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quaderni di filologia e lingue romanze
quaderni di lologia e lingue romanze QUADERNI DI FILOLOGIA E LINGUE ROMANZE Ricerche svolte nell’Università di Macerata Annuale Direzione Giulia Mastrangelo Latini Comitato Scientifico Gabriella Almanza Ciotti – Daniela Cingolani – Daniela Fabiani Thais Fernandez – Marinella Mariani – Giulia Mastrangelo Latini Luca Pierdominici – Amanda Salvioni – Silvia Vecchi La Direzione e il Comitato scientifico non sono responsabili delle opinioni e dei giudizi espressi dai singoli collaboratori nei propri articoli. Per proposte di scambio e corrispondenza si prega di rivolgersi a: Luca Pierdominici Dipartimento di Scienze dell’Educazione e della Formazione Università degli Studi di Macerata piazzale L. Bertelli, contrada Vallebona – 62100 Macerata Daniela Fabiani Dipartimento di Lingue e Letterature Moderne Università degli Studi di Macerata corso Cavour – 62100 Macerata QUADERNI DI FILOLOGIA E LINGUE ROMANZE Ricerche svolte nell’Università di Macerata Terza serie 24 2009 Aracne Copyright © MMXI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 issn 1971–4858 isbn 978–88–548–4228–1 libro isbn 978–88–548–4228–1 versione digitale I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 febbraio 2009, n. 31, dall’art. 7, comma 4: Non sono soggetti ad apposizione del contrassegno né a dichiarazione sostitutiva i supporti allegati ad opere librarie i quali riproducono in tutto o in parte il contenuto delle opere stesse ovvero sono ad esse accessori, quali dizionari, eserciziari, presentazioni dell’opera, purché non commerciabili autonomanente I edizione: settembre 2011 Indice 7 Lucia Perremuto Il fantastico scientifico di Flaubert: dalla prima Éducation sentimentale ai progetti di féerie 23 Daniela Fabiani Philippe Claudel e Marie Ferranti fra letteratura e pittura: quale realismo per la letteratura francese del XXI secolo? 39 Marta Montesarchio Trois femmes puissantes di Marie Ndiaye: come un testo supera i suoi limiti attraverso intertestualità e simbolismo 67 Danilo Vicca ‘Forti’ o ‘potenti’ le donne di Marie Ndiaye? Sulla traduzione italiana di Trois femmes puissantes 77 Giulia Latini Mastrangelo Dalla Penelope omerica alla tejedora de sueños di Buero Vallejo 89 Thais A. Fernández La Yerma lorquiana en la interpretación de Marco Ferreri 99 Antonella Radice Archivio di Stato di Taranto: ordini e privilegi spagnoli del viceregno asburgico di Carlo VI (1711–1732) 6 Indice 167 Marco Cromeni Andrés de Laguna: Libro Sexto de Pedacio Dioscorides Anazarbeo. Proposta di traduzione 197 Eleonora Casalini La variedad de la vida en cuatro cuentos de Mario Benedetti. Propuesta de traducción 253 Mercedes Ariza Propuesta de traducción interidiomática de Errante en la sombra de Federico Andahazi 281 Claudio Mazzanti L’eclettismo nell’architettura religiosa del primo Modernismo Catalano 299 Recensioni e note Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422811 pag. 7–22 Lucia Perremuto Il fantastico scientifico di Flaubert: dalla prima Éducation sentimentale ai progetti di féerie L’interesse e l’attrazione di Flaubert nei confronti del fantastico si manifestano a metà degli anni ’30 nel momento in cui l’autore di Madame Bovary muove i primi passi in ambito letterario con la stesura di brevi racconti, due dei quali indicano nel sottotitolo «conte fantastique»: La Fiancée et la Tombe (1836) e Rêve d’enfer (1837). Si tratta tuttavia di testi che hanno ben poco a che fare con tale modalità letteraria come inizia a essere intesa proprio in quegli anni, dal momento che Flaubert non ha ancora un’idea chiara (all’epoca era ancora studente liceale) della distinzione tra fantastico e fantasia1 ; nozioni che si delineeranno nel suo progetto estetico soltanto a partire dalla stesura della prima Éducation sentimentale. Questi due racconti, come anche altri che richiamano le tematiche e le figure del fantastico2 , hanno infatti maggiore affinità con il frenetico, l’orrido e il sinistro3 , nonché con il «meraviglioso satanico»4 , essendo le letture giovanili di Flaubert orientate su autori quali Byron, Rabelais e i romantici tedeschi che lo affascinano profondamente e la cui influenza rimarrà tangibile anche nella sua futura produzione artistica. Non secondario, inoltre, il fatto che questi scritti giovanili risentano dell’assenza di letture fondamentali: i racconti di Gautier e di Nodier, soprattutto gli scritti teorici di quest’ultimo (Du fantastique en littérature del 1830 e Préface nouvelle pour Smarra del 1832) fondamentali per il rinnovamento di questa modalità letteraria5 . Infatti nel 1836, quando Flaubert inizia il suo apprendistato letterario, già da diversi anni circolavano in Francia i racconti di Hoffmann che avevano dato avvio a una riflessione nuova su tale genere. Il dibattito inizia di fatto con la prima traduzione dei suoi Fantasiestücke che diventano nell’edizione francese Contes fantastiques (1828), titolo già di per sé rivelatore di un vero e proprio progetto estetico6 . Il dibattito prosegue e si vivacizza con la pubblicazione del 1830 del già citato saggio di Nodier Du fantastique en littérature, focalizzandosi soprattutto sulle nuove potenzialità del fantastico in un secolo profondamente segnato dal positivismo, dove non c’è più spazio per il sovrannaturale e per le vecchie credenze che lo stesso Nodier definisce «naïves»7 . Nodier insiste, infatti, proprio in questo saggio, sulla 8 LUCIA PERREMUTO necessità di un fantastico inteso come espressione dell’animo umano e come compensazione dei limiti imposti dal mondo reale, collocandolo all’interno di un contesto storico ben definito. È per questa ragione che il meraviglioso e le credenze ad esso abbinate, viste a questo punto sotto una luce puramente razionale, appaiono solo come leggende o superstizioni, non riuscendo più a catturare l’attenzione del lettore. Flaubert si inserisce in tale dibattito soltanto a partire dal 1843 quando inizia la stesura della prima Éducation sentimentale, terminata due anni dopo e pubblicata postuma nel 1910. Quest’opera rappresenta una tappa fondamentale per la sua esplorazione nell’ambito del fantastico poiché egli ne indaga, per la prima volta, le implicazioni estetiche e la contestualizzazione storica, affidandosi alle considerazioni di Jules in cui si intravede l’incidenza della sopravvenuta lettura del saggio di Nodier8 : Le monde était devenu pour lui si large à contempler, il vit qu’il n’y avait, quant à l’art, rien en dehors ses limites, ni réalité ni possibilité d’être; c’est pourquoi le fantastique, qui lui semblait autrefois un si vaste royaume du continent poétique, ne lui en apparut plus que comme une province.9 Poco più avanti Flaubert afferma che occorre accettare il fantastico come una necessità dell’uomo che si manifesta alle origini stesse delle manifestazioni artistiche di ogni popolo: Il faut bien l’accepter cependant ce surnaturel qui se pose au début de l’art d’un peuple, et que l’on retrouve à sa fin [. . . ] les premières productions de la main de l’homme en étaient marquées, il coexiste dans ses œuvres les plus mûres, il se transforme, et s’infiltre encore dans ses dernières.10 . Dopo tali riflessioni, che ricordano ancora molto da vicino quelle di Nodier11 , l’autore di Madame Bovaryindica, nelle linee essenziali, le principali scansioni di un percorso che, estendendosi dall’India all’Occidente, si sviluppa ininterrottamente fino al XIX secolo, epoca in cui il terreno privilegiato del fantastico è proprio la Germania, dove la storia psichica dell’uomo riesce a completarsi pienamente. Anche le successive considerazioni, finalizzate a comprendere la necessità dell’individuo di oltrepassare i limiti della condizione umana, richiamano da vicino gli assunti di Nodier relativi alla rottura che il fantastico aveva prodotto nel reale, permettendo all’uomo di rivivere le brillanti «illusions du berceau»12 . Per Flaubert, questa aspirazione al fantastico si traduce nell’esigenza di dare forma a quei pensieri che il linguaggio ordinario non riesce ad esprimere: N’arrive–t–il pas à certains moments de la vie de l’humanité et de l’individu d’inexplicables élans, qui se traduisent par des formes étranges? Alors le langage IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 9 ordinaire ne suffit plus, ni le marbre ni les mots ne peuvent contenir ces pensées qui ne se disent pas, assouvir ces étranges appétits qui ne se rassasient point. On a besoin de tout ce qui n’est pas. [. . . ] Compris comme développement de l’essence intime de notre âme, comme surabondance de l’élément moral, le fantastique a sa place dans l’art; les plus sceptiques et les plus railleurs s’en sont servis, et toute la faiblesse de quelques–uns n’a pas eu d’autre cause que de n’avoir pu le sentir et l’exprimer.13 Il fantastico, quindi, si colora di tonalità e di tensioni metafisiche con modalità analoghe a quelle enunciate da Nodier: Quelle autre compensation permettez-vous à une âme profondément navrée de l’expérience de la vie, quel autre avenir pourra–t–elle se préparer désormais dans l’angoisse de tant d’espérances déchues, que les révolutions emportent avec elle [. . . ].14 A questa dimensione, che permette all’anima di esprimersi liberamente, Flaubert ne aggiunge, ma soltanto per respingerla immediatamente, un’altra generata dalla «fantaisie de l’artiste, par l’impossibilité où il se trouve à exprimer son idée sous une forme réelle»15 . Ambito quest’ultimo che ha «peu d’étendue dans l’esprit»16 , e dunque privo di qualsiasi rilevanza artistica. A differenza della fantasia, l’immaginazione fantastica non si nutre di chimere, ma necessita di una forma palpabile: «elle a son positif comme vous avez le votre; elle se tourmente et se retourne pour l’enfanter, et n’est heureuse qu’après lui avoir donné une existence réelle, palpable, durable, pondérable, indestructible.»17 . ll fantastico occupa dunque quello spazio immaginario che si oppone al mondo del reale, ma di cui sostiene la portata, restituendo all’anima la sua libertà. È un universo che si sovrappone al primo, anzi lo affianca, configurandosi come suo parallelo dove gli elementi del reale vengono trasposti, trasfigurati e dilatati. Ancorato al reale ne viola le leggi. Tuttavia per aver luogo, necessita della garanzia di un fenomeno autentificato, che sia «vraisemblable au vrai, qui ne résulterait que d’impréssions naturelles ou de croyances répandues»18 . L’evento da cui scaturisce questa concatenata serie di considerazioni e interrogativi è riportato poche pagine prima e presentato come fatto realmente accaduto. Ci si riferisce all’episodio dell’incontro tra Jules e un cane mostruoso destinato a produrre un cambiamento radicale nella sua vita e nelle sue convinzioni estetiche. La scena si svolge in un’atmosfera indefinita e in un clima che preannuncia qualcosa di straordinario. Non si sa se è giorno o notte, né in che luogo il protagonista si trovi in quel momento. È come se si risvegliasse da un sogno in uno stato di disorientamento: Il lui semblait qu’il sortait d’un songe car il avait la fraicheur que l’on éprouve au réveil et la surprise naïve qui nous saisit à revoir des objets qui nous semblent 10 LUCIA PERREMUTO nouveaux, perdu que l’on était tout à l’heure dans un monde qui s’est évanoui. Où était–il donc? dans quel lieu — à quelle heure du jour?19 Jules non riesce a dare una spiegazione razionale a questo evento che costituirà un episodio fortemente perturbante per le sue certezze. Immediatamente dopo, un cane dall’aria spaventosa si presenta al suo cospetto: Ses yeux se fixaient sur Jules avec une curiosité effrayante, et parcouraient toute sa personne, tout en le flairant, tout en tournant autour de lui.20 La vista dell’animale suscita in lui reazioni ambivalenti, di fascinazione e repulsione; lo spaventa, ma lo seduce proprio per il suo aspetto orrendo. Nonostante tenti di respingerlo, è catturato dal suo sguardo che lo soggioga. Il cane non è soltanto associato al mostruoso per le reazioni che suscita in Jules, ma anche per le sue caratteristiche fisiche. Si presenta come una figura fantastica, iperbolica, dai tratti demoniaci. Appare al protagonista come un «chien maudit»21 e i suoi latrati sono dei «cris sinistres»22 . Quando si ferma a bere: «sa langue en lapin faisait des cercles sur l’eau jaunâtre, immobile, qu’un dernier reflet de soleil rendait toute rouge et presque sanglante»23 . Tuttavia, pur accentuandone l’aspetto singolare e collocandolo ulteriormente nell’ambito del demoniaco24 , questi attributi non costituiscono il più autentico elemento innovativo del fantastico di Flaubert. Ricordiamo infatti che già nei racconti degli anni Trenta alcuni animali avevano caratteristiche analoghe. In Rage et impuissance, ad esempio, il cane Fox, pur non avendo ancora l’aspetto demoniaco del suo omologo della prima Éducation sentimentale, finisce comunque con il turbare il lettore; il suo latrato iniziale è visto come presagio di sventura. In Quidquid volueris, appare invece la figura ibrida di Djalioh, creatura mostruosa metà uomo e metà scimmia, percepito a un tempo come «animal fantastique»25 e come «grotesque et horrible à faire peur»26 . Un elemento nuovo rispetto agli scritti giovanili è invece individuabile, sempre nell’Éducation sentimentale, nel prodigioso spettacolo di un cane il cui corpo cambia forma, espandendosi a dismisura: «ses flancs battait avec force; son poil se hérissait, il tremblait sur ses pieds, ses yeux s’ouvraient, tout son corps haletant se gonflait dans une dilatation convulsive»27 . Nonostante Jules, come si è già detto, «repoussé par sa laideur»28 continui a respingerlo l’animale continua a seguirlo fino a casa. Il tentativo del protagonista di comprendere il messaggio di questo essere mostruoso e di decifrarne l’abbaiare sinistro, è reso vano da un linguaggio inaccessibile alla ragione. Infatti «rien n’arriva malgré les soubresauts de son intelligence pour descendre dans cet abîme»29 . Gli sguardi si incrociano, Jules ha paura e cerca di nuovo di allontanarlo, ma il cane riappare ad ogni momento; la sua presenza diventa IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 11 sempre più inquietante: «elle ce plaçait devant vous, vous regardait en écartant les lèvres et montrant ses gencives avec une grimace hideuse»30 . Jules fugge e si chiude in casa. Da questo momento un cambiamento avviene nella sua vita. La convinzione che non si tratti di un sogno lo induce ad analizzare in termini razionali questa esperienza, prendendo però ben presto atto dell’impossibilità di comprendere la portata di un fenomeno che può essere soltanto vissuto: «il fallait bien reconnaître une réalité d’une autre espèce et aussi réelle que vulgaire cependant, tout en semblant la contredire»31 . Il mostro terrorizza proprio perché, nella normale accezione del reale, suscita interrogativi angoscianti sulla propria natura e su quella della realtà stessa. In termini estetici, tutto ciò porta a far sì che il protagonista si interroghi sul reale. Si tratta di un’esperienza che crea una vertigine conoscitiva32 alla quale Jules continuerà a pensare con nostalgia, tanto da sperare di poterla rivivere «pour tenter le vertige»33 . Il mostro sembra aver suscitato in lui il desiderio di percepire l’ordine nascosto del reale e di penetrare il mistero della natura: andare al di là del segno visibile fino al suo enigmatico significato. Dopo aver messo in discussione le sue certezze, anche quelle estetiche (coincide infatti con il suo rigetto degli stilemi romantici), «il se corrigea de ses peurs superstitieuses et ne s’effraya pas de rencontrer des chiens galeux dans la campagne [. . . ]»34 . Inizia dunque un percorso che lo porta ad accostarsi ad opere «offrant des caractères différents du sien»35 che gli permettono di capire quanto anche il mostruoso e il bizzarro risponda a delle leggi di natura, dove tutto è ordine e armonia: À mesure qu’il avança dans l’histoire, il y découvrit tout à la fois plus de varié et plus d’ensemble ; ce qu’elle a eu au premier coup d’œil, de heurté, de confus, disparut graduellement, et il entrevit que le monstrueux et le bizarre avaient eux aussi leurs lois comme le gracieux et le sévère. [. . . ] la laideur n’existe que dans l’esprit de l’homme, c’est une manière de sentir qui révèle sa faiblesse [. . . ] Mais la nature en est incapable, tout en elle est ordre, harmonie.36 Il fantastico non è dunque una fantasia arbitraria e gratuita. Come Jules stesso afferma, si tratta di un’immaginazione che esige una forma per acquisire un’esistenza palpabile, reale, indistruttibile. Egli realizza in questa maniera che il mostruoso non ha la stessa accezione in natura e nella mente umana; è connotato negativamente soltanto da quest’ultima. La scienza non maledice nessuna creatura considerando allo stesso modo le vertebre del serpente boa e la corolla delle rose: La science ne reconnaît pas de monstre, elle ne maudit aucune créature, et elle étudie avec autant d’amour les vertèbres du serpent boa et les miasmes des volcans que le larynx des rossignols et que la corolle des roses.37 12 LUCIA PERREMUTO Tale assunto vale anche per il fantastico che deforma il reale ma non lo inventa; non crea esseri, animali o cose che non esistono. Non è neanche creazione di altri mondi, ma creazione di un universo in cui tutto è tratto dal mondo reale, come ci ricorda anche Irène Bessière38 . È ancora una volta Jules ad affermare che: On ne fera jamais rien de beau en inventant des animaux qui ne sont pas, des plantes qui n’existent point, en donnant des ailes à un cheval [. . . ] rêves sans corps, qui n’offrant qu’une face selon le vague désir qui les a créés demeurent isolés les uns des autres, dans leur immobilité et leur impuissance.39 Su questi elementi fondanti un fantastico scientifico, Flaubert creerà gli animali ‘mostruosi’ delle sue opere future, rifacendosi al sapere documentario dei libri, partendo da reperti, feti, e forme che esistono in natura. Due anni dopo L’Éducation sentimentale, egli ritornerà sull’argomento in Par les champs et par les grèves (1847), dove afferma che ogni mostruosità risponde alle leggi di natura, leggi plastiche e fisiologiche che prendono l’avvio dal reale. La mitologia non è altro che un universo mostruoso e fantastico rivestito di forme impossibili, diverse dalla nostra natura, ma belle e armoniche anch’esse, rispondendo alle stesse leggi: Si ce qu’on appelle les monstruosités de la nature ont entre elles leurs rapports anatomiques, c’est–à–dire plastiques, et leur lois physiologiques, c’est–à–dire nécessaires pour exister [. . . ] pourquoi donc tout cela n’aurait–il pas sa beauté, aussi son idéal? Les anciens ne le croyaient–ils pas? Et leur mythologie est–elle autre chose qu’un univers monstrueux et fantastique, revêtu de formes impossibles à notre nature et belles pourtant, tant elles sont justes en elles–mêmes et harmoniques l’une à l’autre?40 Sulla base di tali presupposti ha origine il bestiario fantastico de La Tentation de saint Antoine41 , già di quello della versione del 184942 . Nel momento in cui le bestie mostruose iniziano ad apparire al santo, questi non mostra alcuna incertezza sulla loro reale esistenza e non si pone domande sulla loro origine; esse fanno parte del suo patrimonio culturale43 . Lo spettacolo che si presenta al suo sguardo è contemplato con gioia sinistra; è una vertigine della sua mente allucinata. Ricordiamo che nei racconti giovanili, invece, il fantastico equivaleva per Flaubert alla creazione di un clima di mistero. Qui, questo elemento sembra mancare e, nonostante l’atmosfera riproponga quel senso di terrore percepibile nei testi precedenti (presenza del vento, della nebbia, ecc.), Antoine non ne è terrorizzato perché tutto è riconosciuto come parte integrante della natura. Non si tratta di un’intrusione dell’a–normale, dal momento che tutti gli animali rispondono a leggi o norme di natura. Il bestiario della Tentation del 1849, ma anche quello delle successive stesure, IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 13 è descritto da Flaubert con la precisione e la nettezza del registro realistico. È per questa ragione che Foucault parla di un fantastico diverso rispetto ai canoni dell’epoca, proprio per il fondamento e il sostrato erudito che lo sottende44 . Ogni animale è descritto a partire da un lavoro di accumulazione di dati e di annotazioni. Si tratta di mostri di cui Flaubert ha una conoscenza oggettiva, che proviene dai bestiari medievali e da fonti che attestano la loro reale esistenza. Jean Seznec ha evidenziato come, ad esempio, il myrmecoleo, «lion par devant, fourmi par derrière et dont les génitoires sont à rebours»45 sia interamente ripreso dal Hierozoïcon, sive de animalibus Sanctae Scripturae di Samuel Bochart; la «Poephaga, cavale aux vertes narines, qui porte une chevelure de femme à la crinière»46 e «le Porphyrius, dont la salive fait mourir dans des transports lascifs»47 provengano dal De natura animalium di Elien. L’«Hermaphrodite» è una figura del De monstris et belluis di Beranger de Xivrey. I differenti tratti della Fenice sono già presenti nel Physiologus e nel citato testo di Bochart; ancora da Bochart Flaubert trae la descrizione dei «Nisnas», mentre la descrizione degli «Astomi» è ripresa da Xivrey. Se tutto esiste già nei libri, dove opera l’immaginario di Flaubert? Lo si è già intravisto con l’episodio del cane mostruoso dell’Éducation sentimentale. Come già Jules, Flaubert è infatti fortemente attratto dalle commistioni di forme e dalla loro capacità di metamorfosi48 . Nella realtà virtuale di saint Antoine, che ricordiamo è uno spazio allucinato, gli animali mostruosi acquisiscono dimensioni sempre più grandi. In una delle scene che precedono il volo cosmico col Diavolo sono così raffigurati: Tassés, pressés, étouffant par leur nombre, se multipliant à leur contact, ils grimpent les uns sur les autres. Et cela monte en pyramides comme une montagne, un grand tas remuant de corps divers, dont chaque partie s’agite de son mouvement propre et dont l’ensemble complexe oscille d’accord, bruit et reluit à travers une atmosphère épaisse que raye la grêle, où tombent la neige, la pluie, la foudre, où passent des tourbillons de sable [. . . ].49 Quanto più Antoine li guarda stupefatto, tanto più essi cambiano forma: «ils grossissent, ils grandissent, s’accroissent, et il en vient de plus formidables et de plus monstrueux encore»50 . Così si passa dal mostro biologico a quello che Lascault chiama la forma m, propria dell’immaginazione creativa51 . Ed è in ciò che opera il fantastico di Flaubert secondo la definizione che lui stesso darà in uno dei suoi Carnets de travail degli anni ’60 nel momento in cui prende annotazioni per i progetti di féeries. Nel Carnet 19, al f. 7 egli traccia, infatti, una nuova tassonomia del fantastico, distinguendone uno antico, quello della stregoneria e dei talismani, un altro legato al Pensiero, attinente all’ambito del sogno e di natura psicologica52 e un ultimo, «celui de la Science, Seul créant»53 . La scienza diventa dunque l’unico strumento in grado di innescare, nell’epoca moderna, il dispositivo del fantastico. 14 LUCIA PERREMUTO Flaubert ne rimarca le potenzialità creative attraverso l’uso di un participio presente (créant), quasi ad indicare come la scienza ponga in essere un meccanismo che da una parte, come si è visto, opera verso la dilatazione e la metamorfosi delle forme e dall’altra si traduce in uno spostamento dei termini del discorso. Infatti, come già ha sottolineato Jeanne Bem, gli animali mostruosi della prima versione della Tentation de saint Antoinesi presentano al santo parlando in prima persona e il meccanismo del fantastico è attivato proprio dal passaggio dall’enunciato all’enunciazione54 . Un esempio per tutti è la Licorne che, nitrendo, si rivolge direttamente al santo come fosse una persona, invitandolo ad ammirarla: Vois comme je suis jolie! J’ai des sabots d’ivoire, des dents d’acier, la tête couleur de pourpre, le corps couleur de neige, et la corne de mon front est blanche par le bas, noire au milieu, rouge au bout. Des plaines de la Chaldée au désert tartare, sur les bords du Gange et dans la Mésopotamie, je vais, je cours, je reviens. Aux poils de mes paturons il s’est accroché des plantes du nord et du midi, un sillon de feu se fait sur mon passage, je dépasse les autruches; je vais si vite que je traîne le vent. Je bois aux cascades, je frotte mon dos contre les palmiers, je me roule dans les bambous; d’un bond j’aime à sauter les fleuves, et quand je passe par Persépolis je m’amuse à casser avec ma corne la figure des rois qui sont sculptés dans la montagne55 . Tra Antoine e le bestie fantastiche si crea dunque una relazione che va a decostruire e turbare il registro narrativo del reale. Non è il contenuto del dialogo, sostiene ancora Jeanne Bem, a sovvertire le regole, ma piuttosto il fatto che siano le bestie stesse a parteciparvi. Ed è proprio in ciò che consiste la sostanziale differenza tra gli animali mostruosi de La Tentation del 184956 e quelli dei racconti giovanili. Infatti in Quidquid volueris, Djalioh non era dotato di alcuna soggettività e non si relazionava mai ad alcun essere umano. Anzi, Djalioh era muto. Nessuno si rivolgeva a lui ed era deprivato persino del suo nome, tant’è che il suo padrone, parlando di lui lo definiva un «ça». Se il fantastico scientifico nei testi finora trattati si fonda sulla raffigurazione proteiforme degli animali mostruosi, a partire dagli anni Sessanta prenderà un indirizzo diverso, che troverà un terreno fertile nei fenomeni parascientifici e una forma letteraria insolita pronta ad accoglierli: il teatro. Flaubert, infatti, si propone in quegli anni di dedicarsi alla féerie, che per sua propria essenza è strettamente legata al meraviglioso, con l’obiettivo di rinnovarla totalmente. Ne rigetta, dunque, sia i contenuti che l’ambientazione (il sovrannaturale, il mondo dei gnomi e delle fate) come pure l’intento moralizzatore che le è insito. Ciò che lo affascina invece è la sua «forme dramatique splendide et large, et qui ne sert jusqu’à présent que de cadre à des choses fort médiocres»57 . Il 15 giugno 1862 scrive a Jules Duplan: IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 15 J’ai lu, grâce à toi, ma petite vieille, 14 féeries; jamais plus lourd pensum ne m’a pesé! Nom d’un nom! est–ce bête! Mais ce n’est pas une féerie que je veux faire. — Non! non! je rêvasse une pièce passionnée où le fantastique soit au bout; il faut sortir des vieux cadres et des vieilles rengaines, et commencer par mettre dehors la lâche venette dont sont imbibés tous ceux qui font ou veulent faire du théâtre58 . Il progetto è ambizioso e di difficile realizzazione. Flaubert vuole infatti dar vita a un ‘teatro fantastico’, fortemente connotato da intenti ironici, la cui rappresentazione sia fondata essenzialmente sull’esteriorizzazione e la reificazione degli stati d’animo dei personaggi, tutti tratti dal mondo borghese. Nessuno degli scénarios annotati nel Carnet 1959 sfocia in una pièce, fatta eccezione per Le Château des coeurs (1863) nata dalla collaborazione con Louis Bouhilet e Charles d’Osmoy, ma di cui Flaubert non è soddisfatto sia per l’impossibilità di portarla sulle scene sia per la diversa concezione (molto più orientata verso la tradizione) che i suoi due amici hanno della féerie60 . Per le sue pièces Flaubert è alla ricerca di un fantastico che non escluda, come sostiene giustamente Marschall C. Olds, una messa in discussione della scienza stessa e al tempo stesso che si prenda un po’ gioco della pretesa scientificità degli stessi fenomeni parascientifici che, in quanto tali, non erano accettati dall’Accademia61 . Il magnetismo, il mesmerismo e le teorie di Reichenbach costituiscono il paradigma su cui si snodano gran parte dei progetti di féerie di Flaubert. Tali teorie intendevano dare una giustificazione scientifica al mondo inesplorato dell’occulto che la superstizione popolare considerava ancora di pertinenza del sovrannaturale. Diffusesi in Europa proprio intorno al 1850, esse sono diventate una fonte preziosa per la letteratura fantastica della seconda metà del secolo62 Flaubert si affida principalmente alla nozione di «od», neologismo creato dal fisico tedesco Reichenbach il cui testo, Lettres odiques magnetiques du chevalier de Reichenbach (1853), egli probabilmente legge nel 186063 . Consulta inoltre un articolo di Arnold Boscowitz dal titolo Recherches sur un nouvel agent impondérable: l’Od, apparso ne «La Revue germanique» del 1861. L’«od» o «odile» è una sorta di emanazione della materia, un principio vitale, fluido che fuoriesce dai corpi, collegato in qualche modo al magnetismo. Con il meccanismo della reificazione, Flaubert dà corpo all’«od», dando vita ad anime e pensieri che fuoriescono dai corpi dei protagonisti, sia viventi che morti. La forza odica è dunque il dato scientifico che apre la via al fantastico. Così per esempio Ne Les Trois Épiciers «Les Âmes suivent objectivement les Corps (émanations de l’od; conséquence: les âmes sortent du tombeau et les pensées passent sur le mur, à travers lequel on voit se dessiner sur la muraille (et glisser avec la promptitude de la pensée) les Pensées des personnages diamétralement contraires à leur action du moment»64 . Nei Trois Frères, invece, quando 16 LUCIA PERREMUTO l’anima vuole rientrare nel proprio corpo, non può farlo perché «le corps est considérablement avarié ou même mort»65 . Si tratta dunque di un fantastico graziosamente preso in giro e su cui Flaubert gioca con grande abilità. Le sperimentazioni di Flaubert nell’ambito del fantastico scientifico terminano di fatto con i progetti di féeries. Nel momento in cui egli ne affida il trattamento a chi non possiede gli strumenti necessari per farne diventare qualcos’altro, il meccanismo del fantastico non si mette in moto. È il caso di Bouvard et Pécuchet, i due protagonisti dell’omonimo romanzo che, non essendo provvisti di alcun senso critico e artistico, scelgono libri a caso, inadeguati a mettere in moto il meccanismo della fantasia. Ogni loro sperimentazione ‘fantastica’ fallisce perché fortemente condizionati da una visione stereotipata del mondo. Riescono così a trarre infatti dalle letture soltanto sterili nozioni, mentre per Flaubert il sostrato erudito rappresenta il fondamento della sua stessa immaginazione. In quest’ultimo grande romanzo incompiuto, i protagonisti prendono tutto alla lettera. I loro esperimenti si riducono a creazioni pletoriche e ingombranti. I tentativi di dar luogo a connubi animaleschi fantasiosi falliscono perché Bouvard e Pécuchet pensano di mettere ‘realmente’ in pratica ciò che hanno letto nei libri66 , così come falliscono le loro sperimentazioni quando decidono di dedicarsi al magnetismo e al mesmerismo. A tal proposito, i due copisti, dopo la lettura della Guide du magnétiseur di Montacabère, tentano attraverso il magnetismo e il mesmerismo di guarire i malati, sfruttando l’influsso degli astri sui corpi e intrappolando i fluidi vitali. Passano poi all’ipnosi affermando che «pour subir l’action magnétique et pour la transmettre, la foi est indispensabile»67 e tentano di far pratica su Germaine. Studiano poi le teorie di Kardec — lo spiritismo — una scienza «pratique et bienfaisante» che rivela «comme le téléscope les mondes supérieurs»68 . Grazie alla lettura di Swedenborg vengono a conoscenza poi dell’esistenza di un fluido vitale: Faut–il admettre une substance intermédiaire entre le monde et nous? L’od, un nouvel impondérable, une sorte d’électricité, n’est pas autre chose, peut–être? Ses émissions expliquent la lueur que les magnétisés croient voir, les feux errants des cimetières, la forme des fantômes [. . . ]. Quelle qu’en soit l’origine, il y a une essence, un agent secret et universel. Si nous pouvions le tenir, on n’aurait pas besoin de la force de la durée. Ce qui demande des siècles se développerait en une minute; tout miracle serait praticable et l’univers à notre disposition.69 Un universo nuovo si apre al loro orizzonte. In quel momento decidono, infatti, di diventare maghi, immedesimandosi a tal punto nel ruolo da razionare il cibo a Germaine per farne una medium più sensibile. Per procurarsi delle visioni ricorrono a una scatola magica e infine tenteranno persino di invocare uno spirito attraverso il cerchio di Duporet. Fallimento su tutta la linea. Anche il meraviglioso sovrannaturale, sebbene sia una modalità IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 17 letteraria rigettata da Flaubert, esige una sensibilità artistica e creativa che i due copisti non possiedono. Il fantastico esce dunque di scena? Tutt’altro, esso riemerge sotterraneamente a livello di enunciato ogni qualvolta i due autodidatti falliscono nelle loro sperimentazioni, attraverso il meccanismo del linguaggio figurato. Come non ricordare la descrizione del giardino di Chavignolles o quella del melone che avrebbe dovuto essere, negli intenti di Bouvard, «le summum de l’art», del suo talento e delle sua abilità acquisite in agricoltura? Il sema les graines de plusieurs variétés dans des assiettes remplies de terreau, qu’il enfouit dans sa couche. [. . . ] Il fit toutes les tailles suivant les préceptes du bon jardinier, respecta les fleurs, laissa se nouer les fruits, en choisit un sur chaque bras, supprima les autres; et dès qu’ils eurent la grosseur d’une noix, il glissa sous leur écorce une planchette pour les empêcher de pourrir au contact du crottin. [. . . ] Les cantaloups mûrirent. Au premier, Bouvard fit la grimace. Le second ne fut pas meilleur, le troisième non plus; Pécuchet trouvait pour chacun une excuse nouvelle, jusqu’au dernier qu’il jeta par la fenêtre, déclarant n’y rien comprendre. En effet, comme il avait cultivé les unes près des autres des espèces différentes, les sucrins s’étaient confondus avec les maraîchers, le gros Portugal avec le grand Mogol — et le voisinage des pommes d’amour complétant l’anarchie, il en était résulté d’abominables mulets qui avaient le goût de citrouilles70 . 18 LUCIA PERREMUTO Note 1 Distinzione che già Gautier sottolinea nel suo saggio su Hoffmann dei primi anni ’30. Cfr Th. Gautier, Contes d’Hoffmann, in Id., La Morte amoureuse, Avatar et autres récits fantastiques (éd, J. Gaudon), Paris, Gallimard, 1981, 456. 2 Jean Bruneau considera racconti fantastici in particolar modo Bibliomanie e Rage et impuissance, entrambi del 1836. Il primo perché nel prologo viene citato Hoffmann, l’altro per la presenza di temi propri del fantastico. Cfr. J. Bruneau, Les Débuts littéraires de Gustave Flaubert, Paris, Colin, 1962. 3 Pierre–Georges Castex inserisce nella sua antologia del fantastico soltanto Rêve d’enfer, definendolo «sinistro» piuttosto che fantastico. Cfr. P.–G. Castex, Le Conte fantastique en France de Nodier à Maupassant, Paris, Corti, 1962, 89. 4 A parlare di meraviglioso satanico è Maria Teresa Puleio. Cfr. M.T.Puleio, Flaubert et la littérature fantastique, in G. Bonaccorso (a cura di), Flaubert e il pensiero del suo secolo, Atti del convegno internazionale Messina 17–19 febbraio, 1984, Messina, Università di Messina, 1985, 179–188. 5 Il nome di Nodier compare per la prima volta nell’epistolario di Flaubert in una lettera a Ernest Chevalier del 1839 in cui dice: «J’ai lu depuis le commencement des vacances deux volumes de Ch. Nodier». G. Flaubert, Correspondance (Janvier 1830–Juin 1851), édition établie, présentée et annotée par J. Bruneau, T. I, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1973, 51. Egli non dice però quali testi abbia letto e quali sono le sue impressioni. Gautier è nominato invece da Flaubert, sempre nella Correspondance, per la prima volta nel 1842. Si precisa inoltre che un serio approccio all’opera di Nodier avverrà non prima del 1861 dal momento che nella biblioteca di Flaubert esiste un’edizione con quella data Ch. Nodier, Contes fantastiques [Le Songe d’or, La Fée aux miettes, Trésor des Fèves et Fleur des Pois, Le Génie Bonhomme, Smarra]. Nouv. éd. accompagnée de notes. — Paris, Charpentier, 1861, 354 , 18 cm. Demi–reliure. Cfr., Y. Leclerc, Inventaires; mode d’emploi, in Y. Leclerc (éd.), La Bibliothèque de Flaubert, Rouen Publications de l’Université de Rouen, 2001. 6 La traduzione è di Jean–Jacques Ampère, il quale, sostituendo con «fantastico» il termine «fantasia», che in francese indica piuttosto visioni piacevoli, definisce meglio l’attitudine al macabro e la natura dei sogni di tali racconti. Non piacevoli visioni, ma inquietanti e inverosimili avvenimenti che minacciano le leggi naturali. 7 Ch. Nodier, Du fantastique en littérature, Œuvres de Charles Nodier, vol. V, Rêveries, Paris, Librairie d’Eugène Renduel, 1832, 16. 8 Cfr infra, n. 5. 9 G. Flaubert, L’Éducation sentimentale, in Œuvres de jeunesse, édition présentée, établie et annotée par C. Gothot–Mersch et G. Sagnes, t. I, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de La Pléiade», 2001, 1038. 10 Idem 11 «Le penchant pour le merveilleux, et la faculté de le modifier, suivant certaines circonstances naturelles ou fortuites, est inné dans l’homme. Il est l’instrument essentiel de sa vie imaginative, et peut–être même est–il la seule compensation vraiment providentielle des misères inséparables de sa vie sociale.» Ch. Nodier, Du fantastique en littérature, cit, 102. 12 Ibid., 108. 13 G. Flaubert,L’Éducation sentimentale, cit., 1039. 14 Ch. Nodier, Du fantastique en littérature, cit., 110. 15 G. Flaubert,L’Éducation sentimentale, cit., 1039. 16 Idem. 17 Idem. 18 Idem. Atteggiamento che richiama, rivedendola e ampliandola, la definizione di «fantastico serio» elaborata da Nodier. La via del «fantastique sérieux» si oppone, secondo lui, a IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 19 quella della «naïveté antique». Si tratta dunque di un concetto che non può essere assoluto, ma che si pone come relativo a ogni epoca nella quale ha luogo poiché ha origine dalle credenze diffuse. Nodier si avvale degli esempi di Hugo e di Scott, i quali hanno saputo creare personaggi straordinari ma verosimili, come pure di Hoffmann che si serve di fenomeni parascientifici come il magnetismo per ancorare sempre di più il suo fantastico alle forze oscure del reale. Cfr. Ch. Nodier Préface Nouvelle pour Smarra, Œuvres de Charles Nodier, Romans, Contes et Nouvelles, t. III, Bruxelles, J.P. Méline, 1832, 10 19 G. Flaubert, L’Éducation sentimentale, cit., 1025. 20 Idem. 21 Ibid., 1028. 22 Idem. 23 Ibid., 1026. 24 Secondo F. Emptaz questo cane mostruoso, come altri animali in Flaubert, è uno dei tanti esseri «sous les traits duquel le cynique Satan aime à paraître». F. Emptaz, Les Démons de Flaubert, «Revue Flaubert», [en ligne], http://flaubert.univ-rouen.fr/revue/revue2/emptaz.pdf. Les Œuvres de jeunesse, n. 2, 2002. 25 G. Flaubert, Quidquid volueris, in Id., Œuvres de jeunesse, cit., 249. 26 Ibid., 252 27 G. Flaubert, L’Éducation sentimentale, cit., 1026. 28 Ibid., 1027. 29 Idem. 30 Ibid., 1030. 31 Idem. 32 Faccio qui mia l’espressione di Lucio Lugnani, il quale mostra come il fantastico scardini i limiti delle certezze prospettando la possibilità di nuovi e più ampi paradigmi del reale che viene esplorato e lacerato, dando il via a una riflessione sullo scetticismo conoscitivo. Annota Lugnani: «Il racconto fantastico è anche, sicuramente e primariamente, una sfida e una avventura conoscitiva, ma bisogna intendersi bene. In ballo non sono tanto la relazione tra noto e ignoto e i possibili tragitti dall’ignoranza alla sapienza attraverso le lezioni, gli exempla veritieri e le rivelazioni di maestri dotti e illuminati, quanto il concetto e l’esperienza stessa del conoscere, che è dubitare molto più che sapere ed è perplessità molto più che certezza». L’esperienza fantastica si connota quindi come «uno stato di insicurezza e di vertigine intellettuale». È una sospensione che apre le porte a una possibilità oltre i canoni recepiti. La realtà così diventa irriconoscibile, non assimilabile, mentre si assiste allo spettacolo dell’inverosimile (non è possibile eppure è). L. Lugnani, Per una delimitazione del genere, in Aa.Vv., La Narrazione fantastica, Pisa, Nistri Lischi, 1983, 287. 33 G. Flaubert, L’Éducation sentimentale, cit., 1031. 34 Ibid., 1032. Questo è il momento in cui Flaubert, attraverso Jules, rinnega tutta l’estetica romantica. 35 Ibid., 1033. 36 Ibid., 1035. 37 Idem. 38 Cfr., I. Bessière, Le Récit fantastique: la poétique de l’incertain, Paris, Larousse, «Thèmes et Textes», 1973. 39 G. Flaubert, L’Éducation sentimentale, cit., 1038. Il cane cha appare a Jules è un animale del mondo reale, ma che assume tratti fantastici per le sue deformità e per ciò che Jules vede in lui, come segno di approccio a un’estetica del mostruoso. Cfr. B. Donatelli, Le esplorazioni del mostruoso: dalla Première Éducation sentimentale a Bouvard et Pécuchet, in Id., Le perle, il filo e la collana, Roma, Nuova Arnica, 2008. 40 G.Flaubert, Par les champs et par les grèves, éd. P.–L. Rey, Paris, Pocket, 2002, 69. 41 Cfr. su ciò J. Seznec, Saint Antoine et les monstres: essai sur les sources et la signification du fantastique de Flaubert, PMLA, n. 1, 1943. 20 LUCIA PERREMUTO 42 Esistono tre versioni di quest’opera, la prima del 1849, pubblicata postuma, e che Flaubert rigetterà come testo ancora troppo ancorato al lirismo e al soggettivismo romantico, la seconda del 1856, di cui usciranno alcuni stralci sull’«Artiste» tra il dicembre dello stesso anno e il gennaio dell’anno successivo, la terza del 1874, l’unica che Flaubert ritiene di dover pubblicare. 43 Una delle fonti di cui si serve Flaubert per la creazione dei suoi animali fantastici, individuata da Jean Seznec, è un articolo della «Revue Britannique» del 1835 intitolato Histoire naturelle des animaux apocryphes, dove l’autore sostiene che la storia naturale può rivelare l’origine di esseri creduti mostruosi, che non hanno niente di favoloso poiché realmente esistiti. 44 M.Foucault, La bibliothèque fantastique, in Aa.Vv., Travail de Flaubert, Paris, Seuil, 1983, 106. 45 G. Flaubert, La Tentation de saint Antoine, (version de 1849), in Œuvres complètes (Préface J. Bruneau, présentation et notes de B. Masson), Paris, Seuil, 1964, 441. 46 Idem. 47 Idem. 48 Creare i mostri in letteratura significa anche, come afferma Gilbert Lascaut, «exercer une activité combinatoire». G. Lascault, Le monstre dans l’art occidental, Paris, Klincksieck, 2004, 9. 49 G. Flaubert, La Tentation de saint Antoine, cit., 442. 50 Ibid., 441. 51 G. Lascault, Le monstre dans l’art occidental, Paris, Klincksieck, 2004, p. 19–31. 52 È in questo ambito che si collocheranno altri suoi progetti degli anni ’50 e ’60 come Les sept fils du Derviche, La Spirale e Le Rêve et la vie. 53 G. Flaubert, Carnets de Travail, (édition critique et génétique établie par P.–M. de Biasi), Paris, Balland, 1988, 266. È evidente che Flaubert poggia le sue argomentazioni sulla componente creativa del fantastico e non su quella dell’esitazione, che diventa invece fondante per qualsiasi discorso critico su questa modalità letteraria a partire da Todorov. 54 Cfr. J. Bem, La fonction des bêtes dans La Tentation de saint Antoine, Le Bestiaire dans la littérature française, «Cahiers de l’Association Internationale des Études Françaises», n.31, mai 1979, p. 35–44. 55 G. Flaubert, La Tentation de saint Antoine, cit., 439. 56 Pur mantenendo inalterato il dispositivo dell’animale parlante, esso è molto meno pronunciato nelle altre due versioni. Ecco come è presentata per esempio la Licorne nella versione del Tentation del 1856: «La Licorne caracolant autour de lui. Au galop! Au galop! J’ai les sabots d’ ivoire, les dents d’acier, la tête couleur de pourpre, le corps couleur de neige, et la corne de mon front est blanche par le bas, noire au milieu, rouge au bout. Je voyage de la Chaldée au désert Tartare, sur les bords du Gange et dans la Mésopotamie. Je dépasse les autruches ; je cours si vite que je traîne le vent. Je frotte mon dos contre les palmiers, je me roule dans les bambous. D’ un bond je saute les fleuves, et quand je passe par Persépolis, je m’amuse à casser, avec ma corne, la figure des rois qui sont sculptés sur la montagne». G. Flaubert, La Tentation de saint Antoine, (version de 1856), in Œuvres complètes (Préface J. Bruneau, présentation et notes de B. Masson), Paris, Seuil, 1964, 596. 57 G. Flaubert, Correspondance, t. III, cit., 352. 58 Ibid., 224. 59 Il Carnet contiene cinque gruppi diversi di note genetiche: quelle sui progetti drammatici, una serie di note su progetti di romanzi inediti, un insieme genetico che si compone dello scénario della prima Éducation sentimentale, e altre note che si riferiscono a Bouvard et Pécuchet. Le parti prese in considerazione per questa analisi sono quelle dei progetti che vanno dal f. 2v al f. 7. Alcune annotazioni sono relative agli scénarios L’Île des locutions, La Forêt des femmes, Les Folies de l’amour, La Recherche de l’amour, Les Trois Épiciers, Le Pays des chimères, Les Animaux microscopiques; altre sono invece note senza titolo. Tale corpus costituisce un’elaborazione teorica de Le Château des cœurs, ma non tutte le note verranno inserite nella IL FANTASTICO SCIENTIFICO DI FLAUBERT 21 versione definitiva della pièce. Cfr. G. Flaubert, Carnets de travail, éd. critique et génétique établie par P.–M. de Biasi, Paris, Balland, 1988. 60 La féerie è il frutto di un lungo lavoro intrapreso da Flaubert insieme ai due amici. Il progetto vede la luce il 26 ottobre del 1863 dopo due anni di interruzioni e riprese dovute alla malattia di Mme d’Osmoy e agli impegni di lavoro di Flaubert. Inizialmente sono Flaubert e d’Osmoy a dare avvio ai lavori; Bouilhet si unisce ai due solo in un secondo momento. Il soggetto fino al ’62 non è ancora definito. Tra febbraio e settembre del ’62 Flaubert si dedica dunque a quei progetti cui abbiamo accennato che resteranno incompiuti. Nel 1863 è Bouilhet a proporre ai due amici di riprendere il lavoro. A fine maggio egli presenta il soggetto a Flaubert in un paio di lettere dove suggerisce la trama. Ha inizio uno scambio epistolare tra i due che ci mostra una controversia quasi continua con Bouilhet, il quale rimprovera più volte a Flaubert di voler fare una commedia umana priva dell’elemento sovrannaturale, che egli vorrebbe invece mischiare al reale. Uno dei motivi di scontro riguarda la presenza di forze del bene e del male, le quali avrebbero conferito al testo un intento moralizzatore auspicato da Bouilhet, ma non voluto da Flaubert. I commenti negativi di Flaubert sulla versione in fase di definizione della pièce ci mostrano quanto Le Château des cœurs sia poco rappresentativa della sua concezione di féerie. Scrive alla nipote: « [. . . ] franchement, je suis dégoûté de la féerie, j’en tombe sur les bottes. Cependant, je doute du succès de moins en moins. Mais rien de ce que j’aime dans la littérature ne s’y trouvera. Il me tarde de faire autre chose. Et au lieu de passer une partie de mon hiver à intriguer pour la faire recevoir, j’aimerais mieux être enthousiasmé pour un roman et demeurer à Croisset, seul, comme un ours, s’il le fallait.» G. Flaubert,Correspondance, t. III, 224. Nella stesura finale dell’opera si trovano ben pochi elementi della féerie propri della concezione di Flaubert; solo alcuni esempi di materializzazione delle espressioni stereotipate e di trasformazione del personaggio in cliché. Flaubert stesso, forse, elaborandoli nelle annotazioni si era reso conto, nel frattempo, della loro irrappresentabilità. Il finale, che definisce eccellente, è uno dei pochi punti in cui è evidente la sua presenza. Spera nonostante tutto che venga messa in scena, ma nel momento steso in cui si rende conto dell’impossibilità di tale progetto dichiara di voler scrivere una préface per lui più importante dell’opera stessa, poiché avrebbe attirato l’attenzione su una forma teatrale servita finora solo a mettere in scena delle cose mediocri. La pièce non verrà però mai rappresentata, poiché troppo distante dalla tradizione e Flaubert non scriverà mai tale prefazione. Cederà invece alla pubblicazione dell’opera illustrata. 61 Cfr. Marschall C. Olds, Au pays des Perroquets: féerie théâtrale et narration chez Flaubert, Amsterdam/Atlanta, Rodopi, 2001. 62 La diffusione in Europa dell’opera di Poe, che ebbe in Baudelaire un traduttore privilegiato (Révélation magnétique nel 1848 e Histoires extraordinaires nel 1856) contribuisce a rinnovare l’immaginario fantastico di questo periodo. Ma, già in precedenza, tali tematiche erano state affrontate da Hoffmann che aveva mostrato grande interesse per i fenomeni dell’occulto, contagiato artisticamente dalla frequentazione di alcuni suoi amici medici (Der Magnetiseur (1813), tradotto in francese nel 1859 e soprattutto Der Sandmann (1816), tradotto nel 1830 con il titolo di L’Homme au sable). 63 Reichenbach definisce «od» la «force universelle qui pénètre et jaillit rapidement en tout, dans toute la nature avec une force incessante». Lettres odiques–magnetiques du chevalier de Reichenbach, Paris, L.A. Cahagnet, 1853, 6. In una lettera del 4 luglio 1860, indirizzata a Ernest Feydeau, Flaubert afferma di aver appena terminato di leggere un libro sul magnetismo e, anche se non cita il testo, è abbastanza plausibile che si tratti proprio delle Lettres odiques–magnetiques di Reichenbach. Cfr. G. Flaubert, Correspondance, t. III, cit., 87. Flaubert consulta inoltre un articolo di Arnold Boscowitz dal titolo Recherches sur un nouvel agent impondérable: l’Od, apparso ne «La Revue germanique» del 1861. 64 G. Flaubert, Les Trois Épiciers (f. 2r), in Marschall C. Olds, o cit., 63. 65 G. Flaubert, Les Trois Frères(f. 2r), in K. Singer–Kovacs, Le Rêve et la vie. A theatrical experiment by Gustave Flaubert, USA, Harvard University, 1981, 107. 66 Sugli esiti grotteschi di tali sperimentazioni Cfr. B. Donatelli, o cit., p. 87–92. 22 LUCIA PERREMUTO 67 268. 68 69 70 G. Flaubert, Bouvard et Pécuchet (éd. S. Dord–Crouslé), Paris, Flammarion, 2008, Ibid., 278. Ibid., p. 279–280. Ibid., p. 78–79. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422812 pag. 23–37 Daniela Fabiani Philippe Claudel e Marie Ferranti fra letteratura e pittura: quale realismo per la letteratura francese del XXI secolo? Letteratura e pittura è un binomio su cui fin dall’antichità gli artisti si sono misurati creando un dialogo sempre fecondo e ricco di suggestioni che, pur se non esente da problematiche, è stato capace comunque di fondare un tessuto relazionale tra le due arti estremamente diversificato1 . Se, come ha affermato D. Bergez,«C’est un fait que l’histoire de la peinture en Occident s’est largement construite en rapport avec la littérature [. . . ] La littérature a pris l’habitude de se voir et de se questionner dans le reflet altéré que lui offre la peinture»2 , è altrettanto indiscutibile che la fine del XX° secolo ha visto un intrecciarsi molto più variegato tra queste due arti tanto che oggi, come ha affermato D. Viart : «La peinture est désormais un partenaire de l’écriture»3 . Il paesaggio letterario che viene comunemente identificato con il termine «extrême contemporain» offre infatti un panorama molto ricco di interferenze reciproche tra le due arti, la cui relazione tuttavia è molto più complessa e sfumata rispetto ad una tradizione plurisecolare: Le ‘manifestazioni’ artistiche nelle pagine dei romanzi francesi contemporanei sono una presenza ostinata e discriminante, un flusso inestinguibile di evocazioni, una costante oggettuale concreta, un inevitabile collante di eventi privilegiati. É dunque, soprattutto l’intervento nella narrazione del materiale artistico che trova ragioni diverse e fa sì che nulla sia come prima 4 . Nella molteplicità di presenze che il materiale pittorico offre ai lettori del romanzo contemporaneo, una modalità particolarmente interessante è quella di introdurlo nel cuore stesso della creazione letteraria, all’origine cioè di una narrazione che si costruisce e si sviluppa attorno ad esso: in questa ottica il testo pittorico diventa il déclencheur de fiction e quest’ultima lo ricostruisce incarnandolo in un intreccio che tuttavia lo ripropone secondo una prospettiva e un punto di vista che derivano essenzialmente dal significato che il romanziere, e non più il pittore, vuol conferire alla sua creazione. Si instaura così una relazione che potremmo definire contemporaneamente di prossimità e di lontananza tra le due arti: la scrittura narrativa si costruisce 24 DANIELA FABIANI direttamente sull’opera pittorica ma in questo rinvio ad una realtà oggettiva che accomuna due testi che la esprimono con due codici diversi, il romanziere ne riprende i vari aspetti e la ricrea sulla carta facendola però diventare ‘altro’ rispetto al suo referente reale. Il dialogo che così si instaura tra le due creazioni non è più una relazione lineare tra due arti che utilizzano codici espressivi diversi, ma un rapporto che l’arte narrativa stessa instaura al suo interno, utilizzando l’unico registro della narrazione di fiction per diramarsi su due forme espressive parimenti immaginarie. Questa relazione complessa che la scrittura romanzesca instaura al suo interno, creando un immaginario in cui pittura e romanzo si intrecciano e si confondono, interroga perciò il senso e il valore di una referenzialità oggettiva che, pur se presente nel romanzo, si trasforma in ‘impostura’, poiché conferisce al semplice testo narrativo il compito di proporre due espressioni artistiche diverse; d’altra parte è altresì evidente che nel momento stesso in cui un qualsiasi referente reale entra a far parte dell’immaginario narrativo, esso comincia a vivere di vita propria e, pur conservandone gli elementi essenziali, perde ogni aggancio con la realtà e diventa parte integrante di una creazione immaginaria. E questo è ancor più vero ai nostri giorni, quando letteratura e pittura, ossia due arti accomunate da una modalità interpretativa della realtà e non puramente rappresentativa, si intrecciano e si fondono in un unico codice espressivo: lo scrittore scrive a partire dal quadro per creare una storia in cui il referente che lo ha ispirato viene esso stesso ricreato in un mondo immaginario; il codice pittorico e il punto di vista che esprime entrano così a far parte del ‘jeu’ narrativo, in una dimensione cioè in cui tutto viene trasfigurato da uno scrittore che misura la sua sensibilità artistica e si interroga sul valore della sua creazione narrativa grazie al confronto/parallelo che più o meno implicitamente instaura con il testo pittorico. Si tratta di un percorso perciò che nel tentativo di riannodare il legame tra letteratura e realtà, come ha sottolineato D. Viart 5 , esprime una delle modalità forse più interessanti della narrativa francese dell’ extrême contemporain di comprendere il rapporto che lega letteratura e pittura e di conseguenza anche il senso di un interrogativo sul valore dell’ atto creativo che inevitabilmente ne scaturisce. Esemplari in questa ottica sono due testi che, pubblicati all’inizio del XXI secolo, propongono con strategie diverse ma con forza parimenti dirompente il problema del rapporto tra pittura e letteratura: La Princesse de Mantoue di Marie Ferranti, romanzo che adotta la forma comunemente detta oggi ‘fiction brève’ e uno stile che vari critici hanno accostato alla tendenza minimalista6 , è stato pubblicato da Gallimard nel 2002 e subito premiato con il ‘Grand prix du roman de l’Académie française’; Les Petites mécaniques di Philippe Claudel è invece una raccolta di novelle pubblicata nel 2003 dalle edizioni Mercure de France, vincitrice nello stesso anno del ‘Prix Goncourt de la nouvelle’, che presenta al suo interno due testi particolarmente significativi PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 25 dal nostro punto di vista: basate sulla stessa problematica introdotta dal romanzo della Ferranti, le due novelle propongono una riflessione ad essa speculare ma al tempo stesso la rilanciano approfondendo la domanda sul rapporto che l’atto creativo intrattiene col reale. Nonostante il genere narrativo diverso, che tuttavia, come ben si sa, nella letteratura contemporanea non gode più di una effettiva soglia discriminante, le due opere individuano e testimoniano uno dei possibili percorsi interpretativi di una presenza intertestuale certamente interessante nonché del suo ruolo all’interno della problematica del realismo nella letteratura contemporanea. Marie Ferranti e Mantegna Pur non essendo il solo romanzo della Ferranti a intrecciare un discorso tra pittura e letteratura7 , La princesse de Mantoue è l’unico romanzo della scrittrice corsa ad essere incentrato dall’inizio alla fine su una realizzazione pittorica notissima come è quella della ‘Camera Picta’ del Mantegna, assunta dall’autrice come punto di vista sulla realtà storica ma rimessa in discussione tramite la sua scrittura. Infatti già la prima sequenza del primo capitolo introduce quello che è il nucleo ispirativo del testo e quindi l’interesse effettivo, pur se implicito, che ha spinto l’autrice a inventare la sua storia: le primissime parole con cui si apre il romanzo legano indissolubilmente l’aspetto esteriore di Barbara di Brandeburgo con il ritratto che di lei ha fatto il Mantegna nel celebre affresco del castello San Giorgio di Mantova. All’affermazione iniziale dell’autore, «Barbara de Brandebourg était laide»8 , cui segue la contestualizzazione nel dipinto che la rappresenta, fanno eco le parole della stessa Barbara che descrive in una lettera all’amica Maria di Hohenzollern l’immagine che di lei ha fatto Mantegna; pur riconoscendo l’indiscutibile realismo dell’arte di Mantegna, la donna mette in dubbio la veridicità del tratto pittorico che l’artista le ha dato e nel far questo pone l’accento sul rapporto tra realtà e apparenza, cioè sulla relazione che si instaura tra l’oggetto rappresentato e l’occhio dell’artista: La dureté dans le domaine des arts, est une vertu et il est bon parfois de se voir tel que l’on est. Ma stupeur vient cependant que l’on me reconnaisse là où moi–même je crois voir une étrangère. Cela donne lieu à des méditations plus profondes. S’arrête–on à mon apparence et non à ce que je suis? Qui peut le dire?9 La narrazione si apre perciò su un gioco di sguardi sul reale che, nel mettere in luce la loro contraddittorietà, fa emergere anche la questione fondamentale ad essa sottesa: pur se l’arte ‘rappresenta’ in modo fedele la realtà, l’oggetto non da tutti è riconoscibile come tale. Cos’è allora la realtà 26 DANIELA FABIANI e soprattutto, nella distinzione tra realtà e apparenza, cosa conta veramente e quindi vale la pena di essere rappresentato e/o descritto? Queste domande, che pongono da subito il testo nella sua vera dimensione dando al lettore anche la giusta chiave interpretativa, percorrono in filigrana tutta la narrazione successiva: nel raccontare la storia e la vita di Barbara parallelamente alla realizzazione della pittura, l’autrice cerca di far emergere il carattere e la personalità di questa donna incanalandoli sul duplice binario indicato nelle sue parole iniziali. Il testo si snoda così raccontando la storia di Barbara, dal suo arrivo a Mantova all’età di dieci anni per un matrimonio che sarà consumato solo sette anni dopo e in modo assai brutale, all’educazione che riceve a corte grazie a Vittorino da Feltre, precettore della famiglia Gonzaga, alla vita familiare e politica che con il marito conduce a Mantova, tra intrighi, crudeltà e sogni artistici. Dopo le varie e complesse vicende familiari che anche la storia ci ha tramandato, il racconto prosegue con la descrizione della coppia che si insedia stabilmente a capo del regno di Mantova, favorisce la costruzione di molte opere architettoniche per abbellire la città e soprattutto, nel suo mecenatismo, chiama il Mantegna a Mantova per la realizzazione appunto della ‘Camera picta’. Il volume perciò ricrea le vicende della famiglia Gonzaga attraverso la vita di Barbara, dal momento del matrimonio della giovane fino alla sua morte, intrecciando alcuni eventi storici importanti dell’Italia del tempo con i momenti più significativi della vita personale di questa celebre coppia, su cui molto influì la tara ereditaria della gobba di cui la famiglia Gonzaga soffrì per intere generazioni. Ricco di date e di dettagli storici, il romanzo potrebbe essere assimilato al genere storico o a un romanzo di formazione: la giovane Barbara, abbandonata la Germania natale per raggiungere il suo sposo, giunge a Mantova dove viene pian piano iniziata alla sua vita di futura regnante su uno dei regni più ‘illuminati’ del Rinascimento italiano; la sua personalità verrà forgiata su un’educazione tipica della cultura del tempo e la sua statura di principessa di un grande regno dell’antichità, costruita pian piano dalla formazione ricevuta, emerge in modo particolare dopo la morte del marito, quando si trova da sola a proseguire nel suo compito di reggente. Al di là tuttavia delle varie classificazioni cui potrebbe rimandare il romanzo, sia la presenza della storia che la formazione personale della giovane donna sono elementi del tutto secondari rispetto a quella che è la reale struttura del testo e il suo nucleo di interesse effettivo. Il volume infatti, secondo la chiave interpretativa precedentemente indicata, potrebbe essere suddiviso idealmente in due parti, che potremmo intitolare ‘apparenza’ e ‘realtà’, aventi al centro, come momento di convergenza e di snodo narrativo, il capitolo 3 interamente dedicato alla realizzazione pittorica del Mantegna. I due capitoli della prima parte infatti mostrano la progressiva formazione della personalità della giovane, la tenerezza verso il figlio Federico, la vivacità PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 27 e la curiosità intellettuali che la portano ad interessarsi con gusto e dedizione appassionata alla costruzione della sua realtà familiare in quanto espressione di uno status sociale che trova il suo apice nella volontà di affidare al Mantegna la realizzazione della ‘Camera picta’ e di lasciare libero il pittore nelle sue scelte artistiche. La seconda parte, che abbiamo idealmente intitolato ‘realtà’, copre invece gli ultimi tre capitoli in cui viene impietosamente messo in luce dall’autrice il cambiamento della personalità di Barbara alla morte del marito, avvenuta dopo la conclusione dell’opera da parte del Mantegna. La percezione che Barbara aveva di sé, quella che lei stessa aveva chiamato la sua vera natura all’inizio del testo, si trasforma ora pian piano e fa emergere i tratti salienti della sua personalità arida e crudele, che documentano la veridicità del ritratto fattole dal Mantegna: la cattiveria e la durezza che caratterizzano il suo rapporto con la figlia Paola10 , la mancanza di compassione verso le drammatiche vicende del figlio Rodolfo11 , l’indifferenza che mostra nei confronti della morte dell’amica /confidente di tutta una vita, Maria di Hohenzollern12 , diventano i segni narrativi di una descrizione pittorica che aveva saputo guardare nella realtà del suo cuore e non fermarsi appunto all’apparenza. Questa evoluzione interiore della donna, che rovescia la concezione di sé della protagonista — quella che per Barbara era solo un’immagine basata sull’apparenza, incapace di guardare al di là di essa, diventa la vera realtà della sua personalità — trova il suo momento di svolta nel capitolo terzo, dove ampio spazio viene dato alla descrizione dell’opera del Mantegna: pur se tutto il testo è disseminato di notazioni su quest’ultima e sui rapporti controversi che il pittore intrattenne con la sua committente, le pagine che descrivono partitamente il lavoro del Mantegna cominciano effettivamente col capitolo 3 e si concentrano in circa venti pagine. L’interesse e l’originalità in questa parte risiedono anzitutto in alcuni elementi che introducono una sorta di cambiamento nello stile narrativo: l’autrice infatti scende in campo direttamente parlando in prima persona per spiegare e giustificare agli occhi dei lettori contemporanei il valore di un’opera d’arte eseguita su ordinazione, per cui «Les scènes, [...] n’ont pas été saisies sur le vif, mais composées, voire corrigées sur l’ordre de Louis ou de Barbara»13 . Il che spiega perchè Mantegna desiderasse e attendesse indicazioni specifiche dai committenti sulla sua realizzazione pittorica: quello che suonerebbe strano e potrebbe «heurter notre conception de l’art»14 , sottolinea la scrittrice, era invece una pratica corrente nel XV secolo. Ora, questa intrusione diretta dell’autore nella sua opera, certamente strana e comunque unica in un romanzo che per il resto è sempre e solo scritto in terza persona (eccetto nelle parti in cui vengono riportati i frammenti delle lettere dei due protagonisti), in realtà serve a sottolineare la centralità di questa parte nell’economia del romanzo e l’originalità della sua struttura, nonché dunque a giustificare le scelte narrative operate dall’autrice che rivendica così, implicitamente, il suo 28 DANIELA FABIANI ruolo di ‘deus ex machina’ della vicenda narrata. Infatti la descrizione della ‘Camera picta’ e di come Mantegna giunse alla sua realizzazione avviene su due piani o meglio da due punti di vista che trovano il loro punto di confluenza proprio nella capacità di colui che racconta di equilibrare le varie parti. Mantegna descrive la sua progressiva realizzazione artistica grazie all’autrice che riporta e collega tra loro alcuni brani delle lettere che il pittore scrisse al riguardo al suocero, Jacopo Bellini, a cui vengono aggiunti ipotetici dialoghi in forma diretta fatti dal pittore con Luigi Gonzaga e con Barbara: da tutto ciò emerge il rapporto controverso che l’artista ha avuto con la giovane nel corso dei dieci anni necessari per la conclusione dell’opera in cui comunque ha sempre prevalso il sostegno e l’incoraggiamento per superare le difficoltà dell’impresa. L’altro punto di vista di cui la Ferranti fa partecipe il lettore è quello di Barbara, organizzato anch’esso con la stessa tecnica: brani di lettere scritte dalla donna alla sua amica e confidente Maria di Hohenzollern orientano la progressiva descrizione delle varie parti dell’affresco, le stesse di cui ha già parlato il pittore, mescolati a dialoghi in forma diretta tra la giovane, il pittore, il marito. Anche qui emerge, accanto alla diversità di opinioni sulla realizzazione pittorica, l’estremo sostegno e la libertà concessi dalla donna al pittore nonché l’ammirazione per un artista di grande talento che, nelle sue intenzioni, contribuirà con quest’opera a rafforzare il potere dei Gonzaga15 . Solo la descrizione dell’oculus viene lasciata all’unico punto di vista di Barbara: la splendida invenzione del Mantegna che apre il soffitto a una visione prospettica celeste in cui gli angeli dipinti «respirent la fraîcheur de l’enfance [et] ont une grâce que n’eurent jamais mes enfants»16 , permette a Barbara di contemplare quella bellezza e di assaporare quei momenti di felicità che ha sempre inseguito ma che purtroppo non è mai riuscita a trovare nel corso della sua esistenza. Non a caso al momento della sua morte la donna si farà trasportare nella Camera e farà mettere il suo letto sotto l’oculus, per poter attingere un’ultima volta, da quella «tranquille beauté»17 che il dipinto le mostra, la forza di affrontare gli istanti finali di un’esistenza dolorosa. Ora, questa costruzione così articolata della parte centrale del romanzo, pur rendendo la narrazione estremamente vivace e suggestiva, restituisce al lettore un’immagine frammentata dell’opera del Mantegna: infatti qui si concentra non solo e non tanto la descrizione ‘oggettiva’ di un luogo universalmente conosciuto, quanto la narrazione di due personalità diverse che si relazionano grazie allo sguardo che ognuna posa sugli stessi elementi dell’unico oggetto che è la pittura. Per questo non viene mai data una descrizione unitaria effettiva di tutta la stanza, ma vengono solo accennati alcuni aspetti — gli angeli e l’oculus, la scena centrale con i due sovrani e la scenografia — descritti ora dal pittore ora dalla reale protagonista, Barbara, PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 29 attraverso le impressioni ricevute. E la collaborazione incrociata di questi due punti di vista sulla graduale conclusione dei lavori svela alla fine la riconoscenza reciproca di entrambi: Mantegna per il sostegno ricevuto, Barbara per le dimenticanze di un artista che, «malgré le souci de réalisme qui le caractérise»18 , è riuscito a evitare di mettere in evidenza la presenza della gibbosità nella sua famiglia; come dire che nella sua riproposizione del reale il pittore, ma anche il romanziere sceglie, seleziona, ricrea quello che l’occhio dell’artista coglie come essenziale e funzionale al suo ‘discorso’ artistico. Marie Ferranti usa perciò un testo pittorico come motore centrale della sua creazione narrativa e fa di esso il punto nodale di un racconto in cui la descrizione è funzionale alla esplicitazione di due personalità, Barbara e Mantegna: di entrambi ricostruisce la vita facendo della ‘camera picta’ il punto di confluenza e di incontro di due ‘nature’ artistiche, di cui l’uno, pittore, è famoso per il suo crudo realismo, mentre l’altra, semplice amante delle arti, giudica e in questo modo ‘collabora’ alla realizzazione pittorica. È anche questo in fondo un modo per interrogare il valore della creazione artistica e in questa ottica Barbara incarna anche il lettore/osservatore che con il suo giudizio interviene a cogliere gli elementi essenziali dell’opera che legge o guarda. Tuttavia ciò che qui interessa soprattutto è che, come si è detto, il testo narrativo rimanda all’opera d’arte ma la frattura, cioè ce ne dà un’immagine frammentata e nel fare questo la ricrea: il testo infatti, come abbiamo visto, non è una semplice descrizione dell’affresco ma un progressivo giustapporsi di descrizioni di alcuni elementi e dell’effetto che questi provocano in colui che osserva, per cui possiamo anzitutto dire che il testo letterario riproduce e interpreta a suo modo il gioco dello sguardo che si posa sull’opera d’arte. La ‘Camera picta’ narrata, nel suo insieme, sfugge a una visione globale, unitaria e pur se ci si dice il senso del tutto, il lettore è invitato a osservare solo quello che il testo mette in evidenza: l’autore organizza la sua scrittura in modo tale che il lettore sia costretto a visualizzarla solo nell’ottica che lui ha voluto sottolineare. Questa rimessa in discussione del referente reale contribuisce a confondere il lettore, a fargli perdere la certezza di conoscenze acquisite e a far emergere il testo scritto come unico punto di vista sulla realtà stessa. Infatti il realismo pittorico del Mantegna è stato trasformato in una visione ‘parziale’ della realtà dei Gonzaga e a questo preteso ‘soggettivismo’ della realizzazione pittorica Marie Ferranti aggiunge, con una scrittura che osserva, frattura, ricrea e ricompone, la sua visione anch’essa parziale della ‘Camera picta’. Ciò che emerge allora da questo gioco intertestuale è il valore dell’arte come modalità soggettiva, filtrata da una coscienza creatrice, di osservare il mondo e di riproporlo per il tramite di una scrittura che non fa altro che reinventarlo. Non è un caso perciò che il romanzo si concluda con una Postface dell’autrice che mette in discussione quanto di storico il testo ha appena raccontato: qui ella 30 DANIELA FABIANI confessa di aver inventato tutto, lettere, epistolari, dialoghi salvo l’affresco del Mantegna, di essersi abbandonata a «un jeu»19 narrativo con l’unico scopo di voler far rivivere a suo modo dei personaggi storici in un ambiente italiano del XVI secolo. La scrittura letteraria diventa così un modo per inventare un mondo, un ambiente, una storia in cui non conta la soglia che separa la realtà dalla finzione, il vero dall’immaginario poiché ciò che interessa è il percorso di conoscenza personale che la creazione artistica è capace di generare nell’autore: in questo modo pittura e letteratura si intersecano e si aiutano a vicenda nel porre in primo piano l’interrogativo sul senso e sul valore dell’atto creativo. Philippe Claudel e l’arte Philippe Claudel, che ha ormai acquisito una sua posizione peculiare nell’ambito della letteratura contemporanea, comincia a pubblicare solo nel 1999: Meuse l’oubli 20 è il primo romanzo che lo fa conoscere al pubblico e alla critica grazie anche ai vari premi letterari ottenuti ma è comunque nel 2003 che ottiene i primi riconoscimenti; la raccolta di novelle Les petites mécaniques gli vale il ‘Prix Goncourt’ della novella e il successivo romanzo Les âmes grises21 vince nel 2003 il ‘Prix Renaudot’ e nel 2004 il ‘Prix des Lectrices d’Elle’; da questo romanzo verrà poi realizzato un film con lo stesso titolo dal regista Yves Angelo, con dialoghi dello stesso Philippe Claudel. Le due novelle che qui vogliamo prendere in considerazione fanno parte dei 13 testi che compongono appunto Les petites mécaniques, raccolta introdotta da una citazione di Pascal posta ad esergo che ne indica esplicitamente la chiave interpretativa: «Nous sommes de bien petites mécaniques égarées par les infinis». Il volume infatti evoca il fragile meccanismo della vita umana «que l’on pense infaillible, sûre d’elle–même et qui pourtant soudain se dérègle et se grippe»22 . Ogni novella presenta così il destino di un personaggio la cui esistenza ad un certo punto viene sconvolta da un evento qualsiasi e indirizzata su sentieri strani e sconosciuti, spesso bizzarri, avvolti da un’atmosfera fantastica: quindi la raccolta propone tanti aspetti dell’esistenza, che convergono tutti verso una conclusione drammatica e che compongono così idealmente il grande mosaico della vita umana su cui l’autore vuole far riflettere il lettore. La raccolta attraversa tempi e spazi diversi e si appoggia su una scrittura poetica, soffusa di delicatezza e tenerezza: il genere novella, si sa, è sorretto da contraintes precise come l’ellissi, la brevità e la concisione, l’essenzialità della descrizione, l’esiguo numero dei personaggi; Claudel, pur praticando queste strategie narrative tipiche del genere narrativo breve, si caratterizza tuttavia per l’ampio spazio che dedica alla descrizione, sia fisica del personaggio sia degli ambienti, con una attenzione e incisività che PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 31 richiamano quelle del pittore, specialmente laddove si abbandona ad una prosa che gioca sui livelli cromatici del linguaggio per esaltare particolari stati d’animo o per suggerire un ambiente onirico e surreale. Nella raccolta, accanto a referenze pittoriche generiche, come i semplici riferimenti a un quadro di William Turner e di Murillo23 e a una pala d’altare di Mastro Tierckaert24 , due sono i testi che presentano un interessante gioco narrativo che si struttura sul rapporto arte/realtà attraverso la presenza della pittura: si tratta della novella Les Confidents in cui il nome della protagonista, Beata Désidério, rimanda a quello di Monsu Désidério, nome artistico di due pittori lorenesi attivi a Napoli all’inizio del XVII sec., e di Paliure, un testo che racconta l’agonia solitaria del personaggio Igor Beshevic, guardiano di un museo, di fronte a un quadro di Antonello da Messina, Crucifixion au buisson. In entrambe le novelle l’arte pittorica è parte integrante della trama e ne determina la conclusione: l’intreccio che così si delinea tra le due forme, poste tuttavia in dialettica dall’autore, pone in essere un parallelo tra arte narrativa e arte pittorica indirizzandolo inevitabilmente sulla relazione che entrambe intrattengono in quanto forme creative con la realtà quotidiana. Les confidents racconta la vicenda della contessa Beata Désidério che, in sogno, assiste al saccheggio di una chiesa ad opera di due nobili che distruggono il suo interno e a colpi di daga mutilano la statua di un santo. La descrizione proposta dall’autore è molto puntuale e rimanda alle rappresentazioni pittoriche di Monsu Désidério caratterizzate dal gusto spiccato per rappresentare catastrofi, crimini e soprattutto architetture in rovina; in particolare, il testo di Claudel fa pensare a due delle loro tele più celebri, Esplosione dentro una chiesa e Il re di Giuda Asa distrugge gli idoli, in cui il pennello dell’artista conferisce all’insieme una dimensione fantastica grazie anche alla visione di un decoro architettonico grandioso che sta crollando. L’evento sacrilego lascia nella donna un’emozione talmente intensa da spingerla inizialmente a cercare di ritrovarne i protagonisti tra i nobili che frequenta ma, vista l’inutilità di tale ricerca, decide di far riprodurre in un quadro l’ambiente in cui il sogno l’ha proiettata per poter «retrouver l’émotion du rêve»25 ; tuttavia nessun pittore, per quanto bravo, riesce a riprodurre l’insieme architettonico della sua esperienza onirica: Elle n’aurait su d’ailleurs dire ce qui manquait à ces œuvres pour épouser son rêve: tout semblait en ordre [. . . ]. La précision des tableaux forçait l’admiration. Les peintres étaient parvenus à rendre les couleurs, les ombres, la violence des gestes, la transparence des vitraux [. . . ] mais Beata Désidério ne ressentait rien d’autre en les regardant que le respect pour un travail bien fait26 . Beata si abbandona allora alla malinconia e fa oscurare tutto il palazzo con la speranza di poter ritrovare nel sogno quanto aveva già visto e provato; 32 DANIELA FABIANI ma nulla accade e la dama decide così di tornare alla luce: tuttavia, durante la notte precedente questa svolta da imprimere alla sua vita, la sua mente ormai libera dalla quête ritrova l’esperienza onirica iniziale che però la vede agire da protagonista e non più da spettatrice. Il ritrovamento finale del suo corpo in biblioteca con un pugnale in mano, davanti ai tre quadri che aveva fatto dipingere, diventa emblematico: la sua posizione e la descrizione del suo viso rimandano idealmente alla statua della scena iniziale della novella la cui struttura circolare mette così in luce non solo la possibilità di interscambio tra sogno e realtà ma anche il valore dell’esperienza artistica rispetto all’esistenza quotidiana. Non a caso, come si evince dalla citazione sopra riportata, la pittura non riesce né a riprodurre l’intensità dell’evento onirico né a placare il profondo desiderio nato nella donna: è evidente infatti l’affermazione della inferiorità della rappresentazione pittorica in rapporto alla realtà architettonica dell’edificio sognata dalla protagonista, come anche l’implicita considerazione che un realismo artistico inteso come semplice e fedele rappresentazione della realtà sia incapace di soddisfare il cuore dell’uomo. Ora, il parallelo instaurato tra le arti suggerisce varie domande e riflessioni: anzitutto il codice cromatico della lingua narrativa è essenzialmente svolto sui toni del bianco e nero e sulle loro sfumature, il che dice la forza dell’impatto pittorico sul testo, sia a livello di immaginario che a livello tematico; ciò conferisce al racconto un andamento fantastico dal gusto barocco e gotico che obbliga quasi il lettore a fare paragoni precisi tra il quadro pittorico di riferimento e la descrizione testuale; ma siamo sempre nell’ambito di due realtà ‘artistiche’, rappresentate attraverso il filtro di un punto di vista unico, quello dell’autore, che quindi prendono solo spunto dalla realtà ‘vera’; per cui la questione che si pone, specialmente dopo un finale che ha visto fondersi una realtà nell’altra attraverso un codice linguistico che è la sintesi di entrambe, è quale senso dare a una simile conclusione: l’arte che descrive la morte, della materia e dell’uomo, posta tra l’altro in una dimensione onirica, diventa la proiezione speculare ma ingigantita di un’angoscia, della ricerca ossessiva di una felicità che né il sogno né la pittura riescono a soddisfare. Se il sogno amplifica quanto di nascosto esiste nella realtà interiore della natura umana e l’arte, nella sua duplice espressività che qui viene indicata, cerca di riprodurla nel tentativo di appagarla ma anche di eternizzarla, il racconto non fa che sottolineare la sua intrinseca debolezza: l’arte intesa come fantasia e immaginario, come finzione che allontana dal mondo e non dà ‘sollievo’, sembra proporsi solo come riproduzione ingannevole di una realtà interiore molto più ampia e emotivamente vissuta e quindi non può che condurre, inevitabilmente, alla morte. Lo stesso senso di fallimento e di inganno della rappresentazione artistica di fronte alla ricerca umana è ben presente e forse anche più evidente nell’altra novella, Paliure, dove si racconta la vicenda di un personaggio, Igor PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 33 Beshevic, che pur essendo guardiano di un museo ricco di quadri celebri è totalmente indifferente alla pittura mentre ama invece in modo esclusivo le parole rare, dalle etimologie complesse e spesso indecifrabili: la ricerca del significato, dell’origine e dell’evoluzione di queste ultime è l’ossessione che domina e orienta tutte le sue giornate e il godimento che trae da queste sue scoperte è l’unico a conferire valore al suo tempo e a procurargli momenti di felicità piena che l’autore paragona a «des extases»27 . Il racconto coglie il personaggio nel momento in cui il termine che sta cercando ossessivamente di decifrare è proprio ‘Paliure’: Paliure cognait dans sa tête à la façon d’un marteau rageur sur une enclume. Il lui semblait que le mot prisonnier se vengeait de lui en l’assommant, hurlant ses propres sons, désespéré de ne plus avoir de sens.[. . . ] le mot criait maintenant dans son cerveau 28 . Con la mente totalmente presa dalla ricerca del significato di questa parola, egli cammina tra le sale del suo museo fino a che non cade a terra, paralizzato, e sviene: si risveglia davanti a un quadro di Antonello da Messina, Crucifixion au buisson, in cui il volto di Cristo sembra animarsi per sorridere con tenerezza a Beshevic e accompagnarlo negli ultimi istanti di vita. È così che il personaggio «pour la première fois de son existence [. . . ] se trouva contraint, malgré sa répugnance, de fixer une œuvre peinte»29 . Egli vorrebbe ritrovare il filo delle sue ricerche per conoscere il senso di ‘paliure’ ma, nella sua fissità di moribondo, trova di fronte a sé solo l’immagine di quel Cristo e della corona di spine che circonda il suo capo che, per una tragica e crudele ironia, è ciò che realmente potrebbe rispondere alla questione che lo ossessiona anche in punto di morte: quell’immagine è la raffigurazione precisa di ciò che egli sta cercando ma Beshevic muore senza sapere che quelle spine «sont les vives terminaisons d’un petit arbre de Judée, qui pousse à l’orée des déserts dans de pauvres sables [. . . ] et que de savants botanistes, un jour, un jour très ancien, nommèrent du très doux terme de paliure»30 . Il quadro che fa da scenario alla morte di Beshevic è perciò la vera risposta alla ricerca incessante di quest’ultimo, poiché esso gli offre il significato e il significante: neanche la contemplazione forzata di un quadro è capace di aprire la sua mente e Beshevic muore, vittima inconsapevole del linguaggio scritto e pittorico. La risposta che tanto agognava era lì di fronte a lui, ma i suoi occhi non hanno saputo vedere la realtà che gli si proponeva: è come se l’autore volesse suggerire al lettore che quando la passione per l’arte, in questo caso il linguaggio, diventa un assoluto nella vita, essa è capace solo di operare una frattura tra l’uomo e ciò che lo circonda, di allontanarlo dal mondo reale e quindi lo destina alla morte. E questo è ancor più vero e pregnante in un testo come questo in cui il quadro cui l’autore fa riferimento 34 DANIELA FABIANI è storicamente inesistente: sappiamo che Antonello da Messina ha dipinto molte figure di Cristo agonizzante ma nessuna tela è mai stata definita e titolata in questo modo; molto più verosimilmente qui Claudel fa riferimento al celebre ‘Cristo alla colonna’ del 1475, di cui le parole dell’autore sono in effetti una reale descrizione. Come già nel testo precedente, Claudel sembra voler dire che l’arte è foriera di morte, una morte materiale che rimanda immediatamente al suo senso metaforico: l’arte non trova mai riscontro nella vita, non può essere rappresentazione e riproposizione della realtà per cui l’assolutezza che ad essa si conferisce non è altro che inaridimento interiore e quindi morte morale dell’essere. Tanto più che qui, come anche nel romanzo della Ferranti, la narrazione si snoda su riferimenti falsi, quindi sottoposti all’impostura di un autore che ha inventato delle storie intrecciate a indicazioni pittoriche volutamente ingannevoli. Disfatta allora dell’arte in quanto incapace di riprodurre il reale ma solo di giocare con esso grazie all’immaginario? Se certamente questa è la prima impressione è proprio da qui tuttavia che emerge il vero valore di questo genere di narrativa che per l’intermediario della pittura si propone al lettore contemporaneo. Il valore dell’esperienza artistica È certamente innegabile la presenza, all’interno dei testi considerati, di una dimensione ludica che si basa essenzialmente su giochi intertestuali più o meno espliciti in cui si intrecciano pittura e scrittura. Come si è già visto, elementi di verità e finzione si rimandano l’un l’altro e si mescolano continuamente, soprattutto nel romanzo della Ferranti, generando confusione e sconcerto nel lettore; la rimessa in discussione dei referenti reali contribuisce a far perdere a quest’ultimo ogni certezza sulle sue acquisizioni e lo invita al tempo stesso ad assumere come unico punto di vista sul reale quello propostogli dall’autore. In questo modo il testo scritto, sintesi di due diverse forme espressive, resta la sola realtà ‘oggettiva’ cui ancorarsi: l’arte narrativa viene esaltata in quanto modalità soggettiva, filtrata dalla coscienza dell’autore, di osservare il mondo e di riproporlo per il tramite di una scrittura che lo reinventa. Il lettore si trova perciò si trova di fronte a un racconto che ricrea non tanto l’oggetto ma una percezione e un’idea dell’oggetto, o ancora di più, «l’effet produit par l’objet dans la sensibilité et l’intellection de qui s’intéresse à lui»31 . Il percorso di conoscenza cui è invitato il lettore non ha più allora come scopo di conoscere il mondo quanto di penetrare nella coscienza creatrice dell’autore che osserva la realtà che lo circonda: il racconto è il suo modo di vivere il mondo e di abitarlo, quindi di conoscerlo e questa conoscenza passa attraverso una sensibilità che trova nel PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 35 reale i suoi punti di riferimento necessari. In questo senso si può affermare, come ha sottolineato Todorov, che la letteratura è anzitutto una esperienza, esperienza di uno sguardo diverso sulla realtà, uno sguardo che nasce nel mondo e che si offre di nuovo a lui attraverso la scrittura32 . L’atto creativo serve allora per interrogare il mondo e per aprire nei vasti orizzonti che esso offre dei percorsi che facciano emergere i suoi drammi come anche le sue scintille di verità. E in un panorama culturale contemporaneo che, uscito dagli sperimentalismi formali degli anni ’70 del 1900, ha perso ogni contatto con la realtà e si è rifugiato in un soggettivismo a volte esasperato, nulla meglio dell’arte figurativa del passato può aiutare lo scrittore a comprendere il rapporto che l’arte intrattiene con il motivo ispiratore: la pittura diventa allora il partner necessario, come si diceva all’inizio, per ristabilire questo contatto con il reale in una ‘collaborazione’ artistica che serve essenzialmente a far riemergere con forza il valore dell’atto creativo. L’intertestualità, diretta o indiretta, vera o ingannevole che sia, diventa perciò la modalità privilegiata attraverso cui lo scrittore interroga il suo stesso gesto creativo e tenta di capire il rapporto che intrattiene con esso. E allora emerge con forza la questione posta dai due testi di Philippe Claudel: una natura creatrice che assolutizza se stessa è inevitabilmente condotta a un’autoreferenzialità ossessiva e non riesce più a osservare la realtà esterna per trovare in essa la risposta alle proprie incertezze e domande; si condanna alla pura astrazione e, sia essa pittura o letteratura, contravviene a quello che è il suo scopo primario: se, come diceva Paul Klee «l’art ne reproduit pas le visible, il rend visible»33 , la letteratura non può non occuparsi di svelare quanto la natura umana vive, di rendere appunto visibili i drammi e le bellezze del vivere quotidiano. Usando la dimensione del paradosso fantastico e gli eventi storici, proiettati sulla pagina scritta anche per il tramite dell’arte pittorica, Ph. Claudel e Marie Ferranti ripropongono al lettore una pluralità di visioni del reale che ne ricostruisce i volti e i significati ma nel far questo rimette in discussione una concezione dell’arte che ha dimenticato il suo vero scopo: l’atto di scrittura è una forma di conoscenza di sé per lo scrittore e di rivelazione del mondo, personale e sociale, per il lettore. In questa ottica l’arte, nella sua variegata forma espressiva, non lascia mai indenne colui che ci si avvicina: essa è lì per «déranger le lecteur»34 , come ha spesso sottolineato Philippe Claudel, per fargli incontrare persone e eventi capaci di arricchire le sue conoscenze e soprattutto per aprire in lui delle domande su cui continuare a riflettere una volta chiuso il libro. Come ha anche recentemente ripuntualizzato Todorov: Par un usage évocateur des mots, par un recours aux histoires, aux exemples, aux cas particuliers, l’œuvre littéraire produit un tremblement de sens, elle met en branle notre appareil d’interprétation symbolique, réveille nos capacités d’associa- 36 DANIELA FABIANI tion et provoque un mouvement dont les ondes de choc se poursuivent longtemps après le contact initial35 . Letteratura e pittura quindi, in un connubio ricco di rifrazioni e suggestioni, contribuiscono entrambe a riconsegnare idealmente alla creazione letteraria il suo ruolo vivo e vitale: l’atto narrativo, anche per il tramite dell’atto pittorico, può riappropriarsi del suo rapporto referenziale con la realtà e attraverso le continue domande che suscita nel lettore svelare i percorsi di conoscenza che essa nasconde. PHILIPPE CLAUDEL E MARIE FERRANTI FRA LETTERATURA E PITTURA 37 Note 1 2004. Cfr. al riguardo il volume di D. Bergez, Littérature et peinture, Paris, Armand Colin, Id., «Perspectives et lignes de fuite», in Europe, n. 933–934, (janvier–février 2007), p. 4. D. Viart, «‘Sur le motif’: l’image prise au mot», in Le jeu des arts, sous la direction de M. Majorano, Bari, Ed. Graphis, 2005, p. 50. 