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Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 - Loreto, Ancona, tra 1556 e 1557

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Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 - Loreto, Ancona, tra 1556 e 1557
35.
Lorenzo Lotto
(Venezia, 1480 - Loreto, Ancona, tra 1556 e 1557)
Adorazione del Bambino
quinto decennio del XVI secolo,
con adattamenti tra 1554 e 1555
Nella seconda edizione delle Vite
del 1568 Giorgio Vasari, in visita
alla basilica di Loreto non molto
tempo dopo la scomparsa di Lorenzo Lotto – genio inquieto del
Rinascimento e sensibile interprete
dell’animo umano, giunto in Santa
Casa nel 1552, dove aveva trovato
accoglienza e comprensione dopo
la solitudine dell’ostile ambiente
familiare e il doloroso esilio anconetano – nella breve biografia dedicata al pittore veneto e assegnando
maggior spazio alla tarda produzione lauretana più che a quella
giovanile, mostrava di ritenere che
le opere adattate nella cappella del
coro di Santa Maria fossero state
realizzate negli ultimi anni della
sua vita, comprendendo tra queste
Prima del restauro
anche l’Adorazione del Bambino
che scambiava per una Natività
e il Sacrificio di Melchisedech che
confondeva con Mosè: «Finalmente essendo Lorenzo vecchio [...] se
n’andò alla Madonna di Loreto
[...] e quivi risoluto di voler finire
la vita in servigio della Madonna
ed abitare quella Santa Casa, mise
mano a fare istorie di figure alte un
braccio e minori, intorno al coro
sopra le sedie de’ sacerdoti. Facevi il
nascere di Gesù Cristo in una storia
[...]». La resa piuttosto popolaresca
delle figure di Elisabetta e Zaccaria
aveva probabilmente determinato
l’errata interpretazione dell’Adorazione del Bambino da parte dello
storiografo aretino (Vasari 1568
ed. 1976, III, p. 554) così come di
tecnica/materiali
olio su tela
scheda
Maria Claudia Caldari
dimensioni
156,5 × 212 cm
restauro
Fabio Piacentini (Laboratorio di
Restauro Dipinti dei Musei Vaticani)
provenienza
Loreto (Ancona), Basilica
della Santa Casa, cappella del Coro
(oggi spagnola o di San Giuseppe);
dal 1850-1853 nel Palazzo Apostolico
con la direzione di Antonio Paolucci
e la supervisione di Maria Claudia
Caldari
collocazione
Loreto (Ancona), Museo - Antico
Tesoro della Santa Casa
indagini
Ulderico Santamaria, Fabio Morresi
(LDCR-Laboratorio di Diagnostica
per la Conservazione e il Restauro
dei Musei Vaticani)
Cinelli Calvoli (Cinelli Calvoli in
Grimaldi, Sordi 1988, p. 9) che
nel 1705 interpretava il tema come
una «Natività co’ pastori che vanno
al presepio».
Alla presenza di Lotto a Loreto era
dunque legata soprattutto la sistemazione della cappella del coro,
in concomitanza con i numerosi
lavori che interessavano, intorno
alla metà del XVI secolo, l’aspetto
strutturale della basilica ma anche
quello decorativo del grande cantiere artistico (Grimaldi, Sordi
1988, pp. 8-9 e Grimaldi 2002,
pp. 102-106).
L’architetto Galasso Alghisi da
Carpi, incaricato della direzione e
della riorganizzazione dell’insieme,
intendeva certamente utilizzare i
dipinti dell’artista, pervenuti alla
Santa Casa dopo la sua oblazione
dell’8 settembre 1554 per «quetar
la [...] vita in questo sancto loccho», dove trovò la pace – come
ricorda ancora Vasari tracciandone
l’immagine di uomo pio e devoto
– dopo una lunga e tormentata vicenda personale e artistica.
