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5. Le promesse di Vittorio Emanuele II al Popolo

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5. Le promesse di Vittorio Emanuele II al Popolo
5° INCONTRO
Le promesse di Vittorio Emanuele II al Popolo Napoletano
e profili di alcuni nostri eroi ovvero“criminali di guerra”
Ed ecco le promesse che l’invasore del Regno delle due Sicilie si permise di fare ai
napoletani, promesse mai mantenute.
Vittorio Emanuele, Re d’Italia,
• PROMETTE ai suoi popoli d’Italia la felicità duratura, la libertà vera, quella
stessa per la quale avea sospirato tanti anni questo popolo oppresso.
• PROMETTE ai suoi popoli il diritto di aggregarsi, di formare una sola e
medesima famiglia, di affratellarsi e di inalberare altera la loro bandiera sugli
Appennini e nei mari della penisola.
• PROMETTE il più stretto legame tra principe e popoli, tra lui ed i suoi soggetti, e
questo legame sarà sacrosanto, sarà inalterabile, né mai forza d’uomo o di
avvenimenti potrà infrangerlo.
• PROMETTE ai Napoletani un ministero di uomini integerrimi, di menti
illuminate, e liberali, che un solo principio avranno da mettere al livello del
popolo quello della sua libertà e dei suoi interessi.
• PROMETTE un nuovo ordine di cose, una nuova amministrazione, che possa
rendere i beneficii ed i vantaggi dell’equità.
• PROMETTE l’integro adempimento delle leggi, per la quale non più la legge sarà
un nome vano ed effimero, un inganno menato innanzi al popolo, una rete per
attrarvi gl’indesiderati, una illusione per mascherare la realtà.
• PROMETTE la istruzione dei suoi popoli, ma non quella superficiale ed
ingannatrice che rende gli uomini malvagi ed egoisti.
• PROMETTE la libertà di coscienza e non quella specie d’Inquisizione che finora
ha scrutinato fino i pensieri, la quale solo può dare la vera religione quella
dell’Evangelo, quella di Cristo.
• PROMETTE l’incremento dell’agricoltura e del commercio: due elementi
essenziali della ricchezza pubblica.
• PROMETTE di distruggere il monopolio che finora ha reso miserabile il nostro
popolo dando a dismisura dovizie ai pochi malvagi.
• PROMETTE un avvenire assicurato non più ondeggiante, non più incerto, non più
provvisorio.
• PROMETTE che tutto il passato e fino le cose ultime fatte a suo nome debba
ritenersi come provvisorio e quindi sottoporsi a novello e maturo esame.
• PROMETTE sollevare le arti, le scienze, l’industria a quel sublime grado del
quale l’ultimo governo l’avea fatte ignominiosamente decoro.
• PROMETTE nuovi tesori all’economia pubblica, e nuove strade ferrate e nuovi
modi di prosperità.
• PROMETTE impieghi a coloro che hanno merito civile e speciale non più
all’intrigo e alla gabale.
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• PROMETTE lavoro e pane ai bracciali, a coloro che sostengono le loro famiglie
con la fatica giornaliera delle loro mani.
• PROMETTE queste cose e mille altre nel suo statuto che se vedranno col patto e
con l’esperienza e che saranno di noi sì lunga stagione oppressi ciò che nei più
ardenti voti del nostro nome abbiamo desiderato.
Viva dunque l’Italia e Vittorio Emanuele.
Ma chi era Vittorio Emanuele II?
Vittorio Emanuele II è nato tra il 13 e il 14 marzo del 1820 e fu battezzato con i nomi
di Vittorio Emanuele, Maria, Alberto, Eugenio, Ferdinando, Tommaso. Due anni
dopo la madre ebbe un altro figlio che battezzò con i nomi di
Ferdinando,Maria,Alberto, Amedeo, Filiberto, Vincenzo.Fin da bambino si è rivelato
un personaggio assai strano, bizzarro, ambiguo. I suoi modi erano talmente ordinari
che Massimo D’Azeglio confidò alle pagine del suo diario che il vero principe era
tragicamente morto in un incendio e che era stato sostituito con il figlio di un certo
Tanaca, macellaio di Porta Romana a Firenze. Forse è una leggenda ma chi la
accreditò doveva essere piuttosto preoccupato di spiegare l’infima regalità del
personaggio. Era basso e tarchiato ( a 40 anni pesava oltre 100 chili ed aveva un
sedere esuberante che per ampiezza era simile alla grancassa di un tamburo) e non
rassomigliava in nulla allo slanciato e altissimo Carlo Alberto : i pittori che lo
ritraevano dovevano cambiare il suo aspetto altrimenti erano fucilati come successe
per due di essi. Le sue maniere diventavano sempre più volgari ad onta del
soprannome “re galantuomo” che poi gli fu affibiato.
Entrambi i bimbi vennero affidati a un gruppo di precettori, uomini antiquati, scelti
soltanto in base al loro zelo per la corona, vecchi di età e di idee. Erano inflessibili
ma Vittorio Emanuele considerava la conoscenza una perdita di tempo. Le sue erano
inclinazioni primitive, quasi animalesche. Gli piacevano i cavalli e le galoppate, la
caccia e la corsa, dietro gli animali, nei boschi, la sciabola ed i duelli all’arma bianca.