4 M. Majorano, «Uno sguardo che cambia le cose», in Le jeu des arts, cit., p. XXIV. 5 Cfr. D.Viart, art. cit. 6 Cfr. tra gli altri B. Bontour, «La Princesse de Mantoue entre baroque et minimalisme», in http://www.ecrits-vains.com/. 7 Altri due romanzi intrecciano, pur se in modo diverso, le due arti: in Lucie de Syracuse (Paris, Gallimard, 2006) l’autrice rimanda a un falso ritratto di Zurbaran mentre ne La Chambre des défunts (Paris, Gallimard, 1999) parla dell’attività pittorica dell’olandese Snyders. 8 M. Ferranti, La princesse de Mantoue, Paris, Gallimard, coll. ’Folio’, 2005, p. 13. 9 Ibid., p. 14. 10 Cfr. Ibid., p. 109–118. 11 Ibid., p. 124–126. 12 Ibid., p. 128–129. 13 Ibid., p. 83. 14 Ibid. 15 Scrive Barbara in una lettera alla sua amica: «J’ai hâte qu’il commence car le talent de l’artiste a toujours aidé un cardinal à s’élever au rang de pape» (Ibid., p. 87). 16 Ibid., p. 103 17 Ibid. 18 Ibid., p. 96. 19 Ibid., p. 136. 20 Ph. Claudel,Meuse l’oubli, Paris, Balland, 1999. Il romanzo ha vinto il ‘Prix Erckmann– Chatrian’ e il ‘Prix Radio–France’. 21 Ph. Claudel, Les âmes grises, Paris, Stock, 2003. 22 Id., Introduction a Les petites mécaniques, Paris, Mercure de France, 2003, p. 2. 23 Cfr. Id., Paliure, in Les petites mécaniques, Paris, Mercure de France, coll. ’Folio’, 2006, p. 138–139. 24 Cfr. Id., Le voleur et le marchand, in Les petites mécaniques, cit., p. 42. 25 Id., Les confidents, in Les petites mécaniques, cit., p. 61. 26 Ibid., p. 62. 27 Id., Paliure, cit., p. 135. 28 Ibid., p. 139. 29 Ibid., p.142. 30 Ibid., p. 144. 31 D.Viart, art. cit., p. 46. 32 Cfr. T. Todorov, La littérature en péril, Paris, Flammarion, 2007, p. 77. 33 Cit. in A.–M. Christin, «Ecriture et iconicité», in Europe, n. 933–934, (janvier–février 2007), p. 201. 34 B. Demonty, «Philippe Claudel: l’interview intégrale», in http://www.lesoir.be/. 35 T. Todorov, La littérature en péril, cit. , p. 74. 2 3 Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422813 pag. 39–66 Marta Montesarchio Trois femmes puissantes di Marie Ndiaye: come un testo supera i suoi limiti attraverso intertestualità e simbolismo C’è modo e modo di leggere, per esempio meditare su due o tre parole, su due o tre versi. Questo è un buon modo di leggere. [. . . ] Bisogna saper inventare un libro. [Alda Merini, Le parole di Alda Merini] Ipotesi di lavoro Ogni testo ha da un lato un’unità strutturale, poiché contiene mezzi che assicurano la ‘compattezza’ dell’insieme; dall’altro ha un’unità di significato, perché ‘parla delle stesse cose’ o ‘della stessa cosa’, o comunque di cose che ‘hanno a che fare le une con le altre’. [. . . ] Chiamiamo la prima proprietà coesione e la seconda coerenza.1 Se riprendiamo questa affermazione di Raffaele Simone, vediamo come la linguistica non possa fare a meno di analizzare il testo da un suo particolare punto di vista, quello cioè che vede in esso un nodo caratterizzato da due unità, diverse e complementari, che ci aiutano a delimitare cosa possa essere considerato testo e cosa invece non lo possa essere. Se volessimo però arrivare a una definizione di testo la più esauriente possibile, non si potrebbe fare a meno di unire alla precedente le considerazioni di studiosi quali G. Genette, J. Lotman o E. Glissant, per vedere come i confini circoscritti così nettamente dai linguisti non possano che ampliarsi fino ad ipotizzare di poter considerare testo tutta la cultura, ove le varie opere si intrecciano e dialogano in quella semiosfera che supera i confini nazionali della letteratura2 e che diviene ‘l’Oceano delle correnti della storia’ 3 . 40 MARTA MONTESARCHIO È proprio da tali concetti, mescolando tra loro l’intertestualità di Genette4 e ‘l’identità–relazione’ di Glissant5 , che la nostra analisi prende avvio non potendo fare a meno di rilevare nella lettura dell’ultima opera in prosa di Marie Ndiaye la presenza di eco sotterranee che ne svelano un significato altro. Ad un attento lettore il titolo scelto dall’autrice franco-senegalese, Trois femmes puissantes6 , schiude infatti immediatamente una reminescenza nell’ambito della letteratura non solo francese ma anche internazionale. È in primis la struttura stessa del titolo a richiamare alla nostra memoria due altre raccolte precedenti, Trois contes di G. Flaubert e Tre esistenze di G. Stein7 , le quali instaurano un dialogo innovativo e fruttuoso con il più recente testo ndiayano. Partendo da questa intuizione, l’analisi delle tre raccolte ci svela come esse non condividano solo il titolo e la forma, ma arrivino addirittura a rappresentare tre tappe fondamentali di un unico cammino, tre autori di diverse epoche ed esperienze che solo nell’incontro riescono a completare il proprio singolo percorso. Due tematiche in particolare sembrano legare fra loro le tre opere: l’evoluzione identitaria e l’assenza dell’uomo/padre, alle quali si uniscono però anche altre due caratteristiche molto importanti a livello metaforico, la presenza, da un lato, dell’elemento pittorico e, dall’altro, di una delle figure più simboliche per eccellenza, l’uccello. Nella prima parte dell’analisi prenderemo dunque avvio dalla definizione più semplice di testo, quella data appunto dalla linguistica, riflettendo, nello studio delle tre raccolte prese in esame, sulle componenti essenziali di un ogni singola opera (lingua, punto di vista narrativo, struttura testuale, cronotopo, riferimenti extratestuali, tematiche e simboli ricorrenti). Questa sezione del lavoro non potrà però fare a meno di rivelare gli aspetti dialoganti dei vari testi, quelle particolarità che accreditano la visione delle tre raccolte come tre momenti di un’unica evoluzione, sia che esse presentino situazioni, intenzioni e/o visioni comuni, sia che mostrino soluzioni diverse per illustrare lo sviluppo di uno stesso concetto. Nella seconda parte ci concentreremo invece principalmente sull’analisi puntuale di Trois femmes puissantes di Marie Ndiaye, in quanto apice delle tematiche e delle innovazioni accennate negli altri due autori e chiave interpretativa per capire infine il significato delle tre opere. Tre raccolte, tre tappe, un’unica evoluzione Analisi linguistico–strutturale Tutte e tre le raccolte presentano una stessa struttura, essendo composte da tre racconti legati fra loro in vari modi, annunciatori quindi di quell’in- TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 41 tertestualità così cara a Genette8 e alla critica del ‘900. Essi infatti, quasi fossero tre variazioni sul modo di raccontare una stessa storia, comunicano l’uno con l’altro innanzitutto all’interno delle singole raccolte, per arrivare poi, come abbiamo già annunciato in precedenza, a far dialogare le tre opere prese in esame causando la rottura dei limiti usuali imposti dalla definizione di testo. Tali legami interni tra i racconti possono essere a livello tematico, di luogo o di relazione tra i vari protagonisti. Per quanto riguarda il primo e il secondo caso, essi sono molto presenti in tutte e tre le raccolte, ma ne rimandiamo l’analisi al seguito del nostro lavoro9 . Per ciò che concerne invece i legami tra i protagonisti essi si fanno più espliciti man mano che ci si avvicina al testo della Ndiaye. In Flaubert i tre protagonisti sembrano essere molto distanti l’uno dall’altro, anche se in verità esprimono tutti la stessa inconsistenza, la stessa incapacità di scegliere da sé il proprio destino e sono tutti guidati da una sorta di fato. Nella Stein le tre donne rappresentate potrebbero essere interpretate quali tre riproposizioni, riviste e corrette, della Félicité di Flaubert, ognuna delle quali la presenta sotto un punto di vista diverso. Esse inoltre sottendono la teoria dei tipi studiata in quel periodo dall’autrice: in ogni individuo è sempre presente sia un tipo attivo che uno passivo, sia uno che si dà da fare, agisce e sgrida gli altri spronandoli a fare lo stesso (si veda soprattutto Anna del primo racconto), sia uno che cerca le decisioni altrui e si lascia guidare dal primo carattere forte incontrato (Melanchta e Lena). Questi due tipi altri non sono che la rappresentazione della coscienza dialogica propria di ogni identità, quell’incontro-lotta tra le varie parti che compongono il nostro io, razionalità versus impulsività, la «seconda voce, anch’essa propria» che «non dà più ombra, perché esprime una pura relazione»10 di cui parlava Bachtin, il rimbaudiano «je est un autre»11 . In Marie Ndiaye infine i personaggi sono legati da raccordi molto più forti, esplicitamente presenti nel testo: Khady Demba, la protagonista del terzo racconto è la governante dall’orecchio destro tagliato cui si accenna nel primo e per di più deve raggiungere una sua parente in Francia, Fanta, ossia la protagonista del secondo racconto; inoltre il villaggio turistico di Dara Salam rilevato dal padre di Norah (primo racconto) potrebbe essere quello già posseduto dal padre di Rudy (secondo racconto). Tornando alla struttura, vediamo come un’altra caratteristica unisca le tre raccolte: il racconto centrale è sempre più lungo e ripetitivo ma presenta anche una tematica un po’ diversa dagli altri due, fornendo inoltre maggiori indizi sull’interpretazione che gli autori volevano del proprio testo. Se consideriamo il punto di vista dell’ordine di composizione, il primo dei tre racconti scritto da Flaubert è in realtà quello su Julien. Il racconto 42 MARTA MONTESARCHIO centrale è quindi la storia di Félicité, ove, con una maggiore coerenza rispetto alle altre due raccolte, si riscontra la massima presenza di sperimentalismo nell’uso dello stream of consciousness. Non bisogna però dimenticare che la scelta dell’autore è stata quella di cambiare l’ordine di stesura dei racconti, sicuramente per rispondere a una sua precisa volontà e per aiutare forse il lettore nel suo lavoro interpretativo. Seguendo tale punto di vista, dopo la storia dal carattere quotidiano di Félicité e prima della rappresentazione dell’episodio biblico della morte di S. Giovanni Battista, il racconto centrale è dato da una leggenda, quella di San Giuliano, ricca di scene reiterate (le varie battute di caccia) e diversa quindi sia a livello di tipologia testuale che di ritmo narrativo. Essa è in grado di mostrare più chiaramente che negli altri due racconti l’importanza del fato — in questo caso sotto forma di volontà divina — che guida il protagonista non lasciandogli libertà di scelta. In Gertrude Stein il racconto centrale presenta le stesse caratteristiche: più lungo e ricchissimo di ripetizioni, differente a livello di tematica (negli altri due racconti troviamo delle domestiche tedesche; qui la condizione di vita, sempre difficile come le precedenti ma in modo diverso, dei neri d’America), il racconto su Melanchta offre una chiave interpretativa non trascurabile, mostrando nelle varie iterazioni che lo compongono le incertezze interiori e l’incapacità di crearsi una propria identità tipiche dei personaggi di Tre esistenze. In Marie Ndiaye infine il racconto centrale, sempre più lungo e maggiormente carico di ripetizioni e immersioni nella mente del protagonista, mostra un punto di svolta a prima vista sconcertante, dato che si passa dalla totale mancanza di rilievo data al personaggio maschile alla presenza di Rudy, uomo con cui i lettori sono chiamati a immedesimarsi, ma che in realtà ha costruito tutto se stesso sul suo amore per la moglie Fanta, vera protagonista attiva del racconto dunque, pur se quasi assente dalla scena. L’iterazione che, come abbiamo già notato, connota i racconti centrali delle tre raccolte è utile a far capire quale sia il vero personaggio dei testi: la coscienza dei protagonisti, la quale cerca pian piano di emergere pur nelle brume delle loro mille incertezze. Per quanto riguarda la scelta della lingua da utilizzare i tre autori presi in esame rivelano un’attenzione scrupolosa. Essa, oltre ad evidenziare l’epoca storica e culturale in cui le opere sono state scritte, diviene chiaro sintomo del desiderio di realismo e della parallela ricerca compiuta dagli scrittori per far piombare il lettore all’interno della coscienza stessa dei personaggi. Nei Trois contes la decisione di Flaubert sembra a prima vista quella di usare una lingua che potremmo definire ‘asettica’, in quanto lineare e scorrevole, un francese quindi classico e privo di eccessivi fronzoli, pur se impreziosito qua e là da termini più ricercati e precisi (per esempio il verbo ‘enfouisser’ nelle prime pagine della raccolta), con strutture fraseologiche TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 43 abbastanza corte e facili da seguire per il lettore. Ad un osservatore più attento salta però subito all’occhio un’altra caratteristica della lingua flaubertiana qui utilizzata e che fa dell’autore di Madame Bovary un anticipatore del maggiore sperimentalismo del primo ’900: l’uso dello stream of consciousness. Esso si ritrova soprattutto nel personaggio di Félicité, che può addirittura essere considerato l’unico vero personaggio della raccolta. La donna, pur nel mutismo che connota la sua condizione di domestica, arriva qua e là a far entrare il lettore nella sua coscienza, in particolare nelle situazioni che riguardano il suo pappagallo Loulou (per esempio l’esclamazione «Que diable avait–il fait?» che irrompe improvvisamente nella prosa di Flaubert alla scomparsa del pappagallo). La lingua usata dalla Stein è ancor più connotata da tale uso del monologo interiore, dovuto anche all’interesse della scrittrice per gli studi di psicologia. I suoi lettori vengono quindi direttamente calati nella coscienza dei personaggi, presi nelle loro incertezze e nelle ripetizioni che ne caratterizzano l’irresolutezza. Le strutture fraseologiche utilizzate risentono dunque di tale scelta, dando adito a frasi più lunghe e complesse. In Marie Ndiaye la lingua subisce innanzitutto l’influenza proustiana, come rivela lei stessa in un’intervista12 . Ma l’autrice ammonisce il lettore avvertendolo di far bene attenzione a non venir depistato da quelle frasi che a prima vista sembrano così classiche e tranquillizzanti: Le style de Marie Ndiaye amplifie ici, de l’aveu de l’auteur elle–même, le sentiment de révolte du lecteur: «Tout lecteur doit apprendre à se méfier de la douceur en littérature [. . . ]. Je donne parfois à mes phrases une [. . . ] apparence convenable et appliquée dans un contexte qui, lui, n’est pas normal, qui peut même être scandaleux, afin que le contraste soit déstabilisant et qu’on ne sache plus trop ce qui est à l’origine du sentiment de révolte: le contexte en lui–même ou la coloration du style» 13 Il vero scopo dell’autrice è infatti quello di porre il lettore nella stessa condizione dei suoi personaggi, in quel dubbio totale che rappresenta anche il punto di partenza ideale per la ricerca di se stessi. Così come la lingua rimanda ai diversi contesti storico-culturali e alle comuni volontà di sperimentazione dei tre autori, allo stesso modo la scelta del punto di vista narrativo presenta in essi caratteri discordanti e paralleli. Nei Trois contes è presente un’evoluzione nella scelta del punto di vista, connotata da una sempre maggiore volontà di sperimentazione da parte di Flaubert: nella leggenda di San Giuliano (cronologicamente il primo racconto scritto dall’autore) abbiamo un punto di vista esterno e univoco, che non permette l’identificazione lettore-personaggio e rende la realtà narrata ancora più lontana e diversa dalla nostra; in Un coeur simple il punto di vista resta sempre quello di un narratore esterno ma con delle brevi irruzioni sia dei 44 MARTA MONTESARCHIO punti di vista degli altri personaggi sia del discorso indiretto libero, atte a creare quella confusione di voci narranti, tutte parzialmente vere, che è la cifra stilistica del racconto e la sua maggiore modernità; in Hérodias infine la confusione dei punti di vista diversi raggiunge il suo apice per rappresentare la cacofonia e il caos del mondo contemporaneo. L’unico personaggio con cui il lettore, e Flaubert in primis, può identificarsi è quindi quello di Félicité, l’unico cui l’autore concede, seppur brevemente, la parola. Gertrude Stein capisce la carica innovativa presente in nuce nel testo flaubertiano e la fa propria, usando per tutti e tre i suoi racconti il punto di vista contemporaneamente interno ed esterno scelto dall’autore francese per Un coeur simple: la narrazione è alla terza persona, ma sempre più spesso è possibile calarsi nel flusso di coscienza dei personaggi, inoltre non più soltanto in quello delle protagoniste dei vari racconti ma anche negli altri (si veda ad esempio la presenza dei punti di vista di Jeff e di Melanchta durante la descrizione della loro relazione). Questa stessa cifra stilistica è alla base dei racconti di Marie Ndiaye, la quale porta avanti la modernità della Stein mostrando l’opposizione dei punti di vista dei vari personaggi, ma acuendola addirittura: i vari flussi di coscienza non si oppongono più in un rapporto quasi paritetico durante tutto il racconto, bensì è soltanto nel contrappunto finale, dopo che il lettore è stato immerso nel punto di vista univoco del protagonista, che si ha un brusco cambiamento per vedere la situazione da un’ottica totalmente altra. Analisi cronotopico–tematica Le tre raccolte non appartengono certamente allo stesso periodo storico, dato che Flaubert pubblica i Trois contes nel 1877, Three lives di G. Stein esce nel 1909 e la Gallimard edita Trois femmes puissantes di Marie Ndiaye nel 2009. I diversi periodi storici influenzano i tre testi, poiché in ognuno è nettamente riconoscibile il contesto che lo ha dato alla luce sia nei riferimenti alla società narrata nelle raccolte, che nelle scelte e nelle esperienze vissute dai personaggi. Mettendo a confronto le tre opere si nota subito il cambiamento temporale e si può arrivare a vedere una sorta di progressione storica nella loro successione: dalla realtà nazionale di G. Flaubert (ove soltanto la Francia è rappresentata, relegando le diversità alle sole classi sociali) a quella multietnica di G. Stein (la società americana del meltin’pot è ben illustrata dalla presenza di domestiche tedesche e ghetti neri) fino ad arrivare al post–colonialismo dell’opera di M. Ndiaye (connubio-opposizione tra Francia e Africa). Il tempo della narrazione comporta in tutti e tre gli autori l’uso del passato, prendendo così meglio le distanze dalla realtà descritta per poi ripiombarci improvvisamente dentro attraverso il flusso di coscienza, caratterizzato dalle TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 45 ripetizioni e dalla presenza, più che della cronologia tradizionale, di quella durée analizzata da Bergson e sì ammirata da G. Stein: Le Temps impersonnel et universel, s’il existe, a beau se prolonger sans fin du passé à l’avenir: il est tout d’une pièce; les parties que nous y distinguons sont simplement celles d’un espace qui en dessine la trace et qui en devient à nos yeux l’équivalent; nous divisons le déroulé, mais non pas le déroulement. Comment passons nous d’abord du déroulement au déroulé, de la durée pure au temps mesurable?14 La presenza di questo tempo particolare, in cui la normale scansione temporale è diluita del tutto nella durata interiore dei protagonisti e in cui quindi un istante può durare pagine e pagine se si segue il flusso di coscienza dei personaggi, impregna sempre più le raccolte man mano che ci si avvicina a quella di M. Ndiaye, ove, ad esempio, il tempo della storia del secondo testo è di appena una mezza giornata mentre quello del racconto, infinitamente più lungo poiché pervaso dai pensieri di Rudy, occupa un centinaio di pagine. Come abbiamo accennato in precedenza, tale attitudine è però già presente in Flaubert, in quegli sprazzi di narrazione in cui Félicité dice la sua, mostrando quindi una comune sensibilità e attenzione allo sperimentalismo nei tre autori. Così come le epoche alle quali fanno riferimento, i luoghi descritti nelle tre raccolte variano da un autore all’altro. Mentre però in Gertrude Stein e in Marie Ndiaye i luoghi restano gli stessi nei tre racconti in modo da dare una maggiore compattezza al testo, in Flaubert troviamo un cambiamento radicale dei luoghi descritti. Il primo racconto che l’autore ha composto è, come si è già ricordato, La légende de S. Julien l’Hospitalier, scritta in un periodo di vari problemi economici e familiari dal quale lo scrittore sente di doversi allontanare, accantonando la stesura di Bouvard et Pécuchet per immergersi in qualcosa di più rassicurante. Ecco quindi spiegata l’ambientazione del racconto, lontana sia dall’esperienza dell’autore che dalla realtà stessa, dato che si colloca più che altro in un quadro leggendario fortemente connotato dalla presenza della volontà divina, con foreste piene di animali e dimore sontuose. Dopo tale parentesi fantastica, Flaubert sente quindi il bisogno di tornare coi piedi per terra, descrivendo in Un coeur simple un luogo a lui ben noto, Pont-l’Evêque, nel quale si muove la vita di Félicité. In Hérodias infine ci si sposta in un’ambientazione totalmente altra, nella Gerusalemme degli inizi del cristianesimo. Queste tre ambientazioni diverse solleticarono la curiosità di più di un critico, i quali vi hanno spesso visto la volontà dell’autore di rappresentare tre epoche diverse della storia umana. A ben guardare però si nota che l’età descritta è pur sempre quella contemporanea a Flaubert, data soprattutto l’attenzione ai pensieri dei personaggi e alla rappresentazione delle disuguaglianze sociali. 46 MARTA MONTESARCHIO In Tre esistenze vediamo invece che l’ambientazione resta unitaria, sorta di filo rosso a legare ancora più saldamente tra loro le storie che compongono la raccolta. La Stein sceglie dunque Bridgepoint, luogo probabilmente inventato, modellato sulla città di Baltimora dove la famiglia dell’autrice ha vissuto. Una simile scelta, legata da un lato a dare un carattere più unitario alla raccolta e dall’altro alla biografia della scrittrice, è anche alla base di Trois femmes puissantes. Per la prima volta Marie Ndiaye torna alle proprie origini nella sua prosa, ambientando i tre racconti tra il Senegal, paese di suo padre, e la Francia, dove ha sempre vissuto. Due mondi si affrontano, come i due genitori dell’autrice e come quella lotta interiore presente in ogni identità che era già alla base della rappesentazione dei personaggi steiniani. Ma la vera ambientazione di Trois femems puissantes non è tanto l’Africa, che l’autrice in realtà conosce appena, o la Francia, quanto la coscienza dei personaggi, unica vera realtà nel mondo contemporaneo. Ecco allora perchè una studiosa come Nora Cottille–Foley arriva a definire «non–lieux de la surmodernité»15 la vera ambientazione della Ndiaye, un non–luogo che porta solo incertezze e non dà appigli all’identità individuale che l’autrice è capace di riprodurre perfettamente attraverso le sue parole, dato che, come diceva Volosinov, le parole di un testo non possono che rifrangere la realtà e in tal modo deformare e ricreare la realtà multiaccentuativa.16 In tutte e tre le raccolte dunque, nonostante la scelta di cronotopi diversi, permane un desiderio comune: rappresentare un unico spazio-tempo, quello della propria contemporaneità, attraverso tipi di realismo che sempre più s’innestano su uno sperimentalismo di forme e contenuti. Come scriveva Bachtin un’importante soggettività implicata nel dialogo– comprensione alla base di ogni testo è proprio il contesto: «il testo come riflesso subiettivo del mondo obiettivo»17 , stesso concetto presente nelle parole di Baudelaire: Tout l’univers visibile n’est qu’un magasin d’images et de signes auxquels l’imagination donnera une place et une valeur relative: c’est une espèce de pâture que l’imagination doit digérer et transformer.18 Quale modo migliore dunque per far parlare la soggettività rappresentata dal contesto se non l’uso del realismo? Non bisogna dimenticare però che ne possono esistere sfumature diverse, come rivela l’analisi delle tre raccolte. Mentre il tipo di realismo presente nei Trois contes lascia ancora poco spazio allo sperimentalismo del flusso di cosceinza, in G. Stein e M. Ndiaye esso lo sposa sempre più a fondo, per dimostrare come la vera e unica realtà sia quella dell’interiorità dei personaggi. Per Flaubert il realismo significava soprattutto rappresentare in tutti i dettagli il complesso rapporto tra le classi sociali dell’epoca, come si vede TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 47 ad esempio nella relazione tra Félicité e la sua padrona, che, almeno nella prima parte del racconto, è sempre connotato dalla necessità di mantenere le distanze, chiaro riflesso dell’ineguaglianza sociale tipica dell’età flaubertiana. Nella Stein il realismo diviene invece uno strumento per differenziare gli individui non più sulla base dei gruppi sociali, ma su quella, ben più reale e moderna, dei singoli individui. L’autrice usa quindi una tecnica di frammentazione della trama e di distruzione dello stile tradizionale, ove il suo sperimentalismo rivela le tracce della concezione del tempo cara a James e Bergson e della ripetitività della tecnica cinematografica. Il suo è un realismo di tipo nuovo, che permette di rispettare appieno il ritmo e le cadenze del pensiero delle tre protagoniste. Nella Ndiaye infine la penetrazione all’interno della coscienza dei personaggi diviene ancora più fondamentale, amalgamando così bene il realismo alle fantasie dei protagonisti tanto da far assomigliare la realtà ad un sogno19 , come rivela l’autrice stessa in un’intervista: Ce que je revendique, c’est la distorsion dans le contenu, dans cette opposition entre le réalisme et l’irréalité, entre les scènes domestiques et l’univers réel. [. . . ] Je ne me dis pas que je vais mêler des rêves à la réalité. C’est comme une extension de rêves ou de cauchemars, de mauvais rêves plutôt. Des rêves en action.20 I suoi personaggi vivono soprattutto nei loro pensieri, non sono degli eroi ma delle persone qualsiasi, ordinarie, cosicchè, proprio come accade nella mente di ogni individuo, l’irreale e le fantasticherie entrano nella trama dell’autrice. Tutto ciò perchè, come spiega M. Ndiaye in un’altra intervista, più l’universo è concreto, materiale, e meno ha l’aria di essere reale.21 Quanto ai riferimenti extratestuali essi non rimandano solo all’epoca storico–culturale che ha prodotto il testo e alla sensibilità che la permeava, ma anche alle esperienze e alle biografie dei singoli autori, poichè come sottolinea G. Macchia: Diceva Flaubert che l’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, sì che lo si senta dovunque e non lo si veda mai.22 Per quanto riguarda i Trois contes, si è già accennato ai legami tra l’ambientzione della storia di Félicité e la vita di Flaubert: oltre ad aver trascorso una parte della sua esistenza a Pont–l’Evêque, dove vive Félicité, l’autore ha anche soggiornato a Trouville, dove Mme Aubaine deve fare dei bagni. Inoltre troviamo in Félicité dei tratti in comune con l’autore: l’amore per il nipote, il non avere figli propri, il fatto di rischiare di perdere la casa in età ormai inoltrata e, non ultima, la tendenza ad immedesimarsi con le vite altrui, tipica sia del lavoro della domestica che, soprattutto, di quello 48 MARTA MONTESARCHIO dello scrittore. Un altro legame tra Flaubert e Félicité è visibile nella rappresentazione del pappagallo, simbolo dell’America e del gusto dell’esotismo ottocentesco, ma anche riferimento alla vita di Flaubert, il quale ha molto viaggiato, soprattutto in seguito alla delusione per il fallimento della borghesia con l’instaurazione del secondo impero. Un ulteriore collegamento riguardo l’interpretazione del pappagallo è da rintracciare nella tradizione dei viaggi tipica degli artisti di quel periodo, e nell’indissolubile mélange nell’animo di Félicité tra il pappagallo e lo Spirito Santo si vede la tendenza dell’epoca alla compenetrazione di realtà diverse proprio in seguito ai viaggi in luoghi lontani e al gusto per il nascente esotismo, che creavano strane unioni soprattutto in materia religiosa. Per ciò che concerne gli altri racconti che compongono la raccolta, due possono essere i riferimenti possibili alla vita dell’autore. Vi è innanzitutto un legame instaurabile attraverso un’altra arte, dato che sia la leggenda di San Giuliano che la storia di Erodiade sono state suggerite alla mente di Flaubert dalle vetrate e dalle incisioni presenti sulle varie facciate della cattedrale di Rouen. In secondo luogo poi si potrebbe vedere un legame tematico, dato che la vicenda alla base dei due racconti si rifà sempre ad un sacrificio (di Julien stesso e di San Giovanni Battista), necessario ad accedere ad una vita migliore per l’umanità. Una simile visione di sé è quella che potrebbe avere l’autore, il quale è sempre pronto a sacrificare la sua vita all’arte per poter parlare agli uomini e aiutarli a capire. In Tre esistenze molti sono i riferimenti alla vita di Gertrude Stein. Abbiamo già accennato al riferimento spaziale, camuffando Baltimora da Bridgepoint, ma molti altri sono i legami possibili. Innanzitutto la nazione d’origine di due delle tre protagoniste, Lena ed Anna, che sono tedesche come i nonni dell’autrice; in secondo luogo la scelta, sempre per i due personaggi citati, del ruolo di domestica, così importante anche nella vita della Stein la quale ha sempre avuto domestiche, che spesso le organizzavano la vita come fa la buona Anna nel primo racconto, e vedeva in loro una fonte d’ispirazione per i suoi romanzi. Per quanto riguarda invece Melanchta, il fatto di aver scelto un personaggio afroamericano si ricollega a due esperienze particolari nella vita dell’autrice: il trasferimento della famiglia Stein nel quartiere nero di East Oakland e l’esperienza di ostetrica svolta dall’autrice in un ghetto di colore. Infine non si può che vedere un ulteriore collegamento tra l’interesse della Stein per la psicologia, di James in particolare, e lo sperimentalismo della raccolta, sì impregnata di stream of consciousness. Anche la vita di Marie Ndiaye è ben presente nei personaggi di Trois femmes puissantes, in primo luogo nell’ambientazione, di cui abbiamo già parlato, e nelle origini delle protagoniste stesse. Ciò è visibile soprattutto nel primo racconto, dove Norah, come l’autrice, ha un padre senegalese e una madre francese, da lui abbandonata, e decide a un certo momento TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 49 della sua vita di andare in Africa per ristabilire il rapporto con la figura paterna, stessa strada imboccata dalla Ndiaye. Anche nel secondo e terzo racconto, pur se non così esplicitamente, sono sempre presenti dei riferimenti alla vita dell’autrice e al connubio-opposizione Francia/Senegal: nel racconto centrale il primo paese rappresenta una speranza di vita subito infranta, in opposizione alla felicità che si respirava in Senegal; nel terzo testo invece la visione dei due paesi sembra inizialmente invertirsi, il Senegal è considerato come una trappola che non dà speranze alla libertà femminile e la Francia come un sogno verso cui dirigere i propri passi. Tale contrasto apparente è però smentito dal seguito della storia: la Francia è sì un sogno, ma appunto come tale è impossibile da raggiungere per la giovane Khady, mentre il Senegal poteva offrirle una vita diversa se solo avesse iniziato prima la ricerca interiore di se stessa. Come accennato all’inizio del nostro lavoro, due sono le tematiche principali che si rintracciano nelle tre raccolte e che permettono di leggerle come tre tappe di un unico percorso: l’evoluzione dell’identità femminile parallela all’assenza dell’uomo/padre. Il vero personaggio di ogni singolo testo, da Flaubert a Marie Ndiaye, è la coscienza, l’identità che i protagonisti devono scoprire e accettare per intero prima di poter essere finalmente liberi di scegliere la propria strada futura. I personaggi di Flaubert sono tutti rigidi e statici, quasi degli automi, come rivela l’autore stesso a proposito di Félicité: Elle [. . . ] toujours silencieuse, la taille droite et les gestes mesurés, semblait une femme en bois, fonctionnant d’une manière automatique.23 Anche se ci sono inserzioni di discorso indiretto libero, esse sono poco presenti, lasciando il più delle volte i personaggi nel loro mutismo innanzi al lettore, dei personaggi dunque la cui unica identità è quella voluta per loro dagli altri, quella che la società si aspetta dal loro ruolo o quella che la volontà divina (si veda La légende de Saint Julien l’Hospitalier) impone loro. L’unico personaggio che forse ha un’identità certa, non conforme a quella che la società vorrebbe per il suo ceto, è Giovanni Battista nell’ultimo racconto, il quale infatti ha un grande seguito tra la gente. Non bisogna però dimenticare che, da un lato, tale identità è sempre in parte determinata da Dio e che, dall’altro, proprio per la coscienza di sé che ha San Giovanni, Erodiade vorrà la sua testa, la società non essendo ancora pronta a un’affermazione individuale così lontana dai suoi canoni. Una linea evolutiva per quanto riguardo la rilevanza del personaggio femminile è ben rintracciabile in Flaubert se si segue l’ordine di stesura dei testi: nella leggenda il personaggio femminile, la moglie di Julien, è relegato in secondo piano, venendo addirittura meno alla fedeltà rispetto 50 MARTA MONTESARCHIO alla tradizione, secondo la quale la moglie di Julien lo accompagna fino alla fine nel suo cammino aiutandolo nelle prove più difficili; in Un coeur simple la protagonista è una donna ma essa non ha ancora acquisito una piena importanza e autonomia dato che non ha nemmeno il diritto di parlare (si veda il mutismo della domestica); in Hérodias infine il personaggio femminile è presente sin dal titolo ed è capace di manovrare perfino il re con la sua volontà, la sua evoluzione però non è pienamente portata a compimento dall’autore poiché egli non permette al lettore di entrare nelle mente di Erodiade, ponendolo anzi in condizione di identificarsi solo con Erode. In Gertrude Stein i personaggi femminili acquistano una maggiore autonomia, parlano molto di più e sono mostrati nella loro evoluzione; essi però non arrivano a capire per intero se stessi né tanto meno ad accettarsi. L’identità è ancora poco sentita, sia essa vista come semplice sinonimo del proprio ruolo lavativo (Anna, che infatti perde la propria identità alla partenza della sua padrona), come ricerca di una perenne accettazione di sé da parte degli altri (Melanchta, la cui incapacità di conoscere se stessa deriva anche dal rapporto disfunzionale che ha avuto con i suoi genitori 24 ) o ancora come ciò che la società vuole per il singolo (Lena, che non si chiede mai quali siano le sue volontà). Da notare a supporto di tale tesi il fatto che nel racconto centrale, quello che, come abbiamo già detto, dà maggiori informazioni sull’intento dell’autore, la ripetizione del nome della protagonista non è fatta da lei stessa, come avverrà poi in M. Ndiaye, ma dagli altri personaggi. Ciò potrebbe essere un indizio di come Melanchta sia poco o per nulla cosciente della sua identità, come anche un’altra traccia a tale proposito sta nel fatto che la protagonista non riesca mai a raccontare tutto di sé, nemmeno a se stessa. Sarà quindi solo in Trois femmes puissantes, dopo essere stati visti come dei semplici fantocci nelle mani di destino–società–Dio in Flaubert e dopo non aver trovato la forza per mettere in moto la propria evoluzione identitaria in G. Stein, che i protagonisti arriveranno infine a percorrere sino in fondo quel cammino solitario che porta a cogliere interamente la propria identità. Per farlo dovranno prima affrontare le varie avversità tipiche dell’esistenza umana, tra cui le reazioni del proprio fisico nei momenti che più li avvicinano alla totale presa di coscienza di sé: incontinenza, emorroidi e ferita infetta. Mentre nei primi due racconti la coscienza dei protagonisti nasconde ancora loro una parte di se stessi, non permettendo ad essi nella loro amnesia di capirsi fino in fondo (Norah non ricorda di essere andata in Africa per riavvicinarsi al padre; Rudy non sa se era presente il giorno dell’omicidio compiuto dal genitore), solamente nell’ultimo racconto Khady accetta interamente se stessa riconoscendo tutte le sue esperienze e ricavando gioia dal suo solo nome, che lei stessa pronuncia in ogni momento difficile. TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 51 Più chiaramente che nelle altre raccolte, M. Ndiaye mostra una linea netta e precisa che porta i suoi personaggi a capirsi e ad accettarsi per intero, ogni racconto è una tappa e una svolta da affrontare con coraggio. Norah rappresenta il primo passo nella ricerca di se stessi, cercando di tornare alle origini per ritrovarsi e vedendo quindi nel riavvicinamento al padre l’unica prima tappa possibile per arrivare alla sua identità. Rudy illustra invece la necessità di prendere le distanze dalle proprie radici e dal proprio padre in primis, perché soltanto il singolo può capire la propria via nella solitudine. Khady mostra infine come la propria identità, simboleggiata qui dal nome, è l’unica ancora di salvezza alla quale ci si possa aggrappare, anche se alla fine si arriva solo alla morte. Quest’importanza del nome, riconoscimento pieno e gioioso dell’identità del singolo, è capita da Khady fin dall’infanzia, la quale è capace anche di trasmetterla a coloro che le passano accanto, come è ben illustrato dall’episodio del primo racconto nel quale Norah chiede a Khady il suo nome: Et quand elle lui eut demandé son nom et que la jeune fille, après un temps de silence (comme, songea Norah, pour enchâsser sa réponse dans une monture d’importance), eut déclaré: Khady Demba, la tranquille fierté de sa voix ferme, de son regard direct étonna Norah, l’apaisa, chassa un peu l’irritation de son coeur, la fatigue inquiète et le ressentissement.25 Si vede quindi soprattutto in quest’ultima raccolta come il rapporto con il padre, sommo rappresentante per le proprie origini, svolga un ruolo di primo piano nella ricerca identitaria, fosse anche solo per rinnegarlo e prenderne le distanze. Ciò ci permette di analizzare l’assenza di figure maschili in tutte e tre le raccolte prese in esame, da collegarsi sempre all’evoluzione identitaria appena analizzata. In Flaubert quest’assenza della figura maschile è palese, dato che Félicité non ha nessun uomo accanto, Julien non può essere considerato che come fantoccio nelle mani di Dio e Erode non è da meno, non agendo realmente ma facendo solo ciò che la volontà delle donne lo spingono ad attuare. In G. Stein la situazione non cambia poi molto, dato che Anna, l’unica ad agire e a far agire gli altri, non ha mai uomini con una volontà accanto a sé ma solo fantocci da guidare; Melanchta è in una situazione ancora peggiore con il padre praticamente assente che influenza tutta la sua vita non permettendole né di essere in grado di avere un sano rapporto con altri uomini né di evolvere lei stessa; Lena infine sembra avere un uomo accanto, ma nemmeno suo marito può essere definito tale, poiché non ha neanche il coraggio di esprimere la propria opinione riguardo al suo matrimonio. Dopo tali figure di uomini inutili, che nemmeno possono essere definiti personaggi in quanto non hanno una propria volontà e non agiscono, è 52 MARTA MONTESARCHIO solo in Trois femmes puissantes che M. Ndiaye dà una chiave interpretativa efficace: gli uomini non servono alle donne nel cammino alla ricerca di se stesse, anzi, quando intervengono, si rivelano nocivi e capaci di svuotarle delle proprie conquiste, precipitandole in una vuota situazione di stallo perenne (si veda il rapporto tra Rudy e Fanta nel secondo racconto). Nel primo racconto il più grande cruccio della vita di Norah è l’assenza del padre, ma vedendo ciò che è capitato a suo fratello Sony, l’unico che il padre abbia mai amato, la donna capisce come in realtà ciò sia stato un dono che le ha permesso di evolvere ed essere se stessa. Nel secondo racconto sembra esserci un cambiamento di tendenza, dato che parrebbe inverosimile poter parlare di assenza del personaggio maschile ed evoluzione femminile in un racconto ove il lettore è fin dall’inizio immerso nei pensieri di Rudy e non vede Fanta che attraverso gli occhi di suo marito. In un secondo momento appare però evidente come quella di Rudy non sia una vera identità, poiché lui l’ha costruita interamente e soltanto su sua moglie e quasi tutte le azioni del testo, le scelte che hanno scosso la sua vita, sono state attuate da Fanta o fatte per lei o infine da lei approvate prima che Rudy le potesse compiere. Nel terzo e ultimo racconto due sono i personaggi maschili che potrebbero essere ravvisati nel testo: il marito di Khady, il quale però non può essere definito un protagonista dato che è sempre stato un uomo passivo e placido e per di più è morto prima che la narrazione vera e propria avesse inizio; Lamine, il ragazzo che spinge Khady a partire, ma che in realtà non fa nulla per tirare fuori loro stessi dal pericolo in cui sono finiti e la cui unica azione sarà messa in condizione di esistere solamente dagli sforzi della protagonista. Sarà solo Khady e lei da sola ad evolvere veramente, passando per tre stadi: in un primo momento la sua identità era data per lei dalla conformità al ruolo impostole dalla società; in un secondo tempo Khady inizia a interrogare se stessa e a prendere coscienza di essere capace di agire da sola e per lei sola; alla fine, pur nelle maggiori difficoltà, Khady sarà talmente conscia di sé da accettare anche le prove più umilianti e dolorose pur di continuare a poter dire il suo nome, pur di continuare quindi a poter essere se stessa. Vediamo in tale analisi che per arrivare alla propria vera identità e comprenderla appieno le donne non hanno bisogno della figura maschile, tantomeno di quella paterna, spesso considerata erroneamente come simbolo delle origini, delle radici da riconquistare per poter essere pienamente consci di sé. Tale prima tappa del cammino identitario risulta però essere falsa, dato che è solo nella solitudine, la quale dà la più totale libertà, che le donne possono capire se stesse e accettarsi appieno. Sempre legata all’idea di libertà, ma connotata anche da un simbolismo doppio e ambiguo, è la figura dell’uccello, presenza metaforica e polisemica che si affaccia in tutte e tre le raccolte analizzate. Un’importante possibilità d’interpretazione per gli uccelli, che ci ricollega anche alla fondamentale TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 53 tematica dell’evoluzione identitaria appena analizzata, è data da J. Chevalier e da A. Gheerbrant nel Dictionnaire des symboles: Le vol des oiseaux les prédispose, bien entendu, à servir de symboles aux relations entre ciel et terre. En grec, le mot même a pu être synonyme de présage et de message du ciel. C’est la signification des oiseaux dans le Taoïsme, où les Immortels prennent figure d’oiseaux pour signifier le légèreté, la liberation de la pensanteur terrestre. [. . . ] L’oiseau, symbole de l’âme, a un rôle d’intermédiaire entre la terre et le ciel.26 Questo legame tra cielo e terra dato dalla presenza degli uccelli è presente soprattutto nei Trois contes, ove però il carattere naïf e superstizioso di Félicité gli dà un’accezione parodico–grottesca. In Flaubert e nella Stein ritroviamo inoltre lo stesso uccello, un po’ esotico e carico di significato: il pappagallo (in tutti e due le raccolte si trova nel primo racconto). Oltre a rendere ancora più evidente il legame esplicito tra i due testi, esso mostra anche ai lettori il passo in avanti della Stein rispetto al suo illustre predecessore: Félicité adora talmente tanto il suo pappagallo Loulou, il solo con il quale lei abbia un rapporto paritario, che arriva a farlo impagliare per averlo sempre accanto e a vedervi addirittura una raffigurazione dello Spirito Santo; Anna, sorta di immagine rovesciata della protagonista flaubertiana, non vede invece l’ora di liberarsi del pappagallo donatole e se ne disfa appena può. Per spiegare la presenza del pappagallo si può pensare al fatto che Félicité vi vede un emblema per la lontana America, terra sognata ma che non potrà mai raggiungere, un riflesso quindi, come abbiamo spiegato in precedenza, del gusto per l’esotismo tipico dell’epoca flaubertiana. Anna invece vive già in America e il pappagallo quindi, tale feticcio così seducente per gli artisti ottocenteschi, perde la sua carioca esotica e non rappresenta più l’America, illustrata invece dalla vera realtà della società multietnica nella quale la protagonista vive. In Marie Ndiaye l’uccello occupa uno spazio ancora più vasto, essendo presente in tutti e tre i racconti, e cambia addirittura specie, non potendo più essere il pappagallo dei testi precedenti. Quest’uccello infatti ha un significato ben preciso nell’immaginario musulmano: Il pappagallo suscita la curiosità degli orientali studiosi di folclore, che gli attribuiscono virtù mitiche e un’aura che si trova soltanto fra gli uccelli mitologici.27 Anche se l’autrice è stata cresciuta dalla madre in Francia, i personaggi che descrive nella raccolta sono impregnati della realtà e della cultura del Senegal, in gran parte musulmano, e scegliendo il pappagallo tale figura sarebbe risultata troppo connotata da un lato e troppo esotica dall’altro, 54 MARTA MONTESARCHIO quando invece, per sua stessa asserzione28 , M. Ndiaye vuole descrivere la realtà più comune e più vera possibile. Nel primo racconto troviamo quindi un grosso uccello chiaro dal volo goffo, che Norah intravede nel momento in cui cerca la verità sulla sua relazione con Jakob. Nel secondo vediamo una poiana, uccello diurno e migratore, che perseguita Rudy e nel quale lui riconosce un ammonimento inviatogli da sua moglie. Nel terzo racconto troviamo invece ben due uccelli, sempre esplicitamente visti come metafore per i personaggi: il corvo, al quale Khady assimila il suo accompagnatore taciturno, e un uccello dalle ali grigie, che spicca il volo ogni volta che dalla Francia Lamine parla a Khady. Un’analisi più minuziosa dei singoli simbolismi legati a tali volatili in Trois femmes puissantes verrà svolta nella prossima sezione, per ora ci basti soffermarci sul significato globale della presenza degli uccelli. Una chiave di lettura ci è offerta proprio dai racconti della Ndiaye, nei quali è presente un uccello migratore (la poiana del secondo racconto) e l’importanza della capacità di volare è messa in evidenza (nel primo racconto l’uccello non ci riesce; nel terzo si alza in volo proprio alla fine del testo). Gli uccelli, metafore per gli stessi personaggi sempre più esplicitamente dal primo al terzo racconto, divengono simboli per l’evoluzione delle donne, le quali inizialmente sono goffe e non sanno volare, poi sono capaci di perseguitare gli altri per farli giungere sulla retta via anche a costo di perdere la propria identità (si veda la triste vita che Fanta svolge in Francia e la morte della poiana investita da Rudy) e infine sono pronte a spiccare il volo riappropriandosi per intero di se stesse. Una conferma di ciò ci viene ancora una volta dal Dictionnaire des symboles ove si parla di un’idea importante che unisce uccello e identità: l’idée que l’âme elle-même est un oiseau [. . . ]: un oiseau migrateur, par référence à la croyance en la migration de l’âme de corps en corps, jusqu’à l’envol final vers ce nid, où elle trouvera enfin refuge contre les périls de la transmigration.29 L’uccello–individuo migra tutta la vita finché non capisce qual è il suo vero nido, il suo unico rifugio contro ogni pericolo e contro ogni violenza, la sua identità (si veda a tal riguardo la storia di Khady). Un altro elemento importante rintracciabile nelle tre raccolte è la presenza del pittorico, con tutto il simbolismo che esso porta con sé. In effetti alla base di ogni testo si può trovare proprio un’immagine, sia essa un quadro o le facciate della cattedrale di Rouen, cosa che permette di avvalorare quel dialogo tra le arti che è parte dell’intertestualità e ci ricollega ancora una volta alla visione dell’oceano–letteratura di S. Rushdie, in cui ogni opera lancia funi/aiuti30 ai nuovi artisti, e all’idea di Gesamtkunstwerk di R. Wagner31 . TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 55 Per quanto riguarda Flaubert un elemento pittorico diverso è presente in ogni singolo racconto: per Félicité si può pensare ai quadri di donne col pappagallo contemporanei ai Trois contes, realizzati da svariati artisti sulla scia del gusto per l’esotismo; per Julien basta pensare alle vetrate della cattedrale di Rouen rappresentanti la vita del Santo e per Hérodias alle incisioni con la morte di San Giovanni Battista sul portale di sinistra della suddetta cattedrale. Per quanto riguardo G. Stein, l’autrice rivela esplicitamente che l’ispirazione per la raccolta le venne da un quadro di Cézanne appeso di fronte alla sua scrivania e lo studioso J.R. Mellow dà un’importante spiegazione che mostra un legame formale tra lo stile della Stein e quello pittorico: The portrait of Madame Cezanne is one of the monumental examples of the artist’s method, each exacting, carefully negotiated plane — from the suave reds of the armchair and the gray blues of the sitter’s jacket to the vaguely figured wallpaper of the background — having been structured into existence, seeming to fix the subject for all eternity. So it was with Gertrude’s repetitive sentences, each one building up, phrase by phrase, the substance of her characters.32 . Non bisogna inoltre dimenticare che proprio negli anni in cui Gertrude Stein componeva le Tre esistenze, l’autrice posava anche per Picasso, il quale stava realizzando il ritratto della stessa. La destrutturazione della scrittura dell’autrice di cui parla Mellow può quindi trovare un nuovo parallelo proprio nella pittura cubista, la quale, come la lingua della Stein, mette in evidenza il materiale di cui è composta. Per di più in quegli anni Picasso compone il suo famoso quadro Trois femmes, nel quale mostra tre donne diverse ma unite nella stessa tela: come non vedervi un richiamo al titolo e al significato della raccolta della Ndiaye? Spetta però soltanto all’autrice, alla quale tale domanda non è ancora stata rivolta, dire se quest’analogia sia vera, se realmente scegliendo titolo e tematica per la sua raccolta non sia stata influenzata proprio dal quadro di Picasso. Trois femmes puissantes di M. Ndiaye Punto di vista formale I tre racconti che compongono la raccolta Trois femmes puissantes hanno, come abbiamo già accennato nella sezione precedente, legami molto forti tra loro, spesso sottolineati anche negli articoli riguardanti tale testo: 56 MARTA MONTESARCHIO Trois femmes puissantes. Un sidérant roman en trois chapitres tous clos par un «contrepoint». Ces trois histoires sont finement reliées entre elles.33 In effetti come tale è presentato nell’edizione francese della Gallimard, ove il lettore trova in copertina, subito sotto al titolo, la rassicurante etichetta ‘roman’ e ogni racconto non ha un titolo proprio, come era nelle raccolte di G. Flaubert e G. Stein, ma viene contrassegnato semplicemente da un numero romano, come accade spesso nei romanzi. Se però ci si aspetta di trovare una storia lineare e un punto di vista unico, si verrà subito spiazzati, poiché, non appena si affronta il secondo racconto–capitolo, ecco che ci si trova in una storia totalmente altra, in un luogo diverso e per di più all’interno di un punto di vista e di un pensiero nuovo, per giunta maschile. Soltanto a una lettura più attenta si potranno cogliere gli indizi sparsi nel testo, briciole lasciate al lettore affinché, novello Pollicino, possa tornare alla propria rassicurante casetta, possa trovare quindi i collegamenti tra le singole storie e capire. Oltre ai legami tra i protagonisti, di cui si è già parlato nella prima parte della sezione precedente, altri fili uniscono le tre storie: innanzitutto la tematica identitaria e i simboli presenti, che saranno oggetto della prossima sezione; in secondo luogo delle caratteristiche formali, in primis il fatto di far piombare sempre direttamente il lettore nella mente del protagonista ma ad un momento ben preciso, a un punto di svolta della sua vita, che poi verrà pian piano ricostruita per l’ignaro lettore man mano che si procede con la narrazione. Un’altra caratteristica formale molto importante riscontrabile in tutti e tre i racconti–capitoli è la presenza di un contrappunto finale, definito in un articolo come «lumineux d’optimisme»34 , nel quale M. Ndiaye ci mostra da un lato il perché del titolo della raccolta e dall’altro un punto di vista altro sulla vicenda narrata. Leggendo le tre storie che compongono la raccolta viene spontaneo chiedersi, a una prima lettura, il perché di un titolo così importante, dove le protagoniste sono definite ‘puissantes’, dotate quindi di una grande forza interiore, ma in realtà appaiono inizialmente come passive e deboli, come delle donne che la vita arriva a mettere alla prova e quasi a distruggere. La scrittrice stessa svela però che la loro forza è altrove, ben presente sotto la prima scorza della loro identità: La puissance de ces femmes ne saute pas aux yeux, c’est quelque chose qui relève de l’indestructible. Je voulais écarter l’idée qu’elles seraient des victimes.35 Sono donne forti proprio perché capiscono in toto se stesse e si accettano. Anche se potrebbero sembrare remissive e deboli, anche se paiono disposte a sacrificare se stesse e il loro cammino individuale per gli uomini che amano, TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 57 in realtà è proprio lì che risiede la loro forza. Perché il dono di sé, quello che permette a Norah di perdonare il padre e cercare di accettarlo per com’è, quello che riduce Fanta a essere una semplice casalinga per seguire il marito, quello che trasforma Khady in una prostituta malata e maltrattata, non si può fare se prima non si è accettata la propria vera identità, la quale non è data dall’essere madre com’era per Norah, né dall’essere insegnante come per Fanta, né dall’essere vedova come per Khady; no, la vera identità è data da noi stessi, può deviare dal ruolo sociale e dalle aspettative proprie e altrui, può evolvere per metterci alla prova e arrivare in un luogo ove siamo soli, soli di fronte a noi stessi. Nel contrappunto d’altronde non si capisce soltanto questo, non c’è solo la nota di speranza e ottimismo che mette fine alle violenze vissute in precedenza. In esso è presente anche un cambiamento totale del punto di vista, poiché mentre per tutto il racconto si è immersi nella coscienza di un solo personaggio (Norah, Rudy, Khady), nel contrappunto irrompe improvvisamente la coscienza di un altro (il padre di Norah, la vicina di casa di Rudy, Lamine), per mostrarci come la realtà vera ed oggettiva non esista, come in realtà qualsiasi evento cambia se guardato dal punto di vista di un altro personaggio e per mostrare come quelle donne, osservate dal di fuori, siano forti e capaci di tornare a volare (Norah che si appende ai rami; Khady-uccello che vola via) e a ridere (Fanta che saluta la vicina e sorride). Punto di vista simbolico–contenutistico In Tre donne forti ritornano temi a lei [M. Ndiaye] cari: la ricerca di una definizione di sé, [. . . ] il senso di smarrimento delle sue protagoniste e la loro continua lotta per l’indipendenza, il conflitto tra genitori e figli.36 In queste poche righe Sebastiano Triulzi racchiude il cuore delle tematiche presenti nella raccolta di Marie Ndiaye, la quale pone innanzi ai lettori le proprie protagoniste mentre si mettono in cammino alla ricerca di se stesse. Nelle ‘donne forti’ dei tre racconti vediamo un comune evento fondamentale: il cambiamento della concezione di sé, prima tappa essenziale per capirsi e accettarsi appieno. In Norah ritroviamo ciò nel momento in cui inizia a riconoscere tutti gli eventi della sua vita, anche quelli che non condivide (riguardo al padre o al fratello) e che non è sicura di aver vissuto (circa il suo soggiorno in Senegal all’età di vent’anni); in Fanta quando, da pallida imitazione della donna che era in Senegal, ritrova la gioia di vivere pur nelle mille difficoltà; in Khady quando decide infine di prendere in mano la sua vita e di iniziare ad ascoltare solo se stessa nelle scelte difficili. Questa prima fase è fondamentale perché implica una presa di coscienza e una revisione necessaria a qualsiasi rinascita e a qualsiasi accettazione di sé. 58 MARTA MONTESARCHIO Solo allora si può arrivare a trovare se stessi e a guardare con orgoglio anche le esperienze più umilianti perché si diviene coscienti che ognuna di esse è pur sempre un tassello che compone la propria identità. Così si interpreta la storia di Khady, che sorride nella violenza e sente il suo cuore pieno di gioia quando ricorda a se stessa chi è: Un sursaut de joie sauvage faisait trembler son corps rompu comme elle se rappelait soudain, feignant de l’avoir oublié, qu’elle était Khady Demba: Khady Demba.37 Quest’identità che i personaggi ritrovano non dev’essere però considerata come qualcosa di stabile e duraturo, anzi essa è un’identità multipla e in continua evoluzione, specchio perfetto quindi della nostra società contemporanea: Une même quête, un même questionnement identitaire animent ses [de Marie Ndiaye] ecrits. [. . . ] Ils [ses personnages] souffrent de la condition postmoderne décrite par Jean–Francois Lyotard et en particulier du soupçon qui caractérise selon Dominique Viart les portraits du sujet à la fin du vingtième siècle. Plutot qu’une création de personnages de type humaniste, les romans de Ndiaye mettent en scène l’interrogation d’un sujet quant à la plausibilité même de son existence. Au-délà de l’interrogation individuelle est representée la perte de l’autorité logocentrique et se trouve par conséquent remise en question la validité de la narration elle-meme. Décentrés, ses personnages se retrouvent projetés dans un espace postmoderne en expansion par une force centrifuge dont le controle leur echappe. Ils se font les témoins involontaires d’une contemporaneité géoéconomique sordide et impitoyable.38 In tale contesto così difficile da affrontare i protagonisti sono comunque capaci di andare avanti perché consci di essere, solamente loro, i responsabili del proprio destino.39 Acquisita una prima parvenza di autonomia i personaggi sono però costretti ad affrontare una prova fondamentale: riprendere il contatto con le proprie origini, con la propria famiglia, con tutto il peso che essa può esercitare sull’identità individuale. La prima visione che i personaggi hanno della loro famiglia è costretta a evolvere, cambiando del tutto la prospettiva di Norah e Rudy. Tutti e due dovranno fare i conti con il passato, rappresentato in particolare dal padre, un passato scomodo che hanno cercato di cancellare facendo ricorso a una salvifica amnesia: Privée des valeurs intrinsèques de la mémoire que sont la sacralisation, la continuité, l’absolu, et la répétition commémorative, l’histoire nous livre un passé demythifié, fragmenté, relatif, dont nous sommes a tout jamais separés. [. . . ] C’est TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 59 précisément de cette fracture, de cette aliénation de notre passé que les romans de Ndiaye temoignent. Revenant incessamment, pathologiquement, sur le lieu ultime de leur maison natale, les personnages constatent la discontinuité de leur propre mémoire. Soumis a la démythification de leurs souvenirs, ils se désagrègent peu à peu, perdant par la même leur propre identité. [. . . ] La remise en question des souvenirs forme un leitmotiv dans chacun des textes.40 I personaggi dei primi due racconti cercheranno quindi in un primo momento di riprendere i contatti con la famiglia, con il padre e con le radici, per poi capire che quel padre non sa amare e non arriverà mai a capirli, ma solo a imprigionarli per sempre nella sua volontà e nei suoi errori: Comme Norah, c’est au fantôme de son père l’assassin que Rudy va faire «rendre gorge» dans une scène hallucinante où il fantasme le meurtre symbolique d’un sculpteur, Gauquelan, qui lui aurait volé son image. Tout se passe donc comme s’il était prêt à tuer en lui l’image de l’homme qu’il avait laissé paraître jusque là, afin de retrouver une paix intérieure et l’amour de Fanta.41 Mentre i primi due personaggi sono ancora alle prese con il peso del passato e della famiglia, il personaggio di Khady rappresenta il passo successivo dell’evoluzione identitaria. Orfana, come Fanta, e sterile, non ha legami familiari, ma non le servono nemmeno, perché capisce di aver bisogno solo di se stessa; la sua forza, ancor più che per le altre due ‘femmes puissantes’, risiede nella consapevolezza della sua umanità, che le fa trovare il coraggio per andare sempre avanti42 . Allora le radici, simboleggiate anche dagli alberi che abbondano nella raccolta, non servono più. Nella raffigurazione degli alberi vediamo dunque il cammino della liberazione individuale dalla famiglia. Gli alberi sono molto spesso usati quali simboli di famiglia e rapporti, come si vede nel Dictionnaire des symboles: Symbole de la vie, en perpétuelle évolution, en ascention vers le ciel [. . . ]. Parce que ses racines plongent dans le sol et que ses branches s’élèvent dans le ciel, l’arbre est universellement considéré comme un symbole des rapports [. . . ], l’arbre–ancêtre.43 Tale connotazione è ben presente nel primo racconto di M. Ndiaye, nel quale troviamo l’albero corallo, simbolo di resistenza alla siccità, sul quale il padre di Norah trova rifugio e grazie al quale sua figlia può riprendere i rapporti con lui. Questa sua caratteristica di essere resistente alla siccità potrebbe d’altronde venir ricollegata all’opposizione secco–umido considerata molto spesso una riproposizione dell’antitesi maschile–femminile.44 Seguendo tale punto di vista si può vedere come il padre, l’uomo, cerchi rifugio sull’albero più resistente all’umidità, cercando quindi una protezione 60 MARTA MONTESARCHIO contro sua figlia, una donna, che si sta insinuando nella sua vita e nelle sue scelte. Tornando alla prima concezione dell’albero come legame con le radici e con la famiglia, essa è presente anche nel secondo racconto, ove però assistiamo a un fondamentale passo in avanti: il glicine, tanto amato da Rudy, viene tagliato, simbolo quindi della necessità di andare avanti da soli nel proprio cammino tagliando i ponti con il passato e non venendo più condizionati dalle azioni già commesse dal proprio padre. Non bisogna però dimenticare che l’albero può rappresentare anche tutt’altro, «l’Uomo perfetto, ad un tempo Universalità e Identità.»45 Ecco allora che Khady viene curata e ha la possibilità di entrare in Europa per rifarsi una vita proprio accanto a una foresta, simbolo quindi di una possibile rinascita. Oltre all’albero un altro simbolo importante all’interno della raccolta è quello, già in parte analizzato nella sezione precedente, dell’uccello, anch’esso emblema di evoluzione e libertà nel cammino dei protagonisti. È interessante notare innanzitutto che Marie Ndiaye rivela di aver ascoltato una particolare canzone durante la stesura di Trois femmes puissantes: I am a bird now46 . L’onnipresenza degli uccelli in tale raccolta fa quindi eco ad una speranza: trasformandosi in uccelli i protagonisti voleranno liberi da ogni vincolo e da ogni radice, come succede a Khady alla fine del testo: C’est moi, Khady Demba, songea–t–elle encore à l’instant où son crâne heurta le sol et où, les yeux grands ouverts, elle voyait planer lentement par–dessus le grillage un oiseau aux longues ailes grises — c’est moi, Khady Demba, songea– t–elle dans l’éblouissement de cette révélation, sachant qu’elle était cet oiseau et que l’oiseau le savait.47 È importante aggiungere delle ulteriori precisazioni all’analisi dei volatili attuata nella sezione precedente. Innanzitutto il fatto che l’altro uccello presente nel terzo racconto sia un corvo, il quale, già nell’Iconologia di Cesare Ripa48 , viene visto come simbolo d’irresolutezza e di malaugurio, situazione perfettamente speculare agli eventi che coinvolgeranno la protagonista Khady. In secondo luogo circa la poiana del racconto centrale, la quale è un uccello migratore ed è considerata dallo stesso Rudy come un volatile inviato dal destino o da sua moglie Fanta per ricordargli i suoi errori del passato. Questa interpretazione trova conferma nel Dictionnaire des symboles: Les oiseaux voyageurs sont des âmes engagées dans la quête initiatique.49 Rudy però non è del tutto pronto a confrontarsi con la propria quête, poiché in realtà la sua identità non è formata, ma dipende in tutto e per TROIS FEMMES PUISSANTES DI MARIE NDIAYE 61 tutto dalla moglie Fanta. Ecco quindi perché l’uomo, incapace di affrontare il passato e di dare avvio al cammino iniziatico verso se stesso, schiaccia la poiana e corre da sua moglie. Infine nel primo racconto, oltre all’uccello già citato nella sezione precedente, il vero volatile della storia è il padre di Norah, detto fin dall’inizio «trop pesant volatile»50 e spesso definito come un uomo dalle ali ripiegate e dalla testa inclinata di traverso come fanno gli uccelli51 , il quale per di più dorme e trova pace solo tra i rami dell’albero corallo. È però un uccello vecchio e stanco, dal volo goffo e pesante come quello del volatile grigio che vede Norah52 , un uccello che ha perso la sua identità e con essa la sua capacità di volare–decidere–vivere. L’uccello è dunque onnipresente, come sottolinea Virginie Brinker nel suo articolo dedicato alla raccolta della Ndiaye: Le motif de l’oiseau, présent dans les trois histoires, apparaît comme une des voies du tragique, qu’il soit l’incarnation du mal, du «démon [qui] s’était assis sur [le] ventre [des héros] et ne l’avait plus quitté» (p. 61) (autrement dit le vieil oiseau déplumé qu’est devenu le père de Norah), ou bien la buse vengeresse qui poursuit telle une Érinyes (déesse du remords) Rudy, le mari de Fanta, ou encore l’allégorie de la mort de Khady. L’oiseau incarne dans tout le roman une forme de transcendance qui relie l’héroïne à un destin supra–humain et confère à l’œuvre une dimension à la fois épique et tragique.53 Un altro parallelo tra l’uomo e l’uccello sorge allora alla mente dell’attento lettore, un legame diverso ma pur sempre significativo, il quale sembra unire un tassello, l’ultimo, al puzzle del testo di M. Ndiaye: Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers, Qui suivent, indolents compagnons de voyage, Le navire glissant sur les gouffres amers. A peine les ont–ils déposés sur les planches, Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux, Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches Comme des avirons traîner à côté d’eux. Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule! Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid! L’un agace son bec avec un brûle–gueule, L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait! Le Poète est semblable au prince des nuées Qui hante la tempête et se rit de l’archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.54 62 MARTA MONTESARCHIO L’albatros di Baudelaire si unisce al poeta, entrambi incapaci di vivere sulla terraferma, cercando, come i personaggi di Trois femme puissantes e come Marie Ndiaye stessa, la propria via nella libertà delle loro ali. Bibliografia Studi generali Bachtin M., “Il problema del testo”, in Michail Bachtin: semiotica, teoria della letteratura e marxismo, a cura di Augusto Ponzio, Bari, Dedalo, 1977, p. 197–228; —, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979. Biagini E., Brettoni A., Orvieto P., Teorie critiche del Novecento, Roma, Carocci editore, 2005. Bourdieu P., Il dominio maschile, Milano, Feltrineli, 1998. Chebel M., La cultura dell’harem, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. Genette G., Figures III, Paris, Seuil, 1972. Genette G., Palinsesti: la letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997. Glissant E., Poétique de la relation, Paris, Gallimard, 1990. Lacoste–Dujardin C., Des Mères contre les femmes. Maternité et patriarcat au Maghreb, Paris, La Découverte, 1985. Lotman J., La semiosfera: l’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio Editore, 1985. Muraro L., L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991. 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Flaubert, Trois contes, Milano, Mursia, 1962 ; Stein G., Tre esistenze (traduzione italiana di C. Pavese), Torino, Einaudi, 1975. 8 G. Genette, Palinsesti: la letteratura al secondo grado, op.cit. 9 Cfr. paragrafo 1. b. 10 M. Bachtin, “Il problema del testo”, in Michail Bachtin: semiotica, teoria della letteratura e marxismo, a cura di Augusto Ponzio, Bari, Dedalo, 1977, p. 197–228. 11 A. Rimbaud, Lettre du Voyant, in http://www.toutelapoesie.com/poemes/rimbaud/la_ lettre_du_voyant.htm (cons. il 10/02/2010). 12 Cfr. X. Person, Quant au riche avenir, in http://www.lmda.net/din/tit_lmda.php?Id=3003 (cons. il 18/08/2010). 13 V. Brinker, “Trois Femmes Puissantes” ou l’Inaltérable Humanité, in http://la-plumefrancophone.over-blog.com/article-marie-ndiaye-trois-femmes-puissantes-41866550.html (cons. il 18/08/2010). 14 H. Bergson, Durée et et simultanéité. À propos de la théorie d’Einstein (Paris, Les Presses universitaires de France, 1968, p. 39), in http://classiques.uqac.ca/classiques/bergson_ henri/duree_simultaneite/duree_et_simultaneite.pdf (cons. il 24/08/2010). 15 Postmodernite, non–lieux et mirages de l’anamnese dans l’oeuvre de Marie Ndiaye (in “French Forum”, 31.2, Spring 2006, p. 81 e ss.), in http://go.galegroup.com/ps/i.do?&id=GALE| A177281835&v=2.1&u=csamer&it=r&p=LitRC&sw=w (cons. il 23/06/2010). 16 Cfr. V.N. Volosinov, Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari, Dedalo, 1976. 17 M. Bachtin, “Il problema del testo”, op. cit., p. 210. 18 C. Baudelaire, Salon de 1859, in http://www.umpf.net/salon/index1.htm (cons. il 15/02/2010). 19 Cfr. ad esempio M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 88, 206–207. 20 X. Person, Quant au riche avenir, op. cit. 21 Cfr. A. Nicolas, Le coeur dans le labyrinthe, in http://www.humanite.fr/2007-0201_Cultures_le-coeur-dans-le-labyrinthe (cons. il 17/08/2010). 22 G. Macchia, La letteratura francese — Dal Rinascimento al Classicismo, Milano, Sansoni/Accademia, 1970, p. 272. 23 G. Flaubert, Trois contes, op. cit, p. 12. 24 Cfr. J.M. Willhite, Gertrude Stein’s Three Lives, An Examination of Melanctha’s Character, in http://modern-american-fiction.suite101.com/article.cfm/gertrude_steins_three_ lives#ixzz0wyB0KHdJ (cons. il 16/08/2010). 25 M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 22–23. 26 J. Chevalier et A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Paris, Ed. Robert Laffont S.A. et Ed. Jupiter, 1982, p. 695–697. 27 M. Chebel, Dizionario dei simboli islamici, Roma, Edizioni Arkeios, 1997, p. 348. 28 Cfr. X. Person, textitQuant au riche avenir, op. cit. 29 J. Chevalier et A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, op. cit., p. 696. 30 Cfr. S. Rushdie, Scrittori: ecco quali ho preferito fra tutti, op. cit. 31 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Mondadori, 2002, p. 48 e ss. 1 2 66 MARTA MONTESARCHIO 32 94 J.R. Mellow, Charmed Circle: Gertrude Stein & Company, New York, Avon, 1976, p. 33 A. Fillon, Marie Ndiaye, Afrique et Occident (in “Lire”, 01/09/2009), in http://www. lexpress.fr/culture/livre/marie-ndiaye-afrique-et-occident_816009.html (cons. il 20/08/2010). 34 N. Michel , Le sombre optimisme de Marie Ndiaye, in http://www.jeuneafrique.com/ Article/ARTJAJA2540p086-088.xml0/ (cons. il 20/08/2010). 35 Ibidem. 36 S. Triulzi, La scrittrice Marie Ndiaye, in “La Repubblica”, 17/04/2010, p. 39. 37 M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 307. 38 N. Cottille–Foley, Postmodernite, non–lieux et mirages de l’anamnese dans l’oeuvre de Marie Ndiaye op. cit. 39 Cfr. S. Triulzi, La scrittrice Marie Ndiaye, op. cit. 40 N. Cottille–Foley, Postmodernite, non–lieux et mirages de l’anamnese dans l’oeuvre de Marie Ndiaye, op. cit. 41 V. Brinker, Trois Femmes Puissantes ou l’Inaltérable Humanité, op. cit. 42 Cfr. ad es. M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 306–307, 312, 314. 43 J. Chevalier et A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, op. cit., p. 62–67. 44 Cfr. P. Bourdieu Il dominio maschile, Milano, Feltrineli, 1998; Chebel M., La cultura dell’harem, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; Lacoste–Dujardin C., Des Mères contre les femmes. Maternité et patriarcat au Maghreb, Paris, La Découverte, 1985; Muraro L., L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991. 45 M. Chebel, Dizionario dei simboli islamici, op. cit., p. 34. 46 Cfr. M. Payot, Rencontre: Marie Ndiaye, la globe–croqueuse (in “L’Express”, 01/10/2009), in http://www.lexpress.fr/culture/livre/marie-ndiaye-la-globe-croqueuse_782615.html?p=2 (cons. il 18/08/2010). 47 M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 316. 48 Cfr. C. Ripa, Iconologia, in http://bivio.signum.sns.it/ (cons. il 25/08/2010). 49 J. Chevalier et A. Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, op. cit., p. 695. 50 M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, op. cit., p. 13. 51 Cfr. ad esempio idibem, p. 11, 20, 30. 52 Ibidem, p. 66. 53 V. Brinker, Trois Femmes Puissantes ou l’Inaltérable Humanité, op. cit. 54 C. Baudelaire, L’albatros (in Les fleurs du mal, Paris, garnier, 1961), in http://fleursdumal. org/poem/200 (cons. il 26/08/2010). Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422814 pag. 67–76 Danilo Vicca ‘Forti’ o ‘potenti’ le donne di Marie Ndiaye? Sulla traduzione italiana di Trois femmes puissantes Consapevole dell’ardua responsabilità di restituire il fascino di una scrittura evocativa come quella di Marie Ndiaye, avendo già consegnato al lettore italiano la versione di Una stretta al cuore1 , Antonella Conti compie su Trois femmes puissantes2 , romanzo che è valso all’autrice il Prix Goncourt 2009, un’operazione traduttiva ispirata ad uno sforzo di fedeltà ed accettabilità, che solo in talune rare occorrenze — di là da qualche ambiguità interpretativa3 — tradisce l’invasione del traduttore, pervenendo comunque ad offrire un’eco nitida ed un’immagine speculare abbastanza somigliante di un romanzo il cui stile, volutamente ‘aspro’ e ‘povero’4 , è invero molto complesso non solo sul versante della sintassi che si dilata per effetto dei mondi interiori che riproduce, ma anche nei richiami e nelle riprese intertestuali iscritti nei singoli racconti e tra i racconti. Una di queste incursioni, a partire dalla quale tenteremo di proporre un’analisi eziologica sul meta–testo, è già intuibile nella scelta di ricorrere ad un aggettivo sinonimico nel titolo: Tre donne forti. Se la responsabilità di chi traduce l’opera è notevole, ancor più delicata lo è quando ne si traduce il titolo poiché in esso è iscritta una precisa ed intenzionale strategia di orientamento e addirittura organizzazione della lettura: «Il titolo permette al testo l’enunciazione del suo senso: tutta l’opera del lettore è prima nel riconoscere, nel decodificare quel senso anticipato, quindi, in un certo modo, nel verificare, nell’articolazione del testo, l’anticipazione»5 . Il titolo non è semplicemente qualcosa che designa il testo ma piuttosto un’unità di discorso, un ‘enunciato’6 che si presta all’analisi e all’individuazione di una struttura discorsiva soggiacente. Primo prodromo del testo, esso è anche affidatario della prima comunicazione con il lettore: è dunque componente di un ‘sistema’ che deve garantire l’equilibrio anche rispetto al testo. Il nostro punto di partenza è la disamina delle componenti del titolo che ci permetterà di individuare e possibilmente discutere le principali caratteristiche del projet de traduction di A. Conti. 68 DANILO VICCA Certamente la componente maggiormente informativa nell’enunciazione del titolo è racchiusa nell’aggettivo (‘forti’) e che si discosta, come sinonimo più caratterizzante, dall’originale (‘puissantes’), allorché la parte restante del sintagma è sostanzialmente calcata sul proto–titolo (tre donne). La scelta di una riduzione del valore semico dell’aggettivo da ‘puissantes’ a ‘forti’, comporta la sottrazione, dal senso globale, della parte sfuggente, misteriosa e forse (volutamente?) sfumata del concetto di potenza per attestarsi in maniera specifica sulla variante più ‘fisica’ di un termine che, di per sé, non sembrerebbe esaurire tutti i significati dell’opera, tanto più che, almeno a livello di una diffusione più vasta, meno specialistica, l’aggettivo del titolo viene recepito dai francesi come ‘potenti’. Movendo da questa premessa, si impone una riflessione particolare sulla traduzione del titolo che presenta le tre donne di Marie Ndiaye come ‘forti’ piuttosto che attenersi ad una resa che, oltre a poter essere indubbiamente più aderente al titolo originale, avrebbe confermato ed avvalorato quell’atteggiamento di fedeltà che nel testo si manifesta già con una corrispondenza speculare alla pagina tipografica, come pure nel frequente ricorso al calco sintattico e lessicale. Una comparazione delle definizioni rinvenibili nei dizionari7 per gli aggettivi ‘forte’ e ‘potente’ permette di scorgere una prima fondamentale differenza nel rovesciamento dell’ordine di valore dei loro significati che li rende non completamente sinonimici, se non con limiti d’impiego stilistici. Se si considerano le definizioni ed il loro ordine di formulazione si noterà che, mentre ‘forte’ enfatizza la dimensione fisica anzitutto e si appella in secundis a quella morale, ‘potente’ chiama in causa, in prima istanza, la sfera morale mentre quella corporea appare come significazione complementare. Le entrate dei dizionari ci istruiscono sui possibili significati di ‘forte’ che richiamano, in generale, al vigore, alla resistenza in senso fisico, ad un corpo robusto e ben piantato, a ciò che resiste all’usura e, solo in un’accezione accessoria, a ciò che si palesa come intenso, veemente, potente. Se consideriamo, invece, la prima entrata dell’aggettivo ‘potente’ noteremo come la spiegazione fornita ci consegni tacitamente una chiave di lettura del romanzo, una anticipazione del tema che la fruizione del testo corroborerà nel suo valore isotopico. In ‘potente’ vi è un senso che nello sbilanciamento del sinonimo ‘forte’ è precluso: ‘potente’ è chi, attraverso il proprio comportamento, riesce ad esercitare un’influenza su qualcuno, a «produrre grandi effetti»8 . Lo scarto che esiste tra la forza e la potenza è dunque collocabile nell’atto del condizionamento, della modificazione, del cambiamento che agisce sul piano intimo e morale. Le vicende di Norah, Fanta e Kadhi ci consegnano delle personalità che sfuggono alla definizione troppo caratterizzata e piuttosto unidirezionale di ‘forti’ poiché tutte, all’opposto, vedono vacillare la propria compattezza `FORTI' O `POTENTI' LE DONNE DI MARIE NDIAYE? 