Il governatore monsignor Gaspare Dotti, veneziano, che aveva accordato ospitalità e commissioni
a Lotto, con la nomina a pittore
della basilica, aveva anche accolto
la richiesta dei capitolari della collegiata lauretana di trasferire il coro
– dall’incipiente Cinquecento nella
cappella principale dell’abside della
chiesa – nella cappella del transetto
destro, attuale cappella spagnola o
di San Giuseppe, per «l’inclemenza
dell’aria». Alla realizzazione del progetto contribuiva finanziariamente
anche Pietrantonio Sanseverino,
principe di Bisignano, committente della decorazione della vicina cappella dedicata a Sant’Anna,
mentre il protonotario apostolico
Dotti chiamava Camillo Bagazzotti di Camerino a collaborare con
l’artista, che sembra avesse iniziato l’ordinamento dei quadri poco
dopo l’oblazione, come registra un
documento del 29 ottobre 1554. In
occasione dei lavori di decorazione
delle cappelle del transetto iniziati
già intorno al 1545 per volontà del
protettore – il cardinale Rodolfo Pio
da Carpi – su commissione di alti
prelati e di notabili, l’allestimento
dell’ambiente veniva affidato, oltre
che a Lotto, al forlivese Francesco
Menzocchi e a Pellegrino Tibaldi
(Grimaldi, Sordi 1988, pp. 8-9 e
Grimaldi 2002, p. 103).
Il ciclo organizzato coordinava, in
maniera oggi tuttavia non definibile per il generale smembramento
del complesso operato a fine Ottocento sotto la direzione di Giuseppe Sacconi, le sette tele raffiguranti
San Michele caccia Lucifero, il Sacrificio di Melchisedech, il Battesimo di
Cristo, Cristo e l’adultera, l’Adorazione del Bambino, l’Adorazione dei
Magi e la Presentazione di Gesù al
tempio con gli stalli lignei del coro,
destinati ai componenti il Capitolo
incaricati dell’officiatura, e l’assetto
architettonico della cappella.
Dopo il restauro
Durante il restauro, prime prove di pulitura
Dopo il restauro, particolare con gli angeli
In base alle fonti documentarie, a
iniziare da Vasari, è possibile determinare che i dipinti erano ripartiti
in due gruppi di tre entro appositi
riquadri, interposti da Cristo e l’adultera, di dimensioni inferiori, sistemato sopra la cattedra episcopale. Al centro di ciascun insieme erano collocate le due tele maggiori, il
Sacrificio di Melchisedech ispirato al
Vecchio Testamento e l’Adorazione
del Bambino, a fianco della quale
erano state poste, in stretta connessione con storie dell’infanzia
di Gesù e a esaltazione della figura
di Maria, l’Adorazione dei Magi e
la Presentazione di Gesù al tempio,
Durante il restauro, particolare con la Vergine, pulitura
con ogni probabilità gli unici dipinti appositamente realizzati per
gli spazi soprastanti gli stalli in
quegli anni estremi. Quest’ultimo,
unanimemente considerato la conclusiva testimonianza artistica di
Lotto e lasciato incompiuto prima
della morte, viene infatti ricordato
da Vasari, insieme all’Ado­razione
dei Magi, come eseguito dal pittore durante il periodo finale di
attività a Loreto. Non citate tra
le opere che l’artista aveva con sé
ad Ancona, integre, complete e
unitarie (pur con qualche menda
nell’Adorazione dei Magi per una
certa corsività popolaresca del lin-
guaggio che ha fatto mettere in
dubbio la sua piena paternità) sono
state eseguite intorno al 1555, non
rivelando aggiunte, ridipinture e
correzioni contrariamente alle altre realizzazioni (Zampetti 1980,
p. 53; Varese in Lorenzo Lotto nelle
Marche 1981, pp. 457, 460-461;
Zampetti 1989, pp. 238-239).
Queste ultime infatti, identificabili
a evidenza con produzioni menzionate nel Libro di spese diverse – registro di conti e diario dell’anima,
documento della vita errabonda e
inquieta nel quale il pittore offre
informazioni preziose, dialoghi interiori e profonde rivelazioni sulla
sua sofferta umanità – dalle misure originariamente molto varie,
erano state trasferite da Ancona a
Loreto dallo stesso Lotto alla fine
di agosto 1552, «raconzate» dopo
il fallimento dell’offerta pubblica
nella lotteria di Ancona dell’agosto
1550, quando aveva messo «a lotto
e ventura» i suoi quadri, persino i
trentaquattro disegni bergamaschi
delle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore a lui tanto cari: saggi
figurativi non omogenei, ma differenti sotto l’aspetto cronologico
e iconografico, antecedentemente
prodotti più per una committenza
privata che per un ambito sacro.
