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“MA CHE MINCHIA DI TRAGGEDIA JÈ
Su “I Teatronauti del Chaos”
‘MA
CHE MINCHIA DI TRAGGEDIA JÈ?’.
IL
TEATRO SI ROMANZA, ROMANZARE IL
TEATRO
Una lettera-saggio a proposito del libro di Marco Palladini (Fermenti Editrice, 2009)
che reca come sottotitolo: “La scena sperimentale e postmoderna in Italia (19762008)”. Un simpatetico attraversamento per plurimi scorci e citazioni del volume,
sottolineando la sua dimensione di narrazione o metanarrazione critica intesa a
leggere le spirali entropiche del passaggio tra fine ’900 e inizio XXI secolo in
controluce ai bagliori ‘caosmotici’, ai divaricati percorsi artistici della migliore
ricerca scenica nazionale e internazionale.
________________________________________________________________________________
di Plinio Perilli
(per la Patafisica realizzata e I Teatronauti del Chaos
di Marco Palladini, “ubuesco” ma anche magico
repertorio dell’Arte Totale, dentro la fastidiosa,
ridicola tragedia della nostra modernità!)
Caro Marco,
il tuo libro di (sul, per il) teatro mi ha tenuto piacevolissima compagnia nell’ultimo
mese, e mi piace ora scrivertene a caldo almeno le prime impressioni…
Ma torniamo indietro ad una inconscia Scena primaria (sto scherzando, ma neanche tanto) di
tantissimi, troppi anni fa… Avevo sei anni o giù di lì, ed un amico di mio padre, incuriosito per una
mia breve, buffa recita domestica dell’“Essere o non essere” nel salone di casa (che avevo
memorizzato nella versione dell’Amleto di Gassman, con tanto di 45 giri che Papà mi aveva in
effetti regalato un po’ per precoce omaggio culturale, un po’ per esibizionistica celia familiare…
con tanto di finto teschio in mano abilmente preparatomi da Mr. Ivo in bianchissimo gesso, fil di
ferro, anima di cartone, e giornale appallottolato, memore dei suoi baldi esordi come decoratore e
artista scenografo, sia teatrale che paleocinematografico…) – dunque questo amico di famiglia, un
belga credo di ricordare, di nome Blondel, promise di portarmi, e in effetti mi portò all’Eliseo,
tempio romano della prosa, dove ammannivano, in una bella pomeridiana domenicale, una reboante
versione dell’Amleto, ma questa volta – attenzione – con la compagnia Albertazzi/Proclemer…
Svariati anni dopo, avrei in qualche modo ripetuto, mimato e clonato quell’emozione (il primo
tuffo tra le Muse sceniche, la prima apollinea ascesa e discesa dal Monte Elicona, con sulle guance
ancora freschi i 9 baci inestinguibili di Clio – colei che rende celebri; Euterpe – colei che rallegra;
Talia – la festiva; Melpomene – la cantante; Tersicore – colei che diletta nella danza; Erato – colei
che suscita desideri; Polimnia – ricca di inni; Urania – la celeste; Calliope – dalla bella voce)
leggendo le più belle pagine di Albert Camus e del suo Mito di Sisifo, quelle dedicate al Teatro, o
meglio alla “Commedia”:
… Dice Amleto: “Lo spettacolo: ecco la trappola in cui piglierò la coscienza del re.” Prendere in
trappola è detto bene, perché la coscienza avanza velocemente o si ripiega. Bisogna prenderla a
volo, in quel punto appena sensibile, in cui getta su se stessa uno sguardo fugace. All’uomo
quotidiano non piace indugiare; al contrario, tutto lo incalza. Ma, ad un tempo, nulla lo interessa più
di se stesso, soprattutto riguardo a ciò che potrebbe essere. Da qui il suo gusto per il teatro, per lo
spettacolo, dove gli sono rappresentati tanti destini di cui egli coglie la poesia, senza soffrirne
l’amarezza. …
Beh, fu il mio vero battesimo teatrale – anche se, al di là del magniloquente esercizio recitativo,
mi era intuitivamente ben chiaro che quel vellutato e luminoso rito da teatro borghese era
esattamente tutto quello che il nostro, e soprattutto mio futuro avrebbe perfettamente dovuto
superare, metabolizzare e infine archiviare…
Seconda, diciamo pure riaggiornata Scena primaria: e questa volta ben più valida e probante,
perché era festosamente presente la mia famiglia tutta: papà Ivo, grande sceneggiatore, mamma Lia,
attrice (ormai ex), mia sorella Valeria, allora studentessa di lingue, e il sottoscritto, liceale (anzi
ancora ginnasiale) di primo pelo…
Luogo deputato: il Palazzo Nazionale delle Esposizioni, a Roma in via Nazionale. Inizio anni
’70… Opera, diciamolo, quanto mai aperta (e vorrei dire scoperchiata, spaccata ma anche
ingigantita, ravvicinata o allontanante come un plastico architettonico!), l’ariostesco Orlando
furioso messo in scena dal genio innovatore e novellatore di Luca Ronconi, e portato all’esordio
spoletino a un mitico Festival dei Due Mondi del ’69 (con Massimo Foschi, Mariangela Melato,