I libri lo innervosivano. La madre in una lettera indirizzata al padre Ferdinando III,
granduca di Toscana, scrisse : “Io non so veramente da dove sia uscito codesto
ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi e si direbbe venuto per farci disperare tutti
quanti”. Il padre Carlo Alberto ridusse al minimo i contatti umani con il figlio. Nella
sua vita ha parlato sempre in dialetto e ne conosceva bene due dei tre che si parlavano
in Piemonte. Ecco un esempio:
-D’Azeglio e La Marmora suggerirono al re il nome di Cavour quale migliore
personaggio in circolazione cui affidare il governo. V.E., mostrando una grossa
indecisione rispose: “E va bin, coma ca vuelo lor. Ma ca stago sicur che col lì an poc
temp an lo fica ant’el pronio a tutti”.
-Nel 1870, a Palazzo Pitti a Firenze, Quintino Sella, nel portargli i risultati del
plebiscito romano gli disse :”Vostra Maestà deve essere oggi molto lieto”. Ed egli
rispose:
“Ca staga ciutu; am resta nen aut che tireme un coulp de revolver; per l’on c’am
resta da vivre ai sarà pi nen de piè” A voi la traduzione.
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A 18 anni Vittorio Emanuele, nel castello di Moncalieri, ruscì a convincere una
cameriera a fare l’amore con lui. E da qui iniziarono le sue avventure galanti. Alle
signore dell’alta società, eleganti e raffinate, preferiva le contadinotte bellocce e le
popolane compiacenti. Preferiva la paglia dei fienili ai letti. Sposò Maria Adelaide,
figlia dell’arciduca Giuseppe Ranieri, vicerè del Lombardo-Veneto, dalla quale ebbe
otto figli. Incontrava la moglie solo nel letto coniugale mentre di giorno conduceva
una vita da scapolo. Si faceva portare ragazze al palazzo che egli chiamava “graziose
emigranti” ( oggi le ragazze vengono chiamate “escort”) con le quali in pochi minuti,
in un breve intervallo dagli impegni politici, le faceva spogliare perché amava che le
donne si presentassero nude con scarpettine e calzette e, fumando sigari d’Avana, si
divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano intorno e…se partecipava all’atto
amoroso, ruggiva come un leone…( da Carlo Dossi, letterato di quel tempo) ( oggi
le escort stanno una notte intera e per alcune ore passeggiano per la stanza nude, con
uno o più libri in testa: vanno solo per incassare i mille euro promessi). Spesso era lui
a uscire dal palazzo e partiva per alcuni giorni con un seguito di gentiluomini a
coprire le fughe e scappatelle (oggi ci sono oltre trenta guardie del corpo). Ma anche
in questo caso i suoi piaceri risultavano rapidi e senza impegno, disordinati senza
finezze né fantasia.
Per inciso voglio ricordare che nello stesso modo si comportava Benito Mussolini.
Ogni giorno arrivava una ragazza a Palazzo Venezia e le udienze erotiche erano una
specie di mordi e fuggi.
Vittorio Emanuele ebbe una figlia da Vittoria Duplessis, un figlio da una maestrina di
Frabosa, due figli da Virginia Rho, ebbe una relazione con Maria Wyse e poi
convinse Urbano Rattazzi a sposarla. Fece sposare sua figlia Maria Clotilde a
Girolamo Napoleone di Francia, fratello dell’imperatore, pur sapendo che la ragazza
andava incontro ad un pessimo matrimonio e Girolamo non l’avrebbe fatta mai felice.
Lo chiamavano “Plon Plon” per il suo modo di camminare e di esprimersi.
Fece mettere a posto una cascina nella tenuta della “Mandria” e si sistemò in due
stanze. A sinistra fece alloggiare la moglie con i figli ufficiali e a destra l’amante
Rosa Vercellana con i figli morganatici.
(Nota: i figli Umberto e Amedeo si sposarono con Margherita di Savoia e con Maria
Vittoria dal Pozzo ma continuarono a frequentare le loro amanti e per averle più
facilmente a portata di mano, le fecero nominare dame di compagnia delle mogli.
Maria Vittoria morì di crepacuore mentre Margherita si rifece con il capitano dei
corazzieri Antonio Bosisio dal quale, secondo voci ben informate, ebbe il figlio
Vittorio Emanuele, destinato, anche lui, alla corona con il numero III e
soprannominato “sciaboletta”.)
Quanto i capelli incominciarono a brizzolarsi, usava il lucido delle scarpe per
annerirli e spesso lasciava l’impronta della sua testa sui letti che frequentava. Una
volta, a Firenze, mentre presenziava ad una cerimonia ufficiale, scoppiò un forte
acquazzone e la pioggia cominciò a sciogliergli il colore che scivolò lungo il colletto
della camicia.
Ancora un aneddoto : Vittorio Emanuele s’era invaghito di Emma Ivon,
giovanissima, figlia di un suonatore d’oboe e, dopo una giornata d’amore, per tenere
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a corte Emma,( oggi le facciamo diventare o ministri o deputati o consiglieri regionali
o assessori ecc.), la fece sposare a un funzionario della real casa, un tal Pessina. Una
sera Vittorio Emanuele bussò alla porta della ragazza, la quale non l’aspettava e
rimase molto sorpresa. Il re entrò e vide che, sotto il letto, con i pantaloni in mano,
c’era il suo aiutante di campo, il barone Francesco De Renzis, che aveva conquistato
la piazza d’onore nella corsa galante. Per il re fu una grandissima umiliazione e due
giorni dopo, senza motivo, fece arrestare il barone e lo rinchiuse in una cella di rigore
di Alessandria. Si vendicò come un cornuto.