69 fisica sotto i colpi di esistenze dolorose dalle quali si leva un’integrità più profonda che magnifica la loro potenza9 . Il problema della traduzione di ‘puissantes’, insomma, agisce come elemento significante tanto sul piano del senso che su certe manifestazioni espressive che, nella scelta di ‘forti’, parrebbero opacizzare la coerenza del progetto traduttivo nel suo insieme. Nell’analisi del lessema del titolo, non accostiamo l’aggettivo da un punto di vista metrico stilistico — pur concentrandoci sullo studio della parola intesa come ‘lexie’, ovvero come «(. . . ) une masse sonore dont l’émission et la recéption correspondent à une notion ou à une représentation»10 — quanto piuttosto da quella prospettiva ritmico-prosodica che riguarda la produzione di senso attraverso i significanti in una dimensione che si realizza nell’oralità, alla quale Meschonnic si riferisce col termine di ‘significanza’11 . Comparando le due ‘lexies’ aggettivali del titolo noteremo, a livello sillabico, che ‘forti’ si caratterizza per la struttura bisillabica a chiusura marcata da un’occlusiva interdentale sorda [t] che determina un effetto di troncamento abbastanza sostenuto sulla fricativa d’apertura [f] e sulla vibrante intersillabica [R], allorché ‘potenti’ si declina in trisillabo costruito sulla catena di due occlusive, una nasale, un’occlusiva. Ciò premesso, è interessante notare la maggiore rispondenza di quest’ultima locuzione all’originale francese anch’essa costituita da tre sillabe (di cui l’ultima, sebbene non intensa, marca il genere femminile), laddove, a fortiori, il numero tre sembra un dato strutturale piuttosto rilevante nel romanzo che si costituisce di tre racconti basati sulla vita di tre donne. Ancora, latore di ‘significanza’ parrebbe un fonema mancante nella traduzione ‘forti’ che, all’opposto, è iscritto in ‘puissantes’): la vocale nasalizzata [ã]. ‘Forti’, insomma, è una traduzione abbastanza rispondente al ‘senso’ poiché interpreta certamente alcune delle istanze semantiche del romanzo, tuttavia meno alla ‘significanza’ dal momento che opacizza l’unità significante-significato. La nasale, rispettata parzialmente dalla traduzione in ‘potenti’ per via degli inevitabili vincoli scaturenti da ciascuna lingua, conferisce spessore consentendo al senso di risuonare nella parola e acuisce, nell’ampiezza del suo luogo di articolazione, il senso dell’‘ouvert’ che chiama in causa l’isotopia dell’‘apertura’. Quest’ultima si rende tangibile nel ‘contrepoint’, spazio in cui ogni racconto è strutturalmente riaperto, in cui si postula una chance, uno spiraglio di redenzione. Spazio in cui, attraverso lo svelamento della potenza delle tre donne, si conferma una sfumatura di significato che in ‘forte’ non pare adeguatamente valorizzata. Si tratta di un paragrafo che, nell’accezione tradizionale, dovrebbe veicolare un tema secondario, di accompagnamento, accessorio rispetto alla storia, ma che scopriamo essere, invero, il finale aperto delle tre trame. Il ‘contrepoint’, infatti, è il varco aperto da Norah, Fanta e Khadi agli uomini che le hanno, in modi diversi e con diverse implicazioni, così profondamente 70 DANILO VICCA tradite ed umiliate, uomini ‘orribili’ ai quali è offerta una possibile occasione di pentimento, le cui coscienze s’incrinano sotto i colpi impercettibili di donne sensualmente ed eticamente stoiche, grandiose, poderose. Nel primo ‘contrepoint’ ritroveremo Norah silenziosamente seduta accanto al padre, sotto il ‘flamboyant’, per stabilire, forse una pace duratura. Nel secondo Fanta, moderno prototipo di un Sisifo femminile, non abbandona Rudy, come meriterebbe, dopo averla anche invitata ad andarsene a seguito dell’ennesimo alterco, ma anzi abbraccia il suo destino attraverso l’iniziativa di aprirsi, di darsi una nuova possibilità, salutando, per la prima volta, ‘doucement’ la sua vicina di casa, l’unica forse che condivida il suo intimo dramma. Nel terzo ‘contrepoint’ è a Lamine che si offre la possibilità del pentimento. Ogni volta che tocca del denaro pensa a Khadi, alla donna di cui ha abusato fisicamente e spiritualmente e spera sempre, invocandola nelle preghiere, parlandole in silenzio, nel suo perdono. È questo il senso in cui quelle di Marie Ndiaye sono tre donne ‘potenti’, capaci attraverso il loro comportamento di esercitare un’influenza producendo il grande effetto di cambiare un uomo, il corso della sua storia. Dalla disamina dei procedimenti di traduzione parrebbe possibile giungere all’individuazione di almeno tre momenti in cui la sinostosi del testo in rapporto al titolo si incrina. La prima di queste manifestazioni idiosincratiche si iscrive nella linea traduttiva proclive alla resa analogica riservata al titolo rispetto a ciò che è compiuto sul testo dal quale si evince piuttosto una propensione al calco tipografico, sintattico e lessicale. Infatti, se nel meta-titolo si opta per una scelta aggettivale sinonimica non direttamente equivalente al proto–titolo, nel testo al contrario è evidente, sin dall’incipit, un’attenzione particolare a tutto ciò che possa contribuire alla creazione del senso, persino al dettaglio tipografico e alla mise en page: capoversi, maiuscole, segni di interpunzione, enumerazioni, grovigli di subordinate che ci immergono in dolorose digressioni, parentesi che celano all’interlocutore (e finanche al locutore) scomode ammissioni sono tutti elementi fedelmente rispettati, sia per la consapevolezza ‘deontologica’ che modificarne anche uno solo avrebbe comportato una perdita, sia nell’intuizione profonda di un senso implicito rintracciabile nella struttura sintattica del romanzo che ne scandisce la partitura, il ritmo. La fedeltà, che ipoteca il solo testo ma dalla quale si svincola il titolo, si spinge in una direzione che compromette, a volte, la fluidità del discorso con scelte traduttive che, appesantendo uno stile fraseologico di per sé già denso, si impongono al lettore come dissonanti rispetto ad alternative maggiormente agili e naturali. Senza entrare nel merito di una discussione intorno alle questioni teoriche sul’arbitrarietà della ‘trasparenza’ che nega la mano di chi traduce, sui limiti del calco che potrebbe comportare l’illeggibilità del testo e di riflesso `FORTI' O `POTENTI' LE DONNE DI MARIE NDIAYE? 71 la sua intraducibilità o sui limiti (anche operativi) dell’‘annessione’ che lo depaupererebbe dalle risorse di quella che Berman definisce «l’épreuve de l’étranger»12 , ci chiediamo anzitutto, a titolo esemplificativo, se l’omissione del partitivo, obbligatorio in francese ma non in italiano, non avrebbe maggiormente giovato nella ricostruzione del senso in una forma naturale, in enunciati come questo: «(. . . ) c’erano sempre dei bambini sprofondati sui divani, a pancia all’aria come gatti satolli, degli uomini che bevevano il tè guardando la televisione, delle donne che andavano e venivano dalla cucina o dalle camere» (p. 14). Sempre a livello sintattico, un’altra tournure che filigrana il meta–testo di francese riguarda il possessivo «(. . . ) e avevano dovuto aspettare, coi loro cappotti, le loro scarpe, le loro sciarpe (. . . )» (p. 33), che in italiano potrebbe essere implicato, così da snellire la frase e accrescerne la ricevibilità. Inoltre, a proposito degli aggettivi possessivi di interdipendenza parentale13 , occorre ricordare che, sebbene essi siano percepiti come fenomeni consueti e spontanei in francese — nelle espressioni del tipo ‘leur mère’ o ‘leur père’ — la loro frequenza decresce in italiano dove a traduzioni come «il loro padre» (p. 59 e ss.) o «la loro madre» (p. 57 e ss.) possono dirsi preferibili più sintetiche locuzioni tipo ‘il padre’ o ‘la madre’. La propensione al calco si svela, oltre che nella sintassi le cui nuances francesi sono intuibili nella trama testuale, anche nella sfera lessicale. Citiamo, ad esempio, il caso di «organismes de crédit» tradotto appunto con «organismi di credito» (p. 52), piuttosto che con i più lessicalizzati ‘istituti di credito’ o semplicemente ‘banche’. Parimenti, in un contesto lessicale contiguo, «directeur d’une succursale bancaire» è dato in «direttore di agenzia di banca» (p. 58), rispetto a scelte più fluide come ‘direttore di filiale’ o ‘direttore di banca’. In questa stessa linea possiamo collocare la scelta di tradurre «le salon de coiffure» in «il salone di parrucchiera» (p. 57), che potrebbe essere reso con un più naturale ‘il negozio di parrucchiere’ o semplicemente ‘il parrucchiere’. Il calco, del resto, non riguarda solo il sintagma nominale ma anche il sintagma verbale: ne sia esempio la proposizione «chiuse l’apparecchio» (p. 28), che dovrebbe indicare una telefonata conclusa; dunque una traduzione più naturale potrebbe essere ‘chiuse il telefono’ o, al limite ‘attaccò’, ‘riagganciò’. L’osmosi con il proto–testo produce esiti singolari anche rispetto al prestito il cui problema è duplice estendendosi oltre la resa del senso, anche al contesto culturale. Da questa prospettiva, segnaliamo, a titolo d’esempio, il ricorso ad un semi–forestierismo («nécessaire» p. 42) per tradurre un lessema oramai naturalizzato in italiano (‘trousse’), che perciò poteva essere acquisito tel quel. Vi sono per inverso prestiti che richiederebbero una traduzione perché meno ricevibili in lingua d’arrivo (ricordiamo il caso di «taboulé» p. 21), ed altri che, pur essendo lessicalizzati in italiano, dovrebbero essere tradotti poiché il loro impiego comporta una distorsione nella percezione 72 DANILO VICCA del contesto referenziale. In questo senso, ci chiediamo se sostantivi quali ‘boulevard’ o ‘avenue’ come pure ‘baguette’ che ricorre nelle loro vicinanze, non potessero essere tradotti in modi più congeniali al contesto enunciativo del terzo racconto: si sta parlando di viali e strade non asfaltate e polverose che Khady percorre semiscalza, mentre alcuni scolari mangiano un pezzo di pane. Nell’uso italiano, in effetti, essi richiamano all’urbanità parigina e non al senso generale di ‘viale’ di una cittadina africana di provincia su cui appellativi toponomastici come «avenue de l’Indépendence» (p. 306) e «boulevard de la République» (p. 307) innestano risvolti ironici: indipendenza, repubblica stridono con l’immagine di un paese arretrato dal cui proverbiale despotismo si tenta di fuggire affidandosi agli sciacalli di mare, in un viaggio tanto rischioso quanto carico di speranze. Vero è che, in questo caso, il traduttore è coerente con la decisione di non tradurre nomi e toponimi che vengono sempre lasciati in lingua originale. Similmente, un problema di ambiguità si pone rispetto al prestito di «buvette» (p. 294) che in italiano richiama un piccolo ristoro, un bar, mentre nel proto–testo se ne fa un uso allusivo ad una forma di piccolo pensionato, di affittacamere, di locanda al limite. Movendo dall’analisi dei procedimenti di traduzione diretti a quelli obliqui14 , il secondo aspetto a partire dal quale parrebbe prodursi un distanziamento tra titolo e testo, riguarda la scelta ispirata alla concisione e dunque all’incisività nel titolo in cui, come si è detto, si sceglie un aggettivo la cui quantità sillabica è ridotta rispetto all’originale, nella probabile intenzione di amplificarne l’effetto suggestivo oltre a renderlo, forse, anche più rispondente alle esigenze di agilità del mercato editoriale. Tuttavia, se così fosse, il traduttore sembrerebbe non confermare nel testo una tendenza analoga. Al contrario si assiste, oltre che ad un innalzamento del registro, anche ad un certo zelo di ridondanza e di verbosità, donde modi di dire abbastanza comuni modulati o trasposti in forme più ricercate, spesso esigenti vere e proprie parafrasi esplicative. Alcune esemplificazioni, tra le numerose rinvenute: «(. . . ) qui toute concernaient leur manque d’élegance» è reso con «(. . . ) che immancabilmente facevano riferimento alla loro mancanza di eleganza»; «(. . . ) un homme naturalement affable et commerçant comme Manille» (p. 108) diventa «(. . . ) un uomo affabile per natura e con uno spiccato senso del commercio come Manille» (p. 120). Ancora, «Il le croyait, songea–t–il, parce que il avait cette propension à se sentir toujours plus blâmable qu’il ne l’était (. . . )» (p. 109) viene tradotto «Si era convinto di aver parlato in quel modo, rifletteva, soltanto per la sua propensione a sentirsi sempre più riprovevole di quel che era (. . . )» (p. 123). Un ultimo aspetto che segnala un décalage semantico–espressivo tra testo e titolo riguarda la preferenza caduta in quest’ultimo su un aggettivo che, essendo più delineante e caratterizzante della dimensione corporale `FORTI' O `POTENTI' LE DONNE DI MARIE NDIAYE? 73 rispetto al suo corrispettivo diretto francese, accresce nel titolo un pathos, ed una intensità emotivo–sensoriale che il testo invece non sembra sempre avvalorare. Così, ad esempio, in un passaggio chiave del racconto, in cui Norah incontra per la prima volta le figlie nate dall’unione fra suo fratello Sony e la moglie di suo padre, Marie Ndiaye presentava la reazione del padre in termini piuttosto virulenti: ‘effroi’ e ‘répugnance’ accompagnano la sua ritirata. Il sintagma: «Il s’effaça aussitôt, avec effroi et répugnance, pour laisser entrer Norah» viene tradotto, seppur rispettando la collocazione dei sostantivi, con sinonimi che implicano una notevole riduzione del tono emozionale: «Si fece immediatamente da parte, spaventato e a malincuore, per lasciar passare Norah» (p.26). Ancora più significativo in questo senso, ricorderemo quanto precipua sia, in questo stesso racconto, la diffusa metafora dell’albero ‘flamboyant’ che in italiano trova l’equivalente in ‘albero corallo’. Nella traduzione si perde la profondità del significato iscritto nel lessema francese che, essendo al contempo un aggettivo qualificativo, un sostantivo ed un participio presente, moltiplica i piani significanti. ‘Flamboyant’ è certo ‘albero corallo’, ma al contempo può significare ‘fiammeggiante’. Non solo dunque allude ad un colore molto più intenso del corallo ma, associato alla figura del padre, che sembra vivere in una sorta di simbiosi panica proprio con l’albero dall’odore putrescente, partecipa alla costruzione di una sinestesia difficilmente riproducibile. Il padre di Norah è poi anche il ‘diavolo sul loro ventre’: ‘flamboyant’ potrebbe finanche richiamare le fiamme di quell’inferno familiare cui quest’essere mostruoso ha condannato Norah ed i fratelli. Nella traduzione del racconto insomma riscontriamo a livello lessicale una certa tendenza alla ‘omologazione’ di quella che potrebbe essere la risposta fisica, la reazione emotiva al testo in alcuni frangenti della traduzione. Ad esempio, riprendendo il caso del ‘flamboyant’, l’odore dolciastro dei fiori dell’albero, perde la sua intensità nella trasposizione di «douce odeur fétide» in «odore lievemente fetido»15 . Assistiamo alla sostituzione dell’aggettivo anaforico (‘douce’), simmetricamente antitetico a quello cataforico (‘fétide’), con un avverbio qualificativo (‘dolcemente’) che, spostando l’asse dall’‘essere’ al ‘processo’16 determina inevitabilmente l’annullamento dell’ossimoro nell’enunciato, ossimoro che potrebbe invece rientrare in un più ampio disegno tropico sul rapporto padre–figlia. Alla costruzione di questa isotopia legata alla ‘mostruosità’ del padre partecipano anche le occorrenze dell’aggettivo ‘monstrueux’ e dei suoi corollari che sarebbe dunque meglio restituire (come del resto avviene in molte occorrenze (p. 43 e ss.) con equivalenti italiani (mostruoso, ecc.) piuttosto che con scelte analogiche per le quali, a titolo esemplificativo, «un monstrueux coup de masse» diviene «una micidiale bastonata» (p. 8). Il problema del calco, infine, si propone a più riprese circa l’avverbio ‘doucement’, in occasioni in 74 DANILO VICCA cui si dovrebbe disambiguarne il senso: è paradossale pensare che Norah poggi «dolcemente» (p. 25) la mano sulla spalla del padre, stante il rapporto torbido e complesso che li unisce, quanto piuttosto che lo sfiori ‘timidamente’ (ci dirà che non aveva mai avuto un’affettività fisica con l’uomo), persino ‘debolmente’, in un’accezione dell’avverbio antonimica rispetto alla forza: Norah sta progressivamente perdendo le forze e presto non resisterà più alla contaminazione olfattiva di un luogo fisico e affettivo. Quella che abbiamo proposto, lungi dall’ambire all’esaustività e completezza analitica, si qualifica come una disamina di alcune tendenze operative sul testo non sempre in linea con la scelta interpretativa esibita nel titolo. Se anche si dissentisse dal considerare ‘forte’ nel suo valore iponimico rispetto a ‘potente’, in almeno un senso specifico, come si è tentato di mettere in luce, perdurerebbe comunque, nel senso opposto dell’equivalenza bilaterale, un intrinseco problema traduttivo difficilmente espugnabile. Ricorda, in questo senso, P. Charaudeau: «Il n’y a donc pas, dans le langage, deux mots dont les sens se superposeraient totalement. Et l’on acceptera l’existence d’une équivalence bilatérale (en opposition à l’équivalence unilatérale) du seul point de vue référentiel, en sachant que les mots dits synonymes peuvent être, chacun, affectés de caractéristiques sémantiques, aussi tenues soient–elles, qui les différencient les uns des autres»17 . Aggiungiamo che, forse, proprio il confronto con le ‘caratteristiche semantiche’ degli aggettivi in rapporto al romanzo, nell’intento di determinare un titolo coerentemente bilanciato, motiva, almeno in parte, una situazione che si dichiara tutt’altro che inequivocabile anche in altri idiomi europei. In inglese, lingua in cui il romanzo non risulta essere stato ancora tradotto, le recensioni facilmente reperibili on–line dai principali motori di ricerca, segnalano indifferentemente l’opera con Three strong women e Three powerful women18 . Similmente, in spagnolo, dove il romanzo è tradotto, sulla linea della scelta italiana, con Tres mujeres fuertes (Acantilado, 2010), non è raro imbattersi in articoli che la propongono come Tres mujeres poderosas19 . Nel caso dell’italiano, il lavoro di A. Conti, che compie un’operazione traduttiva importante, persino convincente, seppur con talune riserve, annuncia alcune problematicità di fondo di un romanzo tanto articolato e tortuoso dal punto di vista strutturale e diegetico, quanto complesso ed intrigato sul piano semantico, che investe il traduttore della responsabilità, nel decifrare e nell’interpretare, di garantire, attraverso le copiose pagine, l’equilibrio tra le istanze espressive e quelle semantiche chiamate in causa dalle non sempre evidenti rotte dei significati dell’opera. `FORTI' O `POTENTI' LE DONNE DI MARIE NDIAYE? 75 Note 1 Riportiamo qui di seguito le opere di M. Ndiaye in traduzione italiana: Il pensiero dei sensi, traduzione di S. Spero, Venezia, Marsilio, 1993; La diavolessa, traduzione di F. Lazzarato, illustrazioni di F. Negrin, Milano, A. Mondadori, 2002; Rosie Carpe, traduzione di L. Quaquarelli, Milano, Morellini, 2005; Fuori stagione, traduzione di L. Quaquarelli, Milano, Morellini, 2007; Una stretta al cuore, traduzione di A. Conti, Firenze–Milano, Giunti, 2009; Tutti i miei amici, traduzione di O. Marchetti, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005; In famiglia, traduzione di L. Prato Caruso e A. Basso, Milano, Anabasi, 1993; Papà e tornato, traduzione di G. Benelli, Albano Laziale (Rm), Edizioni del Cardo, 2007; Tre donne forti, traduzione di A. Conti, Giunti, Firenze–Milano, 2010 (I numeri di pagina dopo le citazioni si riferiscono a questa edizione). 2 M. Ndiaye, Trois femmes puissantes, Gallimard, Paris, 2009. 3 Possiamo ricordare un caso di ambiguità scaturente dall’attribuzione di alcuni tratti ad un personaggio che nel proto–testo potrebbero riferirsi un altro personaggio, incrociando un pronome soggetto interrogativo post–posto con uno neutro: «(Pourquoi faut–il que je fasse tout, ici? s’écriait–il souvent avec exaspération)» il cui soggetto maschile parrebbe Rudy, è tradotto in «(Perché devo fare tutto io qui?, sbottava esasperata)» (p. 134), il cui soggetto diviene Fanta. 4 «Dopo più di venti anni di scrittura, in cui non del tutto oggi mi riconosco, volevo cambiare e persino sorprendere me stessa desideravo adottare un registro stilistico più povero, più aspro, facendo uscire, malgrado tutto, le stesse emozioni e identificazioni. In un certo senso ho ridotto le mie risorse, le mie capacità, per aumentare i miei sforzi» Cf. l’intervista rilasciata dall’autrice a S. Triulzi, pubblicata su «Repubblica», il 17 aprile 2010, p. 45–6. 5 Cf. G. Patrizi, «Il nome senza identità», in Il titolo, Atti del convegno di Acquasparta, 22–24 settembre, 1988, Micromégas, «Rivista di studi e confronti italiani e francesi», Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’, Roma, Bulzoni Editore, p. 31. 6 Cf. G. Fasano, «Per una storia dell’uso e della funzione del titolo in poesia», in Il titolo, cit., p. 13. 7 Facciamo riferimento ai seguenti dizionari: Robert/Signorelli, Dizionario Francese/Italiano– Italiano/Francese, Signorelli Editore, 1996; Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, 1999; Le Nouveau Petit Robert, Dictionnaires Le Robert, 1995; Le trésor de la langue Française informatisé: http://atilf.atilf.fr 8 Questa la prima definizione di ‘puissant(e)’ nel Trésor de la langue française: «Qui, par sa force, son importance, a la capacité de produire de grands effets». 9 Nel primo ‘récit’ si intrecciano due piani narrativi, uno fattuale, referenziale, che riguarda appunto l’arrivo di Norah nella casa paterna, il pranzo, la visita a Rebeuss, l’incontro con Jakob e le bambine, le visite al fratello, la scelta di restare, di accondiscendere alla possibilità che vi sia stato un passato vissuto in quel luogo; l’altro interiore, che si autoalimenta nella ricostruzione del passato di Norah, del suo rancore per quell’uomo che «si è seduto sul suo ventre», su quello del fratello assassino (sebbene scopriremo poi che la realtà, forse, è altra), e della sorella alcolista e asceta, vittime di quell’individuo mostruoso che Norah quasi non riconosce più, che è ormai solo istinto (si ingozza, fagocita, ha crisi di pianto), e che sollecita riflessioni della donna sul suo presente: scopriamo che Norah ha un compagno che non ama, che forse lui si sforza di amarla anche sessualmente, pagando così il suo ‘debito’ di parassita mantenuto con figlia a carico. Norah afferma tenacemente una sua personale probità anche se nel procedere del racconto, con l’amplificarsi del gioco di richiami associativi che magnificano lo spettro delle implicazioni psicologiche, si manifestano i suoi cedimenti, mnemonici prima (non ricorda il passato, l’aver vissuto nella casa del padre negandolo anche dinnanzi all’evidenza della foto; non riconosce il cameriere Mansour. Ma non ricorda neppure il presente, le vacanze di Pasqua delle figlie, motivo della loro venuta imprevista a Dakar), fisici in seguito (crede di avere delle allucinazioni sulla terrazza del bar, poi più volte ha incontinenze emotive). Se all’inizio del racconto incontriamo un personaggio integro, solido e affidabile, appunto ‘forte’, 76 DANILO VICCA dietro le porte del suo ricordo, un po’ come quelle del lungo corridoio della casa che si svela come l’arcano della sua coscienza, scopriamo episodi del passato che segnano indelebilmente, che indeboliscono, che disarmano. Norah è l’antitesi della ‘forza’ fisica, ma non della ‘potenza’ morale. Fanta, privata del suo passato e mutilata nel presente, alimenta nel marito psicotico, Rudy, dubbi, sospetti, sensi di colpa: lo tradisce, con la connivenza dei suoi colleghi, con Manille, il datore di lavoro che ha avuto pietà di lui assumendolo malgrado il ‘passato’, in memoria delle cure affettuose che da piccolo aveva ricevuto proprio dalla madre di Rudy? E la madre, donna intenta a fare proseliti per una setta religiosa indeterminata, è stata a sua volta infedele al marito con l’uomo che poi questi ha ucciso? Fanta è vittima, oltre che di un complotto socio-culturale, di un uomo complesso, complessato: un uomo ingombrante che la riduce ad ombra, a figura lontana, sbiadita dietro il vetro di una finestra che ce la consegna come fantasma di sé nella scena finale, pertanto tutt’altro che forte. Kadhi, infine, subisce le più atroci amputazioni fisiche e psicologiche, è ridotta ad un esile e gracile corpo che consuma i suoi ultimi respiri sotto la tenda di un ospedale da campo pronunciando il suo nome per dire, almeno a se stessa, che esiste. Anche in questo racconto non la ‘forza’ ma una più intrinseca potenza nutre il destino di una donna. 10 G. Molinié, La Stylistique, Paris, PUF, 1989, p. 106. 11 Cf. H. Meschonnic, Poétique du traduire, Lagrasse, Verdier, 1999, p. 108–109. 12 Cf. A. Berman, «Traduction ethnocentrique et traduction hypertextuelle», in Les Tours de Babel, Mauvezin, Trans–Europ–Repress, p. 48 e ss. 13 Ci riferiamo alle categorie relative alla dipendenza e alla possessione enunciate da P. Charaudeau, Grammaire du sens et de l’expression, Paris Hachette, 1992, p. 191–192. 14 Procedimenti già individuati da Vinay e Darbelnet in Stylistique comparée du français et de l’anglais (1958), e sviluppati con numerose esemplificazioni da J. Podeur in La pratica della traduzione, Napoli, Liguori, 2002. 15 In un’altra occorrenza la serie attributiva costruita sull’ossimoro aggettivale è invece rispettata: «Insieme à lui sparì l’odore dolce amaro di fiori marcescenti (. . . )» p. 37. 16 Cf. P. Charaudeau, op. cit., p. 45. 17 Ibid., p. 53. 18 Una delle difficoltà traduttive del titolo in lingua inglese potrà ascriversi all’esistenza di un romanzo di C. Stamm e J. Mou–sien Tseng dal titolo Three Strong Women: A tale from Japan (1995), che certamente esigerà scelte che mettano al riparo da equivoci. 19 Anche in tedesco, in linea con l’italiano e lo spagnolo, il romanzo è stato tradotto con il titolo: Drei starke Frauen, Suhrkamp Verlag, Berlin, 2010. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422815 pag. 77–87 Giulia Latini Mastrangelo Dalla Penelope omerica alla tejedora de sueños di Buero Vallejo Penelope e l’Odissea, un legame inscindibile. Se citiamo Penelope, il nostro ricordo va al testo omerico dove la sposa di Ulisse illumina la scena con le sue qualità e il suo comportamento esemplare che arriva, nella nostra concezione moderna, all’eroismo. Eroismo che si affianca a quello del marito, ma eroismo silenzioso, sofferto nella solitudine del suo cuore, nelle lunghe notti tristi passate a tramare la sua difesa contro nozze non volute, nel suo amore trepidante per quell’unico figlio costantemente in pericolo. Questo personaggio così perfetto può far sorgere degli interrogativi: ma cosa pensava effettivamente Penelope? Il suo atteggiamento rifletteva veramente il suo essere o era un abito indossato a coprire il tormento interiore? Quali erano i suoi veri sentimenti per Ulisse dopo vent’anni? E tante altre riflessioni vengono spontanee soprattutto dopo aver letto La tejedora de sueños di Buero Vallejo, rappresentata agli inizi del 19521 , che, come dice Manuel Alvar, è Obra original que se entiende sin necesidad de recurrir a la arqueología porque es alumbramiento de hoy, con su problemática actual y con unos sentimientos propios de los hombres que han conocido la experiencia clásica, la medieval y la romántica; criatura ajena a la arqueología porque, gracias a la información descodificada y a la nueva valoración espiritual, podemos aislar sus sentimientos de toda la elaboración cultural a que nos fuerza la existencia de la Odisea2 . La vedremo da vicino dopo aver riletto i passi relativi a Penelope nel poema omerico e messo in rilievo quegli elementi che si riproporranno nell’opera moderna con una ben diversa interpretazione. Nell’Odissea già nella prima apparizione Penelope è definita ‘ottima’, cioè la migliore delle donne: si commuove al canto di Femio che ricorda le vicende della guerra di Troia e addirittura piange chiedendo al cantore di cambiare argomento. È evidente che Penelope è tuttora, dopo vent’anni, in stato di sofferenza per quell’evento che ha stravolto la sua vita. Nel II canto i Proci la incolpano di rimandare le nozze con l’inganno giacché hanno scoperto quello che lei fa da tanto tempo. Emerge l’astuzia e la tenacia della donna che combatte come può una situazione drammatica. Nel IV canto Penelope, 78 GIULIA LATINI MASTRANGELO avendo saputo che i Proci tramano l’uccisione del figlio Telemaco, si dà alla disperazione e questo è comprensibile. Quello che ci interessa in questo canto è il riferimento che la donna fa alle qualità di Ulisse: non offese mai nessuno, non fece ingiustizie come fanno tanti uomini potenti; ricordando le sue sventure dice: anteriormente perdí egregio esposo, que tenía el ánimo de un león y descollaba entre los dánaos en toda clase de excelencias, varón ilustre cuya fama se difundía por la Hélade y en medio de Argos [. . . ] 3 (. . . ) È una descrizione in cui emerge un Ulisse coraggiosissimo e dotato di tali e tante qualità da risultare superiore a tutti gli altri eroi. Penelope non trova difetti in lui. A questo fanno da contrappunto i pensieri di Ulisse: dopo l’osservazione di Calipso «aunque estés deseoso de ver a tu esposa, de la que padeces soledad todos los días», dichiara: Conozco muy bien que la prudente Penelope te es inferior en belleza y en estatura, siendo ella mortal y tú inmortal y exenta de la vejez. Esto no obstante, deseo y anhelo continuamente irme a mi casa y ver lucir el día de mi vuelta. (p. 139) È pudore di manifestare i propri sentimenti quello che muove Ulisse a non nominare espressamente Penelope come oggetto del suo desiderio di ritorno in patria oppure Penelope è sentita come parte della casa, elemento primario dell’anelito dell’eroe? Ulisse non sceglie fra Calipso e Penelope, ma fra Calipso e la sua casa, la sua terra che all’arrivo bacerà con amore. Un’altra osservazione possiamo fare leggendo l’incontro di Ulisse con sua madre nell’Ade: egli le chiede notizie di come lei morì, di suo padre, di suo figlio, dei suoi possedimenti e solo alla fine domanda di Penelope, se nutre sempre gli stessi sentimenti o se è convolata a nuove nozze. Il riservare a sua moglie l’ultimo posto nell’elenco delle domande può, da una parte, riflettere un minore interesse per lei, dall’altra può nascondere il timore di avere una risposta per lui dolorosa. E si può propendere per questa seconda interpretazione se notiamo che la madre nel rispondere non segue l’ordine delle richieste del figlio, ma quasi intuendone il travaglio interiore, lo rassicura subito sul comportamento e sugli immutati sentimenti di Penelope: Aquella continúa en tu palacio, con el ánimo afligido, y pasa los días y las noches tristemente, llorando sin cesar. Nadie posee aún tu hermosa autoridad real [. . . ] (p. 234) Ulisse viene continuamente rassicurato su Penelope. Anche la dea Atena nel Canto XIII dice la stessa cosa, ma vogliamo mettere in risalto, per utilizzarlo in seguito, quello che la dea osserva sul carattere di Ulisse: DALLA PENELOPE OMERICA ALLA TEJEDORA DE SUEÑOS DI BUERO VALLEJO 79 Cualquiera que volviese después de vagar tanto, deseara ver en su palacio a sus hijos y a la esposa; mas a ti no te place saber de ellos ni preguntar por los mismos hasta que hayas probado a tu mujer, la cual permanece en tu morada y consume los días y las noches tristemente, pues de continuo está llorando. (p. 277–278) Penelope ha sempre cercato di avere notizie di Ulisse, addirittura dava doni a chi affermava di sapere qualcosa di lui, ma come dice il pastore Eumeo, quasi sempre si trattava di false informazioni. L’elemento ricorrente che connota il comportamento di Penelope è il pianto con cui manifesta il suo dolore: più volte, sia direttamente sia indirettamente, la donna è rappresentata o descritta in lagrime per l’alternanza di disperazione e speranza o per il rimpianto di un marito troppo presto perduto o per l’angoscia di una situazione drammatica o per la preoccupazione per il figlio giovinetto. Le lunghe notti insonni e dolorose hanno lasciato il segno sul volto di Penelope, hanno offuscato la sua bellezza, come le fa rilevare Eurinome quando le dà consigli: pero antes lava tu cuerpo y unge tus mejillas : no te presentes con el rostro afeado por las lágrimas [. . . ] (Canto XVIII, p. 360) (. . . ) ma Penelope non vuole curare la sua bellezza come, deduciamo dalle sue parole, faceva quando Ulisse era accanto a lei: Aunque antes solícita de mi bien, no me aconsejes tales cosas — que lave mi cuerpo y me unja con aceite —, pues destruyeron mi belleza los dioses que habitan el Olimpo cuando aquél se fue en las cóncavas naves. (Idem) Parlando con il mendico, nel quale non riconosce il suo sposo, lei stessa spiega il suo struggimento e le basta un verso «[. . . ] Odisé pothéousa fílon catatécomai étor» che tradotto alla lettera suona «rimpiangendo l’amato Odisseo mi consumo nel cuore». C’è nelle sue parole l’amore intatto nel tempo. Tutto l’odio espresso con veemenza è contro Troia, la funesta causa delle sue sventure. Ormai Penelope può solo sperare di ritrovare Ulisse nel regno dei morti, per cui non le sarebbe doloroso morire. Per questo, quando ha la rivelazione che Ulisse è tornato, che è dinanzi a lei, resta fredda e pretende prove prima di accettarlo, suscitando in tal modo l’ira e il rimprovero di Telemaco ¡Madre mía, descastada madre, puesto que tienes ánimo cruel! ¿Por qué te pones tan lejos de mi padre, en vez de sentarte a su lado, y hacerle preguntas y enterarte de todo? Ninguna mujer se quedaría así, con ánimo tenaz, apartada de su esposo, cuando él, después de pasar tantos males, vuelve en el vigésimo año a 80 GIULIA LATINI MASTRANGELO la patria tierra. Pero tu corazón ha sido siempre más duro que una piedra. (Canto XXIII, p. 438) Soltanto quando avrà prove inconfutabili della vera identità di chi è di fronte a lei, la freddezza di Penelope si scioglierà: sintió desfallecer sus rodillas y su corazón, al reconocer las señales que Odiseo daba con tal certidumbre. Al punto corrió a su encuentro, derramando lágrimas; echóle los brazos alrededor del cuello, le besó en la cabeza [. . . ] (Canto XXIII, p. 441) (. . . ) Mentre le manifestazioni d’amore di Ulisse sono molto contenute, quelle di Penelope rivelano un carattere espansivo e tenero, inatteso e insospettabile rispetto al comportamento tratteggiato da Omero lungo tutto il poema. Dai riscontri fatti risulta evidente che Penelope nell’Odissea è una figura assolutamente esemplare: se la sua fama si è estesa ovunque, segno è che siamo di fronte ad una donna eccezionale anche per il suo tempo. Pensiamo alle parole elogiative di Agamennone che quasi invidia ad Ulisse la moglie perfetta: ¡Feliz hijo de Laertes! ¡Odiseo, fecundo en ardides ! Tú acertaste a poseer una esposa virtuosísima. Como la intachable Penélope, hija de Icario, ha tenido tan excelentes sentimientos y ha guardado tan buena memoria de Odiseo, el varón con quien se casó virgen, jamás se perderá la gloriosa fama de su virtud y los inmortales inspirarán a los hombres de la tierra graciosos cantos en loor de la discreta Penélope. (p. 455) Ma proprio l’eccezionalità del personaggio omerico ha fatto più tardi sorgere dei dubbi e formulare diverse interpretazioni. Comincia il cammino del mito, che sembra suscitare un gusto dissacratorio quasi a negare la possibilità dell’esistenza di una simile perfezione. Nella Introducción alla sua edizione de La tejedora de sueños di Buero Vallejo, Luis Iglesias Feijoo cita vari autori: Eschilo (in un dramma perduto), Licofrone, Apollodoro, Pausania, Servio, che hanno presentato una Penelope lasciva, o comunque infedele, con conseguente reazione di Ulisse. Buero Vallejo non tratta il suo personaggio con il gusto dissacratorio di chi ha presentato una donna che si dà ad eccessi con tutti i pretendenti, egli vuole scavare nell’animo di Penelope, vedere aldilà della sua mitica fedeltà, rompere la cortina di una esemplarità che imprigiona la sua autenticità di donna. La Penelope che appare irraggiungibile nella sua perfezione, in Buero Vallejo si umanizza, diventa persona ai cui travagli possiamo partecipare, delle cui sofferenze possiamo aver pietà, con le cui reazioni possiamo essere solidali. Come lettori siamo coinvolti, invitati ad esprimerci, a formulare il nostro giu- DALLA PENELOPE OMERICA ALLA TEJEDORA DE SUEÑOS DI BUERO VALLEJO 81 dizio sia sul comportamento di Penelope sia su quei tratti del comportamento di Ulisse che hanno suscitato i mutati sentimenti della moglie. Vediamo più da vicino il dramma in alcuni elementi che ci paiono importanti. Anzitutto l’inizio, con il coro delle schiave che elogia la regina rappresentandola con i tratti ricorrenti del poema omerico, ci porta nel mito, ma subito l’autore va aldilà delle parvenze e attraverso i commenti delle singole schiave noi vediamo una realtà diversa: Penelope che piange e geme mentre si isola nella stanza dove tesse, nasconde un turbamento che non ha nulla a che vedere con quello tradizionale. Per mostrarci una realtà profonda e nascosta Buero Vallejo rappresenta la vecchia nutrice Euriclea priva della vista, ma capace di ‘sentire’ quello che sta accadendo e quello che sta per accadere. Euriclea avverte la presenza del vendicatore: Soy ciega, ama. Y casi sorda. Pero oigo a los dioses invisibles que nos rodean [. . . ] Escucho los pasos fatales de las Furias vengadoras, cuando rondan esa escalera [. . . ] (p. 115) Questa capacità di avvertire un pericolo imminente ha precedenti letterari illustri, qui vogliamo ricordare fra gli altri Valle Inclán che crea in Tragedia de ensueño la figura della vecchia nonna cieca capace di sentire presenze misteriose, di presagire la morte, forse per influenza de L’Intruse di Maeterlinck, come presuppone Franco Meregalli4 . Ma se pensiamo che anche Omero aveva presentato cieco il vate Tiresia, possiamo dire che Buero Vallejo ha inserito sì un’innovazione nel personaggio di Euriclea, ma non si è discostato dalle convinzioni dell’epoca omerica delle straordinarie facoltà che può avere un essere privo della vista. È sempre Euriclea a dare una sua interpretazione del carattere di Penelope: ¡Y por eso te conozco bien! Sé que eres fuerte y astuta, como tu esposo Ulises. ¡Astuta, muy astuta frente a los pretendientes, y tú lo sabes! Penelope è forte, è stata forte per tanti anni, venti, ma ora si coglie la sua stanchezza, il rancore accumulato per tanto tempo contro chi provocò la guerra di Troia: Elena, la bellissima Elena della quale chiede notizie al mendicante/Ulisse rivelando per la prima volta un odio misto a rabbia e a una certa invidia. Le prime rivelazioni dei sentimenti di Penelope per Elena le abbiamo quando, saputo che la moglie di Menelao è sempre allegra, osserva: No es extraño. Una mujer capaz de suscitar tal guerra, no puede ser reflexiva. Ni soñadora. Alegre, alegre como un animalillo satisfecho, ¿no es eso? Più tardi, parlando con Euriclea, Penelope è più esplicita: 82 GIULIA LATINI MASTRANGELO Si perdemos a nuestros esposos en plena juventud y nos vemos forzadas a quedar al frente de los hogares (Con odio infinito.), tan sólo porque un tonto le robó a otro tonto una cualquiera [. . . ] (p. 140) È evidente che la colpa va data ad Elena ¡A esa mujerzuela, a esa perdida! Hace veinte años que se le ocurrió sonreír a otro que no era su esposo [. . . ] ¡Allá fueron los jefes de Grecia entera! Nosotras no éramos nada para ellos. (p. 141) L’ultima frase rivela il senso di frustrazione maturato da Penelope nei lunghi venti anni e spiega il disamore che si è impadronito di lei. Tanto più che di fronte ad un marito che accetta di lasciare la giovane sposa, c’è un pretendente, unico fra i tanti, che l’ama veramente e che ha saputo ricreare in lei le illusioni di un amore trepido. È Anfino che penetra attraverso la scorza di durezza, di cui Penelope si deve rivestire, per scaldare il suo cuore. Anche se questo amore non avrà nessuna soddisfazione fisica, sarà quello che le permetterà di sognare. Non dimentichiamo che l’autore definisce Penelope tejedora de sueños: i sogni che prepotentemente vogliono vivere, che trovano il modo di realizzarsi nella tela che Penelope protegge quasi violentemente dagli sguardi di chicchessia, che la fanno gemere e ridere, che sono solo suoi per lo spazio di un giorno. La notte lei stessa li annullerà per dar posto, all’inizio del giorno, a nuovi sogni. Porque toda mi vida ha sido destejer [. . . ] Bordar, soñar [. . . ] y despertar por las noches, despertar de los bordados y de los sueños [. . . ] ¡destejiendo! (p. 143) Solo Euriclea con i suoi occhi spenti percepisce la verità e ha paura e piange come non faceva da venti anni. Il primo atto si chiude con il pianto desolato e silenzioso della nutrice. Il secondo atto mostra lo sviluppo di quegli elementi che il primo presentava in germe. Un personaggio di rilievo è la schiava Dione, sulla validità della cui introduzione la critica è discorde. Dobbiamo tuttavia tener presente che Dione è l’unico personaggio che non ha riscontri nell’Odissea, per cui la sua creazione dovette essere ritenuta molto importante dal suo autore. In effetti la schiava astuta, intelligente, audace più di quanto sarebbe permesso alla sua condizione sociale, permette di scoprire i sentimenti riposti di Penelope e Anfino. È soprattutto a quest’ultimo che la schiava rivela l’amore di Penelope per lui anticipando il lungo dialogo fondamentale fra i due innamorati. È come se da sola Dione avesse la funzione del coro classico, ma arricchita dalla sua capacità di leggere nel cuore degli altri e fare un ritratto obiettivo della situazione. Gli spettatori (e i lettori), già preparati ed edotti da lei, sono pronti ad ascoltare Penelope e Anfino e a immaginare i pensieri di Ulisse che, DALLA PENELOPE OMERICA ALLA TEJEDORA DE SUEÑOS DI BUERO VALLEJO 83 nascosto, sente tutto e le cui reazioni l’autore non commenta. Il pubblico viene profondamente coinvolto, nel ruolo di critico e giudice, nell’intreccio delle dolorose situazioni in cui tutti i personaggi vengono a trovarsi. Quando Penelope e Anfino cominciano a parlare, l’uomo manifesta una sorta di rancore verso di lei: Tú puedes elegir y no eliges. Puedes terminar el sudario y destejes por las noches. Luego a ninguno de nosotros quieres. Yo soy hombre y sé razonar. Si puedes elegir y prefieres burlarnos y cansarnos [. . . ] (p. 155) ed è allora, quando Anfino deduce che lei ami ancora Ulisse, che Penelope ci appare stanca del ventennale silenzio e desiderosa di confessare quello che ha provato nei lunghi anni passati da sola. Penelope si analizza e parla chiarendo a se stessa l’evolversi dei suoi sentimenti: Helena nos quitó a nuestros esposos. Por esa [. . . ] puerca, las mujeres honradas hemos quedado viudas, condenadas a hilar y tejer en nuestros fríos hogares [. . . ] A consumirnos de vergüenza y de ira porque los hombres [. . . ] razonaron que había de verter sangre, en una guerra de diez años, para vengar el honor de un pobre idiota llamado Menelao. (Pausa.) Así pensaba yo cuando vinisteis a pretenderme. ¡Ah, cómo respiré! Treinta jóvenes jefes, hoy viejos o muertos, conducían nuestros ejércitos en Troya por causa de Helena. ¡Y treinta jóvenes jefes, hijos de los anteriores, venían a rivalizar por mí! ¡Por mí, por Penélope! ¡No por Helena, no! Sino por Penélope. (p. 157) Penelope rivela ad Anfino quello che non ha mai rivelato a nessuno, quello che l’aveva spinta a rimandare nuove nozze: l’illusione di conservare la giovinezza, la bellezza, quel fascino che un tempo aveva spinto tanti giovani a gareggiare per averla in sposa e fra i quali aveva vinto Ulisse. Alla base di questi sentimenti è l’odio per Elena che le fa cogliere l’opportunità di una rivalsa: è la sua «pequeña guerra de Troya» in cui ella è protagonista assoluta. Non sono sentimenti ‘buoni’ (lei stessa più tardi dirà ad Anfino di non essere buona), ma umanamente comprensibili. Penelope amava Ulisse quando l’aveva sposato, quando lui l’aveva conquistata gareggiando contro diciannove principi che aspiravano alle nozze con lei, ma possiamo dire che Ulisse, quando accetta di partire per la guerra di Troia, comincia a perdere l’amore della moglie. Gli anni di attesa hanno finito con il logorare, indebolire e infine annullare questo amore mentre nel cuore di Penelope si apriva la possibilità di un nuovo amore. Penelope non lotta in realtà per difendere l’amore per Ulisse, ma per salvaguardare questo nuovo, miracoloso, tenero amore che ha bisogno di protezione. Solo un uomo come Anfino, giovane, appassionato, sincero, disinteressato, si potrebbe dire puro, poteva nutrire per Penelope il tipo d’amore che lei voleva, poteva vederla giovane e bella, 84 GIULIA LATINI MASTRANGELO «eternamente joven», perché amava la giovinezza del suo cuore, quella joven che più tardi canteranno i poeti provenzali. E in effetti l’amore di Anfino ci richiama l’amore dei trovatori, assoluto, paziente, con l’amata al centro del mondo dei sentimenti, collocata su un piano di alta spiritualità. Penelope ricambia dentro di sé questo amore ma lo rivela ad Anfino solo in questo dialogo durante il quale ritroviamo la donna astuta di cui parlava Euriclea, la Penelope che come un’abile stratega domina una situazione complessa, organizza una difesa di cui Anfino verrà a conoscenza solo in questo incontro. Alla sorpresa di Anfino si unisce quella degli spettatori/lettori: Penelope ha continuato a tessere e disfare la tela non più per i motivi iniziali di rabbia, vendetta e rivalsa, ma per difendere Anfino che sarebbe rimasto vittima degli altri pretendenti se Penelope avesse effettuato la sua scelta: ¡Pero si lo elijo, a él, que es solo; a él, que no tiene detrás ningún pueblo que le defienda, me lo matarán! (p. 159) Da notare la portata emotiva di quel me che rivela quanto sia importante per Penelope la vita di Anfino così che, quando poco dopo lei dirà che ormai non pensa più ad Ulisse, per noi le sue parole non rappresentano una rivelazione, come lo sono invece per Anfino e per Ulisse che, nascosto, sente e vede tutto. Altro particolare da notare sono i gesti di Penelope che accarezza dolcemente i capelli di Anfino, sono le sue manifestazioni di malinconia, dolcezza, commozione, sollecitudine, è il suo sostare sulla porta guardando Anfino che va via. Sono atteggiamenti che fanno pensare ad una Penelope fanciulla, che cancella i vent’anni di solitudine e amarezza per riversare su un nuovo amore gli slanci forzatamente sopiti. «¡Tú me has hecho vivir!» dice Penelope ad Anfino, il quale a sua volta vede Penelope giovane, la «vería eternamente joven»: ecco allora spiegato perché i due vivono quest’amore come due giovani innamorati, con dolcezza, con tenerezza, con ‘innocenza’, fra drammatiche difficoltà che venano di tristezza e talora di funesti presagi il loro sentimento. Si arriva così al terzo atto: come il secondo era dedicato al colloquio rivelatore fra Penelope e Anfino, questo presenta l’incontro/scontro fra Penelope e Ulisse. L’atto si apre con la prova dell’arco da parte dei pretendenti e ricalca in questo passo l’Odissea. Penelope è agitata, da una parte pensa che nessuno riuscirà a tendere l’arco, dall’altra teme che inaspettatamente qualcuno riesca e questa prospettiva la riempie d’orrore. Quindi le sue osservazioni ironiche, talora mordaci, i suoi gesti convulsi nascondono una grande agitazione, questo lo comprendiamo alla fine delle prove, il timore di non poter avere Anfino. Non è una regina che parla e agisce, ma una donna che si tradisce nelle sue preferenze assumendo un comportamento non consono al suo ruolo. Se Ulisse non avesse ascoltato il dialogo fra Penelope e DALLA PENELOPE OMERICA ALLA TEJEDORA DE SUEÑOS DI BUERO VALLEJO 85 Anfino, avrebbe ora la rivelazione dei sentimenti di sua moglie. Prima ancora di rivelare la sua identità, Ulisse sa che non c’è più posto per lui nel cuore di Penelope. Infatti la frase con cui si rivela è brutale nella sua sinteticità: Terminaron tus sueños, mujer Penelope, riconoscendo Ulisse, grida e si pone in atteggiamento di protezione del suo rifugio, dei suoi sogni che, dalle parole di Ulisse, deve considerare ormai agonizzanti. Ulisse effettua la sua carneficina e per ultimo si trova davanti Anfino: in questa scena è chiara la predilezione dell’autore per questo infelice innamorato. Nobile nell’affrontare una morte dalla quale non può difendersi, dice parole che pesano come il piombo sulla figura di Ulisse: Yo defendí a Penélope, Ulises. Pero acepto morir a tus manos. Me matas porque tú estás muerto ya ; acuérdate de lo que te digo. La muerte es nuestro gran sueño. Morir en vida es peor; prefiero hacerlo ahora. (Ulises tiende.) Gracias por tu flecha, Ulises. La muerte es nuestro gran sueño liberador [. . . ] (Breve pausa.) Gracias por tus sueños, Penélope. E con il nome di Penelope sulle labbra Anfino muore. Ma muore anche una qualsiasi possibilità che Penelope senta qualcosa per Ulisse. La freccia che ha trapassato il cuore di Anfino trapassa anche — lo vediamo dal suo gesto — le viscere di Penelope che però trova forza e ragione di vita nei suoi sentimenti che ingigantiscono e che fanno vivere per sempre l’elevatezza morale di Anfino. Mentre il legame con lui diventa indistruttibile, l’atteggiamento di Penelope verso Ulisse diventa brutale e violento: non c’è scampo per Ulisse nelle parole di Penelope, come non c’era stato scampo per Anfino dalla freccia mortale di un Ulisse rabbioso e vindice. Ora i ruoli si sono invertiti: Penelope rivendica la propria libertà di giudizio e combatte con la parola. Gli elementi della personalità dell’Ulisse omerico vengono reinterpretati da Penelope: la sua astuzia è viltà, la sua prudenza è timore: Ahora debo decirte que tu cobardía lo ha perdido todo. [. . . ] Y si tú me hubieses ofrecido con sencillez y valor tus canas ennoblecidas por la guerra y los azares, ¡tal vez ! yo habría reaccionado a tiempo. Hubieras sido, a pesar de todo, el hombre de corazón con quien toda mujer sueña [. . . ] El Ulises con quien yo soñé, ahí, los primeros años [. . . ] ¡Y no este astuto patán, hipócrita y temeroso, que se me presenta como un viejo ruin para acabar de destruirme toda ilusión posible ! (p. 202) Nel durissimo fronteggiarsi dei due, Penelope conduce lo scontro verbale e vince, rendendo inutile la presenza dell’arma, quell’arco che Ulisse lascerà bruciare nel rogo funebre e onorifico di Anfino: 86 GIULIA LATINI MASTRANGELO Y eres tú, tú solamentee, quien ha perdido la partida. ¡Yo la he ganado! [. . . ] tú no habrás tenido en tu camino ninguna mujer que te recuerde joven, porque tú naciste viejo. Pero yo seré siempre joven, ¡joven y bella en el recuerdo y en el sueño eterno de Anfino ! [. . . ] ¡Tú eres el culpable ! Tú, por no hablar a tiempo, por no haber sido valiente nunca. Te detesto. (p. 203) C’è l’eco delle ultime profetiche parole di Anfino, ad Ulisse non resta nulla. Il peso dei suoi errori lo schiaccia, la sua pochezza spirituale ne fa un uomo solo apparentemente vivo, la sua solitudine è paurosa, drammatica. Tutte le sue peripezie, le sue imprese, le sue sofferenze sono state vanificate dalla sua fondamentale «cobardía», egli non ha «el inmenso corazón» di Anfino, non ha la «valentía» dei sentimenti. Ulisse esce sconfitto, per propria colpa, dalla partita che ha giocato con Anfino e con Penelope. Era tornato per evitare che sua moglie diventasse un’altra Clitennestra, ma se ha evitato l’esecuzione materiale con il pugnale, non ha potuto evitare l’esecuzione verbale: Penelope lo ha annientato con un’arma che maneggia molto bene: la parola, portavoce di sentimenti e di sogni. E Ulisse, amaramente consapevole che «todo está perdido», forse ricordando le parole di Anfino, pronuncia la sua ultima battuta: «Y ahora, a vivir [. . . ] muriendo». DALLA PENELOPE OMERICA ALLA TEJEDORA DE SUEÑOS DI BUERO VALLEJO 87 Note 1 A. Buero Vallejo, La tejedora de sueños — Llegada de los dioses, Madrid, Cátedra, 2000. Tutte le citazioni di quest’opera saranno tratte da questa edizione, seguite dall’indicazione della/–e pagine. V. Introducción di Luis Iglesias Feijoo, p. 11–82, in particolare la parte di commento a La tejedora de sueños, p. 38–62. 2 M. Alvar, Presencia del mito: “La tejedora de sueños”, in Bull. Hisp. 78 (1976), Biblioteca virtual Miguel de Cervantes, p. 16. 3 Homero, Odisea, Edición de A. López Eire, Madrid, Espasa Calpe, 2005, XXXVI edición. Canto IV, p. 128–129. Tutte le citazioni di quest’opera saranno tratte da questa edizione, seguite dall’indicazione della/–e pagine. La scelta delle citazioni nella traduzione spagnola è dovuta al fatto che Buero Vallejo consultò proprio questo testo quando preparò il suo dramma. 4 Cfr. F. Meregalli, Studi su Ramón del Valle Inclán, Venezia, Libreria Universitaria, 1958, p. 24. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422816 pag. 89–97 Thais A. Fernández La Yerma lorquiana en la interpretación de Marco Ferreri1 En 1977 Marco Ferreri dirigió para la primera cadena de la Radio y Televisión Italiana (RAI Uno) una edición de Yerma de Federico García Lorca, versión televisiva que presenta muchas intervenciones para la adaptación que aquí intentaremos analizar. En primer lugar tenemos que poner en evidencia el nexo que existe entre esta puesta en escena para la televisión — que por otra parte fue la primera que realizó el director milanés — y su producción cinematográfica, con su visión de la sociedad, la tiranía del poder, las componentes de la índole femenina y masculina, sintetizando, un mundo dominado por el dinero, la muerte, la incapacidad del hombre para sobrevivir a la tecnología que avanza. A fin de identificar esta relación trazaremos un breve cuadro del camino cinematográfico de Ferreri, recordando solamente aquellas películas y aquellas relaciones interpersonales con directores de cine, autores, actores que puedan contribuir a esclarecer nuestro tema. A los 21 años se acerca al mundo del espectáculo a través de la publicidad y conoce a Cesare Zavattini, una de las figuras más representativas del Neorrealismo italiano que dejará en él una profunda huella. En realidad, en ese momento todavía no le interesa la dirección, actividad que alterna con la de crítico. En ese periodo produce Il cappotto (1952) de Alberto Lattuada y Amore in città (1953) de Dino Risi. En los primeros años cincuenta ya está perfectamente integrado a la corriente político–artística que agitaba el mundo intelectual de la época, simpatizando con los movimientos de izquierdas pero sin dejarse encasillar en una política determinada. La actividad de productor no le procura mucho éxito pero tiene una importancia fundamental en su vida porque es uno de los motivos que lo lleva a España en 1956, donde permanecerá con algunas interrupciones hasta 1963. Es aquí que conoce a uno de los mejores escenógrafos europeos, Rafael Azcona, con el que prepara el guión de su primera película, El pisito, en 1958. A ésta seguirán Los chicos en 1959 y El cochecito en 1960. Es una trilogia de fondo social en la que se funden la tradición neorrealista italiana del director y el cáustico humor negro español representado por el guionista. 90 THAIS A. FERNÁNDEZ El pisito se basa en una novela de Rafael Azcona que, a su vez, se había inspirado en un hecho de crónica ocurrido realmente en Barcelona. Un joven, Rodolfo, vive en la pensión de una octogenaria, Martina. Decide casarse con ella de manera que, tras la muerte de ésta, pueda heredar el piso y ahora sí casarse con su novia verdadera que, por su parte, lo apoya en el proyecto. Pero Martina no muere nunca y él se encariña con esta señora comprensiva y maternal. Cuando Martina muere, la nueva esposa instaura un régimen autoritario, por demás rígido. Con esta película empiezan a delinearse algunos argumentos que Ferreri irá desarrollando a través de toda su carrera cinematográfica: la muerte, la hipocresía burguesa, la relación asimétrica hombre/mujer en la que el hombre está sometido, aburrido, abierto a los cambios y la mujer es fría, calculadora, represiva y oprimente conservadora del orden burgués. La película Los chicos es de 1960, es la segunda película que rueda en España donde cuenta la historia de chicos de provincia. En esta ocasión Azcona no colabora con él. No tiene ningún éxito, es secuestrada por la censura franquista y Ferreri mismo evita hablar de ella. En El cochecito vuelve a contar con la colaboración de Azcona para narrar la gran soledad de la vejez. Don Anselmo es un anciano que tiene un amigo tullido en un cochecito de inválidos, a quien acompaña corriendo con él por las calles, así los dos conocen a otros tullidos con los que hacen amistad; sólo que el protagonista, aunque tiene buenas piernas, no puede seguirlos y compartir con ellos la diversión. Angustiado por la pérdida de sus amigos pide a su familia que le compren un cochecito a él también para no sentirse emarginado por sus compañeros, proyecto al que su familia se opone con firmeza. La única solución que le queda para concretar su deseo es que su familia muera y él decide ponerle veneno en la comida para liberarse de ella. Con un argumento sencillo pero rico de complejidades, Azcona y Ferreri logran realizar una de las mejores películas del cine español. En ella plantean la gran soledad de la vejez y la furia autodestructiva de la burguesía (el padre y el hijo desean uno la muerte del otro), afronta la rebelión contra el orden represivo, reivindica un espacio vital para los marginados, reflexiona sobre el racionalismo absurdo que lleva al crimen. En 1962 Ferreri vuelve a Italia y contando siempre con la colaboración de Azcona escribe el guión del filme de Alberto Lattuada Il mafioso. A éste se sucederán una serie de títulos como L’ape regina de 1963 en el que el director descarga otro ataque feroz a la institución del matrimonio y a las convenciones sociales. Ambientada en Roma donde pululan curas y monjas, cuenta de un comerciante de una cierta edad que se casa con una joven santurrona, virgen y devota. El objetivo de la fresca esposa es quedar embarazada y cuando lo LA YERMA LORQUIANA EN LA INTERPRETACIÓN DE MARCO FERRERI 91 consigue ya no le dedica el mínimo tiempo, el marido pierde totalmente el interés de su esposa y postrado, moral y físicamente, considerado casi un estorbo inútil, el día del parto muere solo. En este film, el blanco preferido de Ferreri es la burguesía católica y conservadora, en la que el macho es víctima de la hembra devoradora, y donde se enfrentan un monstruo (la personificación del orden social) y un marginado (el pequeño burgués macho sometido e inerme). En La donna scimmia, de 1964, en cambio denuncia la deshumanización práctica con fines comerciales. En 1969 Ferreri rueda Dillinger è morto inaugurando una nueva fase caracterizada por un estilo neutro, abstracto en espacio y tiempo, con puntos de contacto con el nouveau roman francés. El tema de la película es la crisis de identidad y la alienación del hombre en la sociedad industrial, donde la muerte es el punto de autodestrucción progresiva y consciente, es la apoteosis de la angustia y del fracaso. Ferreri, con la corrosiva ironía que lo caracteriza manifiesta, bajo la capa más superficial, un amargo pesimismo existencial sobre las posibilidades que tiene el hombre de sobrevivir en la sociedad tecnológica. Sobre todo él nos presenta una burguesía abúlica, sofocada por la infelicidad cotidiana del ambiente doméstico. Ahora bien, vistas las temáticas de Ferreri, nos preguntamos: ¿por qué ha elegido Yerma entre las obras de Federico García Lorca? A la luz de cuanto hemos puesto en evidencia, se podría decir que el director sentía un interés especial en representar el tipo de mujer obsesionado por la maternidad. En efecto en la película L’ape regina, que había realizado quince años antes, dibujaba el retrato de una mujer que utilizaba el amor de un hombre con el único fin de procrear. Contando con una Edmonda Aldini de excepcional intensidad, Ferreri construye el personaje de Yerma, que también concibe la relación sexual con su marido no como un acto de amor sino como el único medio para tener hijos, que va pasando por diferentes estados de ánimo: desde el primer momento en el que espera palpitante el anuncio de la gravidez a la gradual desilusión, a la desesperación cuando toma conciencia de que esto no ocurrirá nunca, a la ira, al odio contra el marido al ver que él no los desea, hasta el desenlace final. Del testo lorquiano Ferreri ha conservado los momentos más líricos, o los más patéticos, o dramáticos, desde el principio con las palabras que Yerma dirige al niño que desea con tanta intensidad y que el director materializa en la película. Las manos de Yerma que lo acarician expresan una ternura conmovedora y se vuelven un instrumento que subraya los sentimientos de Yerma expresados en cambio en Lorca a través de la mirada. Otra vez Yerma comunica el amor por ese niño soñado a través de sus manos: cuando María le revela que está embarazada, Yerma, con una actitud 92 THAIS A. FERNÁNDEZ que podríamos definir maternal, la acaricia dulcemente manifestándole su participación afectuosa y feliz ante la noticia. En algunos casos Ferreri interviene sobre el texto original, a veces en forma convincente, otras en forma discutible. Es necesario sin embargo considerar que Marco Ferreri parte de una traducción de Duilio del Prete, que tiende a simplificar y casi banalizar el texto a fin de hacer que la comprensión sea más inmediata, lo que disminuye la intensidad poética de las partes en verso de la tragedia de Lorca. Los coros, que en el original nos recordaban la tragedia clásica griega, informando al público de los hechos y expresando un punto de vista, aquí han sido casi abolidos a favor de coros folklóricos de música popular española de los años Treinta. La figura de Víctor está en Lorca esfumada: Yerma recuerda una ocasión en la que, casualmente, tuvo un contacto físico con él, solamente un roce inadvertido pero cuyo recuerdo todavía la turba. En la película, en cambio, se produce un contacto mucho más intenso, él la besa con pasión y esto le quita la delicadeza, casi nobleza de ánimo que en el original lo eleva por encima de su condición social de pastor. Ferreri nos da una representación más real y sobre todo anticonformista del personaje. Como sostiene Monticelli, la figura de Víctor se nos presenta senza quella profonda e leggera ambiguità da apparizione, senza quello stupore da sogno, al di là dei gesti [. . . ] che questa figura vorrebbe2 . Las lavanderas con sus comentarios malévolos sustancialmente reflejan los personajes lorquianos; aunque Ferreri los moderniza introduciendo algodón dulce y cantos populares, modificaciones muy criticadas por el mismo Monticelli. Vi sostituisce a un certo punto, cori folclorici, su motivi popolari spagnoli degli anni Trenta, condotti da Luciana Turina. La differenza è piuttosto greve, per chi ricorda certi incanti aerei e preziosi di Lorca3 . El papel de Juan, confiado a Franco Citti intensifica algunos aspectos masculinos que Lorca presenta más esfumados y esta estrategia acentúa no sólo la soledad incomprendida de Yerma sino también la de Juan. Dos mundos que no pueden encontrarse, que irán alejándose cada vez más hasta el acto final, definitivo, con el cual Yerma toma en mano su destino y, dando rienda suelta al odio que siente por su marido, lo mata. Responde así al intento de acercamiento físico de Juan, ella no concibe el sexo sin el objetivo de la maternidad. La mano realista de Ferreri aflora en el último acto, cuando Juan, borracho, debilitado precisamente por el alcohol, sucumbe a la violencia de Yerma en una forma más plausible que en la obra de Lorca. LA YERMA LORQUIANA EN LA INTERPRETACIÓN DE MARCO FERRERI 93 A todo esto hay que considerar otro elemento muy importante, nuevo, que introduce Ferreri y que no siempre es fácil de interpretar: sobre el fondo van pasando imágenes de películas y documentales sobre varios argumentos en una continua y obsesiva sucesión, como ha notado el crítico Enrico Mazzuoli: tetre cerimonie ufficiali, corride, sfilate militari, bombardamenti, la guerra civile, le violenze, la lugubre figura del dittatore, gli spettrali fantasmi del Ku–Klux– Klan, l’ondeggiare della folla, accompagnano il penoso andare della protagonista4 . También Monticelli pone en evidencia esta particularidad cuando comenta: [. . . ] è una cascata continua, nel video, di immagini e di suoni che richiamano sia agli anni di quella guerra (galoppi e cariche di cavalleria e, alla fine, addirittura voli di squadriglie di bombardieri) sia a momenti tradizionali della vita spagnola, le corride, le feste di Pamplona. Tetre processioni di incappucciati e così via; una serie di documentari che partono addirittura da un corteggio regale per le vie di Madrid5 . Pier Maria Paoletti da un juicio negativo, de conjunto, del «incessante trascorrere sullo sfondo delle sequenze cinematografiche degli avvenimenti spagnoli» ya que piensa que estos tienen un «valore puramente figurativo, un’identificazione stilistica senza nessun rapporto logico con il dramma che si svolge in primo piano». Sin embargo Paoletti observa que Quando i filmati e il testo sono in sintonia (il Cristo delle liturgie popolari riflesso sul lenzuolo di Yerma, la tauromachia di un vecchio documentario girato da Ferreri in Spagna mentre Juan si getta bramoso sulla donna) si raggiungono i più alti risultati espressivi6 . La opinión con la que concluye resulta inapelable: Se Ferreri voleva dare il senso esatto del tempo, la Spagna politica o pubblica di quegli anni opposta al mondo contadino in primo piano (quasi la sostituzione di un commento musicale), dobbiamo dire che il significato è spesso oscuro per il telespettatore perché la maggior parte di queste sequenze, come si diceva, è indecifrabile [. . . ] E quando sono decifrabili non hanno alcuna relazione con il testo: cosa c’entra, per esempio, quel lungo, interminabile zoccolio della cavalleria che passa (non si capisce se repubblicana o franchista) mentre Yerma parla con la giovane puerpera («hai mai sentito un passero vivo in mano? Bene, è la stessa cosa, ma di dentro».)7 Nosotros no estamos de acuerdo con la indescifrabilidad de la que habla Paoletti. 94 THAIS A. FERNÁNDEZ En realidad, a nuestro parecer, las modificaciones que Ferreri ha aportado se explican sea con los contenidos presentes en su obra cinematográfica, sea con el conocimiento profundo que el director manifiesta de la obra poética de Lorca y por lo tanto del pensamiento del poeta granadino. Cuando el crítico se refiere al interminable ruido de los cascos de los caballos que pasan, nuestra mente corre inevitablemente al Romance de la Guardia Civil española en el que los guardias se presentan montando en sus caballos negros como portadores de violencia, de destrucción, de muerte. García Lorca en la primera estrofa de este Romance escribe: Los caballos negros son. Las herraduras son negras. Sobre las capas relucen Manchas de tinta y de cera. Tienen, por eso no lloran, de plomo las calaveras. Con el alma de charol vienen por la carretera. Jorobados y nocturnos, por donde animan ordenan silencios de goma oscura y miedos de fina arena. Pasan, si quieren pasar, y ocultan en la cabeza una vaga astronomía de pistolas inconcretas8 . En otro poema, Romance de la luna, luna, para enfatizar que el pequeño gitano ha muerto, se escuchan los cascos de un caballo cuyo jinete es la muerte vestida de caballero y cuyo galope resuena por la llanura transformada en un enorme tambor que difunde un lúgubre sonido: El jinete se acercaba tocando el tambor del llano. Dentro de la fragua el niño, tiene los ojos cerrados.9 Los hombres a caballo son enemigos de la vida, no importa si son franquistas o republicanos: Ferreri en contraposición a la violencia que ellos representan, se apela a las palabras de Yerma que celebran la ternura y la fragilidad de la vida, que manifiestan la esperanza en el futuro del hombre. Estos argumentos Ferreri los ha tratado en diferentes películas, por ejemplo en Ciao maschio que termina con la destrucción total del mundo, y en ese apocalipsis la protagonista que recién ha dado a luz a una niña, sentada en la playa juega con ella. LA YERMA LORQUIANA EN LA INTERPRETACIÓN DE MARCO FERRERI 95 Por lo que se refiere a la escena de la corrida, Ferreri subraya el momento en el que Juan se arroja violentamente sobre Yerma con las imágenes de un documental de una corrida que Ferreri mismo había rodado para la RAI en 1966. Es casi una premonición de la muerte a cuyo encuentro va Juan, que presenta dos claves de interpretación. La primera: Juan es como el torero que evoca «la apetencia de muerte y el gusto de su boca» de Ignacio Sánchez Mejías10 . La segunda: Juan/toro al final de la tragedia, en un último gesto, esforzándose para dominar a Yerma imponiéndole su poder masculino y viril se arroja sobre ella para poseerla pero Yerma lo rechaza, no acepta esta imposición y lo mata, matando con él toda posibilidad de maternidad y por consiguiente de futuro. Por primera vez ella es artífice de su destino, ahora será libre. La escenografía es de Filippo Corrado Cervi, esencial, donde se alternan un simbólico olivo y muebles rústicos. Es importante subrayar la presencia del olivo, que en Lorca es un símbolo de tristeza y casi de muerte como encontramos, por ejemplo, en la Canción de jinete11 donde el caballero destinado a morir tiene aceitunas en su alforja o en el Romance de la luna, luna12 donde los gitanos que encontrarán en la fragua al niño muerto «por el olivar venían» o en el Llanto por Ignacio que se concluye con el verso famoso «recuerdo una brisa triste por los olivos»13 . También podemos mencionar el ejemplo del Romance de la pena negra, donde se dice que «la pena negra brota/ en las tierras de aceituna/ bajo el rumor de las hojas»14 . Nos ha parecido oportuno poner en evidencia estos contactos entre las anteriores experiencias cinematográficas italo–españolas de Marco Ferreri, sus predilecciones temáticas y el conocimiento del pensamiento poético lorquiano para intentar comprender qué es lo que hay de absolutamente lorquiano en la Yerma de Ferreri y cuánto de la visión del mundo de Ferreri está presente en Lorca, así como penetrar en el significado profundo de las innovaciones que han suscitado mucha perplejidad. Es cierto que muchas escenas no parecen estar relacionadas directamente con el argumento sobre el que se basa la tragedia, pero si consideramos las innovaciones de Ferreri desde una perspectiva diferente, entonces podemos sostener que la atmósfera de la España de los años Treinta, el ambiente andaluz con el que Lorca se sentía profundamente identificado, algunos valores de la sociedad rural de la época han sido vertidos en imágenes. La tragedia de Yerma ya no es un hecho aislado, sino que se integra a un contexto general y esto aumenta su dramatismo. En armonía con la angustia de Yerma se manifiesta la angustia de una nación, el martilleo de las aspiraciones frustradas de la protagonista encuentra apoyo y motivo de fuerza en la cadencia de los cascos de los caballos y en la marcha de los soldados. Junto al dolor de Yerma por ese hijo que nunca pudo nacer, el dolor que la guerra, distribuidora de angustia y de muerte trae consigo, la desesperación de tantas 96 THAIS A. FERNÁNDEZ madres que han perdido a sus hijos en combate, el pesimismo total del futuro de los niños: «no hay más que un millón de herreros/ forjando cadenas para los niños que han de venir».15 En la visión de Ferreri, Yerma encarna el prototipo doloroso de la mujer española en una sociedad cerrada, retrógrada. ¿Podemos pensar que el director italiano se ha alejado demasiado del autor español? En realidad creemos que no, que él ha potenciado las características presentes en el drama lorquiano, aún aquellas que pueden permanecer escondidas pero que no han pasado desapercibidas a la sensibilidad interpretativa de Marco Ferreri. LA YERMA LORQUIANA EN LA INTERPRETACIÓN DE MARCO FERRERI 97 Note 1 Este trabajo fue presentado en forma reducida en el VIII Congreso de Caminería Hispánica Madrid, Pastrana, Alcalá de Henares 26 de junio–1 de julio de 2006. 2 E. Monticelli, «Ferreri si sovrappone a Lorca», in Corriere della Sera, 29 marzo 1978. 3 Idem. 4 E. Mazzuoli, «Il dolente canto di Yerma», in La Nazione, 29 marzo 1978. 5 E. Monticelli, art. cit. 6 P.M. Paoletti, «Il Lorca di Ferreri: sì, ma perplessi», in Il Giorno, 29 de marzo de 1978. 7 Idem. 8 F. García Lorca, «Romance de la Guardia civil», en Obras completas, Madrid, Aguilar, 1969, p. 453. 9 F. García Lorca, «Romance de la luna, luna», en Obras completas, cit., p. 425 10 F. García Lorca, «Llanto por Ignacio Sánchez Mejías», en Obras completas, cit., p. 545. 11 Id., «Canción de jinete», en Obras completas, cit., p. 380. 12 Id., «Romance de la luna, luna», cit., p. 426. 13 Id., «Llanto por Ignacio Sánchez Mejías», cit., p. 545. 14 Id., «Romance de la pena negra», en Obras completas, cit., p. 437. 15 F. García Lorca, «Grito hacia Roma», en Obras completas, cit., pp. 520–521 Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422817 pag. 99–166 Antonella Radice Archivio di Stato di Taranto: ordini e privilegi spagnoli del viceregno asburgico di Carlo VI (1711–1732) L’Archivio di Stato di Taranto La sezione di Archivio di Stato a Taranto fu istituita subito dopo le vicende della seconda guerra mondiale, nel 1946, e divenne Archivio di Stato, destinato a conservare e a custodire le fonti di natura giuridica pertinenti al territorio tarantino, nel 19631 . Taranto, che faceva parte della provincia di Lecce (ex Terra d’Otranto), è stata costituita provincia autonoma nel 1923. Prima di divenire sede di prefettura fu, nel periodo borbonico, sede di sottintendenza e poi, fino al 1923, di sottoprefettura. Prima dell’istituzione della suddetta sezione nel ’46, la conservazione dei documenti relativi al territorio tarantino era curata dall’Archivio Provinciale di Terra d’Otranto, ora Archivio di Stato di Lecce. Questa documentazione è stata poi quasi tutta trasferita nell’Archivio di Stato di Taranto al momento della sua istituzione, ma sono ancora conservate presso l’Archivio di Stato di Lecce scritture diverse prodotte da università2 e feudi del territorio tarantino. Oggi l’archivio di Taranto conserva oltre 22.000 pezzi cartacei e 600 pergamene3 . Presso l’Archivio di Stato di Lecce si conservano inoltre fondi archivistici degli uffici provinciali della Terra d’Otranto che ebbero competenza amministrativa, politica e civile nel territorio tarantino fino al 1923. Documentazione relativa a Taranto si trova infine anche nei fondi dell’Archivio di Stato di Napoli. I documenti che prenderemo in esame sono 7 e coprono un periodo di tempo di 21 anni: vanno infatti dal 1711 al 1732. Si trovano nella sezione: “Enti Pubblici”, fondo: Comune di Taranto, serie: Affari diversi, anno: 1600– 1778, pezzo: Reg. gen. n.º 1, intitolato Libro di ordini, privilegi, lettere e dispacci vari, provisioni e cedole in favore della città di Taranto dal 30–1– 1600 al 12–5–1778. In questo registro si trovano in tutto 88 documenti di cui 27 scritti almeno in parte in lingua spagnola. 100 ANTONELLA RADICE Essi sono gli unici documenti in spagnolo conservati nell’Archivio, insieme ad un atto notarile che si trova nella sezione: “Notarile”, fondo: Atti notarili, notaio: De Pierro Francesco Antonio, Comune: Taranto, serie: Atti diversi, anni: 1666, 1671, scheda: 88, pezzi: 1–2. Cenni storici Come è noto il principato di Taranto divenne possesso della dinastia aragonese nel 1437, per poi passare sotto il dominio del ramo spagnolo della medesima dinastia che continuò nella casa d’Asburgo. Nel 1700 con Filippo V duca d’Angiò la dinastia dei Borboni si sostituì sul trono di Spagna a quella degli Asburgo. Ma le grandi potenze europee, essendo Filippo V anche l’erede del re di Francia, non volevano rischiare che i due stati si unissero venendo a formare un territorio vastissimo, e quindi scatenarono la lunga guerra di successione spagnola (15 maggio 1702) schierandosi tutte dalla parte dell’altro pretendente alla corona di Spagna, l’arciduca d’Austria Carlo VI, il quale discendeva da un fratello dell’imperatore Carlo V. Il 7 luglio 1707, gli austriaci comandati da Wirico Filippo Lorenzo, conte di Daun, entrarono a Napoli. Il viceré Juan Manuel Fernández Pacheco, duca di Escalona, si arrese nella fortezza di Gaeta il 30 settembre. La guerra, che oppose Francia e Spagna ad Inghilterra, Austria e Province Unite, si concluse dopo 11 anni (11 aprile 1713), con il trattato di Utrecht che attribuì il trono di Spagna a Filippo V, con il divieto di accettare anche il trono di Francia. Carlo VI, che nel frattempo (1711) era stato incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, ottenne la maggior parte dei possedimenti spagnoli in Italia: il Regno di Napoli oltre al ducato di Milano e alla Sardegna (successivamente scambiata nel 1718–20 con la Sicilia). Egli continuò la guerra per un altro anno, ma il 7 settembre 1714 si decise a firmare la pace di Rastadt. Quando gli austriaci giunsero a Taranto e presero possesso del castello, fecero collocare sulla porta del ponte “dell’avanzata”, situata a ponente, lo stemma asburgico (che ancora oggi si può vedere). La loro permanenza a Taranto però durò fino al 1734, quando le truppe spagnole al seguito di Carlo III di Borbone rioccuparono Napoli e presero rapidamente possesso del Regno. In questa “parentesi austriaca” che è il periodo dei nostri documenti, si conservò l’uso della lingua spagnola nella cancelleria4 . *** Nel XVIII secolo la città di Taranto era limitata all’isola dove oggi sorge la città vecchia, che ha una superficie di poco più di 25 ettari. ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 101 L’isola, di forma trapezoidale, dal lato nord–est affaccia sulla grande insenatura detta “Mar Piccolo”, mentre sul lato opposto è bagnata dal cosiddetto “Mar Grande”; era munita di fortificazioni e collegata alla terraferma attraverso due ponti, uno a levante (dove si trovava anche il castello) e uno a ponente. La popolazione risultava di oltre 11.000 abitanti ed era distribuita nei quattro rioni detti “pittaggi”. Nella parte alta che si eleva a 12 metri sul Mar Grande c’erano i rioni di S. Pietro, il più popolato, e di Baglio, nei quali si trovavano il castello, la casa municipale, la cattedrale, l’arcivescovado, il seminario, molti conventi, le maggiori chiese e tutti i palazzi padronali, ma vi abitavano anche contadini, artigiani e bottegai. La parte bassa, invece, dove l’isola degrada al livello del mare, era occupata dai rioni di Turripenna e Ponte, dove si trovava la fortezza della Cittadella fatta abbattere nella seconda metà dell’8005 e dove le costruzioni e le alte case si addossavano l’una all’altra in stretti vicoli e stradine densamente abitati da gente per lo più dedita alla pesca ed alle attività marinare. La gran parte della popolazione si dedicava all’agricoltura (molti, detti foresi, erano braccianti agricoli che lavoravano nei vasti poderi delle “massarie”), ma l’economia di Taranto si fondava anche sulla pastorizia, la pesca, il commercio esercitato anche dai numerosi forestieri, e su altre attività minori. Il centro della vita economica era la “Piazza Grande” (oggi Piazza Fontana), dove all’epoca sorgeva ancora la fontana fatta costruire ai tempi dell’imperatore Carlo V (1543), costituita da un sofisticato sistema idraulico in superficie e da un ricco ornato a soggetto mitologico e sormontata dallo stemma imperiale asburgico6 . Intorno ad essa si aprivano le osterie, le beccherie, gli spacci, un “fundaco di panni e sete” e il “Regio fundaco de’ Sali”, oltre agli uffici notarili e degli scrivani. Attivo era il porto, dal quale mercanti stranieri esportavano il grano, l’olio ed altre merci dirette a Napoli, Genova e Viareggio7 . Verso la fine del secolo il Galanti magnifica la posizione felicissima, la bellezza inconsueta e le risorse del territorio tarantino, ma ne accusa anche il grave stato di decadenza, che attribuisce al vetusto e farraginoso sistema di usi feudali8 . I passaggi di potere da una dominazione all’altra affossarono l’economia della città mantenendo una gestione feudale, in cui le giurisdizioni erano abbandonate nelle mani dei privati. In effetti proprio durante il nostro periodo si accrebbe la condizione di perifericità e subordinazione rispetto alla nazione dominante. 102 ANTONELLA RADICE Stemma asburgico sulla porta a ponente del castello ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO Taranto, la città vecchia 103 104 ANTONELLA RADICE Criteri di trascrizione e di edizione Le abbreviazioni si sciolgono e si indicano in corsivo. Si lasciano abbreviate le formule di cortesia come: 1) 2) 3) 4) S.M. = Su Magestad S.M.C.C. = Su Magestad Cristiana Católica V.M. = Vostra Maestà V.S. = Vuestra Señoría Quando si scioglie l’abbreviazione di una parola che è presente anche per esteso, si segue la grafia di quest’ultima. Si lasciano in parte le maiuscole che il copista ha ritenuto importanti perché indicano l’argomento principale del documento. La sbarretta inclinata (/) indica il cambio del rigo, la doppia sbarretta (//) indica il cambio del foglio. Si interviene in apparato per evidenziare gli errori del copista. Si rileva un segno sulla a preposizione che non viene trascritto. Si collocano gli accenti secondo l’uso moderno. Si tende a conservare la punteggiatura del manoscritto ma s’interviene quando lo si reputa necessario. I documenti sono raccolti secondo l’ordine cronologico e vengono indicati con numero romano d’ordine. Nelle citazioni il numero sarà seguito da un numero arabo che indica il rigo. Il recto e il verso del manoscritto si trovano indicati con r e t (tergo). Si conserveranno queste sigle, poste immediatamente dopo il numero del foglio. I documenti esaminati sono i seguenti9 : I f. 86 r, t Cedola reale del re Carlo III affinché quattro nobili siano ogni anno in carica in quattro governi regii. II ff. 88 r, t; 89 r Cedola reale per la misura dell’olio. III f. 90 r, t Cedola reale per la concessione di portare pistole. IV f. 101 r, t Ordine del viceré affinché si chieda licenza al governatore per le manifestazioni delle festività. V ff. 103 r, t; 104 r, t; 105 r La reale disposizione fatta dal re nostro signore Carlo VI imperatore di tutti i suoi domini regii. VI f. 175 r Ordine del vicerè per la misura del sale. VII f. 182 r Copia dell’ordine del vicerè per la misura del sale. ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 105 Osservazioni sulla lingua dei documenti Grafia Si rileva l’uso di: — La bilabiale sonora b e la labiodentale sonora v appaiono intercambiabili: cavallero I, 2, e passim; estubiesen I, 9; goviernos I, 9, ma anche gobiernos I, 13; cavallos III, 12; tubieréis III, 14; executava IV, 3; governador IV, 10 e passim; devido IV, 12; deve V, 4 e passim; Córdova V, 18; Bravante V, 22; unibersal V, 40 e passim; tube V, 52; devan V, 61; deverá V, 70; tubiere V, 71; barones V, 82 e passim, ma anche varones V, 61 e passim; arriva V, 98; haviéndose V, 100 e passim; cavos V, 104 e passim; villete V, 108; archibo V, 126; recivan V, 128 conserbazión V, 134. — Talvolta un rafforzativo della c che rimarca una pronuncia sorda: occéano V, 21; succesión V, 37 e passim; succesivo V, 86; succeder V, 96. — Uso di ç: licençia IV, 10; partiçipe IV, 11. — ch al posto di c velare: charo V, 30 e passim. — Talvolta l’h è tralasciata: aora I, 8, e passim, ma anche ahora IV, 6 e passim; Ungría V, 15; ayan V, 65 e passim; embras V, 87 e passim, ma anche hembras V, 66 e passim; agáis V, 105, ma anche hagáis V, 125. — Desta perplessità la grafia: Meshsina V, 29, dove h è ingiustificata e il caso si presenta isolato. — q invece di c velare: quatro I, 8; quenta III, 39; qualquier V, 64, e passim; consequencia V, 119; quanto V, 33. — Una volta l’uso di s invece di z interdentale: Viscaya V, 29. — In un caso l’uso di s invece di c fricativa: Córsega V, 18. — ss rende la spirante sorda: fuesse I, 10; assí I, 19, e passim; essos III, 18; essa IV, 3, e passim, ma anche esa V, 125; essa IV, 3; esse V, 103; desseo V, 32; pudiesse V, 50, e passim; pusiesse V, 57; quedasse V, 86; passadose V, 122. — Spesso la grafia antica x rende la velare aspirata sorda j: executéis I, 19; executado II, 39; executar IV, 2, e passim; executaba IV, 3; exemplo V, 43; executoriado V, 100; executó V, 124. — Una volta la grafia inconsueta x invece di z interdentale: diex V, 117. — Una volta l’uso di x invece di g: lexítimo V, 129. — Talvolta y invece di i: toysón I, 3, e passim; reyno I, 4; comunicaréys V, 108. — Frequentemente z invece di c fricativa: merezido I, 18; aceptazión I, 19; onze I, 19, e passim; Barzelona II, 40, ma anche Barcelona 106 ANTONELLA RADICE I, 19, e passim; zelo III, 7; hazer III, 9, e passim; Mezineses III, 9; conzedáis III, 15; pertenez[ien]te IV, 2; hazen IV, 4; constanzia V, 7; ofrezer V, 8; Dalmazia V, 16; Croazia V, 16; Galizia V, 17; Murzia V, 18; Algeziras V, 19; Pusazias V, 25; providenzia V, 34 e passim; agnatizia V, 42; renunziaron V, 46; descendenzia V, 50 e passim; treze V, 53; sanzión V, 57 e passim, ma anche sanción V, 11; agnazión V, 63; preferenzia V, 83; renunciazión V, 92; descendenzia V, 96; enunziada V, 101; observanzia V, 107; notizia V, 112 e passim; disposizión V, 119; publicazión V, 120. Influenza dell’italiano Spesso avviene che termini, grafie preposizioni e suffissi italiani influenzino quelli spagnoli: ill[ustr]e I, 2 epassim; fidelíssima I, 5, epassim; concessiones I, 6; possessión I, 11; “promptos a la defensa” invece di “promptos para la defensa” III, 10; clementíssimo V, 2; sucessión V, 9; immutable V, 10 epassim; expressada V, 11 epassim; passado V, 11; seguiente V, 12; Ierusalém V, 15; Suevia V, 24; Barcellona V, 26; governo V, 37; Ferdinando V, 43; rigorosa V, 42; amantíssimo V, 45; prerogativa V, 71; sereníssimas V, 89 epassim; fedelíssima V, 108; fedelíssimos V, 112; Vien[n]a V, 116; felicitades V, 135; fúndaco VI, 4; quel VII, 3; conseglero VII, 4; rispetto VII, 5. Grafia latineggiante Troviamo alcune forme latineggianti: — — — — — — — — — Phelipe I, 7 invece di Felipe. mpt al posto di nt: prompto II, 36, e III, 10. mill II, 40, invece di mil (lat. mille). subcessores III, 18; subcedan IV, 16. compreendiendo V, 47. Corintia V, 22. il nesso cl: Sclavonia V, 28. Christo V, 30. Athenas V, 23; e th al posto di t: lugarth[enien]te II, 3, e passim; thenor II, 7, e V, 12. Divisione in sillabe La divisione per lo più è corretta e corrisponde a quella moderna spagnola. Non è corretta in un caso di s impura (in cui la s seguita da consonante non fa sillaba con la lettera che precede): ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 107 — regi-strar V, 105. Maiuscole Si notano delle maiuscole in parole che sono sembrate importanti al copista poiché si riferiscono all’argomento principale del documento, ad esempio: Ciudad I, 5; Instancia I, 11; Plaza III, 11; Pistolas III, 12; Cavallos III, 12; Bastajes IV, 5; Primogenitura V, 42; Arrendam[ien]to VI, 8. Improprietà morfosintattica — “sin que queda” invece di “sin que quede” V, 84. La pubblicazione dei documenti avviene su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Divieto di riproduzione con qualsiasi strumento, tecnica e procedimento. Autorizzazione n. 2198 dell’8–10–2010. 