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Jonas. Dal «Prometeo scatenato» all`etica della
Jonas. Dal «Prometeo scatenato» all'etica della responsabilita L'annuncio dell'era tecnologica è antico e Jonas ne coglie l'archetipo nel corso dell'Antigone di Sofocle, in cui l'uomo viene presentato come capace di dominare ogni cosa, tranne la morte. Ma nello stesso momento in cui si dice che l'uomo, in virtù della facoltà «autoappresa» del discorso, del pensiero e del sentimento sociale, è riuscito a costruire una casa per la sua autentica umanità, si dice anche che la violazione della natura e la civilizzazione dell'uomo vanno di pari passo: ‹Questo omaggio angosciato al potere angosciante dell'uomo narra della sua irruzione violenta e violentatrice nell'ordine cosmico, della sua temeraria invasione nelle varie sfere della natura...». Con il passare del tempo e con la realizzazione del sogno baconiano-faustiano di un dominio illimitato dell'uomo sul mondo è cresciuta anche la vulnerabilità della Terra, sino a generare la possibilità di una catastrofe ecologica comportante l'estinzione totale della vita. Da ciò la necessità di mettere le briglie alla galoppante avanzata di quel «Prometeo scatenato» che è il mondo della tecnica, tramite un'etica non utopica della responsabilità in grado di far fronte alle gravose incombenze dell'età presente. Il testo che analizziamo — e che funge da panoramica complessiva dei temi di fondo del filosofare di Jonas — è tratto dalla Prefazione a Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica. Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l'economia imprime un impulso incessante, esige un'etica che mediante autorestrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l'uomo. La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle, costituisce la tesi da cui prende le mosse questo volume. Essa va al di là della constatazione della minaccia fisica. La sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha lanciato con il suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell'uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all'essere umano dal suo stesso agire. Tutto è qui nuovo, dissimile dal passato sia nel genere che nelle dimensioni: ciò che l'uomo è oggi in grado di fare e, nell'irresistibile esercizio di tale facoltà, è costretto a continuare a fare, non ha eguali nell'esperienza passata, alla quale tutta la saggezza tradizionale sul comportamento giusto era improntata. Nessuna etica tradizionale ci ammaestra quindi sulle norme del «bene» e del «male» alle quali vanno subordinate le modalità interamente nuove del potere e delle sue possibili creazioni. La terra vergine della prassi collettiva, in cui ci siamo addentrati con l'alta tecnologia, è per la teoria etica ancora terra di nessuno. In questo vuoto (che è nel contempo anche il vuoto dell'odierno relativismo dei valori) si colloca l'indagine qui presentata. Che cosa può fornire un criterio? Lo stesso pericolo prefigurato dal pensiero! In questo suo balenarci incontro dal futuro, nella prefigurazione delle sue estensioni planetarie e delle sue durevoli conseguenze sull'uomo, è possibile scoprire alfine i principi etici da cui sono desumibili i nuovi doveri del nuovo potere. Definisco ciò «euristica della paura». Soltanto il previsto stravolgimento dell'uomo ci aiuta a cogliere il concetto di umanità che va preservato da quel pericolo. Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo che esso è in gioco. Poiché qui non si tratta soltanto del destino umano, ma anche dell'immagine dell'uomo, non soltanto di sopravvivenza fisica, ma anche di integrità dell'essere, l'etica che ha la funzione di salvaguardarle entrambe dev'essere, al di là della dimensione della prudenza, quella del rispetto (Ehrfurcht). La fondazione di una tale etica, non più legata alla sfera direttamente interpersonale del presente, deve estendersi alla metafisica, a partire dalla quale soltanto si potrà porre la questione del perché gli uomini debbano esistere nel mondo, del perché quindi valga l'imperativo incondizionato di assicurare la loro esistenza futura. L'avventura della tecnologia con le sue imprese arrischiate fino all'estremo costringe ad assumersi il rischio di una riflessione spinta all'estremo. Qui si tenterà tale fondazione, in \ contrasto con la rinuncia positivistico-analitica della filosofia contemporanea. Nell'ambito dell'ontologia verranno risollevate le