Vittorio Emanuele pensava solo a se stesso, disinteressandosi del governo, tanto
firmava tutto quello che gli portavano i primi ministri. Aveva un appannaggio di 16
milioni, pari al 2 per cento del bilancio complessivo dello stato. Aveva mantenuto i
palazzi di casa Savoia e rastrellò tutti i beni mobili e immobili delle case regnanti
spodestate ed i suoi immobili raggiunsero il numero di 343. Egli in un anno spendeva
il doppio di quello che spendevano tutti gli altri regnanti prima del 1860. E per
aumentare le sue entrate, faceva aumentare in continuazione le tasse specialmente al
Sud tanto è che l’economista Alain Dewerpe ha scritto “I popoli del Sud furono
trattati come un popolo da colonizzare e da sfruttare. La politica fiscale fu così dura
da sembrare confisca”
Vittorio Emanuele dette il colpo decisivo della sua credibilità al momento della
proclamazione del regno. Tutti gli chiedevano di incoronarsi col nome di Vittorio
Emanuele I perché si inaugurava un nuovo regime, egli oppose il più irremovibile dei
rifiuti: era Vittorio Emanuele II del regno del Piemonte e Vittorio Emanuele II, re
d’Italia perché il suo Stato si era allungato dalle Alpi marittime fino alla punta
estrema della Sicilia.
Il 27 gennaio 1861, di domenica, hanno luogo le elezioni per la formazione del primo
parlamento dell’Italia unita e la legge elettorale piemontese stabiliva il diritto di voto
solo ai cittadini maschi, in possesso dei diritti civili e politici, di età superiore ai 25
anni, che sapessero leggere e scrivere e che, percettori di reddito, pagassero imposte
per almeno 40 lire annue. A questi venivano aggiunti tutti coloro che potevano far
valere i diritti stabiliti dalla “legge delle guarentigie” e cioè professori, magistrati,
notai, ufficiali, esercenti attività commerciali e industriali ecc. Questo valeva solo per
la camera dei deputati mentre per il Senato la nomina era del re. Nel 1861 l’Italia
contava 21 milioni di abitanti, aventi diritto al voto risultarono 418.695. I votanti, in
tutta l’Italia, furono 170.567. Elessero come deputati: 85 nobili, 72 avvocati, 52 tra
liberi professionisti e docenti universitari, 28 ufficiali dell’esercito. Totale 237
deputati, cui bastò una media di circa 700 voti a testa per essere eletti e risultò anche
che qualcuno fu eletto con pochissimi voti come Garibaldi che ottenne solo 39 voti di
preferenza. Massimo D’azeglio affermò: “…Questa Camera rappresenta l’Italia,
come io rappresento il gran sultano turco”. Il nuovo Parlamento si riunì il 18 febbraio
1861 ed il quel preciso momento la situazione delle legislature era la seguente: Regno
di Sardegna: sette; Regno d’Italia: zero. Si riuniva la prima legislatura del nuovo
regno d’Italia. Quale numero attribuire a questa legislatura unitaria? Gli fu attribuito
il numero otto: ottava legislatura.
Morì a Roma il 25 gennaio del 1878.
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Ed ora vediamo chi era Cavour.
Nacque a Torino il 10 agosto 1810 da antica famiglia nobiliare, venne educato dalla
madre ginevrina anche al calvinismo. Suo padre Michele era funzionario napoleonico
prima e poi capo della polizia torinese. Camillo Benso conte di Cavour non si
lasciava mai nessuna occasione per trarre ogni possibile vantaggio dalla propria
posizione. Il padre si era occupato di diverse speculazioni finanziarie che erano state
vantaggiose per lui portando alla rovina molte persone. Padre e figlio avevano
velleità politiche. Ma… un giorno a Torino ci fu una grave carestia, il prezzo del pane
salì a livelli insostenibili, la gente moriva di fame. Camillo Benso di Cavour era
proprietario dei mulini di Collegno, noti perché vi si faceva incetta di farina e grano.
La popolazione si radunò sotto le finestre del suo palazzo, una folla affamata che
chiedeva pane. Il Cavour, di fronte a questi miseri piegati dalla carestia, lui emblema
dei liberali e dei massoni, ordinò alle forze armate di disperdere a colpi di baionetta
quella folla affamata e molesta. Molti di quei disgraziati morirono ed alcuni furono
portati in carcere per aver osato chiedere pane. Nel 1831 Camillo Benso si
entusiasmò per la rivoluzione di luglio in Francia ed iniziò una serie di viaggi in
Europa durante i quali mostrò un vivo interesse per lo sviluppo capitalistico moderno,
soprattutto inglese. Era un fervido ammiratore del liberismo economico e politico del
mondo anglosassone. Anche lui come il padre iniziò a speculare sull’agricoltura,sulle
industrie, sul commercio, sulle banche e spesso, come dice Michelangelo Castelli,
capo degli archivi di Torino, tali speculazioni si chiudevano in perdite ma il conte, in
pratica, guadagnava sempre coll’imbrogliare la gente. Nel 1848 fu eletto deputato e
nel 1852 ottenne la carica di primo ministro attraverso una spregiudicata alleanza con
la sinistra di Urbano Rattazzi. Questa alleanza Denis Mack Smith la definì
l’antesignana del famigerato trasformismo. Oggi noi elettori, adusi alle più
improbabili alleanze tra i politici pur di mantenere il potere, dobbiamo riconoscere
che Cavour ed i piemontesi sono stati i precursori della politica attuale. Lo scopo di
Cavour era quello di ridurre all’impotenza l’opposizione, rappresentata
dall’aristocrazia fondiaria e clericale .