108 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 109 I Cedola reale del re Carlo III affinché quattro nobili siano ogni anno in carica in quattro governi regii Cartaceo — Inchiostro marrone chiaro, parzialmente sbiadito La grafia è la medesima dei documenti 88 r, t; 89 r; 90 r, t. cm. 20,8 x 29,8. El Rey 86 r Illustre Conde Carlos Borromeo, Primo Cavallero del / Insigne orden del Toysón de Oro, mi Virrey, Lugartheniente, / y Capitán General del Reyno de Nápoles en Interim. / Por parte de mi Fidelíssima Ciudad de Taranto, se / me ha representado que por Concessiones del Emperador / Carlos Quinto, y del Rey Don Phelipe Segundo, ha go/zado hasta aora el honor de que quatro Nobles de ella / estubiesen empleados en Goviernos Regios en esse Reyno. / Suplicándome fuesse servido de mandar que se man/tenga en esta possessión, y vista su Instancia, He / venido en encargaros y mandaros (como lo hago) que / en el tiempo de la provisión de los referidos Gobier/nos, tengáis muy presentes a los Nobles de la men/cionada Ciudad de Taranto, para atenderlos con toda / particularidad y proveerlos en algunos de ellos, según // 110 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 111 su calidad y méritos. Pues por lo mucho que aquella / Ciudad ha merezido 86 t en mi Real servicio, será de mi Real / agrado y aceptazión, el que lo executéis assí. De Bar/celona a tres de Junio de mil setecientos y onze. yo el Rey Don Antonio Romeo y Anderaz Pago veinte y un Reales de plata antigua de dineros 112 ANTONELLA RADICE Il documento in esame è datato 3 giugno 1711, risale quindi al periodo in cui Carlo VI d’Asburgo, dopo la proclamazione di Filippo V a re di Spagna, aveva invaso il Regno di Napoli prendendone possesso. Carlo VI, nato a Vienna nel 1685, era figlio dell’imperatore d’Austria Leopoldo I e di Eleonora di Pfalz–Neuburg. Aveva sperato di salire sul trono spagnolo e risiedette a Vienna come un monarca spagnolo in esilio, dando grande importanza al cerimoniale spagnolo (Spanisches Hofzeremoniell) e circondandosi di consiglieri spagnoli10 . Nel 1703 si autoproclamò re di Spagna come Carlo III; divenne imperatore alla morte del fratello Giuseppe I nel 1711. Morì a Vienna nel 1740. Nei circa ventisette anni di viceregno austriaco in Italia (1707–33) lo spagnolo fu ancora lingua ufficiale e i documenti continuarono ad essere redatti in lingua spagnola. Anche nell’assetto territoriale e politico–amministrativo del regno non ci furono sostanziali modifiche. Il dispaccio reale, redatto a Barcellona (che nel 1705 era stata annessa ai possedimenti di Carlo VI) dal segretario di Stato Antonio Romeo y Anderaz, incaricato degli affari d’Italia11 , fu inviato al viceré Carlo Borromeo Arese, conte di Arona12 , che fu in carica dal 1710 al 1713, dopo il cardinale Vincenzo Grimani (1708–1710). Carlo Borromeo, nato a Milano nel 1657, apparteneva alla nobile famiglia che aveva annoverato fra i suoi membri S. Carlo ed era uno dei patrizi più ricchi e potenti del ducato. Il re di Spagna Carlo II gli conferì nel 1678 il Toson d’Oro13 e nel 1686 lo scelse come ambasciatore a Roma presso Innocenzo XI. Tuttavia prima ancora della morte di Carlo II di Spagna egli aveva desiderato che la Lombardia diventasse austriaca14 : fu in contatto con gli intellettuali che avevano partecipato alla congiura di Macchia15 e durante la guerra di successione spagnola si schierò dalla parte di Carlo VI d’Asburgo. L’episodio più importante della sua carriera politica fu la designazione, da parte di Carlo VI, a viceré di Napoli, dove giunse il 16 ottobre 1710. Nel documento si fa riferimento ad una vecchia concessione dell’imperatore Carlo V e del re Filippo II alla città di Taranto16 : il re Carlo VI ordina che si mantenga il privilegio concesso che prevedeva che quattro nobili della città fossero designati nei governi regi. Ai governi regi erano soggette città privilegiate che non erano sottoposte alla giurisdizione baronale17 e potevano accedere direttamente ad un tribunale regio di primo grado. La struttura tipo del governo regio era formata da un governatore, un giudice o assessore, un mastro d’atti18 . In calce al documento è annotata un’attestazione di pagamento in Reales de plata antigua. Il Real de plata, moneta d’argento spagnola, era così detto per distinguerlo da quello de vellón, cioè di biglione, che era argento di bassa lega, entrambi emessi nel 1642 (2 reales de vellón erano uguali a un real ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 113 de plata, mentre l’escudo d’oro valeva 16 reales). Si distinguevano inoltre il Real de plata novo e il Real de plata antigua o di vecchio argento, che rimase moneta di conto impiegata in qualche provincia, e moneta di cambio privilegiata sul principio del XIX secolo19 . 114 ANTONELLA RADICE r. 3 Lugartheniente – Secondo l’Alonso20 questo termine (lugarteniente) è attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Francisco Martín de Córdoba: «El que tiene autoridad y poder para hacer las veces de otro en un ministerio o empleo». r. 4 Capitán General – Secondo l’Alonso: «El superior de todos los oficiales y cabos militares de un ejército, distrito o armada, y se nombra capitán general de ejército, capitán general de distrito o capitán general de la armada». r. 11 Instancia – Secondo l’Alonso, è un vocabolo attestato fin dal XV secolo con l’accezione che ricorre in Góngora: “Acción y efecto de instar” oppure “Memorial, solicitud”. r. 13 Provisión – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIV secolo con l’ accezione che ricorre in D. Juan Manuel: “Acción y efecto de proveer”. Dal XVI secolo: «Prevención de mantenimientos, caudales u otras cosas que se ponen en alguna parte para que non hagan falta ni se echen de menos». In Góngora: «Despacho o mandamientos que en nombre del rey expedían algunos tribunales, especialmente los consejos y audiencias, para que se ejecutase lo que por ellos se ordenaba y mandaba». Dal XVIII secolo, in Fernández Moratín: «Mantenimientos o cosas que se previenen y tienen prontas para un fin». Secondo il Rezasco21 : Provigione, provvigione, provisione, provvisione era “Rivedimento, in Siena. Quindi In provisione, valeva Per l’effetto del rivedimento, o della ispezione” oppure “Provvedimento” oppure “Tutto ciò che è necessario ad altrui per chichessia: Provvedigione, Provvedimento” oppure “Deliberazione di Consiglio, in Toscana” oppure “Provisione de’ danari. Quella, per la quale s’imponevano danari a’ cittadini; che ora diciamo Legge d’imposta o di Finanza”. Oppure “Provisione privata. Quella appartenente a fatti di private persone, Comunità, e simili, non allo Stato intero: Provisione di spezialità, Legge particolare” oppure “Provisione pubblica. Quella riguardante l’interesse generale dello Stato”. Oppure “Decreto di Magistrato”. Oppure “Ordinamento composto dagli Emendatori”. Oppure “Mercede ferma ordinaria per servigj di ufficio civile resi al pubblico, pagabile a rate determinate: Stipendio, Salario, Feudo, Onorario, Onoranza, Tassa, Quietanza”. Oppure “Stipendio; e Quello particolarmente de’ Soldati e Capitani della bassa età che non avevano fatto condotta, o che militavano senza patti particolari; donde le frasi Andare a provvisione, Militare o Servire a provvisione, e simili”. Oppure “Mercede del mercante che fa le faccende altrui”, e anche “Mercede per qualsivoglia opera o lavoro”. r. 24 Reales – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIV secolo con l’ accezione che ricorre in D. Juan Manuel e Góngora: «Moneda de plata, ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 115 del valor de treinta y cuatro maravedíes, equivalente a veinticinco céntimos de peseta». 116 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 117 II Cedola reale per la misura dell’olio Cartaceo — Filigrana al centro — Inchiostro marrone chiaro, parzialmente sbiadito La grafia è la medesima dei documenti 86 r, t; 90 r, t — Non rilegato. cm. 20,8 x 29,8. El Rey 88 r Illustre Conde Carlos Borromeo, Primo Cavallero del In/signe orden del Toysón de oro, mi Virrey, Lugartheniente, y / Capitán General del Reyno de Nápoles en Interim. Por parte / de Don Camilo Romaneli, Diputado de mi Fidelíssima / y Noble Ciudad de Taranto, me ha sido presentado un Me/morial del thenor siguiente: Signore Don Camillo Ro/manelli Patricio de la Noble y Fidelíssima Ciudad de Ta/ranto, espedito de la medesima a’ piedi di V.M. espone / che l’Arrendamenti delle Dohanne di Puglia, e dell’oglio / e sapone, inaudita parte con provisioni volanti hanno pre/giudicato detta Città nell’estrattione dell’ogli, che sempre / si è costumata a fortuna di bandiera, sotto il pretesto di / voler far le pele, e fra il mentre siegue il detto caricamento / con gran pregiudicio del Comercio e di quei Cittadini, / a cannata pasata, è ferma col solito beneficio del sei per / cento all’estrahente, qual nova introduzione di carica/mento si rende più tarda, e di maggior spesa alli straenti // 118 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 119 per qual dimora le navi sfuggono quel Porto, si sup/plica però la gran bontà 88 t di V.M. ordinare o che su/bito l’Arrendamenti facciano dette Pile in luogo com/modo che non chreschi la spesa all’estrahente per / la carrea dell’ogli alle medesime, alla solita misura di / Taranto, o pure, che si continui l’estrazzione alla solita / bandiera, che solo da tre anni a questa parte / si è interrota, spogliando detta Città dall’antico / et inveteratissimo solito, che fra detto poco decorso / di tempo, in occasione d’estrazzioni per la Città / di Napoli si prattica con provisioni particolari / dal che si vede che il pregiudizio di detta misura di / fatto introdotta casca sopra l’imponenti con pregiudi/zio della Giusticia del Comercio, e de Vassalli di V.M. / Y vista su Instancia, He venido en encargaros y / mandaros (como lo hago) prevengáis luego lo conveniente // 120 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 121 para que por el Tribunal a quien tocare, se administre / prompto y entero 89 r cumplimiento de Justicia a la men/cionada Ciudad, sobre la materia que se expresa en el / preinserto Memorial, que assí procede de mi Real Vo/luntad, y de haverlo executado me daréis quenta. De / Barzelona a tres de Junio de mill setecientos y onze. yo el Rey Don Antonio Romeo y Anderaz Pago veinte y un Reales de plata antigua de dineros r. 5: si noti che il cognome “Romaneli” diventa “Romanelli” al r. 7. r. 14: abbiamo anche la versione “pele” però il termine esatto è pile. r. 16 “cannata”: si tratta di un’unità di misura dell’olio, equivalente a 2 litri circa. Da Nicola Cippone, Le fiere i mercati la fontana della pubblica piazza di Taranto, Martina Franca, Nuova Editrice Apulia, 1989 p. 171 estrapoliamo il seguente prospetto: 1 migliaio = 4 salme 1 salma = 10 staia 1 staio di S. Severo = 9 rotoli 1 staio di Bari = 8 rotoli 1 staio di Bitonto = 10 rotoli 1 staio di Chieti = 10 rotoli e 1/3 1 cannata o metro dell’Aquila o di Chieti = rotoli 21,6. r. 23 “carrea”: si tratta del trasporto delle merci per mezzo di carretti, «Il grano in parte era caricato su navi direttamente nel porto di Saturo, in parte era trasportato con la carrea nei magazzini del porto di Taranto.» v. Nicola Cippone, Taranto: civiltà del porto e rotte mediterranee, Taranto 1996, p. 115. In un atto notarile del 1711 del fondo del notaio Giovanni Antonio Catapano si dichiara che «per molti giorni s’è fatta. . . con le carrette del Sig. Principe la carrea di molte quantità di grano della passata raccolta delle sue masserie» ibidem. r. 26: il termine “interrota” si deve all’abitudine spagnola di non mettere le doppie. r. 32: il termine “Giusticia” sente l’influenza dello spagnolo con la presenza della c. 122 ANTONELLA RADICE Nel secondo documento redatto lo stesso giorno del precedente, il re Carlo VI ordina al suo viceré Carlo Borromeo di risolvere tramite il tribunale competente la questione della misura dell’olio presentata dal deputato Camillo Romanelli (il quale apparteneva ad una nobile famiglia tarantina: era nato nel 1664 da Giulio Cesare e da Beatrice La Riccia22 ). Nel documento, redatto in uno spagnolo con molte interferenze dell’italiano, è trascritta la relazione fatta in italiano dal suddetto deputato. Il commercio dell’olio in Puglia era così importante che nel XVI secolo il vicerè di Spagna ordinò l’apertura di una strada che collegasse la Puglia a Napoli per rendere più veloce e agevole il trasporto; il primato della produzione e commercio spettava alla Terra d’Otranto. Nel territorio tarantino gli uliveti e i vigneti costituivano la principale coltivazione. Altre produzioni importanti erano quelle del frumento e del cotone, oggetto di arti e di smercio, fra le manifatture, oltre quelle del cotone, vi erano delle fabbriche di sapone in pezzi. Oltre che per usi alimentari l’olio era usato per l’illuminazione, per la lavorazione delle lane ed era molto richiesto per preparare saponi, tanto che dai porti pugliesi partivano ogni anno, con tale destinazione d’uso, 80.000 quintali di olio23 . Da un angolo della Piazza Grande di Taranto presso la porta che si trovava a ponente, detta Porta di Napoli, si accedeva ad una spiaggia munita di un molo che facilitava lo sbarco e l’imbarco delle merci. Vicino alla spiaggia, che era circondata e protetta dalle mura della città e dalla Cittadella, vi era un locale dove erano situate le pile24 , cioè le vasche dove si misurava l’olio prima dell’imbarco, che attraverso un condotto di pelle poi si immetteva nelle botti25 . Accanto vi era l’ufficio della regia dogana. La dogana, detta anche fondaco, era generalmente costituita da un grande locale dove si scaricavano e tenevano le mercanzie per mostrarle ai mercanti e per gabellarle. Il termine indicava anche la gabella stessa, ovvero l’imposta per l’estrazione, l’introduzione ed il passaggio delle mercanzie (a Napoli era l’aggregato delle gabelle più redditizie e l’ufficio principale che ad esse soprintendeva). ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 123 r. 3 Lugartheniente – Cfr. I r. 3. r. 4 Capitán General – Cfr. I r. 4. r. 5 Diputato – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Mendoza e Fernández Moratín: «Persona nombrada por un cuerpo para representarle». Secondo il Rezasco: «È il Cittadino, a cui fu commesso di attendere a qualche parte del governo pubblico. Quindi Deputati sono gli Eletti da diversi Distretti dello Stato per comporre un Consiglio particolare o generale, rappresentante la nazione o la popolarità: Sindico, Procuratore». r. 21 Pile – Secondo il Tommaseo26 : «Specie di vaso in cui si pongono l’ulive per infrangerle». Secondo il De Vincentiis27 : « [. . . ] le pile ove si misurano gli olii da imbarcarsi [. . . ]». r. 38 Memorial – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Góngora e Sigüenza: «Papel o escrito en que se pide una merced o gracia, alegando los méritos o motivos en que se funda la solicitud». r. 44 Reales – Cfr. I r. 24. 124 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 125 III Cedola reale per la concessione di portare pistole Cartaceo — Inchiostro marrone chiaro, parzialmente sbiadito — La grafia è la medesima dei documenti 86 r, t – 88 r, t e 89 r. cm. 20,8 x 29,8. El Rey 90 r Illustre Conde Carlos Borromeo, Primo Cavallero del Insigne / orden del Toysón de oro, mi Virrey Lugartheniente, y capitán / General del Reyno de Nápoles en Interim. Por parte de los / Nobles de mi Fidelíssima Ciudad de Taranto, se me ha suplicado / que en consideración a la fidelidad que me tienen acreditado / y a la puntualidad, y zelo con que el año próximo pasado / acudieron a embarazar el desembarco que en aquellas Ma/rinas pretendieron hazer Mezineses y Liparotes, y para que / en casos semejantes puedan hallarse promptos a la defensa / de aquella Plaza, me dignase mandar que no se les im/pida el traer Pistolas en los Cavallos. Y vista su Ins/tancia, He venido en encargaros y mandaros (como lo hago) / que en aquellos Casos en que lo tubieréis por conveniente, / y conocieréis ser preciso, conzedáis a los mencionados No/bles, la Licencia que solicitan, para traer Pistolas en los / Cavallos, a cuyo fin os doy la facultad necesaria. Y por/que es mi Real voluntad que por vuestros subcessores en essos // 126 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 127 Cargos, se practique lo mismo en adelante, en virtud / de este Despacho, 90 t haréis se registre, y note adonde con/venga para que assí se tenga entendido, y se cumpla / y observe muy puntualmente en todos tiempos. De Bar/celona a tres de Junio de mil setecientos y onze. yo el Rey Don Antonio y Romeo y Anderaz Pagarse onze Reales de plata antigua de dineros 128 ANTONELLA RADICE Particolare del sigillo cartaceo di Carlo VI d’Asburgo sul foglio 90 t, sul quale è impressa la seguente scritta: «Carolus III D(ei) G(ratia) R(ex) Hispaniarum Rex». ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 129 Il dispaccio riportato è il terzo spedito in data 3 giugno 1711 dalla stessa segreteria di Barcellona e diretto al vicerè Carlo Borromeo a Napoli. In esso il re concede ai nobili della città di Taranto28 di portare pistole sui cavalli, su loro istanza, in considerazione del fatto che proprio l’anno precedente a Taranto era stato impedito un tentativo di sbarco intrapreso da Messinesi e Liparoti29 : i nobili tarantini ottengono di portare pistole per fronteggiare nuove consimili evenienze. Infatti gli Austriaci avevano occupato il Regno di Napoli, ma la Sicilia si trovava ancora sotto la Spagna di Filippo V. Ai vicerè, che esercitavano ampi poteri a nome e per conto del re (emanavano le leggi con il parere del Regio Collaterale Consiglio e della Regia Camera della Sommaria, esercitavano il potere giudiziario e avevano l’autorità di concedere grazie e privilegi), competeva anche l’autorità di dar licenza di portare armi. 130 ANTONELLA RADICE r. 3 Lugartheniente – Cfr. I r. 3 . r. 3 Capitán General – Cfr. I r. 4. r. 12 Instancia – Cfr. I r. 11. r. 20 Despacho – Secondo l’Alonso, è un vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Góngora: «Cualquiera de las comunicaciones escritas entre el gobierno de una nación y sus representantes en las potencias extranjeras». Dal XVII secolo, in Quevedo: «Expediente, resolución, determinación» oppure «Cédula, título o comisión que se da a uno para algún empleo o negocio». Dal XVIII secolo, in Fernández Moratín: «Acción y efecto de despachar». Secondo il Battaglia: dispaccio è: «Lettera con la quale un’autorità costituita dà notizia di qualche fatto, o invia ordini ai suoi sottoposti, o chiede istruzioni ai suoi superiori. –Anche: lettera diplomatica, con la quale un governo informa un altro governo delle decisioni che ha preso o che intende prendere». r. 27 Reales – Cfr. I r. 24. 132 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 133 IV Ordine del viceré affinché si chieda licenza al governatore per le manifestazioni delle festività Cartaceo — Inchiostro marrone scuro. Leggibile anche se traspare lo scritto retrostante. cm. 20 x 29,8. Magnífico y Amado de S.M.C.C. He visto lo que me representáis / en Carta 101 r de protocolo del corriente perteneziente a lo que mandó execu/tar el Capitán Comandante, el día que se executava en essa / Ciudad en frente de la Ciudadela la fiesta que hazen los / Bastajes en honor de la SS.ma Cruz. Y haviendo aprobado / al dicho Capitán Comandante, lo que dispuso, he resuelto ahora / que quando se hayan de disparar los Cañones de essa / Ciudad o batir la Caja, y unir Gente para las Compa/ñías, que se forman para las festividades, se haya de pedir / licençia al Governador de essa Ciudad, y que dicho Governador, / lo partiçipe al Castellano, y en su ausencia al Coman/dante del Castillo, pues assí lo pide el respecto devido / a las Tropas, y Armas de S.M.C.C., y toda buena regla / militar, que el Castellano, en y su ausencia el Comandante, / sepa el motivo que hay para ello. Lo que tendréis en/tendido, para que en lo venidero no subcedan // 134 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 135 semejantes abusos, e irregularidades. Nápoles a 10 / de Abril de 1717. (firma del viceré Wiric Daun) Al Síndico de la Ciudad de Taranto r. 17 abusos: potrebbe anche trattarsi di “abussos”, ma la lettura è difficoltosa. 101 t 136 ANTONELLA RADICE Questo dispaccio, spedito da Napoli il 10 aprile 1717, è del viceré Wirich Philipp Lorenz von und zu Daun, italianizzato Wirico Filippo Lorenzo, conte di Daun, che fu in carica per la seconda volta dal 1713 al 1719, dopo Carlo Borromeo. Nato a Vienna nel 1669, fu feldmaresciallo dell’esercito austriaco, conquistò Gaeta nel 1707, fu governatore dei Paesi Bassi austriaci (1724) e anche governatore di Milano (1733). Il viceré indirizzò il dispaccio al sindaco di Taranto, che va identificato in Paolo Cataldo de Cantore. Di lui sappiamo che nacque nel 1679 da Domenico (il quale possedeva un latifondo chiamato Cantore) e dalla nobile Giovanna Imbeverato; fu letterato celebre e membro dell’Accademia tarantina col nome arcadico di Tirsi; governò la città come sindaco per tre anni dal 1715; nel 1716 sposò Isabella Caprioli di Massafra. Morì nel 1729 durante un’epidemia30 . Nel documento si parla di una festa in onore della SS. Croce. La chiesa della SS. Croce (oggi in stato di abbandono) pare sia stata edificata dai fedeli tarantini in seguito all’entusiasmo suscitato dalla predicazione del Beato Angelo di Acri31 agli inizi del XVIII secolo32 su di un poggio prospiciente il Mar Grande, fuori porta Napoli, e derivava il suo nome da una reliquia della SS. Croce (conservata in una custodia di legno dorato), particolarmente venerata dai fedeli, i quali mantenevano a proprie spese il sacro culto. Data la vicinanza al porto e alla dogana la chiesa veniva frequentata soprattutto da portuali e scaricatori di porto. Nel 1834 costoro ottennero il beneplacito del re Ferdinando II, e l’anno seguente il definitivo riconoscimento della Confraternita33 della SS. Croce popolarmente denominata “a cungreghe de le vastase”. Col termine “vastase” venivano infatti chiamati i facchini, cioè i lavoratori del porto mercantile. Secondo alcuni questo nome derivava dalla discesa del Vasto che si trovava in prossimità della banchina e che prende a sua volta il nome dal torrione fatto costruire da Carlo d’Avalos marchese del Vasto, ma questa interpretazione appare un’etimologia popolare, essendo attestato il termine bastajes da una radice che rimonta al greco antico con ampia diffusione e continuità in tutto il Mediterraneo34 . Nella Visita Pastorale dell’Arcivescovo Blundo del 185635 , si legge che la confraternita organizzava una processione per un tratto della città con l’esposizione del Santissimo Sacramento l’ultimo venerdì di marzo36 , nella quale si faceva un grande corteo con i ceri, e le strade e i vicoli della città erano addobbati con fiori e festoni37 . La confraternita continuò a celebrare le proprie ricorrenze e a partecipare ai riti della Settimana Santa38 visitando i Sepolcri fino alla metà del ‘900. Il vicerè dà istruzioni in merito alla festa effettuata dai confratelli in onore della SS. Croce di fronte alla Cittadella, l’antica fortezza costituita inizialmente dal grosso mastio quadrato fatto costruire nel 1404 dal principe ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 137 Raimondello Orsini del Balzo per difendere meglio l’ingresso della città dalla parte del ponte di Porta Napoli, a cui successivamente fu aggiunta una cinta muraria e due torrioni39 . Si acconsente dunque alla partecipazione delle truppe, al suonare di tamburi e alle salve dei cannoni, ma si dispone che di volta in volta se ne faccia preliminare richiesta all’autorità competente, cioè al governatore regio, informando anche il castellano o in sua assenza il comandante del castello. 138 ANTONELLA RADICE Chiesa della SS. Croce sul poggio omonimo. ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 139 r. 2 Protocolo – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Fernández de Moratín: «Ordenada serie de escrituras matrices y otros documentos que un notario o escribano autoriza y custodia con ciertas formalidades». Dal XVIII secolo: «Acta o cuaderno de actas relativas a un acuerdo, conferencia o congreso, diplomático». r. 5 Bastajes – Secondo l’Alonso, è un vocabolo attestato dal XV al XVIII secolo con l’accezione che ricorre in Alonso de Palencia: “Ganapán”. Secondo il Corominas40 : “ganapán, mozo de cuerda, del cat. bastaix, y éste de una variante del gr. βαστάξ ‘acarreador’. 1ª doc.: Alonso de Palencia. Covarr. lo da como voz valenciana, y Aut. como empleado en Valencia y Aragón. Además lo usa Torres Villaroel en la ac. figurada de ‘hombre grosero’, pero quizás lo sacara del diccionario. Sólo en tres autores de los SS. XV–XVI. Siempre escrito con -j- o -g- en autores que distinguen este sonido del de -x-: este vocablo forastero fue adaptado al sufijo frecuente -aje. Además del catalán (donde es frecuente desde el S. XIII) existe en oc. ant. bastais y venec. bastazo, de donde pasó al it. bastagio y al neogriego”. Secondo D’Ascoli41 vastaso: “facchino; uomo volgare”; etim.: cfr. cal. bastasi, sic. bastasu, ant. ital. bastagio, ant. prov. bastais, catal. bastax, lat. med. bastasius, tutti da un gr. bastáses appartenente al verbo bastázo: ‘io porto sulle spalle’; cfr. anche gr. mod. bastázos: ‘facchino’. Secondo il DEI42 bastagio: “m. ant. facchino; v. importata in Toscana dal Nord, cfr. ven. bastaz’o (passato al neogreco bastázos), a fr., prov. bastais, catal. bastax (da cui il sardo bastásciu); it. merid. bastasu, vastasu facchino, uomo maleducato e anche grossa trave di sostegno; lat. medioev. bastasius (XIII sec.), da un gr. *bastásios, peculiare della Magna Grecia (dove oggi è endemico), tratto da bastázo ‘io porto’. La v. era in origine un aggettivo, come ci mostra il lat. medioev. bastasia (scil. navis) nave oneraria usata dai Dalmati”. r. 10 Governador – Secondo l’Alonso, questo vocabolo (gobernador) è attestato fin dal XIII secolo con l’accezione che ricorre in Berceo, D. Juan Manuel e Íñigo de Mendoza: “Que gobierna”. Dal XVI secolo, in Góngora: «Jefe superior de una provincia, ciudad o territorio que, según el género de jurisdicción que ejerce, toma el nombre de gobernador civil, militar o eclesiástico». Dal XVIII secolo: «Representante del Gobierno en algún establecimiento público». r. 11 Castellano – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Isaba e Góngora: «Señor o gobernador de un castillo.» r. 13 Tropas – Secondo l’Alonso, è un vocabolo attestato dal XVI secolo con l’accezione che ricorre in Fernández Moratín: «Gente militar, a 140 ANTONELLA RADICE distinción del paisanaje». Oppure «Conjunto de las tres clases de sargentos, cabos y soldados». Oppure «Conjunto de cuerpos que componen un ejército, división, guarnición, ecc.» r. 19 Síndico – Secondo il Corominas: «abogado y representante de una ciudad». Secondo l’Alonso: «Persona elegida por una comunidad o corporación para cuidar de sus intereses» oppure «En algunos países, el cargo de alcalde». 142 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 143 V La reale disposizione fatta dal re nostro signore Carlo VI imperatore di tutti i suoi domini regii Cartaceo — Filigrana al centro e nell’ultimo foglio con due chiavi incrociate — Inchiostro marrone scuro. Conservato abbastanza bene. cm. 20 x 28,4. Copia Foris Al Muy Magnífico señor El Préside de Leche Intus vero Muy 103 r Magnífico / señor. Mostrándose no menos aplicado el Clementíssimo ánimo de / S.M.C.C. por asegurar, con las humanas disposiciones en qualquier / accidente, la tranquilidad, que se deve afranzar en la disoluble / unión de sus Dominios que propenso a eternar en el conocimiento / y oblegar[. . . ] de sus Vasallos, la memoria del Paternal Amor, con que / atiende a premiar, su constanzia, y fidelidad en lo más impor/tante que se le puede ofrezer; se ha dignado benignamente / comunicarnos la acordada establecida sucessión de todos sus / Dominios, con la fuerza de Su perpetua e immutable, en forma / de Pragmática Sanción expressada en Real Despacho de lo del passado, / que es del thenor seguiente. / Don Carlos por la Divina Clemencia Electo, Emperador de Romanos / siempre Augusto, Rey de la Germania, de Castilla, de León, / de Aragón de las dos Sicilias, de Jerusalém, de Ungría, de / Bohemia, de Dalmazia, de Croazia, de Navarra, de Granada, / de Toledo, de Valenzia, de Galizia, de Mallorca, de Menorca, / de Sevilla, de Cerdeña, de Córdova, de Córsega, de Murzia, de / Jaén, de los Algarves, de Algezira, de Gibraltar, de las Islas / de Canaria, de las Indias orientales, y occidentales, Islas y Tierra / firme del mar occéano, Archiduque de Austria, Duque de / Borgoña, de Bravante, de Milán, de Stiria, Corintia, Carniola, / Luxemburg, Witemberg, de las dos Selesias, Athenas, y Neopa/tria, Príncipe de Suevia, Marqués del Sacro Romano Imperio, / de Burgovia, Moravia, y de las dos Pusazias, Conde de Aspurg, / de Flandes, del Tirol, y de Barcellona, Ferreti, Niburgi, Gorizia, / Rosellón, y Cerdaña, Landsgrave de Alsacia, Marqués de / Oristán, y Conde de Gorcano, señor de la Marca de Sclavonia, / Puerto Naón, Viscaya, Molina de las Salinas de Trípoli, Meshsina. / Muy Reverendo en Christo, Padre Cardenal de Althann, mi muy charo, / y muy amado Amigo de mi Consejo de estado, mi Virrey, Lugar/theniente y Capitán General del Reyno de Nápoles con el desseo, y Paternal // 144 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 145 cuidado de afianzar para lo futuro en quanto alcanza la / humana provi- 103 t denzia el bien público, felicidad, y reposo de / todos mis Reynos, Estados, y Dominios, para lo qual el / medio más seguro es mantenerlos unidos bajo la soberanía / y Governo de uno sólo, e, impedir que se divida la succesión / en ellos, y se debiliten el poder, y fuerzas que han de asegurar / su defensa, imitando el provido desuelo con que el señor Emperador / Ferdinando segundo regló a este fin la Unibersal succesión / de los Dominios Hereditarios de mi augusta casa en Alemania, / con el establecimiento de una rigorosa Primogenitura Agnatizia, / y el Exemplo de lo que con el mismo intento declaró, y ordenó / El Emperador Leopoldo mi señor, y mi Padre de gloriosa memoria; / después que S.M., y el señor Emperador Joseph mi amantísimo / Hermano renunziaron a mi favor sus derechos a la Monar/quía de España, Compreendiendo bajo la misma regla, / y orden de succesión los Estados, y Dominios pertenecientes / a la dicha Monarquía, con previsión del caso, que después / ha succedido de que pudiesse faltar la descendenzia varonil / de alguna de las dos líneas, y consolidarse en una de ellas / ambas Monarquías. Tube por bien en el año de mil sete / cientos y trece, de reglar la succesión Unibersal en todos / mis Reynos, Estados, y Dominios y publicarla con el In/tervento, y concurso de los Principales oficiales de mi Corte / y Consejeros de Estado; y últimamente mandé que se / pusiesse en forma de Pragmática sanzión, como Ley imutable / perpetua, y uniforme, para todos mis Reynos, y Dominios / declarando, y ordenando por ella, que en todos mis dichos / Reynos, Estados, y Dominios, devan succeder en primer / lugar, mis hijos varones (si Dios me los concediere), y // 146 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 147 y mi descendenzia varonil de varones, hijos de Varones de mi / augusta 104 r casa, y Agnazión, de suerte que tales mis descen/dientes, varones, hijos de varones de qualquier grado, / o Línea, que fueren, ayan de ser siempre preferidos / en la dicha succesión a las hembras y a sus descendientes así / varones como hembras, aunque tales hembras, y descendientes / fuesen de mejor Línea, y de / grado más propincuo al / último Poseedor, pero entre los sobredichos descendientes / varones, deverá succeder a los referidos Dominios sólo, / y únicamente el que tubiere la prerogativa de la Línea, y la de la / Primogenitura, sin que jamás tal succesión pueda dividirse en / diversas personas ni desmembrarse, y si en qualquier tiempo venie/sen a faltar los tales varones hijos de varones, ordeno que en / tal caso, ayan de succeder las hembras descendientes por línea / recta de los referidos mis hijos varones, y los descendientes de / ellas, assí varones como hembras, con la sobredicha regla de la / prerrogativa de la Línea, y de la Primogenitura, que queda / ordenada en los descendientes de varones como de hembras (lo / que Dios no permita) dispongo, y ordeno succedan en los refe/ridos Dominios, y Estado assí mismo mis hijas, y sus descen/dientes, assí barones, como hembras, también con la regla de la / preferenzia de los Primogénitos, o Primogénitas a los demás, / y de la Prerrogativa de la Línea, y sin que pueda tampoco desmem/brarse, ni dividirse la succesión. / Y si después de mis días, y en lo succesivo no quedasse descen/denzia mía, ni de varones, ni de embras, en tal caso mando / y ordeno, ayan de subceder en todos los referidos Dominios / las sereníssimas señoras Archiduquesas mis sobrinas / hijas del señor Emperador mi hermano, y sus descendien/tes, assí barones, como hembras, según quedó declarado en / los respectivos autos de renunciazión, que otorgaron al // 148 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 149 tiempo de sus casamientos, observándose también las referidas / reglas de la 104 t prerrogativa de la Línea, y de la Primogenitura. / Y si faltasen también las referidas señoras Archiduque/sas, y su descendenzia, dispongo ayan de succeder las serenís/simas señoras Archiduquesas mis hermanas, y sus descen/dientes, assí barones, como embras con las reglas arriva / expressadas. / Y, haviéndose publicado, y executoriado en todos estos mis / Estados, la enunciada Pragmática Sanzión, como Ley perpe/tua, e immutable, os encargo, y mando que convocado / esse mi Consejo Colateral pleno, con Intervento, assí de los / Regentes de Capa y de Espada, como de los Togados y Cavos / de Tribunales, la publiquéis también en él, y agáis regi/strar para que siempre conste de ello, y en todo futuro / tiempo tenga invariable y puntual observanzia, y tam/bién la comunicaréys con villete a essa mi Fedelíssima Ciudad, / para que vea el Paternal Cuidado con que atiendo, y proveo / a su mayor bien, y reposo, y la participaréis igualmen/te a los Présides de las Provincias, para que en Ellas se / tenga esta notizia. Y todos mis fedelíssimos Vasallos / sepan esta mi disposición, y ley immutable, y perpetua. / Y sea, muy Reverendo Padre Cardenal de Althann, mi / muy charo, y muy amado Amigo nuestro señor en vuestra continua / guardia. De Vienna a Diex de Marzo de mil setecientos / y veinte y cinco. Yo el Rey, con las señales del Consejero / Bermúdez de la Torre secretario. Y haviéndose en consequencia / de la soberana disposizión, hecho el día 14 del corriente / la formal publicazión en colateral pleno, compuesto / de los Reyentes Cavos de Tribunales, y los de Capa y Espada // 150 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 151 y Togados, y passádose el día 21 siguiente el aviso a los / Electos de esta 105 r fidelíssima Ciudad, guardándose el Estilo / que en semejantes casos se ha acostumbrado, executó / ahora lo mismo con vos y esa Audiencia, ordenándoos hagáis / registrar en los libros del archibo de ella este Despacho / para que se conserve imperdurable su notizia y los in/dividuos de essa Provincia la recivan, aprecien, y estimen / como Lexítimo testimonio del entrañable afecto con que / S.M. ha siempre distinguido este Reyno y por prueba / successiva de las honoras, gracias, y benéficios que han / tenido a la magnanimidad de su Cesarea Real Clemencia, / que es el Primogénito atributo de la Augustísima Casa, y en / la que deve afianzar este Reyno la conserbazión de / su lustre y felicitades. Nápoles a 28 de Abril de 1725. / A lo que [. . . ] = El Cardenal de Althann = Al Préside de Leche. r. 5 “esterminar” cancellato. r. 19 “Algezira” scil. Algeciras. r. 20 “Canaria” scil. Canarias. r. 27 nel ms:“Cerdeña”, ma si tratta della Cerdaña regione storica dei Paesi Catalani. r. 46 “su”. r. 53 nel ms: “trexe”. r. 59 nel ms: “dechos”. r. 101 nel ms: “enunxiada“. 152 ANTONELLA RADICE Questo documento è una copia di un dispaccio spedito da Napoli il 28 aprile 1725 dal cardinale Michele Federico di Althan, viceré in carica dal 1722 al 1728, dopo Marcantonio Borghese (1721–1722). Nato nel 1682 a Glatz, città della Bassa Slesia nella Polonia sud–occidentale, l’Althan discendeva da un’importante famiglia della nobiltà imperiale. Fu ambasciatore d’Austria presso la Curia romana e consigliere dell’imperatore. Carlo VI lo scelse come viceré perché era ben visto a Roma dove era stato ministro plenipotenziario, in quanto voleva ricondurre alla normalità i rapporti con la Santa Sede che erano ormai conflittuali da un ventennio. Il governo viennese impose al nuovo viceré tre direttive: rinnovamento economico, normalizzazione dei rapporti con Roma, riordinamento dello stato e controllo sull’eccessiva autonomia delle magistrature locali. Il viceré non doveva prendere alcuna iniziativa riguardante i feudi, la giustizia e il governo, o concedere grazie, salvacondotti, legittimazioni e incarichi senza consultare il sovrano. Nel dispaccio, inviato al preside43 di Lecce44 , si introduce e trascrive il documento reale proveniente da Vienna del 10 marzo (“con las señales del Consejero Bermúdez de la Torre secretario”) che riporta la disposizione emanata da Carlo VI d’Asburgo per la sua successione mediante un atto riconosciuto come Prammatica Sanzione. L’imperatore aveva disposto che il viceré, dopo la pubblicazione nella capitale del regno, provvedesse a rendere nota la sua Prammatica in tutte le province. La Prammatica Sanzione fu proclamata alle dieci di mattina del 19 settembre 1713, nella sala del trono di Hofburg a Vienna. Nel caso Carlo VI avesse avuto un figlio maschio, sarebbero state scavalcate le due figlie femmine del fratello maggiore Giuseppe I. Se Carlo VI avesse avuto soltanto femmine, si sarebbe proceduto come se la maggiore di queste fosse maschio. Carlo VI si sposò nel 1708 con Elisabetta Cristina di Brunswick–Wolfenbüttel. Dopo Leopoldo, morto a pochi mesi (1716), era nata Maria Teresa, il 13 maggio 1717, e poi un’altra figlia, Maria Anna. Le figlie di Giuseppe I, ed in particolare la primogenita Maria Giuseppina, avrebbero potuto vantare precedenze grazie alle disposizioni del nonno. Già dieci anni prima infatti, il padre di Carlo VI, l’imperatore Leopoldo I d’Austria, aveva deciso con la disposizione leopoldina che se il primogenito Giuseppe I fosse morto senza discendenza maschile, le corone d’Austria, Ungheria e Boemia sarebbero passate a Carlo VI. Se neanche Carlo VI avesse avuto figli maschi, l’eredità avrebbe privilegiato la figlia maggiore di Giuseppe I. Carlo VI invece stabilì che, se un maschio non fosse mai nato, dopo di lui avrebbe governato sua figlia Maria Teresa. Al momento della Prammatica Sanzione la casa d’Austria aveva come sede principale Vienna e possedeva il Granducato d’Austria, comprendente anche ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 153 il Tirolo, la Stiria, la Carinzia e la città di Trieste, strategicamente aperta sull’Adriatico; inoltre era padrona del Vescovado di Trento, della Brisgovia nella Foresta Nera, del Principato di Burgau e della Carniola, dei Regni di Boemia comprendenti la Slesia e la Moravia, dell’Ungheria, della Croazia, del Banato, che era una regione del Regno d’Ungheria e della Transilvania. Più a nord governava i Paesi Bassi spagnoli (attuali Belgio e Lussemburgo), in Italia il Milanese e Mantova, infine il porto di Coblon sulla costa del Coromandel, in India. Tutti popoli differenti tra loro per religioni e culture. Perché tale legge fosse ritenuta valida era necessario il riconoscimento da parte di tutti gli altri Stati, il che avvenne, dopo aspre lotte, con la pace di Aquisgrana nel 1748. 154 ANTONELLA RADICE r. 1 Préside – Secondo il Rezasco: «Presidente. Particolarmente l’Ufficiale che, dopo trasferita la Sedia imperiale da Roma in Costantinopoli, fu per tutta Italia Governatore di Provincia, sotto il Prefetto d’Italia, o sotto quello di Roma, detto ancora Correttore; nel Napoletano, durante il dominio spagnuolo, fu Governatore e Giudice criminale, come il Giustiziere de’ Normanni e degli Svevi; ultimamente nelle Terre del Papa, fu Governatore di Provincia di poca importanza, lo stesso che Delegato». r. 11 Pragmática – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Góngora e G. de Tejada: «Ley que, procediendo de competente autoridad, se diferenciaba de los reales decretos y órdenes generales en las fórmulas de su publicación». r. 11 Despacho – Cfr. III r. 20. r. 31 Consejo de estado – Secondo l’Alonso: «Alto cuerpo consultivo que entiende en los negocios más graves e importantes del Estado. Ha existido en varias épocas y con diversas atribuciones». r. 63 Agnazión – Secondo l’Alonso (agnación): «Parentesco de consanguinidad entre agnados» ed anche «Orden de suceder en los mayorazgos, cuando el fundador llama a los que descienden de varón en varón». r. 117 Consejero – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIII secolo: «Persona que aconseja o sirve para aconsejar». Dal XVI secolo: «Lo que sirve de advertencia para la conducta de la vida, como los desengaños ecc.». In Luis de Góngora: «Magistrato o ministro que tenía plaza en alguno de los antiguos consejos». Dal XVII secolo, in Saavedra e in Fernández Moratín: «Persona que tiene plaza en algún consejo». r. 123 Electos – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIII secolo con la seguente accezione che ricorre in Berceo e Fuenmayor: «Aplícase a la persona elegida o nombrada para una dignidad o empleo, ecc., mientras no toma posesión». Oppure «En algunos motines de los tercios españoles, se llamó así el nombrado por cabeza de ellos». Cfr. VI r. 33 Eletti – Secondo il Rezasco: «Magistrato comunitativo di molte terre delle Provincie napoletane, ove non erano i Sindaci, principale del luogo, e inferiore al solo Capitano, il quale rappresentava il Governo regio; e Magistrato simile di Messina, introdottosi in quella città dopo la sollevazione del 1674; e simile di alcune terre dell’Umbria, fra queste la città di Narni, nella quale gli Eletti, che erano sei, si trovano poi, nel secolo sedicesimo, nominati Priori», oppure «Eletti delle Piazze, delle città, Eletti. Magistrato supremo su l’amministrazione comunitativa della città di Napoli: Sei», oppure «Eletto del Popolo. Uno degli Eletti delle Piazze di Napoli, quello che in essa città rappresentava fra gli altri Eletti, o nel magistrato comunitativo, la Piazza del Popolo». ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 155 r. 125 Audiencia – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIV secolo: «Tribunal colegiado que entiende en los pleitos o en las causas de determinado territorio». Oppure «Distrito de la jurisdicción de este tribunal. Edificio en que se reúne». Oppure «Acto de un tribunal de justicia que entiende en los pleitos o causas». Oppure «Ocasión para aducir razones o pruebas que se ofrece a un interesado en juicio o en expediente». Dal XVI secolo: «Lugar destinado para dar audiencia». Cfr. III r. 13 Regia Audiencia e VI r. 15 Regia Audienza – Secondo il Rezasco: «Audienza, Udienza. L’ascoltare che fa il Principe o il Magistrato nella sua pubblica qualità le ambasciate, le domande, i richiami che gli fanno. Nel Napoletano, lo stesso Tribunale di giustizia». Oppure «Udienza privata, Udienza data dal Principe, come privato nella camera sua, senza solennità, massime agli Ambasciatori, per faccende, non per cerimonie. Udienza pubblica. Prima Udienza, con molta solennità e magnificenza data dagli Ambasciatori». «E quella che solevano dare alcuni Principi in giorni determinati a’ cittadini per udire lor domande e querele. Quindi Udienza delle cause, la Sala del tribunale». Oppure «Nel Napoletano, lo stesso Tribunale di giustizia». 156 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 157 VI Ordine del viceré per la misura del sale Cartaceo — Carta fina — Inchiostro marrone scuro. La firma in inchiostro più chiaro. cm. 20,7 x 29,8. Illustre Señor Atendiendo a la justificada instancia que / me ha presentado el 175 r Procurador de la Ciudad de / Taranto, para que me sirva ordenar que los Officia/les de aquel Fúndaco de sal lo mesuren a pala / corriente, como lo tiene establecido el Consejero Don / Juan Antonio Castagnola, y no a pala cerniente, / respecto al perjuicio que de ello resulta al público; / He venido en ordenar, y mandar a V.S., con la / Audiencia, que por el Subdelegado del Arrendamiento / de los sales se haga observar lo que dispuso el / referido Consejero Don Juan Antonio Castagnola en / este particular, por ser arreglado a lo Justo, y a / fin que las Universidades no sean defraudadas de / lo que les toca. Dios guarde a V.S. Nápoles a 27 de Junio / 1732. Luis Conde de Harrach A lo que V.S. Mande Illustre Préside, y Audiencia de Lecce rr. 4 – 5: l’espressione “pala corrente” è attestata anche in un documento dell’Archivio di Stato di Taranto del 1702, riportato da Nicola Cippone, Taranto op cit., p. 43: «[. . . ] detto sig. Domenico finito che fu di misurare uno tumolo di detti sali con 2 pale correnti e ferro scoperto [. . . ]». 158 ANTONELLA RADICE Quest’ultimo dispaccio, spedito da Napoli il 27 giugno 1732, è del viceré Luigi Tommaso Raimondo, conte di Harrach (Aloys Thomas Raimund von Harrach), che fu in carica dal 1728 al 1733 dopo il cardinale Gioacchino Portocarrero (1728). Al conte di Harrach seguì nell’incarico Giulio Visconti, conte della Pieve, che fu l’ultimo viceré di Napoli (1733–1734). Nato nel 1669 a Bratislava, apparteneva all’alta nobiltà austriaca, studiò all’Università di Praga, ricoprì incarichi diplomatici presso la corte spagnola e quella francese e, poiché aveva partecipato all’apertura del testamento di Carlo II, fu chiamato a sostenere, davanti all’imperatore Carlo VI, l’illegittimità delle pretese della casa di Francia sul trono spagnolo. Nella lettera, a seguito di una istanza, si ordina che gli ufficiali addetti al magazzino del sale lo misurino secondo le disposizioni del consigliere Giovanni Antonio Castagnola. Tre miglia a nord–ovest della città di Taranto si trovavano delle saline, costituite da due laghi. In estate il lago più grande prosciugandosi lasciava uno strato considerevole di sale bianco. Il sale apparteneva al re e veniva ammucchiato in grandi cumuli per poi disporne secondo il bisogno. Intorno alla metà del XVIII secolo la corona ne vendeva più di diecimila tomoli e quasi altrettanto ne veniva preso dai contadini nelle vicinanze45 . Possiamo verosimilmente identificare Giovan Antonio Castagnola con il giurisperito di cui ci parla Lorenzo Giustiniani46 , che fu avvocato nei supremi tribunali di Napoli, sostenne molte cause importanti di cui la principale è quella in difesa di Filippo V intitolata: Filippo V Monarca legittimo delle Spagne, overo dimostrazione de’ diritti del Cattolico, e Glorioso Monarca Filippo V per la successione della Monarchia di Spagna, e di tutti i Regni, e Domini a quella uniti. Napoli, con licenza de’ superiori Ex Bibl. Los Ren. Card. Imperialis, MDCCIV. Dal testo: «Conforme è certissimo, che nella Real Persona di Filippo si uniscano insieme le prerogative di grado, di linea, e di primogenitura, e che perciò egli sia l’immediato Successore di questa Corona; Così anco è fuor d’ogni dubbio che manchino affatto nella Persona dell’Augustissimo Cesare suo competitore, e molto maggiormente in quella dell’Arciduca suo Figlio, e che perciò a loro non s’appartenga niuna ragione, e niun diritto intorno a questa Successione. Manca la prerogativa del grado, poiché se si considera come discendente dall’Imperator Ferdinando I Fratello Secondogenito dell’Imperator Carlo V dond’egli prende ogni sua ragione, è congiunto in decimo, e l’Arciduca in undicesimo grado al Re Carlo II ultimo Posseditore». Giovanni Antonio Castagnola ricoprì le cariche di giudice della Vicaria, di regio consigliere47 , e infine di presidente della regia camera. Morì nel 1760. ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 159 r. 2 Procurador – Secondo l’Alonso, è un vocabolo attestato fin dal XIII secolo con la seguente accezione che ricorre in Berceo: “Defensor, abogado”. Dal XVI secolo, in Góngora: «El que con la necesaria habilitación legal ejerce ante los tribunales la representación de cada interesado en un juicio». Dal XVIII secolo, in Fernández Moratín: «El que en virtud de poder o facultad de otro ejecuta en su nombre una cosa». Oppure «En las comunidades, sujeto por cuya mano corren las dependencias económicas de la casa o los negocios y diligencias de la provincia. P. del Reino. Cada uno de los individuos que, elegidos por las provincias, formaban, bajo el régimen del Estatuto Real, el estamento a que daban nombre. P. síndico general. Sujeto que en los ayuntamientos o consejos tenía el cargo de promover los intereses de los pueblos, defendía sus derechos y se quejaba de los agravios que se les hacían». r. 4 Fúndaco – Secondo l’Alonso, (fúndago) è un vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in L. de Mármol: «Almacén donde se guardaban algunos géneros». r. 4 Pala – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIV secolo con l’accezione che ricorre in Alonso de Palencia e Fernández Moratín: «Instrumento compuesto de una tabla de madera o una plancha de hierro y un mango grueso más o menos largo». Secondo il Corominas: «azada, pala. Pala con que bieldan en la parva de lo trillado». r. 5 Consejero – Cfr. V r. 117. r. 9 Audiencia – Cfr. V r. 125. r. 9 Subdelegado – Secondo l’Alonso è un vocabolo attestato dal XVI secolo con la seguente accezione che ricorre in Fernández Moratín: «Díc. de la persona que sirve inmediatamente a las órdenes del delegado o le substituye en sus funciones». r. 9 Arrendamiento – Secondo l’Alonso, vocabolo attestato fin dal XIII secolo con l’accezione che ricorre in Alfonso el Sabio: «Contrato por el cual se arrienda». Dal XV secolo, in Cartagena: «Acción de arrendar bienes, especialmente inmuebles». Dal XVIII secolo: «Precio en que se arrienda». Cfr. XVII r. 10 Arrendamenti – Secondo il Rezasco: «Gabella, cioè Taglia indiretta, presso i Napoletani: parola spagnuola. Quindi Redditi sopra gli arrendamenti, ed Arrendamenti, assolutamente, valsero in Napoli i Danari o Luoghi di monte, i Danari in zecca, i Fondi pubblici de’ moderni; perché erano assicurati sopra quelle gabelle». Oppure “Appalto delle regalie”. r. 15 Préside – Cfr. V r. 1. 160 ANTONELLA RADICE ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 161 VII Copia d’ordine del viceré per la misura del sale Cartaceo — Filigrana in basso a destra — Inchiostro marrone chiaro Ben conservato. cm. 20,3 x 29,3. Copia etcetera. Illustre Signor Atendiendo a la justificada instancia, que me 182 r ha / presentado el Procurador de la Ciudad de Taranto, para que me sirva / ordenar que los Officiales de quel Fúndaco de sal lo misuren a / pala corriente, come lo tiene establecido el Conseglero Don Juan / Antonio Castagnola, y no a pala cerniente, respetto al perjuicio / que de ello resulta al público: He venido en ordenar, y man/dar a V.S. con la Audiencia, que por el Subdelegado dell’Arrendamiento / de los sales, se haga observar lo que dispuso el referido Consejero / D. Juan Antonio Castagnola en este particular, por ser arreglado / a lo justo y a fin que las Universidades no sean defraudadas / de lo que les toca. Dios guarde a V.S. Nápoles a 27 de Junio 1732. Al lo que V.S. [mande] = Luis Conde de Harrach Al Préside y Audiencia de Lecce r. 4 “Conseglero”: il vocabolo si differenzia dalla grafia corretta consejero attestata al rigo 8 e nei documenti V r. 117 e VI r. 5. r. 7 “pon”. r. 9 “Jauan” corretto. 162 ANTONELLA RADICE Questo documento è una copia del precedente, autenticata quattro giorni dopo dal notaio Didaco Xaverio Guerra: Extracta est praesens copia a suo originali mihi notario Didaco Xaverio Guerra de Tarento exhibito per illustrissimum dominum Don Scipionem Maria Marrese sindicum huius copiscue ac fidelissime48 civitatis Tarenti eidemque cum presenti restituto facta collatione concordat meliori [tempore salvat] licet etcetera et in fidem rogavi signavi etcetera Tarenti die 25 mensis Junii 1732. In calce al documento c’è il signum tabellionis cioè il segno autografo distintivo del notaio. I signa, che erano disegnati a mano, vennero utilizzati a partire dall’XI secolo e furono antesignani dei sigilli e timbri successivi. La forma grafica dei signa divenne sempre più elaborata al fine di renderli difficilmente falsificabili. Il signum era anche un mezzo per dare importanza al documento rogato e costituiva un elemento importante per l’identificazione dello status e della personalità del notaio49 . ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 163 Note 1 O. Guida (a cura di), Archivio di stato di Taranto, estr. dal vol. IV della “Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani”, Roma 1994. 2 Università era il nome dato al Comune, da universitas civium. 3 Appena costituito l’Istituto Archivistico riceveva, come primo nucleo documentario, 55 pergamene dei secoli XIII–XVIII, tutte relative al territorio dell’attuale provincia tarantina. A questo primo gruppo se ne aggiunsero in seguito altri. I gruppi documentari di maggior valore, oltre il fondo delle pergamene, sono il fondo notarile (composto da oltre 10.000 protocolli di notai che hanno rogato nell’ambito della provincia jonica dal 1507 al 1870), i fondi delle magistrature giudiziarie dei secoli XIX e XX, le scritture di opere pie diverse, quelle catastali, quelle di altri enti pubblici e privati dei secoli XIX e XX. 4 Cfr. infra p. 112. 5 Cfr. infra p. 136–137. 6 «Nel 1543, a tempi di Carlo V, fu introdotta l’acqua, dove oggi si vede, e costrutta la Fontana con molte statue di mezzomarmo, che dappertutto versano limpid’acqua. In cima d’esso Fonte vi sono l’arme di Casa d’Austria: indi quattro putti sopra altrettanti delfini con le piccole fiocine in mano, dinotanti l’insegna della Città. Succedono quattro Tritoni, che dalla bocca gittano acqua dentro una larga Conca sostenuta da quattro statue, di cui una figura Atlante che tiene il Globo sull’omero sinistro, l’altra Ercole con la pelle del Lione indosso, e la Clava in mano, la terza Diana avente in braccio un’urna, la quarta Giunone vestita di bianco manto con a’ piedi il Pavone. Al di sotto cotali statue si vede una Conca più spaziosa, rabescata in basso rilievo di varj geroglifici.» v. il commentario di Cataldantonio Atenisio Carducci a Tommaso Niccolò D’Aquino, Delle delizie tarantine, Napoli 1771, rist. anast. Bologna, Forni, 1979, p. 94. 7 Cfr. Pietro Boso, La popolazione di Taranto secondo il catasto del 1746, Bari 1958, estratto dagli “Atti del IV Congresso Storico Pugliese” (“Archivio Storico Pugliese”, a. VIII, 1955). 8 Cfr. Giuseppe Maria Galanti, Relazioni sulla Puglia del ‘700, a cura di Enzo Panareo, Galatina (Le), Capone Editore, 1984, p. 59. Consonante col giudizio entusiasta del Galanti ( «La contrada di Taranto è uno dei più bei siti dell’universo»), quello di Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone Editore, 1999, p. 101: «La posizione della città di Taranto è una delle più belle di Europa». 9 Le intitolazioni sono tratte dall’indice del registro di ordini e privilegi. 10 Cfr. Janko Von Musulin, Gli Asburgo, in Le grandi dinastie, Milano, Mondadori, 1976, p. 91. 11 «Don Juan Antonio Romeo, de origen navarro, era funcionario de la Secretaría de Sicilia cuando prestó obediencia al Archiduque en Guadalajara. En 1707 fué nombrado secretario de Estado para el Consejo de Italia, y en 1708, en ocasión de las bodas reales, el Archiduque le hizo merced del marquesado de Erendazu (Castellví, t. III, f. 285 v.). El 21 de diciembre de 1711 fué nombrado consejero de Italia. (A. H. N., Estado. Fondo del Archiduque, Carpeta Karl III Koenigliche Decrete). Acompañó al Archiduque a Alemania (Castellví, t. IV, f. 360 v.) y fué nombrado miembro de la Junta de Italia. (Moransi, p. 91).» v. Pedro Voltes Bou, “Mercedes otorgadas por el archiduque Carlos de Austria en Barcelona” in Hidalguía. La revista de genealogía, nobleza y armas, año V, julio-agosto, 1957, N. 23 Número dedicado a Cataluña, Parte II, Madrid, p. 536–537, n. 121; «Según Castellví, en el Pardo también se organizó la Secretaría del Despacho Universal (Castellví, t. IV, año 1710), lo que condujo al nombramiento de un segundo secretario del Despacho, el navarro D. Antonio Romeo y Anderaz, marqués de Erendazu, que ya lo era de Estado encargado de los asuntos de Italia.» v. M. Virginia Leòn Sanz, «El reinado del archiduque Carlos en España: la continuidad de un programa dinástico de gobierno.» in Revista de história moderna, n. 18, Madrid, 2000, p. 50; 164 ANTONELLA RADICE «Romeo fue uno de los contados ministros supremos que se pasó al bando austríaco en 1706. Felipe V le declaró traidor. Sus bienes fueron confiscados y quedó privado de todos sus cargos. Su dilatada experiencia en el despacho de papeles, así como su preciso conocimiento de los negocios del gobierno de Italia, le convertían en un candidato idóneo para medrar bajo el favor en dicembre de 1713.» v. Antonio Álvarez-Ossorio Alvariño, De la conservación a la desmembración. Las provincias italianas y la monarquía de España (1665–1713), Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, p. 211–214. 12 Sul foglio 87 t del registro di ordini e privilegi compare la scritta: «Al Illustre Conde Carlos Borromeo Primo / Cavallero del Insigne Orden del Toyson / de Oro, mi Virrey Lugar Teniente y Capitan / General del Reyno de Napoles en Interim». 13 Quest’ordine cavalleresco era stato istituito nel 1429 da Filippo IV duca di Borgogna, ma nel 1477 era passato alla casa d’Asburgo. Simbolo dell’ordine era la collana dalla quale pendeva il caratteristico vello, che ricordava quello attraverso cui Gedeone (il biblico condottiero prescelto da Dio contro i Madianiti che opprimevano Israele) ebbe prova del favore di Dio. Obiettivo dell’ordine, conferito solo a cavalieri appartenenti alla più alta nobiltà che si fossero segnalati per valore e virtù, era la diffusione della fede cattolica. 14 La sua corrispondenza con Ludovico Antonio Muratori, che durò circa venti anni, dà ampia testimonianza di questo suo desiderio: Cfr. sub voce G. Ricuperati, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Società grafica de Franchis, 1992, p. 81–83. 15 Ordita a Napoli nel 1701 da un gruppo di aristocratici capeggiati da Jacopo Gambacorta principe di Macchia. 16 Le leggi di Carlo V per il regno erano di due specie: i capitoli o “grazie”, sancite dal re ad iniziativa dei sudditi, e le prammatiche, vere e proprie norme di legge. 17 Come è noto, fino alle leggi eversive della feudalità ed oltre, i comuni o università e i rispettivi territori si suddividevano in terre regie o demaniali, dipendenti direttamente dall’amministrazione regia, e feudali — ben più numerose — soggette alla giurisdizione e all’esazione del barone cui erano assegnate. Solo alle prime era riconosciuto il diritto di essere rappresentate in parlamento. Le università feudali potevano diventare demaniali attraverso lo ius praelationis, cioè il diritto di riscattarsi dal feudatario versando una somma convenuta. 18 Cfr. Aurelio Musi, Mezzogiorno spagnolo: la via Napoletana allo Stato moderno, Napoli, Guida Editori, 1991, p. 95. Per la composizione del governo tarantino l’imperatore Carlo V nel 1535 aveva confermato il decreto del re Ferdinando I d’Aragona, il quale nel 1465 aveva stabilito che il governo di Taranto fosse composto di tre ceti: nobili, civili e popolari, e che ogni ceto fosse rappresentato, per un biennio, da 36 membri o decurioni, ordinando che il sindaco fosse sempre patrizio. Nel 1573, durante il regno di Filippo II, il Consiglio Collaterale decretò che il governo fosse per un anno di 16 decurioni, 8 nobili e 8 civili, e che il sindaco dovesse essere scelto nella classe nobiliare. Cfr. P. Domenico Ludovico De Vincentiis, Storia di Taranto, Taranto 1878, rist. anast. Bologna, Forni, 1978, 5 voll. , vol I, p. 118–119. 19 Cfr. Edoardo Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma, presso l’Istituto Italiano di Numismatica, MCMXV, p. 422. 20 Martín Alonso, Enciclopedia del idioma, diccionario histórico y moderno de la lengua española (siglos XII al XX) etimológico, tecnológico, regional e hispanoamericano, Madrid, Aguilar, 1982, 3 vols., (abbreviazione Alonso). 21 Giulio Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881, rist. anast. Bologna, Forni, 1966, (abbreviazione Rezasco). 22 Cfr. Domenico Ludovico De Vincentiis, op. cit., vol. IV, p. 196. 23 Un documento del 1725 conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli, relativo al traffico nel porto di Taranto, riporta quanto segue: «Estrazione di olio dal Porto — Il 26 marzo dal Porto di Taranto la tartana del p.n. (padron) Michele Ruggiero per conto di Gio Indelli ogli some 200. Il 6 aprile dal p. di Taranto sopra la tartana del p.n. Michele Auriemma per conto di Gio. Indelli ogli some vent’otto. Il 16 aprile sopra la barca del p.n. Dom. Ant. di Todaro p. ARCHIVIO DI STATO DI TARANTO 165 conto suo ogli some 24 e stara 2. Il 6 agosto dal porto di Taranto sopra la barca del p.n. Don Ant. Di Todaro per conto di d.o padrone ogli some 15.» Cfr. Nicola Cippone, Le fiere. . . ,op. cit., p. 157. 24 In un inventario delle “monitioni di vitto e guerra” della Cittadella, datato Taranto 27 febbraio 1710, conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, troviamo: «Tre pile di pietra di servitio per conservar oglio.» v. G. C. Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Bari 1930, rist. 1979, p. 276. 25 Cfr. Domenico Ludovico De Vincentiis, op. cit., vol. I, p. 64. 26 Nicolò Tommaseo – Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, vol. XIV, Milano, Rizzoli, 1977, (abbreviazione Tommaseo). 27 Domenico Ludovico De Vincentiis, op. cit., vol. IV p. 196, (abbreviazione De Vincentiis). 28 «La Nobiltà di Taranto è specchiata nelle Famiglie, Ayello, Antoglietta, Aquino, De Cantore, Capitignano, Carducci, Cimino, Cotugno, D. Roberti, Ficatelli, Galeota, Marrese, Montefuscoli, Peres, Delli Ponti, Romanelli, Santonio, Sicola, Villegas, Ulmo, Ungaro & altri.» v. GiovanBattista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703, rist. anast. Bologna, Forni, 1979, 3 voll., vol. II, p. 162. Pietro Boso, op. cit. p. 61, attingendo al catasto del 1746 elenca tra le famiglie nobili titolate anche Visconti e Saracino, mentre gli Albertini non vivevano a Taranto pur essendo tra i “fuochi numerati della città”; e tra le non titolate: Calò, Chirulli, Cosa, d’Afflitto, d’Ayala, de Beaumont, dell’Ariccia, Gennarini, Lupoli, Marini, Perrone. 29 In quello stesso anno, il 22 gennaio, l’isola di Lipari fu protagonista della cosiddetta “controversia liparitiana” che diede inizio ad un lungo conflitto tra regalisti e Chiesa. Il vescovo di Lipari scomunicò due funzionari dell’annona per aver violato, a suo dire, l’immunità ecclesiastica. Il caso fu sottoposto al tribunale siciliano della Monarchia che invece assolse i due funzionari e portò in prigione numerosi prelati. Il Papa Clemente XI appoggiò il vescovo che si era rifugiato a Roma e lanciò “l’interdetto” contro la Sicilia: non vennero più celebrate messe, non furono più suonate campane, non vennero somministrati sacramenti. Questa situazione durò fino al 1718. 30 Cfr. Domenico Ludovico De Vincentiis, op. cit., vol. IV, p. 64. 31 Il Beato Angelo d’ Acri (1669–1739), frate cappuccino e sacerdote, percorse come missionario l’Italia meridionale ed era solito far erigere, dove predicava, tre croci piantate su di un colle il più vicino possibile all’abitato, che rappresentavano il Calvario. 32 Cfr. Roberto Caprara, Carmela Crescenzi, Marcello Scalzo, Chiese e Conventi Cappuccini di Taranto, Taranto, Scorpione, 1986. 33 Le confraternite, sodalizi di laici che andavano in pellegrinaggio ai luoghi santi e facevano opere di carità, incominciarono a diffondersi nel XIII secolo, quelle di Siviglia sorsero intorno alla metà del XIV. Nel XVIII secolo, raggiunto il culmine del loro sviluppo, cominciarono ad essere sottoposte a norme e restrizioni da parte delle autorità. Le prime confraternite a Taranto furono fondate nel XVI secolo, molte altre nel XVII. L’anno di fondazione di quelle di S. Gaetano da Tiene, di S. Maria della Mercede o dello Spirito Santo e di S. Nicola da Tolentino è incerto, ma alcuni le fanno risalire agli ultimi anni del XVII secolo. 34 Vedi infatti Bastajes p. 139. 35 Carmelo Palmisano, Le associazioni confraternali a Taranto dal 500 al 900, Massafra, Edizioni Punto Zero, 2002, p. 141–144. 36 Il Commissario della confraternita di S. Agostino nella città vecchia, alla quale appartiene la chiesa della SS. Croce oggi chiusa al culto, Vincenzo De Vincentis (che ringrazio per la cortese disponibilità), ricorda che questa processione era chiamata dai tarantini “Criste ‘a croce”. 37 La confraternita celebrava anche, il 3 maggio, il giorno dell’Esaltazione della Croce (come risulta nello Statuto) e faceva la processione della Vergine della Croce nella terza domenica di agosto. 166 ANTONELLA RADICE 38 Fra i riti della Settimana Santa rientra la processione dei Misteri che tutt’ora si svolge a Taranto, iniziata ufficialmente dalla confraternita del Carmine nel 1765, ma che mosse per la prima volta i suoi passi ai tempi di un certo Diego Calò (nato nel 1652) il quale fece costruire le due statue del Cristo Morto e dell’Addolorata agli inizi del ‘700. Tale processione non ufficiale attraversava in origine l’intera isola su cui sorgeva la città vecchia di Taranto. Cfr. Nicola Caputo, L’anima incappucciata — curiosità storia e leggenda dei riti della Settimana Santa a Taranto, Alberobello, Il Settantotto, 1978. 39 La Cittadella s’iniziò a demolire nel 1884: in molti monumenti storici la mentalità postunitaria vedeva non preziose memorie da preservare, ma solo i simboli di un passato oscuro segnato dalle precedenti dominazioni. 40 Joan Corominas, Diccionario crítico etimológico castellano e hispánico, vols. 5, Madrid, Gredos, 1980, (abbreviazione Corominas). 41 Francesco D’Ascoli, Dizionario Etimologico Napoletano, Napoli, Del Delfino, 1979, (abbreviazione D’Ascoli). 42 Carlo Battisti, Giovanni Alessio, Dizionario Etimologico Italiano, voll. 5, Firenze, Barbera, 1975, (abbreviazione DEI). 43 Il preside rivestiva una carica inferiore solo a quella del viceré. 44 Capitale della provincia della Terra d’Otranto e sede del Tribunale cosiddetto “Idruntino”. 45 Un privilegio, redatto a Napoli nel 1482, riporta la convenzione stipulata fra la regia corte e l’università di Taranto, tramite il sindaco Francesco De Ventura, in base alla quale si cedeva al demanio la salina grande, mentre la corte s’impegnava per una spesa annua di 400 ducati per la riparazione delle fabbriche e delle fortezze della città. Cfr. “Ferdinando I d’Aragona e la Magnifica Università di Taranto. Privilegi, benefici, concessioni dall’anno 1463 al 1494”, in Annuario V, 1962–1963, Liceo Ginnasio di Stato “Archita” Taranto, Massafra, tip. Frat.lli Di Lorenzo, 1963, p. 26. 46 Lorenzo Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Napoli 1787–88, rist. anast. Bologna, Forni Editore, 1970, 3 voll., vol. I, p. 226–227. 47 Nel 1733 secondo il Giustiniani, ma nel nostro documento è citato come “consigliere” già nel 1732. 48 Copiscue ac fidelissime: secondo la grafia latina medioevale che non usa il dittongo. 49 Mariano e Angelo Guarnieri – Antonio Eleuteri, “Signa Tabellionum: segni e sigilli notarili civitanovesi del passato”, in Civitanova. Immagini e storie, 7, a cura del Centro Studi Civitanovesi e del comune di Civitanova Marche, 1998, p. 31–62. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422818 pag. 167–195 Marco Cromeni Andrés de Laguna: Libro Sexto de Pedacio Dioscorides Anazarbeo; acerca de los venenos mortiferos, y de las fieras que arrojan de si ponçoña, traduzido de lengua griega en la vulgar Castellana. Proposta di traduzione Introduzione La Prefazione al Libro VI di Dioscoride1 si apre con l’elenco degli argomenti trattati nell’intera Materia Medicinale: de las aromaticas medicinas, de los azeytes y unguentos, de los arboles y de sus fructos y gomas, de los animales, de la miel, de la leche, del sevo, de toda suerte de grano, de la hortaliza, de las rayzes, de las yervas, de los çumos, de las simientes, de los vinos, y de los minerales en el presente (que sera el ultimo de toda nuestra fatiga), trataremos de la facultad y fuerça de los venenos que nos pueden dañar y de los remedios saludables contra ellos. (rr. 2–7). Del VI Tomo, diviso in due sezioni, sono chiaramente dette le finalità: nella prima parte, vengono indicati i modi in cui «[. . . ] preservar desde el principio al hombre, para que no tome jamas veneno, o para que no le offenda, si alguna vez se le dieren a traycion o por yerro [. . . ]» (rr. 8–9) e «en socorrer a los que su fuerça tiene ya derribados» (r. 10), nella seconda. Dioscoride pone principalmente l’attenzione, sia sugli antidoti utili per scongiurare gli effetti deleteri dei veleni sia sull’accortezza che gli uomini devono avere, specialmente se occupano cariche di rilievo, nel consumare bevande e pietanze; infatti, l’avveduto medico greco avvisa che è dei gusti troppo intensi che si deve diffidare, dai quali conviene addirittura rifuggire, perché è proprio dietro a certi artifici culinari, che si celano l’amarezza e il fetore dei veleni maggiormente perniciosi per l’uomo. È necessario, inoltre, mangiare con calma e moderazione, al fine di poter riconoscere tutti i sapori delle pietanze che s’ingeriscono. Siccome a volte l’osservanza dei precetti indicati non è sufficiente per proteggersi dalle insidie dei malvagi, Dioscoride prescrive una serie di sostanze e rimedi che indeboliscono o annullano la fuerça (r. 33) dei veleni che vengono assunti accidentalmente; anche i viandanti devono guardarsi da ciò che mangiano, principalmente devono fare attenzione ai luoghi 168 MARCO CROMENI dove preparano occasionalmente i loro cibi: essi devono cucinare all’aperto, perché dai soffitti di alcune cucine (dove l’igiene è trascurata, evidentemente) potrebbero cadere nella pentola insetti e serpenti velenosi. Alle volte, proprio questi ultimi, attratti dall’odore del vino, s’insinuano nelle bottiglie, dove, prima di affogare «[. . . ] gomitaron en el su ponçoña» (r. 54). Attraverso l’osservazione, è possibile individuare la sostanza ingerita inavvertitamente, così come dallo studio del Meconio (r. 84) è possibile conoscere la natura del veleno, per ricorrere all’antidoto più adeguato. Il resto della Prefazione indica numerose sostanze, specialmente di origine animale e vegetale, necessarie sia per la preparazione di tremendi veleni sia di efficaci antidoti; non da ultimo, si menzionano alcuni decotti e tecniche ragionevolmente fondate, utili per provocare il vomito e l’evacuazione nei pazienti intossicati «Porque todas aquestas cosas, no solamente evacuaran con grande facilidad por vomito, relaxando y bolviendo el estomago, mas tambien purgaran por abaxo el veneno, y embotan su vigor y agudeza [. . . ]» (rr. 76–78). Andrés de Laguna traduce in spagnolo l’originale greco con un linguaggio diretto e schietto, spesso dall’accento familiare; egli si dirige al lettore dispensando consigli e cure utili per preservarsi dai veleni e per difendersi da essi. Se in alcuni punti emerge la sua sfiducia verso il genere umano «[. . . ] por ser muy inferior a las bestias» (r. 8), in altri è del tutto vero il contrario, anzi il forte spirito filantropico che anima lo zelante studioso, si trasforma in una strategia stilistica necessaria per suffragare tesi e dare vigore ai concetti. Infatti, i riferimenti autobiografici e al proprio operato sono molteplici «el veneno de las quales suele sin peligro gustarse, como me hizo gustar los otros dias en Roma.» (r. 63–64); «[. . . ] qual era una yerva que me mostraron en cierto jardin de Padua [. . . ]» (r. 118). Essi sono la prova delle conoscenze mediche dell’autore e della genuinità con cui tratta la materia che traduce e amplia. Certamente, Laguna era a conoscenza delle opere in campo medico– scientifico degli autori a lui coevi, come il senese Andrea Mattioli, e degli antichi Galeno e Avicenna, dei quali spesso fa menzione. Le pratiche per la preparazione dei rimedi da lui descritti rispondono alle abitudini maturate dall’uomo nel corso del tempo e si fondano sull’empirismo, la tradizione popolare, le pratiche magiche, l’osservazione, i costumi, le idee religiose, le teorie mediche, la ricerca, la sperimentazione, le scoperte scientifiche e tecnologiche, l’industrializzazione e l’ambizione umana.2 Da ultimo, l’insigne medico non si limita a tradurre l’opera di Dioscoride, ma nelle sue chiose riferisce, ragiona, amplia i contenuti e apporta testimonianze di casi che sono riferiti come veri e dei quali non dubitiamo; si tratta di un’opera completa, in cui secondo gli stilemi dell’epoca, l’erudito autore avvalora la sua prosa con numerose citazioni tratte da opere classiche e con la narrazione di aneddoti della storia. Proprio di queste glosse noi proponiamo qui la traduzione. ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 169 Da rilevare che Laguna è l’autore d’innumerevoli illustrazioni come viene riportato nel frontespizio.3 Criteri seguiti per la traduzione In certi casi, la scorrevolezza della traduzione è stata sacrificata per mantenere l’aderenza al testo originale; il Libro VI, coerentemente allo stile dell’intera Materia medicinale tradotta da Laguna, ha una costruzione fortemente paratattica. Ne deriva che in alcuni punti, l’autore non si esprime in modo chiaro e lascia solo intuire al lettore i concetti, pertanto abbiamo cercato di dare una nostra interpretazione ai passi espressi con un linguaggio oscuro e di non immediato intendimento, tenendo conto della complessità del ragionamento, in seno alla globalità della porzione di testo tradotto. Qualora si sia creduto di non tradire il significato originario delle glosse, si è cercato di snellire le numerose ripetizioni presenti, attraverso circonlocuzioni consone allo stile dell’autore. La numerazione dei righi è progressiva e comincia da pagina 572 fino a pagina 581; le citazioni in latino sono state mantenute in lingua. Poiché il presente lavoro non ha la pretesa di voler essere né un trattato di botanica né un trattato di medicina antica, ma uno studio linguistico, per la traduzione in italiano delle piante, ci siamo basati principalmente sui nomi, anche popolari, che compaiono nell’opera di Castore Durante, Herbario Novo, mentre per i termini riferibili a minerali, composti alchemici e altre sostanze di diversa natura che vengono menzionati, abbiamo fatto riferimento soprattutto al “Dizionario di alchimia e di chimica farmaceutica antiquaria” di Marcello Fumagalli. Laddove se n’è ravvisata la necessità, al fine di una traduzione efficace ma fedele, è stato fatto debito rimando alle note chiarificatrici. Ringraziamo il Direttore della Biblioteca Comunale di Fermo, la dott.ssa Maria Chiara Leonori, che ha permesso la ripresa fotografica di alcune pagine del volume della Materia Medicinale di Dioscoride e ne ha concesso la pubblicazione per i fini editoriali dichiarati. 170 MARCO CROMENI Andrés de Laguna: Libro Sesto di Pedacio Dioscoride Anazarbeo; sui veleni mortiferi e sugli animali velenosi. Tradotto dalla lingua greca in volgare castigliano & illustrato con note concise e figure di numerose piante rare dal dottor Andrés de Laguna, medico del sommo pontefice Giulio III.4 (Salamanca 1570) Trad. [Pag. 572] Se gli uomini fossero solidali tra di loro e avessero quel senso di fiducia che vige tra le bestie più feroci e terribili, o se la natura li avesse dotati dell’istinto e dell’esperienza di cui ha dotato gli animali selvatici, che sanno scegliere ciò che è per loro più conveniente e salutare, e rifuggono ciò che è pernicioso — senza dovere ricorrere al medico —, allora Dioscoride non avrebbe avuto motivo di aggiungere questo libro sui veleni mortiferi agli altri primi cinque, tanto meno io non avrei dovuto tradurlo nella nostra lingua spagnola. Ne discende che l’uomo, che è assai inferiore alle bestie, non ha nel corso della sua vita maggior nemico dell’uomo stesso, dal quale riceve grande danno, perché è perseguitato con numerosissime armi diaboliche e centomila tipi di veleni dai quali l’essere umano fatica a difendersi. Dioscoride, eminentissimo autore, volle scrivere nella presente e ultima esposizione, trattandosi di una giustissima causa, il modo in cui guardarsi da tutti i tipi di veleni e le loro virtù curative al contempo; per questa ragione ho voluto tradurre e commentare questa rassegna a beneficio perpetuo dei possedimenti di Spagna. È cosa giusta, a meno che il genere umano non fosse del tutto innocente — allora sì che la nostra fatica non sarebbe ben giustificata — che l’uomo non venisse mai a conoscenza di come danneggiare il suo prossimo, perché in seguito alla pubblicazione di simili arti infernali, coloro che sono inclini al male potrebbero apprendere la preparazione dei veleni con cui muoverebbero subdolamente guerra agli uomini buoni. Ma l’avvelenamento è divenuto un fatto talmente usuale, che oggi non si trova più né schiavo né uomo libero che non conosca o che non abbia tra le mani un’infinità di veleni mortali: oggigiorno è più facile avvelenare gli uomini dei ratti. A mio giudizio5 , quindi, è vantaggioso che tutti gli uomini sappiano come rendere i loro corpi meno sensibili ai veleni; in primo luogo, ci viene indicato come preservare il nostro corpo e come riconoscere esattamente i sintomi causati da qualsiasi veleno, in seconda istanza, ci viene offerto l’antidoto specifico contro gli effetti dei veleni. Dal momento che siamo preparati a difenderci dalle persone malvagie, i cui inganni non possono più esserci celati, coloro che prima utilizzavano simili artifici, forse ora desisteranno da un così infame e iniquo esercizio ed eviteranno di volere essere la causa del nostro male. Si trovano spesso molti medici ignoranti, che convinti di somministrare medicine salutari, danno invece veleni tremendi, perché non sanno discernere ciò che fa bene da ciò ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 171 che arreca danno; ecco, dunque, che questi precetti6 saranno illuminanti per tutti costoro, affinché imparino ad esercitare la medicina, che ignorano, in maniera più cauta e sicura. Plinio è dell’idea che la terra, madre generosa, abbia creato — nonostante provi per noi uomini compassione e pena — molti veleni mortali, per cui si deve sapere — affinché non abbiamo mai a trovarci a dover morire lentamente consumati dalla fame o mandati alla forca in modo disonorevole o ridotti a mazzate in centomila brandelli —, che con un sorsetto è possibile morire senza sofferenze. Dopo morti, nemmeno le belve ci divorerebbero, in quanto per loro natura esse rifuggono dai corpi avvelenati: le nostre membra rimarrebbero così intatte, inviolate, destinate alla Terra che per sé medesima le aveva create. Anticamente, tanto principi e gran signori quanto plebei e popolani avevano l’abitudine di portare sempre con sé vari tipi di veleni, che usavano per togliersi la vita in caso di necessità e grazie ai quali sfuggivano ad un’altra morte ben più dura e meschina. Svetonio riferisce che nella casa di Caligola, dopo la sua morte, fu trovata una quantità di veleno tale da inquinare il mare, che Claudio, suo successore, ivi gettò. In quei tempi, le disuguaglianze dettate dal cambiamento del proprio stato sociale erano tali che molti nobili signori, innocenti caduti in disgrazia, venivano condotti in gabbia nelle piazze con al seguito cani e gatti. A questi uomini venivano tagliati, con grande vilipendio, orecchie e nasi. Per questo motivo, costoro ritenevano più conveniente darsi la morte con le proprie mani, piuttosto che subire un simile scempio e oltraggio. Il greco Demostene, padre dell’eloquenza, essendo stato condannato ad una morte indegna e assai dolorosa, pregò i suoi carcerieri di lasciargli scrivere un messaggio al re Antipatro, colui che aveva ordinato che gli fosse tolta la vita, in cui gli chiedeva il permesso per recarsi in un certo suo scrittoio, dove, una volta entrato, ingerì il veleno che portava sempre con sé in un astuccio nascosto dietro all’orecchio. Demostene, grazie a questo espediente, terminò i suoi giorni liberandosi dai disonorevoli tormenti che gli sarebbero stati inflitti. Anche Democrito si servì del veleno durante le sue ultime sofferenze: infatti, egli si tolse la vita con un [Pag. 5737 ] veleno molto potente che portava sempre con sé dentro ad un anello, giacché temeva lo sdegno e la crudeltà di Antipatro. Annibale, valorosissimo condottiero, dopo aver mosso una spietata guerra contro i romani, in ultimo, dopo che fu vinto, si uccise con un particolare veleno che teneva racchiuso in uno scrigno. La religione e la pietà cristiana non ci lasciano imitare tali penosi esempi, come neppure la grande moderazione e la clemenza dei principi cristiani, che sono più propensi a perdonare le colpe che a punirle. Il veleno in greco si chiama Pharmaco. Il termine pharmaco è d’uso sia nelle medicine sante e salutifere sia in quelle maligne e perniciose. In medicina non esiste un veleno così nocivo che non trovi una qualche applicazione. Per descrivere tutte le sostanze venefiche e le loro differenze, mi sembra 172 MARCO CROMENI opportuno dire che il veleno è una sostanza medicinale che, però, è così nemica dell’uomo, che nella maggior parte dei casi, ne compromette la salute e lo uccide per via della sua tossicità. Appare chiaro che il veleno e il sostentamento sono due condizioni opposte e diverse. A ben vedere, quest’ultimo si trasforma nella sostanza delle nostre membra, mentre il veleno altera tale sostanza e la trasforma nelle sue qualità rovinose: la deve necessariamente corrompere poiché la sua natura è proprio questa. Comunemente, i veleni si trovano negli animali, nelle piante e nei minerali. Sono ritenuti velenosi quegli animali la cui natura ripugna all’uomo. Di questi, se mangiati, alcuni sono mortali — come quelli che Dioscoride citò nella lista alla fine dell’introduzione — altri, invece, solo se feriscono provocano la morte, poiché infettano il sangue con il loro veleno. Il veleno di questi animali può essere ingerito senza pericolo, come il veleno della vipera. Questo, che è bianco come il latte e dolce come il miele, mi fu fatto assaggiare a Roma, tempo addietro, dal dottor Gilberto, medico eccellente. Tra gli animali la cui puntura o morso provoca la morte, si è soliti annoverare: vipere, scorpioni, aspidi, anfesibene8 , drinos9 , cencri10 , cerasti e altri, di cui riferirò quando verranno trattati. Le piante velenose sono quelle che dopo essere state mangiate, non si trasformano in benefico sostentamento utile per nutrire le membra, ma corrompono e alterano l’equilibrio nelle vene come l’elleboro, l’aconito, il napello, il ranuncolo, la cicuta, il giusquiamo e altre di questo tipo. Alcuni minerali sono velenosi non solo se mangiati o bevuti, ma anche se applicati esternamente; quando sono disciolti con qualche liquido divengono corrosivi. Essi consumano completamente la composizione della materia con cui vengono a contatto. Di questo genere sono: il solimato11 , l’orpimento12 e la sandaraca13 . Si deve sapere che tra i vari tipi di veleni, ve ne sono alcuni che agiscono per mezzo delle loro eccessive qualità elementari, come ad esempio i veleni contenuti nel ranuncolo e nel succo di lattuga, mentre ve ne sono altri che agiscono grazie a certe proprietà occulte che gli vengono dall’influsso delle stelle, come la pietra della calamita e il diamante. In ultimo, esistono veleni dell’uno e dell’altro tipo, come quelli contenuti nel napello e nell’orpimento. I veleni che colpiscono con le loro qualità elementari agiscono in maniera assai differente, a seconda che siano caldi, freddi, umidi o secchi al loro massimo grado. Questi veleni, grazie ad altri che in modo specifico ne diminuiscono l’efficacia con le loro qualità contrarie, sono più facili da mitigare e correggere rispetto a quelli che arrecano danno con la loro essenza specifica, che è tipica di molti generi di sostanze. La teriaca14 , che è caldissima, è un antidoto efficace contro molti tipi di veleni e per questa ragione, si rende necessaria a tutti coloro che hanno ingerito orpimento o euforbio15 , veleni caldi nel loro grado massimo. Tale rimedio non dovrebbe funzionare contro simili sostanze — i loro effetti devono essere vanificati con un antidoto dalle virtù ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 173 opposte — se non fosse che le sue eccellenti proprietà, combattono gli effetti nocivi e letali di tutte quelle sostanze che con qualità nascoste, arrecano danno al corpo umano. È necessario sapere che alcuni veleni sono mortali o a seconda della quantità assunta o a seconda del tipo di sostanza. I veleni che agiscono sulla base delle loro qualità elementari sono mortali se presi in gran quantità, mentre il loro danno è impercettibile se sono presi in piccole dosi. Tutte quelle essenze che definiamo velenose a causa delle loro proprietà nascoste, anche se assunte in minima quantità, abbattono irrimediabilmente l’uomo se non gli viene prestato soccorso immediato. I veleni insidiano il corpo umano attraverso i cinque sensi, come se lo assalissero attraverso cinque porte. Se facciamo bene attenzione, noteremo che il basilisco inocula il suo veleno nei corpi non solo con il morso, ma anche per mezzo del suo sguardo penetrante, che ammalia; il suo veleno, tramite la vista, come uno strale di Amore, giunge fin dentro le viscere. C’è da dire che perché il basilisco possa conficcare il suo sguardo nel nostro, noi dobbiamo simultaneamente guardarlo in modo che i raggi visuali s’incontrino. Il suo nocumento, più subdolo e impercettibile di tutti gli altri, può essere, a ragione, comparato con il dolce e fervido veleno di cui ogni giorno si abbeverano gli innamorati, specialmente quelli che soffrono pene d’amore cagionate da alcune austere dame, così superbe e sdegnose, che quando si accorgono di essere guardate si sentono offese: d’altro canto, queste, infiammano con il solo sguardo. Con il realgar16 e altri terribili veleni, i turchi producevano un inchiostro così tossico per la salute umana, che quando si leggeva [Pag. 574] una lettera senza la protezione degli occhiali la salute del lettore poteva esserne inficiata. Per questa ragione, non dobbiamo meravigliarci se i libri freschi di stampa sono causa di capogiri e d’indebolimento della vista, poiché gli occhi non si limitano solo a emanare i raggi visuali verso l’esterno, ma proprio tramite loro, le sostanze venefiche risalgono fino al cervello. Il sibilo prodotto dal basilisco, similmente a quello di alcuni serpenti egiziani, può avvelenare o addirittura uccidere; ritengo che quell’ansito mortale penetri attraverso il canale auditivo sino ai ventricoli del cervello, scrigno in cui l’animo umano ha sede. Si sa per esperienza che il veleno può penetrare nel corpo anche per mezzo dell’olfatto, attraverso le narici, per poi diffondersi in tutto l’organismo. Fu esempio di quanto detto, a Siena, non molti anni fa, un buffone — uno di quei saltimbanchi che fanno prove con la Triaca —, che dimostrò in modo patente tutto ciò che ne sarebbe derivato: non appena gli fu fatto annusare da uno sfidante, dinanzi a tutta la gente che lì si trovava, un certo garofano silvestre — che era stato infettato con qualche essenza mortale — il povero sventurato cadde a terra stecchito come se fosse un tronco. Quanto detto non deve sembrarci strano poiché, analogamente, le febbri pestilenziali si generano da effluvi venefici e contaminanti, che attraverso 174 MARCO CROMENI la bocca e il naso giungono al cuore infettandolo. Il sapore sgradevole e intenso dei veleni s’imprime nel gusto più che negli altri sensi, perché la lingua, organo spugnoso attraverso cui sentiamo i sapori, non è costituita solo da nervi, ma anche da molte vene e arterie, canali per mezzo dei quali, alla stregua di vettori, il veleno giunge al cervello, al fegato e al cuore. Il senso del gusto deve essere attribuito al tatto, in quanto è per mezzo delle fibre nervose del corpo che si provano il piacere e il dolore. Ci sono dei veleni così potenti, che uccidono venendo semplicemente a contatto con la pelle. Di questa sorte era un’erba proveniente dal Levante, che mi fu mostrata in un giardino di Padova; non mi è chiaro come questa pianta abbia risparmiato il giardiniere che lì l’aveva piantata, a meno che questi non avesse indossato dei guanti. Esistono altri veleni ben più crudeli di