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villaggi dell`altomedievo: invisibilità sociale e labilità

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villaggi dell`altomedievo: invisibilità sociale e labilità
VILLAGGI DELL’ALTOMEDIEVO:
INVISIBILITÀ SOCIALE E LABILITÀ ARCHEOLOGICA
seto, mentre non mancano iniziative significative
nella Città e nella Provincia di Firenze, come nelle provincie di Pisa e di Livorno.
Gli interventi puntuali si iscrivono nel quadro di
un’articolata sistematizzazione di quanto si è conosciuto relativamente al patrimonio archeologico
regionale, attraverso una schedatura di vasto respiro: solo per dare un esempio, si ricorda che parte
integrante del progetto è l’“informatizzazione” georeferenziata del celebre Dizionario di Emanuele
Repetti, che si è conclusa proprio in questi mesi,
come della letteratura archeologica e storico topografica della Regione, che si è andata accumulando
soprattutto nel corso del secolo passato.
Al lavoro tradizionale degli archeologi, la realizzazione del progetto ha permesso di affiancare un
valore aggiunto di grande significato per la ricostruzione dei quadri ambientali attraverso la realizzazione dei laboratori di scienze applicate all’archeologia in grado di apportare contributi sostanziali alla definizione delle trasformazioni
geomorfologiche, vegetazionali, come allo studio
dei manufatti e dei materiali organici.
Ma, accanto agli obiettivi di valorizzazione, “comunicazione” del patrimonio e costruzione delle
banche dati, si vanno raccogliendo risultati significativi nell’ambito strettamente attinente la ricerca. Infatti la scala subregionale e urbanistica degli
interventi, che si affiancano a quelli già realizzati
negli anni Ottanta e Novanta, sta contribuendo
ad elaborare una documentazione per la storia
delle dinamiche e delle trasformazioni dell’insediamento rurale fra tarda antichità e i secoli centrali del medioevo tale da permettere di elaborare
quadri ricostruttivi innovativi e certamente in grado di “sfidare” quanto delineato sulla base delle
mere fonti scritte.
1. Dalla fine degli anni Novanta l’Area di Archeologia Medievale dell’Università di Siena sta realizzando un grande progetto sui “Paesaggi Medievali della Toscana”, con particolare riferimento alla
parte meridionale della regione, in sinergia con la
Fondazione Monte dei Paschi di Siena, che si è
fatta, con grande generosità, promotrice dell’iniziativa.
Il progetto ha come obiettivi principali quelli di
costruire un sistema integrato di parchi e musei,
capace di valorizzare un patrimonio culturale straordinario costituito non solo da monumenti, ma
anche da un numero altissimo di “rovine” ed aree
archeologiche, che segnano in profondità le caratteristiche del paesaggio della regione. Fra i
motivi sostanziali del progetto vi è quello inoltre
di introdurre massicciamente, nella gestione del
patrimonio, una diffusa pratica di uso della tecnologia innovativa.
Il progetto si articola attraverso interventi archeologici su specifici siti, sui quali vengono poi delineati progetti di valorizzazione che investono i
resti materiali emergenti, la costruzione di centri
di documentazione e la realizzazione di strumenti
di comunicazione raffinati: pannellature particolarmente sofisticate, sistemi informativi territoriali,
banche dati destinate ad un pubblico differenziato, ma sempre più attento ai segni della storia inestricabilmente legati al territorio toscano.
L’uso di tecnologie avanzate caratterizza il progetto nella fase di raccolta delle informazioni, dai
rilievi con scanner 3D di manufatti e monumenti,
dalla gestione in GIS dei rilievi e della documentazione di scavo e del patrimonio diffuso. Fino ad
oggi sono stati raggiunti tutti gli obiettivi definiti,
grazie al formidabile impegno dei ricercatori coinvolti, andando alla realizzazione di mostre e centri di documentazione in aree urbane e rurali, da
Siena a Grosseto, alla costruzione di parchi, da
quello archeologico e tecnologico di Poggibonsi
ai segmenti centrali del sistema dei parchi della
Val di Cornia, da Gavorrano a Roccastrada, dall’Amiata al territorio di San Galgano. Sono inoltre in atto collaborazioni con strutture di gestione
di parchi quali quello della Maremma, il Parco
archeologico e tecnologico delle Colline Metallifere, il Parco della Valdorcia, ma soprattutto con
un larghissimo numero di governi locali, in particolare la Provincia di Siena e la Provincia di Gros-
2. In questo contributo Marco Valenti elabora la
vasta messe di nuovi dati, accumulati soprattutto
negli ultimi anni, ma anche quelli emersi nel corso dell’ultimo venticinquennio, e li colloca nel
quadro della discussione che l’archeologia europea ha aperto sul terreno delle dinamiche insediative tra tardo antico e medioevo, e sfida coraggiosamente i ricercatori a rendere compatibili le interpretazioni storiografiche con queste diverse e
nuove tipologie di fonti.
IX
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Il saggio porta elementi di chiarezza e di discussione in quella nebulosa, costituita dalla ricostruzione storica dell’assetto delle campagne altomedievali che denuncia evidenti segnali di afasia fra
storici ed archeologi, questi ultimi non propensi a
delineare quadri interpretativi generalizzanti, partendo dai loro singoli momenti di approfondimento, e gli altri, soprattutto nell’ultimo trentennio,
propensi a offrire un quadro talvolta contraddittorio, ma non di rado caratterizzato da un paesaggio incerto e “derivante”, sostanzialmente, da
un assetto tardo romano. Un paesaggio dove avrebbero avuto largo spazio le forme dell’insediamento sparso, mentre la struttura del villaggio, in buona parte della penisola, avrebbe assunto una propria forma consolidata solo con l’affermazione dei
castelli in relazione ai processi di formazione della signoria territoriale intorno all’anno mille.
Il modello insediativo altomedievale fondato sul
villaggio accentrato, che ebbe nelle pagine di
Georges Duby nel 1962 una prestigiosa espressione storiografica, è stato più o meno esplicitamente contestata, sia dagli assertori di una antitetica diffusione del popolamento sparso1, sia dai
sostenitori della labilità e dell’incessante mobilità
delle forme insediative accentrate2.
Prescindendo dai dati emergenti dalla ricerca archeologica, si è continuato a descrivere i nuclei di
popolamento contadino e i centri aziendali della
grande proprietà come realtà, fra loro, diverse e
ben separate non solo sul terreno socio-economico, ma anche sul piano insediativo; si sono escluse implicitamente sia la consistenza demografica
sia l’identità comunitaria dei centri sui quali si
incardinava la signoria fondiaria, che spesso invece costituivano rilevanti agglomerati rurali, abitati da contadini e non da allodieri giuridicamente
liberi, le cui tracce documentarie possono emergere con maggior facilità dalle carte private altomedievali. In tal modo molti medievisti sembrano
riferirsi ad una presunta continuità tra la villa di
Varrone e quella dell’abate Irminone3, come se la
villa/curtis carolingia derivasse direttamente dal
latifondo romano, come se la dissoluzione dell’intero assetto politico-economico-sociale romano
imperiale non avesse rivoluzionato profondamente
le stesse strutture agrarie, e i villaggi altomedievali non si fossero affermati attraverso profondi pro-
cessi di trasformazione dei sistemi insediativi antichi4.
Numerosi storici dell’Italia altomedievale sono
giunti a supporre l’esistenza di un popolamento
rurale sparso sulla base di indicatori desunti esclusivamente dall’esigua documentazione d’archivio,
peraltro sempre successiva alla metà del secolo VII,
distribuita non uniformemente nel tempo e nello
spazio, nonché sostanzialmente ambigua ai fini
della ricostruzione dei contesti insediativi.