Nel 1854 Cavour, per guadagnarsi l’appoggio delle potenze straniere, copiò dal conte
Charles Renè di Montalembert il motto, che poi fece suo, “libera Chiesa in libero
stato” e per guadagnarsi l’appoggio delle forze protestanti e massoniche, incominciò
a sferrare il suo attacco alla religione cattolica. In nome della libertà fece chiudere
monasteri e conventi, gettando per la strada i frati e le suore che li abitavano e
disperdendo tesori artistici di inestimabile valore; vietò le donazioni alla chiesa e le
processioni, soppresse le scuole cattoliche e proibì la circolazione delle encicliche
pontificie. Fanfaronava Cavour “libera chiesa in libero stato” ma la libertà dov’era?
Si riempiva solo la bocca e faceva a scrivere inutili faziose pagine sui gionali, come
avviene adesso su “Libero” e “Il Giornale”. E a propositò di libertà, Cavour nel 1857
fece annullare l’ elezioni avendo visto un successo inaspettato delle forze cattoliche.
Nel 1855 partecipò alla guerra di Crimea per portare il “problema” italiano
all’attenzione della diplomazia europea. In realtà le trattative per l’intervento del
Piemonte in Crimea furono tutt’altro che un trionfo di diplomazia (il giornale
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“Armonia” piemontese il 30 gennaio 1855 scriveva: “L’alleanza era avvenuta a
condizioni non troppo onorevoli e che da essa vi erano da attendersi solo umiliazione,
guerra e debiti”. Alla sua origine vi era soltanto la disperata situazione finanziaria del
Piemonte e Cavour aveva venduto 15.000 soldati in cambio di un prestito di 25
milioni) ed alla fine Cavour riuscì ad imicarsi Francia ed Inghilterra perché queste
avevano i loro interessi ad immischiarsi negli affari del regno delle due Sicilie. Prima
della partenza, nella baia di San Fruttuoso, si incendiò la nave che trasportava il
materiale sanitario e non fu mai rimpiazzato e fu proprio per questo che oltre duemila
piemontesi morirono per malattia. Il contributo alla guerra fu vergognosamente
marginale e Cavour il 13 bebbraio 1856, quando partì per Parigi era consapevole di
non ottenere niente.
A Parigi, poiché la politica savoiarda veniva disposta a Londra da Albert Pike e Lord
Palmerston, con il rappresentante inglese portò all’attenzione delle potenze europee la
questione italiana, secondo gli inglesi ed i piemontesi, dicendo: “Gli italiani gemono
sotto il dispotismo pontificio e borbonico” Una grossa bugia che aprì contrasti con la
chiesa ma servì al Cavour per guadagnare il suo successo personale. Una bugia che
egli portò fino in fondo. Per Cavour valeva il motto : “ Il fine giustifica i mezzi”.
Cavour fu ritenuto “Gran Maestro in pectore del Grande Oriente” e la conferma
l’abbiamo dagli scritti di San Giovanni Bosco :”…qui, in Piemonte, Cavour fu uno
dei capi della massoneria…..”
Nella sua convinzione, Cavour era convinto ( anche adesso i governanti lo sono:
infatti dopo il 15 agosto è iniziata la compravendita dei finiani) che il denaro poteva
comprare tutto, aveva provato a corrompere anche il papa. Infatti nel gennaio del
1861, nel tentativo di trattare la cessione di Roma, mandò, come negoziatore del
governo di Torino, il medico Diomede Pantaleoni con in borsa cento napoleoni d’oro.
Per corrempere i prelati, Pantaleoni poteva spendere molto di più e Cavour a
Pantaleoni scrisse: “…Le faccio facoltà di spendere quanto reputerà necessario per
amicarsi gli agenti subalterni della curia.Quanto poi occorresse di ricorrere a mezzi
identici, ma sopra larga scala, per pesci grossi, me li indicherà, ed io vedrò di metterli
in opera, valendomi però di altra via di quella dei negoziatori che saranno lei e il
padre. Dio voglia che i suoi sforzi siano coronati da esito prospero. Ella avrà
associato il suo nome al più gran fatto dei tempi moderni”
Morì il 6 giugno del 1861, quasi certamente avvelenato.
Ed ora diciamo qualcosa su Giuseppe Garibaldi
E’ stato chiamato l’eroe dei due mondi dalla storiella romantica mentre a Garibaldi fu
attribuito il soprannome di “Eroe dei due milioni”. Egli, nella sua vita, ha pianto
sempre miseria tanto è che diceva “che aveva donato un regno ai Savoia senza nulla
chiedere per sé”. Povero, Garibaldi, non lo era mai stato, infatti nel 1854 aveva
abbastanza denaro per comprarsi l’isola di Caprera e quando si ritirò nella sua isola,
che gli storici prezzolati scrissero con un sacco di lenticchie, la sua azienda agricola
contava trenta dipendenti e cinquecento capi di bestiame . Inoltre il governo deliberò
per Garibaldi un “dono di gratitudine nazionale” di ben cinquantamila lire l’anno, vita
natural durante, al fine di garantire benessere alla sua famiglia. Si trattava di una
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somma enorme, pari alla rendita di due milioni di lire in oro, che ispirò alla “Civiltà
Cattolica” il nomignolo “Eroe dei due milioni”.