questa pianta, che senza venire a contatto col nostro corpo lo piagano in molti altri modi. Così doveva essere il veleno di quel terribile serpente, che secondo quanto scrive Avicenna (fen. VI del libro IIII), poiché l’animale era stato colpito dalla lancia di un soldato, riuscì attraverso l’asta a iniettare nella mano dell’uomo il suo terribile veleno, che in breve si trasferì alle altre membra. Parimenti la torpedine, attraverso il filo della canna da pesca, trasmette la scossa al braccio del pescatore. La schiuma che fuoriesce dalla bocca di un cane rabbioso è talmente contagiosa, che quando viene a contatto con il corpo di un uomo gli trasmette la rabbia, come se questi fosse stato morso dal cane medesimo. L’aspide, dettoptyas, facendo le debite proporzioni, quando spruzza la sua terribile saliva sul viso di colui che vuole offendere, lo avvelena immediatamente. È però altrettanto vero che per questo serpente come anche per tutti gli altri, la saliva umana rappresenta un veleno mortale. Ci sono molti veleni che non provocano nessun danno quando vengono a contatto con il corpo allo stato puro, ma se sono disciolti in acqua od olio, oppure quando sono sotto forma di polvere, a contatto con la pelle, piaghe o ferite fresche, provocano subito dei danni gravissimi. Hanno questa caratteristica quasi tutti i minerali e alcune erbe, come l’elleboro, che infetta e altera immediatamente il sangue di cervo e di ogni altro animale che con questa pianta si ferisca. Per questo motivo, non ritengo salutare che si mangi carne di animale morto per avvelenamento da erbe, nonostante si dica che il veleno si estingua assieme all’animale. Si sa per certo che la carne che circonda la ferita, una volta mangiata, provoca espurgazioni violente dall’alto e dal basso ventre. In Italia, terra di grandi duelli, i padri e i fratelli di coloro che tornano sconfitti dalle armi, per togliersi d’innanzi quei figli che rappresentano il disprezzo e l’onta della loro stirpe, costumano avvelenare le bende e i panni che danno ai loro congiunti per fasciarsi le ferite. Stessa sorte trovano molti di quelli che si arrendono in battaglia o che tornano lacerati dagli avamposti, poiché sono avvelenati dalle loro stesse lesioni: se questi sventurati sono ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 175 riusciti a sfuggire ai loro sanguinari nemici in battaglia, in questa maniera, invece, muoiono in casa propria, perché parenti ed amici li uccidono infidamente. Il rispetto per la vita umana, in questo mondo, vale tanto quanto la scelleratezza e la superbia. Secondo quanto riferisce Svetonio, l’inventore di questa grande empietà fu Tigre Caligula, il quale infettò le ferite di Columbus, che, sebbene fosse uscito vincitore dalla battaglia, era stato leggermente ferito; il veleno, in seguito a questo episodio, fu chiamato Columbino17 . I medici e i filosofi antichi erano concordi nel ritenere che fosse possibile assuefare una persona al veleno, con dosi di volta in volta maggiori, fino a farlo divenire per il corpo umano un alimento abituale e opportuno. Ciò è possibile con i veleni che agiscono in virtù delle quattro qualità elementari, ossia che sono contenuti nel giusquiamo, nella mandragola, nel papavero e nella cicuta, quest’ultima (secondo quanto riferisce Galeno), sostentamento di una certa vecchierella ateniese. Per quanto riguarda gli altri veleni, quelli che offendono l’organismo con le loro caratteristiche nascoste, non mi sembra il caso di dire nulla, dato che tali sostanze non si trasformano in nutrimento per l’organismo. Non ritengo credibile ciò che scrissero alcuni medici arabi in merito a una certa fanciulla, raffinata e bella, [Pag. 575] che sin da piccola era stata alimentata con il napello, per poter avvelenare segretamente i re e i principi che con lei si fossero dilettati. Il napello non può trasformarsi in nutrimento utile per il corpo umano, ma qualora lo divenisse, perderebbe la sua caratteristica di veleno, anche se si potrebbe affermare con certezza che l’alito di coloro che sono stati avvelenati con quest’erba è estremamente tossico. I veleni non sono dannosi per tutti allo stesso modo né i loro effetti sono eguali nel tempo: ciò dipende dalla costituzione e specificità di ciascuno. Alcune persone, infatti, hanno minore resistenza ai veleni di altre e la pastinaca18 ne è un esempio: con una stessa dose di veleno, c’è chi muore prima in preda a grandi sofferenze. Che la morte sia repentina o tardiva, non dipende solo dalla potenza del veleno, ma anche dalla resistenza del fisico di chi lo inghiotte, per questa ragione ritengo che non sia possibile che fattucchieri o guaritori siano in grado di preparare un veleno che uccida in breve tempo (come invece qualcuno pensa a torto), a meno che non si siano accertati previamente della robustezza e del vigore della persona che vogliono sopprimere, calibrando di conseguenza la potenza del beveraggio. La preparazione della bevanda richiede grande competenza e una notevole capacità di discernimento, caratteristiche che sono estranee a tutti quelli che vivono praticando simili arti, ma che appartengono, invece, a coloro che Dio ha dotato di sapienza fine e compiuta, nati non per distruggere, bensì per conservare e accrescere il genere umano. Non credo che ci sia differenza tra i veleni che uccidono in un determinato lasso di tempo e quelli che uccidono per eccesso delle loro qualità elementari, poiché di questi ultimi non è possi- 176 MARCO CROMENI bile frenare l’effetto, in quanto, benché assunti in quantità minime, portano alla morte molto rapidamente; questi, infatti, sono da considerarsi i veleni peggiori, perché non danno al medico il tempo di soccorrere il paziente. I veleni caldi e caustici sono mortali perchè bruciano e corrodono gli organi interni in cui scorrono, i veleni freddi perché gelano il sangue, spengono il calore naturale e intorpidiscono19 gli apparati dei sensi, i veleni umidi (sempre che ne esista qualcuno che provochi la morte con la sua eccessiva umidità), perché a seconda delle loro caratteristiche, sfiniscono e rovinano le membra, i veleni secchi, in ultimo, perché asciugano la fibra cardiaca e ne consumano i soffi vitali. Dato che certuni veleni possiedono questa caratteristica: se ingeriti, possono arrecare danno ad uno specifico organo (come d’altronde accade anche in medicina, dove alcuni rimedi non sono salutari per un membro ma lo sono per un altro), rimane come cosa necessaria che direttamente o indirettamente, in pratica o potenzialmente, essi penetrino e arrivino al cuore, prima di togliere la vita; perché questo avvenga occorrono sia la loro sottigliezza sia l’ampiezza dei vasi e dei pori attraverso i quali si diffondono in tutto il corpo. Perciò i veleni che uccidono più rapidamente, sono quelli più sottili e che trovano più aperto e libero il cammino. È risaputo che hanno maggiore resistenza ai veleni le persone che non solo sono di costituzione robusta, ma che hanno anche le arterie e le vene strette, sicché il veleno giunge al cuore più lentamente. La cicuta, che per l’uomo è un veleno, è invece di grande sostentamento per gli storni; si deve sapere che nello stomaco umano, che è molto capiente, la cicuta rimane assai poco, mentre resta molto più a lungo nel ventre degli uccelli — che possiedono vene e arterie più strette —, dove ha tutto il tempo di essere digerita e trasformata in alimento. Questa è anche la ragione per cui il veleno, quando raggiunge gli stomaci satolli, rispetto a quelli vuoti e digiuni, non arreca molto danno. Dopo aver parlato delle differenze generali tra i veleni, grazie alle quali si riescono a capire un’infinità di particolari, è il caso di dire qualcosa sulle precauzioni che i principi, i ricchi e i potenti devono adottare per difendersi da simili sostanze, dato che i poveri e le persone di bassa estrazione sociale, solo raramente sono vittime di simili tradimenti. I primi, innanzitutto, devono raccomandarsi sempre a Dio cercando di vivere nella sua grazia, poi, se il Signore è loro favorevole, possono dormire (come si suol dire) un sonno sicuro, diversamente: Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodiunt eam20 . Costoro vivranno in pace con Dio se avranno la coscienza pulita e condurranno una vita esemplare da veri cristiani. I sudditi, si sappia, non devono essere vessati con i tributi, ma devono essere trattati con mitezza, come se fossero figli o fratelli e devono, inoltre, essere amministrati con grande giustizia; così facendo, i potenti si faranno amare e temere da tutti e non daranno mai adito a nessuno di agire contro di loro, né nell’ombra né alla luce del sole. Siccome di sovente la ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 177 successione è causa di abominevoli parricidi, i padri non devono mai aspettare l’ora estrema per mettere nelle mani dei figli i loro possedimenti, ma, appena questi siano cresciuti e virtuosi, glieli debbono affidare. I primogeniti non devono far patire la fame ai loro fratelli minori, ma aiutarli a vivere tenendo presente che nonostante le leggi umane abbiano determinato disparità di trattamento tra i figli — tutte le sostanze vengono cedute al primo lasciando nudi i secondi —, la natura li ha fatti tutti eguali. Oltre quello che si è detto, i potenti si devono servire di ministri onesti, leali, nobili d’animo, affatto avari o avidi, i quali dovranno essere trattati come si conviene; per costoro dovranno essere spese parole cortesi e lusinghiere, dovranno essere rimunerati per i loro servizi con compensi e buone opere, così che non vengano mai meno [Pag. 576] ai loro incarichi o che per povertà o necessità commettano azioni vili o meschine. Spesso, a causa dell’insaziabile ingordigia dei signori, i servi compiono azioni che non dovrebbero, al contrario, la liberalità e la franchezza dei primi è di sprone ai secondi, affinché questi si impegnino ad amare i loro padroni, ad essere leali e solleciti e a voler migliorare sé stessi, cercando di superare i propri compagni. È molto importante avere un buon cuoco, di vecchia data, sperimentato e fidato, avveduto, sollecito, cauto e di sani principi, in quanto la vita del signore dipende dalla sua bontà e diligenza. Non basta che questi possegga tutte le virtù dette, ma deve anche essere pulito e attento nel suo mestiere: tutti i suoi recipienti e strumenti di cucina devono essere puliti e rilucenti. Il soffitto sotto cui fa da mangiare deve essere privo di fuliggine e ragnatele, poiché la mancanza di cura in cucina arreca grandi inconvenienti; a Firenze, alcuni anni addietro, un ragno velenoso che aveva infettato tutto il contenuto della pentola in cui era caduto, sotterrò in meno di un giorno e mezzo un intero convento di frati. Parimenti, il coppiere, che ha la vita del suo signore tra le mani, deve essere sagace, prudente, amico fedele, timorato di Dio e geloso del proprio onore, perché il mezzo più facile e il mezzano più banale per introdurre veleni, è l’acqua e il vino. Un esempio, non molti giorni fa, fu lo sventurato re Edoardo d’Inghilterra, che, secondo quanto si dice ovunque, fu avvelenato con del vino. Grande testimonianza della cattiveria umana, che con sfrontatezza ed empietà ordisce i suoi inganni e mette in opera il suo odio servendosi di ciò che fu istituito per la salute e la redenzione della stirpe umana, fu la morte dell’imperatore Enrico di Lussemburgo, il quale, su ordine del re di Sicilia, fu ucciso con un veleno che era contenuto nel sacramento dell’Eucarestia e nel vino, prezioso Sangue di Gesù Cristo. Alessandro Magno, nel fiore della giovinezza, quando la sua fama era al culmine della gloria, fu avvelenato con il veleno dell’acqua Stygia, che gli era stata inviata in un unghia di mula dal suo successore Antipatro, con la complicità di Aristotele. Alcuni attribuirono un simile gesto non ad Aristotele il filosofo, ma a Filippo, medico dello stesso Alessandro, 178 MARCO CROMENI della cui integrità morale lo sfortunato re aveva completa fiducia e stima. Siccome Alessandro era stato colpito da una malattia, Parmenione gli scrisse di guardarsi dal tradimento di Filippo, il quale, corrottosi per denaro, voleva ucciderlo; ricevuto il messaggio, Alessandro non si alterò minimamente e quando gli si presentò il medico per somministrargli una purga, il re, con animo sereno e degno di un Alessandro Magno, afferrò il bicchiere con la mano destra e, ridendo, cominciò a berne, mentre con la sinistra dava da leggere a Filippo la lettera di Parmenione. Da siffatta costanza mi convinco che, anche se un terribile veleno fosse stato allora somministrato ad Alessandro, non avrebbe potuto offenderlo, giacché la sua virtù e la sua fortezza erano assai grandi. Per questo motivo, i principi devono sempre sapere in quali mani mettono la salute e la vita e, inoltre, devono scegliere i propri medici tra quelli ritenuti non solo dotti e con esperienza, ma anche uomini buoni e con la coscienza immacolata. I medici devono essere favoriti dai principi, che provvederanno a ricompensarli puntualmente; il signore dovrà avere più a cuore il servizio del proprio medico, che quello di tutti gli altri servi messi insieme, dato che costui, in un solo momento, meriterà tutto ciò che i familiari non meriteranno nemmeno in cent’anni. In ultimo, se coloro che preparano i cibi e le bevande volessero tradire qualche principe, per evitarlo, non basterebbero gli assaggi delle pietanze che generalmente si fanno, con grandi cerimonie, alle mense di quasi tutti i signori della nostra Europa, perché quelli che svolgono tale funzione, sono talmente pieni e satolli, che anche se ingurgitassero qualche veleno, non ne riceverebbero nessun danno. Tanto più che gli assaggiatori, al massimo, toccano i bordi dei piatti solo con un pezzettino di pane, che sputano subito dopo averlo messo in bocca. Lo stesso avviene con il vino o l’acqua, di cui prendono un sorsetto, che non basta nemmeno per sciacquarsi i denti. Simile cautela serve più per fare cerimonia e pompa, che come precauzione necessaria alla salvaguardia della vita. Gli augusti Cesari, avendolo bene inteso, come prima cosa, cercavano di circondarsi di ministri incorruttibili, poi, per vivere più sicuri, si preparavano e si proteggevano con speciali antidoti efficaci contro ogni tipo di veleno; leggiamo che Marco Aurelio Antonino usava quotidianamente, sia per abitudine sia perché lo riteneva un buon alimento, la teriaca, grazie alla quale riuscì a governare l’impero per molti anni, prevalendo sui suoi nemici e rivali. Egli (secondo quanto si dice) fu il primo che diede considerazione e credibilità a questo rimedio, alla stregua dell’Antidoto Mitridato21 , reso celebre da Mitridate re del Ponto, il quale, trovandosi in una situazione estrema, poiché Pompeo lo aveva già sopraffatto, bevve volontariamente un veleno mortale. Il re, affinché le proprie figlie non cadessero in mano ai romani, fece bere lo stesso veleno anche a loro, che morirono subito; a Mitridate, invece, il veleno non fece effetto, poiché le sue viscere, ormai assuefatte all’antidoto, erano preparate contro qualsiasi sostanza velenosa. Fu così che il sovrano ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 179 dovette pregare Pysto, suo familiare, di decapitarlo, morendo così con il ferro laddove il veleno non fu efficace. Svetonio, inoltre, riferisce che Nerone aveva cercato molte volte di uccidere sua madre con il veleno, ma, poiché l’aveva sempre trovata preservata con dei contravveleni, non riuscì nel suo intento. La Triaca e il Mitridato, non sono comparabili con nessun altro preparato, se preparati [Pag. 577] scrupolosamente, cosa che ritengo molto difficile, poiché non si conoscono alcuni degli ingredienti fondamentali con cui erano confezionati. Dioscoride elogia anche l’antidoto del sangue22 e quello fatto dallo scinco: entrambi sono utili contro qualsiasi tipo di veleno. Le loro composizioni, l’una dopo l’altra, ci vengono descritte da Galeno nel Secondo Libro degli antidoti, dal quale potrà attingerle chiunque ne abbia bisogno. Per difenderci dai veleni, dobbiamo bere a digiuno con del vino, una dramma23 di ciascuno dei rimedi descritti, mentre se vogliamo soccorrere una persona in stato di avvelenamento, dobbiamo somministrargliene due o tre dramme due o tre volte al giorno, giacché per difendere la porta di casa dal nemico, è sufficiente un uomo sagace e forte, ma per stanarlo o ucciderlo, una volta che questi è entrato, sono necessari tre o quattro24 uomini. È cosa comprovata che legando strettamente al braccio sinistro — tra il gomito e la spalla, a contatto con la carne — un diamante orientale o uno smeraldo o un giacinto, è possibile contrastare il potere del veleno e curare chi ne è stato infettato. Maestre Juan Portugues, medico straordinario (che quando morì aveva più di 90 anni), mi disse a Roma in gran segreto che quando ricopriva il suo incarico nell’ospedale di San Juan de Letrán25 , luogo in cui molto tempo fa aveva infuriato una terribile pestilenza, si era legato al braccio sinistro — al limite della carne — un pezzo di sublimato dalle dimensioni di una noce. Grazie a questo rimedio, si era preservato non solo dalla peste, ma anche da molti altri pericoli, per questa ragione esaltò quel minerale come l’unico rimedio valido, sia contro gli effluvi pestilenziali sia contro ogni tipo di veleno. Sebbene possa sembrare una sciocchezza, quel veleno mortale ha il potere di attrarre i vapori venefici che fanno ammalare il cuore; ciò è dovuto alla somiglianza tra i veleni, così come è vero che la pietra della calamita attrae il ferro. Chi non fosse persuaso da questa spiegazione, ne cerchi un’altra, poiché io stesso ho avuto modo di comprovare con l’esperienza la testimonianza di quell’uomo illustre. Tra tutte le medicine utili per preservarsi dalla peste e dai veleni, il corno dell’unicorno26 , del quale i greci non fecero degna menzione, occupa il posto d’onore, mentre al secondo posto, c’è l’osso27 che ha sede nel cuore del cervo. Cinque grani di rasio28 di cervo, presi con del vino, o dieci grani di polvere d’osso corroborano il cuore e lo proteggono un giorno intero da qualsiasi tipo di veleno, così come si è notato in alcuni uomini condannati a morire. Bisogna stare in guardia, perchè ci sono molti truffatori che spacciano una specie di ambra grigia29 , facilmente polverizzabile, come corno, che allo stato naturale è, 180 MARCO CROMENI invece, biancastro ed estremamente duro. Per sperimentarne la perfezione e l’eccellenza, somministreremo con del vino tre grani di corno ad un gallo, prima di avvelenarlo con del sublimato o con qualche altro tipo di veleno mortale; la sostanza tossica non avrà alcun potere sull’animale, poiché l’unicorno è l’antidoto perfetto. Lo stesso veleno, dato ad un altro gallo non trattato, agirà senza tardare portandolo alla morte. Una vipera o un ragno velenoso, all’interno di un cerchio tracciato con la polvere d’unicorno, non osa spingersi sulla circonferenza del circolo, ma resta immobile, come stordito, poiché la polvere è molto efficace. La polvere d’unicorno messa in acqua precipita velocemente e crea sul fondo delle vescicole simili alle perle orientali più veraci. Anche molte altre sostanze assumono questa forma. Qualsiasi medico di esperienza riconoscerà facilmente i sintomi di un avvelenamento, che sono specifici di ciascun veleno in virtù delle terribili conseguenze che ne derivano. Le persone vittime di un’intossicazione sono continuamente colte da svenimenti e da dolori al cuore, il viso diventa livido, la lingua e le labbra nerastre, le estremità fredde, le unghie color del piombo, il corpo cosparso di sudori freddi, l’alito fetido, sono irrequiete e, in ultimo, scuotono spasmodicamente le braccia e le gambe. Queste manifestazioni sono l’indizio dell’ingestione di qualche veleno devastante, poiché nel paziente non si riscontrano né i segni di qualche malattia previa né di un disordine alimentare, che possano avere compromesso la salute. A volte, infatti, la cattiva alimentazione provoca sintomi analoghi a quelli causati dai veleni mortali. La presenza del veleno può anche essere rivelata da alcuni segni: il corno dell’unicorno, che chiamano lingua di serpente (secondo quanto scrive il Conciliatore), trasuda copiosamente quando è messo accanto al napello, alla vipera e alla bile di leopardo. Allo stesso modo, il prasio30 , chiamato volgarmente plasma, perde la sua brillantezza se è messo accanto ad un veleno. Anche lo zaffiro si scurisce, quando è appoggiato sul capezzolo sinistro di una persona che ha ingerito veleno mortale. In ultimo, se si incide un anello con la sagoma del Serpentario con le sue stelle nel giacinto31 , e lo si mette a contatto con la carne, questo non permetterà che veleno o animale velenoso attacchi l’uomo. Una volta che si comprova un avvelenamento, grazie agli indizi generali descritti, pur non sapendo di quale veleno si tratti, è necessario evacuare con ogni mezzo la sostanza tossica dal corpo: si provocherà il vomito con dell’olio tiepido, se si pensa che il veleno si trovi ancora nello stomaco, se invece, si reputa che la sostanza sia già scesa agli intestini, allora si dovranno fare al paziente degli enteroclismi efficaci e lenitivi al contempo. Se questi rimedi non funzionassero o se l’ammalato non potesse vomitare, allora si dovranno somministrare dei lassativi a base di agarico, rabarbaro e aloe, piante che hanno la facoltà di smaltire i sintomi provocati dai veleni. [Pag. 578] Qualora il veleno fosse forte e caustico, è possibile somministrare per bocca o tramite clisma, ottenendo i medesimi risultati, la manna e la cassia; ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 181 dopo le evacuazioni, è consigliabile bere latte di capra fresco in abbondanza, sebbene il latte materno, non reperibile in grandi quantità, abbia maggiore efficacia perché più familiare all’uomo. Tutti gli alimenti grassi e oleosi frenano gli effetti nocivi dei veleni: il burro fresco, il midollo di vacca, il cervello di coniglio, l’olio di mandorle dolci e, specialmente, i brodi fatti con carni grasse, ruta, origano, calaminta, timo, ruchetta selvatica, borragine, buglossa, pimpinella, melissa e altre erbe dalle virtù analoghe. È necessario che la persona avvelenata, sia sistemata in una stanza luminosa e allegra, né troppo calda né troppo fredda, profumata con essenze gradevoli e corroboranti come la mirra, il benzoino, lo storace, i legni di sandalo, la cannella, il legno di aquilegia e altri aromi simili. Il paziente dovrà dormire il meno possibile, perché così come la veglia porta il veleno in superficie, parimenti il sonno lo fa refluire all’interno delle membra, verso le concavità del cuore. Affinché il veleno segua un altro percorso e non giunga al cuore, oltre alle buone pratiche descritte, sono molto utili, se non addirittura necessarie, le frizioni e le fasciature strette alle braccia e alle gambe; le coppette applicate alle cosce, alle natiche, ai lombi e alle spalle risucchiano il veleno che avesse già raggiunto al cuore. Allo stesso fine, sono salutari dei bagni d’acqua dolce e calda, in cui siano state bollite erbe dalle proprietà drenanti quali la camomilla, il meliloto, la lavanda selvatica, lo spigo, il rosmarino, l’issopo e la maggiorana. I grandi Signori, quando credono di essere stati avvelenati, fanno sventrare subito un grosso mulo e, dopo avere vomitato, si fanno infilare nell’addome dell’animale, dove, grazie al forte calore, eliminano per mezzo del sudore il veleno ingerito. A Roma, risulta che il figlio del papa Alessandro, il duca Valentino, che aveva deciso di spedire all’altro mondo due o tre cardinali, si sia salvato proprio grazie a questa pratica; per mettere in opera il suo piano, aveva ordinato che ai cardinali venisse servita una certa bottiglia, ma, a causa della negligenza del dispensiere o, forse, per intervento della giustizia divina, questa venne a confondersi con degli altri fiaschi, cosicché il duca rimase avvelenato con le proprie mani, oltre a dare una morte violenta al proprio padre. L’avvenimento fu ritenuto terribilmente ignominioso per la nazione Spagnola, fu biasimato da tutti i Cardinali e specialmente da quelli che erano stati destinati a una simile morte. Da allora, nacque una lodevole abitudine che a tutt’oggi è in auge: quando qualche cardinale si reca a mangiare da Sua Santità, ha sempre cura di portare con sé il proprio bottigliere, il proprio vino e il proprio coppiere, dal quale, per cautela, si fa servire. Nonostante tutti questi accorgimenti, i potenti non vivono né senza pericolo né liberi dal sospetto, tanto è l’odio e il rancore che regna tra di loro, non solo tra i principi, ma anche tra gli ecclesiastici, che dovrebbero essere per noi esempio di autentica pace e armonia. Per soccorrere e curare chi è stato avvelenato (come abbiamo detto sopra), si ricorre a tutte quelle pratiche, da sole o 182 MARCO CROMENI congiunte, che si usano per preservare i corpi sani dai veleni, ma in dosi maggiori. Oltre a quelle che ci ha indicato Dioscoride, sono efficaci, per entrambi gli scopi, la valeriana, la verbena, la melissa, l’iride, la genziana, la galanga, la cannella, le bacche di lauro32 , la buccia di limone, il caglio di lepre33 , la radice di polemonia34 , lo scordio, il dittamo, il succo della radice di cinquefoglio, la filipendula, il cardo santo, il carpobalsamo35 , il corno dell’unicorno, l’osso del cuore di cervo, i noccioli di nespola, il bolo armenico orientale36 , la terra sigillata37 , i testicoli d’orso, la vera mummia38 , il corallo, il giacinto, la melagrana, la pietra di ematite, lo smeraldo, il rubino, le perle, il muschio e l’ambra odorosa. Dioscoride, inoltre, annovera tra le medicine utili per curare gli avvelenamenti l’oleandro, sebbene generalmente sia ritenuto velenoso. I composti medicinali approvati dagli antichi e confermati, per mezzo di varie prove, dai moderni sono: la Teriaca di Andromaco, l’antidoto Mitridato e tutti quei rimedi che si preparano con lo scinco, con il sangue e con la terra lemnia39 . Gli arabi inventarono molti altri rimedi, altrettanto efficaci come quelli descritti, da somministrare dopo che il veleno è stato evacuato dal corpo, come ricostituenti del cuore debilitato. Tra questi figurano degli elettuari40 : il Diamargaritone41 freddo e caldo, il Gemmis42 , il Triasandali43 , il Diamusco44 , il Diacameron45 e quello di Alchermes46 . Andrea Mattioli di Siena, esperto conoscitore della materia medicinale e specialmente dei veleni, descrive due rimedi portentosi contro qualsiasi tipo di tossico. Avendone costatato personalmente la grande efficacia, ritengo utile riportare in queste annotazioni le preparazioni dell’elettuario e dell’unguento in questione, affinché siano note a tutti. La procedura per preparare l’elettuario è la seguente: si prendano rispettivamente tre dramme di rabarbaro, rapontico, radice di valeriana, acoro, cipero, cinquefoglio, tormentilla, aristoloquia elegante, peonia, enula campana, costo, agarico, iride e carlina; rispettivamente due dramme di galanga, imperatoria, dittamo bianco, angelica, millefoglio, filipendula, doronico, zedoaria, zenzero; rispettivamente due dramme di semi di limone, agnocasto, ginepro, cocciniglia, frassino, acetosa, pastinaca selvatica, napi, nigella, peonia, basilico, irione, tlaspi, finocchio, ammi; [Pag. 579] rispettivamente una dramma e mezza di lauro, edera, smilace aspera, cubebe; rispettivamente un’altra dramma e mezza di foglie di scordio, camedrio, aiuga, centaurea minore, lavanda selvatica, calaminta, ruta, mentuccia, bettonica, verbena, scabiosa, cardo santo, melissa; tre dramme di dittamo di Candia; rispettivamente due dramme di maggiorana47 , iperico, giunco odorato, marrubio, galega, sabina, pimpinella; rispettivamente tre once di fichi secchi, noci comuni, pistacchio. Quattro dramme di mirabolano emblica48 ; rispettivamente quattro scrupoli di fiori dalle virtù tonificanti come rose, lavandula, salvia, rosmarino; tre dramme di zafferano; dieci dramme di cannella; rispettivamente due dramme e mezzo ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 183 di chiodi di garofano frutti, noce moscata, macis49 ; rispettivamente una dramma e mezzo di pepe nero, pepe lungo, tutti i tipi di sandalo50 , vero legno di aloe51 ; mezz’oncia di corno di cervo crudo; una dramma di corno di unicorno; rispettivamente quattro scrupoli di osso di cuore di cervo, limatura di avorio, nerbo di cervo, castoreo; tre dramme di terra sigillata; una dramma e mezzo di oppio; rispettivamente una dramma e mezza di perle di fiume, frammenti di smeraldo, giacinto, corallo rosso; due dramme di canfora; rispettivamente due dramme e mezzo di mastice52 , incenso, storace, gommarabica53 , resina di terebinto, serapino54 , opoponaco55 , laserpizio; rispettivamente una dramma di muschio, ambra; mezza oncia di olio di vetriolo56 ; rispettivamente due dramme e mezzo di essenze temperate nel loro giusto grado quali diamargatiron, diamusco, diambar57 , elettuario di gemme, trocisci58 di canfora, vipera, scilla; rispettivamente mezza libra di acetosa, cicerbita, scordio, echio, borragine, melissa; due dramme di ipocistide; rispettivamente sei once di teriaca scelta, mitridato; tre libre di vino aromatico invecchiato; rispettivamente otto libre e mezzo di zucchero di legno59 e miele purissimo. Con tutti gli ingredienti elencati, è possibile preparare con grande precisione e sapienza, un elettuario simile alla Teriaca magna o al metridato; questo preparato, preso in caso di assunzione di qualche veleno o di punture inferte da animali velenosi o in caso di peste, ha effetti miracolosi. Se ne possono somministrare due o tre dramme alla volta, secondo la necessità, la costituzione e l’età del paziente. Se si vuole che l’effetto sia immediato, si deve mettere in un matraccio -dalla capacità doppia rispetto al contenutouna libra di quest’antidoto, una libra di sciroppo di bucce di limone e cinque libre di acquavite ottenuta distillando la quintessenza di un ottimo vino, poi, si agiterà destramente il recipiente ben chiuso, fino a che l’acquavite e l’elettuario non si siano ben miscelati. Poi, si lascerà riposare il preparato per un mese, avendo cura di agitarlo solo due volte la settimana. Una volta trascorso tale termine, l’acquavite rimasta in sospensione sarà pregna delle virtù ed efficacia dell’elettuario. Dopo aver stappato il matraccio, si verserà, a poco a poco e con cautela, la frazione liquida in un altro recipiente di vetro, che sarà tappato scrupolosamente con cera e pergamena, perché se restasse aperto un solo giorno, se ne andrebbe tutto in fumo60 . L’acqua che si ottiene, di grandissima qualità, è efficace e portentosa; mezz’oncia di acqua, somministrata da sola o con la stessa quantità di un buon vino bianco o di qualsiasi altro liquido appropriato, fa resuscitare i morti. Chi è stato morso o punto da qualche animale velenoso o ha ingerito qualche veleno mortale, grazie all’acqua recupera la parola, i sensi e il movimento del corpo al contempo. Essa richiama immediatamente alla vita, risveglia da un lungo sonno e, conseguentemente, suscita grandissima ammirazione in chi assiste al prodigio, inoltre, grazie al suo effetto vomitatorio, aiuta il corpo a espellere tutti gli umori guasti e infetti. 184 MARCO CROMENI L’olio, molto rinomato ed efficace, si prepara nel seguente modo: nel mese di maggio, si mettano a macerare, in un matraccio di vetro capace, tre manciate d’iperico fresco (l’intera pianta triturata) in tre libre di olio comune di vecchia spremitura, poi, si metta il recipiente ben tappato, coperto sino a metà con della sabbia fina, in un luogo dove il sole batta tutto il giorno. Trascorsi così dieci o dodici giorni, si metta il vaso a bagnomaria per ventiquattro ore, dopodiché si sprema l’olio dalle erbe. Poi, si metta a macerare nell’olio, per tre giorni, una manciatina di ciascuna delle seguenti erbe triturate: coraçoncillo (nome dato all’iperico in Castilla), camedrio, calaminta e cardo santo. Trascorso il tempo d’infusione, è necessario colare e spremere l’olio dalle erbe. Nell’olio preparato, si mettano in infusione, per tre giorni, tre manciate di fiori d’iperico mondati e ben pestati; trascorso il tempo detto, si sprema e si coli l’olio dai fiori, avendo cura di filtrare il preparato per tre o quattro volte, fino a che l’olio diventi vermiglio, color del sangue. Fatto ciò, si prendano tre pugni di quei granelli verdi in cui è racchiuso il seme dell’iperico sfiorito e una volta pestati e irrorati con un po’ di vino bianco, si mettano in infusione nell’olio precedentemente preparato, che nel frattempo sarà stato lasciato per otto giorni, coperto sino a metà con della sabbia fina, in un luogo soleggiato. I semi andranno lasciati macerare per tre giorni, poi l’olio dovrà essere colato e i semi spremuti; il procedimento dovrà essere ripetuto con gli stessi grani, [Pag. 580] fino a che l’olio diventi di color rosso scuro. Al termine di queste operazioni, si prenda mezzo pugno di ciascuna delle seguenti essenze: scordio fresco, calaminta, centaurea minore, cardo santo, verbena e dittamo di Candia e le si mettano, dopo essere state pestate, nel preparato per tre giorni, quindi dovranno essere colate e spremute. Successivamente, si mettano in infusione tre dramme di ciascuna delle seguenti erbe pestate: zedoaria, radici di dittamo bianco, genziana, tormentilla, aristolochia elegante e una manciatina di scordio fresco; dopo tre giorni si sprema l’olio da dette essenze. Nell’unguento ottenuto si mettano sei dramme di ciascuno dei seguenti ingredienti: storace, calamita, laserpizio, oggigiorno chiamato benzoino; mezz’oncia di bacche di ginepro; tre dramme di nigella; nove dramme di cannella; mezz’oncia di sandalo bianco; rispettivamente una dramma e mezzo di giunco odoroso e cipero. Dopo aver lasciato il tutto in infusione per tre giorni, si colino le erbe e si sprema l’olio. Fatto ciò, si mettano, durante i giorni di canicola, trecento scorpioni vivi in un matraccio, poi, si adagi il recipiente sulla cenere ardente; quando gli scorpioni, per via del calore, cominceranno a trasudare il loro umore, allora si versi su di questi l’olio preparato, ma non troppo caldo, affinché non si rompa il matraccio di vetro, quindi, si tappi strettamente il contenitore e lo si lasci riposare per tre giorni; trascorso tal tempo, si coli e si sprema l’olio, avendo cura di gettare via gli scorpioni, che nel frattempo si saranno cotti. Si mettano nel preparato rispettivamente tre dramme di ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 185 rabarbaro, mirra comune e aloe; due dramme di spigo, una dramma di zafferano; mezz’oncia di triaca perfetta e mezza di metridato. Trascorsi tre giorni, l’olio non colato deve essere conservato come se fosse un balsamo; se applicato ogni tre ore su polsi, caviglie, tempie e capezzolo sinistro, esso è un antidoto efficace contro il morso di serpenti velenosi e qualsiasi altro tipo di veleno, inoltre, è anche un rimedio eccezionale contro la peste. Papa Clemente, che voleva la dimostrazione dell’efficacia di quest’olio ritenuto molto salutare, ordinò che si desse del napello a due briganti che erano stati condannati a morte e che, successivamente, solo a uno dei due uomini fosse somministrato l’unguento: l’uomo cui era stata data una maggiore quantità di veleno, ma che era stato successivamente unto con l’antidoto, si salvò e riacquistò tutte le forze, l’altro, invece, al quale era stato negato il balsamo, morì rapidamente dopo un’atroce agonia. Per ora basti sapere quanto detto sulla conoscenza dei veleni e sui metodi universali per contrastarli, mentre le caratteristiche di ciascuno di essi saranno trattate più avanti con grande meticolosità]. 186 MARCO CROMENI Frontespizio Pagina, 569 ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO Pagina, 593 Pagina, 594 Pagina, 60161 187 188 MARCO CROMENI Note 1 Dioscoride Pedanio, originario della Cilicia, fu medico e famoso farmacologo del I sec. d. C. Dioscoride è famoso per la sua opera, De Materia Medica, scritta in lingua greca che ebbe una profonda influenza nella storia della medicina. Rimase infatti in uso, con traduzioni e commenti, almeno fino al XVII secolo. Oltre che in area greca e romana, quest’autore fu conosciuto anche in Oriente e sono rimasti numerosi manoscritti di traduzioni arabe e indiane. Si veda inoltre M. Cromeni, “Andrés de Laguna: Libro Quinto de Pedacio Dioscorides Anazarbeo; acerca de la materia medicinal traduzido de lengua griega en la vulgar Castellana. Proposta di traduzione” in Quaderni di filologia e lingue romanze, Terza serie, 22, 2007, p. 97–139. 2 Vedi M.D.C. Francés Causapé, Consideraciones sobre creencias, farmacia y terapéutica, Madrid, Instituto de España–Real Academia Española, 2009, p. 5. 3 Vedi il frontespizio e le illustrazioni che riproduciamo per meglio sottolineare l’opera di Laguna. 4 Pedacio Dioscorides Anazarbeo, acerca de la materia medicinal, y de los venenos mortiferos, traduzido de la lengua griega en la vulgar castellana e ilustrado con claras y substanciales annotationes, y con las figuras de innumeras plantas exquisitas y raras, por el Doctor Andres de Laguna, Medico de Iulio III Pont. Maxi., Mathias Gast, Salamanca, 1570. Opera presente nella Biblioteca Civica di Fermo (segnatura: 1m7/3201). 5 Nel testo: a mi perecer(r. 16). 6 Nel testo: instiuttiones (r. 24). 7 Nel ms. è erroneamente scritto il numero 563 anziché 573. 8 Amphisbaena (r. 66). V. anfesibena. “Velenoso serpente a due teste e munito di zampe. Poteva mettere una testa nelle fauci dell’altra, formando così un circolo che gli consentiva di rotolare [. . . ]”. A.S. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, Milano, Mondolibro, 2001, p. 62–63. 9 Nel ms. dryinos (r. 66) — che riflette la grafia greca del vocabolo originale: druy΄ιnas, “serpente che vive nascosto nel vuoto delle querce”. L. Rocci, Vocabolario greco–italiano, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1998. Drino. “Culebra muy delgada, de color verde brillante, de un metro aproximadamente de longitud, que vive en los árboles de los grandes bosques”. M. Moliner, Diccionario de uso del español, voll. 2, Madrid, Gredos, vol. I, 1040. In italiano il vocabolo non risulta per cui nella traduzione abbiamo utilizzato il termine dello spagnolo moderno. 10 Dal lat. Cencris (dal gr. kénchros) serpente favoloso, velenoso, dal ventre screziato. Citato da Plinio 20, 245, si ritrova nell’Inferno di Dante XXIV, 87 insieme ad “anfisibena”: “Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena, né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l’Etïopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe. 11 Solimán (r. 72). “Sublimato (corrosivo). Ipoclorito di mercurio”. M. Fumagalli (abbrev. Fum.),Dizionario di alchimia e di chimica farmaceutica antiquaria, Roma, Mediterranee, 2000, p. 199. 12 Orpimento (r. 73). “Minerale giallo di arsenico. Trisolfuro di arsenico”. Fum., Op. cit., p. 149. “L’orpimento è un minerale, che imita col suo colore l’Oro, & secondo Dioscoride è di due sorti, uno che è composto di scaglie poste una sopra l’altra, & è el migliore, se non è mescolato con altro minerale, l’altro ha el colore quasi della Sandaracha, cioè rosso, & è simile à una zolla, eleggesi adunque quello che risplende, di color d’Oro, che è minuto di scaglie, & facilmente si divide, & non è mescolato con altre pietre, ò terre. Fannosi degli artificiali, cioè ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 189 l’Arsenico, & el Risagallo, così chiamati, con l’Orpimento naturale”. El ricettario dell’arte, et università de medici, et spetiali della citta di Firenze, Lorenzo Torrentino, Firenze, 1550, Laboratori Biokyma di Anghiari (rist. anast.), 2004, p. 34. 13 Sandáraca (r. 73). “Solfuro di arsenico”. Fum., Op. cit., p. 184. “La Sandaracha è una pietra che nasce nelle miniere de Metalli, el più delle volte insieme con l’Orpimento, di colore rosso come el Cinabro, ò vero che tende alquanto al giallo, la quale arsa fa el fumo giallo, & sa di zolfo, anchora che non si consumi, hoggi è facil cosa à provedere della buona, non di meno si può fare artificialmente, cocendo l’Orpimento fino che e’ pigli el colore del Cinabro, & si può usare per la vera Sandaracha. Ma è da avvertire che questo nome di Sandaracha appresso gl’arabi significa la Vernice, la quale è gomma del Ginepro, & non la detta pietra. Pero guardasi bene nelle medicine di non pigliare l’una per l’altra indifferentemente”. El Ricett. . . , Op. cit., p. 39. 14 Theriaca (r. 81). Data l’importanza storica di questo medicamento sia nella medicina antica sia in quelle medievale e moderna, riteniamo opportuno riportare uno stralcio del prezioso contributo di María del Carmen Francés Causapé per la Real Academia Nacional de Farmacia. “La Triaca Magna representaba la quintaesencia del arte farmacéutico, pues era considerada como un medicamento universal, un remedio infalible para toda enfermedad hasta su declive en el siglo XIX, aún cuando las Farmacopeas Españolas de 1905 y 1915 todavía lo incluían como un medicamento oficinal. La complicada fórmula de este medicamento, que se preparaba en forma de electuario, fue ideada por Cratevas, médico de Mitrídates, rey del Ponto; y posteriormente modificada por Andrómaco, médico de Nerón; y perfeccionada por Galeno, médico del emperador Marco Aurelio y después rectificada por numerosos médicos en el curso de los siglos. Se trataba de un polifármaco en cuya composición entraban sesenta y cinco ingredientes simples, la mayor parte de origen vegetal, aunque también constaban otros ingredientes con propiedades extraordinarias de origen animal como castóreo y de origen mineral como calcítide, así como tres medicamentos compuestos: Trociscos de víbora, de Scilla y de Hedicroi. [...] La larga popularidad que gozó la Triaca se debió a tres principios: en primer lugar porque las tomas repetidas de este medicamento procuraban al organismo una acción preventiva; en segundo lugar porque el organismo, una vez acostumbrado a este fármaco, se hallaba preparado para luchar contra la enfermedad y expulsar su malignidad; y en tercer lugar porque al desconocerse la etilogía de la enfermedad la pluralidad de sus ingredientes hacía que cada uno de ellos sirviera para luchar contra las múltiples causas implicadas en el proceso morboso. Muchos de los productos que componían la Triaca procedían del área mediterránea oriental o eran de origen asiático o africano, por lo que su principal puerta de entrada en el comercio europeo era Venecia. [...] La Giustizia Vecchia ya en 1258 exigía a los farmacéuticos, bajo juramento, no comprar ni vender triaca sino la hecha en Venecia y en 1441 se ordenaba que la triaca falsificada se tirase desde el puente Rialto al agua. La preparación de la triaca tenía lugar en una ceremonia pública y muy expectacular y bajo la supervisión del Magistrado de Sanidad, de miembros del Colegio de Médicos y del Colegio de Boticarios, pero no todas las farmacias de la ciudad estaban autorizadas a fabricarla sino algunas de las más principales como la del Struzzo, de la Madonna, de la Testa d’oro, la Vecchia, la del Pellegrino, la del Aquila Nera y la del Redentore. [...] A mediados del siglo XIX decayó el uso de la triaca, ya no se preparaba de forma tan solemne y hasta los años cincuenta sólo la farmacia de la Testa d’oro continuó elaborándola pero con la fórmula modificada. La triaca se confeccionaba en el siglo XVII, asimismo con gran fasto, en otros lugares de Italia como Bolonia, Roma, Génova, Nápoles, etc. [...] Era de suma importancia confeccionar la Triaca según la fórmula original, ya que de no hacerlo así se creía que se anularían sus virtudes medicinales. Y concretamente al objeto de transmitir la fórmula correcta iban dirigidas las obras de Abū Dawūd Sulaymān ben Hassān, conocido como Ibn Yuyul, y Lorenzo Pérez. Ibn Yuyul era un médico Cordobés de siglo X que en su obra Tratado sobre los medicamentos de la triaca expone que las diferentes formulaciones que se utilizaban en su época no eran correctas porque los médicos habían añadido u omitido algunos ingredientes y porque además las diferentes versiones de la fórmula 190 MARCO CROMENI se debían a errores lingüísticos en la transmisión de la misma y en consecuencia se habían efectuado identificaciones equivocadas en los componentes. Según Ibn Yuyul los productos que integran la triaca se relacionan en un listado conformado en siete grupos, número de gran simbolismo que determina la virtud medicinal de la fórmula teriacal junto con la calidad de los ingredientes, la cuantía proporcional en que deben ser incorporados y el método de elaboración. Para Ibn Yuyul la triaca era útil no sólo como contraveneno sino para mantener el organismo protegido permanentemente contra los efectos letales de cualquier sustancia tóxica, de los aires pestilenciales o de las aguas corrompidas aun cuando sana, con ayuda de Dios, todos estos daños [...]”. M.D.C. Francés Causapé, Op. cit., p. 17–20. “[...] La più famosa ricetta di tale antidoto fu quella di Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, che seppe ricostruire dalla ricetta del Mitridato, l’aggregazione delle spezie per comporre un antidoto che personalizzò con l’aggiunta di carne di vipera, poiché credeva che l’uso della fiera velenosa, avrebbe accresciuto l’utilità, il vigore e le virtù dell’antidoto. Nasceva così la Triaca Magna o Triaca di Andromaco”. Fum., Op. cit., p. 204. 15 Euphorbio (r. 82). “Euforbio. [...] È caldo e secco nel IV grado. Ha facoltà caustica e combustiva. [...] Dassene da uno sino a tre carati; imperoché tre dramme di Euforbio ammazzano chi lo beve, in termine di tre giorni corrodendo lo stomaco e le budelle [...] Connumerasi tra veleni l’Euforbio e il suo vero antidoto è il seme del cedro bevuto con vino, che sia stata cotta l’enola”. C. Durante, Herbario Nuovo, Bartholomeo Bonfadino & Tito Diani, Roma, MDLXXXV, Laboratori Biokyma di Anghiari (rist. anast.), 2003, p. 175. 16 Rejalgar (r. 99). Realgar. Minerale rosso di arsenico (disolfuro d’arsenico) che comunemente si trovava nelle miniere di rame. L’uso del preparato in medicina fu strettamente controllato per l’alto potere velenoso e fu solo indicato per applicazioni esterne. Per il suo aspetto simile al minio fu anche chiamato Sandaracca. Il termine ha origine araba. Cfr. Fum., Op. cit., p. 176. 17 “[. . . ] Columbo victori, leviter tamen saucio, venenum in plagam addidit, quod ex eo Columbianum appellavit (sic certe inter alia venena scriptum ab eo repertum est) [. . . ]”. De vita duodecim Caesarum libri VIII, LV. Svetonio, le vite di dodici Cesari, I, Zanichelli, Bologna, 1986, p. 344. 18 Pastinaca (r. 160). “Se llama también un pescado plano semejante a la raya. [...] La cola es larga y llena de espinas, en la cual le nace una punta que llaman radio, la cual es venenosa y con ella pesca para su alimento”. D.A., Diccionario de Autoridades, voll. VI, Madrid, Real Academia Española, 1753, vol. V, p. 158. 19 Nel testo entormeciendo (r. 175) anziché ‘entorpeciendo’. 20 Salmo 1261 (127). 21 Metridato (r. 256). “Mitridato. Elettuario largamente diffuso nella farmaceutica arcaica, medievale e rinascimentale. Il Mitridato fu assieme alla Teriaca il più famoso degli antidoti. La sua nascita, come fu raccontata da Galeno, Avicenna e altri famosi medici, risale a Mitriade re del Ponto, che per paura di essere avvelenato fece preparare l’antidoto di cui si serviva quotidianamente. La leggenda racconta che dopo cinquantasette anni di regno, all’età di settantanove anni, Mitriade dovette arrendersi a Pompeo, che lo vinse in battaglia anche per il tradimento di suo figlio Pharnace. Per non cadere nelle mani del re romano, Mitriade cercò la morte con il veleno che bevve con le figlie Nicia y Mitridazia, le quali morirono all’istante, mentre lui dovette farsi uccidere da Bithio, suo soldato, poiché assuefatto dal preparato a ogni veleno. La storia prosegue narrando che Pompeo trovò poi la formula dell’antidoto e la portò come bottino di guerra a Roma, dove il medico di Nerone, Andromaco Cretese, trasse le indicazioni per la preparazione della sua Teriaca”. Fum., Op. cit., p. 135. 22 “Plinio lo confirma cuando declara que Mitriade «fue el primero en mezclar a los antídotos la sangre de los patos del Ponto porque viven de animales venenosos». Cada mañana desde su juventud, asesorado por Crateuas, un experto en venenos que era su consejero tomaba pequeñas cantidades de diversos venenos para inmunizarse y que no pudiesen envenenarle sus enemigos”. http://www.gorgas.gob.pa/museoafc/loscriminales/criminologia/arsenico.html ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 191 Anates Ponticas dicunt victitare venenis comedentis. Scriptum etiam est a Lenaeo, Cnei Pompei liberto, Mithridatem illum, Ponti regem, medinae et remediorum illius generis sollertem fuisse, solitumque esse anatum Ponticarum sanguinem miscere medicamentis, quae digerendis venenis valent. Arbitrabatur enim eum sanguinem potentissimum esse in ea confectione et ipse assidue talibus medelis utendo, a clandestinis epularum insidiis cavebat. Saepenumero etiam, ostentandi gratia, venenum rapidum et velox hausit, atque id sine noxa fuit. Quamobrem postea, cum, a populo Romano proelio victus, in ultima loca regni sui refugisset et venena violentissima, festinandae necis gratia, frustra espertus esset, suo se ipse gladio transegit. Huius regis antidotus celebratissima est, quae Mithridatea vocatur. 23 La libra pesa once dodici, & si scrive così lib.; l’oncia pesa dragme otto, et si scrive ζ; la dragma pesa scropoli tre, et si scrive з; lo scropolo pesa grani ventiquattro, et si scrive З; el grano si scrive G; el manipolo contiene quanto si piglia con la mano, di herbe, ò di cose simili, & si scrive M. Vedi Ricett. . . , Op. cit., Parte Terza “De pesi et misure”, r. I. Inoltre, si veda alle singole voci: Fum., Op. cit. 24 Nel ms. quarto (r. 272) anziché ‘cuatro’. 25 “La antigua ermita de San Juan de Letrán: El que fuese Párroco de San Eutropio, Jesús Remírez Muneta, dejó escrito Remírez (1970, p. 95) que la Ermita de San Juan de Letrán existía ya en 1527 como construcción adosada al Hospital existente en este lugar. No obstante, Remírez no hace referencia a la fuente que utiliza para referirse a la fecha de 1527. Por razón de su ubicación, Pastor Torres señala que a esta Ermita se la conocía también como “Iglesia del Hospital”. Sin embargo, pese a la importancia local que cabría atribuir a la existencia de un hospital, Pérez Buzón al referirse a los apuntes sobre la Historia de Paradas de Torralba y Bazán (1915) permite concluir que en el Informe elevado por Paradas a la Intendencia de Sevilla sobre el “Estado de sus frutos y manufacturas desde primero de enero hasta fin de diciembre de 1789” no aparece relacionada la existencia de este Hospital aunque sí la de la Iglesia Mayor — San Eutropio —, la de dos ermitas — San Albino y San Juan de Letrán — y la de otros lugares destinados al comercio. En referencia a la ya citada fecha de 1527, para Remírez sorprende el hecho de que a poco de existir el lugar de Paradas contase ya con dos iglesias, la de San Eutropio y esta de San Juan de Letrán”. A. Pastor Torres, in J. Sánchez Herrero, «Nazarenos de Sevilla», III, Tartessos, Sevilla, 1997, p.178; J.R. Pérez Buzón, «Historia de Paradas: Fundación y concesión del Privilegio de Villazgo», Ayuntamiento de Paradas, Sevilla, 1992, p. 124; J. Remiréz Muneta, «San Eutropio. Obispo de Saintes y patrón de Paradas», Gráf. Salesiana, Sevilla, 1973. http://www.nazarenosdeparadas.org/chonchiletran.htm 26 Cuerno del unicornio (r. 289). “[...] Il misterioso potere del suo corno puliva da ogni impurità e annullava gli effetti di qualunque veleno. Il convincimento nasceva da una leggenda paleocristiana [. . . ] Il racconto narrava di un serpente che avvicinatosi ad una pozza d’acqua, vi sputò il suo veleno. Gli animali che sapevano attesero che giungesse l’unicorno, il quale, dopo essersi immerso nella pozza, tracciò il segno della croce con il suo corno e ogni principio velenoso fu dissolto. L’unicorno fu un rimedio universale con la funzione specifica di individuare i veleni e di scacciarli con il suo corno”. Fum., Op. cit., p. 213. “[. . . ] durante la rivoluzione francese si credeva ancora all’esistenza dell’unicorno, tanto che il “corno” dell’animale era usato per riconoscere il veleno nei cibi serviti ai reali”. Mercatante, Op. cit., p. 622. 27 Huesso del coraçon del ciervo (r. 285). “El hueso de corazón de ciervo es un ingrediente frecuente en la farmacología medieval; se llama así a la parte arterial del corazón de este animal que se endurece cuando es viejo”. M. N. Sánchez González De Herrero, “Nombres medievales de medicamentos compuestos”, in Voces, III 1992, Universidad de Salamanca, p. 85. 28 Rasio. “Riduzione di un corpo duro mediante raschiatura. Il metodo era impiegato per ridurre il corno di cervo o il legno di Guaiaco in polvere”. Fum., Op. cit., p. 175. 29 Piedra pardilla (r. 289). V. Ámbar pardillo y ámbar gris. “Sustancia que se encuentra en las vísceras del cachalote, sólida, opaca, de color gris con vetas amarillas y negras, de olor almizcleño, usada en perfumería”. Drae, Op. cit. 192 MARCO CROMENI 30 Piedra prassina. “Plasma. Piedra preciosa, especie de Esmeralda, eficacísima contra el veneno. La piedra prassina, llamada vulgarmente Plasma, pierde su resplandor, si la ponen cerca de alguna ponzoña”. D.A., Op. cit., VI, p. 292. Prasius. V. Prasio. “Varietà di quarzo verde usata come gemma. Considerata la matrice dello smeraldo, le si attribuivano le stesse proprietà anche se meno forti”. Fum., Op. cit., p. 169. 31 Suggeriamo una possibile interpretazione: la raffigurazione della costellazione del Serpentario, in cui la posizione delle stelle ricorda la struttura del fiore del giacinto. 32 Vayas. (r. 354). “Hazese el oleo Laurino coziendo las vayas bien maduras, en agua”. Pedacio Dioscorides Anazarbeo. Acerca de la materia medicinal. . . , Juan Latio, Anvers, MDLV, I, p. 38. 33 “El cuajo no es otra cosa sino aquella blanca substancia que se halla en el estomaguillo de cualquier animalejo de teta”. D. A., Op. cit., II, p. 670. 34 “Se ha querido ver en el polemonio Dioscorídeo (IV, 8), que crece en los montes, el linneanum Polemonium caeruleum L. o tal vez el Hypericum olimpicum L. Laguna pensaba que la “legitima polemonia no es otra cosa sino aquella planta vulgar que ordinariamente suele llamarse “Been album”. Antonio Musa Brasavola, y trás él su amigo Lusitano, declararon que era la ruda cabruna (Galega officinalis L.). Contra esa interpretación se revuelve Mattioli, que apela al lugar de nacimiento, en prados húmedos, en lugares inundados y el borde de los arroyuelos, así como a las características de su órgano. L. M. Valderas, “Mattioli contra Lusitano. II. Las “censuras” y las interpretaciones de Dioscórides”, in Collectanea Botanica, Barcelona, 26, 2003, p. 197. 35 Carpobalsamo (r. 356). “Era il frutto dell’albero del balsamo. Si usava nelle fumigazioni, nella Triaca di Venezia e nel Mitridato. Il latino Carpobalsamum”. Fum., Op. cit., p. 54. 36 Bolo armenico (r. 357). “El Bolo armeno, hoggi è di due maniere, uno chiamato Orientale, l’altro Nostrale, el quale nasce nell’Elba, & in molti altri luoghi, dove sia la cava del ferro, & sono terre ambe due rosse & spetie di Rubrica. Si crede per alcuni ch’el Bolo Orientale, venghi d’Armenia, & sia quello medesimo del quale scrive Galeno con color pallido, & gli Arabi con color giallo, simile al Zafferano. Ma per essere ella piu tosto rossa come è detto, non senza ragione si dubita, che egli non sia el Bolo d’Armenia. É opinione d’alcuni che sia la vera Terra Lemnia la quale già si soleva sigillare con la impronta della Capra ò più tosto quella che Galeno chiama Rubrica Lemnia, differente dalla Terra Lemnia, perché la Rubrica tigne le mani, & la terra no. Comunque ei sia, pensiamo si possi usare per l’una, & l’altra, come di sotto si dirà, & el Bolo Nostrale similmente ne medicamenti di fuori del corpo”. El Ricett., Op. cit., p. 16. Bolo armeno. “Si ricavava dalle miniere della Turchia. Era un alessifarmaco ed era in grado di correggere l’acidità del sangue. Applicato esternamente era cicatrizzante delle piaghe e guariva i morsi velenosi dei ragni. Argilla siliceo–cretosa”. Fum., Op. cit., p. 46. 37 Tierra sigilata (r. 357). “La Terra Sigillata delle spezierie dovrebbe essere la Terra Lemnia di Dioscoride, & di Galeno; a tempi nostri sono portate di Costantinopoli due sorti di terra, una rosseggia in girelle piccole, sigillate con lettere turchesche. Un’altra di colore bianchiccio verso el cineritio, in girelle piu grosse, sigillate con lettere turchesche, le quali sono in pregio appresso à e’ Turchi, & in grande riputatione contra a veleni, & non è agevol cosa à poterne havere copia. Le quali sono portate in Costantinopoli per quanto si ritragga , non di Lemno, ma d’altri luoghi lontani, et molto diversi, perché non si può dire ch’alcuna delle predette sia la Terra Lemnia. La rossa, secondo alcuni, è portata di Lemno et è la vera Terra Lemnia. Molti hanno creduto ch’el Bolo Armeno Orientale sia la vera Terra Lemnia. Del che non si può aver certezza. Trovasi anchora in Malta una terra bianca, leggieri, la quale vendono e’ Ciurmatori, che ha virtù contro à veleni. Onde si può in cambio della Terra Lemnia, pigliare assai comodamente, o el Bolo Armeno Orientale, o una delle sopra dette, ben che non sieno le turchesche molto potenti contro el veleno della Vipera, che attribuiscono alla Terra Lemnia [. . . ]”. El Ricett. . . , Op. cit., pp. 45-46. Terra sigillata. “Composti di alluminio, silice e ossido di ferro. Detta anche terra armenia, terra bolare”. Fum., Op. cit., p. 206. ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 193 38 Vera Momia (r. 357). “La Momia degli arabi, è una mistura di Aloe, Mirra, Zafferano et Balsamo, con la quale si condivano i corpi morti, & dopo un certo tempo la cavavano delle sepolture con quello che risudava dai corpi & riponevonla per l’uso della medicina. [...] dicono che ha la medesima virtù, che ha el Bitume, & la Pece mescolata. Se cosi è non havendo noi la vera Mumia, ne el Pissasphalto di Dioscoride, si può fare artificiale col Bitume, & colla Pece, come si è detto parlando del Bitume”. El Ricett..., Op. cit., p. 31. Mumia o Mummia. “La mummia fu impiegata nella cura delle cancrene da ustione e "per fare che il sangue non si raggrumasse nel corpo". Nel Trattato delle droghe semplici di Nicolò Lemery (1737), l’autore riportò una trattazione ampia della droga ponendo in risalto le numerose frodi cui era soggetta. Parlando agli speziali diceva: “Non crediate che la mummia che usate sia quella trovata nei sarcofagi degli antichi egizi, ella è troppo rara e se qualcuno ne ha qualche parte la conserva negli studioli con gran curiosità. Quella comune, che noi troviamo presso i droghieri, viene dai cadaveri di diverse persone che gli Ebrei o i Cristiani imbalsamano. La mummia era formata dagli essudati del cranio dei cadaveri da cui era grattata e raccolta”. Fum., Op. cit, p. 137. 39 Tierra lemnia. V. Tierra sigilata. 40 Electuario (r. 364). “Forma farmaceutica costituita dall’aggregazione di molteplici spezie elette e ridotte in polvere e confettate con zucchero, con sciroppi, con miele, con gomme, con frutti o radici ridotte in polpa. [. . . ] La parola elettuario deriva dal latino eligere, scegliere, perché questo medicamento doveva essere prodotto solo con sostanze di alta qualità. Infatti le regole da osservare per la preparazione erano: scegliere le sostanze di qualità elevata, conoscere le proprietà chimiche e fisiche per poterle manipolare nel giusto modo, polverizzarle separatamente e più finemente possibile, polverizzare i corpi emulsivi mediante lo zucchero, scegliere le gomme resine e le resine in lacrime purissime per poterle dosare nel modo giusto, dividere mediante il veicolo che entrava nell’elettuario gli estratti, le polpe e le resine liquide, scegliere gli sciroppi che difficilmente cristallizzavano, fare un miscuglio in proporzioni esatte, iniziare a mescolare le polpe degli estratti col miele, aggiungere poi sciroppo, conservare l’elettuario dopo l’assorbimento completo dello sciroppo”. Fum., Op. cit., p. 78. 41 Diamargariton (r. 364). “Il Diamargaritone caldo di Avicenna [. . . ] la polvere di Diamargaritone caldo di Nicolò Alessandrino [. . . ] il Diamargaritone freddo giova nelle febbri ardenti e pestilenziali. Soccorre alle sincopi, & altri affetti cardiaci: corrobora efficacemente il cuore, come fin anche il fegato, e cerebro”. G. Donzelli, Teatro farmaceutico dogmatico e spagirico, Napoli, Giovanni Francesco Paci & Geronimo Fasulo & Michele Monaco, 1675, pp. 105 e 84. Diamargaryton (r. 391) v. Diamargatiron. “Medicamento della classe degli elettuari il cui nome derivava dalle margherite utilizzate per la sua preparazione. Il più famoso fu quello di Nicolò Alessandrino, che si usava in tutte le forme di debilitazione del cuore, dello stomaco e del cervello”. Fum., Op. cit., p. 73. 42 “[...] intendendosi comunemente per Gemma, qualsivoglia picciola pietra pretiosa [. . . ] Io perciò sono di parere, che le gemme si generino da un sugo della terra, assottigliato da un estremo calore o da estremo freddo, e trasmutato poi dallo spirito Petrifico [. . . ] esse Gemme però [. . . ] che con la semplice triturazione, siano nell’uso, di pochissimo profitto, dovendosi perciò ricorrere all’arte Spagirica, a fine di renderle in forma trasmutabile, e volatile a rispetto dei corpi humani”. G. Donzelli, Op. cit..., p. II, 53. Electuario de Gemmis (r. 365). “[...] Tuvieron un gran predicamento en el Renacimiento los Pulvis Gemmis, que se preparaban a base de panes oro y plata además de piedras preciosas, a los que se atribuían excelentes propiedades cordiales, estomacales y antifebrífugas, pero decayó su uso en el siglo XVIII [...]”. M. D. C. FRANCÉS CAUSAPÉ, Op. cit., p. 14. 43 Triasandali (r. 365). “Confection médicinale dont la base est le bois du santal blanc, citrin et rouge, réduit en poudre. [...] Triasandali est un électuaire composé de pluseurs choses et mesmement des troiz manières de santaux dont il prent nom triasandali et vault moult contre la chaleur du foye et à ceulx qui sont tisiciens et qui ont jaunice”. Dictionnaire du Moyen français: http://www.cnrtl.fr/definition/dmf/triasandali 194 MARCO CROMENI 44 Diamusci (r. 365). “[. . . ] Avevano invece la funzione di ritemprare e confortare i pazienti esauriti da febbri o lunghe degenze, gli elettuari confortativi: [. . . ] diamusco, composizione a base di muschio [. . . ]”. D. Santoro, Lo speziale siciliano tra continuità e innovazioni: capitoli e costituzioni dal XIV al XVI secolo, in Mediterranea, ricerche storiche, Anno III, n° 8, dic. 2006, p. 477. 45 Diacameron (r. 365). “[...] electuario cuya base son los dátiles. [...] Recoge la Theorica este electuario con el nombre de pulvis diathamaron y señala: «el nombre de diathamaron le conviene mejor que aquel de diacomeron ny diacameron, como Salernitano y Preposito y algunos otros después dellos escriben, y la razon que yo hallo porque se debe de llamar diathamaron es que en ella entra la carne y huessos de os dátiles, que se llaman thamar en la lengua arabica, y en buena cantidad»”. M. N. Sánchez González De Herrero, “Nombres medievales de medicamentos compuestos”, in Voces, III 1992, Università di Salamanca, p. 84. 46 Alkermes (r. 365). “[...] non si dubita, che l’Alchermes non sia uno dei più principali cordiali che si trovino [...] Piglia in oltre Elettuario Alchermes, oncie ii [...] l’uso è nelle febbri di maligna qualità, e specialmente dov’è bisogno di roborare il cuore, nelle lipotomie, e nelle cardilagie”. G. Donzelli, Op. cit., pp. 11, 43 47 Almoradux (r. 380). “[...] Mejorana [...] lat. Amaracum”. P. Leopoldo De Eguilaz Y Yanguas, Glosario etimológico de las palabras españolas, Granada, Imprenta de la Lealtad, 1886, p. 236. 48 “Se ne conoscevano cinque tipi. M. Inda nigra, M. citrina flava, M. chebula, M. bellerica e M. emblica. Tutti erano usati per purgare la bile, fortificare l’intestino e insieme al rabarbaro, nelle diarree e nella dissenteria”. Fum., Op. cit., p. 134. 49 “L’arbore que produce la Noce moscata & il Macis è simile al Persico [. . . ] sono i suoi frutti quasi del tutto simili alle Noci, quando sono verdi in su l’albero: imperò che primamente sono ricoperti da grossa & verde corteccia sotto la quale è la noce moscata serrata dentro à un duro guscio, ma però più sottile di quello delle nostre noci communi, di bigio colore. Questo rompendosi vi si trova dentro la Noce moscata involta nel macis come in una rete”. C. Durante, Op. cit., p. 313. 50 “[...] hay tre especies, que se distinguen por el color de su madera, que es medicinal, roxo, blanco, y pálido, que en las boticas llaman cetrino”. D.A., Op. cit., VI, p. 37. 51 Vero ligno aloes (r. 385). Aquilaria agallocha. 52 Almastiga (r. 389) v. almáciga. “Resina clara, translúcida, amarillenta y algo aromática que se extrae de una variedad de lentisco”.DRAE. Almáciga. “Mastice”. Tam. “Mastice. Resina ottenuta dall’incisione del tronco della Pistacea lentiscus”. Fum., Op. cit., p. 129. 53 Goma arabica (r. 389) V. Gommarabica. “Si otteneva dall’acacia e si usava nella tosse e nella raucedine. Ingrediente nei medicamenti da applicare agli occhi”. Fum., Op. cit., p. 102. 54 Serapino (r. 389) v. Sagapeno (DRAE). “[Ant. Farm.] Gommoresina usata come antispastico”. TAM. “Sagapeno. Gommaresina ottenuta dalla Ferula persica, ombrellifera simile all’assa fetida. Si usava nell’idropisia, nelle tossi, nell’asma, nelle cefalgie, negli spasmi, nell’epilessia, nella paralisi, nei tremori, nei dolori di coliche e per abortire”. Fum., p. 180. “El serapino, chiamato da e’ greci Sagapeno, è un liquore d’una Ferula, cosi detta. Eleggesi quello che è chiaro, di colore rossigno di fuori, &dentro bianco, di colore in mezo infra l’Assa, & el Galbano, acuto al gusto. Aggiungevi Mesue che e’sia spesso, & leggieri, & che habbia odore del Porro, et che nell’acqua facilmente si strugga, perche quello, che non è tale, è falsato con altre Gomme. Meglio è quello che viene di levante, che d’altrove”. El Ricett. . . , Op. cit., p. 42–43. 55 Oponaco (r. 390) V. Opoponax. “Gomma gialla che si estraeva mediante l’incisione del fusto e della radice di un albero diffuso in Macedonia. La gomma estratta era fatta seccare in una forma simile a delle grosse lacrime, che si presentavano gialle esternamente e bianche internamente. L’uso in medicina era dedicato alle patologie dell’intestino e della matrice. Sinonimo: panace eracleo”. Fum., Op. cit., p. 146. ANDRÉS DE LAGUNA: LIBRO SEXTO DE PEDACIO DIOSCORIDES ANAZARBEO 195 56 Oleo del vitriolo (r. 391). “Olio di vetriolo o vitriuolo. Acido solforico ottenuto dalla distillazione di vetriolo verde”. V. Acido vitriolico. “Detto anche Acido vitriolico concreto o glaciale. Acido solforico concentrato o fumante”. Fum., Op. cit., pp. 19, 145. 57 Diambra (r. 392). “Chiamasi questo presente elettuario dall’Ambra sua principale ingrediente [...] coloro che la chiamano Diambar, chiamano similmente esso semplice Ambar, come si vede appresso Serapione [...]”. P. Borgarucci, La fabrica degli speziali partita in XII distinzioni, Venezia, Vincenzo Valgrisio, MDLXVI, p. 416. 58 Trociscos de alcamphor. (r. 392). “Preparato farmaceutico a forma sferica o di cono. La composizione prevedeva un impasto con pane grattuggiato e altri leganti, quindi un essicamento all’aria in zona ombreggiata. Famosi i trocisci di vipera utilizzati nella preparazione della Triaca, ottenuti per impasto di pane con la carne di vipera bollita in acqua aromatizzata con dell’aneto”. Fum., Op. cit., p. 211. 59 Açucar de la madera (r. 395). Lo zucchero di legno è sinonimo di xilosio. 60 Diversamente, esalerebbero i vapori del filtro e il lavoro per la sua preparazione sarebbe vanificato. 61 Nell’Opera è presente un errore di stampa nella numerazione delle pagine: alla pagina indicata nell’originale come 603 dovrebbe corrispondere, più congruamente, la pagina 601. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/97888548422819 pag. 197–252 Eleonora Casalini La variedad de la vida en cuatro cuentos de Mario Benedetti Propuesta de traducción El cuento es un género lleno de trampas, tentaciones y desafíos, pero reconozco que es también uno de los más gratificantes, tanto para el creador como para el lector1 El cuento, a menudo, ha sido considerado un género menor, pero afortunadamente esta concepción está siendo olvidada y nos encontramos con escritores — como es el caso de Mario Benedetti — polifacéticos que hacen de su narrativa breve una parte fundamental en el conjunto de su obra, que navegan entre poesía y novela, apresando un matiz semipoético, seminovelesco que sólo es expresable en las dimensiones del cuento. En la dedicación de Benedetti a escribir cuentos se halla una prueba de su autenticidad. Nadie que buscara un público masivo hubiera optado por un género que se suponía de escasa venta en comparación con la novela. Benedetti ha derruido ese prejuicio y cada una de sus colecciones circula en miles de ejemplares. El renovado auge de la narrativa breve está en deuda con su constancia. En manos de Benedetti el cuento aparece como un género de una ductilidad y flexibilidad incomparables. Es el más antiguo y el más nuevo. En él todo se ha hecho y todo está por hacerse (José Emilio Pacheco)2 . Descendiente de europeos y de origen humilde, Mario Benedetti nació en Paso de los Toros, departamento de Tacuarembó, en Uruguay, el 14 de septiembre de 1920. Muy pronto Montevideo se convirtió en el ámbito vivencial de un niño que acumuló las primeras sensaciones para ser escritor y persona, y para convertirse un día en una de las primeras figuras de la 198 ELEONORA CASALINI literatura universal de hoy. Aquel Montevideo generó un poeta, un novelista, un cuentista, un dramaturgo, un ensayista que ha ido creando una escritura que comenzó como aventura y cuyo desarrollo no se ha interrumpido nunca. Una escritura incesante que hace de Benedetti uno de los ejes de reflexión sobre el tiempo que vivimos. En tiempos de embustes y mentiras, ha tenido la audacia de decir muchas veces lo que no se quiere oír, interpretando nuestra época en toda su complejidad, con todos los estímulos individuales y sociales que la constituyen, con todas las esperanzas y desesperanzas que la recorren. Defensor de todas las libertades, las verdades, las solidariedades, las bellezas y los humanismos, no ha dejado de enfilar sus dardos contra rasgos negativos de nuestro tiempo, como el racismo, el consumismo, el individualismo. Benedetti había decidido que su pluma y su papel iban a servir para denunciar el abuso, la injusticia, el sufrimiento, o bien para anunciar el amor a una persona, al país y a la tierra, para anunciar el amor que es lo único que transforma el mundo y la historia y fue siempre coherente. Para él, la denuncia es también un acto de amor. Y su única arma ha sido la palabra. Ésta es una de las razones principales por las que la obra de Benedetti resultó tan peligrosa para el gobierno militar de Uruguay, país que el escritor tuvo que abandonar en 1973, iniciando así un largo exilio de doce años. Sus libros fueron prohibidos en todos los países de América Latina cuyos gobiernos eran dictaduras. Las armas del intelectual son la escritura, pero a veces parece que molestan como si se manejaran armas de fuego. El escritor puede hacer muy poco por cambiar la situación, que yo sepa, ninguna dictadura ha caído por un soneto3 . Si el compromiso social forma un núcleo importante en la obra de Benedetti (un hombre de su tiempo que se niega a cerrar los ojos y dice lo que ve), no está de más recordar su vocación comunicante, que es, tal vez, la característica que mejor define su obra. El término designa el interés por establecer un clima en el que el lector se sienta parte de un diálogo con el autor. «No escribo para el lector que vendrá, sino para el que está aquí, poco menos que leyendo el texto sobre mi hombro»4 . La amplia resonancia que encuentra su obra es, indudablemente, un síntoma de buena comunicación. El empeño por conseguir esa resonancia no se manifiesta a través de concesiones al facilismo, todo lo contrario. En su relación con el lector, Benedetti deja claro que el buen escritor ha de ser un «provocador», porque «cuando uno quiere a alguien es lógico que procure elevarlo y no disminuirlo, abrirle los ojos y no cubrírselos con una venda»5 . Naturalmente, una comunicación de ese tipo exige utilizar un código fácilmente descifrable por el destinatario, definido por un lenguaje accesible, una sencillez sintáctica y una modalidad expresiva y estilística cercana al registro conversacional. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 199 Benedetti establece la honestidad como condición imprescindible de la literatura comunicante, porque sólo a partir de su propia experiencia, de sus propias dudas y certezas, el autor puede disponer de un registro que no suene falso y que sea capaz de interesar a un lector que quizá se hace las mismas preguntas. Esta intención de ser voz, pero además intentar ser portavoz, se traduce en otra de las nociones fundamentales de la poética de Benedetti, la complicidad, estrategia que permite al lector reconocerse en la obra. Benedetti es, por lo tanto, un autor comprometido pero sobre todo un autor comprometedor: su obra consigue establecer una situación interpretativa en la que el registro utilizado elimina las distancias e invita al lector a sentirse destinatario de un mensaje que lo compromete por entero, porque su lectura no sólo pone al lector en comunicación con el autor, sino especialmente consigo mismo. Esta escritura comunicante da como resultado una resonancia que anula distancias geográficas o generacionales. La obra de Benedetti es esencialmente uruguaya, montevideana, pero quiere también universalizar la experiencia de una época y un lugar específicos. El amor, el dolor, el miedo, la alegría, el odio, la envidia, la amistad, la soledad, el tedio, conciernen a todos. El éxito del autor deriva también de su voluntad de hacer ingresar a la literatura a un personaje que, por su vida silenciosa y gris, había permanecido marginado hasta ese momento. Este personaje pertenece a la clase media, que por su insignificancia existencial no había despertado el interés de los escritores. Con el descubrimiento literario de esta humanidad silenciosa, Benedetti adquiere también la calidad de historiador que examina y recrea personajes reales, de vida media, con ilusiones e ideales medios, con conflictos psicológicos medios, con una familia, amantes fugaces y una muerte sencilla. En su obra desfila ordenadamente medio siglo de la clase media urbana, donde los descubiertos pueden descubrirse a sí mismos. Ambientados en el medio urbano de Montevideo, muchos de los cuentos de Benedetti giran en torno a la cotidiana peripecia del hombre común que anima la vida de la ciudad y padece la estrechez de sus horizontes. Con una prosa cargada de humor e ironía, sobria, precisa, este autor logra, como hemos dicho, trascender la individualidad de sus modestos personajes para ofrecer al lector un cuadro complejo de la sociedad en la que él pueda reconocerse. 200 ELEONORA CASALINI Análisis del texto Los cuentos de los que proponemos la traducción pertenecen a volúmenes diferentes: “Los novios” (Montevideanos, 1959), “Miss Amnesia” (La muerte y otras sorpresas, 1968), “Jules y Jim” (Geografías, 1984), “Pacto de sangre” (Despistes y franquezas, 1989)6 . En el análisis del texto estos cuentos serán indicados con una sigla: “Los Novios” (LN), “Miss Amnesia” (MA), “Jules y Jim” (JJ), “Pacto de sangre” (PS). El primero cuenta la historia de dos novios que, a un adiós que cambiaría toda una vida hecha de costumbres y manías compartidas por veinte años, prefieren la monotonía de su cansada relación. Rodolfo es un niño de doce años que vive con sus padres en un pequeño pueblo donde viven también María Julia, un año menor que Rodolfo, y su tía. La niña es hija de un estafador que se había suicidado antes de que nadie hubiera descubierto su estafa. La madre había muerto de dolor poco después. De modo que María Julia está algo así como marcada, está deshonrada y no resulta una compañía deseable, ni siquiera una aceptable camarada de juegos para los niños del pueblo. Pero el padre de Rodolfo, un hombre que no soporta la injusticia, se pone de parte de la niña y le permite entrar en su casa para jugar con el hijo. Los dos niños pasan mucho tiempo juntos y Rodolfo llega a ser el único confidente de su amiga. Cuando su padre se jubila, Rodolfo se traslada a Montevideo con su familia y pasa muchos años sin ver a María Julia. Los dos vuelven a encontrarse a la muerte del padre, víctima de una estafa que lo había arruinado. Empieza así una relación monótona y difícil, hecha aún más complicada por la presencia de la tía de María Julia. La muchacha parece entender que la palabra estafa los hace socios, colegas: su padre había sido un estafador; el padre de Rodolfo había sido estafado. Su novio se da cuenta de que no es feliz con ella, pero la necesita. Gracias a un amigo de la infancia, Rodolfo vuelve a ver a Marta, una estudiante universitaria muy alegre, con la que mantiene una breve relación que le hace comprender muchas cosas. Cuando parece resuelto a poner fin a su historia con María Julia, Rodolfo, de sorpresa, le dice que quiere casarse con ella, como para hacerle un desaire. En “Miss Amnesia” se cuenta la historia de una muchacha que se halla sentada en el banco de una plaza sin recordar nada, ni su nombre, ni su edad, ni sus señas. Sin embargo, experimenta una sensación de alivio, de serenidad, casi de inocencia. Un mundo de gente pasa junto al banco, sin prestarle atención. Sólo un hombre bien vestido se acerca y la lleva a su LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 201 apartamento donde intenta tener relaciones con ella. La muchacha logra huir y va a sentarse al mismo banco de la misma plaza, donde quiere olvidar lo que ha ocurrido, cosa que consigue. De nuevo el mismo hombre se detiene ante ella y la historia se repite como el cuento de nunca acabar. “Jules y Jim” cuenta la inquietud de un hombre, Agustín, que un sábado por la tarde empieza a ser amenazado de muerte por teléfono. Entonces piensa en motivos políticos, comerciales, amorosos, pero ninguno le proporciona una pista fiable. Por lo tanto, al principio no toma en serio la nueva situación y piensa que puede tratarse de una broma. Lo cierto es que el mundo empieza a ser diferente para Agustín y su novia, Marta, reconoce sus tensiones. El menciona el trabajo, los acreedores, las minidevaluaciones, pero no quiere decirle la verdad. Un día, al cerrar su ferretería, se encuentra por azar con Alfredo Sánchez, su compañero de clase en los tiempos del liceo, cuando Agustín obtenía notas brillantes y Sánchez, en cambio, era un estudiante mediocre. Ahora él es un modesto ferretero y su amigo un importante abogado. Sánchez le inspira confianza y Agustín decide narrarle su tortura privada, de la que no ha hablado con nadie. Alfredo dice que quiere ayudarlo y le propone un fin de semana juntos en un lindo rancho que tiene en las afueras, donde Agustín podrá relajarse. Cuando el sábado los dos amigos llegan al rancho, Agustín descubre con sorpresa que se trata de una espléndida casa, con jardín y también dos perros impresionantes, Jules y Jim. Poco después llama la mujer de Sánchez diciendo que el más chico de los niños tiene casi cuarenta de fiebre y él tiene que correr a casa. Antes de salir invita Agustín a descansar, leyendo o escuchando música y le recomienda sobre todo una canción. Solo en aquella espléndida casa, Agustín trata de pasar el fin de semana lo mejor posible y empieza a escuchar la casete que le ha recomendado su amigo. Cuando oprime la tecla play el equipo estereofónico se limita a repetir el mismo estribillo amenazador. “Pacto de sangre”, el más tierno de todos los relatos, cuenta la conmovedora historia de un abuelo de ochenta y cuatro años, cuya gana de vivir depende únicamente de su nieto. El viejo vive con la familia de su hija pero pasa sus días casi siempre solo, en su habitación, sin hablar. Los demás creen que no puede hablar, pero él habla, monologa en voz muy baja, para que no lo oigan. Su diversión es recorrer su vida, las mujeres que acarició, su mujer muerta catorce años antes, sus juegos en la playa con los amigos de sus hijos. Sabe que para su hija y para su yerno es un peso muerto y sabe también que se pierden todas las cosas interesantes que podría narrarles, todos sus recuerdos que son historia. 202 ELEONORA CASALINI El único ser humano con el que habla es su nieto, un niño de ocho años. Cuando el pequeño Octavio descubrió que su abuelo podía hablar, él le propuso un pacto: mantener el secreto en cambio de cuentos inéditos. Pero el viejo no es el único que narra, también su nieto le cuenta lo que ocurre en el colegio, en la televisión, en el estadio. Cuando su nieto va a Denver para aprender el inglés, Octavio se siente completamente solo, no tiene a nadie con quien hablar. El niño era lo único que lo mantenía vivo y ahora el viejo tiene ganas de morir. Lo hará en silencio, para no violar su pacto de sangre. En principio, los cuentos de Mario Benedetti son independientes y efectivamente se pueden leer con perfecta autonomía, sin embargo, al igual que las partes de un cuento adquieren sentido poniéndolas en relación con otras secciones del mismo, así cada unidad narrativa adquiere su cabal sentido poniéndola en relación con el resto del volumen y, aún más, con otras obras del mismo autor. La totalidad de los cuentos de Benedetti participa de una serie de características comunes y temas recurrentes, por ejemplo: — La aparición protagonista del uruguayo mediocre, burgués. — El aislamiento y la falta de comunicación de los personajes. A pesar de su variedad y vastedad, la obra de Benedetti tiene una gran unidad; se trata de un conjunto de escritos que no pueden separarse de la situación histórica de su país. Por ejemplo, utilizando recursos y estructuras narrativas del fantástico y del superrealismo, Benedetti da voz a un Uruguay que va entrando en el mundo de lo absurdo y de los horrores latinoamericanos. Los encuentros, adioses y reencuentros repetidos cíclicamente en “Miss Amnesia”, que por su repetitividad se han vaciado de sentido, responden al momento de incredulidad del uruguayo medio frente a los cambios repentinos de su país. Siempre en “Miss Amnesia” el escritor levanta la voz contra los peligros de la amnesia (que puede llegar a convertirse en amnistía para los crímenes del pasado). El recuerdo sirve para tener presente el pasado y evitar así que de nuevo se haga presente. A pesar de todo lo que ha vivido, Mario Benedetti es un escritor vertebrado en la esperanza, sabe que la palabra sigue teniendo sentido, y en esta confianza cabe un margen de reconstrucción e, incluso, de modesto optimismo. En muchos de sus cuentos aparecen un humor inteligente, la ironía más punzante, la ternura más conmovedora. Las notas de humor sirven para reforzar el tono conversacional que busca la complicidad del lector, colaboran en la construcción del optimismo y LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 203 la alegría del prójimo, atenuando los momentos narrativos más graves y problemáticos. En “Los novios”, Benedetti, que comienza burlándose más o menos amablemente de las mujeres de la clase media uruguaya, presenta luego con tintes grotescos al personaje de la tía de María Julia. Ésta luce «dos verrugas simétricas que contribuían a dejar malparado el sentido estético de Dios o por lo menos el de sus vicarios en el acto de crear cuerpos al azar» (p.95). El novio del cuento habrá de soportar durante años su guardia cuidadosa: en casa, sus interminables «monólogos exteriores», y en el cine, durante las escenas lacrimógenas, su tos asmática o sus llantos «con un hipo casi eléctrico que provocaba un desagradable temblor en varios respaldos a la redonda» (p.97). “Jules y Jim” es un cuento que no confirma ese moderado optimismo: apenas necesita referirse a la dictadura para configurar un clima preñado de odios inexplicables y amenazas latentes, una atmósfera de pesadilla que recrea con acierto miedos justificados y difíciles de superar: «Después del golpe, sencillamente se borró»; «Se dijo que ya no eran los duros tiempos del 72 o el 73, [...] »; «Después que las cosas se complicaron, [...]»; «[...] en música vos fuiste siempre medio subversivo»; «Y además es clandestina, [...]» (pp.130, 131, 134, 138, 141). Se trata de textos narrativos: narrar significa exponer una historia, es decir contar, en su sucesión temporal así como en sus redes de relaciones internas, acontecimientos que ocurren a personas (textos de no–ficción) o a personajes (textos de ficción). Estos acontecimientos pueden ser ficticios o reales. La realidad es un territorio por el cual casi inevitablemente el novelista pasa, pero en el cual casi nunca se queda. Una vez que se impregna del aire real, del tacto real, del suelo real, una vez que recarga allí sus baterías, procede a invadir otros territorios, donde habrá de crear otro aire, otro aroma, otro tacto, otro suelo, forzosamente contagiados de lo real, pero que no serán lo real7 . El eje de la narrativa de Benedetti es el realismo, un realismo psicológico y sociológico, que tiñe sus obras de una total verosimilitud hasta el punto de no poder distinguir entre la realidad y la ficción. La atención que este autor dedica a la realidad está presente en toda su obra y constituye un rasgo esencial de su literatura. Su ficción no simula simplemente realidades, no reproduce sólo hechos verosímiles, sino que, partiendo de anécdotas aparentemente sencillas, Benedetti ahonda en el enigma de las relaciones humanas, para ofrecer al lector un cuadro completo y real de la vida moral, social y familiar de la sociedad uruguaya. Sin embargo, los acontecimientos contados por el autor son elaborados por su imaginación, sus emociones y, por lo tanto, no constituyen una fotografía fiel de la realidad. 