Nel delineare i caratteri dell’habitat e del paesaggio agrario, Andreolli e Montanari proponevano,
nel 1983, una sintesi sulla curtis in Italia essenzialmente incentrata sugli aspetti gestionali dell’azienda curtense in riferimento alla proprietà
della terra e al lavoro contadino durante i secoli
VIII-XI5.
Riconoscendo che le fonti d’archivio utilizzate si
prestano soprattutto a delineare i caratteri del
possesso fondiario altomedievale, le relazioni
economico-sociali e le forme di controllo sugli
uomini, gli autori evidenziavano che il sistema
gestionale “curtense” non implicò alcun tipo specifico di insediamento e di organizzazione agraria6. Sottolineavano tuttavia che dalla lettura documentaria avevano tratto l’impressione di una
prevalente diffusione di un modello insediativo
di tipo poderale, secondo il quale i mansi dipendenti da un centro curtense corrispondevano ad
una «unità aziendale compatta, autonoma nei suoi
confini, delimitabile con chiarezza nella sua individualità», presupponendo che a tale definita unità gestionale dovesse corrispondere necessariamente anche una contiguità topografica delle terre, giungendo a generalizzare tali osservazioni all’intera penisola.
La posizione sostenuta, secondo cui molti riferimenti documentari altomedievali sarebbero interpretabili come indizi di popolamento sparso inserito nel quadro del sistema curtense appare fragile. Ma una simile perplessità è suscitata dalle affermazioni che generalizzano la diffusione dell’insediamento sparso anche a prescindere dall’affermazione della grande proprietà e del sistema curtense e che ne presuppongono anche una notevole diffusione nei decenni precedenti l’affermazione dell’azienda bipartita: «In Italia, nei secoli VIII-
4. Wickham in un suo contributo del 1998 affronta l’analisi del doppio impatto della crisi del sistema romano e della
continuità delle strutture agrarie dopo essersi posto la domanda «come è stato possibile che la crisi dell’impero [romano] si sia sviluppata in concomitanza con una sostanziale continuità dell’economia agraria?» (WICKHAM 1998a, pp.
203-226, in particolare pp. 204-205).
5. ANDREOLLI , MONTANARI 1983, pp. 177-200.
6. ANDREOLLI , M ONTANARI 1983, p. 180.
1. In riferimento alla diffusione del villaggio accentrato nel
secolo IX sostenuta da Duby, ad esempio Andreolli e Montanari ritengono che «tale immagine, se può valere per l’Europa del Nord a cui il Duby soprattutto si riferisce, non
può certamente essere applicata all’Italia» (ANDREOLLI, MONTANARI 1983, pp. 177-200).
2. FOSSIER 1992, p. 208.
3. Cfr. TABACCO 1967, pp. 67-110.
X
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Montarrenti (Sovicille-Siena). Montarrenti è stato scavato tra il 1982 ed il 1988. L’esistenza del castello viene attestato dalle fonti
XI
scritte a partire dalla metà del XII secolo. L’indagine ha dimostrato
che la prima occupazione stabile del rilievo avvenne in realtà
intorno alla metà del VII secolo sotto forma di un villaggio di capanne fortificato. Le difese erano costituite da due palizzate lignee
poste a protezione della parte alta e bassa del rilievo. In basso a destra il particolare di una capanna delimitata da buche di palo. Fra
la seconda metà dell’VIII ed il IX secolo le capanne dell’area sommitale vennero smontate e la palizzata fu sostituita da un muro
costruito con pietre rozzamente squadrate legate da malta. In basso a sinistra: muro che taglia la palizzata. All’interno dello spazio
racchiuso dalla nuova cinta in pietra è costruito un grande magazzino in legno ed un forno con annessa tettoia. L’evidenza archeologica
lascia ipotizzare una trasformazione dell’insediamento da villaggio a centro curtense, guidato da un nuovo potere che si impone
accentrando i beni e le strutture di servizio e richiamando in loco maestranze capaci di costruire strutture in muratura.
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IX, il modello prevalente di habitat sembra essere
quello sparso». Andreolli e Montanari giungono
a sistematizzare e ad enfatizzare posizioni analoghe espresse occasionalmente dalla storiografia
precedente sulle campagne altomedioevali, che a
partire dagli anni cinquanta ha creduto di intravedere testimonianze di una consistente diffusione di abitazioni isolate nelle campagne altomedievali, proponendo anche una distinzione tra i piccoli proprietari, residenti nei vici, e i massari da
essi dipendenti, che spesso non avrebbero abitato
entro il villaggio, ma sul podere loro affidato in
gestione7.
Andreolli e Montanari, usando soprattutto le fonti
private dell’Italia settentrionale, sono giunti ad
ipotizzare per l’intera Penisola dei secoli VIII e
IX, tanto nelle aree di tradizione longobarda quanto in quelle di tradizione bizantina, una sostanziale marginalità del modello insediativo fondato sul
villaggio accentrato, che tuttavia confligge con le
conoscenze relative a molte regioni italiane (aree
montane, sia appenniniche che alpine, gran parte
della Toscana) e al quadro che si va delineando
per l’Europa carolingia e nel mondo bizantino. Il
pregio di queste pagine dedicate ai quadri insediativi nell’Italia “curtense” consiste nella proposta di un modello insediativo senza sostanziali
ambiguità, con la quale gli archeologi possono
utilmente confrontarsi; mentre posizioni storiografiche altrettanto orientate a generalizzare la
diffusione del popolamento sparso durante l’alto
Medioevo sono state avanzate, più spesso sottintese che esplicitate con coerente consapevolezza.
Si potrebbe affermare, dunque, che la medievistica interessata ai problemi della storia rurale abbia
rinunciato ad usare i documenti archeologici che
hanno apportato nuove conoscenze sugli elementi cardine delle forme insediative altomedievali, e
che le ricostruzioni dei quadri insediativi sono state
proposte dagli storici sulla base del genere di fonti scritte cui hanno fatto prevalente ricorso. Infatti, in assenza di documentazione scritta di tipo fiscale-descrittiva, la presenza del villaggio risulta
sostanzialmente “invisibile” utilizzando questo o
quel tipo di scrittura8.
Le vecchie ricerche della scuola economico-giuridica, ad esempio, hanno ricondotto univocamen-
7. FASOLI 1958, pp. 111-133.
8. Non pare un caso che un assetto del popolamento per
villaggi emerga con chiarezza da un testo del secolo X che
presenta caratteri per certi versi assimilabili a fonti di tipo
fiscale, vale a dire l’inventario della pieve di S. Pietro di
Tillida (nella pianura veronese) riguardante i vici i cui abitanti erano tenuti a versare la decima ecclesiastica presso
l’ente ecclesiastico (CASTAGNETTI 1976; cfr. anche CASTAGNETTI 1982, p. 62).
te le testimonianze relative a organizzazioni comunitarie rurali a forme di organizzazione politico-amministrativa ed ecclesiastico-religiosa fondate sul villaggio o su quadri territoriali ancora più
organici e complessi (vicus, casale, pagus, etc.),
attingendo soprattutto alle fonti normative tardoromane e romano-barbariche, alle non rare fonti
narrative e, non ultimo, alla documentazione di
tipo giudiziario9.
D’altra parte anche gli studiosi che si sono avvicinati all’alto medioevo da una prospettiva storico-economica e storico-sociale hanno frequentemente fatto riferimento al villaggio come cellula
di un ecosistema nel quale la comunità era inserita, nell’ambito di sistemi produttivi che tendevano all’autosufficienza su base locale10. Infine, il
villaggio è stato considerato come il fulcro dell’organizzazione del territorio rurale nell’alto
medioevo quando ci si è occupati dell’assetto ecclesiastico altomedievale delle campagne11, come
è accaduto in Toscana12, per la straordinaria disponibilità di testimonianze giudiziarie raccolte in
occasione della contesa tra il vescovo di Siena e
quello di Arezzo in merito alla titolarità di un gruppo di pievi poste al confine tra i due territori13.