Garìbaldi nacque a Nizza marittima il 4 luglio 1807, si dice su una barca a remi; il
padre Domenico era un capitano della marina mercantile. Giovanissimo s’imbarcò
come mozzo su un brigantino “Costanza” e poi navigò col padre; nel 1833 si iscrisse
alla “Giovine Italia”. Il suo aspetto era molto deludente, molto dissimile dalle
immagine che ce l’hanno mostrato. Non superava il metro e sessanta e assumeva una
postura curva piuttosto incerta dovuta a dolori reumatici cronici avuti fin da ragazzo.
Ecco il rapporto dei suoi insegnanti inviato dalla scuola frequentata da Garibaldi a
Cavour:
“Ragazzo di scarsissima intelligenza, forse un minorato mentale, quello che
volgarmente si chiamerebbe “un cretino”. Ignorante come una talpa, non ha mai
chiesto un libro da leggere nella nostra biblioteca. Interessato solo al proprio aspetto
fisico. Passa intere mattinate a provare abiti di diversi colori e a guardarsi a un
grosso specchio che ha voluto nella sua stanza. Si veste in maniera bizzarra; con
mantelline di lana colorate, che lui chiama “poncho”. Non esce mai senza un curioso
tamburino ricamato in testa. E’ molto disordinato e molto profumato.”
I suoi capelli erano di un biondiccio spento e scuro ed erano lunghi per coprire un
orecchio mozzato ed a privarlo del padiglione auricolare fu una ragazza della quale
Garibaldi stava cercando di abusare. E Filippo Curletti ci dice che “era pazzamente
ambizioso della popolarità della strada, senza intelligenza politica, senza istruzione e
mediocre amministratore”.
Per tutta la vita lavorò al servizio degli Inglesi, dai quali fu protetto oltre ogni limite.
Svolse una continua attività di pirateria al soldo dei potenti e non si sottrasse ad atti di
rapina, saccheggio, omicidio per mezzo di bande armate costituite da delinquenti e
ladroni. Si arruolò fra i marinai sabaudi per sobillarli contro il re, ma fu scoperto e
condannato a morte per alto tradimento. Riuscì a fuggire, con l’aiuto degli Inglesi, e
raggiunse il Sudamerica. Anche qui si guadagnava da vivere arrembando navi
argentine per conto dell’Inghilterra e nelle sue Memorie dice che i suoi “uomini
saccheggiano, macellano e fanno a pezzi animali e uomini, come fiere scatenate”.
Nel 1844 in Uraguay venne iniziato alla massoneria prima presso la loggia dissidente
“Asilo della Vertud” e poi presso la loggia “Amis de la Patrie” riconosciuta dalla
Francia. Il 17 marzo 1862 gli fu conferito a Torino il 33° grado del Rito scozzese,
mentre nel 1881 ottenne la suprema carica di “Gran Hierofante”. Il suo
anticlericalismo ossessivo faceva della chiesa il suo principale nemico e questo per
ingraziarsi ancora di più la massoneria. Egli diceva “la nostra vittoria su Dio sarà
l’acclamata rivendicazione delle libertà di coscienza ed il trionfo della ragione sul
pregiudizio”. I garibaldini, infatti, tutti generalmente di origine pessima e per lo più
ladra, in ogni paese entravano nelle chiese, profanavano altari, razziavano arredi,
deridevano e vessavano i sacerdoti e spesso reclutavano delinquenti e Luigi
Pirandello denunciò tutte le devastazioni compiute in Sicilia dai delinquenti ai quali i
“liberatori” avevano aperte le galere. (Tra parentesi voglio dire che ancora oggi siamo
sopraffatti dalla delinquenza, costretti a vivere guardandoci alle spalle, a chiudere le
case come fossero prigioni e non ci dobbiamo stupire se sentiamo dire che un
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delinquente macchiatosi di un orribile delitto era già stato arrestato sette volte e
sempre rilasciato perché oggi buona parte di politici, di tutte le bandiere, magistrati,
uomini di chiesa, sono alleati dei delinquenti e a noi dimostrano che essi non riescano
a resistere alla tentazione di imbottire le loro coscienze contro l’ipocrita benevolenza
verso i malfattori). Basta con i falsi eroi, basta con le scelleratezze e cerchiamo di
eliminare dalla televisione queste storture perché i giovani cercano di imitarle.
Eliminiamo ciò che è stato congegnato, costruito, inventato sul criminale di guerra
“Garibaldi” al solo scopo di giustificarlo sul piano del diritto internazionale e
parliamo dell’inammissibile aggressione, senza alcuna dichiarazione di guerra, a uno
stato sovrano da parte di un corpo guidato da un privato cittadino ma con l’appoggio,
di nascosto, oltre che dal governo piemontese, dai francesi e dagli inglesi. Lo sbarco a
Marsala di Garibaldi sarebbe stato un fallimento, come quello di Pisacane, se non si
fossero trovate a Marsala le navi Inglesi “Argus e Intrepid” e non ci fosse stata la
totale arrendevolezza dei generali borbonici, arrendevolezza semplicemente comprata
a suon di monete d’oro, in quello che fu uno dei più vistosi casi di corruzione che
generarono il nuovo stato, corruzione che viene ancora mantenuta, non è mai morta,
anzi viene sempre più alimentata in caso di crisi istituzionali.
