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un appassionato in montagna - Vecchie Glorie del Gran Sasso

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un appassionato in montagna - Vecchie Glorie del Gran Sasso
Un appassionato in montagna
di Francesco Saladini
Scrivo delle mie cime (questo non è cambiato con gli anni, o arrivi su o tanto valeva restare
a letto) perché credo utile dare conto di come si può dedicare alla montagna gran parte delle
domeniche di oltre mezzo secolo senza combinare nulla di memorabile e però con la gioia
retrospettiva di avere compiuto una scelta felice (oltre che di avere avuto un’immeritata
fortuna) ma anche per sollecitare altri a dire delle loro, più ‘importanti’ (non è difficile) o meno di
quelle sotto elencate.
Non c’erano praticamente alpinisti ad Ascoli, quando sono nato nel 1933 e a lungo dopo, ma
solo ‘appassionati’, una razza che ai tempi del GAP odiavamo sinceramente: appassionati di che, se
si limitavano a scarpinare sui sentieri e non s’erano mai legati a una corda?
Poi il tempo ha fatto il suo lavoro: quando leggo (Lo Scarpone, dicembre 2005) di ragazzi che
salgono in Himalaya picchi di cinque o seimila metri, anche più d’uno nella stessa stagione, per vie
anche nuove e anche di un non meglio identificato (da me) 7c, mi rendo conto di essere, al
confronto, sullo stesso piano di chi (alpinisticamente) irridevo cinquanta anni fa.
Ma non mi sento da meno di questi ragazzi: non tanto per ragioni obiettive - i tempi, l’ambiente,
i materiali - quanto perché ciò che ho avuto in montagna è stato, insieme col resto, più che
sufficiente a riempirmi la vita, esattamente come quelle vittorie riempiono la loro e come,
altrettanto certamente, le scarpinate scaldavano il cuore agli appassionati di allora.
Propongo dunque il quadro (quasi) completo dell’attività di un escursionista-alpinista e scialpinista medio (medio, appunto, tenendo conto delle anzidette ragioni) non per confrontarlo con
quello di chi in roccia e/o su neve ha fatto di più e meglio ma solo per avallare la forse scontata tesi
che ogni alpinismo è ugualmente degno.
Buona parte delle salite (vedi curriculum), salvo quelle da secondo o con guida, sono state
effettuate per portare su altri durante corsi o uscite collettive, mentre in cordata ho preferito, da
quando m’è stato possibile e per quanto lo è stato a loro, legarmi con delle compagne: scelta questa
che contribuisce notevolmente alla condizione di soddisfazione retrospettiva di cui sopra e che
forse illustra al meglio la dimensione soft nella quale ho vissuto la mia ‘passione’ montanara.
Dicembre 2005
Ercole e Francesco Saladini al Duca degli Abruzzi il 17 settembre 1950
1
L’alpinismo
non è uno sport
per signorine
Fai click sugli argomenti che seguono per accedere
direttamente alle parti che interessano:
il Vettore
sul ‘Dito del diavolo’
la naia
vita e morte sul Gran Sasso
l'autore a dodici mesi
le Alpi
sci alpinismo
l’M6
i corsi di formazione alpinistica
vecchie glorie del Gran Sasso
curriculum
2
il Vettore
Tra cima principale e Redentore le mie salite da tutti i versanti, d’estate e d’inverno, a piedi e
con gli sci, superano abbondantemente le centocinquanta (mi mancano gli appunti iniziali), senza
contare le traversate per la Valle del Lago.
Il Vettore è il primo amore, è lì che ho cominciato negli anni immediatamente successivi alla
guerra, ’46 e ‘47, quando la sola villeggiatura che la mia famiglia poteva permettersi era ad
Arquata e da Arquata (non c’era ancora la strada per Forca di Presta) si andava alla vetta per il
bosco poi per i prati e infine per le creste, quasi 1700 metri di dislivello: all’inizio dietro a Nino
Allevi, sottotenente degli alpini in Russia ed esecutore di invidiate corde doppie sulle mura della
Rocca, poi da soli Ercole, mio fratello, ed io.
E appunto da soli salivamo quella volta, probabilmente nel ‘49; non ricordo se fossimo all’inizio
o alla fine dell’inverno ma certo nevicava fitto; ad Ercole sembrò stupido proseguire e tornò
indietro da sotto la sella mentre io andai avanti deciso a raggiungere la cima; indossavo diverse
maglie, una camicia, due giacche da città una sopra all’altra, ma soprattutto la testarda incoscienza
dei sedici anni.
In vetta la nevicata era bufera, quando mi girai per tornare non trovai più le orme, cancellate dal
vento: scesi a casaccio rendendomi presto conto di non essere sulla via giusta: troppo ripido, rocce
sconosciute, salti improvvisi.
Non cercai di risalire, in cima avrei ritrovato le stesse condizioni; dunque giù nel grigio
uniforme, a lungo, affondando e scivolando nella neve o su piccole slavine, evitandone per pochi
metri una più grande, fino a sbucare finalmente sotto la cappa di nuvole.
Capii con sollievo che ero all’esterno della valle del Lago; dovetti risalire per uscire dal canale
(non sapevo si trattasse dell’imbuto est del Vettore né, ovviamente, che ne avrei effettuato nel 1982
la prima discesa in sci) ma ormai ero salvo.
Arrancai al buio, bagnato fradicio, verso una luce lontana che un’ora dopo era il lampione di
un’osteria di Montegallo; sotto gli occhi stupiti dei paesani scolai d’un fiato un litro di bianco, poi
ancora: non avevo da mangiare e mi aspettavano, per tornare ad Arquata, dodici chilometri di
strada.
Li feci dapprima cantando poi sempre più piano e più stanco; quando arrivai Ercole cercava nel
bar di organizzare un soccorso: ripresi a bere senza rendermi ancora conto di quanta fortuna avevo
avuto … poi devo essere crollato.
Più o meno dieci anni dopo, il 30 marzo 1958 alle 5 di mattina, salgo con Pinetta Teodori (non
siamo ancora sposati), Claudio Perini e Tito Zilioli verso il canalino per farne, ora ci riteniamo
esperti e un mese fa abbiamo costituito il Gruppo Alpinisti Piceni, la prima ripetizione invernale.
Su a lungo nel bosco poi allo scoperto, alla neve ci leghiamo in due cordate; è Tito – il più forte,
dietro a lui ho salito l’anno scorso la via dei Triestini - ad attaccare il punto chiave, poi gli dà il
cambio Claudio; sopra il camino comincia a nevicare, ma ormai è più facile andare avanti che
scendere.
3
Alle 15 siamo in un canale, Tito davanti si ferma,
resta a lungo immobile sotto la neve, non riusciamo a
capire perché; fa molto freddo, passo in testa, mi segue;
saliamo nella tormenta una crestina secondaria poi
quella finale, battuta da un vento indicibilmente
crudele; alle 17, girandomi per respirare, scorgo un
palmo di metallo rosso incastonato nella neve: è il
cippo, siamo in vetta; urlo, ci raggruppiamo, poi subito
giù; sotto la sella la tormenta si placa ma restano nebbia
e nevischio.
Tito, ultimo, rallenta; è lui a chiedere di fermarci per
mangiare qualcosa; ha le labbra livide ma assicura di star
bene; poi però rallenta ancora, Claudio lo incita, lo aiuta
tirando la corda; smettiamo di credere a un momento di
stanchezza nel vederlo avanzare esitando, poggiato alla
piccozza malgrado il terreno facile; si ferma più volte,
quando lo raggiungiamo nella nebbia è seduto sulla neve,
negli occhi una fissità strana: “lasciatemi, dice, perché
state qui?”; cerchiamo di aiutarlo a camminare, le gambe
non lo reggono.