Ma le posizioni sull’insediamento altomedievale
in Europa e in Italia sembrano differire non solo
tra “storici” e “archeologi”, quanto piuttosto in
relazione alla formazione dei singoli ricercatori e
al genere di fonti cui si è fatto riferimento. Una
più estesa analisi riguardo ai temi dell’insediamento altomedievale lascerebbe emergere più profonde distinzioni tra chi (storico o archeologo) è ricorso a paradigmi interpretativi, attingendo a
modelli noti o elaborandone di autonomi, e chi,
invece, ha organizzato le informazioni in forma
disaggregata e meramente descrittiva.
Appare chiaro che l’archeologo che appiattisse un
9. SCHNEIDER 1914, pp. 182-183 e SCHNEIDER 1980; BOGNETTI
1927; F ASOLI 1958; S ANTINI 1964, pp. 33-65; B OGNETTI
1965, in particolare pp. 469-490; CAVANNA 1967, p. 546;
MOR 1972, pp. 15-19.
10. Per le comunità di villaggio altomedievali italiane cfr.
FUMAGALLI 1985a, pp. 22-23; le stesse posizioni sono riprese, sottolineando l’erosione dei beni comunitativi da parte
della grande proprietà dei secoli VIII e IX, anche in FUMAGALLI 1994, pp. 377-379. Sostiene che nel mondo longobardo la struttura del villaggio appare dominante dai nostri primi documenti scritti WICKHAM 1992, pp. 240-241.
Più in generale, per i villaggi tardo-antichi e del primo altomedioevo nel contesto dell’Europa occidentale cfr.
CONTAMINE et alii 1997, pp. 29-31, mentre per il villaggio
del IX secolo è ancora utilissima la lettura di DUBY 1984,
pp. 8-10.
11. Cfr. VIOLANTE 1986, pp. 105-265.
12. Cfr., ad es., l’analisi della charta repromissionis dell’ottobre 746 relativa alla chiesa di S. Pietro di Mosciano, presso
Lucca (CDL, I, n. 86, pp. 252-254), in MENGOZZI 1915.
13. CASTAGNETTI 1982, pp. 34, 41, 272-274.
XII
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inquadramento dei dati materiali prodotti dal proprio lavoro sul campo entro modelli costruiti sulle fonti scritte si priverebbe di strumenti essenziali, tali da escludere interpretazioni innovative,
anche a livello storiografico, e si priverebbe degli
strumenti indispensabili per individuare i contesti
e le strategie per le indagini future. L’unica strategia possibile per accrescere la conoscenza dell’insediamento altomedievale è quella di costruire e
mettere alla prova i paradigmi interpretativi, rimanendo disponibili a modificarli e a superarli
sulla base delle nuove conoscenze acquisite, e la
verifica delle interpretazioni storiografiche non
può che ripartire dalla lettura delle fonti: chi le ha
usate infatti non necessariamente si è confrontato
con sufficienti strumenti critici alle fonti materiali. Ma anche questa strada non necessariamente,
soprattutto in fasi di elaborazione intermedie, porta a conclusioni definitive: la logica di conservazione della materialità della storia è ben diversa
dalla logica di conservazione delle fonti scritte. In
particolare per l’altomedioevo dobbiamo aver
chiaro che ormai gli scavi hanno prodotto, in relazione alle strutture dell’habitat, documenti che
investono qualità e quantità di dati assai superiori
ai pochi documenti privati superstiti
3. La Toscana è stata, ed è, contrassegnata dalla
compresenza di contesti geografici e ambientali
molto differenziati14 e le varie subregioni conobbero vicende storiche divergenti già durante l’alto
medioevo15, determinando condizioni specifiche
che influenzarono localmente la geografia del
popolamento rurale. Tuttavia, le differenze nei
quadri insediativi altomedievali proposte sulla base
dell’analisi della documentazione d’archivio superstite16 non hanno trovato riscontro sul terreno
dell’indagine archeologica: i risultati delle ricognizioni topografiche e degli scavi dei siti rurali
delineano in modo concorde una realtà tendenzialmente omogenea entro i diversi comprensori
indagati. Infatti, in Toscana – come, del resto, nella
generalità delle regioni oggetto di estese ricognizioni archeologiche –, l’esame dei dati relativi ai
secoli V-X consente di escludere una diffusione
del popolamento sparso, mentre gli scavi hanno
frequentemente portato alla luce centri abitati di
altura, contrassegnati generalmente da una consi-
14. PINTO 2002, pp. 7-73.
15. Cfr. WICKHAM 1995, pp. 232-233.
16. Per due recenti sintesi sull’articolata organizzazione socio-insediativa delle campagne altomedievali toscane, realizzate appoggiandosi ai documenti scritti, cfr. W ICKHAM
1992, pp. 239-251 e FRANCOVICH, GINATEMPO 2000, pp. 724.
stenza demografica percepibile piuttosto rilevante, con fasi di occupazione che prendono avvio
già a partire dal primo altomedioevo17.
Per alcune aree della Toscana, una difficoltà di
cogliere i segni di una identità sociale fondata sul
territorio di villaggio attraverso l’analisi della documentazione privata di età carolingia e post-carolingia ha indotto a ipotizzare una diffusione a
tratti pervasiva dell’insediamento sparso, non solo
nella piana di Lucca, strettamente legata alla città, ma persino in aree montane, quali l’Appennino casentinese e l’Amiata18. A fronte di tali ipotesi
ricostruttive la ricerca archeologica di superficie
avrebbe dovuto individuare in buon numero tracce di residenze rurali isolate, che – invece – risultano del tutto assenti: per quali motivi l’insediamento sparso, che per altri contesti cronologici
emerge con chiarezza nell’indagine di superficie,
non viene individuato in queste medesime ricerche? Appare allora chiaro, come ci conferma Valenti, che l’“invisibilità” del popolamento altomedievale si debba alla ricorrente presenza di nuclei
altomedievali nei centri a continuità di vita fino al
basso medioevo o alla sua ubicazione in corrispondenza di alture, per le quali l’esistenza di fasi altomedievali è accertabile attraverso scavi programmati o, più semplicemente, alla sua coincidenza
con i centri abitati di lunga durata che ne hanno
obliterato le tracce sino a renderle non percepibili fuori da indagini archeologiche mirate, data la
“monumentalità” delle strutture in pietra delle fasi
successive all’XI secolo e, viceversa, per la labilità
dei materiali costruttivi dei secoli compresi fra il
VI e l’XI.
Possiamo inoltre chiederci se le differenze negli
assetti delle campagne toscane altomedievali, delineate dagli storici, riflettano una disomogeneità
nelle definizioni socio-insediative delle fonti, utilizzando una terminologia notarile, finalizzata a
descrivere rapporti giuridici privati, non in grado
di farci capire quale fosse l’assetto reale delle strutture del popolamento, aderendo invece ad altri
schemi di riferimento mentale19.
Dopo il collasso dei sistemi distributivi e delle principali vie di comunicazione di epoca romana, le
popolazioni rurali furono costrette a contare su
se stesse per il soddisfacimento dei bisogni primari. In tale contesto, le logiche distributive del popolamento furono orientate da dinamiche completamente diverse rispetto a quelle che avevano
caratterizzato i paesaggi antichi: il popolamento
17 FRANCOVICH, HODGES 2003, pp. 61-74, 106-114.
18. WICKHAM 1990, pp. 79-102; WICKHAM 1995; WICKHAM
1997.
19. Cfr. le esemplificazioni in WICKHAM 1992, p. 241.
XIII
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rurale, fortemente ridotto, anziché disperdersi tra
i boschi e gli incolti, si andò rapidamente aggregando in nuovi insediamenti20, dopo una fase di
disarticolazione degli impianti insediativi tardo
antichi, spesso collocati ai margini degli spazi fino
ad allora utilizzati.