Per tutto vale l’esempio di Francesco Landi a Catalafimi. Dopo la sconfitta dei
garibaldini, Nino Bixio, vedendo la superiorità indiscutibile dell’esercito borbonico,
aveva già avvisato i suoi uomini di prepararsi alla ritirata quando Garibaldi lo zittì
con la famosa frase : “Qui o si fa l’Italia o si muore!” Nello stesso istante il Landi
suonò un’inspiegabile ritirata sorprendendo tutti. Il Landi era stato comprato per di
più a basso prezzo o, come si dice, Garibaldi gli aveva fatto “il pacco”, infatti quando
si recò al banco di Napoli per riscuotere la polizza di 14.000 ducati, si udì rispondere
che il documento era stato falsificato. La cifra da riscuotere era di 14 ducati. Gli prese
un colpo apoplettico e morì maledicendo quel “ladro di Garibaldi”. E Giulio De Vita
ha detto: “che la marcia trionfale nel sud da parte dei garibaldini è stata catalizzata
dall’oro.” Quindi non l’eroismo e le gesta delle camicie rosse ma l’oro versato dagli
inglesi permise la resa di Palermo e altre città meridionali. Gli inglesi avevano tre
motivi per aiutare Garibaldi: 1) colpire il Papato nel suo centro temporale, cioè
l’Italia, agevolando la formazione di uno Stato protestante e laico; 2) controllare la
flotta commerciale borbonica in forte crescita e principale concorrente di quella
inglese nel mondo; 3) assicurarsi il monopolio commerciale con la Sicilia, prima
produttrice mondiale di zolfo.
Da questo si può dedurre che l’impresa piratesca di Garibaldi in Sicilia fu voluta
dagli inglesi e Garibaldi continuava ad essere al servizio di questi e la resa dell’isola
venne firmata su una nave inglese.
Per inciso voglio dirvi che il poeta Ippolito Nievo, che oltre a cantare le gesta e lodi
di Garibaldi come cronista ufficiale dell’impresa, era il tesoriere della spedizione,
gestiva i fondi segreti delle camicie rosse, la sera del 4-5 marzo 1861 s’imbarcò sulla
nave “Ercole” per Napoli. La nave, con mare calmo, affondò per l’esplosione di una
caldaia e morirono oltre al Nievo, di appena 30 anni, dodici passeggeri e 63 membri
d’equipaggio. La nave Ercole fu sabotata, anche se non ci furono indagini, perché a
bordo il Nievo, oltre a sapere troppo, conduceva seco dodici bauli di documenti sulla
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gestione dei quattrini razziati per l’impresa, e per agi,ozi e vizi del condottiero e della
sua corte e tutta la documentazione finanziaria, compresa quella relativa alle piastre
turche ricevute da Garibaldi e quella relativa al sacco del Banco di Sicilia che aveva
fruttato molti milioni. Buona parte di questo tesoro era stato speso non solo in
corruzioni ma anche usato per arricchire i Garibaldini ( un aneddoto: le donne che
viaggiavano con i Garibaldini, si dice, erano molto fedeli e due di esse,Jessie White e
la sua compagna, durante uno scontro dei garibaldini, si tolsero le mutande e ne
fecero bende per i feriti) E poiché a Torino erano sorte polemiche ed era stata chiesta
una precisa rendicontazione, per non far consegnare i libri contabili, il cantore delle
geste garibaldine venne sacrificato e tutto finì in pochi secondi in fondo agli abissi
marini. E pensare che Ippolito Nievo aveva messo la sua penna al servizio dei
garibaldini e aveva definito “storpio e imbecille, e monco” chi non aveva voluto
seguire il suo eroe Garibaldi ( come d’altrode avviene adesso per tanti nostri politici),
ma il Nievo non poteva pensare che Garibaldi era pronto a sacrificare i fedelissimi
per denaro, a uccidere gli amici per coprire uno scandalo. Quindi possiamo ben dire
che la storia d’Italia cominciava con truffe, corruzioni, omicidi e attentati per
mascherarli. E a mascherarli ci sono riusciti visto che ancora oggi i ragazzi delle
scuole gioiscono alle glorie dell’impresa dei mille, al valore di questi prodi in camicia
rossa che fecero crollare il più antico regno d’Italia con la convivenza degli Inglesi.
La regina Maria Sofia comprese subito che la caduta del suo regno era causato dal
denaro profuso per convincere i generali borbonici a ritirarsi senza combattere; e sui
mezzi usati da Garibaldi, spronato da Cavour, anche il re Vittorio Emanuele aveva
dei dubbi e dopo la favoletta di Teano, scriveva a Cavour “……Ho liquidato
rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi sebbene, siatene certo, questo
personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso
ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il
male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro
dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha
seguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione
spaventosa”
Garibaldi ebbe tre mogli, tra le quali non si annovera Anita, già sposata con un
calzolaio, il quale morì in circostanze sospette e mai si trovò il suo corpo. Anita
aveva tre figli che Garibaldi li legittimò. Nel 1860 sposò la diciottenne marchesina
lombarda Giuseppina Raimondi ma nello stesso giorno la ripudiò, avendo scoperto
che era in attesa di un bimbo da un altro uomo. Si dice che ebbe otto figli dalle sue
fugaci relazioni con schiave di colore brasiliane e donne della servitù.
Dopo la presa di Roma nel 1870, Garibaldi si ritirò a Caprera mentre i due figli di
Anita, Ricciotti e Menotti (il terzo era una figlia di nome Teresina), si dedicarono, a
Roma, a speculazioni edilizie, prendendo parte attiva a quel “sacco urbanistico” che,
in pochi anni, vide sorgere orrendi edifici al posto di parchi, rovine antiche, palazzi
medioevali e rinascimentali. Lo scempio della città eterna non valse tuttavia a
riempire le tasche dei due inetti giovani, i quali, dopo alcuni investimenti sbagliati,
andarono a chiedere altri soldi al padre.