Ottavia Piccolo, e tanti altri allor giovani attori, presto resisi famosi)… Tale almeno mi sembrò –
divertendomi e divertendoci per tutta la durata, plurima eppure orchestrata, rigorosa e prospettica,
filologica e fantasiosa, della rappresentazione (o forse era già molto meglio dire happening, work in
progress: per visualizzante traslato, action painting?!)…
E Ariosto veniva reinventato (non riesumato!, come sempre avviene coi fatti antiqui della
cultura…), ma finalmente con quella leggerezza che solo il miglior Calvino gli avrebbe volentieri
concesso, orchestrato, specchiato e glorificato:
Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’invischi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno più espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
(Canto XXIV)
Era comunque il Teatro che davvero si romanzava e riesplodeva imploso fra testo e scena, mente
e gesto, parola e frantumazione o mimèsi plastica, pantomima e Storia… Il Teatro che si poteva
ancora vivere e non più (non solo) recitare, parodiare e insieme indossare a rito, poi spogliare di
ogni archetipo, e ancora reindossare uscendo come sinestetico avvenimento, esplorazione totale…
Niente più a che fare perfino con le perfette pièces, gli impeccabili Pirandello cui ancora Papà
(vecchio amico di De Lullo, e soprattutto reduce dalla mitica e contestatissima prima al “Valle” dei
Sei personaggi, A.D. 1921, fra i pochi giovani che spalleggiarono e difesero a claque il maestro,
contro i veementi vituperi della folla, inviperita e denudata dall’ala magica della novità –
borghesemente antiborghese) ci conduceva al Valle: riti per l’appunto, superbamente paludati e
insieme agilissimi, missae laiche officiate dal meglio di allora, cioè la gloriosa e molto bene
invecchiata “Compagnia dei Giovani” di Giorgio De Lullo, Romolo Valli & soci azzimati…
Ma l’Orlando furioso era ben altra cosa: e per allora sembrava davvero un antiteatro, così come si
parlava di antiromanzo, o meglio nouveau roman per i libri, per la “scuola dello sguardo” di Robbe-
Grillet e Butor, o della Sarraute… Forse – anzi certamente già da allora – era ottimo esempio di una
via da seguire, forse anzi da perdere e meglio diversamente ritrovare…
Carissimo Marco, quegli svariati, piccoli carri di Tespi spinti dagli stessi attori o dalle comparse,
con le rotelline rumorose e cigolanti – uno qua, uno laggiù, un altro a destra, ma un altro pure a
sinistra, e tanti altri ancora, in contemporanea, con una miriade di scene e schegge narrative, recitate
e rivissute in contemporanea –, significavano, incarnavano (ma anche intellettualizzavano), il
concetto fisico del Teatro Moderno totalmente rinnovato dal suo stesso interno…
Nulla da allora fu più uguale – e anche quando me ne andai a Londra l’estate a vedere altri
spettacoli, inesorabilmente di moda (negli anni ’70, ricordi?!, andavano ancora per la maggiore le
ennesime repliche, un po’ turistiche, di Jesus Christ Superstar), il battesimo era ormai avvenuto, e
in certo senso immodificabile.
Forse non ti ho mai detto, mio caro Marco, che da ragazzo o poco più (facevo ancora l’università),
collaborai per qualche mese assieme a Gerardo Guerrieri e alla moglie, al loro agguerrito e
prestigioso “Teatro Club” – un’associazione culturale cosmopolita che davvero intratteneva
fecondi, altolocati rapporti di scambio creativo e multiforme, aggiornatissima ospitalità culturale…
Mi occupavo di ufficio stampa e dovevo riassumere in poche, esaurienti righe, il senso e la trama
sinestetica dei più begli spettacoli mondiali…
Mori el Merma! , “Morte al Tiranno!” fu allestito presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna
con le gigantesche, reboanti e policrome scenografie di Miró, e il brillante, strepitoso corpo attoriale
della compagnia La Claca di Barcellona… Parliamo del 7 Aprile 1979, se male non ricordo… A
distanza di pochi anni dalla morte del caudillo (1975), del famigerato “Generalissimo” Francisco
Franco… Un evento di Liberazione, insieme storica, artistica e teatrale – sì, un gigantesco,
clamoroso evento: come allora ancora non ci si affrettava e affettava a dire, arringando,
scomodando, languide e tiepide mitologie anticipate!…
Chissà perché – anzi, è fin troppo chiaro – non riesco a ricordare oggi quel magniloquente,
visionario spettacolo se non evocando in filigrana memoriale il passe-partout apotropaico di alcuni
splendidi, sanguinolenti e turgidi versi di Federico García Lorca:
………………………
Alle nove di sera
Lo portano in prigione,
Mentre le guardie civili
Bevon tutte limonata.