Durante il restauro, in corso di pulitura
Durante il restauro, particolare con il volto di san Gioacchino, pulitura
Durante il restauro, con tasselli non puliti
loro telai originali e col riattacarle
[...] su nuovi telai formati da più
larghe tavole, e di spalmare una
grossa imprimitura su di esse per
accompagnarne la superficie con
quella delle tele soprappostevi, ed
estendervi con analoghe aggiunte le
composizioni fatte su di esse» (Gianuizzi 1894, 3-4, pp. 35-47; 5-6,
pp. 74-94).
E proprio le rettifiche e gli ampliamenti apportati hanno sollecitato,
nel corso del tempo, provvedimenti di restauro per la salvaguardia e
la conservazione di queste pagine
dell’estrema vicenda creativa del
pittore, palesandone, in tutto o in
parte, la natura e la qualità.
La lettura dell’Adorazione del Bambino, resa particolarmente difficile
da un più invasivo intervento che
ne aveva mutato le dimensioni e alterato le proporzioni con l’estensione soprattutto a sinistra e il conseguente squilibrio della prospettiva
compositiva originaria, viene oggi
sostanziata dall’attuale restauro,
dopo quello subito nel 1981 in
occasione e dopo la mostra di Ancona dedicata a Lorenzo Lotto nelle
Marche. Lo studio della diagnostica
per immagini e il controllo visivo
della superficie pittorica del dipinto hanno determinato la necessità
del recupero conservativo odierno,
dovuto principalmente alle operazioni eseguite nei restauri prece-
La disposizione dei dipinti del coro ricordata da Giorgio Vasari non
sembra tuttavia rispondere alla
loro esatta collocazione nella cappella; maggiormente attendibile
appare la descrizione di Giovanni
Cinelli Calvoli, medico e bibliografo fiorentino accolto a Loreto
dal governatore della Santa Casa
Melchiorre Maggi all’inizio XVIII
secolo (Grimaldi 2002, p. 104)
che, nondimeno, rimarca errate
interpretazioni iconografiche vasariane (Cinelli Calvoli in Grimaldi, Sordi 1988, p. 9) e non
chiarisce se la successione risponda
a un preciso programma espositi-
vo del pittore e della committenza
lauretana, o piuttosto a un criterio
estetico e adattativo.
La maggior parte delle tele, al momento della sistemazione e dell’aggiustamento negli spazi posti sopra
gli stalli, ha subito modificazioni,
ridipinture o aggiunte, oggi per lo
più non percepibili per gli interventi restaurativi effettuati nel corso degli ultimi decenni, ma ancora
ravvisabili a fine Ottocento, come
ricorda lo storico Pietro Gianuizzi,
osservando che l’adattamento ai vani destinati dall’architetto Alghisi
ha reso necessario il loro ingrandimento: «[...] con sbollare le tele dai
denti. Il supporto ligneo (telaio) e
tessile in opera attualmente (tela da
rifodero) avevano evidenziato un
complessivo irrigidimento di tutto
il sistema pittorico, provocando il
sollevamento e la caduta di alcune
parti della pellicola originale e, in
modo ancor più diffuso, delle numerosissime stuccature eseguite
per risarcire le mancanze del colore
originale nel corso dei precedenti
lavori di risanamento; questa fenomenologia di degrado, localizzata prevalentemente sui bordi del
dipinto, appare una conseguenza
dell’eccessivo tensionamento del
supporto tessile e della ormai perduta possibilità della variazione
dimensionale del telaio ligneo in
opera. Inoltre la presenza di strati
di vernice di restauro, applicata in
più stesure discontinue e di spessore variabile, aveva determinato la
formazione di una superficie esterna disomogenea che contribuiva
all’irrigidimento dell’intero ‘sistema pittorico’, costituendo così un
ulteriore fattore di degrado. Le vernici infine, seppur sufficientemente
brillanti, presentavano un’evidente
alterazione cromatica, accentuando l’intervento di presentazione
estetica eseguito nel corso dell’ultimo restauro dei primi anni Ottanta
del Novecento.