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Garibaldi il 2 giugno 1882 chiudeva per sempre gli occhi sui suoi misfatti, rifiutando
sprezzante ogni conforto religioso.
Qualcosa su Nino Bixio, altro criminale di guerra, è di prammatica.
Nacque a Genova il 2 ottobre 1821 e nel 1846 già faceva parte della Giovine Italia.
Partecipò alla spedizione dei mille ed in Sicilia, a Bronte, in provincia di Catania,
legò per sempre il suo nome alla tragica cruenta repressione di una rivolta di
contadini. Di questo episodio di Bronte già abbiamo parlato e, dopo Bronte, Bixio fu
uno degli organizzatori dell’immensa truffa dei plebisciti. Così Nino Bixio si ritagliò
un posto fra i padri della patria liberando il Sud. Egli non apprezzava il Sud, come
oggi i leghisti, ed alla moglie scriveva: “il Sud era un paese sprezzante, non basta
uccidere il nemico, bisogna straziarlo, bruciarlo vivo a fuoco lento…sono regioni che
bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare i caffoni in Africa a farsi
civili”. Noi meridionali, che paghiamo ancora le conseguenze di quell’intromissione
violenta e fraudolenta, ci domandiamo come poteva Nino Bixio permettersi di
giudicare la terra che egli stesso aveva lordato di sangue, di giudicare la gente che
egli stesso aveva imbrogliato e minacciato, come poteva permettersi a chicchessia
dove andare a prendere quelle lezioni di civiltà che lui non si era mai preoccupato di
seguire e che certo non aveva contribuito a dare? Il 1866 vide il “prode” impegnato
nella battaglia di Custoza ed è ben noto con quali imbarazzanti risultati. Nel 1870 il
senatore Bixio partecipò alla presa di Roma continuando a cannoneggiare la città
santa dopo la resa ma offrendo grande esempio di civiltà ordinando di puntare i
cannoni sul centro abitato e sull’ospedale di San Gallicano senza preoccuparsi di
uccidere quelle persone che diceva di essere lì per liberare. Morì il 16 dicembre 1873
di colera sull’isola di Sumatra.
Parliamo ancora di altri criminali di guerra, che non meritano nemmeno di essere
menzionati, ma la cosa grave è che in Italia ci sono ancora strade ed edifici dedicati a
loro.
Enrico Cialdini nacque a Castelvetro di Modena l’8 agosto 1811. E’ passato alla
storia come un grande generale italiano e, dopo l’assedio di Gaeta, ottenne l’onorifico
titolo di duca di Gaeta. In questo episodio e nella repressione del brigantaggio si è
comportato come un criminale di guerra. Contro la fortezza di Gaeta faceva sparare
oltre cinquecento cannonate al giorno. Gli abitanti morivano insieme ai soldati ed i
feriti erano moltissimi rendendo la situazione degli ospedali sempre più critica. Ai
cadaveri, ad un certo punto, non era più possibile dare sepoltura e incominciava ad
espandersi il tifo. Quando ogni resistenza parve inutile, si cominciò a pensare alla
resa per cercare di evitare ulteriori spargimenti di sangue. Iniziarono le trattative ma
Cialdini non volle interrompere i bombardamenti e li rinnovò con maggiore furore e
spiegava al Cavour : “sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose
per noi”. E la sua cattiveria arrivò a tanto che, dopo la capitolazione e la firma, ordinò
di colpire la polveriera della batteria Transilvania per uccidere un ragazzo di sedici
anni, Carlo Giordano. Inoltre continuò a far sparare sulle macerie per impedire i
soccorsi e ad uccidere i barellieri mentre gli ufficiali piemontesi battevano le mani
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come uno spettacolo (dalle Memorie del ministro Pietro Calà d’Ulloa). Il 14 febbraio
1861 il re e la regina lasciarono Gaeta sulla nave francese “Mouette” e furono
condotti a Terracina, in territorio pontificio.
Cialdini, quinto padre della patria, si diede alla repressione del brigantaggio e nel suo
rapporto ufficiale a Torino, per i primi tre mesi, nel solo napoletano, riportò queste
cifre: 8.968 fucilati, tra i quali 64 preti e 22 frati; 10.604 feriti; 7.112 prigionieri; 918
case incendiate; 6 paesi rasi al suolo; 2.905 famiglie perquisite; 12 chiese
saccheggiate; 13.629 deportati; 1.428 comuni posti in stato d’assedio.
ED AVEVANO DETTO CHE C’ERA LA LIBERTA’! ( Da Giovanni Verga:
Novelle rusticane (Libertà)).
Il Cialdini fu il responsabile dei cruenti eccidi di Casalduni, Montefalcione,
Pontelandolfo. Morì a Livorno nel 1892 e si disse che “nemmeno la morte lo
desiderava!!!”
Si potrebbe parlare ancora di tanti criminali di guerra ma voglio ricordare la visione
avuta da Antonio Ciano (da un suo libro) nel gennaio del 1995 nel recarsi a
Pontelandolfo. Ciano era con l’amico Pischetto che guidava e, durante il tragitto da
Gaeta, continuava a leggere a voce alta“Storia delle due Sicilie” di Giacinto de’ Sivo.
