia, un terzo in mare e un terzo di nuovo a Brescia. Dopo i sopralluoghi è venuto fuori il tema del Centro d’accoglienza, che funge da “camera di decompressione” tra il mare e il ritorno alla vita. In questa fase ci è stato utile incontrare Maria Pace Ottieri, l’autrice del libro inchiesta Quando sei nato non puoi più nasconderti. Comunque, entrando in questi mondi, la cosa più difficile è vincere la tentazione – che sarebbe presuntuosa e sbagliata - di raccontare il film dalla parte dei diseredati, di fingere di stare nei panni dei migranti. Il film parla di noi più che di loro, parla dei nostri sensi di colpa, delle nostre paure. SR Accogliamo questi migranti ma mai fino in fondo. Vedi ad esempio come reagiscono i personaggi del padre e della madre di fronte al furto in casa. Esprimono qualcosa che non è razzismo, ma piuttosto un disagio, un non capire. Il film credo voglia esporre degli interrogativi piuttosto che confezionare risposte. SP Il film è l’esatto contrario della cattiva televisione, in quanto i “buoni” non sono veramente buoni e i “cattivi” non sono veramente cattivi. Non so immaginare le reazioni del pubblico. So che i personaggi del film si fanno amare. Il bambino, mentre lo guardavo nel buio della sala, mi ha conquistato più di quanto mi fosse accaduto mentre lo scrivevo. E la bambina mi ha toccato profondamente. Lo sguardo che posa su Sandro, poco prima della fine, è – per me – lo sguardo con cui tutti loro ci guardano. Spero che il pubblico, a partire dagli occhi di Alina, possa uscire dal cinema portandosi a casa qualcosa che prima non aveva, che prima non sapeva. SR C’è dentro di noi spesso una sorta di linea grigia con cui dividiamo i cosiddetti “immigrati buoni” dagli “immigrati cattivi”. Come racconta l’operaio di colore a Sandro, la vita è assai più complicata. Attraverso lo sguardo del bambino, guardiamo a questi immigrati come a un mistero. Certe cose le capiamo, certe altre no. Ad esempio Sandro non capisce – o non vuol capire sino all’ultimo - la relazione tra Radu e Alina. Ma il problema per Sandro non è tanto sapere se sono fratelli oppure amanti quanto capire il sentimento che prova per tutti e due. soprattutto quando, nel finale, scopre Alina molto diversa da come l’ha sempre pensata. Sandro Petraglia è nato a Roma il 1 9 aprile 1 947. Laureato in filosofia, è stato critico cinematografico, documentarista, e successivamente sceneggiatore. In collaborazione con Silvano Agosti, Marco Bellocchio e Stefano Rulli ha realizzato nel 1 975 il film-documento Nessuno o tutti (la versione per le sale s’intitolerà Matti da slegare) e nel 1 978 il film inchiesta La macchina cinema.Ha poi realizzato come regista Il mondo dentro (1 979) e Gran serata futurista (1 981 ) e in coppia con Stefano Rulli : Il pane e le mele (1 980), Settecamini da Roma (l98l) e Lunario d’inverno (1 982). Per la televisione ha scritto: I veleni dei Gonzaga di Vittorio De Sisti, Attentato al Papa di Giuseppe Fina, Mino di Gianfranco Albano, La piovra 3 di Luigi Perelli, Una vittoria di Luigi Perelli, La piovra 4 di Luigi Perelli, La piovra 5 di Luigi Perelli, I misteri della giungla nera di K.Connor, Felipe ha gli occhi azzurri di Gianfranco Albano, La piovra 6 di Luigi Perelli, Felipe ha gli occhi azzurri 2 di Felice Farina, Michele alla guerra di Franco Rossi, Don Milani di Antonio e Andrea Frazzi, Più leggero non basta di Betta Lodoli, La vita che verrà di Pasquale Pozzessere, Come l’America di Antonio e Andrea Frazzi, Compagni di scuola di T. Aristarco e C.Norza, Perlasca di Alberto Negrin, La omicidi di Riccardo Milani. Per il Cinema, spesso insieme a Stefano Rulli, ha scritto: Il gabbiano di Marco Bellocchio, Bianca di Nanni Moretti, Dolce assenza di Claudio Sestieri, Giulia e Giulia di Peter Del Monte, Etoile di Peter Del Monte, Mery per sempre di Marco Risi, Domani accadrà di Daniele Luchetti, Pummarò di Michele Placido, Il muro di gomma di Marco Risi, Il portaborse di Daniele Luchetti, Il ladro di bambini di Gianni Amelio, Ambrogio di Wilma Labate, Arriva la bufera di Daniele Luchetti, Fiorile di Paolo e Vittorio Taviani, Il toro di Carlo Mazzacurati, Poliziotti di Giulio Base, La scuola di Daniele Luchetti, Pasolini, un delitto Italiano di Marco Tullio Giordana, Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, La mia generazione di Wilma Labate, Marianna Ucrìa di Roberto Faenza, La tregua di Francesco Rosi, Auguri professore di Riccardo Milani, Messaggi quasi segreti di Valerio Ialongo, I piccoli maestri di Daniele Luchetti, La guerra degli Antò di Riccardo Milani, L’amante perduto di Roberto Faenza, Domenica di Wilma Labate, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Stefano Rulli è nato a Roma nel 1 949. Laureato in lettere con una tesi su neorealismo e critica cinematografica, organizza nel 1 974 per la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro il convegno sul neorealismo. In questo periodo pubblica Polansky (Nuova Italia, Castoro, l975) e collabora alle riviste Ombre Rosse, Scena, Quaderni piacentini, Essai, Cinema sessanta. Nel 1 975, assieme a Marco Bellocchio, Silvano Agosti e Sandro Petraglia, realizza il film-documento Nessuno o tutti, da cui verrà tratta una versione per le sale dal titolo Matti da slegare. Con lo stesso collettivo realizza nel 1 977 un’inchiesta in cinque puntate sul cinema come mito: La macchina cinema. Di questi anni le prime sceneggiature: collabora come sceneggiatore e aiuto regista a Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti e Il gabbiano di Marco Bellocchio. Assieme a Sandro Petraglia realizza una sorta di trilogia sulle borgate romane: Il pane e le mele (1 980), Settecamini da