In tale circostanza vennero rimosse
due tavole che allargavano la tela
Dopo il restauro, particolare con la Vergine e san Giuseppe
Durante il restauro, particolare con tasselli non puliti
alle estremità e il drappo grigio che
fungeva da fondale, dipinto grossolanamente e prolungato addirittura
al di fuori del gruppo di personaggi sacri in primo piano, ritenendoli
aggiunte successive: ope­
razione
coraggiosa e importante che ha ri­
velato comunque un sottostante
tendaggio verde e un terzo angelo
dietro la Vergine, ristabilendo il
rapporto originariamente esistente tra le varie figure e restituendo
un mondo espressivo e una tessitura cromatica che, sottolineati
da lacche ormai intristite per le
ponderose ridipinture, riparlavano
un linguaggio lottesco seppur crepuscolare, con brani di eccezionale
qualità, come quello dell’attonita
Vergine o di Sant’Elisabetta che
mostra la croce al Bambino, ancora squillanti di contrappunti quasi
tattili, garanti di un’autografia talora messa in discussione.
Anche l’attuale intervento conservativo non lascia dubbi sul riferimento all’artista comunicando,
in un approccio religioso intimo e
totale, commozione e pietà figurative pur attraverso una qualità linguistica un po’ desueta e un tessuto
colorico avvizzito soltanto da precedenti pesanti interventi.
Di uno di essi è rimasta memoria
nella scheda n. 42 redatta con altre
a Perugia già dal 1889 dall’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti delle Marche
e dell’Umbria e consegnata il 30
giugno 1902 a Emilio Lodrini, regio amministratore del Pio Istituto
della Santa Casa (Archivio Storico
della Santa Casa di Loreto. Titolo
XXXXI, busta 3, fascicolo 7), nella
quale il dipinto viene descritto «In
discreto stato, ma con la tela offesa
da una fenditura» e l’annotazione
«Rinfrescato semplicemente da
una sola mano di vernicetta datagli nel 1883 dal riparatore romano
Giuseppe Missaghi. Occorrerebbe
di rifoderarlo». L’accurata esposizione del tema, con l’annotazione
della collocazione del quadro «entro vecchia e sciupata sottile cornice dorata» oggi non più esistente,
annota la stima di 1.500 lire, una
delle più basse assegnate alle otto
tele elencate, probabilmente dovuta proprio allo stato di conservazione del dipinto e all’alterazione «fattagliene dall’autore, che lo
ingrandì poscia coll’aggiunta da
lui eseguita in tavole per adattarlo
sopra gli stalli corali suddetti» (in
Grimaldi 2002, p. 141). L’apparato documentario relativo alle
cappelle della chiesa registra infatti
nell’anno precedente, in data 12
novembre 1882, un preventivo di
Missaghi «per la foderatura e la
riparazione dei quadri dipinti da
Lorenzo Lotto esistenti nella grande sala del Palazzo di Santa Casa
di Loreto» (Archivio Storico della
Santa Casa di Loreto, Governo
Santa Casa, Regno d’Italia, Titolo
XLIV, busta 1, fasc. 5 in Grimaldi, Sordi 1988, pp. 90-91), il cosiddetto ‘Salone del Concorso’ di
Palazzo Apostolico dove, già dal
1853, il Commissario apostolico monsignor Camillo Narducci
Boccaccio aveva disposto il trasferimento di alcune tele tra cui l’Adorazione del Bambino dalla cappella
del coro della basilica.
L’elenco di Missaghi, peraltro approvato da Giovan Battista Cavalcaselle, non enumera tuttavia
la «santa Famiglia», citata in calce
con il «Sacrificio di Mosè», poiché
«non abbisognano che di piccolissime riparazioni da potersi comprendere nelle altre descritte». Allo
stato conservativo fa riferimento
la ricognizione dello stesso Cavalcaselle che, in qualità di regio
commissario, insieme a Giovanni
Morelli aveva compilato circa venti
anni prima a Loreto, il 14 maggio
1861, per l’Intendenza generale di
Ancona - Mandamento di Loreto,
l’inventario dei dipinti di Lorenzo
Lotto che si trovavano nel palazzo
regio, segnalando al secondo posto
e con l’altissimo valore di interesse
ed eccezionalità di ottomila franchi, «la Sacra famiglia composta di
s. Giuseppe, la Madonna, il Putto
steso in terra, s. Giovannino e due
angeli; s. Anna e S. Gioacchino. Il
fondo, una tela, ed il paese», con la
precisazione «In molte parti il colore è caduto, ed in altre minaccia
di staccarsi».