Si immedesimarono tanto nella lettura che vedevavo Pontelandolfo e Casalduni in
fiamme. Erano increduli, tanto che Ciano chiese : Pischè, vedi le fiamme? E
Pischetto: Fa un freddo cane, voglio scaldarmi. Dietro una curva , prima di
Pontelandolfo, scorsero una specie di piramide tronca, alta 50 metri, di marmo
bianchissimo, sembrava posata lì da una forza superiore. Era una lapide con la scritta
“FECCIA ITALIA” e con i seguenti nomi:
Vittorio Emanuele II, criminale di guerra
Camillo Benso di Cavour,criminale di guerra
Bettino Ricasoli, criminale di guerra
Enrico Cialdini, criminale di guerra
Ferdinando Pinelli, criminale di guerra
Pietro Fumel, criminale di guerra
Gaetano Negri, criminale di guerra
Carlo Melegari, criminale di guerra
Alfonso Ferrero La Marmora, criminale di guerra
Giacomo Durando, criminale di guerra
Carlo Pellion di Persano,criminale di guerra
Giuseppe Garibaldi, criminale di guerra
Nino Bixio, criminale di guerra
Seguivano altre migliaia di nomi.
Ed oggi assistiamo ancora alla sfacciataggine dei vizi mascherati da virtù, la furbesca
furfanteria che muta i crimini in atti scaltri e dal grande impatto mass-mediatico, le
frodi e le corruzioni in astuzie, le teorie vuote e astratte in regole di vita, e, a cercare
di rendere più accettabile il tutto, quella sottile ipocrisia capace di spolverare su un
cumulo di macerie un poco di belletto, e far dimenticare tutto con molte chiacchiere e
pochi fatti, come se nulla fosse, perché in fondo bisogna vivere, cioè illudersi.
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Poche notizie su Giuseppe Mazzini, nato a Genova il 22 maggio del 1805. A 23 anni
progettò l’omicidio dell’imperatore d’Austria e del principe di Metternich. Si iscrisse
alla carboneria e qui teneva assidui rapporti con un certo Sgarzaro che si vantava di
aver annegato 53 frati gettandoli legati, a due a due, dalla nave in mare aperto.
Arrestato, fu costretto all’esilio ed a Marsiglia nel 1831 fondò la Giovine Italia,
ispirata a principi repubblicani, mettendo a punto la sua “dottrina dell’assassinio”.
Infatti, per lui, coloro che si rifiutavano di obbedire “dovranno essere uccisi sul posto,
pugnalati senza pietà, abbattuti da una mano invisibile mentre gli avversari politici
erano considerati tiranni da mettere a morte”. Nel 1834 creò la Giovine Europea.
Reperiva soldi nel mondo anglosassone presso i massoni tra i quali George Roosevelt
e Horace Greely. La propaganda mazziniana ebbe proseliti solo in Piemonte ed in
Liguria dove si preparava un’insurrezione. Scoperti dal re Carlo Alberto, 27 furono
condannati a morte e cento furono incarcerati con varie pene. L’amico più caro del
Mazzini, Jacopo Ruffini, che in Italia seguiva le sue direttive, si suicidò in carcere
vergognandosi per quello che voleva attuare.
Ricordatevi che mai Mazzini ha rischiato la sua vita! Egli preparava i progetti, tutti
falliti, ed inviava altre persone come: il gruppo di rivoltosi che dalla Svizzera doveva
penetrare nella Savoia, le manovre messe in atto in Sicilia, negli Abruzzi, in Toscana,
nel Lombardo-Veneto ecc. Visto che i suoi tentativi fallivano regolarmente, per
continuare la sua opera sovversiva si mise sotto la protezione delle logge massoniche
con le quali si fece promotore di svariati omicidi e attentati. Si servì di Adriano
Lemmi, che chiamava “il mio piccolo giudeo che vale dieci buoni diavoli”, di Felice
Orsini, Michele Bakunin, Lajos Kossuth, Alexander Herzen ed altri ai quali è da
attribuire la maggior parte degli attentati terroristici che funestarono in quel periodo
l’Europa. Lemmi attentò il 21 ottobre del 1852 alla vita del ministro di Toscana
Baldasseroli e poco dopo attentò alla vita dell’imperatore d’Austria, Felice Orsini
cercò di uccidere Napoleone III. A Roma Lemmi nel 1854 attentò al cardinale
Antonelli e al gesuita Becks e nello stesso anno Mazzini con i suoi accoliti decretò la
condanna a morte del duca di Parma, Carlo III, che cadde il 27 marzo sotto lo stiletto
di un sicario. Nel 1856 decise di assassinare il re di Napoli e l’8 dicembre, mentre
Ferdinando II passava in rassegna le sue truppe, Agesilao Milano, scelto da Lemmi,
gli sparò due colpi di baionetta che colpirono il re senza ucciderlo. Il Milano fu
catturato e condannato a morte mentre Mazzini faceva coniare in suo onore una
medaglia commemorativa qualificandolo come “martire”. Da questo deduciamo che
per Mazzini i martiri sono gli assassini che vengono scoperti e puniti dalle leggi
vigenti. Ancora oggi, i delinquenti e gli assassini, anziché essere puniti con condanne
esemplari, per lo più la fanno franca. E se la libertà non l’ottengono subito, basta una
leggina per agevolarli, vedi amnistia o “Processo breve”. Dopo l’unità la figura di
Mazzini finì nell’ombra ma, nonostante ciò, nel 1864 gli venne conferito il 33° grado
della massoneria e nel 1868 fu proclamato Venerabile perpetuo della loggia
massonica di Lodi. Il 6 febbraio 1872 si stabilì a Pisa sotto il nome di dottor Brown e
qui morì il 10 marzo
Antonio Orazzo
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