Le condizioni socio-economiche e l’insicurezza
politico-militare che contrassegnarono la regione
nel corso del VI secolo fecero sì che una organizzazione di villaggio tornasse a soddisfare le esigenze di sussistenza delle popolazioni rurali21, concorrendo al sedimentarsi di strutture mentali che
vincolavano la comunità ad un centro abitato ben
caratterizzato nella sua identità, ancorché labile
per i materiali utilizzati nelle strutture abitative.
L’accentramento delle abitazioni contadine in nuclei di popolamento consentiva inoltre di raggiungere una “massa biologica” di consistenza adeguata, vale a dire un numero di abitanti che giungesse
almeno alla soglia del centinaio di individui, al di
sotto della quale difficilmente la solidarietà e la
sussidiarietà comunitaria potevano raggiungere
quella massa critica utile per ottenere una produttività agricola efficace per la sopravvivenza: in quel
contesto, per un gruppo umano troppo esiguo e
isolato, una comune infezione batterica sarebbe
bastata a compromettere l’esito di un raccolto. I
villaggi – che tra l’altro costituivano il naturale
quadro di riferimento anche per le popolazioni
germaniche migrate nella Penisola22 – rappresentavano, poi, una sede ove accumulare le scorte
alimentari, uno spazio privilegiato per la produzione, la riparazione e lo scambio degli utensili e,
non ultimo, il contesto di riferimento privilegiato
per la conservazione e la trasmissione del patrimonio di conoscenze tecniche, tanto più prezioso, quanto più ciascuna comunità era forzatamente
spinta all’autarchia in quasi tutti i settori produttivi. Lo sviluppo di una vita comunitaria entro
questi nuovi centri fu favorito dall’abituale conduzione di pratiche collettive: la mietitura, la vendemmia, la caccia e persino le rivalità con i centri
vicini dovevano costituire ragioni per consolidare
i legami di villaggio, mentre le dinamiche dei rapporti parentali interni e esterni a questi centri abitati rimangono ancora da indagare in una prospettiva archeologica e antropologica23.
Il popolamento rurale non si esauriva nelle comunità di villaggio, doveva includere infatti l’esi-
20. FRANCOVICH 2002, pp. 144-167; FRANCOVICH , H ODGES
2003, pp. 61-74; WICKHAM 1992, pp. 240-241.
21. FRANCOVICH, H ODGES 2003, pp. 31-74.
22. GALETTI 1997; GALETTI 2001; GASPARRI 1996, pp. 317320.
23. Cfr. FUMAGALLI 1976, p. 34.
stenza di elementi marginali: i vagabondi, i pellegrini, i lavoratori forestieri specializzati, forse
anche i pastori transumanti. Non vi è dubbio,
tuttavia, che, sulla base delle indicazioni archeologiche, nella sua sostanza lo scheletro insediativo del primo medioevo fosse costituito da villaggi di dimensioni non trascurabili, vale a dire da
strutture socio-insediative in grado di assolvere
alla massima parte delle necessità dei propri abitanti, in un contesto complessivo di profonda crisi
delle città, dell’economia di scambio, delle infrastrutture viarie e degli assetti politico-amministrativi.
L’economia di sussistenza delle popolazioni rurali
si fondava sulla raccolta, sulla caccia e sull’allevamento, quanto sulle tradizionali attività agrarie, il
cui ruolo si andava ridimensionando rispetto alla
tarda antichità, come emerge con chiarezza anche
prendendo in considerazione l’evidenza archeozoologica (un crollo della presenza di ossa di bovini adulti, legata all’impiego come animali da tiro,
a fronte di un incremento percentuale di capriovini e di suini24). Pertanto, i nuovi centri abitati,
che talvolta occuparono insediamenti d’altura
dell’età del Bronzo o del Ferro sostanzialmente
abbandonati dopo la romanizzazione, andarono
a collocarsi vicino a sorgenti perenni, presso le
quali vennero impiantati gli orti, e si insediarono
non lontano dagli estesi manti boschivi montani,
dove il castagno e il cerro consentivano di sfamare uomini e bestiame anche quando una carestia
stagionale o un conflitto avrebbero compromesso
il raccolto cerealicolo25. Il ruolo centrale ricoperto dall’allevamento brado nell’economia agraria
del primo medioevo concorse a favorire l’accentramento insediativo delle popolazioni rurali, che
impiantarono le residenze e le connesse colture
orticole, arboree e arbustive, entro una sorta di
“oasi”, ben separate dal paesaggio semi-selvatico
circostante attraverso alte siepi, che dovevano
impedire agli armenti e alle bestie selvatiche di
danneggiare le colture e gli animali domestici. Si
determinò, così, quasi ovunque una ripartizione
colturale che nella sua rudimentalità dovette andare a separare nettamente i due fondamentali
territori agrari: quello prossimo al villaggio, e
quello esterno comprendente in apparente fluidità le colture cerealicole, quelle tessili, i pascoli e i
boschi. In tale contesto, il manso di villaggio (vale
a dire la casa attestata nei documenti d’archivio a
partire dalla metà del secolo VII) costituisce l’elemento in grado di garantire una gestione familia-
24. SALVADORI 2003, pp. 180-181.
25. Cfr. QUIRÓS C ASTILLO 1998, pp. 177-198; QUIRÓS C ASTILLO et alii 2000, pp. 147-175.
XIV
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Montemassi (Roccastrada-Grosseto). Il castello fu reso celebre dalla rappresentazione che ne fece Simone Martini nell’affresco del Palazzo
Pubblico di Siena, raffigurante l’assedio portato a Montemassi da Guidoriccio da Fogliano nel 1328. In alto, ricostruzione del castello di XIII
secolo: le campagne di scavo, svolte dal 1990 al 1995 e dal 2000 al 2004, hanno dimostrato che l’occupazione dell’altura è più antica della
prima menzione documentaria del sito datata al 1076. Le tracce più leggibili di questa fase insediativa si collocano sul fianco meridionale
della rocca; si tratta dei resti di tre capanne parzialmente addossate alla roccia. In basso, ricostruzione delle capanne sinora individuate.
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re individuale piuttosto che “individualistica”, integrandosi con l’uso comunitario degli incolti e
delle stesse terre coltivate esterne alla cintura ortiva dell’abitato, durante i periodi di riposo26.
La documentazione archeologica raccolta, e ben
illustrata nel contributo di Valenti, spinge inequivocabilmente a ricostruire un quadro dove
l’habitat era già accentrato, anche se non ancora
gerarchizzato, e collocato, nella stragrande parte
dei casi, sulle alture.
In Toscana, al cui interno si riscontravano quasi
esclusivamente terreni collinari o montani, spesso piuttosto fragili a causa della loro scarsa profondità, la scelta delle alture come sede dei villaggi altomedievali fu favorita anche dalla possibilità
di coltivare i suoli più leggeri delle colline, né aride, né suscettibili di inondazione, lavorabili a zappa senza ricorrere necessariamente all’impegnativa e dispendiosa pratica delle arature. L’assetto
economico complessivo rendeva, infatti, improponibile la realizzazione e la manutenzione di
opere volte a irrigare le terre colpite da aridità
stagionale o a prosciugare dalle acque terreni inondati periodicamente; pertanto, nelle aree più lontane dalle città, le pianure vennero lasciate al prato, all’acquitrino o alla palude e utilizzate come
tali, mentre le colture di maggior reddito, evitando i fondovalle, venivano tendenzialmente collocate sulle alture e, poiché richiedevano una maggior intensità di lavoro ed un più diretto controllo, attraevano a sé gli abitati rurali.