Gli studi pionieristici di Cavalcaselle e Crowe forniscono la prima
descrizione particolareggiata delle
opere di Lotto, a fondamento di
ogni successiva cognizione dello
sviluppo stilistico dell’artista (Crowe, Cavalcaselle 1871 ed. 1912,
III, pp. 391-432); l’iniziale entusiasmo per la sua «facoltà inventiva
e la sua fantasia poetica straordinarie» lascia successivamente il posto
alla disapprovazione per la propensione verso gli eccessi e la mancanza di gusto. Maggior ammirazione
viene espressa da Giovanni Morelli
(1893) che sottolinea il «potere
d’immaginazione, concezione artistica e ardore poetico» del pittore
veneto.
L’esegesi critica ma soprattutto la
vicenda restaurativa definiscono
in tal modo l’iter storico e compositivo del dipinto. L’intervento di
pulitura effettuato nei primi anni
ottanta del Novecento che, come
anticipato, ha fatto emergere un
tendaggio verde e una terza figura
di angelo, ha permesso di accostare
con maggior attendibilità l’esemplare di Loreto all’Adorazione del
Bambino del Louvre, databile tra
il 1535 e il 1538-1539 e ritenuta
concordemente dalla critica il prototipo del dipinto marchigiano, «la
cui realizzazione dovrebbe riportarsi agli anni 1546-1549. Oppure
potrebbe trattarsi di una versione
ancora posteriore» (Pallucchini,
Mariani Canova 1975, p. 122, n.
268). Humfrey identifica il dipinto
citato nel Libro di spese con la tela
del Louvre, sottolineando erronea-
mente la presenza di soli due angeli
nel quadro di Loreto e ignorando
il terzo angelo rivelato dal restauro
(Humfrey 1998, pp. 200-201).
Di altissima qualità e raffinatezza
esecutiva, il dipinto parigino, sicuramente destinato a devozione
privata per una rilevante committenza, ottunde in parte il livello
della replica lauretana, più tarda e
qualitativamente inferiore soprattutto a causa delle vicende conservative subite. La maggior parte
della critica l’ha identificata con
«un quadro grande de la Madona,
Jesu Christo, santa Helisabet, Zacharia e Joan Baptista con Josep e
tre angelj» citato nel Libro di spese,
in cui compare, con altre sei e con
un valore di 45 ducati, nella lista
delle opere lasciate da Lotto il 9
giugno 1549, alla vigilia della sua
definitiva partenza per le Marche,
a Jacopo Sansovino, architetto sovrintendente in quell’anno della
fabbrica di San Marco a Venezia,
perché ne curasse la vendita; restituite nel maggio 1550 al pittore ad
Ancona, con altri dipinti e gioielli
a lui infruttuosamente affidati, per
tramite del mercante anconetano
Giovanni Molinelli (Grimaldi,
Sordi 2003, c. 66r., p. 101, annotazione del 12 maggio 1550) e
messe in vendita nell’agosto dello
stesso anno nell’umiliante lotteria
organizzata presso la Loggia dei
Mercanti, nella quale «el quadro
del Melchisedech» e «el quadro
grande de la Madona e Cristo, san
Joanino, Helisabet et Zacharia, san
Josep et tre anzoletti», rimasti invenduti, figurano nell’elenco dei
dipinti subito dopo la menzione
dei cartoni per le tarsie di Bergamo.
Supportato da scarni dati documentari che non consentono di
ricostruirne agevolmente l’esatta
collocazione temporale, il prezioso
componimento lauretano non permette infatti una puntuale determinazione cronologica per la mancanza di precisi appoggi storiografici e le non poche divergenze critiche che fanno oscillare la datazione
tra il 1538 e il 1539 proposta da
Berenson (1955 ed. 1990, p. 118),
in stretta attiguità iconografica con
Durante il restauro, particolare che documenta la doppia stesura della mano di san
Giuseppe e il restauro precedente
la dispersa Madonna con il Bambino e angeli già a Osimo, e il 15541556 di Banti e Boschetto (1953,
p. 95). Più probanti e argomentate
risultano invece le correlazioni e
le ipotesi che situano l’opera, per
assonanze stilistiche, nel quinto
decennio del XVI secolo avanzate da Mariani Canova, Zampetti
(1546-1549), Varese (1548-1549)
(Zampetti 1980, p. 53; Varese in
Lorenzo Lotto nelle Marche 1981,
p. 448), senza tuttavia sottacere gli
adattamenti apportati tra il 1554 e
il 1555 per il coro della basilica.