Roma (1 981 ) e Lunario d’inverno (1 982). Per la televisione: Attentato al Papa di Giuseppe Fina, Mino di Gianfranco Albano, La piovra 3 di Luigi Perelli, Una vittoria di Luigi Perelli, La piovra 4 di Luigi Perelli, La piovra 5 di Luigi Perelli, La piovra 6 di Luigi Perelli, Don Milani di Antonio e Andrea Frazzi, La vita che verrà di Pasquale Pozzessere, Come l’America di Antonio e Andrea F razzi, Perlasca di Alberto Negrin. Per il cinema ha scritto, spesso in coppia con Sandro Petraglia: La donna del traghetto di Amedeo Fago, Mery per sempre di Marco Risi, Pummarò di Michele Placido, Il portaborse di Daniele Luchetti, Muro di gomma di Marco Risi, Il ladro di bambini di Gianni Amelio, Arriva la bufera di Daniele Luchetti, Il Toro di Carlo Mazzacurati, La Scuola di Daniele Luchetti, Pasolini, un delitto Italiano di Marco Tullio Giordana, Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, La tregua di Francesco Rosi, Auguri professore di Riccardo Milani, I piccoli maestri di Daniele Luchetti, Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Nel 2005 è uscito nelle sale il film documentario da lui scritto, diretto e interpretato, Un silenzio particolare. Riccardo Tozzi, produttore (Cattleya) Da molto tempo volevamo fare un film con Marco Tullio Giordana. Ma era sempre impegnato in progetti con altri produttori. Quando stava per girare La meglio gioventù, convenimmo finalmente che il successivo lo avremmo fatto insieme: ma non sapevamo quale. Alla fine delle riprese abbiamo cominciato a ragionare sul possibile soggetto, entusiasmandoci e cambiando poi idea per varie volte. Poi, all’inizio dello scorso anno, Marco Tullio mi ha raccontato lo spunto di Quando sei nato non puoi più nasconderti, col suo specialissimo titolo derivante dal libro di Maria Pace Ottieri: abbiamo subito capito che avevamo trovato quel che cercavamo. Una storia di ragazzi, un’avventura nel corso della quale avviene una crescita che cambia i giovani protagonisti e scuote il mondo degli adulti. Una storia personale che permette di toccare attraverso la verità dei personaggi, un lembo del grande mondo in cui si muovono. Per non perdere l’entusiasmo, e recuperare il tempo perduto, abbiamo deciso con Marco Tullio la data di uscita del film e, a ritroso, fatto una tabella di marcia per la sceneggiatura e le riprese. In tutto questo processo Rai Cinema, già decisiva per il successo de La meglio gioventù, ci è stata vicina con intelligenza imprenditoriale e capacità di comprendere le particolarità del progetto. Rulli e Petraglia, scelta naturale per la scrittura, hanno lavorato velocemente, con l’intesa sperimentata con Marco Tullio nel film precedente: prima dell’estate avevamo una bella sceneggiatura, appena un po’ lunga. Il film si prospettava complicato: un terza dell’azione si svolgeva in mare, luogo temuto dal cinema come nessun altro. All’inizio pensavamo di girare nella piscina di Malta: tecnicamente molto adatta. Ma poi abbiamo capito che la complessità dell’apparato avrebbe condizionato Marco Tullio, costringendolo nelle inquadrature e privandolo della libertà di cui aveva bisogno per lavorare col bambino. Così abbiamo deciso di andare per mare, dal vero, in Grecia e nelle coste pugliesi. Avevamo in acqua lo yacht, un bellissimo Swan, la carretta del mare, un barcone per le comparse, le barche per trasbordarle, la barca per le macchine da presa, le barche per la sicurezza e i collegamenti con la terra: un angolo del porto di Gallipoli era la base della flotta “Quando sei nato”. Il tempo ci e’ stato favorevole e non abbiamo avuto «naufragi», ma le riprese sono durate 1 4 settimane. Il film è costoso, e non avremmo potuto realizzarlo se oltre alla decisiva partecipazione di Rai Cinema come coproduttore e distributore (con 01 Distribution), non avessimo concluso accordi di coproduzione in Francia e in Inghilterra e di vendita internazionale. Ora il film è pronto, usciamo a maggio, in contemporanea con il Festival di Cannes, a cui partecipiamo in concorso. E’ atteso come un importante film europeo, frutto di questa nuova cinematografia italiana che all’estero è guardata con grande attenzione e fiducia, come l’annuncio di una possibile nuova bella stagione italiana. Alessio Boni, Bruno In questa seconda esperienza con Marco Tullio Giordana dopo La meglio gioventù, mi ha un po’ spiazzato il fatto che tutti noi dovevamo andare dietro al bambino, nessuno poteva seguire canoni precisi nella recitazione. Tante scene sono state cambiate, improvvisate lì per lì, perché Marco Tullio non voleva che mi preparassi troppo “a memoria”, voleva quasi una sorta di goffaggine nel modo di esprimersi perché il personaggio di Bruno viene su dal nulla, è una persona per bene ma gli è rimasto dentro qualcosa di rozzo. Marco Tullio ci chiede sempre la massima naturalezza. Spesso ci cambia le battute all’ultimo momento per impedirci di diventare meccanici. Usa la macchina da presa quasi come una candid camera, ci studia, ci ruba, come se stesse girando un documentario... Eravamo stati insieme a Brescia a fare i provini ai ragazzini. Marco Tullio me l’aveva chiesto perché sono di quelle parti, ho lo stesso accento dei bambini, potevo metterli a loro agio. Dopo aver visionato i provini, vedendomi che facevo la “spalla”, si è convinto di farmi fare il padre. Così ho iniziato un percorso a ritroso per ritrovare tutto quello che in Accademia avevo cercato di cancellare: l’accento di mio padre, di mio fratello, di mia madre! Con mia nonna posso parlare solo in bergamasco! Ho dovuto scordarmi tutte le lezioni di dizione. Per tre settimane me ne sono andato con Matteo Gadola sul Lago di Garda dai suoi zii. Ho studiato