Alle 19,30 siamo a 50 metri dallo stazzo Petrucci, al di
Dicembre 1957 – Tito Zilioli alla palestra delle là c’è il canalone di Prato pulito, si potrebbe correre a
Vene Rosse sulla Montagna dei fiori
cercare soccorso; ma ormai Tito, se lo lasciamo, s’abbatte
sulla neve senza conoscenza; provo a portarlo in spalla, vi riesco solo per qualche metro; Pinetta,
da poco laureata in medicina, si china su di lui: “sta per morire”, dice sconvolta.
Lo trasciniamo come possibile, allo stazzo Pinetta torna a inginocchiarsi, ascolta il cuore, il
polso: “non respira più” dice ancora; sono le venti, il dramma s’è consumato in meno di un’ora.
Nel buio avvertiamo la morte come una dimensione improvvisa e terribile, increduli che abbia
colpito il migliore di noi; ma non c’è che da fare quanto occorre: leghiamo il corpo per i piedi, lo
facciamo scivolare lungo il canalone fino alla strada per Forca di Presta; qui la neve termina,
dobbiamo lasciarlo; scendiamo distrutti, in silenzio, siamo a Pretare dopo le 22: lo porteranno in
paese i Carabinieri il mattino seguente.
Scriviamo sull’opuscolo commemorativo ‘un compagno di corda si è fermato, andremo avanti
anche per lui’: retorica, ma il GAP continua in realtà il suo cammino e la ripetizione di tutte le vie
del Pizzo del diavolo porta nel 1960 alla pubblicazione di una ‘guida del monte Vettore’ dedicata
‘a Tito Zilioli, compagno indimenticabile’; allora è già in piedi, costruito sulla sella delle Ciàule
grazie ad una sottoscrizione pubblica, il rifugio che porta il suo nome e che forse l’avrebbe salvato.
Il 24 maggio ‘79 raggiungo Cima Redentore con gli sci lasciando Pinetta alla sella: mi terrà
d’occhio mentre scendo il ripido versante SE.
Ci penso da un po’, non tanto per il piacere di una “prima”, soprattutto perché la possibilità di
buttarmi giù dalla crestina che lega il Redentore al Pizzo del diavolo s’è pian piano trasformata in
necessità e, come tutti gli alpinisti sanno, c’è un solo modo per togliersi la fissa.
Ecco, da qui; resto fermo mezzo minuto sul filo poi basta una piccola spinta: la crestina
s’allontana sopra la mia testa, salto le curve come ho imparato con Gobbi, la discesa è esaltante;
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quasi subito, però, la neve si fa marcia e più sotto, quando ormai non rischio più di cadere dal
Castello, il pendio si presenta a strisce verticali di uno-due metri interrotte da solchi di slavine
larghi e profondi appena meno.
Derapo, mi fermo, guardo, riderapo, riesco talvolta a oltrepassare un solco più stretto, insomma
mi arrangio sino a quando posso traversare a destra verso le roccette sopra il Lago per risalire alla
sella.
Sono felice d’essere riuscito, abbraccio Pinetta che ha guardato per tutta la discesa quel piccolo
punto in movimento che ero io; andiamo giù insieme, in Valle Santa la neve migliora, è splendido
percorrerla fin quasi al fondo in una giornata tersa come poche.
Saprò solo molto più tardi che il versante SE era stato già sceso con gli sci, poco tempo prima,
da gente di Macerata o Perugia; ma l’emozione della ‘prima’, dalla paura alla gioia, mi s’è ormai
consolidata dentro, molto più importante del nome sulla guida.
15-06-58 – Sulla Cima del Redentore con Gigi Mario, Claudio
Perini, Marco Florio e Silvio Jovane
26-07-1964 – sulla Via centrale al Pizzo del
Diavolo
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sul ‘Dito del diavolo’
Dopo più di mezzo secolo l’inchiostro della didascalia è sbiadito: ‘settembre ’49. Salita sul dito,
foto Ercole’; e nella foto il sottoscritto, scarpette da ginnastica del liceo, pantaloncini e canottiera,
guida una ‘cordata’ di tre sulla verticale paretina sud.
Il ‘dito del diavolo’ è un torrione quadrato di 12 – 15 metri poco sotto la bastionata di calcare
che regge, sopra Ascoli, il San Marco; non so più da chi abbiamo saputo che lì ci si lega, né chi
abbia comprato al mercato la corda da campagna che stiamo usando; certo è che sulla corda
‘entrano’ comodamente tre persone a distanza di 3-4 metri e che quindi si arrampica insieme,
ovviamente senza assicurazione (non sappiamo che esista), da veri compagni: se cade uno vanno
giù tutti.
Deve esserci da qualche parte un dio degli incoscienti (presumibilmente lo stesso che mi
assiste quando dopo avere bevuto corro sulle spallette dei ponti ascolani) perché questa storia dura
senza tragedie più di un’estate coinvolgendo, oltre Ercole e me, Piero Faraone, Paolo Seghetti,
Mario Sestili, Gigi Gaspari, Guglielmo Rossi, forse altri; e a luglio del 1951 incontriamo al ‘Dito’
Tullio Pallotta.
Anche lui in guerra sottotenente degli alpini, Tullio è un ascolano verace e quindi cordiale,
rumoroso, pronto alla battuta; però capace di legarsi, di piantare chiodi, di usare moschettoni,
addirittura di aprire brevi itinerari in artificiale; e non si fa pregare per spiegare a noi ragazzini
come si fa: in poche parole è il primo maestro dei primi arrampicatori ascolani.
Dal settembre del ’52 arrivano al ‘Dito’, o comunque io li vedo solo allora e sono tutti più
grandi di me, Attilio Baiocchi, Guido Buonfigli, Francesco Bellini e Giulio Nardinocchi, ‘lo
svizzero’ che una volta mi fa credere di essere suo fratello, infine Francesco Balena e Mario Lupi
che diverranno guide alpine nel corso del Centro Italia al quale partecipa tra gli altri Lino
D’Angelo e che nel luglio del ‘55 mi porteranno per la prima volta, insieme a Maurizio Calibani,
sulla cresta NE del Corno piccolo.
Mentre Balena e Lupi costituiscono in due o tre il GARA, gruppo alpinisti repubblicani
anticlericali, io metto su tra pochi amici, e dura quasi un anno, l’associazione liberi amatori della
montagna (ALAM): non contro la politica filo-escursionistica della Sezione CAI come sarà quasi
dieci anni dopo per il Gruppo alpinisti piceni (all’epoca non so neppure che esista un Club alpino)
ma per il bisogno compulsivo, che molto più tardi mi spingerà alle ‘vecchie glorie’, di
istituzionalizzare l’esperienza comune.
Il sodalizio coi Pallotta, c’è Paolina che quanto a baldoria tiene bravamente testa al marito,
continua al Dito ma anche sulla neve della montagna dei Fiori (qui Tullio fa marciare una manovia
che permette le mie prime - e ultime - gare di discesa), poi al Gran Sasso.
Tra lunghe scarpinate e grandi bevute conosciamo i due Corni, la pista della Scindarella e
l’albergo di Campo Imperatore, nei cui meandri Tullio (non so neppure oggi se facesse sul serio) si
esibisce nel saluto romano e tutti, dietro a lui, in tremendi ‘trenini’ di samba all’interno del
ristorante.