Tra le più alte espressioni della
tradizione iconografica cattolica,
il tema esposto e soprattutto il
particolare di san Giovannino che
presenta al piccolo Gesù la croce,
simbolo del sacrificio di Cristo
e della sua missione redentrice,
non ha riscontro nella letteratura
evangelica o apocrifa del Nuovo
Testamento, ma è ispirato al repertorio rinascimentale che associa
il Battista all’infanzia di Gesù. La
tematica della prefigurazione del
suo destino, che trova espressione
anche in periodo di Controriforma
in una serie di motivi iconografici nei quali il Bambino è messo in
relazione alla croce come anticipazione della sua passione e morte, è
tratteggiata nel dipinto lauretano
con minime varianti rispetto al
Dopo il restauro, particolare con il Bambino, san Giovannino e sant’Anna
prototipo del Louvre, certamente nell’ottica dell’inclusione della
tela in un ambito sequenziale dal
contenuto cristologico. Inseriti in
un sintetico contesto paesistico di
matrice veneta con apertura sullo
sfondo, i personaggi sacri che fanno corona al Figlio di Dio configurano l’immagine in termini di
Sacra Conversazione, vivacizzata
dagli effetti di plasticità e di animazione altamente espressive. Nella
sua intimità commossa l’opera si
caratterizza per il taglio scenografico segnato dal calibrato schema
compositivo che si sviluppa dalle
figure diagonalmente disposte nello spazio scandito dalla quinta del
drappo verde.
Il Bambino, deposto su un bianco
lenzuolo, nudo e sgambettante,
cerca di afferrare la croce – segno
preconizzante cui allude probabilmente anche la purpurea coltre – che gli porge un’accigliata e
pensosa sant’Elisabetta, provocando la sorridente complicità di san
Giovannino ammiccante a Maria,
psicologicamente indagata nel
suo sbigottimento e turbamento;
a tali espressioni di sensibilità religiosa finemente modulata, così
come a quella di adorazione quieta
e meditativa riscontrabile anche
negli angeli retrostanti, Berenson
(1955 ed. 1990, pp. 117-118) riferisce inoltre l’insolito tema del-
l’«Agnizione del Bambino», ossia il
riconoscimento della natura divina
di Cristo, trattato in altri esemplari
da Lotto a iniziare dalla distrutta o
dispersa Madonna con il Bambino e
angeli adoranti di Osimo collocabile negli anni 1535-1539, in cui
il motivo dell’«Adorazione» viene
ugualmente ripreso con assoluta
originalità anche nelle realizzazioni
oggi a Postdam e a San Pietroburgo
(Artemieva 2009, pp. 179-181).
L’incarnazione quale realizzazione
della funzione immolatrice e redentrice di Cristo è inoltre sottolineata, nel quadro lauretano, dal
gesto didascalico di Zaccaria atto
a indicare la croce – vero punto
focale dell’intera composizione e
immagine cardine dell’iconografia
cristiana sulla quale si incentra la
contemplazione religiosa – mentre
rivolge lo sguardo verso un codificato san Giuseppe con barba e capelli grigi, diverso da quello inusitatamente giovanile della versione
parigina, ritratto con capelli neri
e accese vesti gialle e rosse, in cui
si possono cogliere, come ha sottolineato Carolyn Wilson (2009,
pp. 145-146), stimoli della predicazione francescana in ambiente
veneziano.
