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Uno "tsunami" di fango scatenato dall`ingordigia

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Uno "tsunami" di fango scatenato dall`ingordigia
"Nessuno quasi conosceva
i bacini di Prestavel,
raddoppiati negli ultimi anni,
nascosti alla vista anche
di chi transitava
in Val di Stava"
di Franco de Battaglia
A
A Stava, vent’anni dopo, la tragedia che investì la piccola valle di
prati e boschi fino a Tesero, trascinando uomini e case giù nell’Avisio, le distruzioni non si vedono più. Il paesaggio è stato ripristinato, gli alberghi ricostruiti, i turisti sono ritornati. Dello “tsunami”
di acqua e fango restano le cifre –
quasi un rosario di ricordi dolorosi – i nomi delle 268 vittime e quello dell’unica sopravissuta, Lucia
Morandini, salvatasi sotto le macerie del negozio del papà. Maria
Assunta Cara, invece, la ragazza
che tutta Italia imparò ad amare,
estratta dalle rovine dell’albergo
dove trascorreva l’estate, non riu-
il Trentino
Uno "tsunami"
di fango scatenato
dall'ingordigia
scì a sopravvivere e morì una settimana dopo quel 19 luglio 1985, nel
quale il bacino superiore di Prestavel, una discarica della vicina miniera di fluorite, ruppe gli argini,
si afflosciò su se stessa e trascinò
a valle 180 mila metri cubi di materiale, in una corsa assordante (le
case vicine udirono il rombo dell’acqua prima ancora di capire cosa stesse accadendo) di 4 chilometri e 200 metri che lasciò dietro di
sé macerie, morti, alberi sradicati.
Un solo tronco mozzato restò, nella piana di Stava, a segnare il disastro, come un monumento funebre.
Era mezzogiorno di una giornata
d’estate bellissima, assolata e az-
zurra, quando i bacini di Prestavel cedettero. Gli ospiti degli alberghi erano appena rientrati dalle
passeggiate per il pranzo. A Trento, quando le redazioni dei giornali furono avvertite che una diga era
crollata in Val di Fiemme (e ancora non si sapeva che il numero delle vittime sarebbe stato così alto) la
prima reazione fu di stupore, di incredibilità. Non esistono dighe in
Fiemme, a parte Stramentizzo e
Forte Buso, e né l’una né l’altra era
crollata. I torrenti hanno flussi modesti, soprattutto l’estate, non poteva essere un disastro di portata
tragica. Nessuno quasi conosceva
i bacini di Prestavel, raddoppiati
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negli ultimi anni, nascosti alla vista
anche di transitava in Val di Stava.
Quando poi la notizia venne confermata fu quasi impossibile trovare una fotografia del luogo. Solo
nei giorni successivi alcuni escursionisti rintracciarono nei loro archivi l’immagine delle due muraglie di terra sovrapposte, come una
crudele piramide azteca, sulla quale la modernità aveva consumato i
suoi crudeli sacrifici umani.
I primi giornalisti salirono senza
conoscere cosa li avrebbe aspettati. Non sapevano che avrebbero incontrato la più sconvolgente esperienza della loro professione e della loro vita, perché Stava
non era solo distruzione e morte,
era dispersione e lacerazione della vita, con le case tagliate a mezzo, gli abiti e i panni, le povere cose custodite nelle abitazioni oscenamente violentate ed esposte, lordate dal fango, trascinate sui muri
diroccati, appese sui rami degli alberi superstiti. Anche i corpi erano
spezzati e martoriati. Le prime telefonate in redazione, a frasi spezzate, con lunghe pause, denunciavano lo “shock” di chi era andato
sul posto.
E aveva visto.
Lo smarrimento si trasformava in
rabbia sconvolta via via che le notizie si completavano. Non poteva essere stata soltanto la natura
a compiere un disastro simile. E infatti non era “colpa” della natura.
Il diastro di Stava è stato totalmente opera dell’uomo, dei suoi scavi in miniera, del suo sedimentare
i depositi nelle vasche di lavaggio,
dell’accumulo incontrollato di fanghi, della mancanza di controlli,
della brama di guadagno a scapito
della sicurezza, dalla propensione,
così ancora frequente, ad usare il
territorio come una discarica invece che come un luogo di vita.
Ecco perché Stava divenne subito
anche un fatto “politico” oltre che
un disastro umanitario. Perché ri14
velò “l’altra faccia” di un Trentino che andava orgoglioso della sua
gestione territoriale e invece mostrava tante debolezze, tante omissioni, tanto lassismo in campo ambientale.
Oggi a Stava la tragedia è stata cancellata. Rimane però la percezione
di un dolore diffuso, quasi la malinconia di un’innocenza perduta, che
sembra essersi fissata nei colori della valle. Le vittime sono sepolte nella chiesetta di San Leonardo, il vero santuario di Stava. Il cimitero della cappella alpestre non fa tristezza,
è sempre pieno di fiori, di fronte alle
montagne, ma la lunga teoria di croci suscita un brivido anche nel ricordo dell’intensa visita del Papa Giovanni Paolo II, il 17 luglio 1988. Il ricordo di quella visita, quando ancora le ferite erano aperte, resta indelebile e costituisce quasi una svolta
nell’elaborazione del lutto da parte
dei familiari delle vittime e dei superstiti. Ricorda Graziano Lucchi,
infaticabile promotore del ricordo e
della consapevolezza (“Stava perché”?) della memoria e della ricostruzione: “Quella visita, così intensa, ha permesso a tanti di noi di
uscire dal tunnel della disperazione
e di intravedere una speranza di vita. Quel Papa inginocchiato fra i nostri morti, aggrappato alla croce che
poi ha stretto la mano ad ognuno di
noi. È stato lì, forse, che è iniziata la
ricostruzione dentro le nostre anime, premessa alla ricostruzione del
territorio”.