204 ELEONORA CASALINI La situación histórica que le ha tocado vivir a Benedetti impregna todos sus textos, por eso, en muchas ocasiones, sus relatos pueden ser considerados como ‘confesiones del autor’, donde sus inquietudes, sus preocupaciones y vivencias quedan patentes. Por ejemplo, en “Pacto de sangre”, el protagonista dice «y me iré con mis cuentos a otra parte o a ninguna» (p.216); el mismo autor en una entrevista afirmó: «La vida es un paréntesis entre dos nadas. Yo no soy creyente, yo soy ateo, de modo que para mí antes del nacimiento no hay nada y después de la muerte no hay nada»8 . Entre los cuentos que he traducido, dos están escritos en tercera persona (“Miss Amnesia” y “Jules y Jim”) y dos en primera persona (“Los novios” y “Pacto de sangre”). Las narraciones en primera persona causan una inmediata identificación del lector con el narrador–protagonista y pueden servir incluso para que el autor se aleje del narrador impersonal y ajeno, propio de la tercera persona, al hablar desde el yo. Entre las funciones del lenguaje estudiadas por Roman Jakobson, la función expresiva es la que predomina; centrada en el locutor, esta función expresa todo lo que hay de subjetivo en el texto: la manifestación de sentimientos, de emociones, de opiniones. De hecho, la función expresiva es caracterizada por el uso de algunos signos lingüísticos que señalan la presencia del locutor: el pronombre personal “yo”, los adjetivos estimativos, las exclamaciones, el énfasis, el tono. En cuanto a las formas de representación, es decir las formas lingüísticas utilizadas para referir los acontecimientos, las que predominan son, naturalmente, la forma narrativa y la forma expresiva. Al narrar, la probable incorporación de diálogos, la calificación subjetiva de las anécdotas y la presencia de personajes a los que hay que dotar de verosimilitud, impregnan el texto de la personalidad del autor. En un texto de ficción el punto de vista, es decir el modo narrativo que se utiliza para referir los acontecimientos, se llama focalización. En los dos cuentos escritos en primera persona podemos hablar de focalización interna: el narrador se identifica con un personaje y narra únicamente lo que ve, piensa y siente este personaje (Rodolfo en “Los novios”, el viejo Octavio en “Pacto de sangre”). Este punto de vista favorece la identificación del lector con el personaje. En “Miss Amnesia” y “Jules y Jim”, escritos en tercera persona, encontramos una focalización cero: el narrador es omnisciente; sabe, ve y lo entiende todo, conoce las emociones, los sentimientos, los pensamientos de sus personajes. Por lo tanto, la focalización no es siempre la misma, pero asistimos a la construcción de un punto de vista implicado que transforma al narrador – protagonista o no — en un “uno más” de la historia. En general, Benedetti evita la imagen descriptiva y crea las situaciones casi únicamente por medio de las relaciones entre los personajes, o sea con LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 205 diálogos, monólogos o acciones. En efecto, hay varios actantes discursivos, el principal es el locutor–narrador, quien integra en su enunciación una pluralidad de enunciadores. En los cuentos podemos observar diferentes formas con las que se manifiestan en la escritura la multiplicidad de enunciadores del discurso. En el mismo cuento, a veces, se encuentran varias opciones, desde las opciones normativas hasta las que echan por tierra la puntuación con el fin de lograr en el lector una internalización diferente de los contenidos narrativos. Los personajes se expresan frecuentemente en estilo directo por medio de enunciados de pensamientos o de palabras. En este caso las palabras son referidas exactamente come han sido pronunciadas por los personajes. Podemos reconocer las frases en estilo directo gracias a la presencia de algunos artificios tipográficos como las comillas o la raya. Además este tipo de frases es generalmente introducido por verbos como “decir”, “preguntar”, etc: “[...] y a veces rezongaba: «¡Ay, Jesús, doce años y no sabes lo que es un común denominador!»” (LN p.82); “Dijo: «Mi nombre es Roldán, Félix Roldán»” (MA p.81). A veces, Benedetti utiliza las comillas para transcribir las intervenciones habladas, pero no las utiliza para marcar un pensamiento del personaje: «Tendré dieciséis o diecisiete años, pensó»; «Volvió a pensar, esta vez en voz alta: «Sí debo tener dieciséis o diecisiete», [...]»; «Yo no sé mi nombre», dijo ella, [...]» (MA pp.80, 81). No siempre las palabras de los personajes son referidas así como han sido pronunciadas; podemos observar también algunos ejemplos de discurso indirecto, bajo la forma de una proposición completiva introducida por verbos como “decir”, “afirmar”, etc: «Ella, a los quince días de pormenorizar su nostalgia de la vida pueblerina, a los quince días de repetir y repetir que la ciudad le resultaba asfixiante, [...]»; «Le pregunté qué había querido decir, [...]» (LN pp.91, 102); «Se preguntó si además hablaría otro idioma» (MA p.80); «Le pregunté si había alguien en la casa y como dijo que no, que no había nadie, le propuse un convenio» (PS.209); «Se dijo que ya no eran los duros tiempos del 72 o el 73, cuando estas anomalías podían tener causas y pretextos muy diversos y hasta verosímiles» (JJ p.131). Aún más interesantes en la narrativa de Mario Benedetti son el discurso indirecto libre y el discurso directo libre, que se acercan a una visión interna del fluir de la conciencia de los personajes: «Es cerca, dijo. ¿Qué sería lo cerca? No importaba»; «¿Miss Amnesia? ¿Verdad? Y eso, ¿qué significaba? Ella no entendía nada, [...]» (MA pp.81, 83); «Pero ¿por qué precisamente a tiros? Alguien podría terminar con él, por ejemplo, en un ascensor, [...]. ¿Y si el autor de las llamadas fuera precisamente un habitante del inmueble?»; «¿Quién iba a pensar que aquel botija taciturno, medio lerdo para los números, casi un pinchón de hipocondríaco, se iba a convertir con los años en ese tipo abierto, 206 ELEONORA CASALINI enterado, comprensivo, que sabía vivir, y que hasta lo había empezado a curar de su miedo inventado?» (JJ pp.132, 139–140). «Cuando mi hija viene y me dice qué tal abuelo, yo debería decirle te acordás de cuando [...]. Tal vez dirías, ay abuelo, con qué pavadas me venís ahora»; «[...], dije en voz no muy alta pero audible, carajo, me duele el riñón. [...] Pero abuelo, estás hablando, dijo con un asombro alegre que me conmovió» (PS pp.208, 209). Son discursos con los que se logra penetrar en el interior mismo del alma del personaje, a tal punto que la distancia entre narrador y personaje se ve reducida hasta casi desaparecer. Las palabras son introducidas sin que medie puntuación y mantienen la entonación del lenguaje hablado como en el discurso directo. Con el discurso directo libre los recursos para detectar un personaje u otro y diferenciarlos del narrador ya no están en manos de la puntuación, sino en manos de otros elementos del relato que conciernen a la gramática del texto y al sistema mismo de la lengua, como los tiempos verbales, los pronombres personales: «Cuando pasó, no demasiado tranquilo, entre Jules y Jim (es mi modesto homenaje a Truffaut, te acordás de la película, a mí me encantó), Agustín se asombró de su tamaño. ¿Y los tenés siempre sueltos? Claro, encadenados no me servirían. Además si estamos nosotros aquí, los de la familia, obedecen y no atacan, pero cuando vengo con los botijas y salen a jugar al jardín, entonces sí los ato, por las dudas» (JJ p.139). Estos recursos provocan al lector, quien necesita elaborar estrategias diferentes al aproximarse a los contenidos del texto, en donde no todo está explicitado. Debe pensar quién lo dice y a quién. El narrador pierde protagonismo, se deslía entre las palabras de los personajes, que son los verdaderos protagonistas, y, en el otro extremo, el lector se transforma en otro protagonista, por su papel como descodificador de este juego lingüístico, sin aclaraciones del narrador y con una puntuación que tampoco ‘narra’. Narrar, como hemos dicho antes, significa exponer una historia, es decir contar, en su sucesión temporal y sus redes de relaciones internas, acontecimientos que ocurren a personas o a personajes. Por lo tanto, es necesario que un texto tenga un hilo lógico y temático, es decir una coherencia. En los textos de ficción la coherencia concierne a los elementos que constituyen su universo ficticio: el espacio, el tiempo y los personajes. Espacio — En casi todos los cuentos podemos encontrar alusiones que cumplen una función referencial, colocando los acontecimientos en un contexto. A veces, es posible identificar lugares precisos, porque el autor los enuncia explícitamente. En “Los novios”, por ejemplo, Benedetti cita algunas calles de Montevideo: «calle Cerro Largo» (p.91), «calle Dante» (p.94), «Mercedes y Río Branco» (p.99), «Dieciocho y Ejido» (p.99). En “Jules y Jim” cita los nombres de LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 207 algunos barrios de la capital: «Pocitos» (p.130), «Cordón» (p.133), «la Ciudad Vieja» (p.138). El espacio urbano, referenciado en calles, plazas, bares, es el lugar privilegiado en los cuentos de Benedetti. Se trata de un espacio exterior, físico, que puede ser abierto (calles, plazas, etc.) o cerrado (cines, bares, casas, habitaciones). Generalmente, los lugares no son descritos minuciosamente, apenas una pincelada subjetiva: — «Vivíamos en la calle principal. Pero toda avenida 18 de Julio en un pueblo de ochenta manzanas es bien poca cosa. A la hora de la siesta yo era el único que no dormía. Si miraba a través de la celosía, transcurría a veces un bochornoso cuarto de hora sin que ningún ser viviente pasase por la calle» (LN p.83). — «En la casa de la calle Dante, yo me sentaba siempre en la misma silla, frente al mismo cuadro alegórico (una mujer desnuda, con el pálido rostro puro ojos, que surgía intacta de una terrible hoguera, en la que había innumerables llamas con cabeza de monstruos) y hacía repiquetear los dedos en la misma veta de la mesa de roble. [...] Después se sentaba en la silla número dos, la que tenía manchado el tapizado» (LN pp.94–95). — «Hacía dos años que habían quitado el cuadro con la hoguera simbólica y la mujer puro ojos. En su lugar habían colgado uno de esos almanaques suizos que tienen un Enero 1952 con asombrosas montañas pulcramente nevadas y primorosas casitas a las que sólo falta darles cuerda para que entonen su Stille Nacht. Las sillas habían sido retapizadas con una tela a franjas, verdes y grises, que no coincidía con la variante criolla de estilo inglés en que había sido concebido el comedor» (LN p.101). — «Estaba sentada en una plaza con árboles, una plaza que en el centro tenía una fuente vieja, con angelitos, y algo así como tres platos paralelos. Le pareció horrible. Desde su banco veía comercios, grandes letreros. Pudo leer: Nogaró, Cine Club, Porley Muebles, Marcha, Partido Nacional. [...] Sobre su cabeza el verde de los árboles tenía dos tonos, y el cielo casi no se veía» (MA pp.79–80). — «Ahora iban por una calle angosta, con baldosas levantadas y obras en construcción. [...] Miró hacia arriba y encontró unos balcones viejos, con ropa tendida y un hombre en pijama. Decidió que le gustaba la ciudad» (MA pp.81–82). — «Al abrirse la puerta, llegó de adentro una bocanada de olor a encierro, a confinamiento. [...] La mirada de la muchacha recorrió los muebles, las paredes, los cuadros. Decidió que el conjunto no era armónico, pero estaba en la mejor disposición de ánimo y no se escandalizó» (MA p.82). 208 ELEONORA CASALINI — «El rancho no era rancho sino espléndida casa, con jardín y un cerco de troncos, bastante alto. [...] El interior del rancho era muy confortable» (JJ pp.138–139). A veces el espacio de la infancia es recordado con todos los sentidos, con el tacto, con la vista, con el oído. Por ejemplo, en “Los novios” podemos leer a propósito del altillo: «Tan sólo era un disfrute disponer de dos horas para mí mismo, construirme una intimidad entre esas paredes rugosamente blancas, y acomodarme en la franja de sol, cuidando, claro, de que Verne permaneciera en la sombra. La dulce modorra, el compacto silencio de esas tardes, estaban aliviados por voces lejanísimas, gritos que eran casi susurros, ruidos indescifrables, y también unas bocinas tan gangosas como después no he vuelto a escuchar. Frente a mí el cielo estaba quieto, sin una nube, como otra pared. [...] Conservo en cambio un melancólico recuerdo de ese altillo vacío, sin muebles ni estanterías, con sus toscas paredes, su cielo incandescente y sus baldosas de un desvaído color remolacha» (p.83). En este cuento el altillo es un espacio de fuga que permite al personaje mirar no con «ojos de fuga» (los ojos del que escapa), sino con «ojos de dominador» (el que posee, sobre todo el dominio de su intimidad). Otro espacio muy importante en los cuentos de Benedetti es el espacio interior, psicológico. A veces, el lector, a través del monólogo interior, tiene la sensación de entrar en la conciencia de los personajes y de seguir el curso de sus pensamientos. “Pacto de sangre” es el ejemplo más significativo. Tiempo — En casi todos los cuentos la referencia temporal se presenta como indeterminada. Sólo en “Los novios” ésta puede ser considerada como absoluta y directa, bajo la forma de una fecha: 1924 (p.82), Enero 1952 (p.101). En el mismo cuento existe también la posibilidad de remontar al año exacto en que ocurre la acción gracias a algunas indicaciones: «Doce años. De modo que era en 1924» (p.82) ⇒ el protagonista nació en 1912; «Era un año menor que yo; [...]» (p.85) ⇒ María Julia nació en 1913; «Y bueno, ahora que tenés veinte años, [...]»” (p.92) ⇒ era en 1932; «El primor era una muchacha de veintiocho años [...]» (p.95) ⇒ era en 1941; «El día en que cumplí treinta y siete años, [...]» (p.99) ⇒ era en 1949; «A los cinco minutos apareció María Julia, María Julia de cuarenta años, mi novia» (p.103) ⇒ era en 1953. A partir de estas indicaciones temporales, explícitas o implícitas, es evidente que los acontecimientos son narrados según un orden cronológico. En los demás cuentos las indicaciones temporales consisten en adverbios y locuciones adverbiales como «siempre», «nunca», «jamás», que no indican un límite y tampoco un momento puntual, o en oraciones de valor temporal en referencia absoluta como «cuando», «ahora», «luego», «después», «el sábado», «años después», «hace un año», «ayer», «mañana», etc., que a LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 209 pesar de que describan un momento puntual, no indican exactamente la posición de este momento en el proceso temporal de la acción. Generalmente, los acontecimientos narrados en los cuentos siguen un orden cronológico, pero no siempre el tiempo de la historia (tiempo real durante el cual se desarrolla la acción) coincide con el tiempo de la narración (orden de presentación de los acontecimientos). En efecto, podemos observar procedimientos de analepsis (flash–back, recuerdos del pasado) y saltos: «Sánchez había sido su compañero de clase en los tiempos del liceo Rodó, cuando Agustín obtenía notas brillantes y era el orgullo de los profesores y sobre todos de las profesoras, [...]» (JJ p.135); «Es lo más parecido al ‘baño vital’ que me recomendó un naturista hace unos sesenta años. Era (él, no yo) un viejito, flaco y totalmente canoso, con una mirada pálida pero sabihonda y una voz neutra y sin embargo afable. [...]» (PS p.204). En “Los novios” hay saltos de algunos años: 1924 – (1932) – (1941) – (1949) – 1952. El ritmo de la narración puede ser muy diferente según el cuento: en “Los novios” Benedetti cuenta acontecimientos que ocurren en el curso de casi treinta años; en “Jules y Jim” acontecimientos que ocurren en el curso de casi siete semanas; en “Miss Amnesia” nada menos que en tres horas y diez minutos (desde las cuatro y cuarto hasta las siete y veinticinco); el ritmo de “Pacto de sangre”, en fin, es muy lento. El ritmo de la narración, a veces, es ralentizado no sólo por los recuerdos del pasado, sino también por la presencia en los cuentos de consideraciones y comentarios del narrador que suspenden la acción: «No vaya a pensarse, sin embargo, que fuéramos criaturas anormales, de esos pequeños monstruos que en cualquier época y en cualquier familia se alzan de pronto para trastrocar el sistema y los ritos de la infancia, raros engendros que en vez de jugar con muñecas o con trompos, extraen mentalmente raíces cuadradas o conversan sobre silogismos. No. [...]» (LN p.88); «Tenías mis dudas, claro. Siempre las tuve. Sobre todo dudas acerca de mis propios sentimientos. ¿Quería yo a María Julia? Más claramente, ¿la quería como para hacerla mi mujer? [...]» (LN p.98); «¿Dónde estarán esas mujeres? ¿seguirán vivas? ¿Las llamarán abuelas, sólo abuelas, y no habrá nadie que las llame por sus nombres? La vejez nos sumerge en una suerte de anonimato. En España dicen, o decían, los diarios: murió un anciano de sesenta años. Los cretinos. ¿Qué categoría reservan entonces para nosotros, octogenarios pecadores? ¿Escombros? ¿Ruinas? ¿Esperpentos?» (PS pp.205–206). Personajes — Benedetti quiere ofrecer al lector una visión generalizada de la sociedad, sobre todo de la sociedad uruguaya. Sus personajes son uruguayos, son gente común que lleva una vida rutinaria, que utiliza un lenguaje cotidiano urbano. El realismo de Benedetti es un realismo ‘activo’, no se limita a mostrar la realidad, sino que su visión de la sociedad se 210 ELEONORA CASALINI transforma de realista en introspectiva, psicológica. Su interés se centra en relaciones conflictivas cuyos protagonistas son a menudo hombres y mujeres en lucha continua consigo mismos, con sus sentimientos, con el prójimo que encarna uno u otro temor. Sus relaciones personales se basan esencialmente en la inautenticidad; el amor y la amistad quedan devaluadas. En “Jules y Jim” la falsa amistad es el rostro de un cruel resentimiento, de una creciente dosificación del mal. Ser cruel no es impulsar un golpe súbito; implica una labor insistente e incesante, lenta y minuciosa, escondiendo la mano tras arrojar la piedra. En este cuento la presumible liberación, la esperanza, se convierte en la última dosis de crueldad. Alfredo Sánchez, metaforizado en los impresionantes perros que custodían su lujoso «rancho» y que dan título al cuento, es presentado como un triunfador, un hombre de prestigio, posición y dinero: «[...], ahora era abogado, tenía un estudio con dos socios de primera, asesoraba a importantes compañías nacionales y extranjeras, era en fin alguien mucho más encumbrado que el modesto ferretero» (p.136). En cuanto al amor, las parejas que encontramos en estos cuentos han dejado que sus sentimientos se fueran marchitando poco a poco y tal vez su mayor problema fuera la falta de comunicación y de contacto físico. En “Los novios”, por ejemplo, en el interior de los personajes existe una serie de inquietudes y deseos, pero no los dejan aflorar por temor a romper el equilibrio de lo cotidiano. La vida se convierte en una continua silenciación de la propria voz. El protagonista define esa claudicación, esa entrada en la rutina «una estafa»: «Para mí, no había dudas. María Julia, hija de un estafador, me había a su vez estafado. La estafa se había nutrido de recuerdos infantiles, de comprensión cuando la muerte del viejo, de paciencia sin reclamos durante tantos años de noviazgo, de afectuosa pasividad frente a mi muestrario de caricias. Su estafa consistía en haber rodeado nuestras relaciones de suficientes sucedáneos del amor y del deseo como para hacerme creer que ella y yo habíamos sido realmente novios a través de cuatro lustros, deformados ahora en la memoria por la malsana corrección y el largo aburrimiento» (p.102). Se trata de personajes alienados, devorados por la fuerza homogeneizante de la sociedad. En “Pacto de sangre” nos encontramos con otro tipo de personaje que no se deja anular por la costumbre: se trata de los niños, que conservan la inocencia, la ingenuidad, son directos y sinceros. Otro componente esencial en los cuentos de Mario Benedetti es la importancia de ‘llamarse’. En “Miss Amnesia” y en “Pacto de sangre” podemos observar que la posibilidad de tener un nombre propio o perderlo puede apuntar hacia la afirmación o el despojamiento de la identidad del sujeto: LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 211 «La muchacha abrió los ojos y se sintió apabullada por su propio desconcierto. No recordaba nada. Ni su nombre, ni su edad, ni sus señas» (MA p.79); «A esa altura ya nadie me nombra por mi nombre: Octavio. Todos me llaman abuelo. Incluida mi propia hija. Cuando uno tiene, como yo, ochenta y cuatro años, qué más puede pedir»; «¿Las llamarán abuelas, sólo abuelas, y no habrá nadie que las llame por sus nombres?» (PS pp.203, 205). Una de las características que mejor definen la obra de Benedetti es su vocación comunicante, la incesante búsqueda de un clima en el que el lector se sienta parte de un diálogo con el autor. A tal fin Benedetti utiliza un lenguaje accesible, una modalidad expresiva y estilística cercana al registro conversacional. Se trata de un lenguaje vertebrado por palabras que van respondiendo en su alegría, en su dolor, en su esperanza, a un lector que sabe que en cierta medida puede encontrar una parte de sí mismo en ellas. En efecto, el que encontramos en los cuentos de Benedetti es un lenguaje directo, urbano, coloquial, cotidiano, hecho de palabras de todos los días, que favorecen la identificación inmediata del lector. Benedetti toma como principal fuente de inspiración su propio entorno, la realidad que le rodea, para ello no emplea solamente términos del lenguaje actual, sino que, además, se apoya en expresiones coloquiales, algunas incluso vulgares, refranes, etc. — Locuciones verbales y expresiones coloquiales: «mamá», «papá», «trompada» (pugno, cazzotto), «cofradía» (cricca), «pizpireta» (spumeggiante, effervescente), «vividor» (scroccone), «cantilena» (tiritera, solfa), «nena» (cara, tesoro), «de bueyes perdidos» (a vanvera), «cretinada» (cretinata), «dejar plantado» (piantare in asso), «matasano» (medicastro), «perorata» (tiritera), «pavada» (scemenza), «pelotas» (palle), «peliagudo» (difficile). — Expresiones vulgares y palabras de insulto: «cretino», «imbécil», «puta» (puttana), «carajo» (cazzo), «de mierda» (di merda), «cagada» (cagata, boiata). — Refranes: «Aprovecháte, gaviota» ⇒ aprovecháte gaviota que no te verás en otra (carpe diem, cogli l’attimo). — Elementos del ámbito urbano: «vereda» (marciapiede) «tranvía» (tram), «café» (caffè), «plaza» (piazza), «calle» (via), «banco» (panchina), «fuente» (fontana), «comercios» (negozi), «letreros» (insegne), «autobús». Nombres de calles y de barrios. — Elementos del ámbito cotidiano, como animales domésticos, cosméticos, electrodomésticos y toda serie de objetos que podemos encontrar en una casa cualquiera: «perro» (cane), «fonógrafo», «lápiz» (rossetto, matita), «esmalte» (smalto), «teléfono», «tocadiscos» (giradischi), «horno de microondas», «televisor», «radio». 212 ELEONORA CASALINI — Términos relacionados con el cuerpo humano: «cara, rostro» (faccia, viso, volto), «pantorrillas» (polpacci), «estómago» (stomaco), «párpados» (palpebre), «cabeza» (testa), «oreja» (orecchio), «hombro» (spalla), «labio» (labbro), «nuca» (nuca), «cejas» (sopracciglia), «manos» (mani), «corazón» (cuore), «pulmones» (polmoni), «brazos» (braccia), «ojos» (occhi), «piel» (pelle), «dedo» (dito), «nariz» (naso), «frente» (fronte), «pelo» (capelli), «pecho» (petto, seno), «vientre» (ventre), «lengua» (lingua), «sienes» (tempie), «uñas”» (unghie), «codo» (gomito), «diente» (dente), «piernas» (gambe), «pubis» (pube), «busto» (seno, petto), «testículos» (testicoli), «cuello» (collo), «cintura» (cintola, vita), «rodillas» (ginocchia), «riñón» (rene), «muñecas» (polsi). — Términos médicos, enfermedades: «trombosis», «tubercolosis», «insuficiencia hepática» (insufficienza epatica), «urticaria» (orticaria), «fiebre» (febbre), «sarampión» (morbillo), «rubeola» (rosolia), «escarlatina» (scarlattina), «difteria» (difterite), «tifus», «varices» (varici), «hernia inguinal» (ernia inguinale), «ataque de asma» (attacco d’asma), «infarto». — Préstamos de otras lengua: «élite», «play», «whisky». — Diminutivos: «calotito», «canallita», «perritas», «abuelita», «bufandita», «tosecitas», «muchachita», «angelitos», «pastito», «ranchito», «negrita», «blanquito», «tajito», «gestito», «regalito», «adiosito». Otro rasgo de la narrativa de Benedetti es el constante uso de adverbios, sobre todo los acabados en –mente: «exclusivamente», «simplemente», «automáticamente», «imprevistamente», «cuidadosamente», «estrictamente», «tensamente», «trabajosamente», «verdaderamente», «vocacionalmente», «ventajosamente», «probablemente», «mansamente», «afortunadamente», «exactamente», «claramente», «solemnemente», «espléndidamente», «laxamente», «totalmente», «solamente», etc. En el lenguaje utilizado por Benedetti en sus cuentos es importante señalar también la presencia de americanismos, es decir voces usadas por los pueblos hispanohablantes de América Latina: «vereda» (= acera, marciapiede), «saco» (= chaqueta, giacca), «viejo» (por padre), «calote» (=estafa, imbroglio), «alunado» (= ceñudo, imbronciato), «pocillo» (= tacita, tazzina da caffè), «choclo» (= maíz, mais, pannocchia), «vos» (tú), «cartera» (= bolso, borsetta), «hola» (= ¡diga!, pronto?), «botija» (= chico, ragazzino, bambino), «boliche» (= tienda, spaccio, bottega), «pibe» (= muchacho, chaval, ragazzo), «heladera» (= nevera, frigorifero), «boludo» (= penco, tonto). Después de este análisis, podemos afirmar que, en conjunto, se trata de un vocabulario subjetivo, donde la presencia del autor es muy evidente. A veces, las palabras tienen un valor connotativo, que sobrepasa su sentido literal para adquirir un sentido figurado: LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 213 — «solapas definitivamente mustias» (LN p.84): el adjetivo «mustio» se refiere especialmente a una planta, a una flor o a una hoja para indicar que está marchita. — «Agustín abrió las compuertas de la confidencia» (JJ p.136): las «compuertas» sirven, generalmente, para graduar o cortar el paso del agua en los canales, diques, etc. — «Ahí empezó mi marea baja» (PS p.206): aquí «marea baja» significa «período difícil», «depresión», «melancolía». Podemos observar también la presencia de algunas figuras retóricas: metáforas como «Mis vergüenzas. Unas barbas de chivo, eso son», «pubis de musgo rubio [....] matorral de lujuria», «lagunas que a veces son océanos» (PS pp.204, 205, 212). Entre las palabras utilizadas por Benedetti hay algunos neologismos: «semicanallescas», «monólogo exterior» (LN pp.86, 95), «pretelefónicos», «semiabrazo» (JJ pp.134, 141), «semipostrado» (PS p.214). La vocación comunicante de Benedetti es evidente también en la sencillez sintáctica de su narrativa, donde generalmente se busca la no alteración de los postulados de construcción de una oración, es decir, sintagma nominal + sintagma verbal. Sin embargo, podemos observar construcciones alteradas, como, por ejemplo, «Cuando salen mi hija y mi yerno, le dicen a ver si cuidás al abuelo, [...]» (PS p.210). En algunos cuentos, sobre todo en “Miss Amnesia”, las frases son muy breves, casi unas pinceladas entre las líneas: «La muchacha abrió los ojos y se sintió apabullada por su propio desconcierto. No recordaba nada. Ni su nombre, ni su edad, ni sus señas. Vio que su falda era marrón y que la blusa era crema. No tenía cartera. Su reloj pulsera marcaba las cuatro y cuarto» (MA p.79). Otro rasgo de la narrativa de Benedetti es el uso abundante de perífrasis verbales, donde las más recurrentes son las perífrasis con un valor temporal de futuro: ir a + infinitivo y haber + infinitivo, que pueden tener además valor de obligación o intención: «te vamos a matar»; «voy a sacarte del cepo», «vas a venir conmigo»; «nadie te va a llamar» (JJ pp.129, 137, 140), «¿Con quién voy a hablar?»; «ni yo ni mi nieto íbamos a violar nuestro pacto de sangre», «lo iba a extrañar», «no iba a tener a quien contarle cuentos inéditos», «Se lo vamos a decir por carta, aunque mi cuñado lo va a ir preparando»; «No voy a suicidarme» (PS pp.206, 214, 215, 216); «Había que hacer balance» (JJ p.141). Con respecto a la puntuación, en el mismo cuento, a veces, se encuentran varias opciones, desde las opciones normativas hasta las que echan por tierra la puntuación con el fin de lograr en el lector una internalización diferente de 214 ELEONORA CASALINI los contenidos narrativos. En efecto, presencia o ausencia de puntuación son igualmente significantes. El autor crea personajes y narradores para contar historias que deben llegar de una manera u otra al lector. Cuanto más logre el lector internalizar pensamientos, sentimientos y palabras del personaje que está conociendo a través del relato que lee, más podrá entusiasmarse, alegrarse o sufrir con él. Identificarse con el personaje es aún mas fácil cuando hay un monólogo interior; en este caso el lector tiene la sensación de entrar en la conciencia de los personajes y de seguir el curso de sus pensamientos. Por ejemplo, a veces el personaje–narrador se pone algunas preguntas o hace algunas consideraciones, que podemos encontrar en el texto bajo la forma de oraciones interrogativas y oraciones exclamativas: «¿cuándo fue eso?», «¿y ella?», «¿Y eso qué?», «¿Quería yo a María Julia?» (LN pp.82, 89, 93, 98), «Y eso ¿qué significaba?» (MA p.83), «¿Y si el autor de las llamadas fuera precisamente un habitante del inmueble?» (JJ p.132), «¿para qué?»; «¿será el de Ana?», «¿Dónde estarán esas mujeres? ¿Seguirán vivas? ¿Las llamarán abuelas, sólo abuelas, y no habrá nadie que las llame por sus nombres?», «¿Qué categoría reservan entonces para nosotros, octogenarios pecadores? ¿Escombros? ¿Ruinas? ¿Esperpentos?»; «¿Con quién voy a hablar?» (PS pp.203, 205, 206); «¡Y era la tía quien lo había visto!» (LN p.102). Vale la pena examinar los tiempos verbales utilizados por Benedetti en sus cuentos. Antes de todo hay que decir que los tiempos verbales desempeñan un papel importante para la cohesión de un texto, ya que permiten comprender las relaciones entre los acontecimientos narrados y el momento en que éstos son narrados o las relaciones entre los diferentes acontecimientos. En general, Benedetti utiliza el pretérito indefinido para contar acontecimientos ocurridos en el pasado; en este caso el imperfecto describe el marco de algunas acciones narradas al pretérito indefinido y puede también indicar que una acción se repite: por ejemplo, «En la casa de la calle Dante, yo me sentaba siempre en la misma silla, frente al mismo cuadro alegórico [...] y hacía repiquetear los dedos en la misma veta de la mesa de roble» (LN p.94). El presente es utilizado con funciones diferentes: — Presente de enunciación: «A esa altura ya nadie me nombra por mi nombre: Octavio...» (PS p.203), «No guardo una excesiva nostalgia de mi infancia...» (LN p.83). — Presente de verdad general: «La soledad es un precario sucedáneo de la amistad» (LN p.84). — Presente de costumbre: «[...], trae una silla, la coloca junto a mi mecedora o a mi cama y se queda a la espera de mis cuentos....» (PS p.210). LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 215 — Presente de narración: «Sólo le queda el Miedo Real, pero ahora sí tiene la impresión de que éste es menos grave, más gobernable...» (JJ p.143). A veces, la correlación entre los tiempos verbales no es respetada; en “Jules y Jim”, por ejemplo, Benedetti utiliza casi siempre el pretérito indefinido, pero al final del cuento utiliza el presente con el mismo valor: «Aprovechó aquella paz [...] para examinar el desasosiego de sus últimos y penúltimos sábados. Mañana, cuando Sánchez venga a buscarlo, le diré que, gracias a él, ya se siente libre de Los Miedos Que Inventamos. Sólo le queda el Miedo Real, pero ahora sí tiene la impresión de que éste es menos grave, más gobernable...» (pp.142–143). En “Pacto de sangre” Benedetti escribe: «Sólo se daran cuenta cuando falten cinco minutos. A lo mejor Teresita dice entonces papá, pero ya será tarde» (p.216). El presente «dice» es utilizado con valor de futuro. En “Pacto de sangre” podemos observar una forma verbal que se usa en algunas zonas del Río de la Plata (Montevideo y Buenos Aires): «hablás», «decís», «preguntás» (p.209). Esta forma verbal se refiere a la segunda persona singular y es una variante de la segunda del plural (pierde la –i «habláis», «decís», «preguntáis»). No es un americanismo como a veces se interpreta, sino un arcaísmo de origen peninsular. Las formas de trato en uso en esta región son: Yo ⇒ io; Vos ⇒ tu; Nosotros ⇒ noi; Ustedes ⇒ voi, loro. En Mario Benedetti descubrimos un afán permanente por implicar su actividad intelectual con los problemas del hombre. Para el escritor es imposible desligarse de su mundo circundante, se siente parte de la sociedad, por tanto, para él la palabra nunca va desvinculada de la realidad y todo texto se convierte en un instrumento de elaboración ideológica. Su obra tiene dos facetas: su valor como expresión artística y su valor como expresión social, y sus personajes son también personas. Es decir, en los comportamientos de determinados modelos de ficción podemos encontrar una plasmación de las actitudes vitales de nuestra realidad. Benedetti es un hombre del pueblo, que ha estado con el pueblo y que escribe para el pueblo. Sus personajes son gente común, pertenecen a una clase que a menudo había quedado en el anonimato; de este modo, Mario Benedetti se convierte en una ‘voz’ que interpreta la clase mayoritaria uruguaya, convencido de que, para que haya cambios, éstos tienen que venir de abajo. 216 ELEONORA CASALINI Traducir es como realizar la pequeña o grande alquimia de transformar un texto en otro (que es el mismo y sin embargo diferente). En mi opinión esta alquimia es aún más difícil cuando se trata de un texto de literatura, porque en este caso no es posible prescindir del autor ni de toda su obra. Hay que aprender el arte de ‘perderse’, de dejarse invadir por el texto, para que la ‘segunda mano’ que tiene que reescribirlo pueda fluir casi con naturalidad, sin pararse continuamente frente a las numerosas versiones posibles que resuenan en la mente. No obstante, quedan siempre algunas dudas, algunos puntos críticos, sobre todo cuando el lenguaje utilizado por el autor es particularmente subjetivo, rico de metáforas y de vocablos que tienen un sentido figurado. En una entrevista, Mario Benedetti sostiene que: «El cuento es un género lleno de trampas, tentaciones y desafíos, pero reconozco que es tambien uno de los más gratificantes, tanto para el creador como para el lector”; yo añadiría también “para el traductor»9 . En efecto, la traducción de los cuentos ha sido, para mí, un agradable desafío, no falto de dificultades. Veamos algunos ejemplos: — El adjetivo «mustio» («las solapas definitivamente mustias» — LN p.84) se refiere especialmente a una planta, a una flor o a una hoja para indicar que está marchita. En italiano puede traducirse con «appassito», «avvizzito», pero probablemente la frase «i risvolti definitivamente appassiti» sería poco comprensible. Por lo tanto, para indicar que las solapas están completamente estropeadas, «hacia abajo», he utilizado la palabra «andati» («i risvolti definitivamente andati»), que en italiano puede indicar algo definitivamente estropeado, irrecuperable. — La palabra «cuña» («en la tristeza se fue abriendo una cuña de afecto» — LN p.94), que tiene más de una acepción, puede significar también «zona». Esta «zona» va «abriéndose», como «uno spiraglio», que en italiano es «una piccola fessura; barlume, tenue possibilità» («nella tristezza iniziò ad aprirsi uno spiraglio di affetto»). — La palabra «rumbo» («le propuso un rumbo» — MA p.81) puede significar «rotta», «indirizzo», «meta», pero en la traducción he preferido una paráfrasis: «le propose di andare in un posto» porque corresponde a un registro más comunicativo. — «Porteño» («porteños» — JJ p.134) significa «natural de algunas de las ciudades de España y América en las que hay un puerto». En italiano no existe un adjetivo equivalente. Es posible decir «abitante di città portuali», pero sería demasiado vago, por lo tanto he decidido mantener la palabra en español, escribiendola en cursivo, porque en este caso es el adjetivo que indica a los habitantes de Buenos Aires. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 217 — Los «Preparatorios» («en Preparatorios» — JJ p.136) son los años de escuela en los que se realizan los estudios de segunda enseñanza antes de empezar los estudios universitarios. En Italia tenemos un sistema escolar diferente, por lo tanto no hay un equivalente de «Preparatorios» y esta palabra puede traducirse sólo con una paráfrasis: «durante il biennio preuniversitario». — Un «boliche» («almorzaron en un boliche medio escondido de la Ciudad Vieja» — JJ p.138) es un establecimiento de poca importancia, especialmente el que se dedica al despacho y consumo de bebidas y comestibles. En italiano puede significar «spaccio», «bottega», «tavola calda», pero, como el boliche al que se refiere Benedetti se halla en la Ciudad Vieja, he imaginado uno de aquellos pequeños restaurantes típicos de los viejos barrios de una ciudad y he utilizado la palabra «ristorantino» («pranzarono in un ristorantino mezzo nascosto della Ciudad Vieja»). — La palabra «colchón» («era de alguna manera mi complemento, y también el colchón de mis broncas» — PS p.206) significa «materasso», pero la frase «era in qualche modo il mio complemento, e il materasso dei miei momenti di rabbia» no es muy comprensible, aunque se hace entender. Un «colchón» es algo mullido, que puede atenuar una caída. En mi traducción he preferido una paráfrasis que explicase este concepto: «era in qualche modo il mio complemento, e sapeva placare i miei momenti di rabbia». — El adjetivo «negrita» («el hijo del vecino te había dicho che negrita» — PS p.208) a veces, es utilizato con cariño y no es un insulto en absoluto. En español «negro» puede significar «persona cuya piel es de color negro» y «moreno». La traducción de este adjetivo puede ser un problema, porque «negrita» significa tanto «negretta» como «brunetta», «moretta». En el cuento, el hijo del vecino quiere decir «moretta», pero la niña tergiversa y cree que se trata de un insulto. No podía traducir «negrita» con «moretta», porque todo lo que Benedetti escribe después no habría tenido sentido, por lo tanto, he decidido utilizar el adjetivo «negretta» («il figlio del vicino ti aveva detto ehi negretta»). — La palabra «laguna» («nunca estoy seguro de mis lagunas, que a veces son océanos» — PS p.212) significa tanto «laguna» como «lacuna». Aquí Benedetti juega con las palabras, pero en italiano no es posible, porque en este caso «laguna» significa «lacuna», «vuoto di memoria» y con la frase «non sono mai sicuro delle mie lacune, che a volte sono oceani» se pierde la relación laguna/océano. En mi traducción he preferido utilizar otro equivalente: «Non sono mai sicuro dei miei vuoti di memoria, che a volte sono immensi». El término «vuoto» me sugiere «spazio», cuyos sinónimos son «cosmo», «infinito», «immensità». 218 ELEONORA CASALINI A veces, el problema no consiste en una sola palabra, sino también en toda una expresión. — En la frase «parecía encarnizada en divertirse» (LN p.82), el adjetivo «encarnizado» significa «feroce», «spietato», «ostinato» y deriva del verbo «encarnizar», en italiano «accanirsi», «infierire», «ostinarsi nel fare qualcosa». Después de haber comprendido el sentido de esta expresión, he preferido traducirla con la frase «sembrava instancabilmente desiderosa di divertirsi». — «En el ascensor, el hombre marcó el piso quinto» (MA p.82) significa literalmente «nell’ascensore, l’uomo indicò il quinto piano», una frase que en italiano es poco comprensible. Por lo tanto, he preferido introducir algún elemento para hacerla más clara: «Nell’ascensore, l’uomo premette il bottone del quinto piano». — La expresión «previa de contrapeso» («Sánchez en cambio pasaba de año a duras penas, siempre con alguna previa de contrapeso» — JJ p.135) en italiano no tiene un exacto equivalente, por lo tanto, en la traducción he tenido en cuenta el contexto: «Sánchez invece veniva promosso a fatica, sempre con qualche debito scolastico». — La frase «aprovecháte, gaviota» (JJ p.141) es la primera parte de un refrán «aprovecháte, gaviota, que no te verás en otra», que en italiano puede significar «prendere al volo un’occasione», «approfittare di un’occasione». En mi traducción he utilizado la expresión latina «carpe diem». — La expresión «yo tenía mis cosas por ahí» («puede ser que se imaginara que yo tenía mis cosas por ahí, pero jamás me hizo una escena de celos» — PS p.206) no puede ser traducida literalmente, porque no tendría sentido. La palabra «cosas», en este contexto, significa «amantes», «relaciones extraconyugales» y «por ahí» es un adverbio que en italiano significa «da qualche parte», «in giro». Por lo tanto, he decidido traducir esta expresión: «è possibile che immaginasse che io facevo le mie scappatelle, ma non mi ha mai fatto una scenata di gelosia». A veces, en una traducción se corre el peligro de tener que ‘reinventar’ el texto original; por ejemplo, en “Los novios” podemos leer esta frase: «Nena, llegó tu novio», decía la tía [...] pronunciando la ve corta como sólo consiguen hacerlo ciertas maestras de primer grado» (p.95). «Novio» significa ‘fidanzato’, ‘ragazzo’ y ninguna de las dos palabras contiene la letra –v–. He decidido utilizar la primera, «fidanzato», porque es la misma del título de este cuento, “I fidanzati”. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 219 La consonante –t– se pronuncia siempre de la misma manera, prescindiendo de su posición en la palabra, la –z– en cambio tienes dos sonidos: uno sonoro (it. zero) y uno sordo o áspero (it. vizio). En la palabra ‘fidanzato’ la zeta es áspera, por lo tanto, «la ve corta» se ha convertido en «la zeta aspra»: «Cara, è arrivato il tuo fidanzato, diceva la zia [...] pronunciando la zeta aspra come riescono a fare soltanto certe maestre elementari». I fidanzati 1 All’inizio io la salutavo dal marciapiede e lei mi rispondeva con un cenno nervoso e fulmineo. Poi se ne andava saltellante, battendo le nocche sui muri, e, arrivata all’angolo, scompariva senza voltarsi a guardare. Sin dall’inizio mi piacquero il suo broncio, la sua sdegnosa disinvoltura, la sua impressionante giacca azzurra che sembrava piuttosto quella di un ragazzo. María Julia aveva più lentiggini sulla guancia sinistra che su quella destra. Stava sempre in movimento e sembrava instancabilmente desiderosa di divertirsi. Aveva anche le trecce, trecce color paglia, che amava portare sul davanti. Ma, quando succedeva tutto questo? Mio padre aveva già aperto la merceria e mamma faceva funzionare il fonografo per trascrivere il testo di Melenita de Oro, mentre io mi gelavo il sedere su uno dei cinque scalini di marmo che portavano in cortile; Antonia Pereyra, l’insegnante privata del lunedì, mercoledì e venerdì, tracciava un’offensiva riga rossa sulla mia innocente frazione viola, e a volte brontolava: “Oh, Gesù, dodici anni e non sai che cosa sia un comun denominatore!”. Dodici anni. Dunque era il 1924. Vivevamo nella via principale, ma l’intero viale 18 de Julio in un paese di ottanta isolati è ben poca cosa. All’ora della siesta ero l’unico a non dormire. A volte, guardando attraverso la persiana, potevo trascorrere un opprimente quarto d’ora senza che per strada passasse alcun essere vivente. Nemmeno il cane del signor Commissario, che, secondo quanto diceva sempre Eusebia la negra, era molto meno cane del signor Commissario. In genere, non perdevo tempo in tale inerzia contemplativa; dopo pranzo me ne andavo in soffitta e, invece di studiare il denominatore comune, leggevo come un forsennato Jules Verne. Leggevo seduto per terra, scomodamente piegato in avanti, con la prevedibile conseguenza di leggeri crampi ai polpacci o un’oppressione muscolare allo stomaco. Bene, che importava. Dopotutto, era un piacere chiudere la porta che mi metteva in comunicazione con il mondo e con mamma, non perché fossi un solitario per vocazione, nemmeno per vergogna o risentimento. Era semplicemente un piacere disporre di due 220 ELEONORA CASALINI ore per me stesso, costruirmi un’intimità tra quelle bianche pareti rugose, e sedermi nella striscia di sole, facendo attenzione, ovviamente, che Verne rimanesse all’ombra. Il dolce torpore, il denso silenzio di quei pomeriggi, erano alleggeriti da voci lontanissime, grida che erano quasi sussurri, rumori indecifrabili, e anche da clacson così nasali come in seguito non ho più sentito. Di fronte a me il cielo era quieto, senza una nuvola, come un’altra parete. A volte quella monotonia celeste mi faceva appesantire le palpebre e la testa finiva per inclinarsi da una parte, per lo meno finché non trovava la parete e la polvere dell’intonaco mi riempiva l’orecchio. Non provo un’eccessiva nostalgia della mia infanzia. Conservo invece un malinconico ricordo di quella soffitta vuota, senza mobili né scaffalature, con le sue pareti grezze, il suo cielo incandescente e le sue mattonelle di uno scialbo color barbabietola. La solitudine è un precario surrogato dell’amicizia. Io non avevo molti amici. I gemelli Aramburu, il figlio del farmacista Vieytes, Tito Lagomarsino, i cugini Alberto e Washington Cardona, venivano spesso da me, poiché le loro mamme e la mia conservavano un vecchio rapporto fatto di abitudini comuni, di pettegolezzi incrociati, di affinità condivise. Così come oggi si parla di professionisti della stessa generazione, nel 1924 le donne di un capoluogo di provincia si ritenevano amiche a partire dal loro incontro in un unico livello storico: quello della prima comunione. Dichiarare, per esempio: “Con Elvira e Teresa ho fatto la prima comunione”, significava, chiaro e tondo, che le tre erano unite da un vincolo quasi indissolubile, e se per puro caso, per un imprevisto che poteva assumere la forma di un viaggio improvviso o di una passione travolgente, una compagna di comunione si allontanava dal gruppo, il suo scortese comportamento era immediatamente inserito nella lista dei tradimenti più inconcepibili. Che le nostre madri fossero amiche e si sbaciucchiassero ogni volta che si incontravano in piazza, al Club Uruguay, nei Grandi Magazzini Gutiérrez, nella felpata penombra dei loro giorni di ricevimento, non bastava a decretare una gentile convivenza tra i loro più illustri rampolli. Chiunque di noi accompagnasse la madre ad alcune delle sue visite settimanali, dopo aver pronunciato un rispettoso: “Io bene, e lei, signora Encarnación?”, passava automaticamente in cortile a giocare con i figli della padrona di casa. Il più delle volte giocare significava prendersi a sassate da un albero all’altro o, nel migliore dei casi, fare a pugni, rotolandosi per terra, con le tasche strappate e i risvolti definitivamente andati. Se io non mi battevo più assiduamente era per paura che María Julia lo venisse a sapere. Nonostante le sue lentiggini, María Julia contemplava il mondo con un sorriso di presuntuosa comprensione, e la cosa curiosa era che tale comprensione abbracciava anche il gruppo degli adulti. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 221 Aveva un anno meno di me; tuttavia, quando le rivolgevo la parola, dovevo prima vincere lo stesso attacco di timidezza che complicava i miei rapporti con i grandi, con Antonia Pereyra, con gli adulti in genere. Lei viveva in via Treinta y tres, a quattro isolati dalla piazza, ma passava molto spesso (per lo meno, tre volte nel pomeriggio) per la porta della merceria. Almeno così avevo sentito dire da mamma e da Eusebia, ma la morte dei suoi genitori era un argomento tabù. Tito Lagomarsino mi fornì la versione che circolava nella cucina di casa sua: che il padre, un vecchio impiegato della Succursale della Banca della Repubblica, aveva falsificato quattro firme e si era suicidato prima che fosse scoperta la modica truffa di venticinquemila pesos. Secondo la stessa fonte di dicerie, poco dopo “la madre era morta di dolore”. Vi erano pertanto due sentimenti molto diversi, quasi contraddittori, nei rapporti del paese con María Julia: la compassione e il disprezzo. Era la figlia di un truffatore, pertanto era disonorata. Di modo che non risultava una compagnia particolarmente gradita, neanche un’accettabile compagna di giochi per la voce figlie in quel piccolo mercato provinciale. Nonostante questo, era innocente, e questa teoria era stata convenientemente diffusa da padre Agustín, un sacerdote panciuto e galiziano, che si serviva delle sue petulanti raccomandazioni di pietà per calcare le tinte sul suicida, “un empio che non aveva mai varcato la soglia della casa di Dio”. Il risultato di tale dualità era che le buone famiglie erano sempre disposte a sorridere a María Julia quando la incontravano per strada, perfino a passarle una mano tra i capelli in disordine, e poi bisbigliare: “Poverina, che colpa ne ha lei”. In questo modo risultava onorata la dose di cristiana misericordia e contemporaneamente si risparmiavano le forze per quando fosse giunto il momento di sbarrarle la porta di ogni casa, allontanarla da tutte le combriccole infantili e farla sentire più o meno marchiata. 2 Se fosse dipeso solo da mia madre, sono sicuro che non avrei potuto vedermi spesso con María Julia. Mia madre aveva una normale capacità di compassione e di comprensione; non era quello che Eusebia chiamava un cuore di pietra, tuttavia era schiava delle convenzioni e dei riti di quella orgogliosa élite di bottegai, farmacisti, negozianti, bancari, impiegati statali. Ma la cosa dipendeva anche da mio padre, che sebbene fosse sempre imbronciato, timido, nevrastenico, non sopportava assolutamente simili varianti semicanagliesche dell’ingiustizia. Certo che nella sua passione per il giusto, c’era anche uno sprazzo di testardaggine; non si poteva essere molto sicuri per quanto riguarda quell’impreciso confine in cui lui smetteva di essere unicamente degno, per essere semplicemente cocciuto. 222 ELEONORA CASALINI Bastò, per tanto, che nel corso di una cena, mamma parlasse dell’apprensione con cui l’aristocrazia del paese considerava la presenza della figlia del truffatore, perché il mio vecchio si mettesse automaticamente dalla parte della ragazzina. E lì terminò la mia solitudine. Non la solitudine angosciante ed amara che più tardi si sarebbe trasformata nel male endemico dei miei trent’anni, ma la solitudine attraente e cercata, la solitudine esclusiva che mi aspettava ogni pomeriggio in soffitta, quel rifugio raggiunto dal battito tranquillo della siesta del paese, della siesta totale. A quel feudo della mia prima, adorata intimità, ebbe accesso un giorno la giacca azzurra di María Julia. E María Julia, naturalmente. Ma la giacca azzurra fu la cosa che maggiormente mi impressionò: il suo contorno risaltava sull’intonaco delle pareti e sembrava addirittura essere inscritto in un alone celeste, dai contorni sfumati. Arrivò un pomeriggio, autorizzata da mio padre a giocare con me, e l’eccitante novità di averla lì, insieme alla preoccupazione di vincere la mia timidezza, non mi lasciarono comprendere, in un primo momento, lo scompiglio che quello significava. Perché María Julia penetrò in terra conquistata e lì si installò, come se i suoi diritti sulla soffitta fossero equivalenti ai miei, quando in verità lei era una nuova arrivata e io invece mi ero soffermato un anno e mezzo ad immaginare in tutti i suoi dettagli quella specie di rifugio inespugnabile, in cui ogni macchia sulla parete aveva un contorno che per me rappresentava qualcosa: la faccia di un vecchio contrabbandiere, il profilo di un cane senza orecchie, la prua di un brigantino. A dire il vero, l’invasione di María Julia ebbe effetto soltanto sulle pareti reali, il cielo azzurro, la finestra reale. Come quei paesi provvisoriamente assoggettati, che, al di sotto degli stivali dell’invasore, conservano di nascosto le proprie tradizioni, così io difendevo, in vigilato segreto, tutto quanto avevo immaginato riguardo alla soffitta, la mia soffitta. María Julia poteva osservare le pareti, ma non poteva vedere cosa rappresentava ogni macchia; forse poteva ascoltare il cielo, ma non sapeva riconoscere in quel silenzio la chiamata lontana dei clacson, gli attenuati frammenti delle grida. A volte, semplicemente per assicurarmi di preservare la mia zona privata, le domandavo che cosa potesse rappresentare questa o quella macchia. Lei osservava la parete con gli occhi ben aperti, e poi, con voce di chi detta una legge, pronunciava con laconica sicurezza: “È una testa di cavallo”, e sebbene sapessi che in realtà era una testa di cane senza orecchie, non per questo permettevo che sulla mia bocca si formasse anche un solo sorriso di presunzione o di disprezzo. Ma quel periodo non fu tutto caratterizzato dalle sue arie da dominatrice o dalla mia strategia di dominato. A volte María Julia si lasciava inaspettatamente sfuggire qualche confidenza. Credo che nel profondo del suo nervoso orgoglio, mi riconoscesse la condizione ed il diritto di essere il suo migliore ed unico confidente. “Io so che in tutto il paese mi considerano una persona LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 223 strana. E sai perché? Perché papà fece un piccolo imbroglio in Banca e poi si uccise”. Così chiamava la truffa: non imbroglio bensì piccolo imbroglio. Lo diceva con una naturalezza attentamente costruita, come se al posto di morti e delitti stesse parlando di giocattoli o del natale. “Zia dice sempre che quello che la gente rimprovera a papà, non è il piccolo imbroglio ma il suicidio”. Tale argomento mi lasciava piuttosto turbato. In casa non avevamo l’abitudine di chiamare le cose con il proprio nome. L’arma preferita di mamma era il girarci intorno, mio padre, invece, usava, abusandone, il silenzio imbronciato. Per questo, o chissà perché, fatto sta che io non avevo l’abitudine della franchezza, per cui non potevo rispondere immediatamente quando María Julia mi sollecitava con domande come questa: “Tu che ne pensi? Il suicidio è una vigliaccheria?”. Undici anni. Aveva undici anni e chiedeva questo. Certo, mi costringeva a pormi delle domande. A volte, quando lei se ne andava ed io rimanevo da solo, mi mettevo a pensare nervosamente, faticosamente, e dopo mezz’ora non ero riuscito a risolvere nessun problema di metafisica infantile, ma in cambio avevo ottenuto un mal di testa propriamente adulto. In definitiva non potevo immaginare il suicidio. Nemmeno la morte chiara e tonda. Ma per lo meno la morte era qualcosa che un giorno arrivava, qualcosa di non cercato. Il suicidio, invece, significava provar gusto per quello sterile, ripugnante nulla, e questo era orribile, quasi una pazzia. Che tale pazzia fosse comunque coraggio, o semplicemente vigliaccheria, costituiva per me soltanto un problema secondario. Non pensate, tuttavia, che fossimo creature anormali, di quei piccoli mostri che in qualsiasi epoca e in qualsiasi famiglia si sollevano all’improvviso per trasformare il sistema ed i riti dell’infanzia, rari embrioni che invece di giocare con bambole e trottole, estraggono mentalmente radici quadrate o parlano di sillogismi. No. Soltanto adesso quegli argomenti solenni acquisiscono per me un’importanza che allora non avevano; soltanto i miei successivi contatti con il mistero o la morte conferiscono un’aureola di morte o di mistero ai nostri dialoghi di allora. Quando io avevo dodici anni e lei undici, il suicidio, il nulla, e altri termini non meno spaventosi, rappresentavano soltanto una breve interruzione nella lettura o nel gioco. L’immagine illuminante arrivò un sabato pomeriggio, non nella mia soffitta bensì in piazza. Io tornavo con mia madre dai Grandi Magazzini Gutiérrez; María Julia andava con sua zia ai Grandi Magazzini Gutiérrez. Di fronte al busto di Artigas, mia madre e sua zia si salutarono e ci fermammo tutti. Era un’esperienza nuova, vederci e parlarci in pubblico. In realtà soltanto vederci. Mentre le donne parlavano, io e lei rimanemmo zitti e immobili, come due manichini. In quel momento non capii bene. Io ero timido, questo era chiaro, ma lei? All’improvviso la zia ci guardò e disse a mia madre: “Ha visto, 224 ELEONORA CASALINI signora Amelia? Sono inseparabili”. A mia madre non fece proprio piacere. “Sì, sono buoni amici”, asserì con angoscia. Ma l’altra non si lasciava confondere facilmente: “Molto più che buoni amici, sono davvero inseparabili”. E aggiunse poi ammiccando con nauseante complicità: “Chissà, eh, signora Amelia, che cosa succederà in futuro?”. Tutta la zona del collo intorno alla giacca azzurra si riempì di chiazze rosse. Io avvertii un inaspettato calore alle orecchie. Ma a quel punto già risuonava la voce aspra e tuttavia invadente: “Guardi, signora Amelia, come arrossiscono di vergogna”. Allora mamma mi afferrò per la spalla e disse: “Andiamo”. Ci salutammo, ma io fissavo il busto di Artigas. Solo più tardi, quando entrai con mamma nella Farmacia Brignole per comprare creta al mentolo, solo allora mi resi conto di aver acquisito una certezza. Di modo che due giorni dopo, quello che accadde in soffitta fu una mera conferma. Leggevo Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno; era divertente, ma non ridevo. Non riesco mai a ridere quando leggo a bassa voce. All’improvviso alzai gli occhi e incontrai lo sguardo di María Julia. Vidi che si mordeva il labbro superiore. Mi sorrise, nervosa. “Non riesci a leggere, vero?” Ci riuscivo, certo. Ma mi sembrava non so che contraddirla e scossi la testa. “E sai perché?” Rimasi immobile, in attesa. “Perché siamo fidanzati”. Io chiusi il libro e lo posai di fianco. Poi, sospirai. 3 “Un uomo tutto d’un pezzo”, disse Amílcar Arredondo, indicando la bara. Io avrei voluto alzare la testa e guardarlo, solo per vedere come era fatto, che aspetto aveva il viso imperturbabile dell’uomo che aveva rovinato e fatto ammalare mio padre. “Non ha sopportato il trasferimento. Una di quelle persone abituate al proprio paese. Lo hanno portato via da lì ed ecco il risultato: è morto”. Adesso sì lo guardai. In quel momento accesi la sigaretta del signor Plácido, il mio padrino, ed il suo viso era quasi tanto compunto quanto soddisfatto. “Puttana, che schifo”, mormorai, e Arredondo, che captò per lo meno il mio sguardo, si avvicinò per mettermi una mano sulla nuca. “Bisogna rassegnarsi, Rodolfo. Bisogna imparare dal coraggio del tuo povero padre”. Che cosa mi toccava sentire. Il coraggio del mio povero padre. Dopotutto, che importanza aveva Arredondo. Era un mascalzone, come tanti altri, di qui o di provincia. Aveva notato subito il lato debole di mio padre. O forse no. Forse mio padre fu consapevole fin dall’inizio che questo furbo sarebbe stato la sua rovina. Un mascalzone come tanti altri. Non tutte le vittime morivano. Mio padre invece (silenzioso, come sempre) era morto. Qualcosa di vero c’era nella sua mancanza di adattamento al trasferimento. A Montevideo, mio padre si annoiava. Adesso non c’erano più pezzi di stoffa LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 225 da stendere sul consumato banco, né vecchie clienti che esaminassero il catalogo di merletti, né zitelle che comprassero rocchetti di filo. Per trent’anni aveva anelato il riposo con discreto fervore, una volta ottenuto, era rimasto immobile, con lo sguardo distante, sempre più chiuso in se stesso. Io potevo comprenderlo. Mamma, no. Lei, dopo aver descritto minutamente per quindici giorni la sua nostalgia della vita paesana, dopo aver ripetuto e ripetuto per quindici giorni che la città le risultava asfissiante, aveva già fatto nuove amicizie: dinamiche signore dagli occhialetti con manico e seno a balconcino, fervidamente dedite al pettegolezzo e alla beneficenza, tranquille perché i loro figli frequentavano la scuola Sagrada Familia ed i loro mariti il Club delle Bocce, sempre pronte a perdonare gli escrementi delle loro cagnoline piuttosto che le contestazioni delle domestiche, buone padrone di casa che si aspettavano nei portoni per commentare, con tremendi movimenti di sopracciglia e di labbra, l’efficacissimo viavai delle tre o quattro spumeggianti signorine del quartiere. Mamma non poteva comprendere mio padre, perché lei è sempre stata patologicamente socievole, ma io sì, io potevo capirlo. Senza bisogno di sforzarmi, solamente mediante il facile espediente di esagerare fino alla caricatura le mie prime reazioni, il mio disagio di fronte al trasferimento. Dopo che il signor Silberberg ebbe comprato la merceria, arrivò un periodo che sembrò di festa. Mamma parlava abbondantemente durante i pasti, faceva progetti, sistemava immaginari mobili, disegnava futuri tappeti. Papà sorrideva. Ma era un sorriso privo di allegria, la smorfia gentile, avvilita, di un uomo che si ritira dal lavoro senza odiarlo, semplicemente perché è arrivata l’ora del riposo. Là, in paese, ancora lo sostenevano l’attività dell’ultimo inventario, gli addii degli amici, l’avviamento del suo successore. Dopo, a Montevideo, quando affittammo l’appartamento di via Cerro Largo, mio padre si arrese, credo che deve aver pensato che la sua vita non avesse più un senso né un sostegno. Io a volte mi avvicinavo e cercavo di parlargli. Volevo portarlo alle partite di calcio, al cinema, semplicemente a fare una passeggiata. Accettava soltanto l’ultimo di questi inviti, una volta su dieci, e andavamo al Prado, in un rumoroso tram de La Comercial. Durante il tragitto era così silenzioso, che qualche ottimista avrebbe creduto che fosse solo assorbito dallo spettacolo della gente, del traffico nelle strade fiancheggiate da fitti alberi. Ma in realtà lui non guardava nulla. Si lasciava semplicemente portare. E soltanto per affetto verso di me, per farmi credere che si stava distraendo, per farmi sentire davvero influente, sicuro di me stesso, virtualmente potente. Qualche pomeriggio, dopo aver camminato un po’ tra gli alberi, si sedeva su una panchina e mi rivolgeva alcune domande che volevano essere personali e, siccome non riuscivano mai ad esserlo, mi dispiaceva. “Bene, ora che hai vent’anni, ora che voti e sei un uomo, cos’è che ti preoccupa?” La mia risposta 226 ELEONORA CASALINI non aveva importanza. Neanche ci prestava molta attenzione. Formulando la domanda, aveva compiuto il proprio dovere, e non era il caso di bussare due volte alla stessa coscienza. Quando arrivò Arredondo, con il progetto di investire vantaggiosamente le poche migliaia di pesos ricavate con la vendita della merceria, più poche altre che mio padre aveva sotto forma di titoli, più un’assicurazione a mio nome che scadeva in quei mesi, quando arrivò Arredondo con tutti i suoi falsi documenti alla mano, tutto era pronto per accoglierlo. Mio padre si lasciò convincere con un’espressione di incredulità che in qualsiasi altra persona sarebbe stata di fastidio. Quella sera, dopo cena, mentre mamma era in cucina, le chiesi: “Non ti pare che abbia la faccia da stupido, da scroccone?”. “È possibile”, disse, e fine del discorso. Non ci furono altri commenti. Quattro giorni più tardi, venne semplicemente accettato il piano Arredondo, il quale accolse la notizia con un sorriso da orecchia a orecchia e due occhi che inavvertitamente mettevano all’asta la sua anima. In realtà, non poteva credere a tanta fortuna. Tutto andò a rotoli, naturalmente: dalle azioni di Fiecosa ai prestiti a catena. Mamma urlò tenacemente per quattro ore, poi ebbe un collasso. Appena si riprese, iniziò a rinfacciare a mio padre dalla mattina alla sera lo sciagurato investimento. Forse mio padre non aveva tenuto conto di quella tiritera. Forse aveva sperato di sconfiggere per una sola volta la sua intuizione. Fatto sta che la rovina lo consumò, lo distrusse, lo fece letteralmente fuori. Quando mamma si rese conto che non era più tempo di rimproveri, il medico aveva già pronunciato la parola trombosi. Adesso mio padre stava lì, vicino ad Arredondo, vicino a me. Io provavo una tristezza che oltrepassava l’anima, una tristezza che era anche corporale. Mi guardavo le mani e anche quelle erano sporche di tristezza. Fino a quel momento quando sentivo dire “triste” il mio cuore veniva invaso da un’ondata romantica, da una piacevole malinconia. Ma stavolta era un’altra cosa. Mi sentivo triste e pesante, triste e vuoto. La tristezza, ora che la toccavo con mano, era qualcosa di piuttosto asfissiante, di appiccicoso, una cosa fredda che non ci si poteva togliere dal viso, dai polmoni, dallo stomaco. Magari avrei desiderato per lui una vita migliore. Migliore non è nemmeno la parola giusta. Che la sua vita avesse avuto una passione entusiasmante, un odio stimolante, che so io, qualcosa che avesse conferito al suo sguardo quel minimo di energia che sembra indispensabile per sentirsi proprietari di una fetta di verità. Ci eravamo voluti bene, era vero. E con questo? Probabilmente non avevamo saputo niente l’uno dell’altro. Un’incapacità di comunicazione ci aveva tenuti a prudente distanza, rimandando sempre lo scambio sincero, generoso, per il quale, per altre ragioni, eravamo ben portati. Adesso lui stava lì, rigido, né in pace, né definitivamente morto, e ogni considerazione LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 227 a quel punto era inutile, per lo meno tanto inutile quanto lo può sembrare una brillante arringa quando è ormai irrimediabilmente scaduta l’ultima proroga. Aprii gli occhi e Arredondo non c’era. Respirai con sollievo. Tuttavia, c’era una mano, appoggiata sulla mia spalla. Una mano leggera, o che, per lo meno, cercava di non pesare. Non ero in condizione di indovinare, di fare pronostici, di modo che pensai ad un nome, un solo nome. Dopotutto, era abbastanza strano che pensassi a María Julia, ma forse era dovuto alla stanchezza. Non la vedevo da prima che ci trasferissimo nella capitale. Eppure, era lei. Prima le presi la mano, poi la feci sedere al mio fianco, sul divano. Non piangeva. “Un fine riguardo da parte sua”, pensai, e mi sentii profondamente ridicolo. Nella tristezza iniziò ad aprirsi uno spiraglio di affetto, di infanzia condivisa. María Julia, allora, sembrava più tranquilla. E più alta, certo. E forse meno sicura di se stessa. E con meno lentiggini. E senza la giacca azzurra. Per un bel po’ rimase in silenzio. Il suo sguardo non esprimeva le solite condoglianze. Senza dubbio, mi studiava a fondo, ma ebbe inoltre qualche lampo di tenerezza, di cosa recuperata, di precisa memoria. Fu da quel momento che mi sentii meglio. 4 Nella casa di via Dante, mi sedevo sempre sulla stessa sedia, di fronte allo stesso quadro allegorico (una donna nuda, con degli occhi enormi sul pallido volto, che si innalzava intatta da un terribile rogo, in cui vi erano innumerevoli fiamme con teste di mostri) e picchiettavo con le dita sulla stessa venatura del tavolo in rovere. Arrivavo alle nove di sera e di solito mi riceveva la zia, vestita sempre di impeccabile nero, con un pizzo all’altezza del petto che lasciava intravedere una zona ineluttabilmente flaccida, solcata da venuzze quasi violacee e con due verruche simmetriche che contribuivano a guastare il senso estetico di Dio o per lo meno quello dei suoi vicari nell’atto di creare corpi a caso. “Cara, è arrivato il tuo fidanzato”, diceva la zia, girando la testa verso il fondo e pronunciando la zeta aspra come riescono a fare soltanto certe maestre elementari. Dalla sua stanza, María Julia gridava: “Arrivo, Rodolfo”, e allora iniziavano a trascorrere quegli inevitabili quindici minuti di monologo, durante i quali la signora mi annoiava con domande riguardo il mio lavoro, la politica, del più e del meno. In realtà, non aveva bisogno delle mie risposte. Con un solo leggero colpo di tosse sapeva dichiarare chiuso un argomento, e anche, quasi senza che il respiro avesse alcuna ripercussione sull’innocuo pizzo, trovare qualcosa di peccaminoso in tutto quello che capitava nell’orbita della sua osservazione, della sua conoscenza, della sua fantasia, la quale non era sicuramente abbon- 228 ELEONORA CASALINI dante, né intensa, ma in cambio includeva un’attiva inclinazione a sezionare il pettegolezzo e a rafforzarlo. Finalmente, compariva María Julia. “Vero che è un incanto oggi?”, domandava la zia ed io rimanevo automaticamente sprofondato in un silenzio in cui si scioglievano tutti i miei complimenti. L’incanto era una ragazza di ventotto anni che iniziava a perdere la sua espressione infantile senza averne ancora acquisita un’altra succedanea, di maggior pienezza, con i capelli corti e sciolti, le braccia nude e un abito a tinta unita, di un’unica tonalità (generalmente verde scuro o marrone), con una spilla dai colori vivaci e una cintura larga, con fibbia dorata. Mi dava la mano, ritirandola subito. Poi si sedeva sulla sedia numero due, quella che aveva la tappezzeria macchiata. Allora la zia mi diceva: “Con il tuo permesso, Rodolfo”. Correva via con uno slancio che sembrava impossibile potesse essere frenato per lo meno fino alla cucina, ma in realtà si fermava nella stanza attigua da dove iniziava la sua vigilanza, pronta a comparire nello spazio che intercorreva tra il secondo e il terzo bacio. Tale precauzione era del tutto superflua, giacché la nipote sapeva difendersi; e si difendeva. Non proprio con rimproveri o con falsi pudori, nemmeno con un artificioso disamore. La sua difesa era più sottile di tutto ciò, qualcosa che forse poteva definirsi come una strenua resistenza all’emozione, o come la volontà di contemplare da fuori ogni trasporto sentimentale in cui lei stessa fosse implicata. Per esempio: nel baciare non chiudeva mai gli occhi. D’altro canto, se ci abbracciavamo in piedi, ero consapevole del fatto che lei, al di sopra della mia spalla, si guardava allo specchio appeso alla parete. Il suo motto avrebbe potuto essere: “Non abbandonarsi”, sempre che tale non abbandono si fosse riferito a qualcosa di più del placido corpo. A parte questo, non opponeva resistenza. Mi lasciava le sue mani (“da pianista”, diceva la zia), si prestava docilmente alle mie carezze, mostrava perfino un certo piacere quando le passavo una mano tra i capelli, ora molto più scuri della paglia. Ma il peggio era che tale comportamento stava impedendo qualcosa di più importante: che io stesso mi sentissi inscritto in quella cornice di scene che dovevano essere d’amore. Parlavamo, anche. Lei si riferiva spesso ad un argomento che era di sua preferenza: la morte di mio padre. Ovvio che non si fermava alla morte e andava ancora più indietro, fino ad arrivare ad Arredondo e alla sua ingenua, prevedibile, trappola. Sembrava pensare che la parola truffa ci rendesse soci, colleghi, compagni, o che so io. Suo padre era stato un truffatore; il mio era stato truffato. Con l’entusiasmo con cui trattava quest’argomento, María Julia sembrava volermi inculcare la convinzione che io e lei (giacché la disonestà aveva sfiorato tanto suo padre quanto il mio) eravamo più o meno figli della truffa. “Quando al tuo papà gli fecero il piccolo imbroglio”, diceva riferendosi al piano Arredondo e utilizzava lo stesso diminutivo che LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 229 aveva usato, diciassette anni prima, nella soffitta, nel raccontarmi i motivi di quel suicidio. Il martedì e il giovedì erano sere di visita, ma il sabato andavamo al cinema. Tutti e tre. Non so come mai la zia non si sedesse mai accanto a María Julia, bensì accanto a me. Magari, per fare la sua guardia, da lì la visibilità era migliore. Ad ogni modo, la sua vicinanza non era quello che si dice un piacere. Aveva un respiro intermittente che terminava sempre in tosse asmatica, e, per di più, in quei casi in cui il film faceva appello alle migliori riserve sentimentali dello spettatore, la zia piangeva con un singhiozzo quasi elettrico che provocava un fastidioso tremore in diversi schienali vicini. Fortunatamente, María Julia non condivideva tale permeabilità all’emozione. Sullo schermo poteva apparire la più lacrimevole delle scene, da una semplice nonnina attorniata da nipoti ineffabili, fino allo spettro della tubercolosi che provocava tossi premonitrici in una notte di nozze; le brave donne della platea potevano soffiarsi il naso quando il bel tenente non tornava dalla guerra tra le innamorate braccia della sua fidanzata incinta. Tutto poteva essere estremamente commovente; eppure, quando si accendevano le luci, ero più che sicuro che María Julia avrebbe avuto gli occhi luminosi ma secchi, ed inoltre, che avrebbe espresso il suo commento di rigore: “Che roba. Non riesco mai a dimenticarmi che non stanno vivendo, ma recitando”. Nei miei rapporti con María Julia, con la zia, con l’intera casa, c’erano barriere che non avrei mai potuto superare, ne ero certo. Non sarei mai riuscito a sapere che cosa si pretendeva esattamente da me. La zia lodava sempre María Julia (la sua pettinatura, le sue faccende domestiche, i suoi dolci), nel miglior stile delle suocere del Centenario, ma non mostrava mai fretta né preoccupazione riguardo al matrimonio. La nipote, da parte sua, non faceva preparativi. Quando le figlie di Corrales o quelle di Uslenghi, che a volte lasciavano la casa di via Dante nel preciso istante del mio arrivo, le facevano qualche battuta sul “corredo”, lei si limitava a dire: “C’è tempo per pensarci, c’è tempo”. A volte avevo l’impressione che le due donne mi considerassero come qualcosa di troppo sicuro, e questo mi infastidiva soltanto in parte, dato che nel profondo più infallibile di me stesso dovevo riconoscere che era vero, che ero un candidato troppo sicuro. Avevo i miei dubbi, certo. Sempre li ho avuti. Soprattutto dubbi riguardo i miei sentimenti. Amavo María Julia? Più esplicitamente, la amavo tanto da prenderla in moglie? Magari la mia teoria e la mia versione dell’amore erano rudimentali, in ogni modo si hanno i propri sogni e nei sogni non si è mai rudimentali. Bene, lei non corrispondeva a tali sogni. Ne avevo bisogno, tuttavia, e questo bisogno si rendeva evidente in modi molto diversi: per esempio, quando erano un po’ di giorni che non la vedevo iniziava a farsi sentire un malessere, una strana inquietudine che disturbava i successivi livelli e scompartimenti della mia vita quotidiana. Qua e là mi succedevano 230 ELEONORA CASALINI cose delle quali sapevo in anticipo che in María Julia non avrebbero trovato altra eco, altra ripercussione, se non un semplice commento, tanto cortese quanto insincero. Nonostante tutto, dovevo parlare con lei, dovevo sapere che stava giudicando le mie azioni e le mie reazioni, che era mia testimone, insomma. Arrivava il martedì, arrivava il giovedì, e quando, seduti faccia a faccia in sala da pranzo, iniziavo a parlare delle mie modeste vicissitudini, la mia sensazione di bisogno si diluiva solo vedendo i suoi occhi. Rimaneva, ad ogni modo, il desiderio. Il mio desiderio. Lei non aveva simili pensieri. Per le mie mani era una donna, la donna a volte. È molto probabile che la prima donna che tocchiamo possa finire per trasformarsi nell’unità di desiderio per il resto dei nostri giorni e, soprattutto, delle nostre notti. Io desideravo María Julia, ma quando?, ma come? Non avrei potuto accorgermi che baciava con gli occhi aperti, se io, a mia volta, non li avessi aperti. In una data occasione mia madre mi disse qualcosa che mi infastidì: “Non dimenticare di avvisarmi il giorno in cui María Julia ti renderà felice”. Ma, naturalmente, mia madre non l’aveva mai potuta mandar giù. 5 Il giorno in cui compii trentasette anni, mi imbattei in Tito Lagomarsino all’angolo di via Mercedes e via Río Branco. Era contento perché Marta, la figlia di Nélida Roldán, aveva superato un esame colossale. Il fatto è che camminammo fino all’angolo di via Dieciocho e via Ejido, e lì c’erano Nélida e la ragazza. Erano circa cinque anni che non vedevo Marta. Mi congratulai con lei per il suo successo e raccontò allora come le era caduto il rossetto in pieno esame e come lei ed il presidente della commissione si erano chinati contemporaneamente per raccoglierlo, e come si erano guardati da sotto il tavolo: “Credo che quel poveretto mi abbia salvata soltanto affinché non raccontassi agli altri professori quanto fosse ridicolo là sotto, con la parrucca spostata sull’orecchio”. All’improvviso mi sentii ridere, e quasi mi spaventai. Sembrava la risata di un altro, la risata di un essere fortunato, possessore di una vita piena, altamente soddisfacente, direi quasi trionfante. Non è opportuno ridere con una risata di altri, perciò rimasi immediatamente serio e sconcertato. Marta, invece, sembrava molto sicura di se stessa e del suo aneddoto, e al terzo sguardo mi accorsi che era simpatica, graziosa, dolce, allegra, intelligente, eccetera. Quando Tito menzionò non so quale colloquio per il quale erano convocati alle tre e un quarto, e io dovetti salutarli e diedi la mano a Marta, promisi solennemente a me stesso che sarei tornato a vederla, senza testimoni d’intralcio. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 231 Solo due mesi dopo potei mantenere la mia promessa. Incontrai Marta in un caffè, di fronte all’Università. Parlammo esattamente per un’ora e mezza. Risi di nuovo con la risata dell’altro, ma questa volta mi preoccupò meno. In un’ora e mezza seppi di lei, e lei di me, molto più di quello che avevo potuto capire in tutte le confidenze scambiate con María Julia nei nostri anni di fidanzamento e di routine. Fu tutto così fluido, così spontaneo, così naturale, che ad entrambi non sembrò affatto insolito che all’improvviso ci trovassimo mano nella mano, che ci guardassimo negli occhi come due adolescenti o due cretini. Meno strano poté sembrare che una settimana più tardi andassimo a letto insieme e che per la prima volta realizzassi il desiderio di mio padre che mi voleva virtualmente potente. Bisogna riconoscere che Marta era, soprattutto, un corpo, ma come tale non aveva niente da sprecare. Tuttavia, in Marta lo spirito non disturbava affatto, dato che si adattava splendidamente all’impeccabile contenitore. Tenerla abbracciata, stringendola o meno a me, passare le mani su qualsiasi zona della sua pelle, era sempre un’esperienza tonificante, una trasfusione di ottimismo e di fiducia. Le prime volte assistetti, con una specie di ingenuo stupore, alla riprova di quanto potesse essere insufficiente la mia originaria unità di desiderio; ma imparai presto a moltiplicarla. Era quasi meraviglioso che le mie mani, le mie comuni e inabili mani di sempre, d’improvviso potessero diventare tanto efficaci, tanto attive, tanto creatrici. C’era finalmente una carne che rispondeva, una pelle con la quale era possibile dialogare. Marta non mi chiedeva mai della mia fidanzata. Chiedo scusa. Ora ricordo che mi domandò: “Sei mai andato a letto con lei?”. Risposi di no, a voce così alta che io stesso rimasi sorpreso. La mia risposta negativa suonò come un rifiuto, quasi come un esorcismo. Marta prima sorrise divertita, poi mi guardò con pietoso stupore. In definitiva, saltai qualche giovedì in via Dante. Da parte di María Julia non ci furono ammonimenti né rimproveri. Solo la zia mi consacrò un lungo avvertimento sulla noia che porta al peccato. Sostanzialmente, fui del tutto d’accordo. 6 La zia mi passò la tazzina. Come sempre, poco zucchero. Rimescolai lentamente il caffè con il cucchiaino imitazione argento peruviano. Come sempre, mi scottai le dita. Erano due anni che avevano tolto il quadro con il rogo simbolico e la donna dagli occhi enormi. Al suo posto avevano messo uno di quei calendari svizzeri che hanno un Gennaio 1952 con meravigliose montagne impeccabilmente innevate e squisite casette alle quali manca soltanto di dar loro la carica perché intonino la loro Stille Nacht. Le sedie erano state rivestite con 232 ELEONORA CASALINI una stoffa a strisce, verdi e grigie, che non legava con la variante creola di stile inglese in cui era stata concepita la sala da pranzo. Nemmeno la zia era rimasta tale e quale. Niente più pizzo all’altezza del petto. Una sciarpetta di dacron e lana circondava ora il collo da gallina. Lo sguardo era spento e lacrimoso. Quando la mano destra portava la tazzina alla bocca, la sinistra tremava e faceva tintinnare sonoramente il cucchiaino sul piattino. Erano già alcuni mesi che mi dava del lei e aveva sospeso i suoi elogi riguardo le capacità domestiche della nipote. Non aveva perso l’abitudine di far domande, ma adesso la struttura dell’interrogatorio era il caos allo stato puro. Una serie di domande poteva comprendere, poniamo il caso, accertamenti riguardo il prossimo sciopero dei mezzi di trasporto, riguardo la data delle mie ferie, o una ricetta di ravioli di mais che mia madre conservava come un tesoro. Lo scorso giovedì mi aveva guardato negli occhi con una scintilla di amarezza. Poi, con la rassegnata indifferenza di chi ha conservato per molto tempo una moneta e all’improvviso si rende conto che questa ha perduto tutto il suo valore, mi aveva mollato la rivelazione: “Ci siamo sbagliate con lei, Rodolfo. María Julia ha creduto di poterla dominare per sempre. Ma è lei che ha vinto. Aiutato dal tempo, chiaramente”. La confessione non mi era sembrata del tutto strana. Era come se, senza dirlo a me stesso, fossi stato consapevole che quello aveva rappresentato il mio migliore alleato. Ed era la zia ad averlo capito! E non solo capito, bensì sottolineato. Per mero formalismo, le chiesi che cosa avesse voluto dire, ma lei era già rientrata nella sua anarchia mentale, e si ritenne soltanto obbligata ad aggiungere: “È mostruoso quanto siano saliti i prezzi della lavanderia. Non si può vivere”. Ora non diceva niente. Faceva semplicemente rumore con la bocca quando sorseggiava il caffè e anche se non lo sorseggiava. Secondo me, non c’erano dubbi. María Julia, figlia di un truffatore, aveva a sua volta truffato me, figlio di un truffato. La sua truffa si era nutrita di ricordi d’infanzia, di comprensione in occasione della morte di mio padre, di pazienza senza proteste per tanti anni di fidanzamento, di affettuosa passività di fronte alla mia serie di carezze. La sua truffa consisteva nell’aver circondato i nostri rapporti di sufficienti surrogati dell’amore e del desiderio per farmi credere che lei ed io eravamo stati davvero fidanzati per quattro lustri, alterati ora nel ricordo dalla dannosa correttezza e dal lungo tedio. La truffa era stata, analizzandola meglio, una vendetta contro quel paese di ottanta isolati che l’aveva marchiata, che l’aveva disprezzata e, ancora peggio, che l’aveva tollerata. Senza volerlo, ero diventato il rappresentante di quel paese, mi ero trasformato in una specie di simbolo. Ora, soltanto ora si poteva ricostruire tutto il calcolo, tutto il piano, dalla studiata dichiarazione in soffitta (“E sai perché? Perché siamo fidanzati”) fino all’esagerato interesse per la cretinata LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 233 di Arredondo, dall’amichevole mano sulla spalla nell’ultimo giorno vicino a mio padre, fino ai nostri vent’anni di poveri baci nella sala da pranzo. Era evidente che il suo calcolo era stato supportato dalla mia timidezza e dalla sua pazienza. Sebbene María Julia non si fosse mai lamentata, sebbene non mi avesse mai rinfacciato il protrarsi dei nostri rapporti, era stata sempre fanaticamente sicura del fatto che io non avrei preso l’iniziativa, né per sposarmi né per rompere. Questa, soprattutto, era stata la sua carta vincente: la mia pochezza le permetteva di vendicarsi con me dell’ingiustizia di tutti, ma, inoltre, le permetteva di azzerarmi, di annientare la mia vita per sempre. È evidente che María Julia non aveva tenuto conto di Marta. Forse il suo unico errore di calcolo. Beh, si trattò di pochi mesi. Marta ora si trova a Paysandú, sposata con Teófilo Carreras, architetto e costruttore. Ma quei pochi mesi le bastarono (Dio la benedica) a compiere la sua opera, la sua ammirevole opera di salvare un condannato, di far rendere i sensi (i miei sensi) molto al di sopra del loro valore di valutazione. Perché, evidentemente, María Julia aveva esagerato: mi aveva sottovalutato troppo. Apparentemente, tutto era proseguito allo stesso modo, ma la sua rinsecchita, perplessa verginità aveva saputo captare che le mie mani non erano più le stesse, e, anche, che la sua passività aveva iniziato a provocare in me un segnale di ribrezzo. Un’assoluta novità. D’altra parte, ormai era tardi per qualsiasi trasformazione (baciava persino con gli occhi chiusi) ma non lo era perché intuisse che si stava avvicinando una qualche decisione. Per me, invece, non era ancora tardi. Assolutamente. Restituii la tazzina alla signora, e lei disse: “Sta rinfrescando. Rinfresca sempre a quest’ora”. Poi si alzò e mi lasciò solo. Dopo cinque minuti apparve María Julia, María Julia di quarant’anni, la mia fidanzata. Si sedette accanto a me, mi dimostrò e ridimostrò la sua profonda stanchezza, sbatté quattro volte di fila le palpebre. La sua mano era appoggiata sull’angolo del tavolo in rovere; aveva una specie di orticaria, quelle macchie di insufficienza epatica che le vengono quando mangia il fritto. Parlava delle sue amiche, le figlie di Uslenghi: “Gladys vuole che l’accompagni a Buenos Aires. Che te ne sembra?”. Sentii che la odiavo con una forza quasi infinita. Sentii che non ne avevo bisogno, che non ne avrei mai più avuto bisogno. Sentii che Marta mi aveva liberato da un mostruoso incubo, da un ripugnante peso sulla mia inerme, sconnessa coscienza. “Che te ne sembra?”, ripeté con voce da condannata. Ed era vero, era condannata. La libertà aveva i suoi vantaggi, ma adesso (adesso che lei era sicura del mio distacco, sconcertata dal mio rifiuto) molto meglio della libertà era la rivincita. Di modo che decisi di dirglielo con tutta naturalezza, come se parlassi del tempo o del lavoro: “No, meglio se non ci vai. Così incominci a prepararti. Voglio che ci sposiamo a metà luglio”. 