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A giugno ‘53, al Dito con Paolo Seghetti, proviamo a salire il versante ovest: la roccia è
giallastra, leggermente strapiombante, è necessario tenersi sui chiodi: metto io il primo, altri due ne
mette lui, risalgo e sto per infilare la corda nel moschettone del terzo quando escono uno dopo
l’altro quelli sotto e piombo a terra da qualche metro; resto un attimo intontito, poi non occorre
consultarci per tornare velocemente a casa e ritenere conclusa l’esperienza del ‘Dito’.
Ma sbagliando, com’è noto, s’impara: nei successivi cinquant’anni non volerò più da primo.
Settembre '49 – Salita sul Dito, foto Ercole
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la naia
Mi iscrivo al CAI per andare negli alpini ma le mie richieste della visita attitudinale,
paracadutista o assaltatore (qualifiche che mi permetterebbero la frequenza di corsi di roccia e di
sci), sono brutalmente frustrate: forse a causa della frequenza universitaria entro miseramente nella
Julia come scritturale.
A Bassano, durante il CAR, girano strani soggetti senza divisa tra due alpini con baionetta
innastata, obiettori di coscienza in attesa di partire per Gaeta e il tribunale militare: è il 1956,
ginnastica nei cessi e pedate dei ‘veci’ sono ancora all’ordine del giorno.
Inverno 1956-57 – Carnia, “marcia ardita” sul
Monte Amariana
Da Bassano passo a Tolmezzo, assegnato all’ufficio maggiorità dell’8° Reggimento; per
partecipare alle ‘marce ardite’ (in una di queste raggiungo l’Amariana) devo ottenere di nascosto
dall’armiere una mitraglietta al posto del Garand e passare poi da un plotone all’altro nel buio del
cortile sino a quando i sergenti si stufano di contare un alpino in più.
Nell’estate del ’67, ormai va a giorni, mi metto a rapporto dal comandante del Reggimento per
fare il campo estivo invece di battere a macchina: il colonnello Antonino Giglio mi guarda
commosso, non ha mai avuto una richiesta del genere, prima di licenziarmi mi stringe la mano.
Intanto però la disponibilità di un ufficio nel quale studiare e l’impossibilità di fare altro in un
paese con più soldati che abitanti mi permettono di superare, e la divisa aiuta, gli esami più pesanti
di giurisprudenza; ma c’è anche una presa di coscienza politica.
Ho passato quasi tutti i 17 mesi della naia con Domenico Cucchiaro, un ragazzo della Carnia
semplice e buono, nella vita civile minatore in Belgio; torna in miniera appena congedato, vi muore
una settimana dopo in un’esplosione di grisou: entrato liberale nell’8° alpini ne esco per dare al
PCI il mio primo voto.
8
vita e morte sul Gran Sasso
Tra il ’61 e il ’62 apro le mie due vie sul Corno Piccolo (la Saladini-Florio, la più facile del
versante Nord secondo Ardito, e la Saladini-Alesi all’estrema sinistra, in realtà ancora più facile) e
faccio da secondo a Marco Florio quando ne traccia altre due, sempre sulla Nord, la “Gigino
Barbizzi” e la “Che Guevara”: con quelli immediatamente successivi
sono questi i miei anni di punta quanto ad arrampicata.
Poi ci sono gli amici: Claudio Perini, Maurizio Calibani, Marco
Florio e i tanti altri di Ascoli, il vecchio Bucci col suo Galletto, la
pietra sacra e gli improbabili ritorni a casa, i simpaticissimi teramani
(Fernando Di Filippo, Salvatore Marramà, Mimì Pirocchi, Peppino
D’Eugenio e compagni), alcuni di Napoli tanto bravi in roccia quanto
fuori di testa, inventori di un nuovo gioco (un urlo improvviso, tutti a
terra, l’ultimo paga da bere): con loro dividiamo, oltre alla montagna,
l’osteria di Pietracamela, le bottiglie portate da casa e un grande
inesausto ridere.
Adesso poi, se vuoi fare la traversata delle 3 Vette, non devi più
prendere ad Ascoli il pullman per Teramo e a Teramo quello per
Pietracamela, dormire da Aladino (anche questa, qualche volta, è
un’impresa) e la mattina dopo salire a piedi i 1900 metri di dislivello
dal paese all’Orientale, fare la via, scendere a riprendere il pullman e
(cercare di) tornare a casa a notte: cominciano ad esserci i mezzi, poi
Luglio 1955
la strada per i Prati, poi addirittura la seggiovia dell’Arapietra; si fa Corno Piccolo
(cresta NNE), con
meno fiato, ma pure meno fatica.
Maurizio Calibani
La situazione è migliorata anche ad Ascoli: la Sezione CAI ha un nuovo presidente, Domenico
Massimi, che va sui 4000 anche se con guida, tutta un’altra aria
rispetto al passato recente; il GAP è quindi rientrato nella Sezione e
dopo avere tenuto nel ’58 il primo corso di roccia (grazie soprattutto
agli istruttori della SUCAI costretti da Maurizio a fornirgli i testi delle
lezioni teoriche) si sta trasformando in Scuola sezionale; quando si
parla di arrampicare, sul Gran Sasso o sul Pizzo del diavolo, non ti
guardano più come fossi un alieno.
Perdiamo, purtroppo, altri amici in incidenti: Giuliano Rapetta in
moto, Gigino Barbizzi al mare; e quando il 29 novembre 1964
Domenico Cicconi cade sul Gran Sasso sta salendo con me e Serafino
Poli dai Prati di Tivo verso la parete Nord del Corno Piccolo.
Anche se tutti e due ancora ragazzi sono nel GAP da qualche anno;
Domenico ha superato brillantemente un corso di roccia ma ha anche
vinto nella scorsa estate la quarta edizione del ‘Trofeo Tito Zilioli’,
una massacrante gara di marcia in montagna a squadre che il Gruppo
organizza sulle creste del Vettore.In una dozzina, questa è infatti una
gita sociale, discutiamo al mattino sul piazzale dei Prati dove andare: 29-06-58 Corno Piccolo – via
Poli ed io decidiamo per il versante Nord che ho già percorso – sono delle Spalle – Attacco teramano
istruttore dal ‘60 – nel novembre ‘63 con allievi di quel corso; e
Domenico si aggrega.
9
Il tempo è discreto, saliamo a lungo per erba, traversiamo
un canale ingombro di blocchi di neve pressata, traccia
sconvolta di una delle prime slavine della stagione; superiamo
uno sperone, sopra c’è uno spiazzo innevato quasi piano: qui
è bene mettere i ramponi prima di proseguire per il pendio
che quasi subito si inerpica verso le rocce.
Stringo i miei, Poli fa altrettanto, Domenico invece ha
difficoltà; in effetti le cinghie sono fissate male ma non è
colpa sua, si tratta di ramponi in prestito dal materiale del
GAP; lo aiuto, gli suggerisco come fare, riprendo a salire
seguito da Serafino.
Trenta metri sopra noto che Domenico è ancora sullo
sperone e, chino, traffica coi suoi attrezzi; ne parlo con Poli,
poco dopo ci fermiamo di nuovo per estrarre la corda: da qui
faremo tirate, o scenderemo se necessario; ci leghiamo alle
estremità lasciando un cappio per l’amico.
Sto spiegando a Serafino come funziona la cinepresa
quando il mio nome urlato lacera l’aria.
Mi giro, vedo qualcosa scivolare sulla neve acquistando
velocità;
frazioni di secondo per capire che è Domenico ed
1 Ottobre '61 – sulla via Saladiniurlare
disperatamente
a mia volta ‘punta la piccozza’ prima
Florio, versante nord del Corno Piccolo
che scompaia nel canale.