antiche questioni concernenti il rapporto fra essere e dover essere, causa e scopo, natura e valore, per ancorare nell'essere, al di là del soggettivismo dei valori, il nuovo obbligo dell'uomo. Tuttavia il tema vero e proprio è costituito dalla comparsa stessa di questo nuovo obbligo, sintetizzato nel concetto di responsabilità. Pur non essendo certo un fenomeno nuovo in ambito morale, la responsabilità non ha mai avuto un tale oggetto e finora anche la teoria etica se ne è occupata poco. Sia il sapere che il potere erano troppo limitati per includere il futuro più lontano nelle previsioni e addirittura il globo terrestre nella coscienza della propria causalità. Anziché interrogarsi oziosamente sulle remote conseguenze in un destino ignoto, l'etica si è concentrata sulla qualità morale dell'atto momentaneo stesso, nel quale il diritto del prossimo che condivide 1 la nostra sorte ha da essere rispettato. Nel segno della tecnologia, però, l'etica ha a che vedere con azioni (sia pure non più del soggetto singolo) che hanno una portata causale senza eguali, accompagnate da una conoscenza del futuro che, per quanto incompleta, va egualmente al di là di ogni sapere precedente. A ciò si aggiunge la scala delle conseguenze a lungo termine e spesso anche la loro irreversibilità. Tutto ciò pone la responsabilità al centro dell'etica, con orizzonti temporali e spaziali corrispondenti appunto a quelli delle azioni. Per questo la teoria della responsabilità, a tutt'oggi una lacuna, costituisce il centro dell'opera. Dall'ampliamento della dimensione futura della responsabilità attuale consegue il tema conclusivo: l'utopia. La dinamica del progresso tecnologico mondiale in quanto tale racchiude in sé, tendenzialmente se non programmaticamente, un utopismo implicito. E la sola etica caratterizzata da una visione globale del futuro che già esista, il marxismo, ha elevato appunto, nel suo legame con la tecnica, l'utopia a fine esplicito. Questo impone una critica approfondita dell'ideale utopico. Poiché esso ha dalla sua i più antichi sogni dell'umanità e ora sembra trovare nella tecnica anche i mezzi per tradurre in pratica il sogno, l'utopismo un tempo innocuo è diventato la tentazione più pericolosa — proprio perché idealistica — per l'umanità odierna. All'immodestia dei suoi obiettivi, che mancano il bersaglio sotto il profilo sia ecologico che antropologico (com'è dimostrabile per l'uno e argomentabile filosoficamente per l'altro), il principio responsabilità contrappone il compito più modesto, dettato dalla paura e dal rispetto, di preservare all'uomo, nella residua ambiguità della sua libertà, che nessun mutamento delle circostanze può mai sopprimere, l'integrità del suo mondo e del suo essere contro gli abusi del suo potere. [Prefazione a il principio responsabilità] Analisi del testo L'irresistibile ascesa della tecnica, potenziata dalla scienza e alimentata dall'economia, esige un'etica che, mediante una serie di autolimitazioni, le impedisca di trasformarsi in una trappola fatale. Le promesse della tecnica si sono capovolte in minaccia e la sottomissione della natura all'uomo ha finito per concretizzarsi nella più grande sfida della storia. In seguito a questi sviluppi, assolutamente nuovi, si è trasformata la natura dell'agire umano. E poiché l'etica concerne l'agire, il mutamento nella natura dell'agire esige anche un mutamento nell'etica. La saggezza del passato e le etiche tradizionali risultano impotenti. Il mondo tecnologico sta ancora aspettando un'etica che sia all'altezza delle sue complesse dinamiche. Nel vuoto etico del presente, che si accompagna al dilagante relativismo dei valori, l'unica salvezza è rappresentata dalla «euristica della paura», cioè da una ricerca stimolata dal timore dell'apocalisse tecnologica. Ricerca che ha, come compito specifico, quello di individuare i principi etici da cui sono desumibili i nuovi doveri ecologici. Principi che devono salvaguardare non soltanto la sopravvivenza fisica, ma anche l'integrità dell'essere, e che quindi presuppongono non soltanto la prudenza, ma anche il rispetto (verso l'ambiente). La nuova etica richiede una fondazione extramorale di tipo metafisico, in quanto è obbligata a rispondere alla domanda: perché gli uomini devono esistere nel mondo? O, più in generale, perché l'essere è da preferire al nulla? L'avventura tecnologica, in contrasto con le interdizioni di tipo neopositivistico o analitico, ci spinge