anche lui. Difficile che Matteo, non essendo un attore, potesse copiare me... avrei d ovuto essere io a copiare lui! Al padre di Matteo ho chiesto di raccontarmi il figlio, di descrivermelo, di “spiegarmelo”. Ma le vere informazione me le ha date Matteo, il rapporto diretto con lui. Mi piace Matteo, la sua intelligenza, la sua tenacia, la sua allegria, gli voglio molto bene. Sarebbe bello avere un figlio come lui. Il mio personaggio è il tipico padroncino, uno che si è fatto da solo. Sgobba come un matto, nessuno gli ha regalato niente. Sveglio, generoso... ma anche un po’ ignorante, benpensante, conformista. È attraverso il figlio che comincia a capire molte cose, che comincia a ragionare... Bruno non è un razzista, ha bisogno di quegli operai di colore, li conosce uno per uno, magari è un po’ paternalista, ma non è razzista. Il razzismo è tutt’intorno, nel disagio di chi non ha rapporti con loro e liquida la faccenda dicendo “Negri e terroni, tutti a casa loro”. Bruno non è così ma si sente ovviamente superiore a loro: i soldi, la villa, la fabbrica... Sparisce il figlio e improvvisamente tutto questo non ha più alcun valore. Come dice alla moglie: “Morto lui, morti noi...”. Quando lo ritroverà, il terrore di perderlo continua a lavorare. Capisce di essere in obbligo verso quegli straccioni lì che lo hanno salvato... È una delle scene di Bruno che preferisco: quando incontra Radu e non riesce quasi a parlare, gli bacia la mano... Alessio Boni ha studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e si è diplomato in recitazione con Orazio Costa Giovangigli a Taormina con un saggio tratto dall’Amleto di Shakespeare. Segue un corso di perfezionamento di Luca Ronconi e uno di recitazione teatrale a Los Angeles. Tra i suoi primi impegni teatrali: Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare regia di Peter Stein, Peer Gynt regia di Luca Ronconi e L’avaro di Molière regia di Giorgio Strehler. L’ultimo è La fortuna di David Auburn, regia di Enrico Maria Laman. Nel 2001 è l’interprete principale dello sceneggiato radiofonico Titanic sulle frequenze di Radiodue Rai, regia di Tom maso Sherman. In televisione è il protagonista di: Incantesimo 3 per la regia di Tommaso Sherman e Alessandro Cane, La donna del treno di Carlo Lizzani, L’altra donna di Anna Negri, mentre in Maria figlia di suo figlio di Massimo Costa è il Giovanni Battista. Inoltre ha preso parte a Un prete fra noi di Giorgio Capitani, Alla ricerca di Sherazade di Franco Giraldi, Mai con i quadri di Mario Caiano, Dracula di Roger Young, L’uomo del vento e Vite a perdere di Paolo Bianchini, Cime tempestose di Fabrizio Costa, La caccia di Massimo Spano. Ha esordito nel cinema nel film Diario di Matilde Manzoni di Lino Capolicchio. Nel 2003 ha interpretato il ruolo di Matteo Carati ne La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Nel 2004 ha girato ne La paura degli angeli di Angelo Longoni. Sta girando attualmente La bestia nel cuore di Cristina Comencini e Arrivederci, ciao di Michele Soavi. Michela Cescon, Lucia Di Marco Tullio Giordana conoscevo I cento passi, La meglio gioventù, Pasolini. Ci siamo conosciuti ai David di Donatello, c’è stata subito grande simpatia. Alcuni mesi dopo mi ha chiamata per questo film ancora misterioso. Mi ha raccontato la storia. Ero stata diverso tempo in tournée a Brescia, così gli ho raccontato due o tre cose sulla città. Mi ha detto: “La parte è piccola. Se riesco a costruire un personaggio che abbia un senso ti chiamo, altrimenti sei sprecata”. A metà agosto mi chiamò per iniziare la lavorazione. Io non sto lì a contare quante scene faccio, quante battute devo dire. Anzi, sul set ne abbiamo tagliate un sacco. La mia presenza è spesso quasi muta. Ho accettato il film senza leggere una sola pagina della sceneggiatura. C’è stata una strana coincidenza. Quando Marco Tullio mi ha detto i nomi dei personaggi mio e di Boni, mi ha colpito che fossero i nomi di mia madre e mio padre: Lucia e Bruno! Il cinema per me è ancora una novità. Dopo la cosiddetta “fortuna dei principianti” che ho avuto con Primo amore, con Marco Tullio mi sono resa conto che potevo realmente fare questo lavoro. Mi diceva due parole e io capivo esattamente cosa voleva. Si è costruito tutto ciak dopo ciak, cercando insieme una soluzione che venisse fuori con naturalezza. Sono stata molto felice. Con Alessio abbiamo costruito due persone per bene, solide, che si amano. La tragedia che li travolge li costringe a riflettere sulla loro vita. Quando ritrovano il figlio non riescono comunque più a cancellare la paura. Le sequenze del centro d’accoglienza di Lecce sono state le più belle da girare. Io sono giocherellona nella vita, il ciak non mi spaventa, entro nella scena e divento subito mamma. Quando ritrovo lì mio figlio, io vivo quel momento. Matteo Gadola è un attore nato, però non è che possiede una tecnica. Lavorare coi bambini è molto faticoso perché devi entrare completamente nel gioco, con molta precisione, altrimenti non li aiuti. Marco Tullio improvvisava molte scene, io andavo sul set molto libera. Nella scena in cui do i miei abiti agli immigrati, vado davvero in crisi, sento che è un problema enorme, angoscioso. Ti viene da dare tutto, però nello stesso tempo ti rendi conto che non basta. Ricordo d’avere letto a quindici anni una frase che m’è rimasta impressa: “Non dare per carità ciò che è dovuto per giustizia”. Di solito per costruire una scena, la studio tempo prima, ci metto tante informazioni. Poi la chiudo, la lascio lì, e quando Marco Tullio mi dice “la giriamo domani” vado a rileggerla cercando di semplificare tutto. Vado a recuperare i sentimenti