C’è una frattura netta, nella tragedia in montagna, come un
colpo di scure; mentre raccolgo la corda e mi butto giù
seguìto da Serafino avverto di essere entrato d’improvviso in
una dimensione sconosciuta e mi chiedo con allucinata
lucidità come cancellare gli ultimi secondi per tornare a quel
‘prima’ già così irrimediabilmente lontano,
Passiamo accanto alla piccozza piantata sulla neve,
scendiamo correndo in parallelo al canale punteggiato in alto
da roccette affioranti; no, se è passato di lì non può avercela
fatta; continuo ad andare giù di furia, Poli urla, scivola, lo
trattengo; via di nuovo, adesso sull’erba; finalmente lo vedo,
dall’altra parte del canale, una macchia scura raggomitolata
tra i massi di neve.
Gli ultimi metri d’un fiato, ci fermiamo ansanti, mi butto
su di lui; l’illusione di un respiro quando lo rovescio sulla
schiena è sùbito smentita dal volto insanguinato, gli occhi
serrati, la fronte incisa da due fratture profonde; alzo la testa,
guardo la striscia rossa che ha lasciato nel canale
chiedendomi ancora perché.
estate 1964 - Domenico Cicconi al
Mando Serafino, sconvolto, al piazzale; e resto due ore
Franchetti
faccia a faccia con questo ragazzo che non mi guarda, non mi
parla, misurando l’irrimediabile distanza che in un attimo s’è aperta tra noi; i suoi diciannove anni
sono un monito che non dimenticherò mai.
Salgono il dr. Muzii e Mancini di Teramo, poi gli altri ascolani, infine i Carabinieri; scendiamo
il corpo sul toboga, lo porto all’obitorio, resto ad aspettare i genitori e le sorelle di Domenico: ho
visto di rado, prima e dopo d’allora, un dolore tanto profondo e composto.
10
Il 12 novembre ‘72 il Corso di roccia della Scuola
sezionale sale al Franchetti per il Vallone delle cornacchie;
dopo il rifugio la neve è più dura, gli allievi privi di ramponi,
tra essi Tiziano Cantalamessa, scendono con gli istruttori
Maurizio Calibani e Carlo Fanesi mentre gli altri, attrezzati,
continuano.
Li guidano Peppe Fanesi, istruttore nazionale, e Peppe
Raggi; il primo ‘porta’ Filippo Cataldi e Mimmo Nardini
(Cantalamessa e Nardini costituiranno con Alberico Alesi e
Stefano Pagnini, anche essi allievi di questo Corso ma oggi
non presenti, e con l’aggiunta di Tito e Guido Ciarma, la
seconda forte generazione di alpinisti ascolani); Raggi ha
invece un solo allievo.
Peppe Raggi (vedi foto nel ricordo di Pinetta Teodori)
arrampica da anni: al suo attivo ha tra l’altro la prima
invernale, con Ugo Capponi, della nord del Pizzo del diavolo
e sull’M6, neanche quattro mesi fa, è arrivato a 5800 metri; è
insomma un alpinista esperto.
Anche i migliori, però, possono essere colti di sorpresa;
sotto il Calderone la neve dura non offre particolari difficoltà,
8 luglio ’73 - sul Corno Piccolo con
forse per questo Raggi non è pronto quando il suo allievo, Pinetta Teodori ed i figli Marco e
malgrado piccozza e ramponi, scivola sulla neve strappando Salvatore
anche lui al pendio.
Gli altri, sessanta metri sopra, li vedono andare giù rallentando e riacquistando più volte
velocità; Raggi cerca ripetutamente di piantare la sua piccozza, su un tratto di neve fresca sopra il
Franchetti sembra riuscirci e fermarsi, invece la perde; i due corpi riprendono la caduta,
scompaiono oltre il bordo del salto per tornare visibili più sotto, fermi all’altezza del rifugio su
un’altra chiazza di neve accumulata dal vento. Peppe è immobile, l’altro sembra invece sollevarsi;
Fanesi scende facendo tirate, non può rischiare i suoi allievi; ma i compagni nel Vallone hanno
capito, vedendo una sola cordata dove un attimo prima ce n’erano due, che qualcosa è accaduto – e
da sopra, comunque, glielo urlano: da solo, Carlo risale di corsa, raggiunge ansando i caduti. E’
subito chiaro che per Raggi non c’è niente da fare, l’urto con le roccette sopra il rifugio gli ha rotto
la testa non protetta dal casco (ma all’epoca nessuno lo indossa su neve), il viso sfigurato è
esanime; l’allievo si muove a stento, Carlo lo porta con fatica sino al rifugio ma riesce a infilarlo
dentro, semi assiderato, solo dopo avere forzato con difficoltà la protezione metallica di una
finestra.
Arriva Peppe e invia Mimmo da Maurizio, ancora fermo nel Vallone con gli altri: insieme
scendono con attenzione sulla neve ora completamente gelata incontrando Bruno Marsilii e Lino
D’Angelo che avvertiti da Rino Villi, altro allievo sceso avanti, salgono in soccorso. Al Franchetti
è una notte d’angoscia: alla coscienza che Peppe è là fuori, immobile nel buio, s’aggiunge l’ansia
per l’infortunato (commozione cerebrale, frattura del bacino, stato di shock, ma si salverà);
finalmente viene giorno, è possibile andarsene.
Io arrivo al mattino con Pinetta, medico della Stazione ascolana del CNSA, Alessio Alesi e
Giancarlo Tosti; scendo con un compagno, assicurati dall’alto, la barella col corpo di Raggi per un
11
buon tratto del Vallone, un peso che mi spezza la schiena.
Sul piazzale dei Prati aspettano i familiari, ci sono grida: ventiquattro anni dopo dovrò imparare
sulla mia pelle che con quel dolore non si ragiona.
Al Gran Sasso cadono altri ascolani: Vincenzo
Giorgioni sulla neve ghiacciata del Calderone, Corrado
Giannelli da una sosta mentre arrampica sulla Est del
Corno Piccolo, Serafino Poli scendendo di corsa il
sentiero sotto la Vetta occidentale.
C’è stato anche questo, non solo la roccia calda sotto
le dita.
E c’è stata l’ansia delle notti passate a cercare di
capire se è per presentimento o per semplice paura che
non dormi; la volta che sull’ultima tirata delle Spalle un
sasso da sopra fa volare Pinetta mentre la assicuro e mi
sporgo a guardare, non auto-assicurato, e tengo non so
come lo strappo; quando uscendo dalla Crepa con
Claudio il mondo torna orizzontale, quando durante il
Corso del ’69 mi spaventa la roccia bagnata della
Valeria e mi dimetto dalla Scuola, quando portiamo
Marco e Salvatore ancora bambini sulla cresta NE o
fotografo Elena alle Fiamme di pietra l’anno prima che
muoia in motorino a Roma; con Marco Florio che mi fa
usare la prima e ultima staffa della mia vita sulla via a
destra, con Maurizio, con Alessio, con Angela che mi
convince a salire la Iskra quando credo di essere ormai
5 Agosto '94 – mia figlia Elena alle Fiamme di
fuori gioco, con Bruna che adesso non ce la fa a tenere
pietra
il mio passo quando resto indietro scendendo dal
Franchetti: per anni e anni e anni, dalla prima vetta Occidentale nel settembre ‘50 all’ultima, forse,
Orientale del settembre 2005: un’avventura che non è mai diventata abitudine.
12
le Alpi
Il Cervino lo salgo con Pinetta nel giugno ’62 per la cresta del Leone; siamo già sposati,
partiamo da Ascoli con la nostra prima R4, al Breuil passiamo il pomeriggio invidiando quelli che
rientrano dalla cima.
Il mattino seguente andiamo su troppo presto, lunghe ore da soli alla capanna Amedeo; poi
arrivano le comitive, clienti con guide che ringhiano al nostro accento ‘napoletano’.