234 ELEONORA CASALINI Deglutii saliva e, contemporaneamente, mi sentii felice, mi sentii un miserabile. Il piccolo imbroglio era compiuto. Miss Amnesia La ragazza aprì gli occhi e si sentì sbigottita dal suo sconcerto. Non ricordava niente. Né il suo nome, né la sua età, né il suo indirizzo. Vide che la sua gonna era marrone e che la camicetta era color crema. Non aveva la borsetta. Il suo orologio da polso segnava le quattro e un quarto. Sentì che la sua lingua era pastosa e che le tempie le pulsavano. Si guardò le mani e vide che sulle unghie aveva uno smalto trasparente. Era seduta sulla panchina di una piazza con alberi, una piazza che al centro aveva una vecchia fontana, con angioletti, e qualcosa come tre piatti paralleli. Le sembrò orribile. Dalla sua panchina vedeva negozi, grandi insegne. Poté leggere: Nogaró, Cine Club, Porley Muebles, Marcha, Partido Nacional. Vicino al piede sinistro notò un frammento di specchio, di forma triangolare. Lo raccolse. Si rese conto della sua morbosa curiosità quando si trovò di fronte quel viso che era il suo. Fu come se lo vedesse per la prima volta. Non le causò alcun ricordo. Cercò di calcolare la sua età. Avrò sedici o diciassette anni, pensò. Stranamente ricordava i nomi delle cose (sapeva che questa era una panchina, quella una colonna, quell’altra una fontana, quell’altra ancora un’insegna), ma non riusciva a collocare se stessa in un luogo e in un tempo. Tornò a pensare, questa volta ad alta voce: “Sì, devo avere sedici o diciassette anni”, solo per appurare che era una frase in spagnolo. Si chiese se parlasse anche altre lingue. Niente. Non ricordava niente. Tuttavia, provava una sensazione di sollievo, di serenità, quasi di innocenza. Era sconcertata, chiaro, ma lo sconcerto non le dava fastidio. Aveva la vaga impressione che questo era meglio di qualunque altra cosa, come se si lasciasse alle spalle qualcosa di abietto, di orribile. Sopra la sua testa il verde degli alberi aveva due tonalità, ed il cielo quasi non si vedeva. I piccioni le si avvicinarono, ma si allontanarono subito, delusi. In realtà, non aveva niente da dar loro. Una marea di gente passava accanto alla panchina, senza prestarle attenzione. Soltanto qualche ragazzo la guardava. Era disposta a parlare, lo desiderava persino, ma quei volubili ammiratori finivano sempre per vincere la loro esitazione e proseguivano per la loro strada. Ad un certo punto qualcuno si separò dalla corrente. Era un uomo sulla cinquantina, ben vestito, impeccabilmente pettinato, con fermacravatta e ventiquattrore nera. Lei intuì che le avrebbe parlato. Mi avrà riconosciuta? Pensò. E temette che quell’individuo la portasse di nuovo nel suo passato. Si sentiva così felice nel suo confortevole oblio. Ma l’uomo andò semplicemente da lei e domandò: “Si sente bene, signorina?”. Lei lo osservò a lungo. Il viso del tipo le ispirò fiducia. In realtà, tutto le ispirava LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 235 fiducia. “Un momento fa ho aperto gli occhi in questa piazza e non ricordo niente, niente del passato”. Ebbe l’impressione che non fossero necessarie ulteriori parole. Si rese conto del suo sorriso quando vide che anche l’uomo sorrideva. Le porse la mano. Disse: “Il mio nome è Roldán, Félix Roldán”. “Io non so il mio nome”, disse lei, ma strinse la mano. “Non importa. Lei non può rimanere qui. Venga con me. Vuole?” Certo che voleva. Quando si alzò, guardò i piccioni che di nuovo la circondavano, e pensò: Che fortuna, sono alta. L’uomo chiamato Roldán la prese delicatamente per il braccio, e le propose di andare in un posto. “È vicino”, disse. Cosa vuol dire vicino? Non importava. La ragazza si sentiva come una turista. Niente le era estraneo e tuttavia non riusciva a riconoscere alcun particolare. Le venne spontaneo stringere il suo braccio debole a quel braccio forte. L’abito era morbido, di un tessuto pettinato, sicuramente costoso. Alzò gli occhi (l’uomo era alto) e gli sorrise. Anche lui sorrise, sebbene questa volta avesse aperto un po’ le labbra. La ragazza poté vedere un dente d’oro. Non domandò il nome della città. Fu lui ad informarla: “Montevideo”. La parola cadde in un vuoto profondo. Niente. Assolutamente niente. Ora percorrevano una via stretta, con piastrelle sollevate e lavori in corso. Gli autobus passavano vicino al ciglio e a volte schizzavano acqua fangosa. Lei si passò una mano sulle gambe per pulirsi alcune gocce scure. Si accorse allora di non avere le calze. Si ricordò della parola calze. Guardò in alto e vide dei vecchi balconi, con panni stesi e un uomo in pigiama. Stabilì che le piaceva quella città. “Siamo arrivati”, disse l’uomo chiamato Roldán accanto ad una porta a due ante. Lei passò per prima. Nell’ascensore, l’uomo premette il bottone del quinto piano. Non disse una parola, ma la guardò con occhi inquieti. Lei contraccambiò con uno sguardo pieno di fiducia. Quando lui tirò fuori la chiave per aprire la porta dell’appartamento, la ragazza notò che nella mano destra portava una fede e un altro anello con una pietra rossa. Non riuscì a ricordare come si chiamavano le pietre rosse. Nell’appartamento non c’era nessuno. Appena si aprì la porta, arrivò da dentro una folata di odore di prigione, di confino. L’uomo chiamato Roldán aprì una finestra e la invitò a sedersi su una delle poltrone. Poi portò bicchieri, ghiaccio, whisky. Lei ricordò le parole ghiaccio e bicchiere. Non la parola whisky. Il primo sorso di alcool la fece tossire, ma lo gradì. Lo sguardo della ragazza percorse i mobili, le pareti, i quadri. Stabilì che l’insieme non era armonico, ma si trovava nella miglior disposizione d’animo e non si scandalizzò. Guardò un’altra volta l’uomo e si sentì a suo agio, al sicuro. Magari non ricordassi mai nulla del passato, pensò. In quel momento l’uomo fece una risata che la spaventò, “Ora dimmi, gattamorta. Ora che siamo soli e tranquilli, eh, mi dirai chi sei”. Lei tossì di nuovo e spalancò smisuratamente gli occhi. “Gliel’ho già detto, non mi ricordo”. Le sembrò che l’uomo stesse cambiando vertiginosamente, come se ogni volta fosse meno elegante e più rozzo, come se 236 ELEONORA CASALINI da sotto il fermacravatta o l’abito di tessuto pettinato, gli iniziasse a spuntare una spessa volgarità, un’inaspettata antipatia. “Miss Amnesia? Vero?” E questo che cosa significava? Lei non capiva niente, ma sentì che iniziava ad aver paura, quasi tanta paura di questo assurdo presente come dell’ermetico passato. “Ehi, miss Amnesia”, l’uomo scoppiò in un’altra risata omerica, “ lo sai che sei proprio originale? Ti giuro che è la prima volta che mi capita una cosa del genere. È una nuova moda o cosa?” La mano dell’uomo chiamato Roldán le si avvicinò. Era la mano dello stesso braccio forte che lei aveva preso spontaneamente là in piazza. Ma in realtà era un’altra mano. Villosa, ansiosa, quasi quadrata. Immobilizzata dal terrore, capì che non poteva far niente. La mano si avvicinò alla scollatura e cercò di introdurvisi. Ma c’erano quattro bottoni che rendevano difficile l’operazione. Allora la mano tirò verso il basso e ne saltarono via tre. Uno di questi rotolò a lungo fino ad andare a sbattere contro il battiscopa. Finché si sentì il rumorino, rimasero entrambi immobili. La ragazza approfittò di quella breve attesa involontaria per balzare in piedi, con il bicchiere ancora in mano. L’uomo chiamato Roldán le saltò addosso. Lei sentì che il tipo la spingeva verso un ampio divano rivestito di verde. Diceva soltanto: “Gattamorta, gattamorta”. Si rese conto che l’orribile fiato del tipo si soffermava prima sul suo collo, dopo sul suo orecchio, infine sulle sue labbra. Avvertì che quelle mani forti, ripugnanti, cercavano di toglierle i vestiti. Sentì che soffocava, che non ce la faceva più. Allora notò che le sue dita stringevano ancora il bicchiere da whisky. Fece un altro sforzo sovrumano, si sollevò leggermente, e colpì con il bicchiere, senza lasciarlo, il viso di Roldán. Questo indietreggiò, vacillò un po’ e alla fine cadde accanto al divano verde. La ragazza fu cosciente di tutta la sua paura. Scavalcò il corpo dell’uomo, allentò finalmente la presa sul bicchiere (che cadde su un tappetino, senza rompersi), corse verso la porta, l’aprì, uscì sul corridoio e scese spaventata i cinque piani. Per le scale, ovviamente. Per strada poté sistemarsi la scollatura, grazie all’unico bottone sopravvissuto. Iniziò a camminare rapidamente, quasi a correre. Spaventatissima, piena di angoscia, anche di tristezza e pensando continuamente: Devo dimenticarmene, devo dimenticarmene. Riconobbe la piazza e riconobbe la panchina in cui era stata seduta. Adesso era vuota. Perciò si sedette. Uno dei piccioni sembrò osservarla, ma lei non era in condizione di fare alcun gesto. Aveva solo un pensiero ossessivo: Devo dimenticare, mio Dio fa che mi dimentichi anche di questa vergogna. Buttò la testa all’indietro ed ebbe l’impressione di svenire. Quando la ragazza aprì gli occhi, si sentì sbigottita dal suo sconcerto. Non ricordava niente. Né il suo nome, né la sua età, né il suo indirizzo. Vide che la sua gonna era marrone e che la camicetta, sulla cui scollatura mancavano tre bottoni, era color crema. Non aveva la borsetta. Il suo orologio da polso segnava le sette e venticinque. Era seduta sulla panchina di una piazza con alberi, una piazza che al centro aveva una vecchia fontana, con angioletti e LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 237 qualcosa come tre piatti paralleli. Le sembrò orribile. Dalla sua panchina vedeva negozi, grandi insegne. Poté leggere: Nogaró, Cine Club, Porley Muebles, Marcha, Partido Nacional. Niente. Non ricordava niente. Tuttavia, provava una sensazione di sollievo, di serenità, quasi d’innocenza. Aveva la vaga impressione che questo era meglio di qualunque altra cosa, come se si lasciasse alle spalle qualcosa di abietto, di terribile. La gente passava accanto alla panchina. Con bambini, ventiquattrore, ombrelli. Ad un certo punto qualcuno si separò da quella sfilata interminabile. Era un uomo sulla cinquantina, ben vestito, impeccabilmente pettinato, con una ventiquattrore nera, fermacravatta e un cerottino bianco sopra l’occhio. Sarà qualcuno che mi conosce?, pensò, e temette che quell’individuo la portasse di nuovo nel suo passato. Si sentiva così felice nel suo confortevole oblio. Ma l’uomo si avvicinò e domandò semplicemente: “Si sente bene, signorina?”. Lei lo osservò a lungo. Il viso del tipo le ispirò fiducia. In realtà, tutto le ispirava fiducia. Vide che l’uomo le porgeva la mano e sentì che diceva: “Il mio nome è Roldán, Félix Roldán”. Dopotutto, il nome era il meno. Perciò si alzò e le venne spontaneo stringere il suo braccio debole a quel braccio forte. Jules e Jim Fu un sabato pomeriggio, nel bel mezzo della siesta, che ricevette la prima telefonata. Ancora mezzo intontito, aveva allungato il braccio fino al telefono, e una voce maschile, né troppo grave né troppo acuta, aveva inaugurato il ciclo di minacce con quello che poi sarebbe diventato un ritornello: salve, Agustín, ti uccideremo, non sappiamo se entro questa settimana o la prossima, l’unica cosa certa è che ti uccideremo; arrivederci, Agustín. Quella volta lo stupore non gli permise di dire né pronto né chi parla, ma la successiva, sempre di sabato pomeriggio, riuscì almeno a chiedere perché, e gli risposero lo sai bene, non fare lo stupido. Da allora per Agustín era terminata la siesta del sabato. Pensò a motivi politici, economici, sentimentali. Ma nessuno gli fornì una pista mediamente affidabile. La sua attività politica nel ’71 si era limitata ai comitati di base ed era stata decisamente scarsa. Condivideva le preoccupazioni e gli atteggiamenti di quella bella e vivace combriccola, ma non sopportava le accese ed interminabili discussioni fino a mezzanotte, di modo che si dileguava non appena si presentava l’occasione buona. Aveva indubbiamente apportato il suo contributo, aiutato in quello che poteva, ma non si era considerato mai un autentico militante. Dopo il colpo di stato, era semplicemente sparito. D’altro canto, la sua vita commerciale non era fonte di invidia né di avversione. Aveva pochi impiegati nella modesta ferramenta che aveva ereditato dal padre e non c’erano mai stati problemi con il personale. Due degli 238 ELEONORA CASALINI impiegati vivevano come lui a Pocitos e più di una volta si erano incontrati alle riunioni del comitato di quartiere. Soltanto che loro rimanevano sempre fino al termine delle discussioni e il giorno seguente, al lavoro, lui non si azzardava a chiedere a quale conclusione fossero arrivati, semplicemente perché non gli era mai piaciuto che nella ferramenta venisse introdotta la politica. Quanto alle donne, il suo celibato, che sulla soglia dei quaranta stava diventando inespugnabile, non gli impediva di avere una relazione pressoché stabile con una vecchia amica di sua sorella (quella che adesso viveva a Maldonado, sposata con un dentista), della quale aveva ritrovato il fascino dell’età matura quasi cinque anni prima durante un viaggio a Buenos Aires. A partire da quel piacevole legame con Marta, aveva rinunciato al suo instabile e spesso pericoloso sfarfallare degli anni passati. Perciò nemmeno il settore privato poteva essere terreno fertile per risentimenti o ricatti. In ambito familiare non aveva problemi. Tutti i suoi parenti, non molto numerosi, vivevano sparsi in città e paesi dell’interno: gli zii a Paysandú, la madre a Sarandí del Yi, le due sorelle e una cugina a Maldonado. Venivano raramente nella capitale, e lui, da parte sua, quasi senza rendersene conto, aveva diradato sempre di più le visite. All’inizio non prese sul serio la nuova situazione. Si disse che erano finiti ormai i duri tempi del ’72 o del ’73, quando simili anomalie potevano avere ragioni e pretesti molto diversi e persino verosimili. C’era la possibilità che si trattasse di uno scherzo, ma quale dei suoi pochi amici poteva essere tanto pesante da continuare per varie settimane un gioco così oscuro. Un ricatto forse, ma quale nemico poteva essere tanto sadico da infastidirlo in modo così immorale e sinistro. E inoltre chi poteva non sapere che la ferramenta dava da vivere e niente di più. Fatto sta che aveva deciso di non abbandonare l’appartamento il sabato pomeriggio. Il suo motto personale, adatto alle circostanze, era che al sadismo di chi lo minacciava lui rispondeva con il suo masochismo da minacciato. Ma tale ostinazione aveva una logica: se fosse scomparso il sabato, la prevedibile risposta del fantasma aggressore sarebbe consistita nello spostare la telefonata intimidatoria al martedì o al venerdì. Fu così che il mondo iniziò ad avere un altro colore ed un altro ritmo per Agustín. La mattina, per andare alla ferramenta, non usava più la macchina. Sebbene dall’inizio si fosse rassegnato all’idea che, se qualcuno stava programmando di farlo fuori, ogni precauzione sarebbe stata inutile, aveva comunque adottato alcune misure fondamentali, elementari. Per esempio, viaggiare in autobus. Camminava per un isolato e mezzo e prendeva il 121, che raramente arrivava strapieno, per cui viaggiava comodo. Tuttavia lo accompagnava un numero sufficiente di passeggeri per cui il presunto nemico ci avrebbe pensato due volte prima di far fuoco. Ma perché avrebbe dovuto LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 239 proprio sparargli? Qualcuno avrebbe potuto eliminarlo, ad esempio, in un ascensore, mettiamo quello del suo palazzo, tra il secondo e il terzo piano, o magari viceversa, e dal momento che nemmeno quest’ipotesi era da scartare, iniziò ad usare l’ascensore solo quando lo divideva con altri abitanti del palazzo. E se l’autore delle telefonate fosse stato proprio un abitante del palazzo? Per una settimana scese gli otto piani di scale a piedi, ma non gli fu difficile ammettere che, nelle ore di scarso viavai, un’aggressione tra un piano e l’altro poteva non essere del tutto assurda. Di modo che tornò ad usare l’ascensore. Carmen, la donna che gli veniva a cucinare e a fare le pulizie tre volte a settimana, stava con lui dal ’70 ed era assolutamente di fiducia, ma nonostante tutto le fece discrete domande riguardo l’ex marito (è più di un anno che non ne so niente, signor Agustín) o il fratello (se n’è andato in Australia, cos’altro poteva fare poveretto, un operaio specializzato come lui e qui a braccia conserte). In base ad un vecchio accordo, Carmen non veniva né il sabato né la domenica, per cui non le era mai capitato di rispondere a una di quelle telefonate, e nemmeno Agustín gliene aveva parlato, forse perché pensava che avrebbe potuto spaventarsi e piantarlo in asso. D’altra parte, Marta non veniva mai nel suo appartamento. Agustín aveva sempre preferito andare da lei, al Cordón, e sebbene gli avesse domandato perché ora veniva senza macchina, lui si era appellato soltanto al rialzo della benzina. In fin dei conti, che cosa risolveva trasmettendole la sua preoccupazione. Nonostante tutto, in una relazione tanto regolare e senza rotture come quella della quasi coppia che loro costituivano, ogni corpo impara a riconoscere i turbamenti e le tensioni dell’altro, senza bisogno di gesti o parole, e questo fu esattamente quello che avvertì il bel corpo di Marta. Lui menzionò il lavoro, la crisi, i creditori, le piccole svalutazioni, mah. Ma tre giorni dopo e per la prima volta in cinque anni, Agustín fu un fallimento a letto e, anche se Marta fece appello alle sue migliori risorse di comprensione e di tenerezza, non osò dirle che i suoi pensieri si allontanavano spesso da quel seno e quel pube, tanto attraenti come al solito. Andare e tornare. Sorvegliare e sentirsi sorvegliato. A volte si infilava nel cinema ma non riusciva a concentrarsi sul film, a meno che non contenesse minacce e attentati, crimini e sequestri. E quando questo succedeva, allora se la svignava al finale, non voleva sapere se la vittima moriva o si liberava. In ferramenta, soltanto una volta ci fu una telefonata sospetta. Toccò a Luis, il cassiere. Era una voce di uomo, ha chiesto di lei, signor Agustín, gli ho detto che stava servendo una cliente, e allora ha risposto che non importava, che l’avrebbe chiamato come sempre a casa sua, sabato pomeriggio, ma non ha voluto lasciare il nome, mi è sembrato un po’ strano. E lui, che non si preoccupasse, che sapeva già chi era, e il sabato alle tre e mezza la solita 240 ELEONORA CASALINI voce chiamò per ripetere il ritornello: salve, Agustín, ti uccideremo, non sappiamo se entro questa settimana o la prossima, l’unica cosa certa è che ti uccideremo; arrivederci, Agustín. Lui non riattaccava mai subito, lasciava che la voce completasse il suo messaggio, ma nemmeno faceva domande, non voleva che l’altro lo umiliasse di nuovo con quello strambotto, lo sai bene, non fare lo stupido. Ai tempi pretelefonici (come lui li chiamava, con strana nostalgia), i pomeriggi che non andava da Marta, rientrava nel suo appartamento, si faceva una doccia, si serviva un drink, accendeva il giradischi. In campo musicale, c’erano due cose che lo attraevano e lo rilassavano: gli assolo di chitarra e le canzoni latinoamericane. Fino al ’72 aveva ascoltato quasi quotidianamente Viglietti, Los Olimareños, Zitarrosa, Soledad Bravo, Alicia Maguiña, Mercedes Sosa. Dopo che le cose si erano complicate, li ascoltava meno e sempre con gli auricolari. Non voleva che alcuni nuovi vicini (i porteños del settimo, i boriosi del nono) traessero conclusioni politiche dai suoi gusti musicali. Ma, da quando erano iniziate le telefonate, non aveva voglia di sedersi ad ascoltare niente, né chitarra né canzoni, niente. La doccia sì, il drink pure, ma invece di Narciso Yepes o Víctor Jara, preferiva un secondo drink o a volte un terzo. Fino a quel martedì pomeriggio quando, mentre chiudeva la ferramenta, si imbatté per caso in Alfredo Sánchez, non aveva parlato con nessuno del suo problema. Per dieci anni non aveva avuto notizie di Sánchez, ma il fatto di averlo incontrato e la soddisfazione che l’altro a sua volta lo avesse riconosciuto, lo allontanarono dalla sua abituale discrezione. Andarono in un bar, parlarono a lungo, si aggiornarono. Sánchez era stato suo compagno di classe ai tempi del liceo Rodó, quando Agustín otteneva voti brillanti ed era l’orgoglio dei professori e soprattutto delle professoresse, e Sánchez invece veniva promosso a fatica, sempre con qualche debito scolastico, ma salvandosi alla fine, solo dopo aver pagato l’odioso prezzo di non andare in vacanza per studiare come un dannato. Agustín aveva sempre avvertito la silenziosa invidia di Sánchez, o forse quello che lui credeva fosse invidia o risentimento ed era soltanto timidezza, introversione, pochezza. Agustín si offriva di aiutarlo, lo invitava a studiare e a ripetere insieme, ma Sánchez, orgoglioso e quasi antipatico, rifiutava sempre. In seguito, durante il biennio preuniversitario, dato che Agustín si era deciso a prendere chimica e Sánchez giurisprudenza, si erano visti meno e forse per questo il loro rapporto aveva seguito un corso più normale. Anni dopo, e senza che Agustín ricordasse se ci fosse stato un motivo concreto, le loro vite si erano biforcate. Ora, mentre ripercorrevano per filo e per segno i rispettivi cammini, Agustín notava una curiosa contraddizione e ne parlava senza ambagi al compagno ritrovato: lui, Agustín, l’ex brillante, non aveva nemmeno terminato il biennio preuniversitario (alla morte del padre aveva dovuto farsi carico LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 241 della ferramenta e non aveva potuto più proseguire gli studi, oppure gli era semplicemente passata la voglia vedendo che la sua situazione economica si normalizzava) e Sánchez, invece, lo studente che sembrava mediocre e andava avanti a stento, adesso era avvocato, aveva uno studio con due soci di prima classe, forniva consulenze a importanti imprese nazionali e straniere, era insomma qualcuno molto più altolocato del modesto negoziante di ferramenta. Inoltre, Sánchez si era sposato, aveva tre figli, due femminucce e un maschietto, gli mostrò le foto, bella moglie, meravigliosi bimbi. Agustín, invece, scapolo incallito (non aveva motivo di menzionare Marta) nel senso che la solitudine lo aspettava, acquattata, implacabile e paziente, che ci si può fare. E fu dopo tanto conversare, tanto ricordare vecchi professori e compagni di classe (Casenave è morto, lo sapevi?, e Polipo, quello di matematica, se ne andò negli Stati Uniti e lì è un’autorità, e la cicciona Moreno si è sposata con un arbitro di calcio, chi lo avrebbe mai detto), fu dopo tanta amicizia recuperata che Agustín aprì le saracinesche della confidenza e per la prima volta raccontò a qualcuno il suo tormento personale. Sánchez gli dedicò una tale attenzione che Agustín gliene fu grato di tutto cuore. E la conclusione di tutta la storia (a questo punto non so più cosa fare, sono disorientato, ed inoltre, a te posso confessarlo, ho paura) trovò il sorriso sincero, stimolante, del nuovo Alfredo. Così non puoi andare avanti, assolutamente no, e si fermò un attimo a pensare, con lo sguardo fisso sulla parete. Senti, se sono passate sette settimane e continuano a chiamarti e non ti è successo niente, la cosa più probabile è che si tratti di uno scherzo o semplicemente di qualcuno che ha voglia di rompere le palle. In questi casi, uno provoca una paura reale, ma, ed è logico che sia così, uno ne inventa ancora dell’altra. Tu che sei sempre stato un intenditore di musica, conosci un tango di Eladia Blázquez che parla delle paure che inventiamo? Los miedos que inventamos / nos acercan a todos. Ah, non sono d’accordo. Queste paure che inventiamo sono le più pericolose. Te ne devi liberare, e al più presto, perché le paure che inventiamo sono le uniche che ci possono far impazzire. Agustín, è stata una fortuna incontrarti, o che tu mi abbia incontrato, perché ti tirerò fuori dalla trappola. Questo sabato verrai con me. Passo sempre il fine settimana con la mia famiglia in una graziosa casetta che possiedo in periferia, quasi in campagna. Non mi piace la spiaggia, sai, troppa gente, troppo rumore. Sono un tipo da praticello e non da sabbia. Proprio questo sabato la mia famiglia non può venire e non mi piace stare da solo, perciò tu vieni con me e non se ne parla più. Lì hai libri, musica, carte, quadri, televisore. Hai bisogno di un fine settimana senza sussulti. Così si misero d’accordo. Quel sabato, poco dopo mezzogiorno, dopo aver abbassato la serranda del negozio, lo passò a prendere Sánchez in una fiammante Mercedes. Pranzarono in un ristorantino mezzo nascosto della Ciudad Vieja. Non lo conosce nessuno, disse Sánchez in tono quasi 242 ELEONORA CASALINI cospiratore, ma qui si mangia meravigliosamente bene. Ad Agustín non sembrò tanto meraviglioso, ma apprezzò il gesto e l’invito. Si sentiva bene, per la prima volta in diverse settimane. Raccontare a Sánchez la sua assurda storia era stato per lui quasi come averla superata. Si sentiva più libero, quasi sereno. Ehi, meno male che ti ho incontrato, stavo quasi per ricoverarmi, non so se in nosocomio, in manicomio o in obitorio. Non dire scemenze, disse Sánchez, e lui non poté far altro che ridere. La strada era una bolgia, come ogni sabato pomeriggio, ma Sánchez non si scomponeva. Che ti piace ora in campo musicale? La musica classica? Sì, soprattutto chitarra. E quanto alle canzoni? Beh, quelle del Rio de la Plata, quelle latinoamericane. Ah. Viglietti? Chico? Los Olima? Silvio y Pablo? Sì, mi piacciono tutti. Dimmi Agustín: in campo musicale sei sempre stato mezzo sovversivo. Non tanto, dai, inoltre adesso è difficile procurarsi questi dischi. Certo, ma io me li procuro, ho i miei mezzi, che ti pare. La casetta non era proprio una casetta, bensì una splendida casa, con giardino ed un recinto in legno, abbastanza alto. Per i cani, sai, gli spiegò Sánchez. I cani. Erano davvero impressionanti. In presenza dell’estraneo gli si avventarono addosso mostrando la loro mirabile dentatura, ma Sánchez li richiamò alla calma: Jules! Jim! Occorre avere questi animali, non c’è altra soluzione, ci sono stati molti furti e rapine nella zona, e inoltre qui siamo troppo isolati, meglio prevenire. Si è preso l’incarico di addestrarli mio cugino il commissario (ehi, non pensar male) e perciò sono una garanzia, meglio di qualunque arma o allarme. C’è un vecchio che viene tutti i pomeriggi (cammina quasi per un chilometro, ma dice che gli fa bene) a dar loro da mangiare. Tranne il fine settimana, perché veniamo noi. Quando passò, non troppo tranquillo, tra Jules e Jim (è il mio modesto omaggio a Truffaut, ricordi il film, a me piacque molto), Agustín rimase sbalordito dalla loro grandezza. E li tieni sempre sciolti? Certo, alla catena non mi servirebbero. Inoltre, se stiamo qui noi, noi della famiglia, obbediscono e non attaccano, ma quando vengo con i bambini ed escono a giocare in giardino, allora sì li lego, non si sa mai. All’interno la “casetta” era molto confortevole. Sánchez gli mostrò la stanza che gli aveva destinato e gli dette abiti leggeri, affinché si cambiasse, mah credo che abbiamo la stessa taglia, poi se fa freddo accendiamo la stufa. Mentre Sánchez versava i drink, niente meno che Chivas, Agustín si mise ad osservare i libri, i dischi, le cassette. Ce n’erano per tutti i gusti. Chi l’avrebbe mai detto che quel ragazzino taciturno, mezzo tardo con i numeri, quasi ipocondriaco, con gli anni si sarebbe trasformato in questo tipo aperto, scafato, comprensivo, che sapeva vivere, e che aveva perfino iniziato a curarlo dalla sua paura inventata? Senti, Agustín, con le minacce succede come con i cani feroci: se hai paura, ti saltano addosso. Se invece li affronti con serenità, allora ti rispettano. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 243 Quando squillò il telefono, ad Agustín quasi cadde il bicchiere dalle mani. Sánchez avvertì la sua inquietudine, tranquillo, amico, qui non ti chiamerà nessuno, anche se è sabato. Rispose lui stesso, ascoltò con aria stupita e non preoccuparti, esco subito, intanto chiama il medico per guadagnare tempo. Sembrava più infastidito che preoccupato. Che succede. Niente, niente, stanotte il più piccolo dei ragazzi aveva un po’ di febbre ma adesso gli è salita improvvisamente a quasi quaranta. È abbastanza delicato, sai, per cui ogni volta che si ammala mia moglie si spaventa da morire. Cavolo che peccato, devo andarmene. Vengo via con te, disse Agustín. Assolutamente no, tu rimani qui, a rilassarti, tranquillo, a recuperare le forze, a leggere quello che vuoi, ad ascoltare la chitarra (ho Segovia, Julien Bream, Carlevaro; Yepes, Williams, Parkening, puoi scegliere) o a fare quello che ti pare. Nessuno sa che sei qui, per cui nessuno ti chiamerà. Qui c’è il frigorifero, pieno di carne, verdura, frutta, bibite, da poter mangiare per una settimana come un papa. Ma ad ogni modo vengo a prenderti al massimo domani pomeriggio. Una cosa però, non uscire in giardino. Per via dei cani, capisci, ti salterebbero addosso, per questo le finestre hanno le inferriate, qui starai tranquillo. Hai bisogno di riposo. E di tranquillità. Carpe diem. Sánchez raccolse rapidamente la borsa, il basco, il mazzo di chiavi, che aveva lasciato su un tavolinetto. Prima di uscire gli dette un mezzo abbraccio. Spero che non abbia niente il bambino, disse Agustín. Non preoccuparti, guarirà, conosco già questi alti e bassi, è più lo spavento di mia moglie che la febbre del piccolo. Ma devo andare. E, mentre stava uscendo, mi hai detto che ti piacciono gli Olima, no? Guarda, su quello scaffale c’è la loro ultima cassetta. Donde arde el fuego nuestro. Me l’hanno mandata da Barcellona alcuni amici. Te la consiglio, soprattutto il lato B, dove c’è Ta’ llorando, che farebbe commuovere persino le pietre. Inoltre è clandestina, dunque sei un privilegiato, non te la perdere. Chiuse la porta con un colpo secco. Agustín sentì i latrati dei cagnoni (Jules! Jim! Buoni! Basta!) e poi la Mercedes che partiva. Era un po’ sconcertato per l’inaspettato cambiamento di programma. Nonostante tutto, si preparò a passarsela nel miglior modo possibile. Povero Sánchez, con tutta la buona volontà che ci aveva messo affinché lui si rimettesse. Rimase a finire di sorseggiare il secondo Chivas e ad osservare ad uno ad uno i quadri. In realtà erano riproduzioni (Miró, Torres García, Pollock, Chagall) ma eccellenti. Era necessario fare i conti. All’improvviso prende una decisione. Se riesce a liberarsi dalle paure inventate e, naturalmente, anche da quelle reali, sposerà Marta. Lo spaventò un rumore alla finestra e riconobbe, dietro le inferriate, le teste impressionanti di Jules e Jim. Non abbaiavano, lo guardavano semplicemente con fissità, come per puntare un bersaglio. Quei mastini non erano certo 244 ELEONORA CASALINI un simbolo di ospitalità, per cui iniziò ad osservare i dischi e le cassette. Che stupido, non aveva chiesto a Sánchez il suo numero di telefono in città, per chiamarlo più tardi e chiedergli notizie del bambino. Nonostante tutto, sebbene ancora con un po’ di diffidenza, si avvicinò al telefono e sollevò la cornetta. Non dava segni di vita. Si vede che con l’ultima chiamata si è guastato. Meglio, così sono sicuro che quello del sabato non chiama. Tornò alle cassette. Ne scelse una di Segovia ed anche quella de Los Olimareños che gli aveva consigliato Sánchez. Inserì quella del chitarrista e premette il tasto play. Con la cassetta in una mano ed il bicchiere nell’altra, continuò ad osservare il repertorio mentre ascoltava: Fantasia, Suite, Omaggio alla tomba di Debussy, Variazioni su un tema di Mozart. La chitarra suonava calda ed accogliente in quell’ambiente che, per quanto era impeccabile, sembrava che non ci avesse mai vissuto nessuno prima. Approfittò di quella pace (turbata solo dalla vista di Jules e Jim alla finestra) per esaminare l’inquietudine dei suoi ultimi e penultimi sabati. Domani, quando Sánchez verrà a prenderlo, gli dirà che, grazie a lui, già si sente libero da Los Miedos Que Inventamos. Gli resta solo la Paura Reale, ma adesso ha l’impressione che questa sia meno grave, più governabile. La chitarra termina grave e malinconica e lo stereo si ferma automaticamente. Estrae la cassetta di Segovia e mette quella de Los Olimareños (controlla bene che sia il lato B) ma prima di premere di nuovo il tasto play, si serve un altro Chivas e ne beve un lungo sorso. È comoda e simpatica la casetta, ah ah, dell’amico Sánchez, dell’amicone Alfredo Sánchez. Cazzo, sono ubriaco, si dice notando che l’enorme scaffalatura sta diventando sempre meno nitida, mescolando i suoi colori. Come sarà questa Ta’ llorando? Preme finalmente il tasto, c’è uno spazio di ronzante silenzio, e poi il formidabile impianto stereofonico si limita a dire: salve, Agustín, ti uccideremo, non sappiamo se entro questa settimana o la prossima, l’unica cosa certa è che ti uccideremo; arrivederci, Agustín. Patto di sangue Ormai nessuno mi chiama più per nome: Ottavio. Tutti mi chiamano nonno. Compresa mia figlia. Quando, come me, si hanno ottantaquattro anni, cos’altro si può chiedere. Non chiedo niente. Sono stato e continuo ad essere orgoglioso. Tuttavia, già da diversi anni mi sono abituato a stare sulla sedia a dondolo o a letto. Non parlo. Gli altri credono che non possa parlare, perfino il medico lo crede. Ma io posso parlare. Parlo durante la notte, monologo, naturalmente a voce molto bassa, affinché non mi sentano. Parlo solamente per assicurarmi di poterlo fare. In fin dei conti, a che scopo? Fortunatamente, posso andare al bagno da solo, senza aiuto. Quei sette LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 245 passi che mi separano dal lavandino o dal water, posso ancora farli. Ma non farmi la doccia. Questo non potrei farlo senza aiuto, ma per la mia igiene generale viene una volta a settimana (vorrei fosse più spesso, ma a quanto pare costa molto caro) l’infermiere e mi lava sul letto. Non lo fa male. Lo lascio fare, non c’è altra soluzione. È più comodo e inoltre ha una tecnica eccellente. Quando alla fine mi passa un asciugamano umido e freddo sui testicoli, sento che mi fa bene, salvo in pieno inverno. Mi fa bene, anche se, chiaramente, nessuno può resuscitare il morto. A volte, quando vado al bagno, guardo allo specchio le mie vergogne e non c’è termine più appropriato. Le mie vergogne. Barba di capra, ecco cosa sono. Ma confesso che l’asciugamano freddo dell’infermiere mi fa sentire meglio. È la cosa più simile al “bagno vitale” che mi raccomandò un naturista una sessantina d’anni fa. Era un vecchietto magro, completamente canuto, con uno sguardo inespressivo ma saccente e una voce neutra eppure affabile. Mi fece sedere di fronte a lui, mi dette un’occhiata che non durò più di un minuto, e iniziò immediatamente a scrivere a macchina, una vecchia Remington che sembrava un tram. Era la mia scheda di nuovo paziente. Man mano che scriveva, leggeva il testo ad alta voce, probabilmente per verificare se intendevo controbattere. Era incredibile. Tutto quello che diceva era esattamente vero. Due volte il morbillo, una volta la rosolia e un’altra la scarlattina, difterite, tifo, da bambino ha fatto molta ginnastica, meno male perché altrimenti oggi avrebbe problemi respiratori; varici premature, ernia inguinale riassorbita, buona dentatura, eccetera. Prima di quel giorno non mi ero reso conto di avere tante malattie tutte insieme. Ma grazie a quel tipo e ai suoi consigli, di lì a poco iniziai a migliorare. Il peggio arrivò più tardi, con il passare degli anni. Anni. Non esiste naturista né mediconzolo che te li tolga. Ora che devo starmene tutto il giorno tranquillo e in silenzio (tranquillo, per imposizione; in silenzio, per vocazione), il mio passatempo consiste nel ripercorrere la mia vita, alla continua ricerca di qualche dettaglio che credevo dimenticato e tuttavia era nascosto in qualche meandro della memoria. Con gli occhi quasi sempre lacrimosi (non di pianto ma di vecchiaia) osservo il palmo delle mie mani. Non conservano più il ricordo tattile delle donne che ho accarezzato, però sì che le ho ancora in mente, posso scorrere il loro corpo come fosse un film e fermare l’immagine a mio piacimento per fissarmi su un collo (sarà quello di Ana?) che mi ha sempre turbato, su un seno (sarà quello di Luisa?) che per un anno intero mi ha fatto credere in Dio, su un vitino (sarà quello di Carmen?) che richiamava le mie braccia che a quel tempo erano forti, su un pube di muschio biondo che chiamavo mio vello d’oro (sarà quello di Ema?) e che appariva sia nei miei sogni (cespuglio di lussuria) che nei miei incubi (una sorta di Moloch che mi divorava per sempre). È strano, spesso ricordo alcuni dettagli di un corpo ma non il viso o il nome. Tuttavia, altre volte ricordo un nome ma non so a quale 246 ELEONORA CASALINI corpo corrispondesse. Dove saranno quelle donne? Saranno ancora vive? Le chiameranno nonne, soltanto nonne, e non ci sarà nessuno che le chiami per nome? La vecchiaia ci sprofonda in una specie di anonimato. I quotidiani spagnoli dicono, o dicevano: è morto un anziano di sessant’anni. Che cretini. Quale categoria ci riservano allora a noi, ottuagenari peccatori? Macerie? Ruderi? Spauracchi? Quando avevo sessant’anni ero tutto tranne che un anziano. In spiaggia giocavo a racchettoni con gli amici dei miei figli e li battevo facilmente. A letto, se l’interlocutrice svolgeva degnamente il suo ruolo nel dialogo corporale, io svolgevo perfettamente il mio. Nel lavoro non voglio dire che ero il migliore ma di sicuro ero parte integrante del gruppo. Mi sono saputo divertire, è vero, ma senza offendere Teresa. Ecco un nome che ricordo insieme al corpo. Certo che è quello di mia moglie. Siamo stati uniti tante volte, nel dolore ma soprattutto nel piacere. Lei, finché ha potuto, ha saputo come fare. È possibile che immaginasse che io facevo le mie scappatelle, non mi ha mai fatto una scenata di gelosia, quelle porcherie che corrodono la convivenza. In compenso, ho sempre fatto attenzione a non offenderla, a non farla vergognare, a non metterla in ridicolo (principale dovere di un buon marito), perché questa è una cosa davvero imperdonabile. L’ho amata, chiaramente con un amore differente. Era in qualche modo il mio complemento, e sapeva placare i miei momenti di rabbia. Sufficiente. Le ho dato tre maschi e una femmina. Sufficiente. L’attacco d’asma che se l’è portata via è stato il prologo del mio infarto. Aveva sessantotto anni ed io settanta. Ovvero sono passati quattordici anni. Non sono tanti. Lì è iniziata la mia bassa marea. E ancora continua. Con chi parlo? Mi risulta che per mia figlia e mio genero sono un peso morto. Non voglio dire che non mi vogliano bene, ma forse me ne vogliono come si può voler bene a un mobile d’antiquariato o a un orologio a cucù oppure (di questi tempi) a un forno a microonde. Non dico che sia ingiusto. Voglio soltanto che mi lascino pensare. La mattina presto viene mia figlia e non mi dice come va papà bensì come va nonno, come se non provenisse dal mio preistorico spermatozoo. A mezzogiorno viene mio genero e dice come va nonno. Detto da lui non è un errore ma una dimostrazione d’affetto, che apprezzo come conviene, dato che lui deriva da un altro spermatozoo, probabilmente italiano giacché si chiama Aldo Cagnoli. Bene, mi sono ricordato il nome completo. All’una e all’altro rispondo sempre con un sorriso, un usuale cenno del capo ed uno sguardo, lacrimoso come al solito, ma intelligente. Questo lo sto dicendo a me stesso, di modo che non si tratta di vanità né di presunzione o di civetteria senile, cosa che oggi è molto di moda. Dico intelligente semplicemente perché è così. Ho anche l’impressione che ringrazino il Signore che io non possa parlare (così credono). Immagino che pensino: quanta chiacchiera di vecchio ci stiamo risparmiando. E d’altra parte, peggio per loro. Perché so che potrei raccontar loro cose interessanti, ricordi che sono storia. Cosa ne sanno delle LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 247 due guerre mondiali, delle prime Ford T, dei giochi olimpici del Colombes, della morte di Batlle y Ordóñez, dell’addio a Rodó quando partì per l’Italia, dei festeggiamenti in occasione del Centenario. Dal momento che ne parlo soltanto con me stesso, non c’è motivo per cui debba rispettare l’ordine cronologico, meno male. Cosa ne sanno, eh? Soltanto una notizia, o una nota a piè di pagina, o una citazione nella tiritera di un politico. Niente di più. Ma l’atmosfera, la gente nelle strade, la tristezza o la gioia sui volti, il sole o la pioggia sulla folla, il tetto di ombrelli in Piazza Cagancha quando l’Uruguay batté l’Italia per tre a due alle semifinali di Amsterdam e la cronaca della partita non arrivava come adesso via satellite ma a mezzo telegramma (Attacco uruguaiano; l’Italia concede corner; gli italiani pressano sulla porta difesa da Mazali; Scarone tira deviato, ecc.). Non ne sanno niente e peggio per loro. Quando mia figlia viene e mi dice come va nonno, io dovrei dirle ti ricordi quando venivi a piangere sulle mie ginocchia perché il figlio del vicino ti aveva detto ehi negretta e tu credevi che fosse un insulto poiché sapevi di essere bianca, ed io ti spiegavo che il figlio del vicino ti diceva così solo perché avevi i capelli scuri, ma che comunque, se tu lo fossi stata davvero, non ci sarebbe stato niente di cui vergognarsi perché gli uomini di colore, all’infuori della pelle, sono uguali a noi e possono essere tanto buoni o tanto cattivi quanto noi bianchissimi. E smettevi di piangere sulle mie ginocchia (i pantaloni rimanevano bagnati, ma io ti dicevo non preoccuparti, piccola mia, le lacrime non macchiano), uscivi di nuovo a giocare con gli altri bambini e facevi sprofondare il figlio del vicino in una crisi esistenziale dicendogli, con tutto il disprezzo dei tuoi sette anni: ehi bianchino. Potrei ricordartelo, ma a che scopo. Forse diresti, ah nonno, con che scemenze te ne esci adesso. Probabilmente non lo avresti detto, ma non voglio rischiare una simile umiliazione. Non sono scemenze, Teresita (ti chiami come tua madre, si vede che la fantasia non era il nostro forte), io ti ho insegnato alcune cose ed anche tua madre. Però perché quando parli di lei dici, quando mamma era ancora viva, e invece a me chiedi come va, nonno. Forse, se fossi morto prima di lei, oggi diresti, quando papà era ancora vivo. Il fatto è che, nel bene o nel male, papà vive, non parla ma pensa, non parla ma sente. L’unico che a buon diritto mi chiama nonno è, naturalmente, mio nipote, che si chiama Ottavio come me (a quanto pare, nemmeno mia figlia e mio genero avevano molta fantasia). E questa è la chiave di tutto. Quando lo chiamo Ottavio. Lo chiamo. Perché mio nipote è l’unico essere umano con cui parlo, oltre che con me stesso, naturalmente. È iniziato tutto un anno fa, quando Ottavio aveva sette anni. Una volta stavo con gli occhi chiusi e, credendomi solo, ho detto a voce non molto alta ma udibile, cazzo, mi fanno male i reni. Ma non ero solo. Senza che me ne accorgessi era entrato mio nipote. Ma nonno, stai parlando, ha detto con un allegro stupore che mi ha commosso. Gli ho domandato se c’era qualcuno in casa e dato che ha 248 ELEONORA CASALINI risposto di no, che non c’era nessuno, gli ho proposto un patto. Da un lato lui avrebbe mantenuto il segreto del fatto che io potessi parlare, e dall’altro io gli avrei raccontato storie che nessuno conosceva. Va bene, ha detto, ma dobbiamo suggellarlo con il sangue. È uscito ed è tornato quasi subito con una lametta da rasoio, una bottiglietta d’alcool e un pacco di cotone. Se la cava molto bene ed inoltre conosce queste procedure da quando gli hanno fatto una serie di iniezioni di un vaccino antiallergico. Con tutta tranquillità mi ha fatto un minuscolo taglietto e se ne è fatto uno anche lui, entrambi sul polso, quanto basta per far uscire qualche goccia di sangue, poi abbiamo unito le nostre piccole ferite e ci siamo abbracciati. Ottavio ha inumidito il cotone con un po’ d’alcool, lo ha appoggiato su entrambi i segni segreti finché non è uscito più sangue ed è corso via a riporre tutto il suo strumentario nella valigetta dei medicinali. Da allora, ogni volta che rimaniamo soli in casa, cosa che succede spesso, lui viene da me affinché, per adempiere al patto, gli racconti storie sconosciute, inedite. Quando mia figlia e mio genero escono, gli dicono abbi cura del nonno, e lui risponde di sì, con un gesto di fastidio per dissimulare, ma mi fa subito un occhiolino complice, e non appena si sente lo sbattere della porta che garantisce la nostra intimità, prende una seggiola, la sistema vicino alla mia sedia a dondolo o al mio letto in attesa delle mie storie, che, come esigenza irrinunciabile del nostro patto di sangue, devono essere completamente nuove. E qui nasce il mio problema, perché trascorro buona parte della giornata con gli occhi chiusi, come se dormissi, ma in realtà immaginando la prossima storia prestando attenzione persino ai minimi dettagli, giacché se in una storia precedente la volpe si era ferita una zampa in una trappola e ora se ne va correndo a caccia di galline, Ottavio mi fa subito notare che non ha ancora avuto tempo di guarire e a quel punto devo improvvisare un errata corrige orale e dove ho detto corre deve dire zoppica. E se il vecchio stregone della montagna era rimasto calvo a forza di frustare quotidianamente gli gnomi del bosco e in una storia successiva si pettinava specchiandosi nella laguna, Ottavio osserva subito, ma come, non era calvo? E qui posso tirarmi fuori dai guai più facilmente, giacché lo stregone, per il semplice fatto di essere stregone, può, con una magia, recuperare i capelli. E mio nipote mi domanda se nel caso in cui rimanga pelato, anche lui potrà recuperare i capelli. Tu no, lo disilludo, perché non sei né sarai uno stregone. E lui dice che peccato e ha un po’ ragione, perché se io fossi stato uno stregone anche io mi sarei fatto ricrescere i capelli che ho perso irrimediabilmente prima dei cinquanta. Non sono io l’unico a narrare, anche lui mi racconta quello che succede a scuola, per strada, in televisione, allo stadio. È tifoso del Danubio e si meraviglia del fatto che io tifi Wanderers. Cerco di fare del proselitismo, ma evidentemente non c’è nessuno in grado di trasformarlo in un transfuga. Allora gli racconto vecchie partite o giocate celebri, come quando Piendibeni segnò il celebre gol al divino Zamora, o LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 249 quando il monco Castro usava a tradimento il suo moncherino in area di rigore, o quando lo smilzo García mantenne la sua porta inviolata (certo che i difensori erano nientemeno che Nazassi e Domingos da Guía) per un girone e mezzo, o quando Ghiggia segnò il gol della vittoria al Maracanà, o quando o quando o quando, e mi ascolta come fossi un oracolo ed io penso che fortuna poter ancora parlare per suscitare in lui questo stupore ed in me tale gioia. La verità è che non ricordo come erano i miei figli quando avevano l’età di Ottavio. Il maggiore è morto. Quanto tempo fa è morto Simón? È successo dopo la morte di Teresa. Alla fin fine, che importanza ha la data? È morto, punto e basta. Non ha avuto figli, credo, o li avrò dimenticati? Non sono mai sicuro dei miei vuoti di memoria, che a volte sono immensi. Il secondo, Braulio, ne ha avuti, ma vivono tutti a Denver, cosa ci sarà andato a fare lì? La verità è che non ricordo. A volte manda delle foto, scattate con la sua incantevole Polaroid, o alcune cartoline, con un abbraccio al Vecchio. Sono io. Lui non mi chiama nonno, mi chiama Vecchio. Accidenti che differenza. Ammetto che una volta mi ha spedito una radio a transistor. Ancora ce l’ho e a volte l’ascolto. Ma spesso resta senza pile e dovrei chiederle. Ma non chiedo niente. Non chiedo mai niente. Riconosco di essere un orgoglioso di merda, ma ormai sono incorreggibile, non è vero? In fin dei conti, chi se la prende in quel posto sono io, perché se la radio avesse sempre le pile, potrei ascoltare qualche partita, non molte perché in genere gli speaker mi annoiano con il loro falso entusiasmo ed i loro errori di sintassi. Potrei anche ascoltare il Sodre quando trasmettono musica classica, l’unica che sopporto. Quanta gioia ho provato la sera che ho potuto ascoltare il Septimino. Ne avevo il disco tempo fa, vai a sapere che fine ha fatto. Magari il problema delle pile potrebbe risolversi, senza intaccare il mio maledetto orgoglio, dicendolo a mio nipote, affinché, per adempiere al nostro patto di sangue e conservare il nostro segreto, dica a mia figlia, guarda la radio del nonno, non ha le pile, e a quel punto lo manderanno a prendermele alla ferramenta che sta all’angolo. È sufficiente questo. Io le so collocare, anche se a volte le metto al contrario e la radio non funziona. In certi casi ho impiegato un buon quarto d’ora a trovare la posizione giusta delle quattro pile da 1,5 volt, ma fa lo stesso, mi serve per distrarmi un po’. Cos’altro posso fare? Leggere, ormai non posso. Televisione, nemmeno. Ma ascoltare la radio o cambiarle le pile, sì. Il mio terzo figlio si chiama Diego e vive in Europa, insegna a Zurigo, mi sembra, sa persino il tedesco. Ha due figlie che come lui sanno il tedesco, ma non sanno lo spagnolo. Che cazzata, vero? Diego scrive meno di Braulio, nonostante la sua specialità sia la letteratura, ma, naturalmente, la letteratura svizzera. Anche lui a Natale manda un biglietto, dove le bambine scrivono i loro saluti in tedesco. Io non conosco il tedesco, soltanto un po’ d’inglese per difendermi nella corrispondenza commerciale, della quale io stesso mi 250 ELEONORA CASALINI occupavo quando ero direttore de La Mercantile del Sud, Importazioni ed Esportazioni. Per intenderci, frasettine del tipo I aknowledge receipt of your kind letter, o Very truly yours, quanto basta affinché dall’altra parte possano rispondere Dear sirs, o Gentlemen. Anche mio figlio minore a volte mi manda qualche regalino, per esempio un portachiavi svizzero in oro 18 carati. In quell’occasione ho sorriso, come per dire che carino, ma in realtà pensando che tonto, cosa me ne faccio io di un portachiavi in oro 18 carati, se sto qui mezzo prostrato. Di modo che i miei contatti con il mondo si limitano a mia figlia, quando entra e mi dice come va nonno, a mio genero quando fa la stessa cosa, di tanto in tanto al medico, all’infermiere quando viene a lavarmi le palle ormai in pensione ed il resto di questo corpo del delitto. Bene, e soprattutto, c’è mio nipote, che credo sia l’unica cosa che mi mantenga vivo. O meglio, mi ci manteneva. Perché ieri mattina è venuto da me, mi ha dato un bacio e mi ha detto nonno, vado per 15 giorni a Denver dallo zio Braulio, perché ho ottenuto dei bei voti e mi sono guadagnato queste vacanze. Io non potevo parlare (e non so se avrei potuto, perché avevo un nodo in gola) dal momento che nella mia stanza c’erano anche mia figlia e mio genero e né io né mio nipote avremmo violato il nostro patto di sangue. Perciò ho contraccambiato il bacio, gli ho stretto la mano, ho avvicinato per un istante il mio polso al suo come testimonianza di quello che entrambi sapevamo, e so che lui ha capito perfettamente quanto ne avrei sentito la mancanza poiché non avrei avuto più nessuno a cui raccontare storie inedite. E se ne sono andati. Ma tre o quattro ore dopo è entrato di nuovo Aldo, soltanto Aldo, e mi ha detto guardi, nonno, che Ottavio non se n’è andato per quindici giorni ma per un anno o forse di più, vogliamo che studi negli Stati Uniti, così impara da bambino la lingua e riceverà una formazione che gli sarà molto utile. Non glielo ha detto perché nemmeno lui lo sapeva. Non volevamo che si mettesse a piangere, perché le vuole molto bene, nonno, me lo dice sempre, e so che anche lei gliene vuole, non è così? Glielo diremo per lettera, ma mio cognato inizierà a parlargliene. Ah, un’altra cosa. Quando ci aveva già salutati, è tornato indietro e mi ha detto, dai un bacio al nonno e che sappia che sto rispettando il nostro patto. E se ne è andato di corsa. Di che patto si tratta, nonno? Ho chiuso gli occhi per pudore, benché dal momento che lacrimo sempre, nessuno sa mai quando sono davvero lacrime, e ho fatto un gesto con la mano come per dire: cose da bambini. Lui si è tranquillizzato e mi ha abbandonato, mi ha lasciato da solo con il mio abbandono, perché adesso sì che non ho nessuno, nemmeno nessuno con cui parlare. Tutto questo mi ha colto di sorpresa. Ma magari è la cosa migliore. Perché adesso ho davvero voglia di morire. Come conviene ad un rottame di ottantaquattro anni. Alla mia età non è bene aver voglia di vivere, perché ad ogni modo la morte arriva e ti coglie di sorpresa. A me no. LA VARIEDAD DE LA VIDA EN CUATRO CUENTOS DE MARIO BENEDETTI 251 Adesso ho voglia di andarmene, portando via con me tutto questo mondo che ho in testa e i dieci o dodici racconti che già avevo preparato per Ottavio, mio nipote. Non mi ammazzerò (con che cosa?), ma non vi è niente di più sicuro del voler morire. L’ho sempre saputo. Uno muore quando veramente vuole morire. Sarà domani o dopodomani. Non molto più tardi. Nessuno lo saprà. Né il medico (si è forse mai reso conto del fatto che potevo parlare?) né l’infermiere né Teresita né Aldo. Se ne renderanno conto soltanto quando mancheranno cinque minuti. Probabilmente Teresita dirà in quel momento papà, però ormai sarà tardi. Ed io invece non dirò addio, soltanto un saluto con l’ultimo sguardo. Non dirò addio, affinché un giorno Ottavio, mio nipote, sappia che neanche in quel difficile momento ho infranto il nostro patto di sangue. E me ne andrò con le mie storie da un’altra parte. O da nessuna. 252 ELEONORA CASALINI Note 1 Benedetti, M., La sirena viuda, Madrid, Santillana Ediciones Generales, 2002, cubierta. Benedetti, M., Cuentos completos, Madrid, Alfaguara, 1994, cubierta. 3 Laffitte, B., “Mario Benedetti reconoce en su Congreso que ninguna dictadura ha caído por un soneto”, en La Verdad, 14 de mayo de 1997 (www.ua.es/dossierprensa). 4 Mataix, R., “Mario Benedetti, un autor comunicante”, (www.cervantesvirtual.com). 5 (Idem). 6 Benedetti, M., “Los novios”, (Montevideanos, 1959), en Cuentos, Madrid, Alianza Editorial, 2002, pp.82–104. “Miss Amnesia”, (La muerte y otras sorpresas, 1968), “Jules y Jim”, (Geografías, 1984), “Pacto de sangre”, (Depistes y franquezas, 1989), en La sirena viuda, Madrid, Santillana Ediciones Generales, 2002, pp.79–86, 129–143, 203–216. 7 Benedetti, M., “Poesía, alma del mundo” (www.cervantesvirtual.com). 8 GALIANA, J.J.M., “No se puede mirar al futuro, sin saldar cuentas” , en El País, 5 de julio de 1998 (www.ua.es/dossierprensa). 9 Benedetti, M., La sirena viuda, Madrid, Santillana Ediciones Generales, 2002, cubierta. 2 Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228110 pag. 253–279 Mercedes Ariza Propuesta de traducción interidiomática de Errante en la sombra de Federico Andahazi1 Introducción El objetivo del presente trabajo es analizar los problemas de traducción que plantea la novela musical Errante en la sombra (2004) de Federico Andahazi2 . Este texto no solo presenta dificultades relativas a la cultura y sociedad argentina, sino también a las peculiaridades lingüísticas de la variedad argentina porteña y, en particular, al fenómeno del lunfardo. Para llevar a cabo nuestro estudio nos basamos en el vaciado terminológico de las palabras y expresiones localizadas en la parte inicial y en el primer capítulo del texto original (TO). En concreto, nuestro corpus de referencia consta de un total de 36 términos; en cada caso se presentan las definiciones sacadas de las fuentes lexicográficas analizadas. Asimismo, con el objetivo de mantener en el texto meta (TM) las mismas señas de identidad del TO, proponemos algunas estrategias de traducción a partir del esquema establecido por Malingret3 para el trasvase de las obras literarias. Unidad y diversidad: la riqueza del español En la enseñanza del español como lengua extranjera y, en particular, en la formación de futuros traductores e intérpretes resulta fundamental que estudiantes y docentes aboguen por una dimensión panhispánica de la lengua, ya que la riqueza del español reside en su unidad y diversidad. Según recuerda Moreno Fernández4 , «no hay un solo modelo, manifestación ni uso de la lengua española» porque los hispanohablantes pueden tener orígenes geolingüísticos y sociolingüísticos muy diversos así como los estudiantes que aprenden español pueden necesitarlo para fines muy diferentes y utilizarlo en distintas regiones hispánicas. De ahí que todas las variedades geolectales y sociolectales sean susceptibles de ser llevadas a la enseñanza5 . Por otra parte, el futuro traductor o intérprete deberá reconocer y comprender las 254 MERCEDES ARIZA variedades dialectales que la vida profesional le podrá ofrecer en diferentes ámbitos, como la inmigración y el comercio internacional, puesto que el español se habla en más de veinte países6 . Por su parte, el profesor desempeña un papel determinante a la hora de sensibilizar al estudiante acerca del mosaico multicultural y lingüístico del mundo hispánico. Es más, el aprendiz de traductor o intérprete debe ser consciente de las diferencias entre las variantes internas del español no solo desde un punto de vista lingüístico, sino también pragmático y cultural7 . En nuestro caso concreto, el análisis de Errante en la sombra podría ser una herramienta útil para acercar al estudiante a la variedad argentina porteña. Sin embargo, más allá de las connotaciones diatópicas del TO, el futuro traductor deberá determinar las marcas diastráticas y diafásicas más representativas, ya que dentro del mismo texto geolectalmente marcado suele producirse estratificación sociolectal y variación de registro. No olvidemos que el traductor siempre es ante todo un lector atento del TO, por lo cual, según recuerda Ramiro Valderrama8 , su competencia lingüística para discernir las diferentes connotaciones del texto deberá ser muy elevada. La variedad argentina porteña Desde un punto de vista fonético y fonológico el español hablado en el Río de la Plata presenta dos fenómenos principales que atañen al consonantismo: el seseo y el yeísmo. El primero, que comparte con todos los países americanos, las Islas Canarias y el sur de España, consiste en la ausencia del sonido interdental fricativo sordo /θ/, por lo cual se produce una neutralización del sonido /s/ con grafía s, y del sonido /θ/, con grafías c, z. En todas las regiones de Hispanoamérica, pues, el sistema consonántico de la lengua española consta de 18 unidades contra las 19 unidades de las regiones del centro y norte peninsulares9 . Por su parte, el yeísmo consiste en la falta del sonido palatal sonoro /λ/ y se produce con fuerte rehilamiento en el área del Río de la Plata. Este fenómeno no es común a todos los países de América, puesto que el fonema palatal lateral se conserva en partes de Colombia, Ecuador, Perú, Bolivia y en Paraguay10 . Con respecto al nivel morfosintáctico, el rasgo peculiar de la variedad argentina es el voseo que consiste en el empleo del pronombre vos como tratamiento de segunda persona singular en lugar de tú de las zonas de tuteo. En particular, en Argentina la modalidad más generalizada es la que combina el voseo pronominal y el verbal: vos llegás. El paradigma verbal propio de la norma culta está constituido por formas voseantes con reducción del diptongo en el presente de indicativo, esto es, un voseo de tipo monoptongado ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 255 (cantás, comés, vivís); por las formas voseantes propias del imperativo (cantá, comé, viví) y por formas tuteantes para el resto de los tiempos verbales como es el caso del presente de subjuntivo voseante ames, temas, partas11 . En los países del Río de la Plata el voseo goza de total aceptación en la norma culta, tanto en la lengua escrita como en la oral, y ha sido explícitamente aceptado como legítimo por la Academia Argentina de Letras. Sin embargo, existe una serie de reglas tácitas en la comunidad argentina que señalan grados de aceptabilidad y expresividad y regulan su uso diastrático y diafásico12 . En Argentina así como en todas las demás zonas voseantes de América o que alternan voseo y tuteo, destaca la reducción del paradigma pronominal, puesto que no existe la forma plural peninsular vosotros sustituido por ustedes con valor de segunda persona del plural. Por ello, encontramos solo cinco desinencias verbales, tres en singular y dos en plural. En regiones voseantes: –o, –ás/ –áis, –a, –amos, –an; en las tuteantes: –o, –as, –a, –amos, –an13 . Finalmente, la variedad argentina rioplatense comparte con las demás zonas dialectales americanas los siguientes fenómenos morfosintácticos14 : — Pronominalización de los verbos: amanecerse, tardarse, recordarse, etc.; — Preferencia de uso del pretérito indefinido por pretérito perfecto; — Preferencia de uso del futuro analítico (voy a hacer) sobre el sintético (haré); — Preferencia de las formas en –ra del imperfecto y pluscuamperfecto de subjuntivo (amara, hubiera amado); — Preferencia de perífrasis con gerundio en lugar de las formas verbales simples: está entrando por entra; — Adverbialización de adjetivos: canta bonito, habla lindo, pega duro; — Uso frecuente de acá y allá en lugar de aquí y allí; Con respecto al léxico del español de Argentina, aparte de la presencia de americanismos, marinerismos e indigenismos típicos del español del Río de la Plata y el Chaco15 , destaca el fenómeno lingüístico del lunfardo, una parte insoslayable de la cultura popular porteña16 . El lunfardo: de lengua del delito a habla coloquial rioplatense Tras su “fase primitiva o histórica”17 , el lunfardo (del romanesco lombardo: ladrón)18 es, hoy en día, un repertorio léxico difundido transversalmente en todas las capas sociales del territorio bonaerense. Este conjunto de vocablos y expresiones, que utiliza el hablante en abierta oposición a las formas canónicas registradas en los diccionarios del español corriente, es la seña de 256 MERCEDES ARIZA identidad del habla coloquial rioplatense. Según recordaba Gobello19 hace décadas, el porteño cuando empieza a entrar en confianza con su interlocutor opta por palabras como guita, faso o mina, lo cual le brinda «un minúsculo placer vengativo y una juguetona desobediencia a los preceptos de la cultura predominante»20 . El lunfardo se originó del contacto entre el español rioplatense y los dialectos italianos tras la oleada migratoria de finales del siglo XIX y principios del XX que llevó a la Argentina a más de 2,3 millones de italianos21 . Sin embargo, este vocabulario fue aglutinando un número extraordinario de términos procedentes de otras lenguas como el caló de los gitanos españoles, diversos afronegrismos, lusitanismos, anglicismos e incluso algunas palabras derivadas del polaco como papirusa22 . Actualmente, según explica Conde23 , todo lunfardismo debe considerarse un argentinismo, pero de ninguna manera podría decirse lo contrario, ya que en cada provincia argentina se utilizan términos de creación local, en muchos casos deudores de sustratos lingüísticos aborígenes como es el caso del NOA, que indudablemente son argentinismos, pero no lunfardismos. En las últimas décadas el lunfardo no solo ha tenido una difusión extraordinaria por todo el país gracias a los medios de comunicación, sino también ha alcanzado gran notoriedad por el mundo. Por su parte, la Academia Argentina del Lunfardo impulsa desde 1952 la salvaguardia de las peculiaridades del habla de la ciudad de Buenos Aires así como de otras ciudades argentinas y rioplatenses24 . Análisis del TO: nuestro corpus de referencia Ambientada en Buenos Aires a principios del siglo XX, la novela Errante en la sombra (2004) narra la historia de Juan Molina, «el mejor cantor de tangos después de Gardel». Los protagonistas tararean viejas milongas y bailan al ritmo del bandoneón por las calles de Buenos Aires y al borde del Riachuelo en los tugurios sórdidos del puerto. En particular, los personajes entretejen sus diálogos a través de las letras de célebres tangos que pululan de voces lunfardas como chamuyada, minusas, queda muzzarela el más taura, este gil, parla que parla. Dichas expresiones plantearán más de un quebradero de cabeza al traductor que deba trasvasar las marcas diafásicas y diastráticas de estos términos al italiano, idioma que carece de un repertorio lingüístico semejante. Es más, según recuerda Moreno Fernández25 , el uso de cierta forma léxica siempre viene acompañado de valoraciones o connotaciones particulares por parte del hablante. Por otro lado, el narrador que teje el hilo argumental utiliza muy pocos lunfardismos, aunque, como era de esperar, recurre a numerosos americanis- ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 257 mos/argentinismos como cuadra, cartera, manejar, apurarse, cobijas, vereda, prendido. Además se expresa mediante un registro más literario (urgían, conjeturar, expirar), creándose, de esta manera, una evidente contraposición con el tono coloquial del lunfardo. A continuación presentamos los 36 términos que integran nuestro corpus de referencia, presentados en orden alfabético. En particular, recogemos los lunfardismos, propios del habla coloquial porteña; los americanismos, términos empleados en Hispanoamérica y los argentinismos, vocablos de uso común en Argentina, pero que no deben considerarse voces lunfardas26 . Lunfardismos 1) bocón — bocón, –ona. Charlatán. || Alcahuete, soplón. || Fanfarrón, persona que habla mucho y echa bravatas. (Dicc. Lunfardo27 ) — bocón. sust. masc y fem. (Am. Sur.) col. desp. Persona que difama a alguien. (VOX28 ) 2) curda — curdo. masc. Ebrio. (Del español familiar curda: borracho, ebrio.) (Conde29 ) — curda. || 2. fem. coloq. Borrachera. (DRAE30 ) — curda. fem. || 1. Borrachera, embriaguez. (VOX) 3) chamuyar — chamuyar. intr. Conversar, hablar en tono confidencial y persuasivo. (Del caló: chamullar: hablar) (Conde) — chamuyar. v. var. de chamullar (una persona chamuya [a] alguien) coloq. Hablarle a alguien con habilidad para lograr algo de él. [Esp.: enrollar, liar; Arg.: parlar]. Es usual, con la misma acepción, chamuyarse. || 2. (una persona chamuya con alguien) coloq. Conversar con alguien [Esp., Arg.: charlar; Arg. prosear]. (Haensch31 ) — chamuyar. (también chamullar) v. intr. (Arg. Urug.) coloq. Conversar con alguien. || 2. v. tr. (Arg. Urug.) coloq. Hablar a una persona con algún propósito. (VOX) 4) funyi — funyi. masc. Sombrero (Del italiano jergal fungo: sombrero, en cruce con el genovés funzi: hongos) (Conde) 258 MERCEDES ARIZA — funyi. masc. coloq. hum. Cualquier tipo de sombrero. (Haensch) 5) gil — gil. adj. Tonto, cándido, ingenuo. (Del español gilí: tonto, lelo, seguramente por cruce con el apellido español Gil) (Conde) — gil. adj. (Arg. y Ur.) Dicho de una persona: simple (|| incauta) (DRAE) — gil. sust. y adj. Persona que da muestras de ingenuidad, poco entendimiento o falta de viveza. [Esp.: majadero, memo, panoli] (Haensch) 6) junar — junar. tr. Observar, mirar fijamente (Del caló junar: escuchar) (Conde) — junar. coloq. Mirar con atención (Haensch) 7) minusa — minusa. fem. forma afectiva de mina. (|| Mujer. (Del italiano jergal mina: mujer) (Conde) — minusa. col. desp. hum. Mujer [Arg.: minarda] (Haensch) 8) parlar — parlar. v. intr. Hablar, charlar. (Del italiano parlare: hablar, ya que no parece tratarse del español parlar: hablar con desembarazo) (Conde) — parlar. (una persona parla [a] alguien) col. Hablarle a alguien con habilidad para lograr algo de él. [Esp.: liar, Arg.: chamuyar]. Es usual, con la misma acepción, parlarse. (Haensch) — parlar. v. intr. coloq. Hablar o charlar, en especial con desenvoltura o desembarazo y de cosas sin importancia. (VOX) 9) patifuso — patifuso. adj. Patidifuso. (por síncopa) (Conde) — patidifuso. adj. coloq. Que se queda parado de asombro. (DRAE) — patidifuso. adj. Asombrado por lo extraordinario o lo inesperado de algo que se ve o se oye. (Moliner32 ) — patidifuso. coloq. Asombrado, sorprendido o lleno de extrañeza (Clave33 ) ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 259 10) patotero — patotero. masc. y fem. Integrante de una patota. (|| fem. Grupo de personas unidas con un objeto determinado. || 2. Grupo de personas que suele darse a provocaciones, desmanes y abusos en lugares públicos, integrado por lo general en su origen por miembros de la clase alta. (Por alusión al español pato, animal que habitualmente se mueve en bandada) (Conde) — patotero. masc. (Am. Sur) Joven que es miembro de una patota. [Persona] que manifiesta una conducta agresiva y provocadora hacia los demás. (VOX). — patotero. adj. (Arg., Bol., Par., Perú y Ur.) Que manifiesta o posee los caracteres propios de una patota. || 2. masc. y fem. (Arg., Bol., Par., Perú, Ur. y Ven.) Integrante de una patota. || fem. (Arg., Bol., Par., Perú, Ur. y Ven.) Grupo, normalmente de jóvenes, que suele darse a provocaciones, desmanes y abusos en lugares públicos. || 2. (Arg., Perú, Ur. y Ven.) Pandilla (|| grupo de amigos, generalmente jóvenes) (DRAE) — patotero. sust. y adj. Joven que forma parte de una patota. (|| grupo de jóvenes que se divierten causando daños materiales o agrediendo a las personas en la vía pública.) || 2. Persona que tiene una actitud agresiva, intimidatorio o prepotente hacia los demás [Esp.: gamberro]. (Haensch) 11) pifiarla — pifiar. intr. y tr. Equivocarse, errar. || pifiarla: cometer un grave error. (Del español pifiar: hacer una pifia en el billar.) (Conde) — pifiar. || 6. coloq. Cometer cualquier error, descuido o desacierto. (DRAE) — pifiar. Cometer una pifia. || 2. (Am. Sur) Burla, escarnio. (Moliner) — pifiar. Errar un tiro o disparo [Esp., Arg: pifiarla; Arg.: chingarla/le, chufiarla/le] (Haensch) 12) quedarse muzza(rela) — quedarse muzza(rela). Permanecer callado. (Del italiano meridional muzzarella: cierto tipo de queso fresco; por juego paronomástico con mus [silencio]) (Conde) — quedarse muzzarela. (var. quedarse musarela) coloq. Abstenerse de hablar o actuar por conveniencia [Esp.: quedarse pasmado, Arg.: quedarse chanta, quedarse en el molde, quedarse mocho, quedarse mosa, quedarse musa, quedarse piola] (Haensch) 260 MERCEDES ARIZA 13) rante — rante. Forma aferética de atorrante. masc. Vago, callejero y generalmente sin domicilio [dado por el DRAE] || 3. Que se lo pasa de juerga en juerga. [Del verbo atorrar: dormir] (Conde) — rante. Truncamiento de atorrante/a. (|| 4. Persona que no tiene ocupación ni domicilio fijos y mendiga para vivir) (Haensch) — atorrante. 1. (Arg.) sust. y adj. Vagabundo u holgazán. 2. (Arg.) Sinvergüenza. (Moliner) — atorrante. 2. sust. y adj. masc. y fem. (Río de la Plata). coloq. desp. [persona] que evita el trabajo por comodidad. 3. sust. masc. y fem. (Río de la Plata). Persona que no tiene ocupación ni domicilio fijo y que vive de la limosna. (VOX) 14) taura — taura. masc. Jugador arriesgado. | adj. Valiente, osado, corajudo. || 2. Jactancioso (Por parágoge del español tahúr: jugador fullero) (Conde) — taura. masc. Hombre pendenciero, temido por su coraje. (Haensch) 15) yunta — yunta. de junta. fem. Compañía. (Conde) — yunta. (Am.) Amigo íntimo, de mucha confianza. sin. Compinche. || andar en yunta. (Arg. y Ur.) Expresión coloquial que indica que dos personas están siempre juntas. (VOX) — yunta. || 4. coloq. (Arg., Cuba y Ur.) Pareja de personas, de aves o de otras cosas. (DRAE) — yunta. fem. Par de mulas, bueyes, etc. que se uncen juntos. (Moliner) — yunta. fem. Pareja de dos animales o personas. (Arg.=Ur.) (Dicc. hispan.34 ) — yunta. fem. rur. Par de jinetes. || andar en yunta. (una persona anda en yunta con alguien). coloq. Acostumbrar a estar dos personas siempre juntas. (Haensch) Americanismos 16) apurarse — apurar. || 3. (no frec. en Esp., sí en Hispam.) Tr. y prnl. Meter [o darse prisa] (Moliner) ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 261 — apurar. Apremiar, dar prisa. En América, usado más como verbo pronominal. (DRAE) — apurarse. Darse prisa. (Haensch) 17) canyengue — canyengue. adj. Arrabalero, de baja condición social. (Del quimbundo ka–llengue: cierto tipo de danza) (Conde) — canyengue. adj. coloq. Que es de baja condición social y lo manifiesta en una conducta vulgar o grosera [Esp., Arg.: arrabalero]. (Haensch) — canyengue. adj. coloq. (Ur.) Reunión informal con música y baile. (VOX) 18) cartera — cartera. fem. || 2. (Hispam.) Bolso de mujer. (Moliner) — cartera. fem. || 9. (Am.) Bolso de las mujeres. (DRAE) — cartera. fem. (Am.) Bolsa de mano, generalmente pequeña y de cuero o tela, provista de cierre y frecuentemente de asa o correa, usada sobre todo por las mujeres para llevar dinero, documentos, objetos de uso personal (VOX). — cartera. fem. Bolso de cuero, tela u otros materiales, que utilizan generalmente las mujeres para llevar objetos personales. [Esp.: bolso] (Haensch) 19) cobija — cobija. fem. (Am.) Pieza grande y cuadrangular de tejido grueso y tupido que sirve para abrigar, especialmente en la cama. (VOX) — cobija. fem. (Arg., Col., Ec., Méj., R. Dom., Ur., Ven.) Manta. (Moliner) — cobija. fem. || 5. (And. y Am.) Ropa de cama y especialmente la de abrigo. || 6. (Am.) Manta (para abrigarse). (DRAE) — cobija. fem. coloq. Cualquier ropa de abrigo para la cama, especialmente una manta. (Haensch) 20) cuadra — cuadra. fem. (Am.) En un área urbana, distancia que hay entre una esquina y la siguiente. (VOX) — cuadra. fem. || 4. (Hispam.) Distancia abarcada en una calle por una manzana de casas. (Moliner) 262 MERCEDES ARIZA — cuadra. fem. En una zona urbanizada, distancia que, en una manzana, abarca desde una esquina a la siguiente. (Haensch) 21) cuero — cuero. masc. || sacar el cuero v. {una persona saca el cuero} coloq. Criticar malintencionadamente a los demás. [Esp.: rajar] (Haensch) — cuero. masc. Cutis, piel. || sacarle a alguien el cuero: difamarlo, hablar mal de él. (Del español cuero: pellejo que cubre la carne de los animales, esta expresión es equivalente a la española sacar tiras de pellejo: denigrar, hablar mal de alguien) (Conde). 22) chofer — chofer o chófer. masc. ‘Persona cuyo oficio es conducir automóviles’. Ambas acentuaciones son válidas. La forma aguda chofer [chofér] –acorde con la pronunciación del étimo francés chauffer– es la que se usa en América: «Un carrazo que manejaba un chofer uniformado de azul» (VLlosa Tía [Perú 1977]). En España se emplea la forma llana chófer. (Dicc. Panhisp.35 ) — chofer o chófer. masc. Persona que, por oficio, conduce un automóvil. (DRAE) — chofer. Persona que conduce un taxi, un autobús o el automóvil particular de un funcionario público o de una persona adinerada. [Esp.: chófer] (Haensch) — chofer. masc. (Hispam.) Chófer. (Moliner) 23) malevo — malevo, –a. (Río de la Plata) adj. y sust. Malévolo, matón, malhechor. (Moliner) — malevo. sust. masc. (Río de la Plata) Hombre pendenciero, provocador, de mal vivir y diestro en el manejo del cuchillo; su figura se convirtió en personaje de tangos y sainetes en las primeras décadas del siglo XX. (VOX) — malevo. adj. (Arg. y Bol.) De hábitos vulgares, propio de los arrabales. || 4. (Arg. y Ur.) p. us. Maleante, malhechor. || 5. masc. (Arg.) Hombre matón y pendenciero que vivía en los arrabales de Buenos Aires. (DRAE) — malevo. masc. Hombre matón y pendenciero que vivía en las orillas de Buenos Aires. (Del español malévolo: inclinado a hacer mal; por apócope) (Conde) ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 263 — malevo. masc. Hombre que se caracteriza por ser pendenciero, provocador y diestro en el manejo del cuchillo. || 2. sust. y adj. Persona de mal vivir. (Haensch) 24) manejar — manejar. (Am.) Llevar el control de un automóvil (VOX). — manejar. (Hispam.) Conducir un automóvil. (Moliner) — manejar. || 5. (Am.) Conducir (|| guiar un automóvil). (DRAE) — manejar. Saber conducir un vehículo automotor [Esp.: conducir] (Haensch) 25) pilcha — pilcha. fem. (Arg., Ur.) Prenda de vestir, especialmente si es elegante, de moda o cara. Se usa más en plural. (VOX) — pilcha. (Arg.) fem. gralm. pl. Prenda de vestir. (Moliner) — pilcha. fem. rur. (Arg., Bol., Par.) Prenda de vestir pobre o en mal estado. usado más en pl. || 3. coloq. (Arg., Perú, Ur. ) Prenda de vestir, particularmente si es elegante y cara. usado más en pl. (DRAE) — pilchas. Término de uso coloquial para referirse a las prendas de vestir [Esp.: trapos]. (Haensch) 26) prender — prender. || 6. Encender el fuego, la luz u otra cosa combustible. (DRAE) — prender. Accionar el interruptor de la luz para que dé luz un artefacto de iluminación eléctrica. [Esp.: encender]. (Haensch) — prender(se). ‘Apresar o capturar [a alguien]’, ‘sujetar(se) o enganchar(se)’ y ‘enceder(se)’. El participio verbal es prendido, y esta es la forma que debe usarse hoy en la formación de los tiempos compuestos y de la pasiva perifrástica en todas sus acepciones. (Dicc. Panhisp) — prender. || 6. (Arg., Col., Cuba, P. Rico) Encender, conectar, poner en funcionamiento. (Moliner) 27) remera — remera. fem. (Río de la Plata) Prenda de ropa interior o deportiva, ligera, de punto, de hechura recta, sin cuello y con escote de distinto tipo, de manga larga, corta o sin mangas, que cubre el cuerpo hasta la cadera o medio muslo. (VOX) 264 MERCEDES ARIZA — remera. || 2. (Arg., Par., Ur.) fem. Camiseta. (Moliner) — remera. fem. Prenda de vestir que cubre el torso, de mangas cortas y confeccionada generalmente con un tejido apropiado para los días de calor. [Esp.: camiseta] (Haensch) 28) vereda — vereda. fem. (Am. Sur, Cuba). Parte lateral de una calle o vía pública, destinada a la circulación de peatones. (VOX) — vereda. || 6. (Am. Mer.) fem. Acera de una calle o plaza. (DRAE) — vereda. || 2. (Am. Sur.) fem. Acera. (Moliner) — vereda. fem. Espacio por donde circulan los peatones, comprendido entre la calle y el límite de casas o edificios. [Esp.: acera] (Haensch) 29) vos — vos. pron. Se usa como pronombre personal de la segunda persona singular, forma tónica, como sujeto, en el tratamiento informal. [Esp.: tú] || 2. Se usa como pronombre personal de la segunda persona singular, forma tónica, precedido por preposición. [Esp.: ti] (Haensch) — vos. || 2. (Arg., Bol., C. Rica, El Salv., Nic., Par., Ur., y Ven.) Formas de segunda persona singular. Cumple la función de sujeto, vocativo y término de complemento. Su paradigma verbal difiere según las distintas áreas de empleo. En México, usado como rur. (DRAE) — vos. || 2. En gran parte de la América española sustituye a tú; su plural es ustedes. Las formas verbales con que se construye vos en la segunda acepción pueden presentar variaciones dependiendo de los distintos países y regiones. (Moliner) — vos. Pronombre personal tónico de segunda personal del singular: «Vos te equivocás, Mabel» (Fdz Tiscornia Lanas [Arg. 1986]. || 2. Frente a usted, vos es la forma empleada en Argentina y el Paraguay para el tratamiento informal; implica acercamiento al interlocutor y se usa en contextos familiares, informales o de confianza. En las áreas americanas donde coexiste con tú en la norma culta, vos suele emplearse como tratamiento informal y tú como tratamiento de formalidad intermedia. En Argentina, el Paraguay y el Uruguay las formas de voseo son aceptadas sin reserva por todas las clases sociales. La modalidad más generalizada es la que combina el voseo pronominal y el verbal: vos ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 265 llegás. En Montevideo, sin embargo, es más prestigioso el voseo exclusivamente verbal: tú llegás. El paradigma verbal propio de la norma culta está constituido por formas voseantes con reducción del diptongo en el presente de indicativo (cantás, comés, vivís), por las formas voseantes propias del imperativo (cantá, comé, viví) y por formas tuteantes para el resto de los tiempos verbales. En los países del Río de la Plata, el voseo goza de total aceptación en la norma culta, tanto en la lengua escrita como en la oral, y ha sido explícitamente aceptado como legítimo por la Academia Argentina de Letras. En lo que respecta al voseo culto rioplatense, debe tenerse en cuenta lo siguiente: a) Se prefieren las formas verbales de tuteo en el pretérito perfecto simple o pretérito de indicativo (comiste, mejor que comistes) y en el presente de subjuntivo (hagas, mejor que hagás). b) Se usan has, sos (no *sós) y vas como formas de presente de indicativo de haber, ser e ir, respectivamente. No son propios de la norma culta los presentes *habés, *habís, *soi, *vai. c) Son vulgares las terminaciones en –ís (*comís por comés) d) En el imperativo, las formas del verbo andar (andá, andate) sustituyen a las de ir. (Dicc. Panhisp.) Argentinismos 30) auto — auto. masc. (Am. Sur, Cuba, R. Dom.) Vehículo automóvil de cuatro ruedas para circular por tierra, que se dirige mediante un volante o dirección y está destinado al transporte de persona. Su uso es menos frecuente en España. (VOX) — auto. masc. (más frecuente en Hispam.) Apócope de «automóvil». (Moliner) — auto. masc. Vehículo de motor, con cuatro ruedas, especial para el desplazamiento o transporte en carreteras [Esp., Arg.: coche]. En España, coche es más frecuente que auto, mientras que en Argentina es a la inversa. (Haensch) 266 MERCEDES ARIZA 31) bacán — bacán. coloq. Persona que vive sin privaciones, gozando de los placeres y del lujo de su posición acomodada. [Arg.: cajetilla] || 2. coloq. Elegante, lujoso. (Haensch) — bacán. (Arg., Col., Ur.) Persona que vive sin privaciones y goza de una posición acomodada. (VOX) — bacán. adj. Lujoso, fino. || 2. Cómodo. (Del genovés baccan: patrón, padre o jefe de familia) (Conde) 32) corte (hacer) — corte. En el tango, figura con la que se adorna el baile, como por ejemplo el movimiento rápido de los pies describiendo un ocho mientras el cuerpo se mantiene rígido. (Haensch) — corte. Figura del baile del tango. (Conde) 33) cupé (una) — cupé. fem. Adaptación gráfica de la voz francesa coupé, ‘coche de caballos cerrado y de dos plazas’ y ‘automóvil cerrado de dos puertas y línea deportiva’: «El Opel Tigra se ha convertido en el cupé deportivo con más éxito en Europa» (Vanguardia [Esp.] 2.7.95). Su plural es cupés. Para designar el carruaje, es masculino en todo el ámbito hispánico; pero cuando designa el automóvil, es masculino en todas las zonas, salvo en Argentina, donde se usa en femenino: «La cupé Fuego se estrelló contra una columna de alumbrado» (Clarín [Arg.] 11.1.97). (Dicc. Panhisp.) — cupé. fem. Var. de coupé. Automóvil de dos puertas, con línea deportiva y con asientos delanteros individuales y rebatibles. En España, con esta cesación es masculino. (Haensch) 34) ocho (hacer) — ocho. masc. Figura coreográfica del baile del tango en la cual imaginariamente la bailarina dibuja con sus pies este número alrededor de su pareja. (Es el español ocho) (Conde) — ocho. masc. Figura coreográfica del tango, en la que, mientras el hombre permanece inmóvil, la mujer mueve las caderas y las piernas formando con sus pasos un ocho. (Haensch) 35) pibe — pibe. masc. Niño, joven. || 2. Fórmula de tratamiento afectuosa [dados ambos por el DRAE]. (Del genovés pivetto –derivado a su vez del italiano jergal pivello–: niño) (Conde) ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 267 — pibe. masc. y fem. Niño o adolescente. [Esp.: chaval] En esta acepción en España se usa con restricción jergal. (Haensch) — pibe. masc. (Arg.) Niño o muchacho. || 2. (Arg.) Es muy usado como apelativo afectuoso. (Moliner) — pibe. masc. (Arg., Bol. y Ur.) Chaval. || 2. (Arg. y Bol.) usado como fórmula de tratamiento afectuosa. (DRAE) 36) quebrada (hacer) — quebrada. Figura coreográfica de la milonga y del tango, que consiste en contornear exageradamente el cuerpo. (Haensch) — quebrada. Figura coreográfica del tango y la milonga. (Del español quebrar: doblar o torcer, cfr. el esp. quiebro: ademán que se hace con el cuerpo, como quebrándolo por la cintura) (Conde) Establecimiento de recurrencias y estrategias de traducción La dimensión lingüística Con respecto a las dificultades de tipo morfológico, el traductor se encontrará ante la imposibilidad de trasvasar las múltiples connotaciones que tiene el empleo argentino de vos36 . Tampoco será posible traducir las voces lunfardas, los americanismos y argentinismos que connotan diatópica, diafásica y diastráticamente el TO. Sin embargo, más allá de la falta de un repertorio lingüístico semejante en la lengua meta, dicha ausencia podría compensarse a través de la búsqueda de algún tipo de equivalencia diastrática o diafásica en el sistema lingüístico del italiano. De todas formas, deberán evitarse dos tendencias frecuentes en la traducción de textos literarios: por un lado, la violación de la norma lingüística del italiano mediante la simplificación de los enunciados o el empleo de interjecciones malsonantes y disfemismos37 y, por otro, la elevación del nivel de lengua a través de la variación del vocabulario y el uso de expresiones que no reflejan la misma carga semántica del TO38 . A continuación, proponemos la traducción de la Canción de Juan Molina (pág. 22) y explicaremos de qué manera hemos intentado trasvasar este texto39 : No será un cabriolé mi camión, no será una cupé, pero igual, hay que ver, cómo junan las minusas cuando ven al chofer. Non sarà una cabriolè il mio camion, non sarà un coupè fa lo stesso, bisogna vedere come sgranano gli occhi le femmine quando vedono l’autista. 268 MERCEDES ARIZA No seré del Abasto el Zorzal, no tendré yo el esmoquin de Carlos Gardel, mis pilchas serán bien rantes, pero igual, hay que ver, cómo quedan patifusas cuando canta este atorrante. Non sarò il Zorzal del quartiere Abasto, non avrò lo smoking di Carlos Gardel i miei vestiti saranno degli stracci fa lo stesso, bisogna vedere, come rimangono di sasso quando canta questo vagabondo. No será mi café el más bacán cabaret, no será el Armenoville pero igual, hay que ver, cómo queda muzzarela el más taura cuando al dar la voz de aura se pone a cantar este gil. Non sarà il mio caffè il più alla moda dei cabaret, non sarà l’Armenonville fa lo stesso, bisogna vedere, come rimane di sasso il più gradasso quando nel dare il via comincia a cantare questo scemo. No es que la voy de bocón, ya van a saber de mí, acuérdense del camión que manejaba este gil cuando allá en la marquesina, con carteles de neón, anuncien a Juan Molina en el mismo Armenonville. Non voglio fare lo spaccone, ma sentirete parlare di me, ricordatevi del camion che guidava questo scemo quando là nella pensilina con le luci al neon annunceranno Juan Molina proprio nell’Armenonville. No será un Mercedes Benz su camión, no será un Graham Paige, pero igual, hay que ver los suspiros de amor cuando vemos al chofer. Non sarà certo un Mercedes il suo camion non sarà un Graham Paige fa lo stesso, bisogna vedere i sospiri d’amore quando vediamo all’autista. No será de Venecia el Gran Canal, no será el Sena el Riachuelo, pero igual, hay que ver, cómo todo el arrabal pondrá una alfombra en el suelo cuando el pibe del camión cante en el Royal Pigalle. Non sarà di Venezia il Canal Grande, non sarà la Senna il Riachuelo fa lo stesso, bisogna vedere come tutta la periferia stenderà un tappeto in terra quando il tipo del camion canterà nel Royal Pigalle. No la voy de fanfarrón, pero acuérdense de mí, del que maneja el camión, cuando el nombre de Molina Non voglio fare lo sbruffone ma ricordatevi di me, di quello che guida il camion quando il nome di Molina ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI brille allá en las marquesinas fulgurando en el neón, del glorioso Armenonville. 