basilari, difficili da spiegare. Per strane magie del lavoro tutte le cose che mi sono buttata dentro vengono fuori da sole. Vivo la scena ma la testa fa un’altra cosa…Felicità, rabbia , a me piace molto mescolare gli opposti. Il personaggio di Lucia mi assomiglia abbastanza, è piuttosto “comune”. I sentimenti materni, di protezione, li avevo in me. Un personaggio sfaccettato, anche se appare sporadicamente nel film. Ogni volta che compare però si sente che in lei è cambiato qualcosa, che è salita di un gradino. A me piace cesellare, sono pignola. Marco Tullio ha molto orecchio e ti fa delle osservazioni sempre assai precise. Non si accontenta mai, cerca sempre qualcosa in più e quando arriva l’acchiappa al volo. Michela Cescon si é diplomata alla scuola per giovani attori del “Teatro Stabile di Torino” diretta da Luca Ronconi, partecipa a corsi di studio e formazione tenuti dai docenti del GITIS di Mosca, dell’Institut del Teatre di Barcellona, da Jurij Al’sic e Bruce Myers. A teatro: Qualcosa di vero dev’esserci… e Ruy Blas entrambi per la regia di Luca Ronconi; Sogno di una notte di mezza estate e Ballo in maschera, Ophelia: Hamlet/Frammenti, Storia di Doro, Polinice e Antigone, Death and Dancing, Drive – Come ho imparato a guidare, Hamlet X, Nietzsche, la danza sull’abisso, Bedbound (costretti a letto), Baccanti tutti per la regia di Valter Malosti. Al cinema: Il teppista di Veronica Perugini, Primo amore di Matteo Garrone, Cuore sacro di Ferzan Ozpetek. Matteo Gadola, Sandro Non sono abituato a questo mondo, ho voglia di tornare alla mia vita, di tornare a quello che ero sempre stato. Gli amici, il gioco, la bicicletta, tutte le cose che avevo abbandonato. Quando da Lecce sono tornato a Brescia è vero che ho ritrovato un po’ tutto, però restavano comunque un sacco di scene da girare ancora. È stato molto stancante, non si deve pensare che fare l’attore sia un lavoro sempre divertente, sempre facile. Va bene che Marco Tullio me l’aveva preannunciato, però stressante stare lì ore e ore ad aspettare motore e azione, magari seduto o in piedi al freddo... La parte girata in Grecia è stata facilissima, era proprio come una vacanza. Eravamo io e Alessio e il Rodolfo Corsato che fa il Popi in questo paradiso. Poi le cose si sono complicate con il barcone e la barca a vela. Quando c’era mare grosso stavamo male, quando c’era tutta la calca sul barcone si stava peggio. Lo sporco, il bagnato, tutte quelle cose mi hanno stancato, non ne potevo più dalla stanchezza! Male male però sono stato solo una volta. È arrivato a scuola un fax in cui si diceva che stavano cercando un ragazzo bresciano per fare il protagonista di un film. Sono andato con tre miei amici, ho detto: “Sarà pur sempre una bella esperienza”. Siamo andati tutti a tre a fare il provino, in tre giorni diversi. Ho passato il primo provino e sono arrivato al secondo. Ho passato il secondo e - siccome la cosa si era fatta più grande di me ho deciso comunque che non potevo tornare indietro: o la va o la spacca! Ho fatto il terzo provino e mi sono ritrovato sul set! Dopo avermi scelto, Marco Tullio mi ha invitato con i miei genitori e mi ha spiegato la trama, quello che dovevo fare e che avrei vissuto e mi ha raccomandato di non montarmi la testa. Eravamo seduti attorno a un tavolo e mi ha raccontato tutta la storia del film. Mi ha raccontato del mio personaggio che – per strano che sembri - mi sembrava cucito addosso. Perché questo Sandro - che è un ragazzo di città, dodicenne, bravo a scuola, appassionato di libri - sembra un po’ la mia descrizione. Infatti sono rimasto stupito. Io abito in una zona famosa per la quantità di immigrati. Mi hanno detto che la conoscono perfino in tutta l’Africa! Ogni volta che passavo davanti al loro residence mi chiedevo: ma come hanno fatto a sopravvivere al viaggio (ne sentivo parlare in televisione), come fanno oggi a mantenersi? Vivono in dieci in queste stanze, con affitti altissimi. Come fanno a resistere, a sopravvivere quando il mondo gli tira tutto addosso? Questo film racconta più o meno una storia di questo genere, soltanto vista in modo più diretto. Sandro si pone anche lui quelle domande ma nessuno gli spiega bene finché non ci cade in mezzo e diventa come loro, vive nella loro stessa situazione. Trova lì le risposte alle domande che si è sempre posto. Il rapporto che ho con mia mamma è completamente diverso. Con la mamma finta sono molto più introverso, parlo poco con lei. Lei è un tipo molto timido, ha paura di farmi delle domande. Non osa chiedermi delle telefonate che faccio ad Alina e Radu. Mia mamma è molto più estroversa, le cose me le chiede e me le dice in faccia. Ho un rapporto molto più aperto con la mia mamma vera. Marco Tullio mi spiegava chiaramente come recitare, mi diceva sempre di immedesimarmi come se stessi vivendo quella situazione. Mi piaceva perché mi trattava uguale agli altri. Mi diceva che bastava che io pensassi le cose e la macchina da presa leggeva nel pensiero. Mi spiegava: “Sei arrabbiatissimo perché Alina se n’è andata... Sei preoccupato perché t’ha mandato quel messaggio...” Mi ha semplificato molto le cose lavorare con lui. Quando reciti non sei tu che stai vivendo quella situazione. Con Marco Tullio però te le porti dentro, soprattutto quando ho girato le scene a Brescia. Mi svegliavo la mattina, giravo, e quando lui diceva “azione” non ero più Matteo ero Sandro Lombardi! Quando tornavo a casa la sera ero teso perché ero ancora Sandro Lombardi. Solo al mattino ero me stesso. Adesso come adesso non posso valutare quello che diventerò. Però, se vedo che il film va bene e magari mi notano dei registi, dei produttori, e mi chiedono di