a riprendere le antiche questioni del rapporto fra essere e dover essere, natura e valore. Infatti, contro il soggettivismo moderno e il suo dogma ontologico (la legge di Hume: cioè il divieto di passare dall'essere al dover essere), si tratta di ancorare, nella struttura stessa dell'essere, il nuovo imperativo etico. La morale della tradizione, in quanto etica della prossimità spazio-temporale, non ha dato alla responsabilità l'importanza dovuta. Invece l'etica tecnologica, concentrandosi sugli effetti a lungo termine delle azioni umane, ha fatto, di essa, il centro propulsore del discorso filosofico, ovvero la nozione portante di ogni discorso globale intorno all'uomo e all'ambiente circostante. La dinamica tecnologica mondiale all'insegna del progresso porta in sé una spinta utopica, come dimostra il caso del marxismo, che ha coniugato escatologia e tecnica. A differenza di quello passato, l'utopismo odierno non è più un sogno innocuo, ma un progetto catastrofico, in quanto può mettere, a suo servizio, gli enormi mezzi dell'apparato tecnologico. All'euforia post-baconiana e all'immodestia dei suoi programmi, ecologicamente pericolosi e antropologicamente infondati, bisogna contrapporre un'etica non utopica della responsabilità, incentrata sul compito più modesto, ma più efficace (perché dettato dalla paura e dal rispetto), di conservare all'uomo l'integrità del suo essere e del suo mondo. Da ciò l'ideale, di cui parla Jonas in altri luoghi della sua opera, di un «potere sul potere», volto a limitare i danni causati dalla strapotenza della tecnica. 2 Jonas. Il nuovo imperativo categorico A differenza della morale tradizionale, che trascurava la valutazione delle conseguenze del nostro agire, o le valutava senza troppe complicazioni, visto che tali conseguenze esercitavano una limitata incidenza nello spazio e nel tempo, la nuova morale, ben consapevole degli effetti a medio-lungo periodo della tecnica, assume la forma di un'etica della previsione e della responsabilità. Inoltre, la morale tradizionale si interessava esclusivamente dell'uomo, trascurando la considerazione degli altri esseri. Oggigiorno la situazione è profondamente cambiata, in quanto l'umanità si trova nella circostanza inedita di tener conto sia della futura sopravvivenza della specie sia dell'ambiente circostante, che coincide ormai con l'intera biosfera del pianeta. Da ciò l'improrogabile necessità di passare da un'etica della prossimità a un'etica dei posteri e da un'etica antropocentrica a un'etica planetaria. Al posto del vecchio imperativo categorico di Kant, prospettato come il tipico prodotto dell'etica del passato, subentra quindi il nuovo imperativo ecologico. Il testo che analizziamo è tratto dal quinto paragrafo del primo capitolo di Il principio responsabilità. Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe press'a poco così: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra», oppure, tradotto in negativo: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita», oppure, semplicemente: «Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla terra», o ancora, tradotto nuovamente in positivo: «Includi nella tua scelta attuale l'integrità futura dell'uomo come oggetto della tua volontà». senz'altro evidente che nessuna contraddizione razionale è inerente alla violazione di questo tipo di imperativo. Io posso volere il bene attuale sacrificando quello futuro; come posso volere la mia fine, posso volere anche la fine dell'umanità. Senza cadere in contraddizione con me stesso, posso preferire, per me come anche per l'umanità, il breve fuoco d'artificio di un'estrema autorealizzazione alla noia di una continuazione infinita nella mediocrità. Ma il nuovo imperativo afferma appunto che possiamo sì mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella dell'umanità; e che Achille aveva sì il diritto di scegliere per sé una breve vita di imprese gloriose piuttosto che una lunga vita di sicurezza oscura (nell'assunto sottinteso che ci sarebbe stata una posterità a narrare le sue gesta); ma che noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell'essere di quelle attuali. Perché non abbiamo questo diritto e perché abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora né ‹<in sé» ha bisogno di esistere, e comunque in quanto non esistente non ne avanza la pretesa? Non è affatto facile dare una fondazione teorica a questi perché — e forse è impossibile senza la