Pessima notte; e sulla corda della sveglia, anche se ci siamo tra i primi, ci passano avanti tutti,
loro essendo lì per lavoro; poi però andiamo su bene, c’è poca neve e le difficoltà, non la quota e la
fatica, sono inferiori a quelle che affrontiamo al Gran Sasso.
Sul Tyndall Pinetta distribuisce analettici ai clienti, qualche guida si lascia andare a uno stentato
sorriso; sopra la scala Jordan sento Jean Pellissier, che scende, esclamare stupìto ‘gli sposini sono
già qui !’ : chiaro che temeva di dover recuperare a pezzi questi due sprovveduti terroni.
In vetta sono frastornato, scendendo rischiamo di perderci una volta sola, raggiungiamo guide e
clienti all’Oriondè per pranzo; entrando in paese dimentico di assumere ‘l’aria della vetta’ ma
provo a rifarmi quando passo all’impiegata
del telegrafo il modulo con le tre parole
fatidiche, ‘salito il Cervino’, fissandola negli
occhi.
Non sembra capire, anzi neppure mi
guarda.
Vuoi vedere che è di Napoli?
Della cresta Nord del Badile - con mio
figlio Marco, nel 1988 - ricordo soprattutto lo
sgomento che mi dava la sera prima, così
dritta e incombente a guardarla dal Sass Furà;
anche la notte, in cuccetta, sapevo che era là
sopra.
Invece il giorno appresso è divertente, non
al di sotto di quanto posso fare senza soffrire
ma neppure al di sopra; alla placca Biner
combino le cose in modo da andare da primo
anche se non mi spetta; Marco se ne accorge,
da lì ci alterniamo rigorosamente.
In cima scherziamo contenti sino a quando
m’assale una fibrillazione feroce: ne soffro
da un po’ (starò molto meglio quando
deciderà
di
cronicizzarsi),
scendo
barcollando la normale italiana.
Sono seduto in attesa di una doppia
quando d’improvviso il cielo diventa nero;
chiudo gli occhi, sussurro ‘ciao Marco’, forse
svengo; poi mi riprendo, lo sento gridare a
26-07-1971 – partenza dal Montenvers per il Couvercle con
dei ragazzi francesi sotto di noi se possiamo
Alessio Alesi e Pinetta Teodori
13
usare le loro due corde, ancora stese, invece dell’unica che abbiamo: ‘pour mon père, spiega, il
n’est pas bien’; accettano sùbito, miglioro, ma arrivare al Gianetti è una gran fatica.
Ci aspetta Angela, salita dai Bagni di Masino dopo averci altruisticamente portato a Bondo
(domani faremo con lei la Marimonti alla punta Sertori): racconto, scherzo, bevo, i ragazzi della
doppia guardano esterrefatti: mi rendo conto di
risultare eccessivo, ma ho due buoni motivi per
esserlo.
L’anno dopo vado con Bruna al Weisshorn:
non in cima, ma già tornare a casa è un risultato.
Ad Ascoli e dintorni la Guide des Alpes
Valaisannes è introvabile, penso di comprarla
su; però arriviamo in Svizzera il sabato sera e la
domenica, andiamo sino a Berna a cercarla, non
c’è nulla di aperto; d’altra parte il tempo è bello,
conviene salire, alla Weisshorn-hutte l’avranno
certamente.
Invece no; non riesco neppure ad avere
26-07-88 – Cresta Nord del Pizzo Badile
informazioni dal gestore perché non parla
francese o, che è lo stesso, non lo parla con me;
le altre comitive sono tutte tedesche, penso che
avrei lo stesso problema, concludo che basterà
seguirle.
Usciamo alle 3, sullo Schaligletscher
impieghiamo qualche minuto di troppo a fissare
i ramponi, seguiamo a distanza le piccole luci
che traversano ma improvvisamente le perdiamo
(in realtà superano per un canale nascosto la
fascia rocciosa al di là del ghiacciaio); dopo
qualche incertezza continuiamo verso la sella da
cui comincia la cresta Est e, salendo la cresta,
raggiungiamo la Place du déjeuner a 3916 metri:
adesso non c’è più dubbio, ho sbagliato, si arriva 28-7-90 – Cresta Nord dello Zinalrothorn, sotto il salto
finale
14
qui direttamente dal ghiacciaio.
Andiamo su ancora, l’arrampicata è facile anche in ramponi, poi il cielo si copre, la parte
terminale della cresta è ancora lontana, decido di rinunciare: la sola idea sensata in tutto il giorno.
Tornati alla Place du déjeuner prendiamo un largo canale sulla destra; la neve è marcia ma vi
sono, all’inizio, evidenti tracce di discesa; andiamo giù a lungo, alla fine supero su un piccolo
ponte la crepaccia terminale, assicuro Bruna: è appena passata quando sul solco di slavina arriva un
masso grande quanto lei, non troppo veloce ma del tutto inatteso, sfiora il ponte, si infila nel vuoto:
un attimo prima e ci avrebbe portato con sé tutti e due.
Scendiamo tra rumori sinistri sul ghiacciaio quasi piano: non ci sono piste, procedo a naso, ci va
bene; al rifugio ci infiliamo sotto le coperte, scendiamo il mattino seguente; Bruna, che sin qui non
ha detto nulla, comincia a piangere appena lasciata la capanna e continua sino a Randa, rifiutando
ogni prospettiva di altre salite.
Non ha torto : quando finalmente avrò la guida potrò leggervi “eviter absolument l’étroit couloir
neigeux dangereux qui aboutit sur l’arete entre les Pointes 3782 et 3916”.
Nel ’91 salgo con Elena e Giancarlo Tosti il Monch e la Jungfrau; la parte più difficile della gita
è nel garage di Grindelwald che ricovera l’esausto pullmino di Giancarlo: dovrà arrivare un vaglia
dall’Italia per tirarlo fuori da lì.
Con Marco salgo ancora, nel 1990, lo Zinalrothorn dalla Cabane du Mountet per l’Arete du
Blanc, con discesa alla Rothorn-hutte (18 ore, arriviamo a notte), e la Dent Blanche per la bella
cresta Sud; nel ’99 la Wellenkuppe e il Weissmies; nel 2002 il Castore, già raggiunto con Angela.
Insisto col mio cardiologo, lo stesso Mimmo Nardini citato sopra tra gli alpinisti ascolani di
seconda generazione, perché faccia di me un caso clinico: non saranno tanti i quasi settantenni che
vanno sui 4000 con una fibrillazione atriale cronica!
Lo diverto, non lo convinco: grossa perdita per la scienza.
5/8/02 – sulla cima del Castore – sullo sfondo Il Cervino – Dent
Blanche, con mio figlio Marco
15
sci alpinismo
Il 9.5.65 parto da solo da Isola San Biagio di Montemonaco; in sci per la Sibilla, Vallelunga,
l’Argentella, Forca Viola, il Redentore, il Vettore, e scendendo dall’intaglio prima del Torrone fino
alle Svolte, compio in dodici ore e 2300 metri di dislivello (in salita e in discesa) la traversata delle
creste che cingono la valle del Lago di Pilato.
Il dr. Peda di Sanseverino, incontrato sopra la capanna Zilioli, mi dà un passaggio per tornare
verso Isola; su L’Appennino luglio-agosto di quell’anno concludo così il resoconto dell’ ‘impresa’:
“Sobbalzando in auto sul sassoso tracciato sopra Foce vedevo davanti, in alto, la Sibilla … a
riguardare i luoghi dove si è passati in montagna ci si accorge che non è stato un possesso, ma
un’illusione di possesso; la cresta aveva un profilo severo, solitario; avevo corso lungo quel
profilo per un’intera giornata eppure ora, al tramonto, esserci stato non contava più nulla: dentro
cominciava già a nascere l’ingiustificato desiderio di essere su di nuovo”.