fare altri film, vediamo. Magari accetto, magari da grande potrei pure provare a fare l’accademia d’arte, non so. Ho solo dodici anni, devo pensare a che liceo farò. Matteo Gadola è nato a Brescia il 26 giugno 1 992 e da allora non può più nascondersi. Frequenta con profitto la scuola Media Luigi Pirandello, non ha ancora deciso cosa farà da grande. Quando sei nato non puoi più nasconderti è il suo primo film. Potrebbe non essere l’ultimo. Giancarlo Basili, scenografo Abbiamo visitato vari Centri di Accoglienza e Centri di Permanenza Temporanea. Quello di San Foca ci fece molta impressione. Ricordo un pomeriggio passato a San Foca insieme a Marco Tullio: noi due soli, in mezzo agli ospiti, tutti in attesa di espulsione. Una sensazione di sofferenza e disperazione addirittura fisica... Ho continuato le ricerche finché non abbiamo trovato il complesso de La Badessa, a pochi chilometri da Lecce, una vecchia masseria con annesse costruzioni del ’60, utilizzata per accogliere gli stranieri durante gli sbarchi in massa del ’92. A Brescia abbiamo cercato per prima cosa la fabbrica dove lavorava il padre di Sandro. Ne ho viste diverse scoprendo che in molte gli extracomunitari erano la maggioranza. I titolari mi dicevano: “Senza di loro forse avrei dovuto chiudere”. Riferivo queste cose a Marco Tullio, mi sembrava che confermassero le sue intuizioni. Alla fine abbiamo scelto la Fabarm, un’azienda che produce fucili da caccia, anche se nel film non si vede. Ci piaceva la sua struttura architettonica, la disposizione dei macchinari, alcuni modernissimi, altri quasi “archeologici”. Sono stati molto disponibili, alcuni operai hanno anche recitato nel film. Abbiamo però fatto dei piccoli interventi anche lì. A me piace molto lavorare dal vero, modificare strutture già esistenti senza snaturarle. È un po’ la mia idea di cinema, quella che ritrovo in registi anche molto diversi tra loro coi quali ho lavorato, come Moretti, Amelio, Mazzacurati, Salvatores, Luchetti, Piccioni... Eravamo indecisi se dare alla casa della famiglia Lombardi le caratteristiche di una casa un po’ kitsch, come ne ho viste tante. Di gente che magari ha i soldi, tanti soldi, ma che al dunque mostra un gusto piccolo-borghese, di gente che si è fatta da sola ma che non sa niente, non compra un quadro, non legge un libro, ma era un po’ esagerato raccontarlo al cinema. Abbiamo pensato a una casa che avesse uno stile, magari hi tech. Non lo stile dei padroni di casa (non ne hanno!) ma dell’architetto che gliel’ha fatta trovare chiavi in mano. A Marco Tullio è piaciuta molto l’idea di questa specie di casa-capannone che un industriale rampante si fa costruire in collina senza metterci niente di proprio. Abbiamo trovato questa casa e grazie alla disponibilità dei suoi proprietari siamo intervenuti nell’arredamento per dargli una forza ancora maggiore. I proprietari della villa sembravano esattamente i personaggi del nostro film, stessa energia, stessa comunicativa, stessa voglia di godersi il benessere senza complessi. La “Corea” nella storia si trova a Milano ma noi l’abbiamo trovata a Brescia. Un ex Consorzio Agrario primo Novecento con ulteriori successivi interventi architettonici, un vero e proprio reperto di archeologia industriale. Ne abbiamo riutilizzato gli spazi riproducendo il mondo in cui vivono gli extracomunitari. Abbiamo rifatto il muro di cinta che il bambino scavalca. Abbiamo riarredato tutta la spianata delle roulotte. Il percorso che il bambino fa all’interno è stato ridisegnato completamente pulendo e arredando tutta la struttura. Abbiamo utilizzato solo la roba raccolta nelle discariche, la stessa che gli extracomunitari vanno a raccogliere per i loro alloggi. Alessandra Mura, la mia arredatrice, non ha noleggiato niente. Ha utilizzato i rifiuti presi dai cassonetti. Un lavoro enorme. Giancarlo Basili ha debuttato con Marco Ferreri in Chiedo asilo. Seguono: Gli occhi, la bocca di Marco Bellocchio, Una gita scolastica di Pupi Avati, Enrico IV di Marco Bellocchio, Noi tre di Pupi Avati, Festa di laurea di Pupi Avati, Notte italiana di Carlo Mazzacurati, Domani accadrà di Daniele Luchetti, Palombella rossa di Nanni Moretti, La settimana della sfinge di Daniele Luchetti, Il portaborse di Nanni Moretti, Arriva la bufera di Daniele Luchetti, Sud di Gabriele Salvatores, Strane storie di Sandro Baldoni, La scuola di Daniele Luchetti, Ovosodo di Paolo Virzì, Nirvana di Gabriele Salvatores, Così ridevano di Gianni Amelio, I piccoli maestri di Daniele Luchetti, Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni, Paz! di Renato De Maria, La stanza del figlio di Nanni Moretti, Io non ho paura di Gabriele Salvatores, Dillo con parole mie di Daniele Luchetti, L’amore ritrovato di Carlo Mazzacurati, Le chiavi di casa di Gianni Amelio. Maria Rita Barbera, costumista Marco Tullio mi ha raccontato il soggetto del film, una storia molto coinvolgente, mentre ancora lo stava scrivendo. A giugno ho iniziato a lavorare senza sapere ancora niente degli attori - i ragazzi, i genitori, il Popi etc. - che Marco Tullio stava ancora cercando. Sono andata in giro per i mercati dell’usato a via Sannio, a Porta Portese, per trovare di che vestire gli immigrati. In effetti è lì dove si riforniscono anche loro. Avevamo allestito una sartoria negli studi della ex-De Paolis e abbiamo cominciato a tingere, a riparare e “invecchiare” il materiale. A fine luglio abbiamo avuto finalmente gli attori e ho potuto studiare su di loro i costumi. Quando la vicenda del film è contemporanea è difficile realizzare dei bozzetti, a meno che non ci sia una precisa indicazione di regia. Quando sei nato non puoi più nasconderti è un