Quella di Stava è stata una ricostruzione lunga, ma completa, ed oggi
la valle è di nuovo bella, attraente
nella sua armonia fra paesaggio naturale e cultura umana. La ricostruzione è costata 26 milioni di Euro,
i risarcimenti complessivi, già tutti pagati sono ammontati complessivamente a 130 milioni di Euro. Le
iniziative giudiziarie, sul versante
penale, si sono concluse nel 1992,
con dieci condanne per omicidio
colposo plurimo e disastro: fra i condannati figurano i responsabili delle
società che si sono via via succedute nella gestione della miniera e due
ingegneri della Provincia, responsabili di omissioni nelle verifiche e
nei controlli: quelle discariche sembrano quasi dimenticate, il secondo
bacino di decantazione era stato costruito sull’onda di valutazioni tropo facili.
Ma proprio perché tutto è stato ricostruito la tragedia di Stava resta
come momento ineludibile nella
storia del Trentino, come uno snodo che non si può sciogliere, che
non si deve rimuovere. Perché è vero, aver ricostruito “tutto” significa
che il Trentino è capace di affrontare con coraggio il suo futuro, sapendo riconoscere i propri errori, volendo migliorare. Significa ancora
che il Trentino saprà “ricostruirsi”
su altre macerie che in questi anni
ha accumulato. Ma significa anche
riconoscere che la distruzione vi è
stata, non solo materiale, ma dentro
il Trentino
le coscienze, perché lo “tsunami” di
fango è stato scatenato dall’ingordigia, più su sempre più su con il bacino di terra di Prestavel. Significa anche richiamare tutte le piccole Stava che ogni giorno avvengono attorno a chi vive in questa terra bellissima. Ogni giorno un piccolo pezzo di Trentino muore nei territori sottratti all’agricoltura, e quindi
alla vita, nei capannoni osceni che
deturpano la storia di un paesaggio e la cornice delle relazioni interpersonali, nella velocità motorizzata
che miete – programmaticamente –
le vite dei più giovani, nell’inquinamento che provoca malattie e tumori mortali. A ognuna di queste grandi e piccole tragedie si potrebbe rispondere “Ricordate Stava!” Ricordatela per non ripeterla, ma anche
nel significato della sua ricostruzione. I rimedi, dopo tutto, sono possibili, le alternative praticabili, il riscatto necessario, purché si abbandoni la logica dello sfruttamento e
si ritorni all’uomo.
il Trentino
Se è così, celebrare i vent’anni intercorsi dal disastro di Stava va oltre
la preghiera sulla tomba delle vittime, va oltre la gratitudine ai soccorritori, che non a caso saranno al
centro delle giornate di luglio. L’abnegazione, la fatica delle centinaia
di volontari, vigili del fuoco, militari, infermieri, semplici cittadini accorsi da cinquanta città d’Italia, che
per settimane si sono prodigati nella valle sconvolta, costituiscono di
per sé un monumento. Ma “Ricordare Stava” significa anche tener
presente che l’uomo deve provare timore e rispetto per l’ambiente,
deve controllare le sue discariche i
suoi scarti, i suoi rifiuti. Deve farsene carico, non può “chiudere gli occhi”, non vedere e delegare ad altri.
È un discorso estremamente attuale, che comprende anche i “rifiuti
edilizi” nelle valli, gli inquinamenti
crescenti portati da un traffico uscito di controllo. Anche per questo il
retaggio forse più prezioso di Stava, la Fondazione Stava 1985 di cui
è presidente Graziano Lucchi, promuove la conoscenza di Stava non
solo come ricordo dei tragici fatti di
vent’anni fa, ma come “memoria”
per evitare che fatti simili si ripetano. Non a caso alla Fondazione aderiscono, oltre ai familiari delle vittime, ai sinistrati ed al Comune di Tesero anche Longarone, che ha subito la tragica ondata del Vajont e Cavalese con i due Cermis, la Comunità di Fiemme e la Magnifica. La
Fondazione con la sua documentazione, gli studi che promuove (dall’Australia è giunta una tesi di laurea su Stava) va oltre la tragedia per
prospettare il “rischio Stava” come
uno dei passaggi della nostra epoca. Una seconda Stava, molto simile
quanto a meccanismi distruttivi, si è
verificata in Bulgaria nel 1966. Dopo Stava altri 38 incidenti gravi, con
morti e feriti, si sono verificate in discariche di miniere.
Molto resta dunque da fare. Il Centro di Documentazione su Stava
(aperto tutti i giovedì dalle 15 alle 18) con il suo percorso didattico,
una registrazione di Andrea Castelli, un film che racconta con gli occhi
dei ragazzi di Tesero (che non hanno vissuto l’evento, ma ne serbano
nel loro Dna di paese la cicatrice)
servono a questo.
Il tempo e gli uomini hanno ripristinato il paesaggio di Stava, ma non
ne hanno rimosso il segno tragico.
Il ventennale resta come un monito
perché le ragioni della vita non vadano dimenticate rispetto a quelle
dello sfruttamento, perché gli equilibri della natura non vengano sconvolti, perché il senso del limite e
della misura non vengano travalicati. Perché le 268 vittime di Stava
non siano morte invano.
Tesero il giorno dopo: la gente è ancora
attonita per quello che è successo.
Foto Giovanni Cavulli
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