L’anno dopo, invece, un filo di ferro
da pastori sotto la neve della montagna
dei Fiori blocca il mio sci destro mentre
scendo in velocità; la gamba sinistra,
libera, è proiettata in avanti, il collo del
femore si spezza che sono ancora in
piedi; un intervento sbagliato nella
Firenze dell’inondazione mi costringe
ad altre due operazioni e a nove mesi di
gesso dal torace alla caviglia:
‘l’ingiustificato
desiderio’
dovrà
aspettare.
Avevo cominciato con le “settimane
sci-alpinistiche d’alta montagna” di
Toni Gobbi prima di rompermi,
continuo dopo.
14-05-77 – Monte Bianco, in discesa sulla Mer de Glace
E’ ancora una volta Maurizio ad
andarci per primo da Ascoli, pensando giustamente che da soli non riusciremmo, o non senza
grossi rischi, a sciare sulle Alpi; e in realtà i programmi e l’assistenza sono di prim’ordine.
Così dal 1964 al 1970 partecipo alle ‘settimane’ della Britannia, delle Dolomiti, dell’Argentière
e dell’Oberland settore Finsteraar-hutte , infine alla haute route ‘classica’ da Courmayeur al Breuil,
questa con Pinetta; riporto due micro-appunti su di lei: “11 maggio 70: … quasi alla fine del
ghiacciaio (è la Mer de glace) Pinetta cade scassando il ginocchio sinistro ma continua … 14 maggio
70: poco sotto il rif. d’Orny Pinetta cade di nuovo fratturandosi il malleolo destro: poiché non lo sa,
continua a scendere prima in sci poi a piedi”: basta, appunto, non saperlo.
E’ l’ultima occasione perché Gobbi è morto sul Sasso Piatto e perché ad Ascoli dovremo
preparare la spedizione in Hindu Kush; ma anche per le guide che ci hanno fatto conoscere -dal
grande Gobbi a Renato Petigax, a Oliviero Frachey, a Franco Garda, a Lorenzino Cosson- le
‘settimane’ restano un’esperienza indimenticabile.
16
l’M6
Casco bianco e occhialoni da saldatore, il 9 agosto 72 Pinetta sale gli ultimi metri della cresta
Nord dell’inviolato M6, a 6138 metri: le ho ceduto il passo perché arrivi per prima in vetta, la filmo
mentre vince.
Se lo merita, peraltro: ha lasciato a casa i tre figli - Elena ha appena tre anni – per partecipare
alla spedizione “città di Ascoli” come medico e alpinista; da un mese sfacchina come tutti,
9-8-72 – Sulla cima del M6
occupandosi di tutto, dalle minestre alle emorroidi; e siccome gli altri sono scesi per malanni vari,
questa notte è uscita all’una dal sacco piumino sotto una stellata da meno venti per l’ultimo
tentativo possibile, è partita alle tre con uno zaino di oltre 10 chili e, sola con me sulla montagna,
ha camminato e arrampicato sin qui per tredici ore di fila.
In cima, il tempo resta splendido, foto e altro film per completare il documentario della
spedizione; torniamo in tre ore al posto del bivacco, ne vanno via ancora due per recuperare poco
sotto l’isotermica portata quassù, montarla e assicurarci; lei prepara un tè che siamo già dentro, io
sconvolto dalla tensione; e finalmente si dorme.
Il mattino seguente giù per le corde fisse al campo alto; coi due portatori rimasti raggiungiamo
in due giorni i fratelli Fanesi fermi ad aspettarci a Qazi-Deh, il paese del ‘corridoio afghano’ dal
quale siamo partiti il 17 luglio; poi in camion a Faizabad, agglomerato vivace di case e negozi di
terra, lunghe tuniche, burka.
17
E qui ‘gli faccio vedere io’.
Cioè: per andare dall’ ‘albergo’ sul fiume (sotto c’è un castigato costume da bagno maschile
poggiato su un bastone: chi vuole immergersi nell’acqua limacciosa dell’ansa può usarlo
liberamente – lo faccio anch’io – lasciandolo poi lì per il prossimo bagnante) all’ufficio della
Baktrian Afghan Airlines (una stanzetta buia, due sedie, un tavolo traballante con sopra una
candela) c’è da passare un altro corso d’acqua: non per il ponte, crollato, ma scendendo al greto;
mentre salto sui sassi con donne ed anziani vedo che in alto il tronco sagomato di un albero, posto a
sostituire l’arcata mancante, è percorso di tanto in tanto dalla tunica svolazzante di qualche giovane
musulmano.
Ho salito l’M6, non posso essere da meno: al ritorno devo passare lassù.
Nel suo ufficio Amiruddin accende la candela, apre il cassetto, guarda una lista scritta a matita:
‘sorry’ ma non può darmi i posti che Maurizio ha prenotato sul bimotore che poi domani vola a
Kabul (si sdebiterà la sera invitandoci a casa per musica, mistrà ed erba locali; molto bello ma è la
prima volta che fumiamo, la ‘roba’ è evidentemente tosta e Pinetta ha perso, come me, dieci chili in
un mese: dovremo riportarla a spalla).
Lascio Amiruddin per portare agli altri la cattiva notizia (ma il giorno dopo arriva, orientalmente
a proposito, un charter con due cacciatori canadesi di Marco Polo, inteso nella zona come muflone:
torneremo nella capitale con quello, sollevandoci a stento sui sassi della ‘pista’); arrivo al ponte
crollato, mi avvio verso l’orlo incerto, adesso, se passare davvero sul tronco; ma pare abbastanza
largo e comunque è evidente che a questo punto devo, quelli del greto fermi con la testa in su è me
che stanno guardando: dunque coraggio, vado.
C’è sùbito un vuoto totale e niente cui reggersi, ma lo sapevo; e comunque ormai.
Solo dopo qualche metro m’accorgo che il legno che mi divide dal fiume, dieci metri sotto, si
restringe man mano: chiaro, è un albero, perché non ci ho pensato?
Calma, devo mantenere la calma; metto con cautela un piede avanti all’altro ma la trave è
sempre più stretta e comincia, o mi sembra, a tremare; capisco appena in tempo che c’è una sola
cosa da fare e corro, guardando il legno che continua a restringersi, fino alla terraferma dell’altra
sponda.
Credo di ricordare un applauso, o me lo faccio dentro da solo: perché quasi niente è bello come
vincere la paura.
Che è una delle ragioni profonde dell’alpinismo.
18
i corsi di formazione alpinistica
Quando nel 1972 la spedizione “città di Ascoli”, in parte finanziata dal Comune, sale l’inviolato
M6 al centro dell’Asia, sono meno di dieci gli ascolani in grado di salire da primi una via di roccia.
Non mi piace che l’alpinismo sia una faccenda elitaria e penso che chi ne sa qualcosa debba,
specie se è stato aiutato a saperne dalla collettività, contraccambiarla passando ad altri la sua
esperienza.
Si apre così nell’autunno 1972 il primo Corso di formazione alpinistica: da ottobre a giugno,
senza soluzione di continuità, due lezioni teoriche durante la settimana ed una uscita pratica la
domenica, si pratica escursionismo, sci di pista, sci-alpinismo, arrampicata elementare all’insegna
dello slogan ‘diventare un alpinista completo partendo da zero’.