film realistico, in cui ho fatto soprattutto un lavoro di documentazione e accumulo. I clandestini dovevano stare un mese sul barcone, quindi non avrei potuto usare i loro vestiti personali. Dovevo vestirli come se si trattasse di un film in costume. Man mano che cercavo gli abiti per i vari gruppi etnici, quando vedevo qualcosa che m’ispirava per i personaggi dei ragazzi lo mettevo da parte. Facevo dei blocchi: il blocco Alina, il blocco Radu... Più roba si accumula più ci sente tranquilli, perché si hanno più scelte da proporre al regista. Poi abbiamo provato i vestiti su di loro. In quella fase ci sono sempre delle sorprese, perché alcune cose funzionano e altre no. L’abito prende un po’ l’animo della persona che lo indossa. Un certo abito su una ragazzina può farla sembrare più grande, a un’altra fa l’effetto opposto. Senza gli attori il nostro è solo un lavoro teorico. Quando fai indossare gli abiti agli attori assieme al regista accade spesso di avere visioni diverse. In questo film non è successo quasi mai: Marco Tullio è molto accurato, ti racconta le cose, ti fa entrare nel suo mondo. Per un costumista è bello lavorare su una storia come questa che trasforma i personaggi e può evidenziare queste trasformazioni col costume. Per esempio la trasformazione di Alina nel finale. Deve impressionare: durante tutto il barcone e nel centro l’abbiamo vista vestita di stracci, sporca, i capelli mai lavati. Poi la ritroviamo in quel postaccio del finale; gli stivaloni, la minigonna, l’ombelico di fuori, truccata come Lolita. Mi faceva impressione conciarla così, ma è quello che purtroppo a queste ragazze capita quasi regolarmente. L’invecchiamento degli abiti degli immigranti è stato particolarmente curato. Marco Tullio vuole che la roba sembri vera, fosse per lui non ce la farebbe nemmeno lavare! Abbiamo stinto, sbiadito, ritinto. Più tempo hai per l’invecchiamento meglio riesce, diventa reale. Per creare gli aloni del sale, abbiamo continuamente bagnato i vestiti con l’acqua d i mare. Anche sul barcone durante le riprese continuavamo a invecchiarli perché sotto la luce del sole si vivacizzavano, non sembravano mai stinti abbastanza. Sul set, quando vedi il barcone così scrostato, vedi le facce delle comparse, vedi dove sono sistemati, fai l’ultimo lavoro di rifinitura perché capisci fin dove ti puoi spingere. Come vestono queste persone di Brescia che “si sono fatte da sole”? La borghesia locale non fa più come una volta che nasconde i soldi. Li esibisce anzi e l’abbigliamento fa “status” quanto la macchina o la bella casa. Si conoscono tutti, si sentono più protetti che nella metropoli, dove si preferisce l’anonimato. Ho fatto un sopralluogo a Brescia assieme a Marco Tullio per conoscere Matteo Gadola e i suoi genitori. Non che avessero l’esatta tipologia dei personaggi però si avvicinavano. Ho fatto un giro per il centro, ho guardato le vetrine, ho studiato i passanti. La security dei negozi mi guardava storto ma mi è servito molto per capire lo stile della città. Maria Rita Barbera è nata a Messina e si è diplomata presso l’istituto d’arte della sua città. Si è laureata in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Come assistente costumista ha lavorato con Marco Ferreri, (Storia di Piera, Il futuro è donna), Marco Bellocchio (Gli occhi, la bocca e Enrico IV), Nanni Moretti (La messa è finita). Come costumista ha firmato: Notte italiana di Carlo Mazzacurati, Disamistade di Gianfranco Cabiddu, Il prete bello di Carlo Mazzacurati, Palombella rossa di Nanni Moretti, Il por taborse di Daniele Luchetti, Un’altra vita di Carlo Mazzacurati, Arriva la bufera di Daniele Luchetti, Caro diario di Nanni Moretti, La scuola di Daniele Luchetti, I piccoli maestri di Daniele Luchetti, La stanza del figlio di Nanni Moretti, Luce dei miei occhi di Giuseppe Piccioni, Dillo con parole mie di Daniele Luchetti, La vita che vorrei di Giuseppe Piccioni, Te lo leggo negli occhi di Valia Santella. Roberto Forza, direttore della fotografia E’ il terzo film che Marco Tullio e io facciamo assieme, c’è ormai una conoscenza profonda che ci aiuta a capire quello che vorremmo fare. Grosso modo le principali situazioni fotografico/narrative sono tre: una prima a Brescia (la presentazione dei personaggi), una seconda “mediterranea” (il viaggio in mare, lo sbarco, il centro di accoglienza) e una terza di nuovo al Nord, ma in un contesto più invernale e psicologicamente freddo. Ognuno di questi blocchi aveva bisogno, a mio avviso, di una diversa atmosfera. Nella prima parte a Brescia - il film è appena iniziato, non vuole ancora svelare le sue carte predomina la luce diffusa e riflessa. Niente luci di taglio, niente controluce. La luce fredda del Nord ma senza che questa freddezza assuma connotati drammatici. Dopo il sopralluogo a Malta, poco ispirato dall’idea della piscina, Marco Tullio ha deciso di far tutto nel mare vero, anche supportato dal fatto che il nostro organizzatore Gianfranco Barbagallo, da velista appassionato, non avrebbe trascurato il minimo dettaglio, soprattutto dal punto di vista della sicurezza. Abbiamo scelto il golfo di Gallipoli proprio perché la posizione della penisola su cui sorge la città - con un isolotto proprio di fronte che protegge dalle correnti ci avrebbe permesso di girare anche con vento forte. Le scene notturne, dopo una lunga serie di provini, abbiamo deciso di girarle senza alcuna illuminazione artificiale, secondo il procedimento noto come “notte americana”. Funziona così: bisogna girare in controluce e sottoesporre la pellicola di almeno due stop. Poi in laboratorio si procede a una ulteriore correzione. Quante volte l’abbiamo visto nei