E alle nove di sera
Gli chiudono la prigione,
Mentre il cielo riluce
Come groppa di puledro.
Ma già un’altra vicenda mi si apparecchiava, con l’illusione – perfino concretata – di poter
prolungare la parola in voce, la pagina in palcoscenico, starei per dire I fiori del male nel Mal dei
fiori (citando l’ultima opera poetica di Carmelo Bene, neo-contro-ultrabaudelairiana…)
L’esperienza come dramaturg per Giancarlo Nanni & Manuela Kustermann, nel laboratorio
permanente del Teatro Vascello, a Roma, nell’intrigante stagione del Gabbiano di Cechov, riletto,
smontato, e in qualche modo post-modernizzato… Il gioco di una regia tutta visiva, direi finanche
pittorica… Certo, con le sue brave aperture, positure e seduzioni psicanalitiche… (E qui glisso,
perché su quei tempi dovrei abbandonarmi a scrivere un intero libro – forse anzi un racconto…)
Certo è che sulle differenti nuances, teorizzazioni e volizioni registiche il tuo libro è proprio una
miniera…
Ma il nostro caro ed estroso Giancarlo, non era l’unico regista/pittore in fiera ed ispirata
circolazione… Il tuo romanzatissimo saggio anzi eccelle per porsi e proporsi – insieme – come un
lussureggiante, pancromatico o umbratile regesto di questi apprezzabili guizzi, decolli (o tonfi)
verso il cielo troppo alto e azzurro dell’Arte Totale: a volte soltanto corteggiata, sfiorata o titillata
quale bizzarro, sinestetico èmpito di pura visività:
“… Per illustrare questa controteologia la Socìetas monta un bellissimo spettacolo di oltre tre ore che si
svolge come un abbagliante film visivo gremito di suggestioni, figurazioni, citazioni culturali, mitopoietiche
ed enigmatiche di cui è impossibile in breve riferire esaurientemente. Si tratta, peraltro, di un grande film
scenico muto: le uniche parole che si ascoltano sono, infatti, quelle iniziali del libro della Genesi, recitate in
ebraico antico da Lucifero che compare in marsina e cilindro nel laboratorio ottocentesco di Marie Curie, la
scopritrice del radium, il minerale che emana luce ed insieme reca la morte. …”
(Socìetas Raffaello Sanzio, Genesi. From the museum of sleep, 1999)
Personalmente, e in nobile, non meno visionaria controtendenza, rammento uno scritto di Guido
Ceronetti nell’88, dal suggestivo e cocente titolo Regia “verde” per Cechov:
“Ricordo la grande vela bianca, con foglie, di Strehler, che incombeva sulle figure affannate, le vestiva di
aroma dei ciliegi assenti. Era poetico, ma quella nube simbolica allontanava dalla pena degli alberi di
abbandonare Ljubov, e di rientrare nell’Invisibile. Peter Brook ha cancellato ogni allusione visiva al
giardino: solo personaggi, tappeti e sporadici oggetti (l’armadio di Gaev) al momento dell’evocazione. Forse,
chi si è avvicinato di più è il regista giapponese (in awa, in ito, chi sa chi è) che ha occupato la scena con un
unico immenso albero, un albero senza specificazione, invece di un ciliegio, albero del Giappone. Questo,
senza saperlo forse, è il primo regista verde del dramma dai lunghi rami fioriti di Anton Pavlovič Cechov. I
personaggi, sensibili animule perse che il grande albero difendeva dal male e che resteranno orfane. ”
(ora in: Guido Ceronetti, Cara incertezza, Adelphi, Milano, 1997)
Ma insomma, abbasso il teatro e le soluzioni, “invenzioni” comunque borghesi, perfino quelle
autocritiche!… “E si giocava, in quei secoli attimi fatali,” – evocava e divinò, in merito, il
compianto Giuseppe Bartolucci – “per magnifico urbano e per follie sentimentali, in aperto
campo…”.