religione. Il nostro imperativo lo assume per il momento, senza fondarlo, come assioma. [Il principio responsabilità] Analisi del testo Jonas offre una serie di formule equivalenti del nuovo imperativo morale, che insistono tutte sulla necessità di salvaguardare la vita umana sulla Terra e che quindi contengono un riferimento di base al prossimo. Il fatto che si parli di vita umana non implica alcuna restrizione di tipo antropocentrico. Infatti, nell'età del «Prometeo scatenato», la salvaguardia della vita umana coincide con la salvaguardia della vita planetaria, ossia della vita in generale. La violazione dell'imperativo non implica contraddizione logica. Infatti, come ha sostenuto Jonas un po' prima, l'idea che l'umanità cessi di esistere non è affatto autocontraddittoria, come non lo è l'idea che la felicità delle generazioni presenti e di quelle immediatamente seguenti sia ottenuta al prezzo della sventura e della non esistenza delle generazioni future. Parimenti, non contraddittoria è l'idea opposta che l'esistenza e la felicità delle generazioni future siano ottenute al prezzo della sventura, e in parte persino della distruzione, di quella attuale. In breve, il sacrificio del futuro per il presente non è, logicamente parlando, più confutabile del sacrificio del presente per il futuro. La differenza è soltanto che in un caso la serie continua, nell'altro no. Ma il fatto che debba continuare, a prescindere dalla distribuzione di felicità e sventura, non è deducibile dalla regola dell'autocoerenza interna alla serie. Eppure, il nuovo imperativo afferma che noi non abbiamo il diritto di mettere a repentaglio la vita e la felicità delle generazioni future. Perché non possediamo tale diritto? E su che cosa si fonda il dovere di favorire ciò che non esiste ancora? Rispondere a questi interrogativi non è semplice. Forse addirittura impossibile, senza la religione. Di conseguenza, per il momento, è opportuno assumere l'imperativo alla stregua di un assioma. In realtà, come vedremo, per Jonas l'imperativo etico può essere giustificato non per via religiosa, bensì metafisica. 3 Jonas. Il bambino come oggetto originario della responsabilita La teoria filosofica di base di Jonas, la tesi secondo cui vi è un dover essere intrinseco all'essere, cioè un finalismo implicito nell'ordine delle cose, il quale fa sì che l'essere tenda ad autoperpetrarsi e che la vita esiga la conservazione della vita, trova il suo paradigma antico,» nella persona del neonato, il quale si configura come l'oggetto originario della responsabilità, ovvero, come spiega Jonas in questo passo, come l'archetipo di ogni responsabilità possibile. Il testo che analizziamo è tratto da Il principio responsabilità. A conclusione di queste riflessioni storicamente situate sulla teoria della responsabilità, ritorniamo ancora una volta all'archetipo atemporale di ogni responsabilità, quella dei genitori per il figlio. Essa è un archetipo sotto il profilo genetico e tipologico, ma in un certo senso anche sotto quello «gnoseologico», proprio in virtù della sua evidenza immediata. Il concetto di responsabilità implica quello del dover essere, anzitutto come normatività dell'essere di qualcosa e poi come normatività dell'agire di qualcuno in risposta a quella normatività dell'essere. Il diritto intrinseco dell'oggetto ha quindi la priorità. Soltanto una pretesa immanente all'essere può fondare oggettivamente un dovere di causalità transitiva dell'essere (che passa da un essere all'altro). L'oggettività deve provenire veramente dall'oggetto. Perciò, come (dopo Kant) tutte le prove dell'esistenza di Dio sono riducibili a quella ontologica o comunque da essa dipendenti, così tutte le prove della validità delle norme morali sono riconducibili in definitiva alla dimostrazione in qualche modo argomentabile di un dover essere «ontologico». Se questa dimostrabilità non disponesse di migliori argomenti di quelle, la teoria etica si troverebbe a mal partito, come in realtà accade oggi. Infatti la crux attuale della teoria è il presunto divario tra essere e dover essere, colmabile soltanto da un fiat, sia esso divino o umano — entrambe fonti estremamente problematiche di validità, l'una a causa della dubbia esistenza, sia pure alla presenza di un'autorità concessa in via ipotetica, l'altra a causa della mancanza di autorità, sia pure alla presenza fattuale della sua esistenza. Quel che la teoria nega è che da qualche ente in sé, nel