gloriosi western di John Ford: la notte chiara illuminata dalla luna piena e John Wayne in silhouette che scende agile da cavallo! Venivano girate col sole a picco (non si potevano fare se era coperto) sottoesponendo e correggendo con filtri speciali l’eccessiva luminosità del cielo. Oggi le tecniche digitali rendono possibile di effettuare la ripresa addirittura con la normale esposizione e di procedere alle correzioni dopo, in post-produzione, con un controllo migliore di tutta la faccenda... Per lo sbarco degli immigranti abbiamo usato una tecnica quasi documentaria. C’erano le luci naturali del porto - le ho solo rinforzate - e le fotoelettriche della polizia. Tutto il resto sono illuminazioni interne alla scena: i fari delle auto, i lampeggianti delle ambulanze e dei cellulari dei Carabinieri. Avevamo tre unità che filmavano, ognuna per suo conto, tutto quello che succedeva. C’erano centinaia di comparse, veri poliziotti, veri carabinieri, veri finanzieri, veri addetti della Capitaneria, della Croce Rossa, della Misericordia. Erano veri anche gli immigrati, tutti reclutati in zona. Filmavamo come se stessimo facendo un réportage. Io stesso avevo una macchina da presa e ho filmato nello stesso stato adrenalinico di quando, da ragazzo, lavoravo per il telegiornale. Al Centro ho seguito i paradigmi dell’illuminazione tipica di queste strutture: grandi luci al neon attaccate al soffitto e poco altro per rinforzare. Preferisco non alterare troppo lo stato naturale delle cose, cerco di limitare il mio intervento, penso sia un errore “far vedere” la fotografia. Roberto Forza è nato a Rio de Janeiro il 26 settembre 1 957 . Titoli principali: Il grande Fausto (1 993) di Alberto Sironi, Cronaca di un amore violato (1 994) di Giacomo Battiato, Va’ dove ti porta il cuore (1 995) di Cristina Comencini, Silenzio si nasce (1 995) di Giovanni Veronesi, Esercizi di stile (1 996) episodi di Dino Risi, Mario Monicelli, Luigi Magni, Sergio Citti, Il ciclone (1 996) di Leonardo Pieraccioni, La piovra 8 (1 997) di Giacomo Battiato, La piovra 9 (1 998) di Giacomo Battiato, Più leggero non basta (1 998) di Elisabetta Lodoli, Matrimoni (1 998) di Cristina Comencini, Liberate i pesci (1 999) di Cristina Comencini, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, Nati stanchi (2001 ) di Dominick Tambasco, Liberi (2002) di Gianluca Maria Tavarelli, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, è già ieri (2003) di Giulio Manfredonia, Paolo Borsellino (2004) di Gianluca Maria Tavarelli. Roberto Missiroli, montatore Marco Tullio ha cominciato a parlarmi di questo film quando ancora lo stava elaborando e fin dalle prime descrizioni del soggetto ho avuto la percezione che sarebbe stato un film molto diverso dai precedenti, con una dimensione narrativa piuttosto elaborata. In questo film Marco Tullio ha girato moltissimo materiale, rendendo possibile organizzazioni del racconto anche molto diverse fra loro. Soprattutto le riprese di tipo quasi “documentaristico” - tipo le sequenze dello sbarco o quelle a bordo del barcone - che non seguivano uno schema narrativo vero e proprio. Si trattava di trovare da subito un “filo” interno, di tirar fuori dalle centinaia di inquadrature un racconto, un’emotività, un senso che era ben descritto in sceneggiatura ma non così evidente da subito nel materiale. Per la prima volta mi sono trovato a lavorare accanto al set, lontano dai tradizionali studi di Roma: Marco Tullio mi aveva pregato di stargli vicino non solo per stringere i tempi del montaggio ma anche per avere un maggiore controllo di quello che stava girando. Improvvisando molto - per via del fatto che lavorava coi bambini e vari attori non professionisti - voleva essere sicuro di non finire fuori strada. Visionando subito il materiale, ha avuto la possibilità di fare tutte le correzioni che riteneva opportune. Il fatto che il film veniva girato seguendo l’ordine delle sequenze dava l’idea del progredire, creava un ordine mentale più chiaro, tranquillizzava, perché vedevi che la narrazione si sviluppava seguendo un suo naturale svolgimento. Altre parti invece richiedevano uno sforzo costruttivo maggiore, in quanto basate su sguardi, silenzi. Ad esempio, per la sequenza in cui il bambino cade in mare di notte - che segna un cambio di registro vero e proprio all’interno del film. È stato girato tantissimo materiale: tutte quelle riprese da sole sarebbero bastate per un intero film! In montaggio si è trattato di trovare la dimensione emotiva, di rendere il senso di abbandono, l’angoscia che il bambino prova quando capisce che non si sono accorti di lui e che non torneranno indietro a prenderlo. In un primo tempo lo concepivo forse in chiave più “romantica”, mentre ora credo che sia più realistico pur senza perdere il suo respiro romanzesco. Un romanzo di oggi però, secco, tagliente, senza aggettivi, non l’epopea ottocentesca de La meglio gioventù. Anche l’uso molto parsimonioso della musica ci ha aiutato a creare questa dimensione che non rinuncia all’epicità del racconto ma non scivola mai verso il mélo. Mediamente i ragazzi esprimono con grande chiarezza i propri sentimenti. Matteo Gadola ad esempio è un attore bravissimo, con una capacità impressionante di stare davanti alla macchina da presa. Nei momenti in cui è stanco, non ha nessun supporto professionale che lo aiuti a nasconderlo, è trasparente come un vetro. Con un attore professionista invece, può essere più complicato non farsi ingannare quando usa la sua esperienza, il suo “mestiere”, per coprire un momento di distacco dalla scena che sta interpretando. Sono sfumature di cui il montaggio si nutre e che, appunto, in un