L’iniziativa coinvolge nell’insegnamento l’intera Sezione CAI, Consiglio, Scuola di alpinismo,
soci di buona volontà, con la rilevante eccezione del gruppo che, facendo capo a Peppe Fanesi
(dalla spedizione ho con lui un forte contrasto che cesserà solo venti anni dopo), comprende
anzitutto gli allievi del corso di roccia di quell’anno: tra ‘loro’ che arrampicano in pochi ma sempre
meglio e ‘noi’ che in tanti giriamo per prati o pendii innevati nasce una rivalità che finirà col
potenziare ambedue queste dimensioni dell’andare in montagna.
29-03-76 – 2° corso di formazione alpinistica, sulla Laga con lo sfondo del Vettore
Il Corso ha comunque un successo straordinario; si iscrivono, con una quota simbolica, circa
150 giovani e no; le prime gite contano fino a 100 presenti (è come se da Roma salissero in seimila
sui pullman domenicali del CAI), la partecipazione è ancora alta quando ci improvvisiamo maestri
19
di sci con l’aiuto degli amici della scuola ’Piagge’ che lo sono davvero, diminuisce nello
scialpinismo, si riduce ancora nella fase finale; ma il risultato è raggiunto se alcuni allievi,
all’inizio digiuni o quasi di montagna, raggiungono nell’accantonamento finale le cime del Rosa e
del Bianco.
Seguono, fino al 1986, altri cinque Corsi di formazione; ne escono escursionisti e alpinisti,
sciatori e sci-alpinisti, Istruttori CAI, i due ultimi presidenti della Sezione, qualche coppia di sposi:
novità, per quanto ne so, a livello nazionale, l’iniziativa comporta per l’andare in montagna
ascolano un salto di qualità verso migliori orizzonti di conoscenza e di sicurezza (in 6 anni, infatti,
c’è un solo incidente, una frattura nella parte sci-di-pista).
Alla fine del sesto Corso - nel quale, come nei precedenti, ho lavorato senza risparmio apprendo che il Consiglio sezionale intende censurarmi per avere dato intempestivamente alle
cronache locali i nomi degli allievi ‘diplomati’: è assurdo, mi dimetto aprendo una querelle che
abbandono solo quando realizzo che la Sezione ed io non abbiamo più bisogno l’una dell’altro;
credo d’altra parte di avere restituito abbondantemente quanto la collettività m’ha dato; e da allora
il CAI è solo una tessera coi suoi vantaggi.
Corsi di formazione, comunque, non se ne faranno più.
20
vecchie glorie del Gran Sasso
18 settembre 2005 - Vittorio Onofri e
il suo amico all’Arapietra
Al mattino del 17 settembre 2005 salgo con Bruna e Claudio dall’Arapietra al Franchetti per la
gita di due giorni programmata dall’associazione ‘vecchie glorie del Gran Sasso’.
Le previsioni sono pessime, è subito chiaro che si potrà andare oltre solo oggi; ci affrettiamo
dunque verso il sentiero Ricci con Roberto Colacchia che ci ha raggiunti, rientriamo dall’Orientale
appena prima che cominci a piovere.
A pomeriggio avanzato salgono altri, non molti: Paolo Pozzi e Fioretta Bachechi, più tardi
Vittorio Onofri, arrivato nella notte da Genova a Roma in treno e da Roma portato in auto a
Cesacastina e poi qui dall’amico che giunge con lui.
Cena, cuccetta; fuori continua a piovere, Luca Mazzoleni, gestore del Rifugio Franchetti,
conferma il maltempo per domani; e al mattino non resta che scendere sotto l’acqua alla seggiovia
e in seggiovia ai Prati; ci asciughiamo a casa di Giorgio Forti (che a Pietracamela ci offre un tour
sulla sua poltrona di sindaco) per andare poi ad Intermesoli con lui, Fernando ed altri amici di
Teramo, Franco Cravino ed Enrico Palumbo (qualcuno che dà retta alle previsioni dunque c’è) a
rimetterci in forze al ristoro Venacquaro.
Non così Onofri e il suo accompagnatore: ai Prati riprendono senz'altro l’auto, Vittorio ha fretta,
vuole rientrare a Genova in serata.
Nella foto che scatto all’Arapietra e che ho davanti mentre scrivo queste ultime righe sono zuppi
ma sorridenti, come a confermare che la montagna è bella comunque e a qualsiasi età.
Centosessantaquattro anni in due.
21
curriculum
istruzioni per l’uso
escursionismo ed alpinismo da primo o a comando alternato : nessuna indicazione
alpinismo da secondo: sec
sci alpinismo senza guida: sa
sci alpinismo con guida: sag
il numero tra parentesi è quello delle salite a ciascuna cima (nessun numero se la salita è una sola)
Alpi
Gross Wannenhorn dalla Finsteraarhorn-hutte (sag)
Monch cresta SE
Jungfrau per normale
Silvrettahorn da Silvretta-hutte (sa)
Bianco per normale francese
Bianco traversata Vallée Blanche (2 sa)
Aiguille du Moine per normale sud
Traversata delle Courtes dal rifugio Couvercle al ghiacciaio del Talèfre
Grandes Jorasses punta Walker per normale italiana
Aiguille d’Argentière (sag)
Gran Paradiso da Valsavaranche (sag e sa)
Dent Blanche cresta sud
Cervino cresta del Leone
Wellenkuppe dalla Rothorn-hutte
Zinalrothorn dalla Rothorn-hutte
Traversata Zinalrothorn dal rifugio Mountet a Zermatt
Bishorn dal rifugio Tracuit
Weisshorn (tentativo) dalla Weisshorn-hutte
Breithorn per normale (2)
Polluce dal rifugio Mezzalama
Castore dal rifugio Sella (2)
Piramide Vincent per normale dalla capanna Gnifetti
Monte Rosa punta Gnifetti per normale italiana (2)
Traversata capanna Bétemps-Gressoney per Dufour-Zumstein-Gnifetti
Mischabel, Dom dalla Dom-hutte
Alphubel dalla Langefluh-hutte (sag)
Stralhorn dalla capanna Britannia (sag)
Allalinhorn dalla Langefluh-hutte (sag)
Weissmies dalla Weissmies-hutte
Grignetta cresta Segantini
Pizzo Badile, normale italiana
Pizzo Badile, cresta nord
Badile, punta Sertori, via Marimonti
Piz Morteratsch dalla Boval-hutte
Bernina normale italiana
Bernina per Biancograt
Palù dal rifugio Marinelli
22
Pizzo di Cacciabella nord cresta NO
Adamello dal passo del Tonale (sa)
Punta San Matteo dal rifugio Branca (sa)
Cevedale dal rifugio Branca (sa)
Vioz dal rifugio Branca (sa)
Palla Bianca da rifugio Bellavista (sa)
Wildspitze dalla Vernagt-hutte (sa)
Amariana da Tolmezzo
Dolomiti
Brenta alta, via Steger-Agostini (sec)
Brenta, punta Margherita, via Videsott (sec)
Brenta, Campanile basso, diedro Fehrmann (sec)
Catinaccio d’Antermoia, ferrata da rifugio Principe
Catinaccio d’Antermoia, via Ampferer
Vaiolet, Torre da Lago, spigolo Piaz (sec)
Sassolungo per cengia dei Fassani
Gran Fermeda per via comune
Sass Rigais per normale
Sella, cima Boé (sag)
Sella, prima torre, spigolo Steger, variante Gluck (sec)
Sella, terza torre, via Iahn (sec)