I villaggi andarono a collocarsi spesso in prossimità del limite superiore dell’utilizzazione agricola del suolo, ponendosi per così dire “a metà strada” tra i coltivi, a valle, e l’incolto, a monte27. La
scelta delle sommità era favorita dalla stabilità e
dalla resistenza all’erosione dei ripiani rocciosi
sommitali a fronte della franosità di molti pendii
argillosi, poco adatti, per queste ragioni, ad ospitare le fragili dimore contadine. Inoltre, in un contesto orografico molto mosso e irregolare, le diverse parcelle afferenti ad un manso di villaggio,
vale a dire le terre legate ad una casa, potevano
disporsi su due o più versanti dell’altura occupata
in sommità dal nucleo insediativo, per limitare i
rischi di cattivi raccolti legati alle avversità atmosferiche, in modo che «la posizione dominante delle sedi abitate e la loro centralità rispetto all’insieme delle particelle coltivate» consentissero ai contadini «un più coerente, più regolare e quindi meno
costoso esercizio dei lavori sullo spezzettato patrimonio terriero»28.
Nella riconquista delle sommità dovette pesare
l’intento di occupare luoghi contrassegnati, anche
simbolicamente, da una particolare vocazione al
controllo territoriale, talvolta coniugata all’opportunità di riutilizzare le strutture di centri fortificati di età preromana29. Ma non si deve contrapporre al continuismo insediativo di quei ricercatori,
che prolungano i paesaggi antichi sino all’incastellamento, un altrettanto fragile modello di continuità del villaggio altomedievale con quello protostorico, che valuta la romanizzazione come una
semplice e lunga parentesi, tutto sommato priva
di duratura incisività sul piano dell’assetto territoriale delle campagne toscane. È possibile, semmai, che ragioni simili spinsero, a distanza di secoli, popolazioni rurali, culturalmente diverse, ad
adottare scelte insediative in parte sovrapponibili.
Tuttavia, le motivazioni di tale processo non possono essere ridotte a quelle strategico-militari, non
si capirebbe infatti né la rinnovata centralità dei
villaggi di altura nei quadri del popolamento rurale, né la capacità dimostrata di sovvertire radicalmente gli assetti paesaggistici antichi e di improntare con duraturo successo quelli dei secoli a
venire. Per tali ragioni, la forte insistenza su questi aspetti da parte di molta storiografia, anche
recente, non è condivisibile30, tanto più che anche
molti siti dell’Italia settentrionale indagati dagli
archeologi delle fortificazioni tardoantiche/altomedievali si sono rivelati nient’altro che villaggi
contadini d’altura, dotati di modeste opere fortificate e normalmente privi di chiese e di residenze
di rappresentanza per il potere pubblico31.
26. SERENI 1962, p. 335.
27. Cfr. per il Piemonte GRIBAUDI 1951, pp. 19-33; per il
Lazio TOUBERT 1973, pp. 135-198.
28. GRIBAUDI 1951, pp. 19-33, in particolare p. 27.
29.
no,
30.
31.
4. Valenti nel suo saggio ricostruisce come, in Toscana sulla base degli indicatori archeologici, nel
corso del VI secolo la rete del popolamento rurale risulta caratterizzata da forme “residuali” di
insediamento, talvolta edificate sugli stessi impianti
di ville tardoromane che avevano cambiato destinazione. Le strutture abitative erano molto semplici, monovano, in pietra o più spesso in materiale deperibile e con copertura laterizia. Le attività produttive erano caratteristiche di un’economia di sussistenza. Generalmente non si colgono
elementi di una gerarchizzazione sociale ed economica. In sostanza sulle aree di popolamento
tardoantico, e negli spazi agrari connessi, si coglie
il lungo processo di “esaurimento” dei paesaggi
antichi.
Emblematici a tale riguardo i casi dei castelli di ScarliDonoratico, Castel di Pietra e Montemassi.
SERENI 1962, p. 22; inoltre CHIAPPA M AURI 2002.
CAGNANA 2001, pp. 101-117.
XVI
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Il grande intervallo cronologico per il quale l’indagine archeologica di superficie non produce informazioni sulla struttura dell’habitat rurale (metà
VI/VII–XI secolo) è invece ampiamente colmato
dai risultati provenienti dai cantieri di scavo sui
castelli, di cui Valenti ci da una più che esauriente
selezione. In sostanza ciò che appare chiaro ormai è che l’incastellamento interessò soprattutto
realtà insediative preesistenti e stabilmente popolate, villaggi e curtes. Sulla base della documentazione archeologica possiamo quindi affermare che
l’incastellamento si incardinò su una rete di popolamento già stabilizzata, sulla cui ossatura si era
modellata l’organizzazione del lavoro contadino.
L’altomedioevo, almeno a partire dall’VIII secolo,
non è un periodo di crisi del popolamento, al contrario, proprio in quella fase si va consolidando la
nuova trama insediativa delle campagne, sulla quale
si innestò più tardi la rete dei castelli. Anzi il periodo
compreso fra la fine del VI e l’VIII secolo appare
una fase cruciale nella formazione delle forme accentrate di popolamento rurale, all’interno delle quali
è difficile, se non impossibile, cogliere indicatori archeologici che ci permettano di individuare diversificazioni sociali, e si è spinti a pensare che nella formazione di questi insediamenti comunitari si seguirono “logiche contadine”, piuttosto che indirizzi di
possessores. All’interno di questi villaggi si innescarono, soltanto a partire dalla metà dell’VIII secolo,
processi di gerarchizzazione sociale nell’assetto “urbanistico”, simmetrici all’affermazione delle aristocrazie rurali. Tali forme di gerarchizzazione si colgono, in particolare, attraverso i segni della costruzione di fortificazioni, di cinte difensive dell’intero
insediamento, o di parti di questo, e attraverso la
formazione di residenze di maggior prestigio. La signoria territoriale, a sua volta, si sviluppò in un assetto fondiario che si era andato a definire in questi
secoli. I monumentali castelli di pietra rappresentano il segno forte del nuovo ruolo sociale, politico ed
economico che andavano assumendo aristocrazie
laiche ed ecclesiastiche, cittadine e rurali, grandi e
medi proprietari.
5. Dalle indagini archeologiche dell’ultimo venticinquennio sulle fasi di vita altomedievali di quegli insediamenti, che si trasformeranno poi in castelli, è emerso che il materiale da costruzione più
diffuso nella Toscana, in questo periodo, fu il legno, ma anche altri tipi di materiali costruttivi
deperibili: terra, paglia, incannicciati, etc.
In generale, nell’Italia centrale, la pietra non è più
usata per le abitazioni e compare nuovamente e
massicciamente nei villaggi verso l’XI secolo, non
solo in relazione alle strutture difensive o a quelle
ecclesiastiche, ma anche alle residenze signorili e,
successivamente, anche in quelle contadine. E questo profondo mutamento nel modo di costruire,
che coincide con l’inizio di una documentazione
scritta sempre più consistente e con il consolidarsi
e il manifestarsi attraverso un’edilizia monumentale dei poteri locali, ma è sufficiente a impedirci di
vedere l’esistenza di comunità ben solide, e con una
lunga storia di trasformazioni interne, nei secoli VIX, quando le strutture delle curtes si andarono formando su insediamenti che appaiono socialmente
omogenei ? Ci viene da pensare che forse la pratica
e la strategia della ricerca sul campo si mostra troppo incline a privilegiare i paradigmi storiografici
sugli assetti del potere piuttosto che elaborare le
labili realtà che ha di fronte, che è espressione di
contesti sociali che sfuggono alla tradizione scritta.
6. Se l’habitat di altura altomedievale nasce, come
mostra la documentazione archeologica, con la
fine dei paesaggi antichi, ancora sulle ultime fasi
di questi ultimi non è stata prodotta una mole di
scavi sufficiente a conseguire una ricostruzione
esaustiva, nonostante l’attenzione recentemente
dimostrata dai ricercatori a questi temi32.