suo essere già dato o soltanto possibile, possa emanare una sorta di «dover essere». Alla base sta qui il concetto del puro e semplice «è» — presente, passato o futuro. È perciò necessario un paradigma ontico nel quale l'«è» semplice, fattuale, coincida immediatamente con un «dover essere», negando quindi anche la sola possibilità di un «mero è». Esiste un simile paradigma? — chiederà il teorico rigoroso, che deve far finta di non sapere. Sì, sarà la risposta: ciò che è . stato l'inizio di ognuno di noi, quando non eravamo in grado di saperlo, ma che si offre continuamente allo sguardo, se siamo capaci di guardare e di conoscere. Infatti, come risposta all'esortazione: Mostrateci un unico caso — uno solo è sufficiente per infrangere il dogma ontologico! —, in cui abbia luogo quella coincidenza, si potrà indicare la cosa più familiare a tutti: il neonato, il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un «devi» all'ambiente circostante affinché si prenda cura di lui. Guarda e saprai! Dico «inconfutabilmente» e non «irresistibilmente», perché è naturalmente possibile resistere alla forza di questo come di ogni altro «devi»; il suo appello può incontrare insensibilità (anche se, perlomeno nel caso della madre, questo venga considerato una degenerazione) oppure essere soverchiato da altri «appelli», come ad esempio l'imposizione di abbandonare i bambini, di sacrificare i primogeniti e simili e persino dal puro istinto di autoconservazione; ma questo non toglie nulla all'inconfutabilità dell'istanza stessa e della sua evidenza immediata. Vorrei precisare che non si tratta di «implorazione» all'ambiente («prendetevi cura di me»), posto che il lattante non è ancora in grado di implorare e soprattutto, un'implorazione, anche quella più commovente, non è ancora vincolante. E neppure si parla qui di compassione, pietà o di qualunque sentimento possa subentrare da parte nostra, e nemmeno di amore. Intendo sostenere davvero in senso stretto che qui l'essere di un ente, sul semplice piano ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri; e lo postulerebbe anche se la natura non venisse in soccorso di questo dovere con la forza degli istinti e dei sentimenti. [Il principio responsabilità] Analisi del testo La responsabilità dei genitori per i figli rappresenta l'archetipo, cioè il modello o l'esemplare originario, di ogni responsabilità. E ciò sia dal punto di vista genetico (della provenienza) che tipologico (della forma o struttura) e gnoseologico (della evidenza immediata). Il concetto di responsabilità sottintende quello di dover essere: innanzitutto il dover essere di un determinato essere (il bambino) e poi il dover essere dell'agire di qualcuno (i genitori) in risposta al primo essere. Il 4 diritto, cioè il dover essere, dell'oggetto (dell'essere) risulta quindi primario e può legittimare l'esistenza di un dovere che passa (transitivamente) da un essere all'altro. Come tutte le prove dell'esistenza di Dio sono riducibili a quella ontologica, così tutte le prove della validità delle norme etiche sono riconducibili alla dimostrazione di un dover essere intrinseco all'essere. Se questa dimostrazione non ci fosse, l'etica si troverebbe in un vicolo cieco, come accade oggi, in cui il presunto abisso tra essere e dover essere, sanzionato dalla «legge di Hume», sembra superabile soltanto da un'iniziativa divina o umana. Entrambe fonti problematiche di validità, l'una a causa della dubbia esistenza, l'altra a causa della mancanza di autorità. L'ipotetico divario ontologico fra essere e dover essere può venir superato soltanto tramite un eventuale paradigma ontico nel quale il puro e semplice «è» coincida con un immediato «dover essere». Esiste un simile paradigma atto a infrangere il sopraccitato «dogma ontologico» (espressione con cui Jonas denota la moderna legge di Hume)? Il filosofo non ha dubbi. Tale paradigma esiste ed è il più antico con cui siamo entrati in contatto, pur senza esserne teoreticamente consapevoli. È il dover essere elementare insito nel puro «è» del neonato, il cui semplice respiro è già un monito all'ambiente circostante affinché si prenda cura di lui. Certo, a questo dover essere, come a tutti gli altri dover essere, è possibile resistere. Ciò non toglie nulla alla sua evidenza immediata. Evidenza che conserverebbe tutto il suo valore anche se la natura non venisse in aiuto di questo dovere con la potenza degli istinti e dei sentimenti. 5