attore bambino sono individuabili più facilmente. Roberto Missiroli è nato a Ravenna il 22 agosto 1 954. Titoli principali: L’albero della vita (1 987) di Abdul Kadir Amed, Corsa di primavera (1 989) di Giacomo Campiotti, Verso sera (1 990) di Francesca Archibugi, Adelaide (1 991 ) di Lucio Gaudino, La conchiglia (1 991 ) di Abdul Kadir Shaid Amed, Traditori del tempo (1 991 ) di Gherardo Fontana, Il giardino dei ciliegi (1992) di Antonello Aglioti, Il grande cocomero (1 992) di Francesca Archibugi, Per non dimenticare (1 992) di Massimo Martelli, Barnabo delle montagne (1 993) di Mario Brenta, Come due coccodrilli (1 994) di Giacomo Campiotti, Carogne (1 995) di Enrico Caria, Fare un film per me è vivere (1 995) di Enrica Fico Antonioni (special sul film Al di là delle nuvole di M. Antonioni), Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1 996) di Enza Negroni, Vite blindate (1 997) di Alessandro De Robilant, Il guerriero Camillo (1 998) di Claudio Bigagli, La ballata del lavavetri (1 998) di Peter Del Monte, Muzungu (1 998) di Massimo Martelli, Il tempo dell’amore (1 99) di G.Campiotti, I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, La rentrèe (2000) di Franco Angeli, Pasolini, le ragioni di un sogno (2001 ) di Laura Betti, Angela (2001 ) di Roberta Torre, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003), Il vestito della sposa di Fiorella Infascelli (2003), Per sempre (2004) di Alessandro di Robilant, Saimir (2004) di Francesco Munzi. Maria Pace Ottieri, scrittrice Sandro, il bambino, è un personaggio forte che fa da collante al film. Matteo Gadola è stato una scelta ottima, non c’è neanche un momento in cui suoni falso. L’irruzione degli immigrati era un tema rischioso. Nelle fiction televisive per esempio sono ormai entrati d’ufficio, come uno degli ingredienti tipici del nostro tempo, c’è sempre un immigrato che rappresenta la categoria. Comparsate abbastanza penose. Il film di Marco Tullio è del tutto diverso poiché loro sono i veri protagonisti, al di là e oltre il pretesto narrativo. Non sono retorici, non assecondano nessun’idea melensa che si possa avere su di loro. La scena iniziale dell’extracomunitario che scoppia a piangere serve a introdurre il titolo del film, che è anche il senso di fondo: “Quando sei nato non puoi più nasconderti” lo stesso titolo del mio libro. Ovvero: chiunque deve e può trovare il proprio posto nel mondo, siamo tutti uguali. Non è un merito nascere in Italia, non è una colpa nascere in Sudan. Quel personaggio uscito di senno racchiude tutte le difficoltà, le lacerazioni, gli ostacoli infiniti nell’incontro tra un individuo che viene da un altro Paese e una società come la nostra, così complessa e articolata. Una persona che non ce l’ha fatta, che potrebbe essere appena arrivato oppure invece che sta qui già da tempo ma dichiara la sua resa. La “Corea” milanese del film fa parte di quegli spazi tipo la caserma di Palermo o le case di ringhiera che descrivo nel mio libro. Posti completamente nuovi d elle città ove gli immigrati si reinventano un uso diverso e disperato di aree abbandonate. Spesso vengono demoliti per costruire nuovi edifici. Mi sembra bellissima quell’ambientazione del finale, oltre che una cosa inedita per il cinema. Brescia è una delle città che ha assorbito un maggior numero di immigrati. Le poche industrie rimanenti in Italia sono concentrate attorno a Brescia. Da quelle grandi come la Iveco fino alle fabbrichette con poche decine di operai, c’è stata una trasfusione quasi totale. Gli africani, marocchini e senegalesi in particolare, sono i nuovi abitanti della città. Lo dimostrano i loro bambini a scuola, in aumento esponenziale di anno in anno. Moltissimi si sono integrati, non solo nel senso che hanno i documenti a posto ma che partecipano alla società riuscendo a mantenere vive le loro tradizioni. I senegalesi ad esempio hanno un proprio luogo di culto a Pontevico, e lì ogni anno vi sono raduni oceanici in occasione di una loro festività di giugno. Così i pachistani, gli indiani, i sikh. La parte emersa dell’immigrazione è altrettanto importante di quella clandestina. Il personaggio interpretato da Alessio Boni è molto verosimile. L’operaio che si è fatto da solo, è diventato un medio industriale e dice quindi agli altri: “Ne avete di strada da fare. Io ho cominciato dal basso come voi e sono arrivato fin qui”. Il tipico padroncino dell’alta Italia. Suo figlio invece è la coscienza del film, l’unico che s’interroga su di loro come persone, già prima della sua caduta in mare. Ho sempre pensato che gli abitanti del nostro Paese fossero più avanti, spontaneamente, rispetto alle politiche nazionali. Non mancano conflitti, ma mi pare prevalga un’osmosi naturale, sia pure lenta. Dai bambini a scuola, all’interdipendenza delle famiglie dagli immigrati. Continuo a pensarlo e a sperarlo. Pur avendo un governo gretto, di corte vedute, e una legge Bossi-Fini che certamente non aiuta, forse tra una o due generazioni la m entalità delle persone cambierà. Vi sarà comunque una divaricazione sempre più forte tra chi arriva ora come clandestino, con una legislazione che si è irrigidita, e chi è giunto in Italia da più tempo e ha iniziato a comprare la casa con il mutuo, ad avere i figli a scuola che parlano italiano. Maria Pace Ottieri vive a Milano dove collabora a varie testate tra cui “l’Unità” e “Diario della Settimana”. Ha pubblicato il romanzo Amore Nero (Mondadori, 1 984, premio Viareggio Opera Prima) e Stranieri. Un atlante di voci (Rizzoli, 1 997). Con Nottetempo ha pubblicato nel 2003 Quando sei nato non puoi più nasconderti - Viaggio nel popolo sommerso e Abbandonami nel 2004.