Generalmente, la rete insediativa tardo antica così
come era sopravvissuta alla crisi del V secolo, si dissolse fra VI e i primi decenni del VII secolo: sui ruderi delle ville si impiantarono talvolta nuovi abitati
in legno o strutture precarie, interpretabili come elementi catalizzatori per la popolazione residua oppure per elementi di popolazioni allogene33. D’altronde, alcuni indicatori archeologici mostrano che
attorno alla metà del VI secolo si determinarono
profondi mutamenti sociali nelle campagne toscane: la scomparsa delle ultime produzioni ceramiche
legate per morfologia, tecnologia e reti distributive
al mondo antico34 e l’egemonia delle strutture ecclesiastiche nella gestione dei rituali funerari che sfociò
nella fine delle sepolture di tipo “germanico” e in un
progressivo incremento delle chiese rurali35.
Sotto il profilo dell’organizzazione religiosa dobbiamo evidenziare che non emerge un ruolo centrale delle chiese rurali nella costituzione di una
identità socio-insediativa di villaggio36. Ragionan32. Per un quadro generale FRANCOVICH 2002 e FRANCOVICH , H ODGES 2003.
33. CAMBI et alii 1994; VALENTI 1995; VALENTI 1997; VALENTI 1999.
34. FRANCOVICH , VALENTI 1997; V ALENTI 1999.
35. FRANCOVICH 2002, pp. 144-167.
36. Anche in Toscana le conoscenze sulle chiese rurali tardo-antiche e altomedievali sono scarse, soprattutto nei loro
rapporti con i quadri insediativi complessivi (cfr. i quadri
di sintesi esposti in PERGOLA 1999). Per alcuni riferimenti
ai casi di chiese rurali toscane attestate dalla metà del VII
secolo nei loro rapporti con i quadri insediativi circostanti,
ricostruiti attraverso analisi topografiche e studio documentario si veda FRANCOVICH, F ELICI, GABBRIELLI 2003.
XVII
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do sulla base dei dati acquisiti per i secoli successivi,
attraverso le prospezioni topografiche e la documentazione d’archivio, possiamo forse intravedere una
maggiore resistenza ad abbandonare i paesaggi antichi da parte degli edifici ecclesiastici rispetto alle tendenze complessive del popolamento.
All’interno dei villaggi altomedievali, prima dei
secoli IX e X, non è documentata archeologicamente la costruzione di edifici religiosi in pietra e
i nostri scavi ci consentono anche di escludere la
preesistenza di chiese lignee all’interno degli abitati d’altura, mentre è possibile che alcune chiese
rurali, in particolar modo quelle battesimali, maggiormente legate agli episcopati cittadini, si andassero a configurare come luoghi d’incontro temporanei per gli abitanti dei villaggi circostanti.
Gli enti ecclesiastici, talvolta dotati dai fondatori
di patrimoni ancora legati agli assetti proprietari
tardo antichi, presentavano infatti non di rado una
collocazione in corrispondenza dei gangli delle
direttrici viarie preesistenti – che normalmente lasciavano ai margini le alture ove avevano trovato
sede i nuovi villaggi – e raramente tali siti coagularono attorno a sé il popolamento rurale.
Per secoli i villaggi d’altura, da un lato, e le chiese
pievane, dall’altro, si fronteggiarono in un rapporto dialettico che improntava l’organizzazione
religiosa e insediativa delle campagne toscane.
Generalmente i villaggi giunsero, alla fine, ad attrarre presso di sé gli edifici religiosi, ma ciò accadde solo nel corso di un arco temporale molto
esteso. Nel frattempo, le comunità di villaggio,
contrassegnate inizialmente da una omogeneità
socio-economica degli abitanti, avevano conosciuto una progressiva affermazione di élite rurali, tradottasi anche in interventi di gerarchizzazione
dell’insediamento chiaramente leggibili in termini di documentazione archeologica37. Durante i
periodi di difficoltà economiche e politiche molti
piccoli proprietari liberi avevano infatti ceduto i
propri mansi di villaggio ad un grande proprietario per ottenerli in concessione come terra tributaria collegata ad un centro curtense. Pertanto, in
età carolingia, i nuovi poteri legati al grande possesso fondiario, all’esercizio di attività funzionariali, all’organizzazione della difesa e del controllo territoriale, investirono massicciamente i gangli pulsanti dell’economia rurale e si imposero all’interno dei villaggi. In tale contesto nuovi edifici, magazzini e strutture, che manifestavano in
modo concreto l’egemonia locale cui aspiravano i
nuovi soggetti di potere, andarono ad occupare le
parti privilegiate dei villaggi altomedievali.
37. FRANCOVICH 2002, pp. 144-167; FRANCOVICH , H ODGES
2003, pp. 61-105.
Proprio i nascenti soggetti signorili, a partire dal
secolo IX si rivolsero con progressiva convinzione ed efficacia all’istituzione ed al controllo delle
chiese di villaggio (o, utilizzando termini documentari, di curtis, di villa o di castrum), concependoli come un elemento-chiave per il consolidamento ulteriore del proprio prestigio.
Per contro, l’offensiva dei potentes per la loro affermazione sulle comunità di villaggio dovette determinare la crisi di un sistema di gestione collettiva delle terre e dell’uso comunitario dei pascoli e
dei boschi. Nonostante tali dinamiche, tuttavia,
possiamo ritenere che in gran parte della campagna
toscana l’identità del villaggio altomedievale si mantenne a lungo sostanzialmente integra. Infatti, tra
XII e XIII secolo i processi di ulteriore accentramento
insediativo, nel quadro dell’“incastellamento” o di
terre nuove promossi dai principali signori territoriali o dai comuni cittadini, avvennero non attraverso un indistinto afflusso di popolazione dalle
campagne circostanti, ma con modalità che rispettavano le antiche fisionomie di villaggio. Vale a dire
attraverso meccanismi di tipo sinecistico, per le
popolazioni dei villaggi e dei castelli circostanti che,
abbandonati gli originari centri di residenza, si insediarono entro i nuovi contesti per quartieri topograficamente omogenei e trasferirono al loro
interno le proprie antiche chiese.
7. Dopo aver appurato la qualità di informazione
che emerge dal lavoro archeologico, così come ci
è narrato da Marco Valenti, appare sempre più
evidente che la ricostruzione delle strutture insediative altomedievali si può appoggiare solo in
misura marginale sui documenti scritti, sia a causa della loro intrinseca inadeguatezza a illuminare
questi temi, sia in relazione alle irrimediabili lacunosità, frammentarietà e disomogeneità distributiva che li caratterizzano nel loro complesso38.
Nonostante che per la Toscana di età longobarda
risalti una sua peculiare ricchezza rispetto alla tradizione complessiva delle scritture documentarie
altomedievali (due terzi dei documenti diplomatici
di questo periodo proviene da archivi toscani39), e
38. Sull’irrimediabile penuria di fonti scritte altomedievali, Stefano Gasparri ha messo in risalto che tra la discesa
dei Longobardi e l’inizio del secolo VIII si sono conservati
(in originale o in copia) solo nove documenti d’archivio
relativi al Regno d’Italia, cui si aggiungono otto testi per
l’Italia bizantina, una breve fonte cronistica e la raccolta
legislativa di Rotari (GASPARRI 1983b, pp. 118-121).
39. Su 296 documenti autentici editi nei primi tre volumi
del CDL, quasi duecento provengono da centri toscani
(poco meno di 160 dall’archivio arcivescovile di Lucca, una
ventina circa da quello del monastero di S. Salvatore al
Monte Amiata ed una trentina circa dagli antichi archivi di
altre istituzioni ecclesiastiche).