269 brillerà là nelle pensiline sfolgorante nel neon del glorioso Armenonville. Como era de esperar, en la traducción al italiano no queda rastro del lunfardo. Sin embargo, hemos tratado de compensar dicha pérdida a través del uso de expresiones italianas de uso coloquial, como es el caso de fare lo spaccone, lo sbruffone, scemo. En particular, en la frase come sgranano gli occhi le femmine se ha querido introducir cierta valoración machista en virtud de las restricciones de uso del término italiano femmina frente a donna40 . Un matiz despectivo que refleja, de cierta manera, la misma carga machista del lenguaje del tango. Para trasvasar la expresión mis pilchas serán bien rantes hemos optado por i miei vestiti saranno degli stracci, puesto que en italiano para referirse a ropa de poco valor, sucia o en mal estado, suele utilizarse la palabra stracci. Es más, para referirse a una persona descuidada y que lleva ropa andrajosa, en italiano se utiliza la expresión essere uno straccione. Con respecto a la expresión lunfarda cómo queda muzzarela el más taura, hemos optado por combinar la expresión coloquial rimanere di sasso con el término gradasso para dar cuenta del comportamiento de un gallito. Finalmente, para traducir los términos atorrante y gil, hemos utilizado, respectivamente, las palabras vagabundo y scemo, ya que reflejan la misma carga semántica del TO y comparten las mismas restricciones diafásicas y diastráticas. En resumen, nuestra propuesta pretende respetar las singularidades del TO, teniendo en cuenta que en toda traducción siempre existe la posibilidad de compensar las pérdidas con las ganancias. La dimensión cultural Más allá de las dificultades lingüísticas, el trasvase de Errante en la sombra supondrá un gran desafío para el traductor por las continuas alusiones a la cultura y sociedad porteña y a la toponimia de la ciudad de Buenos Aires, que se convierte en un personaje central de la novela. La historia se desarrolla durante el alud inmigratorio que plasmó la ciudad porteña y dio origen al fenómeno del lunfardo. Por su parte, los personajes se mueven con desenvoltura en “aquella Rodas hecha de chapas y adoquines, decorada con guirnaldas de ropa colgada en los balcones y los frentes pintados con los colores estridentes de los barcos”41 . El famoso barrio de la Boca, pues, se convierte en un protagonista más de la historia y cualquier alusión a sus vivencias no pasará desapercibida a ningún porteño. Las pautas de traducción que proponemos en las siguientes páginas se desprenden de nuestro marco teórico de referencia: el estudio llevado a cabo 270 MERCEDES ARIZA por Laurence Malingret42 acerca de la traducción de las letras hispánicas al francés. Adiciones explícitas e implícitas En primer lugar, con el objetivo de acercar el encanto del Riachuelo al lector del siglo XXI proponemos recurrir al procedimiento de la adición explícita, es decir, redactar un texto introductorio para ubicar la novela en el tiempo y el espacio y explicar el origen del fenómeno del lunfardo. Al respecto, no podrán faltar unas líneas para resaltar la fama de Carlos Gardel, el símbolo del tango a lo largo y ancho del planeta, y recordar sus célebres apodos: El Zorzal, El Zorzal del Abasto, El Zorzal Criollo cuyas formas originales se mantienen inalteradas en italiano. Por otra parte, consideramos interesante incluir un plano de Buenos Aires para que el lector circule cómodamente por las plazas y avenidas de la capital, el telón de fondo de esta novela musical. Para aclarar aquellas referencias que no resulten totalmente transparentes para la cultura receptora, proponemos intervenir a través del uso de la adición implícita43 , como en los siguientes casos: a) [. . . ] con el fondo fugitivo de Buenos Aires visto desde el Plata. [. . . ] con lo sfondo fuggitivo di Buenos Aires vista dal Rio de la Plata. b) [. . . ] más tarde su fama llegó a Palermo, allá abajo, por Las Heras. [. . . ] più tardi la sua fama arrivò al quartiere Palermo, là sotto, dalle parti del viale Las Heras. c) Los techos parisinos de Retiro, [. . . ] I tetti parigini della stazione di Retiro [. . . ] Transcripción Con respecto a los problemas de traducción de onomásticos en general y de antropónimos en particular, proponemos recurrir a la transcripción en los siguientes casos: d) La obligada sentencia "el mejor después de Gardel" [. . . ] La frase d’obbligo “il migliore dopo Gardel” e) [. . . ] permítanme que evoque junto a ustedes a Juan Molina. [. . . ] permettetemi di ricordare insieme a voi Juan Molina. f) [. . . ] aunque no a la manera de Salieri. [. . . ] anche se non allo stesso modo di Salieri. Asimismo, en el ejemplo (f) sería oportuno añadir una nota explicativa para aclarar que del onomástico Salieri deriva el nombre común salieri que se emplea para indicar una persona que ocupa un lugar secundario respecto ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 271 de otra, un imitador, usado por León Gieco en su canción Los salieris de Charly (1992). Con respecto a los topónimos resulta interesante subrayar que en el TM la alusión a la Avenida de Mayo deberá permanecer sin traducción, puesto que se convierte en un nombre propio que exige la simple transcripción. Sin embargo, en el caso de vías menos importantes, el vocablo avenida se convierte en un nombre común que requiere la traducción sistemática al italiano. Además, como podemos notar a continuación, el uso de la minúscula en el TO da cuenta de esta diferente “jerarquía” toponímica: g) [. . . ] las cúpulas madrileñas de la Avenida de Mayo [. . . ] [. . . ] le cupole madrilene dell’Avenida de Mayo [. . . ] h) El auto emprende la leve cuesta de avenida Pueyrredón [. . . ] La macchina prende la dolce salita del viale Pueyrredón [. . . ] i) [. . . ] caminó por la avenida Callao [. . . ] [. . . ] camminò per il viale Callao [. . . ] En cuanto a los topónimos que no exigen traducción, presentamos los siguientes casos: j) Salían del Palais de Glace, del Armenonville, del Chantecler, los cabarets más suntuosos [. . . ] Uscivano dal Palais de Glace, dall’Armenonville, dal Chantecler, dai cabarets più lussuosi [. . . ] k) La puta más cara del Royal Pigalle, el cabaret más caro de Buenos Aires [. . . ] La puttana più cara del Royal Pigalle, il cabaret più caro di Buenos Aires [. . . ] l) Al otro lado del Riachuelo, [. . . ] el Dock Sud había comenzado su dura jornada [. . . ] Dall’altra parte del Riachuelo, [. . . ], il Dock Sud aveva cominciato la sua dura giornata di lavoro [. . . ] Sin embargo, los topónimos en general deberán traducirse siempre que tengan una forma ya consagrada en la lengua receptora44 , tal y como se desprende de los siguientes ejemplos: m) [. . . ] los colosos traídos desde Nueva York [. . . ] [. . . ] i colossi portati da New York [. . . ] n) [. . . ] cuando París era la Meca. [. . . ] quando Parigi era la mecca. o) No será de Venecia el Gran Canal, no será el Sena el Riachuelo [. . . ] 272 MERCEDES ARIZA Non sarà di Venezia il Canal Grande, non sarà la Senna il Riachuelo [. . . ] Finalmente, deberán transcribirse las siguientes palabras que son intraducibles, ya que pertenecen al patrimonio cultural e histórico de la ciudad de Buenos Aires y, en particular, al mundo del tango45 : p) [. . . ] sus pulmones suenan como el fuelle de un bandoneón desvencijado. [. . . ] i suoi polmoni suonano come il mantice di un bandoneón sgangherato. q) Haciendo ochos, cortes y quebradas, separándose, cambiando de pareja [. . . ] Facendo ochos, cortes e quebradas, separandosi, cambiando di coppia [. . . ] r) [. . . ] aquellas ilusiones se pagaban caro: quinientos pesos, más la noche de hotel. [. . . ] quelle illusioni si pagavano care: cinquecento pesos, più la notte in albergo. Adaptación Según explica Malingret46 , con la estrategia de la adaptación se persigue favorecer la integración del TO en el sistema de la cultura receptora, tal y como proponemos en los dos siguientes casos donde resulta necesario adaptar, respectivamente, una célebre marca de fasos de la época y el lugar donde se desarrolla parte de la acción narrada: s) [. . . ] tras la cortina de humo de los Marconi sin filtro. [. . . ] dietro la coltre di fumo delle sue sigarette Nazionali. t) La alta chimenea del Astillero del Plata [. . . ] Il comignolo dell’Arsenale del Rio de la Plata [. . . ] Con el objetivo de resumir las estrategias de traducción empleadas y dar cuenta del establecimiento de recurrencias presentamos el siguiente fragmento sacado de Una canción triste, la parte inicial de la novela47 : Lo suyo era cantar. No quiso otra cosa. Si alguien le preguntaba por qué no cantaba sus propios versos, solía contestar escueto: “Al César lo que es del César y a Dios lo que es de Dios–”, aunque el proverbio no revelaba cuál era el poeta y cuál el cantor. Pero lo cierto es que el pudor le aconsejaba no andar ventilando los propios tormentos. Pudo haber brillado en el Abbaye o en la Parisiana; en el Royal Pigalle o en la Boite de Charlton. O en el legendario Armenonville. Pero su paso por los cabarets fue demasiado breve y si bien llegó a pisar sus míticas ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 273 tablas, lo hizo de un modo cuanto menos inicuo. Luego solía ocultarse en algún rincón oscuro, tras la cortina de humo de los Marconi sin filtro, bajo la sombra inmensa que sobre su adolescente persona proyectaba la figura de Gardel desde el escenario. Era nato per cantare. Non aveva mai voluto nient’altro. Se qualcuno gli chiedeva perché non cantava i propri versi, rispondeva asciutto: “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”, anche se l’affermazione non svelava chi fosse il poeta e chi il cantore. Ma di certo il suo pudore gli consigliava di non sbandierare ai quattro venti i suoi tormenti. Avrebbe potuto brillare nell’Abbaye o nel Parisiana; nel Royal Pigalle o nella Boîte de Charlton. O nel leggendario Armenonville. Ma il suo passaggio per i cabaret fu troppo breve e anche se riuscì a calcarne le mitiche scene, lo fece in un modo piuttosto iniquo. Poi di solito si nascondeva in qualche angolo oscuro, dietro la coltre di fumo delle sue sigarette Nazionali, mentre con la sua immensa ombra la figura di Gardel incombeva dal palcoscenico sulla sua adolescente persona. Consideraciones finales A lo largo del presente trabajo hemos querido analizar las dificultades que plantea la traducción al italiano de la novela musical Errante en la sombra de Federico Andahazi. Este texto no solo plantea importantes desafíos por las peculiaridades lingüísticas del español hablado en Argentina, sino también por las continuas alusiones a la cultura porteña. Nuestro estudio se propone pues sensibilizar a estudiantes y docentes acerca de la riqueza y diversidad del español en aras de un planteamiento panhispánico de la lengua que otorgue la misma visibilidad y relevancia a todas y cada una de las variedades geolectales y sociolectales de nuestro idioma. 274 MERCEDES ARIZA Note 1 Este trabajo de investigación se llevó a cabo en el ámbito del curso “Variedades y traducción” impartido por el profesor Manuel Ramiro Valderrama en el marco del “Doctorado en Traducción y comunicación intercultural” de la Universidad de Valladolid (España). 2 Para mayor información acerca de la novela y de su autor, consúltese: http://www.andahazi. com/libros_errante_en_las_sombra_resena.html F. Andahazi, Errante en la sombra, Buenos Aires, Alfaguara, 2004. 3 L. Malingret, Stratégies de traduction: les Lettres hispaniques en langue française, Arras Cedex, Artois Presses Université, 2002. 4 F. Moreno Fernández, Qué español enseñar, Madrid, Arco/Libros, 2000, p.10. 5 Idem. 6 R. Lenarduzzi, «La selección de contenidos de lengua extranjera en un curso de mediación lingüística», en Mediación lingüística de lenguas afines: español/italiano, (eds.) G. Bazzocchi e P. Capanaga, Bologna, Gedit, 2006, pp.261–271. 7 M. V. Calvi, «Lingüística contrastiva y competencia intercultural en la enseñanza del español LE», en Mediación lingüística...,cit., pp.287–298. 8 M. Ramiro Valderrama,«Pautas para el estudio de las connotaciones diatópicas, diastráticas y diafásicas del texto de Cortázar Libro de Manuel», en El español de América. Actas del IV Congreso Internacional de El Español de América, Santiago de Chile, Pontificia Universidad Católica de Chile, 1995, p.1288. 9 M. Vaquero De Ramírez, El español de América I. Pronunciación, Madrid, Arco/Libros, 2003, p.24. 10 A. Torres Torres, El español de América, Barcelona, Ediciones de la Universidad de Barcelona, 2001, p.71. 11 C. Saralegui, El español americano: teoría y textos, Pamplona, Ediciones de la Universidad de Navarra, 1997; M. Vaquero De Ramírez, El español de América II: Morfosintaxis y léxico, Madrid, Arco/Libros, 2003. 12 Piénsese en la dicotomía del presente de subjuntivo vayas/vayás y en los diferentes matices expresivos que las dos formas verbales pueden adquirir en boca de un mismo hablante, que domine la lengua culta. Cfr. R. Lenarduzzi, «El voseo: uso, norma e identidad», en Palabras de acá y de allá. La identidad del español y su didáctica III, (eds.) M. V. Calvi e F. San Vicente, Viareggio, Baroni editore, 1999, pp.37–46. 13 A. Torres Torres, op.cit., p.72. 14 C. Saralegui, op.cit.; M. Vaquero De Ramírez, El español de América II: Morfosintaxis y léxico, Madrid, Arco/Libros, 2003. 15 F. Moreno Fernández, Qué español enseñar..., cit.; M. Vaquero De Ramírez, op.cit. 16 O. Conde, «Los límites del lunfardo», en Jornadas Académicas “Hacia una redefinición de lunfardo”, http://ar.geocities.com/lunfa2000/conde.html, 2002 (consulta: 28 de diciembre de 2008); N. López, «Lunfardo consolidado y lunfardo consolidándose», en Jornadas Académicas “Hacia una redefinición de lunfardo”, http://ar.geocities.com/lunfa2000/lopez.html, 2002 (consulta: 28 de diciembre de 2008). 17 S. Martorell De Laconi, «Elementos lunfardos como componentes léxicos del español hablado en Argentina, con especial referencia a Salta y Jujuy», en Actas del V Congreso Argentino de Hispanistas “El hispanismo al final del milenio”, (eds.) M. Brizuela, C. Estofán, G. Gatti, S. Perreo, Córdoba, Comunicarte, Vol. III, 1999, pp.1581–1586; S. Martorell De Laconi, «Hacia una definición del lunfardo», en Jornadas Académicas “Hacia una redefinición de lunfardo”, http://ar.geocities.com/lunfa2000/martorell.html, 2002 (consulta: 28 de diciembre de 2008). 18 O. Conde, , Diccionario etimológico del lunfardo, Buenos Aires, Taurus, 2004. 19 J. Gobello, «Nota bene», en Breve Diccionario lunfardo, Buenos Aires, Peña Lillo, 1959. ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 275 M. Teruggi, Panorama del lunfardo, Buenos Aires, Cabargón, 1974, p.42. La inmigración italiana constituye el 60 % de la cifra total de inmigrantes que llegó a la Argentina; basta recordar que en 1904 los habitantes de la ciudad de Buenos Aires eran 905.000, de los cuales 427.000 eran extranjeros y de estos 228.000 eran italianos. Cfr. J. Gobello, M. H. Oliveri, Summa lunfarda, Buenos Aires, Corregidor, 2005. 22 En virtud de las migraciones internas hacia la ciudad de Buenos Aires que tuvieron lugar en Argentina durante todo el siglo XX, el lunfardo fue enriqueciéndose también de no pocos indigenismos, como los quichuismos pucho (colilla), cache (de mal gusto) o cancha (habilidad); de términos procedentes del náhuatl o tomados del guaraní. Cfr. O. Conde, «Los límites del lunfardo», en Jornadas Académicas “Hacia una redefinición de lunfardo”, http: //ar.geocities.com/lunfa2000/conde.html, 2002 (consulta: 28 de diciembre de 2008); O. Conde, Diccionario etimológico..., cit. 23 O. Conde, Diccionario etimológico..., cit., p.14. 24 M. Ariza, «Aspectos interculturales y lingüísticos en la traducción multimedia de un poema musical. Del dialecto romañolo al lunfardo bonaerense», en inTRAlinea, Special Issue: The Translation of Dialects in Multimedia, http://www.intralinea.it/specials/dialectrans/eng_ more.php?id=743_0_49_0 ISSN 1827–000X, 2009 (consulta: 16 de agosto de 2010). 25 F. Moreno Fernández, «La variación en los niveles de la lengua», in Principios de sociolingüística y sociología del lenguaje, Barcelona, Ariel, 1998, p.29. 26 Conscientes de las dificultades de identificación y diferenciación entre lunfardismos/argentinismos y americanismos/argentinismos, hemos optado por una distinción lo más nítida posible a partir de la búsqueda de correspondencias en las fuentes lexicográficas consultadas. 27 Diccionario Lunfardo, Todo Tango, La biblioteca, http://www.todotango.com/ spanish/biblioteca/DiccionarioLunfardo.aspx?l=B, 2010. (consulta: 16 de agosto de 2010) (abrev. Dicc. Lunfardo). 28 Diccionario Aguilar España, Diccionario de uso del español de América y España, Barcelona, Vox, 2002. (abrev. VOX). 29 O. Conde, Diccionario etimológico..., cit., (abrev. Conde). 30 Real Academia Española, Diccionario de la lengua española, Madrid, Espasa–Calpe, 2001. (abrev. DRAE). 31 G. Haensch–R. Werner, Diccionario del español de Argentina. Español de Argentina– Español de España, Madrid, Gredos, 2000. (abrev. Haensch) En algunos casos este diccionario presenta las formas canónicas utilizadas en España (Esp.) y Argentina (Arg.). 32 M. Moliner, Diccionario de uso del español. Edición abreviada, Madrid, Gredos, 2000. (abrev. Moliner). 33 Clave, Diccionario de uso del español actual, Madrid, SM, 2006. (abrev. Clave.) 34 R. Richard (coord.), Diccionario de hispanoamericanismos no recogidos por la Real Academia: formas homónimas, polisémicas y otras derivaciones morfosemánticas, Madrid, Cátedra, 2000. (abrev. Dicc. Hispan.). 35 Real Academia Española y Asociación de Academias de la lengua española, Diccionario panhispánico de dudas, Madrid, Santillana, 2005. (abrev. Dicc. Panhisp.). 36 M. Ramiro Valderrama, op. cit., pp.1285–1294. 37 El interesante estudio llevado a cabo por Alessandra Melloni se refiere al análisis del cuento El lobo, el bosque y el hombre nuevo del escritor cubano Senel Paz, de la película Fresa y chocolate de Tomás Gutiérrez Alea y Juan Carlos Taibo, y su versión italiana Fragola e cioccolato. Cfr. A. Melloni, «Literatura, cine y traducción: recorridos didácticos», en La identidad del español y su didáctica, (eds.) M. V. Calvi y F. San Vicente, Viareggio, Baroni editore, 1999, 121–133. 38 L. Malingret, op.cit., p.121. 39 La traducción de las letras de los tangos plantearía ulteriores dificultades en función de la necesidad de respetar rimas, asonancias y disonancias. En nuestro caso concreto analizamos cuestiones de mera equivalencia lingüística. 20 21 276 MERCEDES ARIZA 40 N. Zingarelli, Lo Zingarelli 2005. Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2004. 41 F. Andahazi, Errante en la sombra, Buenos Aires, Alfaguara, 2004, p.21. 42 L. Malingret, op.cit. 43 Ibid., pp.91–97. 44 F. J. Hernández, «Consideraciones en torno a la traducción de los nombres propios de personas en obras literarias francesas», en Problemas de la traducción, Madrid, Fundación Alfonso X el Sabio, 1987, pp.41–44; E. Torre, Teoría de la traducción literaria, Madrid, Síntesis, 1994, pp.101–102. 45 Es interesante subrayar que estos vocablos se convertirán en xenismos para el sistema lingüístico del italiano y, por consiguiente, en el TM deberán aparecer en letra cursiva. Recordamos, pues, la importancia atribuida por Malingret (2002) al aspecto visual y maquetación del texto durante el proceso de traducción. 46 L. Malingret, op.cit., p.113. 47 Para el análisis completo, véase el Apéndice I del presente trabajo. APÉNDICE I Una canción triste Antes de que a mis espaldas se abra el telón y desde la fosa comience a sonar la orquesta, permítanme que evoque junto a ustedes a Juan Molina. En un momento habré de abandonar este viejo proscenio y cederé mi lugar a los personajes para que hablen o, mejor dicho, canten por sí solos; pero primero, déjenme que les presente a quien fuera, al decir de muchos, el más grande cantor de tangos de todos los tiempos. La obligada sentencia "el mejor después de Gardel", jamás fue proferida en su presencia, a veces por sincera convicción y las más, por puro temor. Molina suscitaba devoción, además de un respeto que obligaba a bajar la mirada. Cuando cantaba, su voz conmovía a los más duros. Y cuando hablaba cara a cara, el cigarrillo pegado a los labios, el funyi ladeado, conseguía intimidar al que tenía el cuero más curtido. Carlos Gardel marcó su albur y, ciertamente, también fue el sino de su cruz; a él le debía lo que fue, pero más aún lo que no pudo ser. Creció alumbrado por la estrella del Zorzal del Abasto y, sin embargo, vivió bajo el agobio de su sombra, aunque no a la manera de Salieri, ya que nunca le guardó rencor; al contrario, le profesó una lealtad sin condiciones. Molina jamás albergó la creencia de que el mundo estaba en deuda con él, convicción frecuente entre los espíritus anodinos que se atribuyen un talento que el resto de los mortales no alcanza a comprender. No supo del resentimiento y, pese a que su fama apenas si trascendió el perímetro del suburbio, alguna vez se creyó afortunado. No existen fotografías que lo muestren posando en Montmartre o en el Quartier Latin cuando París era la Meca. No se lo vio retratado en sepia delante del puente de Brooklyn, ni ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 277 acodado en la cubierta de algún barco con el fondo fugitivo de Buenos Aires visto desde el Plata. Pero siempre conservó una foto donde se lo veía muy joven junto a Gardel, detrás de una dedicatoria que decía: “A mi amigo y colaborador, Juan Molina”. Lo de amigo, siempre lo supo, no era más que una formalidad. Se lo conoció primero en Parque de los Patricios; más tarde su fama llegó a Palermo, allá abajo, por Las Heras, y se hizo mito al otro lado de la calle Beiró. El amor y el infortunio lo iniciaron en la poesía; sin embargo, pocos habrían de conocer sus versos amargos y melodiosos. Lo suyo era cantar. No quiso otra cosa. Si alguien le preguntaba por qué no cantaba sus propios versos, solía contestar escueto: “Al César lo que es del César y a Dios lo que es de Dios–”, aunque el proverbio no revelaba cuál era el poeta y cuál el cantor. Pero lo cierto es que el pudor le aconsejaba no andar ventilando los propios tormentos. Pudo haber brillado en el Abbaye o en la Parisiana; en el Royal Pigalle o en la Boite de Charlton. O en el legendario Armenonville. Pero su paso por los cabarets fue demasiado breve y si bien llegó a pisar sus míticas tablas, lo hizo de un modo cuanto menos inicuo. Luego solía ocultarse en algún rincón oscuro, tras la cortina de humo de los Marconi sin filtro, bajo la sombra inmensa que sobre su adolescente persona proyectaba la figura de Gardel desde el escenario. Señoras, señores, antes de que el cono de luz de este seguidor que me ilumina me abandone para posarse sobre los verdaderos protagonistas, permítanme que les adelante algo que deben saber: la vida de Juan Molina estuvo signada por la tragedia. Una tragedia que él mismo escribió. Tal vez su biografía pueda resumirse en un día y una noche. O en el nombre de una mujer. Pero sería injusto. Lo que habrán de escuchar a continuación es una canción triste y burlona que intentará desandar los pasos que condujeron a Molina hasta la noche en la que compuso su tango fatal. Alguien que se caracterizó por el conciso rigor de sus definiciones ha dicho del tango que es un sentimiento triste que se baila; y quizás, así, abandonado a este mismo sentir melancólico, conjeturando las caprichosas figuras de una coreografía algo grotesca, siguiendo con el pie el ritmo de una hipotética melodía canyengue, pueda el lector convertirse en espectador de esta historia escrita en dos por cuatro. Señoras y señores, antes de hacer mutis por el foro y dejar que los personajes canten sus verdades, antes de que se descorra este telón púrpura, un poco raído por el tiempo y el olvido, me adelanto a decir que lo que sigue es el melodrama que cuenta la historia del cantor más grande de todos los tiempos. Y me apuro a aclarar, por si acaso, después de Gardel. 278 MERCEDES ARIZA Propuesta de traducción al italiano de Una canción triste. Prima che alle mie spalle si apra il sipario e dalla fossa incominci a suonare l’orchestra, permettetemi di ricordare insieme a voi Juan Molina. Tra un attimo dovrò abbandonare questo vecchio proscenio e lascerò il mio posto ai personaggi affinché parlino o, per meglio dire, cantino da soli; ma prima, lasciatemi che vi presenti chi fu, a detta di molti, il più grande cantante di tanghi di tutti i tempi. La frase d’obbligo “il migliore dopo Gardel” non fu mai pronunciata in sua presenza, a volte per sincera convinzione e più spesso per puro timore. Molina suscitava devozione, oltre a un rispetto che obbligava ad abbassare lo sguardo. Quando cantava, la sua voce commuoveva i più duri. E quando parlava faccia a faccia, con la sigaretta incollata alle labbra ed il cappello di lato, riusciva a intimidire gli uomini dalla pelle più dura. Carlos Gardel segnò la sua sorte e, di certo, fu anche il destino della sua croce; a lui doveva ciò che diventò, ma ancora di più ciò che non poté diventare. Era cresciuto abbagliato dalla stella del Zorzal del Abasto e, nonostante ciò, era vissuto sotto la sua opprimente ombra, anche se non allo stesso modo di Salieri, visto che non gli covò mai rancore, al contrario, gli fu fedele incondizionatamente. Molina non ebbe mai la sensazione che il mondo fosse in debito con lui, una convinzione frequente tra gli spiriti anodini che si attribuiscono un talento che il resto dei comuni mortali non riesce a comprendere. Non conobbe la parola risentimento e, nonostante la sua fama riuscì appena a varcare il perimetro del sobborgo, qualche volta si ritenne fortunato. Non esistono fotografie che lo ritraggano in posa a Montmartre o nel Quartiere Latino quando Parigi era la mecca. Non fu immortalato in bianco e nero davanti al ponte di Brooklyn, nè appoggiato sulla coperta di una nave sullo sfondo fuggitivo di Buenos Aires vista dal Rio de la Plata. Ma sempre conservò una fotografia in cui lo si vedeva molto giovane insieme a Gardel, dietro a una dedica che diceva: “Al mio amico e collaboratore, Juan Molina”. L’appellativo di amico, lo seppe sempre, non era altro che una formalità. Prima lo si conobbe nel Parque de los Patricios; più tardi la sua fama arrivò al quartiere Palermo, là sotto, dalle parti del viale Las Heras e diventò una leggenda dall’altra parte della via Beirò. L’amore e la sventura lo iniziarono nella poesia; tuttavia, pochi avrebbero conosciuto i suoi versi amari e melodiosi. Era nato per cantare. Non aveva mai voluto nient’altro. Se qualcuno gli chiedeva perché non cantava i propri versi, rispondeva asciutto: “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”, anche se l’affermazione non svelava chi fosse il poeta e chi il cantore. Ma di certo il pudore gli consigliava di non sbandierare ai quattro venti i suoi tormenti. Avrebbe potuto brillare nell’Abbaye o nel Parisiana; nel Royal Pigalle o nella Boîte de Charlton. O nel leggendario Armenonville. Ma il suo passaggio per i cabaret fu troppo breve e anche se riuscì a calcarne le mitiche scene, lo fece ERRANTE EN LA SOMBRA DE FEDERICO ANDAHAZI 279 in un modo piuttosto iniquo. Poi di solito si nascondeva in qualche angolo buio, dietro la coltre di fumo delle sue sigarette Nazionali, mentre con la sua immensa ombra la figura di Gardel incombeva dal palcoscenico sulla sua adolescente persona. Signore e signori, prima che il fascio di luce di questo proiettore che mi illumina mi abbandoni per posarsi sui veri protagonisti, permettetemi di anticiparvi qualcosa che dovete sapere: la vita di Juan Molina fu segnata dalla tragedia. Una tragedia che lui stesso scrisse. Forse la sua biografia può essere riassunta in un giorno e una notte. O nel nome di una donna. Ma sarebbe ingiusto. Ciò che ascolterete di qui a breve è una canzone triste e burlona che cercherà di districare i passi che condussero Molina fino alla notte in cui scrisse il suo tango fatale. Qualcuno che si contraddistinse per il conciso rigore delle sue definizioni, ha detto che il tango è un pensiero triste che si balla; e forse chissà, così, abbandonato a questa stessa aria melanconica, immaginando le capricciose figure di una coreografia alquanto grottesca, seguendo col piede il ritmo di una ipotetica melodia canyengue, il lettore potrà diventare spettatore di questa storia scritta in un due per quattro. Signore e signori, prima che esca di scena e lasci che i personaggi cantino le loro verità, prima che si apra questo sipario rosso porpora un po’ consumato dal tempo e dall’oblio, vi dico subito che ciò che sta per cominciare è il melodramma che narra la storia del cantante più grande di tutti i tempi. E mi affretto a chiarire, semmai ce ne fosse bisogno, dopo Gardel. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228111 pag. 281–298 Claudio Mazzanti L’eclettismo nell’architettura religiosa del primo Modernismo Catalano Nella seconda metà del xix secolo, in Catalogna l’architettura appare difficilmente integrabile nel tradizionale concetto di stile; risulta interessante studiare le modalità con cui nella regione si è sviluppato il linguaggio espressivo del Movimento Modernista, che supera lo storicismo più stretto. Il Modernismo catalano rappresenta il culmine di un lungo processo, iniziato col neoclassicismo; l’architettura dell’ultimo periodo del xix secolo è il risultato di un’assimilazione non passiva, ma critica nei confronti delle forme del passato1 . Per i loro programmi, gli autori modernisti si servono di un ampio e vario campo di riferimenti storici, di cui accentuano la policromia e la ricchezza di dettagli e sfumature; decontestualizzati, questi vengono combinati con altri elementi d’ispirazione principalmente naturalistica; tutti insieme sono reinventati grazie alle libertà formali permesse dalle nuove tecnologie del mattone, del ferro o del vetro. Fra tutti i revivals, il più importante è il gotico: già rivalutato dalle idee di Viollet–le–Duc e di Rusckin, viene preferito dagli architetti premodernisti per la sua verticalità, poiché aveva rappresentato un momento cruciale dell’arte catalana, e per il suo carattere eminentemente urbano. Lo stile gotico, in particolare quello fiorito del xv e xvi secolo, apporta all’architettura modernista un ampio ventaglio di soluzioni formali, usate soprattutto come fattore di prestigio. Al fine di comprendere le molteplici trasformazioni che dalla metà del xix secolo si producono negli ambiti artistici barcellonesi, è importante considerare la realizzazione delle architetture sacre, caratterizzate da una maggiore permanenza dei canoni estetici propri della produzione eclettica ottocentesca. Nelle chiese e conventi costruiti in questo periodo, l’introduzione delle novità è più graduale, meno repentina se confrontata con l’architettura civile, rivelando come, in generale, l’evoluzione dei gusti estetici sia conseguenza di un più lento processo di trasformazione sociale e culturale, che ha origine già dall’inizio del secolo e che si sviluppa parallelamente all’evoluzione dell’insegnamento dell’architettura a Barcellona. Per svolgere gli studi universitari ed ottenere il titolo di architetto, i catalani all’inizio del xix secolo devono ancora recarsi a Madrid, perciò a 282 CLAUDIO MAZZANTI Barcellona a partire dal 1817 viene creato un nuovo programma di studio, dedicato alla definizione e allo studio delle forme architettoniche, all’interno dell’Escola d’Arts i Ofici, più nota come scuola di Llotja. L’architetto Antoni Cellers i Azcona (1755–1835), che aveva completato la propria formazione fra Madrid e Roma, elabora un articolato progetto accademico che, nel corso degli anni, arriva a proporre una solida preparazione teorica e prevede anche la possibilità di realizzare studi di carattere pratico, destinati ad una nuova generazione di professionisti. Questi tecnici vengono equiparati agli antichi mastri d’opera delle corporazioni dei muratori che da sole, fin dalla loro affermazione nel XIII secolo, hanno formato artigiani eccellenti ma del tutto sprovvisti di conoscenze tecniche moderne e di qualsiasi formazione accademica2 . Molti maestri d’opera che avevano già intrapreso un’attività professionale, si vedono obbligati ad ufficializzare il loro titolo, con un cambio nella propria produzione edilizia successiva, che arriva così ad essere una buona combinazione tra l’erudizione accademica e la maturità derivante da anni di pratica nel campo della costruzione. Partendo dal pensiero di Cellers, nella scuola di Llotja come in generale in tutte le accademie d’architettura di quel momento, si continua a ritenere l’architettura classica superiore alle altre, in quanto riunisce in sé le caratteristiche di semplicità, monumentalità ed equilibrio statico, inoltre nelle sue forme manifesta l’integrità dei materiali. Per quanto riguarda l’aspetto strutturale si studia anche l’architettura gotica, che però appare superata dalle forme estetiche proposte dal classicismo, rappresentative del prestigio e del potere. In questa direzione, molti degli architetti provenienti dalla scuola di Llotja continuano lo studio diretto delle grandi opere di epoca romana e rinascimentale, soprattutto le più vicine, come il tempio romano barcellonese, che Celler analizza approfonditamente per conto della Junta de Comerç di Barcellona nel 18353 . Nel 1836 a Barcellona viene fondato un collegio presso Sant Gervasi de Cassoles, con la partecipazione di docenti prestigiosi4 . Fra i primi allievi di questo collegio figura Elies Rogent i Amat (1821–1897) affascinato dagli insegnamenti offerti, che determinano i suoi ideali estetici riguardanti i monumenti medievali abbandonati della Catalogna; nella città Elies Rogent ha l’opportunità di visitare assiduamente la chiesa di Santa Maria del Mar e le altre chiese più antiche. In questo periodo, la diffusa aspirazione a tornare alle glorie del passato nazionale catalano, sentimento ispirato dalla Renaixença, comporta il restauro di molti monumenti religiosi, che in alcuni casi erano praticamente scomparsi o, per meglio dire, caduti nell’oblio, nonché un esteso utilizzo di forme copiate dall’architettura medioevale; si cercano riferimenti nel passato e l’architettura sacra antica diventa la più importante fonte d’ispirazione per le nuove costruzioni5 . L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 283 Ad una prima fase, costituita dallo studio del patrimonio religioso e del suo stato di conservazione, segue il ripristino o la ricostruzione. In questi interventi gli architetti, con una preparazione fondamentalmente classica, non riescono ad adattarsi al linguaggio formale e alle soluzioni architettoniche medievali, così che i risultati iniziali non sono soddisfacenti. Nel generale contesto culturale, fortemente condizionato dalla diffusione delle idee provenienti dal resto d’Europa, nasce a Barcellona nel 1850 l’Escola de Mestres d’Obra alla cui direzione, sostituendo Antoni Cellers, arriva Josep Casademunt i Torrent (1804–1868) che propone idee estetiche opposte a quelle del predecessore e appare pienamente orientato verso il recupero delle forme medievali6 . Casademunt, che aveva frequentato le lezioni di Cellers nella scuola di Lotja, ha modo di confrontarsi con l’architettura del Medio Evo partendo da una buona formazione scientifica fornitagli dai suoi studi precedenti, come quello realizzato nel 1837 per conto della Junta de Comerç, con l’incarico di analizzare e rilevare il convento di Santa Catalina di Barcellona, una delle opere più eleganti del gotico catalano incendiata durante le sommosse del 1835. Casademunt quindi, al momento della nomina alla direzione della scuola, già possiede una discreta conoscenza dell’architettura gotica catalana. In seguito alla distruzione parziale o totale di tanti edifici religiosi medievali nel 1835, il medievalismo viene progressivamente assimilato e adottato dagli artisti catalani, favorito da ulteriori fattori: la rivalutazione del sentimento religioso veicolata dalle correnti romantiche, la reazione di difesa del patrimonio artistico sacro oltraggiato dalla desamortització e la conseguente exclaustració, con la consapevolezza che il Medio Evo era stato l’ultimo periodo storico nel quale la Catalogna aveva goduto di una reale personalità politica alla quale ambisce a tornare nuovamente7 . Se l’operato professionale di Josep Casademunt non ha avuto grande trascendenza, il suo ruolo come professore è stato, al contrario, molto importante, poiché ha trasmesso un grande rispetto per l’arte medioevale ai suoi successori, fra i quali figura Josep Oriol Mestres i Esplugas (1815– 1895), che in passato era stato alunno anche di Cellers, col quale aveva collaborato nella realizzazione dei rilievi del tempio romano di Barcellona; bisogna altresì ricordare Elies Rogent i Amat (1821–1897), che già dall’anno 1850 diventa Catedratico di topografia e composizione della nuova scuola, nonché Joan Martorell i Montells (1833–1906), del quale si tratterà successivamente. Un altro professore dell’Escola de Mestres d’Obra è Joan Torras i Guardiola (1827–1910); nel 1854 ottenne il titolo di architetto alla Real Academia de San Fernando di Madrid, che l’anno seguente viene confermato anche dalla scuola di Barcellona; egli si distingue soprattutto per la competenza nell’utilizzo in edilizia delle strutture metalliche. 284 CLAUDIO MAZZANTI Gli studi dedicati in modo specifico alla progettazione architettonica non possono ancora aver luogo a Barcellona fino al 1875, anno in cui viene fondata l’Escola Provincial d’Arquitectura; in precedenza, per svolgere questo percorso formativo era necessario trasferirsi a Madrid, oppure optare per la carriera di maestro d’opera. La scuola d’architettura, fondata per rimpiazzare l’Escola de Mestres d’Obra, risulta in competizione con la più antica Escuela de Arquitectura di Madrid e costituisce un apporto decisivo per la modernizzazione della didattica; il primo direttore è Elies Rogent, precedentemente ricordato fra gli allievi del collegio di Sant Gervasi de Cassoles. Questo è il momento in cui viene fatta una prima e decisiva rottura con la cultura storicista della Restaurazione8 . Fra i primi architetti che si formano presso la scuola nuova di Barcelona, figurano il già citato Joan Martorell, Camil Oliveras i Gensana (1840–1898), Lluis Domènech i Montaner (1850–1923), Josep Vilaseca (1848–1910), Cristóbal Cascante i Colom (1851–1891), Antoni Gaudí i Cornet (1852–1926), Josep Domenech i Estapá (1858–1917), Enric Sagnier i Villavecchia (1858–1931), Antoni Galissà i Soquè (1861–1903), ed altri che poi si distingueranno in Catalogna per la progettazione di un significativo numero di nuove chiese o conventi. All’interno dell’ampia produzione architettonica della seconda metà del xix secolo, la realizzazione degli edifici sacri deve essere riletta anche considerando la diffusione dei nuovi principi progettuali, che esaltano il predominio della razionalità costruttiva e l’adattamento delle forme architettoniche ai progressi tecnici e all’utilizzo dei nuovi materiali, aspetti legati allo sviluppo di una nuova società e per i quali la collaborazione fra architetti e tecnici è indispensabile. I committenti delle opere religiose talvolta si mostrano reticenti rispetto all’accettazione della modernità nell’architettura9 . Nella nuova scuola di architettura di Barcellona si attribuisce un valore minore all’insegnamento delle Belle Arti da parte di un corpo di docenti la cui formazione era, invece, impostata sullo studio dei differenti linguaggi espressivi e delle diverse sperimentazioni stilistiche, a partire dall’analisi dell’architettura gotica, araba, bizantina, mudéjar e, soprattutto, riferendosi alla tradizione classica. Fin dalla sua fondazione nel 1875, la scuola d’architettura di Barcellona, in contrasto con l’accademismo delle Belle Arti della scuola madrilena, propone un avvicinamento essenzialmente eclettico e strutturalmente razionalista al disegno architettonico, basandosi sulle teorie dell’architetto e storico francese Eugeni Viollet–le–Duc (1814–1879), autore del Dictionnaire raisonné10 . Il suo direttore Elies Rogent è il primo architetto catalano a seguire più fedelmente le tendenze neomedioevali, grazie alle proprie conoscenze sull’architettura monumentale, soprattutto quella religiosa. Oltre alla necessità di completare la formazione artistica degli architetti attraverso L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 285 nozioni scientifiche e tecniche, egli caldeggia l’importanza della conoscenza della storia dell’architettura11 , seguendo l’esempio di Viollet12 . L’atteggiamento di Rogent non è, in assoluto, un ritorno al passato, ma il mezzo per riscoprire le forme più appropriate alle necessità moderne, attraverso la rielaborazione dei motivi storici. Oltre all’impegno nella docenza, la sua carriera di architetto è fortemente caratterizzata dall’interesse verso gli edifici sacri; egli si contraddistingue soprattutto per gli interventi di restauro dei grandi monumenti medievali, come il chiostro del monastero di Sant Cugat del Vallès (1852) e di Montserrat (1854), e soprattutto del monastero di Santa Maria di Ripoll (1886–93). Nel 1884, in collaborazione con l’architetto August Font i Carreras, Rogent realizza un progetto di restauro per la cattedrale di Tarragona che però non si porta a termine. Esegue anche altri restauri di minor importanza, come quello della cappella di Santa Agata del Palau Reial Major di Barcellona, o della torre della chiesa parrocchiale di Vilafranca del Penedès. L’architettura del Medioevo lo ispira anche per il disegno di numerose cappelle cimiteriali, come quella della famiglia Martorell (1853–57). Alla metà del xix secolo in Catalogna, oltre che nei progetti di Elies Rogent, continua spesso ad essere predominante l’ispirazione gotica soprattutto nell’ambito dell’architettura religiosa. L’architetto Josep Simó i Fontcuberta nel 1858 prepara il progetto per la facciata neogotica di Santa Maria de Matarò; analogamente nel 1863 comincia la costruzione della chiesa parrocchiale di Sant Martí de Provençal con proporzioni straordinariamente slanciate: una sala di venticinque metri di altezza. Le opere terminano nel 1882; sfortunatamente la chiesa viene distrutta nel 1936. Ci sono molti altri esempi di progetti ispirati alle forme neogotiche: nel 1871, Jeroni Granell dirige la traslazione della chiesa e del chiostro di Santa Maria de Jonqueres dal nucleo antico alla confluenza tra le vie Aragó– Llùria di Barcellona, i lavori terminano nel 1888 e per la chiesa restaurata l’architetto disegna un nuovo altare maggiore; nel 1872 Jose Oriol Mestres elabora un nuovo altare e sagrato per la cripta della cattedrale di Barcellona; Joan Torras nel 1879 progetta la chiesa del convento di Jesùs Maria a Sant Andreu de Palomar, attualmente parrocchia di Sant Pacià. In generale, gli studiosi concordano nel fissare l’inizio del movimento modernista in Catalogna intorno al 1880. Personaggio importante, che segna il passaggio fra l’eclettismo ottocentesco e il nuovo linguaggio espressivo, è il già citato Joan Martorell i Montells: la sua attività professionale è espressione della corrente romantica del xix secolo; egli manifesta la volontà di costruire edifici ispirati a criteri di esattezza storica, ritornando ai modelli del passato e soprattutto del periodo medioevale, però l’architettura si adatta all’epoca contemporanea. Si distingue particolarmente nella realizzazione dell’architettura religiosa. Sono vari gli edifici progettati da Joan Martorell 286 CLAUDIO MAZZANTI con forme neogotiche: nel 1868, alla morte di Josep Casademunt i Torres, Martorell completa la cappella del Collegio del Sagrat Cor de Sarrià; nel 1879 dirige il restauro del monastero di Pedralbes ed innalza la chiesa di Portbou. Lo stesso architetto, che nel 1874 aveva realizzato la chiesa del convento delle Adoratrius13 , adottando uno schema simile elabora un edificio con cui si può considerare avviata la fase del premodernismo: la chiesa delle Saleses del Passeig de Sant Joan a Barcellona, iniziata nel 1882 e completata nel 1885; quest’opera si ispira allo stile gotico del xiii secolo, con una sola navata coperta con archi di diaframma e soffitto a cassettoni, però l’originale policromia dei materiali annuncia i caratteri del pieno modernismo. Nel 1885 progetta la chiesa parrocchiale di Castellar del Vallès, anch’essa neogotica, conosciuta come la catedral del Vallès. Ispirato a forme romaniche e bizantine, è la chiesa del Sagrat Cor, del Collegio Maggiore dei Gesuiti a Sarrià (1893–1896), edificio monumentale, costruito in pietra e mattoni a vista; secondo lo schema a quinconce, ha una pianta centrale con una grande cupola e quattro cupolette agli angoli, tutte visibili esternamente; ai lati della facciata erano previsti due campanili simmetrici, non completati. L’architettura religiosa di Joan Martorell è caratterizzata, dunque, dall’utilizzo di vari riferimenti storici; in particolare, però, la sua capacità nell’adoperare in modo originale le forme neogotiche lo contraddistinse come uno dei principali esponenti dell’architettura neomedievale in Catalogna14 . La libera interpretazione della tradizione gotica, preludio della nuova architettura, si coglie in varie opere di Joan Martorell, ma soprattutto nella citata chiesa delle Saleses, nella quale gli archi mitrados, il gioco cromatico dei mattoni, le sporgenze e le rientranze degli stessi rievocano sia le più importanti opere del periodo gotico, sia architetture tipicamente mudéjar; in altri templi o conventi egli propone liberamente anche motivi stilistici neoromanici, neobizantini o neorinascimentali15 , però la reinterpretazione delle architetture del passato costituisce solo un punto di partenza per le sue costruzioni. Se Martorell è diventato uno degli architetti più importanti della seconda metà del xix secolo è perché ha saputo andare oltre la semplice mimesi delle forme antiche, dei revivals che venivano impiegati dagli architetti a seconda della finalità dell’edificio; gli stessi autori che ricorrevano al neogotico per gli edifici religiosi, proponevano invece forme neoclassiche per gli edifici civili. Anche nelle realizzazioni del Modernismo catalano sono ammesse tutte le sovrapposizioni stilistiche possibili e qualsiasi sforzo volto a raggiungere il nuovo linguaggio architettonico, è accettato con entusiasmo; una serie di opere, formalmente lontane fra loro, devono essere considerate parte integrante di uno stesso movimento16 . Joan Martorel, come tanti altri fra i primi che hanno studiato nell’Escola Provincial d’Arquitectura di Barcellona, viene definito eclettico e storicista, capace di armonizzare differenti stili nei suoi progetti con soluzioni persona- L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 287 li17 ; egli contribuisce alla determinazione della nuova architettura lavorando con un nutrito gruppo di collaboratori, formato dai migliori artigiani ed artisti dell’epoca, nonché da alcuni giovani architetti che poi figureranno fra i maggiori artefici del Modernismo catalano. Fra le esperienze maggiormente significative, appare degna di nota quella realizzata nel 1878 nella località di Comillas, per volontà di Antonio López che, insignito del titolo di marchese, riunisce intorno a sé un gruppo di artisti catalani18 intenzionati a superare l’accademismo e l’archeologismo dell’architettura ufficiale dell’epoca, rappresentata da Elies Rogent. Il marchese incarica Joan Martorell i Montells della costruzione a Comillas di un grande palazzo, della cappella e del seminario, voluto dal papa Leone XIII (1878–1903) per elevare il livello degli studi ecclesiastici19 . Le architetture qui realizzate costituiscono una specie di laboratorio sperimentale; all’ideazione della cappella partecipa anche Gaudí, il quale, così come lo stesso Martorell, non si reca mai personalmente in questa località lontana dalla Catalogna; si affida il compito di seguire i lavori a Cristóbal Cascante i Colom che, come Gaudí, era stato allievo di Joan Martorell all’Escola Provincial d’Arquitectura di Barcellona, dove aveva studiato dal 1872 al 1877. Un altro collaboratore di Martorell a Comillas è l’architetto e disegnatore Camil Oliveras i Gensana. Successivamente Domènech i Montaner, oltre al palazzo, terminerà anche l’edificazione della cappella–pantheon, i cui principi progettuali saranno da lui ripresi per la progettazione della chiesa dell’Hospital de Sant Pau a Barcellona20 . In questa località costiera della provincia di Santander sorge un insieme di opere che anticipano, nel loro spirito e nella loro forma, il Modernismo e definiscono i fondamenti anche della nuova architettura religiosa. Cristóbal Cascante e Camil Oliveras muoiono prematuramente, pertanto sono protagonisti solo delle prime fasi del movimento modernista del quale, al contrario, Gaudí e Domènech i Montaner saranno tra i massimi rappresentanti e avranno occasione di realizzare importanti chiese e conventi. Joan Martorell i Montells è altresì autore di un progetto per la facciata e il ciborio della cattedrale di Barcellona, per la cui realizzazione si istituisce un concorso, portato a termine fra il 1887 e il 1890, dopo una lunga fase di gestazione nella quale si confrontano propensioni puramente storiciste o archeologiche e posizioni in sostegno di un gotico moderno. Il completamento della cattedrale di Barcellona origina una delle diatribe architettoniche più interessanti dell’ultimo terzo del xix secolo. Questa facciata era rimasta incompiuta nonostante nell’archivio cattedralizio si conservasse un progetto tracciato nel 1408 da Carles Galters de Rouen, più noto come il Mestre Carlì; fino all’anno 1860 non si propone concretamente la realizzazione della facciata dell’edificio. Il progetto viene studiato minuziosamente da Josep Oriol Mestres, che tra il 1864 e il 1867 realizza molti elaborati grafici; ma la rivoluzione del 1868 vanifica tutto. Nel 1875, dopo la Restaurazione, si 288 CLAUDIO MAZZANTI riprende il dibattito con la decisione da parte del Capitolo della Cattedrale di proporre la collaborazione fra Oriol Mestres e Joan Martorell per produrre congiuntamente un unico progetto; sorgono però alcune divergenze fra i due architetti. Alla fine, nel 1880 vengono redatti vari progetti; si evidenziano in particolare quello di Oriol Mestres, che presenta un disegno acquerellato, quello di August Font, particolarmente apprezzato da Rogent, e quello di Joan Martorell, la cui proposta è caratterizzata dalla presenza di un’alta guglia–ciborio, riproposizione monumentale del tema della punta già realizzata per le chiese delle Adoratrius e delle Salesias. In un secondo momento le idee di Oriol Mestres e August Font si uniscono in un’unica proposta; questa e quella di Martorell vengono esposte nel chiostro della cattedrale nel 1882. Nonostante l’apprezzamento della maggior parte dei critici e degli architetti di Barcellona, il progetto di Martorell non viene scelto, principalmente per motivazioni economiche, rispetto a quello più accademicamente neogotico di Mestres e di Font. La controversia riguardante il completamento della cattedrale di Barcellona mostra chiaramente l’opposizione dei modernisti al pastiche archeologico21 . Martorell viene difeso non come il rappresentante più autorevole del ‘gotico moderno’, in confronto all’approvato progetto archeologizzante, ma per la ‘grandiosità e vastità del piano’, evidenziate in una serie di articoli volti a sostenere la modernizzazione della borghesia. È significativo che il disegno del progetto di Martorell sia opera di Gaudí insieme a Domènech i Montaner, su richiesta dello stesso Martorell affinché i due giovani architetti tracciassero a grande scala il prospetto per pubblicarlo: avrebbe così ripartito con loro il successo fra i lettori dell’antico quotidiano di Catalogna22 . Gli architetti che si distinguono nella fase iniziale del Modernismo catalano, per i loro progetti d’architettura religiosa continuano a proporre opere di carattere eclettico; si segnalano, ad esempio, Josep Domènech i Estapà e Enric Sagner i Vilavecchia, insieme a Pere Falqués i Urpi e ai fratelli Jaquim e Bonaventura Bassegoda. Domènech Estapà può essere considerato uno degli iniziatori della ricerca del nuovo stile, anche se nelle sue opere si conservano alcuni canoni formali del classicismo. Fra le sue architetture a Barcellona ci sono le chiese parrocchiali di Sant Esteve Sesrovires (1891), di Santa Eulália de Vilapicina (1896), di Sant Andreu de Palomar, opera di Falqués i Urpi per la quale Domènech Estapà progetta e dirige la ricostruzione della grande cupola crollata nel 1892, poco dopo la costruzione; un altro esempio della diversità dell’opera di questo architetto è il Santuario della Mare de Déu del Carme (1909–1921)23 , con un campanile in stile mudéjar che, insieme alla chiesa e al convento annesso, presenta ispirazione storicista, mescolando varie influenze, secondo le indicazioni dei committenti; simmetria ed assialità compositiva sono ancora rigorose ed assolute. L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 289 Enric Sagner completa gli studi di architettura nel 1882 e ha occasione di lavorare per alcune delle più importanti famiglie catalane; a parte molte opere pubbliche e private, fra le sue realizzazioni maggiori ci sono anche numerose opere religiose: progetta in stile neogotico il gran Collegio di Jesùs Maria, a Sant Gervasi de Cassoles, costruito fra il 1892 e il 1897; il tempio espiatorio del Sagrat Cor sul Tibidabo, cominciato nel 1902 e completato da suo figlio Josep Maria Sagner i Vidal, con la cripta in stile neoromanico ed il tempio superiore ispirato al neogotico; il santuario di Santa Maria Auxiliadora per l’Ordine dei Salesiani, del quale nel 1889 si posa la prima pietra24 ; la cappella del Santissim, all’interno della chiesa dei Gesuiti dell’Ensanche; il convento dei Cappuccini di Pompeia, nel 1913; fuori Barcellona realizza la cappella del Santissim, nel monastero di Montserrat. È un architetto legato formalmente alle correnti stilistiche del movimento, ma del tutto assente dalle formulazioni sociali e politiche del Modernismo catalano, del quale utilizza il repertorio formale per dar vita a schemi d’ispirazione francese o neoclassica25 . L’attenzione verso le forme architettoniche del passato, per il loro valore artistico, nonché storico, politico e culturale, è tipica della generazione della Renaixença, con le sue nostalgie romantiche; ma molti dei giovani architetti che in seguito costituiranno la generazione modernista, cresciuti con il culto degli edifici medievali, si caratterizzeranno per il grande desiderio di modernizzare il paese. Si configura, così, nell’ultimo decennio del xix secolo, una contraddittoria e complessa connessione tra l’irrinunciabile rispetto verso il passato e la volontà cosmopolita. In questo modo il modernismo catalano si apre all’Europa, senza però rinunciare ai suoi contenuti romantici. Analizzando l’architettura religiosa si constata come per molti degli architetti modernisti, l’architettura gotica costituisca sempre un modello perfetto per la costruzione dei templi cristiani, non solo per l’unità dei volumi, per la sua distribuzione planimetrica ottimale, per il suo prestigio storico, ma anche perché espressione di un profondo sentimento religioso26 . Di fatto, l’obbiettivo principale degli architetti del Modernismo catalano è trovare forme artistiche capaci di evocare un legame tra la materia e lo spirito. In questo processo si arriva ad identificare l’arte medievale e soprattutto gotica con quella cristiana. 290 CLAUDIO MAZZANTI Fig. 1. Barcellona. Chiesa delle Adoratrius, prospetto, J. Martorell i Montells (1874). Fig. 2. Comillas. Cappella dei Marchesi, prospetto, J. Martorell i Montells (1881). Fig. 3. Portbou. Chiesa parrocchiale, vista, J. Martorell i Montells (1882). L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 291 Fig. 4. Barcellona. Chiesa delle Saleses, facciata, J. Martorell i Montells (1882-85). Fig. 5. Barcellona. Chiesa delle Saleses, pianta, J. Martorell i Montells (1882-85, A.C.G.). Fig. 6. Barcellona. Chiesa delle Saleses, progetto, J. Martorell i Montells (1882-85). 292 CLAUDIO MAZZANTI Fig. 7. Barcellona. Cattedrale, ‘Ante-proyecto’, J. Martorell i Montells (1883, A.C.G.). Fig. 8. Barcellona. Cattedrale, facciata e ciborio realizzati, O. Mestres e A. Font (1890). Fig. 9. Barcellona. Cattedrale, prima del completamento (A.C.G.). Fig. 10. Barcellona. Cattedrale, progetto del prospetto, J. Martorell i Montells (1882, A.C.G.). L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 293 Fig. 11. Barcellona. Chiesa del Sagrat Cor, prospetto, J. Martorell i Montells, A.C.J. (1893-96). Fig. 12. Barcellona. Chiesa del Sagrat Cor, sezione, J. Martorell i Montells, A.C.J. (1893-96). Fig. 13. Barcellona. Chiesa del Sagrat Cor, pianta, J. Martorell i Montells, A.C.J. (189396). 294 CLAUDIO MAZZANTI Fig. 14. Barcellona. Santuario del Carme, pianta, J. Domènech i Estapà (1909-21, A.C.A.). Fig. 15. Barcellona. Santuario del Carme, campanile, J. Domènech i Estapà (1909-21, A.C.A.). Fig. 16. Barcellona. Santuario del Carme, prospetti, J. Domènech i Estapà (1909-21, A.C.A.). L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 295 Fig. 17. Barcellona. Opere di E. Sagner i Vilavecchia: Chiesa di Santa Maria Auxiliadora, (1909-21); Colegio de Jesus María Sant Gervasi (1909-21); Chiesa di Santa Maria de Pompeia (1909-21); Tempio del Sagrat Cor, progetto (1909-21, A.C.G.). 296 CLAUDIO MAZZANTI Fig. 18. Barcellona. Chiesa dell’Hospital de San Pau, progetto del prospetto, L. Domènech i Montaner(1905, A.H.S.P.) a confronto con la facciata completata da P. Domènech i Roura (1930, restituzione fotogrammetrica). L'ECLETTISMO NELL'ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL PRIMO MODERNISMO CATALANO 297 Note 1 26. Cfr. I. de Solà–Morales, Fin de Siècle Arquitecture in Barcelona, Barcelona 1992, p. Cfr. J. Bassegoda Nonell, L’Architettura di Gaudí, Milano 1980, p. 6. Id., El templo romano de Barcelona, Barcelona 1974, p. 69. 4 Cfr. J. Aymar, “El ferment d’una arquitectura diferent”, in F. Fontbona (a c.d..), El Modernisme a l’entorn de l’arquitectura, Barcelona 1997, p. 13. 5 Aa.Vv., Arquitectura religiosa moderna i contemporanea, “Enciclopedia Art de Catalunya”, vol. III, Barcelona 2002, p. 169. 6 Joan Bassegoda Nonell, Los Maestros de Obras de Barcelona, Barcelona 1972, p. 18. 7 Cfr. F. Fontbona, La crisi del Modernisme artistic, Barcelona 1975, p. 123. 8 Cfr. I. de Solà–Morales, op. cit., Barcelona 1992, p. 10. 9 Aa.Vv., Domènech Estapà, Domènech Mansana, Barcelona 1999, p. 15. 10 E. Viollet le Duc, Dictionnaire raisonné de l’Architecture Francaise, Paris 1869. 11 Cfr. E. Rogent i Amat, “La arquitectura Catalana en primera midad del presente siglo”, Anuari de l’Associació d’Arquitectes, Barcelona 1901, p. 27. 12 E. Viollet le Duc, Entretiens sur l’Architecture, tomo I, Paris 1863 ; tomo II, Paris 1872. 13 Nella chiesa delle Adoratrius di Barcellona, l'architetto viene sepolto nell'anno 1924; l'edificio, di una grande semplicità ornamentale e costruttiva, presenta una tipologia e delle forme che già definiscono la sua architettura posteriore. Francesc Rogent, figlio di Elies Rogent, la considera come la prima delle chiese moderne di stile gotico costruita nella città. Si tratta di un edificio caratterizzato da una grande verticalità, a navata unica e torre–campanaria, con’un abside poligonale, molto simile alla chiesa delle Saleses. Cfr. F. Rogent i Pedrosa, Arquitectura moderna de Barcelona, Barcelona 1897, pp. 36–37. 14 J. Rohrer, Modernismo y Neogótico en la Arquitectura, Barcelona 1992, p. 177. 15 Aa.Vv., Arquitectura religiosa ..., op. cit., p. 181. 16 O. Bohigas, Architettura Modernista, Gaudí e il movimento catalano, Torino 1969, p. 62. 17 J. F. Ràfols, Diccionario biográfico de artistas de Cataluña, Barcelona 1951, p. 128. 18 Antonio López riceve il titolo di Marchese di Comillas come ricompensa per il suo supporto alla monarchia di Alfonso xii; originario di questa località, però legato a Barcellona, vuole con sé i migliori artisti catalani dell’epoca: architetti, scultori, pittori, mosaicisti e stuccatori. 19 Il livello qualitativo dei seminari spagnoli nella seconda metà del xix secolo non è soddisfacente; il papa Leone xiii perciò favorisce la fondazione di una Scuola Cattolica Spagnola a Roma e concede a pochissimi seminari in Spagna, fra cui quello di Comillas, il privilegio di organizzare corsi di studio in Filosofia, Teologia e Diritto Canonico. Cfr. V. Cárcel Ortí, Historia de la Iglesia en la España contemporánea, Madrid 2002, p. 349. 20 Aa.Vv., L’Hospital de la Santa Creu i de Sant Pau. 1401–2001, Barcelona 2001, p. 19. 21 C. A. Cacciavillani, L’architettura del Modernismo Catalano, autori e opere, Roma 2003, p. 16. 22 J. Aymar, op. cit., p. 17. 23 Questa costruzione sarà terminata successivamente da suo figlio Josep Domènech i Mansana. Cfr. Aa.Vv., Domènech Estapà, op. cit., p. 15. 24 A. Burdes: Una dama barcelonesa del 800. La sierva de Dios doña Dorotea de Chopitea, Viuda de Serra, Barcelona 1962, p. 272. 25 Cfr. O. Bohigas, op. cit., p. 69. 26 Il neogoticismo costituisce in Catalogna un fenomeno specifico a causa, essenzialmente, delle relazioni strette degli ambienti ecclesiastici con gli ambienti influenti della rinascita economica e culturale, come testimonia il ruolo determinante esercitato dal Circolo Artistico di Sant 2 3 298 CLAUDIO MAZZANTI Lluc. Questa persistenza si spiega, dunque, non come una contraddizione bensì, al contrario, come una conseguenza logica delle propensioni della borghesia che, a dispetto del proprio desiderio di originalità, concretizzato in molte opere moderniste, resta fortemente legata ai valori più conservatori; per questo si parla di passaggio dal neogoticismo al ‘nazional–cattolicesimo’. Cfr. A. Barey, Barcelona: de la ciutat pre–industrial al fenòmen modernista, Barcelona 1986, p. 85. Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228111 pag. 299–300 Recensioni e note N. Labère, B. Sère, Les 100 mots du Moyen Âge, Paris, P.U.F, 2010 (coll.: Que sais–je ?) Nelly Labère et Bénédicte Sère ont publié dans la célèbre encyclopédie de poche Que sais–je? (P.U.F.), un petit volume de la série « Les 100 mots » consacré au Moyen Âge. La littéraire (Labère) et l’historienne (Sère) ont uni leurs efforts dans ce livre où les perspectives se côtoient et s’entrecroisent pour faire ressortir, en ‘100 mots’, la richesse et la complexité d’une longue période dont les permanences dans le temps présent sont soulignées. Laissant de côté le « riche Empire byzantin ainsi que la jeune et dynamique civilisation de l’Islam » (p. 3), les auteures se concentrent sur des mots liés à « l’aspect occidental de cette période » (ibid.) ; ce sont des mots qu’elles ne définissent pas exhaustivement, « à la manière d’un dictionnaire ou d’un lexique », mais dans le but de « saisir quelque chose de cette ambiance du Moyen Âge » (ibid.). Résonances, atmosphères, saveurs médiévales — et non ‘moyenâgeuses’ — nous sont promises d’entrée de jeu par deux spécialistes qui nous font partager leur science, mais aussi leur sensibilité à l’égard du sujet traité. Les termes retenus renvoient à des réalités formelles (« fabliau », « vers, prose ». . . ), matérielles et sociales (« manuscrit », « féodalité, fief », « moine », « tapisserie ». . . ), ainsi qu’à des concepts ressortissant, entre autres, aux domaines de l’être (« beauté et laideur », « pauvreté », « chevalier ». . . ), du savoir (« scolastique »), de la pensée et de son expression (« nominalisme », « honneur », « merveilleux », etc., pensée signifiant, pour nous, à la fois ‘mode’ et ‘contenu’ de la pensée). Réalités et concepts, alignés selon l’ordre alphabétique, se suivent dans un ‘effet de liste’ bien pertinent pour cette œuvre dont le Moyen Âge est l’objet, et seulement en apparence peu homogène, car au fond parler de « moine » équivaut à parler de « monachisme », tout comme l’article « chevalier » peut correspondre à un article « chevalerie » (ou « clerc » à « clergie ») : l’être, social dans ce cas, suggère l’insertion de l’individu dans un contexte encadrant (même si ailleurs nous trouvons des entrées comme « ordre mendiant », et non « frère mendiant », ou « confrérie »). Le choix des mots, parfois accouplés dans un même article (qu’ils soient mis en résonance : « mouvance, variance », ou en opposition : « beauté et laideur ») — un choix peut–être subjectif —, révèle d’une part les contiguïtés sémantiques que saisissent les auteures, toujours en syntonie avec des mentalités passées, et, d’autre part, cette 300 RECENSIONI E NOTE sensibilité profonde, actualisant les savoirs, qui fait justement le prix du livre. Car écrire le Moyen Âge en 100 mots est bel et bien un « pari impossible » (p. 3). Pari réussi, à notre avis, car N. Labère et B. Sère sélectionnent et choisissent des mots significatifs qu’ensuite elles expliquent et mettent à la portée des lecteurs. Ainsi, pour le « bestiaire » — genre et concept —, on nous rappelle que les bêtes, réelles ou fantastiques, dotées par l’Église d’un sens moral, y prennent des valeurs symboliques ; les textes anciens et ceux en moyen français sont alors évoqués. Quant à la Bible, on rappelle sa circulation au Moyen Âge, la nécessité de « rétablir un texte philologiquement plus juste » (p. 19) ressentie dans les ateliers d’époque carolingienne, puis à Paris au XIIIe siècle ; le sens et la sphère du ‘penser médiéval’ sont toujours mis en avant, puisqu’on insiste sur l’importance des commentaires de la Bible et le danger auquel s’exposaient les laïcs qui souhaitaient la lire directement. Certes, il eût été souhaitable d’avoir parfois des compléments d’information. Par exemple, dans l’article « Averroïsme » les nécessités de la synthèse, la densité des informations font que le lecteur doit déduire des éléments implicites (on ne donne pas assez d’informations sur Ibn Rushd dont on comprend, à une deuxième lecture de l’article, qu’il influence la pensée pseudo– averroïsante des aristotéliciens des XIIIe –XIVe siècles). On aurait également souhaité voir des entrées comme « école » (pour l’École de Chartres), ou « Aristotélisme » (à propos d’Aristote, on trouve évidemment des informations dans l’article cité, « Averroïsme », dans celui sur la « Scolastique », et il est évoqué, entre autres, à la fin de l’article sur le « bestiaire »). Mais l’on ne saurait reprocher à un livre de ces dimensions de ne pas tout dire, ni aux auteures leur familiarité avec la matière traitée. Bien au contraire : même le lecteur non spécialiste se réjouira avec elles devant la chute probablement un peu cryptique, pour lui, mais jubilatoire, d’un article se terminant par les phrases suivantes : « La méthode est dialogique et agonistique. Indéniablement, l’éristique fonde la scolastique » (p. 107) ! Une lecture transversale de ces articles s’avère utile pour saisir la véritable ‘conjointure’ du livre, l’organisation de la pensée et les centres d’intérêt de Labère et Sère, souhaitant restituer « quelque chose » d’une atmosphère qui sentait, selon Huizinga, « l’odeur de la rose et du sang » (p. 3). Luca Pierdominici Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228111 pag. 301–303 Nouvelles du Moyen Âge, textes choisis, présentés, traduits et annotés par Nelly Labère, Paris, Gallimard 2010 (coll. Folio Classique, 5130). Nelly Labère, specialista della ‘novella’ francese ed europea delle origini, pubblica nella collezione Folio Classique di Gallimard un’agile antologia che mette alla portata dei lettori alcuni testi rappresentativi di questo importante ‘genere’ letterario, testi ch’ella traduce in francese moderno. Il volume propone un percorso nel quale i brani scelti sono ripartiti in due sezioni: textes e prétextes. Nella prima, troviamo significativi estratti dalle raccolte di quelle che, con N. L., possiamo considerare « nouvelles avant l’heure »: Les Quinze Joies du Mariage (sono estrapolate e tradotte le prime tre ‘gioie’), Les Nouvelles de Sens (N. 4, 7, 11, 21, 38), Les Evangiles des Quenouilles, Les Arrêts d’Amour di Martial d’Auvergne (decreti 1 e 22), e Le Livre des Enseignements du chevalier de la Tour Landry à ses filles (cap. 1, 3, 4, 14, 16, 17, 19, 24, 26). Vi sono poi alcune novelle tratte dalle traduzioni quattrocentesche del Decameron di Giovanni Boccaccio, volto in francese nel 1414 da Laurent de Premierfait sulla base di una versione latina (N. I, 1; VI; 1; X, 99), e delle Facezie di Poggio Bracciolini nella traduzione medio–francese ‘moralizzata’ di Guillaume Tardif (1438–1452). Il percorso di N. L. converge infine verso le novelle ‘modello del genere’, ovvero le Cent Nouvelles Nouvelles, dalla cui raccolta sono tolte e tradotte le N. 1, 6, 10, 14, 19, 22, 25, 26, 37, 45, 47, 53, 64, 69, 93, 98 e 100. La selezione dei testi scelti, un centinaio circa, determinata da ragioni d’ordine materiale ed economico (« l’encre et le papier »), « ne doit pas enlever au lecteur le goût de ‘tout’ lire » (p. 29). La seconda sezione, consacrata ai prétextes, comporta i prologhi (con o senza dedica) delle diverse raccolte e, se del caso, i rispettivi epiloghi: questa parte è molto importante poiché consente al lettore di cogliere, per ciascuna raccolta, la funzione giustificativa e strutturante dei suddetti luoghi metatestuali ai fini della mise en abyme delle novelle, la cui brevità trova significato e possibile definizione, secondo N. L., solo in relazione col più ampio quadro che le contiene: la cosiddetta ‘cornice’ (assente nelle Nouvelles de Sens). Il pre–testo diviene allora ‘pretesto’ della scrittura, luogo–maschera per l’identità dell’autore, luogo definitorio del genere (nelle Cent Nouvelles Nouvelles), contratto o patto di lettura col lettore che saprà cosa aspettarsi di seguito (nelle Quinze Joies du Mariage), nonché iscrizione nel tempo presente d’una ricezione che si storicizza (la storia–quadro della peste di Firenze, nel Decameron) e la cui attualità entra in risonanza con quella delle storie narrate, sempre vere e recentemente avvenute. Diverso il caso dei traduttori quattrocenteschi, o convertisseurs, come Laurent de Premierfait e Guillaume Tardif, i quali si reinventano autori, nel momento in cui la loro presenza esercita una presa sui testi più diretta rispetto a quella dei traduttori 302 RECENSIONI E NOTE tradizionali: se Laurent, ignorando la lingua fiorentina, chiede a un monaco di tradurre per lui il Decameron prima in latino (e domanda al suo protettore una retribuzione più elevata, dato il lavoro supplementare svolto), Guillaume Tardif si arroga un ruolo di selettore e di moralizzatore delle facezie che s’appresta a tradurre. L’approccio riflessivo, come sempre nei lavori di questa Autrice, è criticamente – e ad ogni livello – sottolineato dalla distribuzione argomentata ed argomentante della materia, la cui evidenza logica sottende ogni opzione, accompagnando la comprensione del lettore con piano stile divulgativo. Il florilegio (termine adoperato dall’A. stessa, p. 29, che l’oppone a antologia e raccolta, p. 14) è preceduto da una préface e seguito da un dossier. Nella prefazione, dove sono sintetizzati alcuni sviluppi del suo libro Défricher le jeune plant (Champion, 2006), N. L. attira l’attenzione su questioni cruciali, come quella della ‘brevità’ della novella, carattere o qualità da intendersi tra l’altro nell’accezione tutta relativa della ‘parte nel tutto’, fruibile attraverso l’atto unitario d’una ricezione ‘in tempo reale’ (« la brièveté ou son contraire sont une façon de représenter le temps dans sa durée ou dans son ellipse, et de donner à l’écriture la forme de la condensation ou de l’amplification », p. 9); della sua ‘novità’, che esprime « la rupture dans la représentation que la littérature du Moyen Âge se fait d’elle–même » (p. 11); della cornice, che rappresenta le vera forma–novità del genere (p. 12–19), configurandosi come un luogo più di selezione e di messa in prospettiva che non di semplice aggiunta lineare di storie o novelle (p. 14); dell’‘oscenità’, intesa tra l’altro come momento di irruzione, sul piano dei significati che la carne metaforizza, di ciò che fino a quel momento non aveva avuto il diritto di essere mostrato o suggerito – come anche il termine etimologicamente sembra indicare (ciò che è ‘fuori dalla scena’: in questo senso, « les nouvelles du Moyen Âge sont radicalement obscènes », p. 25). L’insieme delle informazioni e degli spunti forniti dall’A. nella sua prefazione è molto ricco. Tuttavia, particolarmente interessante appare la riflessione proposta sui criteri adottati per la traduzione delle novelle: è qui che N. L. svela la propria sensibilità e comprensione profonda dell’humus, non solo culturale ma anche linguistico di questi testi: una sensibilità ch’ella cerca di farci condividere attraverso deliberate scelte stilistiche e la restituzione di una lingua « s’approchant au plus près du texte d’origine » (p. 30). Le costruzioni sintattiche complesse del medio francese, caratterizzato dall’abbondanza di lunghe subordinate, relative, paraipotattiche, e di costruzioni asimmetriche o ellittiche, con variazioni di tempi verbali, coppie sinonimiche di vocaboli, accumulazioni e altre ampollose forme, sono rispettate il più possibile da N. L., la cui scelta « rompt avec la lecture moderne non redondante » (p. 31). Scelta coraggiosa ma di grande giustezza, la sua: « Proprement médiévale, cette syntaxe colore certes le texte d’une étrangeté linguistique qui peut sur- RECENSIONI E NOTE 303 prendre le lecteur contemporain mais qui, volontairement conservée dans la traduction moderne, entend transcrire l’esthétique d’une littérature qui se conçoit comme une expérience pleine, en prise avec la modernité » (p. 31–32). Il senso e la lucida pertinenza di queste posizioni bastano a giustificare quella nuova traduzione delle novelle che Nelly Labère qui ci propone. Il dossier fornisce, infine, informazioni utili su autori e datazioni, con cronologie e note. Luca Pierdominici Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228111 pag. 304–306 Ndiaye M., Tre donne forti, trad. it. di Antonella Conti, Milano, Giunti, 2010. Un gorgo nelle sue parole, un uncinetto fragile ma tenace a reggere le sue storie. Tre donne forti, con cui l’autrice Marie Ndiaye ha vinto il prestigioso “Prix Goncourt” nel 2009, è un testo che sfugge ad una classificazione di genere chiara e univoca, infrange la distinzione tra romanzo e raccolta, mescola le categorie tradizionali per formarne una nuova e inaudita. Un simile procedimento non può certo stupire se si pensa all’autrice stessa e alla sua identità, anch’essa capace di superare le barriere codificate della nazionalità per creare un proprio mélange a sé, unico e irripetibile come ogni singolo individuo. Nata in Francia da padre senegalese e madre francese, Marie Ndiaye non ama nemmeno definirsi una scrittrice francofona, sottolineando che in Senegal si sente straniera, anche se il suo aspetto, il colore della sua pelle e il linguaggio carico di immagini che usa hanno fatto sì che la critica la etichettasse facilmente come tale. In Tre donne forti però, suo ultimo capolavoro, l’autrice sente il bisogno di riappropriarsi esattamente di tale parte importante della propria vita, finora relegata nell’angolo più buio della sua mente, il Senegal di suo padre. In questo testo, a sé quindi nella produzione della scrittrice, Marie Ndiaye cambia la propria ambientazione, ponendo in secondo piano quella francese finora prediletta per immergersi nelle calde e difficili vie del Senegal, e trova la forza, la stessa delle sue tre “donne forti”, per riappropriarsi della sua intera identità. Come le sue protagoniste – Norah, Fanta e Khady – anche l’autrice dovrà affrontare il proprio passato e capire se stessa, arrivare al nodo della sua umanità per poter infine guardare con chiarezza il proprio presente in tutte le mille sfaccettature che lo rendono unico e reale. Tracce evidenti di autobiografismo affiorano dunque nelle tre storie che compongono tale romanzo–raccolta. Nella prima troviamo una giovane donna, Norah, che ha tutta la sua vita in Francia, una vita che si è costruita lavorando sodo e contando solo su se stessa, una vita che il suo grande coraggio ha saputo far decollare, una vita che costituisce il fulcro della famiglia che si è scelta, una vita però che non la soddisfa appieno, alla quale manca qualcosa. Ecco allora che Norah sarà disposta a tornare alle proprie origini, mettendo in pericolo le conquiste strappate con foga alla vita, per percorrere lo stesso cammino di Marie Ndiaye, tornata in Senegal a vent’anni per cercare di crearsi un rapporto con quel padre che l’aveva abbandonata. Nella seconda narrazione il lettore affonda nelle mille incertezze e nei ricordi fumosi che costituiscono l’esistenza di Rudy, ex professore di liceo che, a causa di un evento da lui stesso rimosso, ha precipitato nell’abisso del suo inutile presente anche la talentuosa moglie Fanta. L’autrice fissa sulla pagina uno scontro tra due mondi, Francia e Senegal, rappresentati da Rudy RECENSIONI E NOTE 305 e Fanta, quello stesso scontro che sente alla base della sua storia familiare e di se stessa. Nella terza e ultima storia conosciamo infine colei che possiede la maggiore chiave interpretativa dell’intera raccolta, Khady, una donna forte e sicura solo della propria identità, una donna diversa, capace infine di ergersi da sola e con coraggio innanzi alle avversità della vita e della tradizione. Una donna quindi da ammirare ed imitare, capace di indicare la via ad ogni individuo e alla stessa Marie Ndiaye, mostrando come le radici non siano poi così importanti, perché viene sempre il momento di reciderle per andare avanti soltanto con i propri sogni e le proprie forze. I personaggi dell’autrice si muovono in un ambiente molto ben connotato geograficamente, al quale la scrittrice ha saputo dare, in poche pennellate, tutte le caratteristiche principali. Il Senegal esplode innanzi agli occhi del lettore nel calore afoso ma mitigato dalle fronde dell’albero corallo del primo racconto, nei ricordi profumati del secondo e nelle tradizioni ingiuste del terzo. Suo contrappunto è sempre la Francia, l’altro luogo che compone l’identità della Ndiaye, sia esso il paese ove l’individuo deve lottare da solo per ogni più piccola vittoria come nel primo racconto, la zona di negativa stasi nel secondo o infine la speranza impossibile verso cui tendere tutta la propria esistenza nel terzo. Nell’edizione italiana, uscita da pochi mesi per la casa editrice Giunti, la traduttrice Antonella Conti ha afferrato i lati più innovativi e importanti dell’opera, rispettandone innanzitutto la struttura, tre capitoli–racconti, apparentemente senza relazione di causa tra loro, chiusi tutti e tre da un contrappunto finale. Ma totale è anche il rispetto del ritmo narrativo, a volte ripetitivo e ingarbugliato, altre secco ed incisivo, sempre capace però di calare il lettore nell’antro della coscienza dei protagonisti per seguire passo passo la loro evoluzione. Simile in questo allo sperimentalismo dei maggiori autori internazionali del ‘900, in primis quello di Gertrude Stein, Marie Ndiaye prende coscienza infatti che l’unica vera realtà è nell’interiorità di ogni singolo personaggio e dà quindi loro direttamente la parola, in una narrazione alla terza persona dove però spicca sempre il punto di vista del protagonista e nella quale s’innestano, all’improvviso e senza segnali grafici, brani di puro stream of consciousness. Intatte sono infine le situazioni più polisemiche del testo, dove colui che legge deve avere il coraggio di inoltrare la propria capacità interpretativa, non lasciandosi smarrire dalle immagini strane e inquietanti di uccelli e alberi, di amnesie e sogni, che costellano l’opera della Ndiaye costituendone il maggiore fascino. La traduzione segue fedelmente l’originale, ponendo il lettore italiano innanzi alle stesse trappole e alle stesse delucidazioni del suo omologo francese, aiutandolo a volte nelle costruzioni fraseologiche più intricate, che 306 RECENSIONI E NOTE Marie Ndiaye rivela di aver assorbito da Marcel Proust ma che sarebbero forse troppo pesanti per il meno avvezzo pubblico italiano. La traduttrice, intuendo l’importanza della musicalità del testo e del linguaggio a volte carico di immagini, scelto dall’autrice e molto spesso usato dagli scrittori francofoni, è ben attenta alla cacofonia delle frasi e al loro potere evocativo, lasciando che la magia faccia il suo corso e avviluppi il lettore tra le spire dei suoi mille significati. Sta proprio al lettore, novello Pollicino, trovare le briciole sparpagliate ad arte dall’autrice per legare insieme le tre donne del titolo e le loro storie in un’unica grande erranza nel mondo reale e interiore dei personaggi, per capire quale sia questa forza, questa grande forza che solo le tre donne possiedono e che le rende uniche. Sia esso la relazione difficile tra Norah e suo padre, l’abisso in cui è caduta la coraggiosa Fanta per seguire il marito, o ancora le dolorose esperienze della giovane Khady, un unico filo rosso unisce le tre storie, un’unica evoluzione accompagna le tre donne che, come già auspicava Goethe, si aggrappano al loro unico appiglio, la loro innegabile umanità: Non si sarebbe mai fatta prendere da una vana vergogna, non avrebbe mai dimenticato il valore dell’essere umano che lei era. (p. 347) Marta Montesarchio Quaderni di filologia e lingue romanze isbn 978–88–548–4228–1 DOI 10.4399/978885484228111 pag. 307–308 « Horizons maghrébins. Le droit à la mémoire » (Littératures féminines francophones, avec et autour de Maïssa Bey), 25e année, n° 60/2009, Presses Universitaires du Mirail. Maïssa Bey est une figure fondamentale dans le panorama des littératures maghrébines contemporaines. Si, comme le souligne Fouad Laroui, « la littérature maghrébine non arabophone est représentée par un corpus qui n’est pas très vaste » (p. 99), on ne peut que voir chez cette écrivaine algérienne l’une des voix les plus résonnantes et significatives pour bien analyser et comprendre la pluralité de la littérature maghrébine de langue française, avec ses thèmes spécifiques et ses contradictions. C’est probablement pour cette raison que les auteurs de la revue que l’on est en train d’analyser ont décidé d’en consacrer le dernier numéro à Maïssa Bey, tout en créant un mélange significatif entre les trois grandes parties qui le composent. Dans le premier dossier on parle donc de littérature maghrébine, sous l’égide de l’écrivaine citée. Une importance particulière est toutefois donnée aux liens, explicites ou pas, entre l’œuvre de Maïssa Bey et celle d’autres auteurs de la littérature francophone contemporaine, pour mieux accréditer le bien–fondé du but de la revue, c’est–à–dire « trouver sa voie vers les Méditerranéens que nous sommes » (p. 6). Dans un premier temps, le dossier présente une organisation plus classique en ce qui concerne l’analyse de la prose de Notre auteure, dont on souligne les thématiques les plus récurrentes (condition de la femme, importance de l’écriture en tant que ‘ancre de salut’, quête identitaire, etc.) et les parallélismes avec les expériences réelles de l’écrivaine. Seulement dans un second temps, on arrive à créer des liens avec d’autres écrivains — et surtout écrivaines — de la francophonie, tel que, par exemple, Mariama Bâ, Maryse Condé ou Assia Djebar. Tous ces écrivains montrent en fait les mêmes désirs et les mêmes espoirs en ce qui concerne en particulier la volonté de raconter les femmes, leurs rebellions — silencieuses ou pas — et l’importance du contact avec l’autre pour mieux se connaître et pour se libérer de ses propres chaînes. Dans le second dossier, on analyse un aspect de la vie humaine qui apparaît à une première lecture tout à fait différent de la littérature : la nourriture. Littérature et nourriture, jamais deux thématiques peuvent sembler plus opposées, mais si l’on commence à gratter la surface on reconnaît la complémentarité de ces deux activités humaines et leurs points communs : la littérature comme la nourriture sont en effet indispensables à la survie de l’homme, tout en « nourrissant » son coté à la fois intellectuel et physique, mens et corpus. Ces deux activités ont également la même valeur à leur base : l’importance du partage et de la rencontre pour s’enrichir et mieux se 308 RECENSIONI E NOTE comprendre, comme il nous est bien montré dans la description des répas des Bohras et des Bene israël en Inde. En ouvrant enfin la dernière partie de la revue à la description de différentes œuvres d’art — telles qu’essais, romans, photographies et films —, on nous montre l’importance de la rencontre à la base de n’importe quel produit artistique. Ce que toutes ces œuvres nous montrent c’est la représentation de ceux que Dostoïevski appelait déjà les « humiliés et offensés » de la société, pour faire comprendre à n’importe quel lecteur que la souffrance peut nous rapprocher en nous montrant que nous ne sommes pas seuls et en nous indiquant une possibilité de réagir, de renaître. Les artistes ont bien compris ce message, car « souffrir » peut se lire aussi comme « s’o(u)ffrir », se donner aux autres à travers des mots et images pour transmettre ses peurs et pour trouver, dans cette ouverture, le moyen de réaliser ses rêves. Marta Montesarchio Finito di stampare nel mese di settembre del 2011 dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.» 00040 Ariccia (RM), via Quarto Negroni, 15, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma. Carta copertina: cartoncino Amadeus silk 250 g/mq distribuito da Converting & Paper S.r.l.; interno: Usomano bianco senza legno White form 80 g/mq distribuito da Converting & Paper S.r.l. | Stampa nero: Océ VarioPrint 6250 Ultra; colore: Océ ColorSmart 665 Pro | Laminazione Foliant Gemini Compressor 400 A e Softsilk Dry JHM (polipropilene Matt) 25 µm distribuito da Mag Data–S.p.A. | Allestimento brossura fresata con Explore della New Bind S.r.l. e adesivo hot–melt poliuretanico Purmelt QR 3317 BR della Henkel | Taglio POLAR–Werke Adolf Mohr 82 ST.