Nella sua avvertita omogeneità, al
di là delle versioni del tema e del
precedente iconografico già delineato, l’opera non trova particolari
agganci e rimandi tipologici, fatta
eccezione per la figura del piccolo
Gesù che per genialità espressiva ricorda quello paffuto ed esuberante
che si slancia con impeto verso san
Giuseppe nella pala della Madonna
delle rose di Jesi, o quelli ipercinetici
della Madonna del Rosario di Cingoli e della grande tela votiva di San
Cristoforo tra i santi Rocco e Sebastiano di Loreto, per citare alcune
opere marchigiane, ma stabilisce
maggiori punti di tangenza con
l’Adorazione dei pastori di Brescia
del 1534 circa e con la Natività della National Gallery di Washington
del 1523: opere tutte proiettate a
un impegno profondamente cristiano e tra i maggiori contributi
all’arte religiosa nel particolare momento di crisi del Rinascimento.
Il dipinto lauretano appare anch’esso una superba interpretazione destinata a un pubblico di fedeli sufficientemente colto per antica elezione rinascimentale, incarnazione
di un’agiografia e di un’iconografia
che sono sintesi di devozione, dove l’immagine diventa mezzo di
sollecitazione mistica e di comunicazione dell’ortodossia, di diffusione della spiritualità ma anche
di espressione artistica ed estetica.
Carica dei più alti valori e contenuti ideologici, l’opera costituisce
un esempio illuminante di arte
dalla dimensione quasi domestica
e popolare, in cui il fattore divino
assume toni affettivi e benevoli e
l’adozione di tipologie di immediata funzione didascalica sembra anticipare le direttive controriformate. In un comunicativo e toccante
idioma, eletto a edificazione e persuasione umana e devota, nel quale
pietas e suggestione si armonizzano
mirabilmente, sembrano riepilogarsi i caratteri che si intrecciano
sul panorama della feconda attività
artistica lottesca, in una fase finale della produzione, ancora latrice
di incanto poetico e introspezione
psicologica, visibili in opere in cui,
come qui, il racconto devozionale è
intenso e pregnante di sentimenti.
L’organica sintassi iconografica si
carica di caratterizzazione esecutiva nell’impianto di orchestra-
ta euritmia compositiva, basata
sull’armonia tra luce e volume, e
nella seduzione di una succosità
colorica acutamente dosata, seppur ormai immiserita. Ed è proprio
l’uso sapiente quasi emotivo della
luce, immobile e significante, a sostanziare di sé la trama narrativa,
costruendo e definendo le figure
dall’umanità intimidita e inconfondibilmente terrena, nelle quali
il dissonante giustapposto gioco
cromatico dei gialli violenti, del
rosso corrusco, dei viola, simbolo
di umiltà, degli azzurri e dei verdi
perlacei, tutti ugualmente allegorici, semplifica l’evento religioso
rifiutando ogni intellettualismo e
traducendo la schiettezza del tema
fideistico con reiterata sensibilità e
intensità emotiva.
Bibliografia
Vasari 1568 ed. 1976, p. 554; Cinelli
Calvoli 1705 ed. 1988, p. 9; Crowe,
Cavalcaselle 1871 ed. 1912, III, pp.
391-432; Morelli 1893; Gianuizzi 1894, pp. 35-47, 74-94; Venturi
1895, passim; Banti, Boschetto
1953, p. 95; Berenson 1955 ed. 1990,
pp. 117-118; Zampetti 1969; Pallucchini, Mariani Canova 1975, p.
122 n. 268; Zampetti 1980, pp. 53,
70; Varese in Lorenzo Lotto nelle Marche 1981, pp. 448-449, 457, 460-461;
Mascherpa 1984, 1, pp. 133-137;
Grimaldi, Sordi 1988, pp. 8-9, 9091; Zampetti 1989, pp. 238-239;
Mozzoni, Paoletti 1996, pp. 158159; Humfrey 1998, pp. 200-201;
Grimaldi 2002, pp. 102-106; Grimaldi, Sordi 2003, p. 101; Artemieva 2009, pp. 179-181; Wilson 2009,
pp. 145-146; Coltrinari in Lotto nelle
Marche 2011, pp. 196-199.
Bibliografia di riferimento
Archivi
Archivio Storico della Santa Casa di Loreto. Titolo XXXXI, busta 3, fascicolo 7.
Archivio Storico della Santa Casa di Loreto, Governo Santa Casa, Regno d’Italia, Titolo XLIV, busta 1, fascicolo 5.
Opere a stampa
1568 ed. 1976
G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, Firenze 1568,
ed. cons. a cura di L. Ragghianti, C.L.
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