XVIII
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Miranduolo (Chiusdino-Siena). Il castello di Miranduolo, in corso di scavo dal 2001, è attestato dalle fonti scritte a partire dal 1004 ed anche in questo caso l’intervento archeologico mostra
un’occupazione stabile della collina che ha inizio molto prima, nello specifico dalla metà dell’VIII secolo (lo scavo è comunque ancora in corso). Questo contesto permette di comprendere con grande
chiarezza la trasformazione di un villaggio in azienda curtense verso la metà del IX secolo e quindi l’evoluzione in castello nello spazio di un secolo. L’immagine ci permettere di cogliere pienamente
la trasformazione del villaggio altomedievale in castello con l’abbandono della palizzata che, insieme ad un fossato, difendeva l’area signorile (in primo piano nella foto), la costruzione della cinta
muraria (riconoscibile nel grande crollo sulla sinistra) e l’edificazione di un palazzo monumentale tra XI e XIII secolo, che s’impianta sui resti dell’edificio dominico di metà IX secolo.
XIX
che tale materiale sia utile per conoscere l’esistenza di un certo numero di insediamenti, tuttavia esso
rimane di per sé strutturalmente inadatto a ricostruire le forme insediative di quel periodo40.
Alla luce di tale stato di cose, è utile tornare ad
una lettura delle fonti scritte attraverso i modelli
elaborati sulla base di quelle archeologiche, capovolgendo quanto è stato proposto in sede storiografica, vale a dire che «le poche fonti materiali»
relative al periodo compreso tra la fine del VII e
l’inizio del X secolo debbano «ancora essere lette
attraverso le fonti scritte»41, a causa dell’esiguità
delle conoscenze conseguite su base archeologica42.
Quindi dobbiamo verificare se un sistema insediativo fondato sul villaggio, che emerge chiaramente dalle indagini sul campo, risulti o meno compatibile con i documenti disponibili per l’alto
medioevo.
Nella documentazione d’archivio altomedievale,
l’unità elementare dell’insediamento rurale è designata casa, vale a dire un insieme di strutture e
di appezzamenti fondiari, di cui si componeva
un’azienda contadina retta da un nucleo familiare43. I meccanismi mediante i quali queste case si
correlavano reciprocamente non sono chiariti dal
dettato di questi testi, poiché attraverso questi
generalmente non è possibile stabilire se tali dimore contadine fossero disperse nelle campagne
o invece raggruppate in villaggi44.
Non vi è dubbio inoltre che risulta assai arduo
determinare anche quali concreti contesti di popolamento stessero dietro alle definizioni vicus,
fundus, locus, casale o curtis, poiché l’uso di questi termini non è sempre riconducibile a un significato generale e univoco in contesti documentari
e cronologici diversi45. Anzi, in alcuni casi si ha la
netta sensazione che il loro utilizzo sia stato sostanzialmente intercambiabile, mentre in altri sembra più probabile che esso variasse nel tempo, in
relazione al mutare dei caratteri degli abitati o della
loro percezione individuale da parte dei diversi
estensori dei documenti. In linea generale, tuttavia, risulta piuttosto evidente la loro valenza se-
40. Per la messa a punto di questi temi, cfr. GINATEMPO ,
GIORGI 1996, pp. 7-52 e FRANCOVICH, GINATEMPO 2000.
41. CAROCCI 2000, p. 426.
42. GINATEMPO , G IORGI 1996, pp. 7-52.
43. CAMMAROSANO 1991, p. 131.
44. GINATEMPO, GIORGI 1996, pp. 7-52.
45. Ad esempio, in riferimento alla documentazione di Farfa
dei secoli VIII e IX ove si menzionano domus cultae, cellae,
curticellae, curtes, casalia, Pierre Toubert osservò a suo
tempo: «il arrive que les mêmes mots définissent, selon le
contexte documentaire, des réalités diverses et parfois même
contradictoires” (TOUBERT 1973, p. 456).
mantica collettiva, che li rende riferibili a contesti
di villaggio, sebbene siano possibili valutazioni
diverse sul grado di accentramento insediativo che
poteva contrassegnare questi abitati nel caso in
cui si prescinda dai risultati delle indagini archeologiche46, oppure se si consideri queste ultime determinanti per la piena comprensione del significato di tali definizioni insediative47.
Nel contesto documentario toscano il termine
vicus48 rimanda in modo meno ambiguo a forme
di villaggio, ricalcando una designazione già presente nell’età classica che tende rapidamente a
scomparire durante il secolo X a favore di nuove
dizioni (villa, curtis, castellum), per sopravvivere
in seguito nel solo ambito toponomastico. Nonostante un evidente nesso del vocabolo con l’assetto insediativo antico, sarebbe erroneo ritenere che
gli abitati designati vici siano da riferire soltanto a
villaggi tardo antichi49.
In sede storiografica viene normalmente registrata l’ambiguità del termine casale, che – come del
resto il vocabolo curtis – può essere utilizzato indifferentemente con accezione insediativa o patrimoniale, anche in considerazione del fatto che
non di rado un intero insediamento (casale o
curtis) poteva essere ascritto al patrimonio di un
singolo soggetto50. Talvolta si è colto nell’uso del
termine casale un nesso con una organizzazione
di villaggio alternativa alla grande proprietà, legata allo sfruttamento collettivo di spazi incolti51
e, in area bizantina, a iniziative di colonizzazione
e dissodamento52.
In riferimento alla Toscana orientale, alcuni autori hanno interpretato il casale come una riparti-
46. Wickham sostiene che i termini vicus, villa, casale e
castrum non possono dire qualcosa sul carattere concentrato, disperso o intermedio di questi habitat (si veda il suo
intervento in NOYÉ 1988, p. 215).
47. FRANCOVICH 1998, pp. 13-20; FARINELLI 2000, pp. 1320; FRANCOVICH, GINATEMPO 2000, pp. 7-24.
48. CASTAGNETTI 1982, pp. 272-273.
49. Come dimostra, ad esempio, il caso del vicus di S.
Ansano, formatosi durante l’età longobarda in corrispondenza dell’omonima chiesa, entro il territorio conteso tra
le diocesi di Siena e Arezzo CASTAGNETTI 1982, p. 273.
50. Cfr. le considerazioni in FUMAGALLI 1992, p. 77. I casalia
del secolo IX sono intesi come complessi fondiari minori
delle curtes, gruppi di poderi accentrati, ma privi di dominico,
proiettati ad una conquista dei boschi alla agricoltura, in
FUMAGALLI 1976, p. 29. Per i diversi significati attribuiti in
sede storiografica al termine casale nei secoli VIII e IX cfr.
PASQUALI 2002, pp. 45-46. Sulla valenza insediativa delle
curtes menzionate nei documenti toscani cfr. FARINELLI 2000
pp. 161-166. Sull’appartenenza nel X secolo di interi villaggi situati in aree marginali del territorio lucchese a soggetti
signorili che utilizzavano la curtis per l’organizzazione dei
patrimoni rurali cfr. ANDREOLLI 1998, pp. 154-155.
51. ANDREOLLI 1989, pp. 362-363.
52. ANDREOLLI 1989, p. 366; CASTAGNETTI 1982, pp. 225247.
XX
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zione territoriale al cui interno poteva essere inquadrato un popolamento più o meno intensamente nucleato53, per la Toscana meridionale, invece, è stata rilevata la frequente identificazione
dei casalia attestati nei documenti d’archivio con
nuclei insediativi, normalmente d’altura, talvolta
di dimensioni modeste54.
Le ricerche più organiche sul significato insediativo delle informazioni provenienti dai testi altomedievali toscani sono state compiute da Chris
Wickham, che ha proceduto ad una faticosa analisi della dimensione insediativa rurale. Wickham,
che si è dimostrato attento anche a considerare i
dati e i modelli scaturiti dalle prime e frammentarie indagini archeologiche, ha proposto paradigmi interpretativi alternativi a quelli che è possibile elaborare sulla base delle più recenti indagini
archeologiche. Infatti, a più riprese ha sostenuto
la possibilità che un’organizzazione territoriale per
villaggi sia corrisposta, da un lato, a un tenue accentramento dell’insediamento55, dall’altro all’apparente debolezza dell’identità di villaggio prima
dell’XI secolo56.