Sella, Sass Pordoi, via Dibona
Fanes, La Varella da Valparola (sag)
Sasso della croce dal rifugio delle croce
Marmolada punta Penia da Pian dei fiacconi
Torre grande di Falzarego via Lussato
Torre piccola di Falzarego spigolo Comici
Picco di Vallandro da Ponticello
Paterno per galleria (2)
Cima Vezzana dalla Rosetta (sag)
Pale di S.Martino, Cima Val di Roda, via Langes
Campanile Pradidali, via Castiglioni-Detassis (sec)
Pirenei
Pico de la Maladeta dal rifugio Renclusa
Corsica
Monte Cinto, via Tuckett da haute Asco
Sibillini
Monte Vettore (85, di cui 43 per sentieri estivi o invernali e 42 in sci); inoltre:
. via Marsili (3, di cui 1 solitaria, 1 sec)
. via del canalino (14, di cui 3 invernali; prima ripetizione invernale)
. cresta di Galluccio (6, di cui 3 invernali; prima invernale e prima ripetizione invernale)
. canalone Est invernale (3)
23
Cima Redentore (29, di cui 24 per sentieri estivi o invernali e 5 in sci)
Traversata per Lago di Pilato (5)
Pizzo del Diavolo
. parete Nord, canalone NO (2, di cui 1 invernale)
. idem, canalone nord (2)
. idem, direttissima (prima ripetizione, sec)
. idem, via della fessura (2: prima salita, prima ripetizione sec)
. Gran gendarme, direttissima al colletto (4, di cui 3 sec)
. idem, camino meridionale (5, di cui 1 sec)
. spigolo Bafile (7, di cui 2 sec)
. parete Est (prima invernale, sec)
. idem, via Vittorini-Berardi (prima ripetizione, sec)
. idem, via di mezzo (sec)
. idem, via Bafile alla punta Cichetti (5, di cui 2 sec)
. idem, via Florio-Calibani (sec)
. idem, via centrale (5; prima ripetizione)
. Punta Maria, via Gap (3; prima ripetizione sec, prima invernale)
. idem, canalone Maurizi (3 invernali; prima invernale)
Monte Bove (15, di cui 5 per sentieri estivo o invernale, 10 in sci); inoltre:
. cresta NE (prima invernale, sec)
. Bove Sud, canalino ‘primavera’ invernale
. Bove Nord, Quinta piccola, cresta sud (3)
. idem, Quinta grande, via Moretti (sec)
. idem, canalone nord da Casali
. Monte Bicco, cresta nord estiva
. idem, invernale (sec)
Altre cime dei Sibillini estive o invernali (29)
Altre cime dei Sibillini in sci (28)
Traversata del Vettore da Forca di Presta a Foce per Lago di Pilato (14 sa)
Traversata Valle Orteccia da monte Prata a Frontignano (3 sa)
Traversata Monte Monaco-Castelluccio per Sibilla (2 sa)
Traversata Monte Monaco-Infernaccio per Sibilla (sa)
Traversata delle creste del Lago di Pilato (sa, solitaria)
Traversata delle creste da Frontignano a Forca di Presta (sa)
Traversata della cresta del Redentore (8, di cui 3 sa)
Monti della Laga
Macera della morte (15, di cui 9 sa)
Pizzo di Sevo (18 di cui 17 sa)
Pizzo di moscio da Ceppo (23, di cui 18 sa)
Gorzano da ovest (12, di cui 9 sa)
Cima della Laghetta (7, di cui 5 sa)
Laghetta, fosso d’Ortanza (3)
Traversata della Laga da sud a nord (3, di cui 2 sa)
Cascate estive (7)
24
Gran Sasso
Monte San Franco o monte Ienca da Passo delle Capannelle (3)
Pizzo di Camarda dalla Val Chiarino (2)
Corno Grande occidentale
. per sentiero dai Prati di Tivo o dall’Arapietra (9)
. in sci da come sopra (13)
. ‘direttissima’ da Campo Imperatore (9, di cui 1 sec)
. via SUCAI
Torrione Cambi
. sperone SE (sec)
Vetta centrale
. via Mallucci
. direttissima
Vetta orientale
. per normale (3)
. cresta nord (2)
. sentiero Ricci (11, più 1 in discesa)
. spigolo NE (prima ripetizione, sec)
. via Alletto-Cravino (4)
Traversata delle 3 vette (8)
Traversata alta Campo Imperatore-direttissima-Prati di Tivo (3 sa)
Corno Piccolo
. per normale o Danesi (3)
. cresta NE (18, di cui 1 sec, più 4 in discesa)
. via a destra della Crepa (sec)
. via della crepa (2, di cui 1 sec)
. primo camino a nord della vetta
. primo camino a sud della vetta
. via Maraini alla Mitria' (2)
. via Ferrante-Paternò
. via Chiaraviglio (5, di cui 1 sec, più 5 in discesa)
. Punta dei due, camino D’Armi
. idem, diedro Lucchesi (2)
. idem, via dei Triestini (sec)
. idem, via Valeria (12, di cui 2 sec)
. traversata dalla punta Livia alla punta dei due (4)
. via delle Spalle (6, di cui 2 sec)
. prima spalla, via Consiglio (sec)
. idem, via Federici-Antonelli
. idem, via Fantoni-Modena
. idem, via attenti alle clessidre (6)
. idem, seconda spalla, via Morandi (8, prima ripetizione variante Florio-Calibani)
. terza spalla, via Sivitilli
. versante Nord, via Aquilotti o altro (17, di cui 2 invernali)
. idem, via Iskra (4)
25
. idem, via Saladini-Florio (9; prima salita, prima ripetizione)
. via Che Guevara (prima salita, sec)
. via Gigino Barbizzi (prima salita, sec)
. via Saladini-Alessi (prima salita)
Pizzo Intermesoli
. via della Mandragola (sec)
. canalone Herron-Franchetti
Traversata del Venacquaro, Campo Imperatore-Pietracamela (2 sa)
Traversata della Provvidenza (3 sa)
Traversata Val Maone (5, di cui 3 sa)
Monte Prena
. per normale
. via dei laghetti (2)
. via Brancadoro (3, più 1 in discesa)
Monte Camicia da Fonte Vetica (3)
Cresta del Centenario fino al Camicia
Cresta del Centenario fino al Prena (2)
Maiella
Monte Amaro da Passo Lanciano (2, di cui 1 sa)
Idem da Campo di Giove ( sa)
Idem, valle Orfento
Traversata Maiella da Passo Lanciano a Palena (2, di cui 1 sa)
Traversata Maiella da Passo Lanciano a Fara San Martino (2 sa)
Parco nazionale d’Abruzzo e dintorni
Monte Genzana da Introdacqua (sa)
Traversata Passo Godi-Pescasseroli (2 sa)
Monte Greco (4 sa)
Monte Marsicano da Prato rosso (sa)
Balzo della chiesa
Traversata Val Fondillo-Valle Iannanghera
Traversata Valle Iannaghera o valle Inferno-Val di Rose (6, di cui 3 sa)
Monte Meta o Tartaro da Campitelli (5 sa)
Altre cime (4, di cui 1 sa)
altre cime dell’Appennino
Apuane: Pania della Croce, Pizzo d’Ucello, Monte forato
Conero: Placche dei gabbiani, Via diretta della forcella (2)
Terminillo da Fonte Nova (6 sa)
Velino-Sirente: monte Velino (4, di cui 1 sa), monte Cafornia, monte Sirente (3, di cui 2 sa)
Simbruini, monte Viglio, cima Cantari;
Gaeta, via della montagna spaccata (sec)
Parco del Pollino: Serra di Crispo, Monte Pollino, Gole del Raganello.
26
extra-Europa
Hindu-Kush, M6 (prima salita)
sci ripido
Monte Vettore, canalone dei mezzi litri (probabile prima discesa)
Cima Redentore, versante SE (probabile seconda discesa, solitaria)
Vettore, canalone Est (prima discesa).
Impaginazione e grafica Flavia Cenciarini
27
Fly UP