Per quanto poi concerne specificamente l’assetto
del popolamento per l’area del Monte Amiata,
Wickham, concordando con le posizioni espresse anche da Manuel Vachero Piñero in riferimento
alla Valdorcia, ha ritenuto che né i vici o i casalia,
né, in una prima fase, gli stessi castelli avrebbero
determinato una pronunciata concentrazione
dell’habitat sino al pieno XII secolo, poiché sino
a quell’epoca un ruolo determinante sarebbe stato
ricoperto dall’insediamento sparso57.
Le argomentazioni di Wickham risalgono ad una
ventina di anni fa, quando dovevano ancora essere avviate indagini sistematiche sui contesti archeologici amiatini. Le ricognizioni di superficie, le ricerche sul sopravvissuto e quelle di aereofotointerpretazione condotte nell’ultimo quindicennio,
tuttavia, hanno portato nuovi dati che possono
indurre a elaborare interpretazioni alternative rispetto a quelle a suo tempo proposte dallo studioso anglosassone58. Infatti, l’archeologia dei paesaggi non ha portato alcuna conferma della presenza
53. Su tale accezione del casale altomedievale hanno insistito DELUMEAU 1996, pp. 118-121 e WICKHAM 1997, pp.
186-187.
54. Si vedano anche gli accenni in CONTI 1965, pp. 9-14.
55. WICKHAM 1990, pp. 79-102; WICKHAM 1989, pp. 101137; WICKHAM 1995; WICKHAM 1997.
56. WICKHAM 1995, p. 233; WICKHAM 1988, p. 215.
57. WICKHAM 1989, pp. 110-111; VAQUERO P IÑEIRO 1990,
pp. 21-23.
58. CAMBI 1996; FRANCOVICH et alii 2002, pp. 40-46; ma
nuovi elementi emergono da recenti tesi sul territorio
amatino (CAPRASECCA 2002; CAVALLO 2003; GIUSTARINI 2004;
MENCI 2004; BOTARELLI c.s.).
di un habitat altomedievale disperso, evidenziando invece la diffusione di villaggi nucleati, spesso
collocati in sommità e non di rado in corrispondenza di località in cui furono ubicati edifici religiosi medievali o insediamenti qualificati nella documentazione d’archivio come curtes, ville o castelli.
Alla luce di queste indicazioni dovrebbe essere riconsiderata la portata generalizzante riguardo alla
scarsa coesione insediativa dei casalia e dei vici
posti nelle pendici occidentali e orientali dell’Amiata59. Gli indizi raccolti da Wickham provengono da cinque documenti, pertinenti a un periodo piuttosto tardo (uno risale all’830 e gli altri al
X secolo), in cui la grande proprietà aveva già raggiunto una forza tale da spezzare i legami dei rustici con le rispettive comunità di origine60. Inoltre, solo alcuni di questi testi mostrano con sufficiente chiarezza la collocazione di edifici abitativi
all’esterno del nucleo centrale del villaggio (un
molino in località Comulo nel casale Plana o una
casa da costruire in prossimità del tracciato della
Francigena), mentre niente permette di escludere
che la maggior parte dei riferimenti potrebbe riguardare residenze contadine poste in villaggi accentrati.
Per altro verso, la discussione sul tema della labilità delle strutture comunitarie locali sino all’età
dei castelli, intravista da Wickham attraverso l’analisi dei testi scritti, non può trovare nei risultati
della ricerca archeologica elementi di contraddizione – come viceversa è possibile per quelle aree
dove i cantieri stanno dimostrando la solida e prolungata presenza di villaggi altomedievali – a causa dell’assenza di scavi, ma certo la stessa assenza
di documentazione relativa alla presenza di insediamento sparso non sembra confermarla.
Speculare rispetto a questa problematica è la proficua prospettiva di Valenti quando confronta il
modello storiografico degli assetti sociali e di organizzazione del potere nelle campagne fra VIII e
X secolo, elaborato sulla base della documentazione scritta, con le evidenze che macroscopicamente emergono sotto gli insediamenti incastellati, sia in termini di produzione agricola accumulata sia in termini di organizzazione topografica
dell’insediamento. Valenti riesce a darci un quadro delle diversificazioni e delle specificità delle
abitazioni in legno, con varie e ben percepibili
destinazioni funzionali, o della formazione di aree
privilegiate degli insediamenti con la costruzioni
59. WICKHAM 1989, pp. 110-115.
60. Presoniano (CDA I, n. 108); Talassa (CDA I, n. 178);
Lamula (CDA I, n. 174; CDA I, n. 194); Plana (CDA I, n.
167; CDA I, n. 194).
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di cortine in pietra o legno, con il chiaro intento
di rendere compatibile l’interpretazione storiografica con le realtà materiali emergenti dal terreno.
Tale tentativo, se può in alcuni casi apparire una
“fuga in avanti”, certamente contribuisce a rendere possibile un’interpretazione innovativa delle
fonti scritte.
8. In conclusione, se il modello, prospettabile attraverso l’interpretazione delle fonti archeologiche, ci delinea un quadro del popolamento altomedievale radicato ad una variegata, ma solida,
realtà di villaggio, pare delinearsi chiaramente un
quadro nel quale le fonti scritte non necessariamente contraddicano tale dimensione, mentre
l’esistenza di un insediamento sparso, significativo in termini di consistenza demografica, attende
una conferma archeologica e documentaria. La
ricostruzione dei grandi processi di trasformazione dei quadri ambientali nella lunga fase di transizione fra il tardo antico ed il medioevo si basa
sulla valutazione di fonti diversificate e l’interpretazione dei “frammentari” indicatori sui quali si
fonda il processo di ricostruzione storica non può
fare a meno di ottimizzarne il potenziale informativo e di rivolgersi alla fonte materiale non solo
per “fletterla” a vantaggio di questa o quella interpretazione storiografica, ma piuttosto per esplorare la complessità delle realtà insediative, le cui
logiche di conservazione, di “uso” e di interpretazione differiscono profondamente da quelle delle
fonti scritte. Sapendo bene che soltanto le fonti
archeologiche sono in grado di rinnovarsi e di
produrre nuove e sostanziali informazioni.
Se nel nostro disattento paese si sarà in grado di
mettere in campo strategie di conservazione e di
valorizzazione di un patrimonio paesaggistico ed
archeologico, che rischia di essere usurato senza
aver potuto comunicare il suo straordinario potenziale conoscitivo, non solo potremo realizzare
politiche efficaci di conservazione del patrimonio,
ma sapremo trovare quei segni della storia davvero capaci di orientare lo sviluppo e una pianificazione equilibrata del territorio. Sarebbe un grave
errore che il mondo della ricerca, nel suo complesso, si ritenesse estraneo al problema della conservazione di fonti tanto centrali per riscrivere
capitoli di storia e all’uso pubblico che di questo
patrimonio si fa.
E allora entra in gioco di nuovo il Progetto “Archeologia dei Paesaggi Medievali” della Fondazione Monte dei Paschi di Siena che non solo permette di operare su una scala quantitativamente
significativa, ma scommette sulla possibilità di trasmettere ad un grande pubblico temi apparentemente complessi attraverso elaborazioni di immagini, capaci di rendere comprensibili assetti insediativi passati, che hanno marcato, e continuano
a marcare, il territorio toscano. Molte delle ricostruzioni grafiche, utilizzate in questo volume, frutto di un lavoro di sintesi operato da illustratori di
grande capacità e da archeologi, sono al tempo
stesso un mezzo efficace didatticamente e il risultato narrativo più incisivo del nostro lavoro di
archeologi-storici.
RICCARDO FRANCOVICH
XXII
© 2004 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
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