Romanzo, dicevo. Quello che mai si scrive, perché – almeno apparentemente – non lo si può
scrivere, sfugge a una trama omogenea, a una struttura, aperta sì, ma al contempo collegata,
rifrangente, epperò funzionale (un aggettivo caro, attenzione, proprio agli architetti – che di
funzionalismo, movimento o meno, fanno, erigono sempre la materia prima della propria
esperienza)… Un romanzo che ha per tema precipuo (da rispettare e insieme tradire, ovviamente)
La scena sperimentale e postmoderna in Italia 1976-2008… Trentatré anni, per intenderci:
“… Come un raffinato sciamano della visione, Sepe colloca gli spettatori su una pedana centrale girevole,
mentre tutt’intorno dispone una sorta di circolare tunnel magico dotato di decine di finestre e finestrelle usate
a mo’ di schermi o occhi veggenti. C’è all’inizio una donna in tonaca da prete che recita una poetica
introduzione e chiarisce: ‘Tutto è accaduto’. Frase chiave perché Sepe allude al fatto che in teatro tutto è già
stato fatto, si può soltanto ripetere o ricominciare. …”
(Giancarlo Sepe, Favole di Oscar Wilde – per cominciare a leggerle, 2002)
Una delle cose che più mi affascina nel tuo strepitoso, minuzioso centone memoriale, anzi
testimoniale, è l’incredibile capacità che sempre tu possiedi di di-vergere, con-nettere, ri-comporre,
sor-volare, insomma onni-comprendere l’intera espressività contemporanea – senza escludere,
cacciare mai dal tuo Parnaso concreto nessuna musa ideale… I raffronti, le intersezioni col cinema
sono a dir poco strepitosi – idem a dirsi per le giustapposizioni, le reciproche confluenze con la
letteratura, o l’arte visiva, la musica… senza vietarti o velarci, rinnegarci davvero niente! Ma
sempre smontando, ribaltando i canoni e i luoghi comuni – diciamo pure, come a trasgredire la
trasgressione, oltreché e molto più, si capisce, che irridere la tradizione:
“ … la scena si punteggia poi di decine di maschere da cartoon disneyano con abbondanza di animali
pelosi per ipotetiche pet therapies, mentre una frizzante coppia soft-core infoiata micamale si abbandona a
una sequenza di amplessi frenetici, con abbondanza di posizioni da kamasutra acrobatico; un’altra coppia di
svitate ricciolone, forse lesbo, si trastulla alle prese con uno stilizzato gatto di gommapiuma, quindi scagliato
via, laddove non mancano incursioni di tipacci violenti e pulp, come usciti da un film di Quentin Tarantino,
cui fa da pendant una donnetta che brandisce una sega elettrica; ascoltiamo, poi, le progressive e demenziali
confessioni in video di una ragazza in preda ad una sindrome di paranoia acuta e via via paradossale. Non
mancano tipici e topici sculettamenti da discoteca di periferia e gli psicodrammi di personaggi in crisi
suicidale come il Mr. Jones di Bob Dylan; intanto ben imitate movenze da danza indiana Odissi si
intrecciano con le ultra-ritmiche linee coreografiche da pop-dance latina alla Christina Aguilera. …”
(Constanza Macras, Big in Bombay, 2006)
Il Teatro si romanza, romanzare il teatro… diventa allora per te (per noi tutti), più che uno
stilema seducente, prospettico, poliedrico e multimediale, un imperativo categorico necessario,
indispensabile a una concreta, feconda fruizione contemporanea… Il teatro si romanza perché il
palcoscenico, lo scenario oramai gli va ben stretto… Romanzare il teatro perché la carta è stanca
(dixit Ceronetti), abbiamo letto tutti i libri (Mallarmé docet), e anche e soprattutto la carne è stanca!
… E l’unica cosa che possa ancora rigenerare il romanzo è squinternargli l’ordito cartaceo, la
struttura pensosa e pensata, recuperare invece la gestualità, gli umori corporali, l’urgenza istintiva,
l’esibizione del pathos, la Pratica del Desiderio (categoria, quest’ultima, che la mia amica Isabella
Vincentini riferiva, tributava ai giovani poeti degli anni ’80 – quando anche noi abbiamo iniziato:
vorrei dire con amichevole ironia, mercé una Parola al contempo Innamorata e, per fortuna,
“Disamorata”)…
“ … Spettacolo compiuto, quasi perfetto, piacionissimo e irresistibile nel captare in tempo reale l’aura
esaltata, frizzante, edonistica degli anni Ottanta. Giunta al culmine e al possibile, la pseudo-nietzscheana
Gaia Scienza dopo poco tempo collassa su se stessa e si scinde. Ma sciogliersi dopo aver raggiunto il
massimo è, veramente, il massimo. …”
(La Gaia Scienza, Cuori strappati, 1983)
Il teatro si (s)romanza, (s)romanzare il teatro…
Ecco che ho amato leggere questo tuo amplissimo testo, frammentato e insieme unitario, mosaico
e shràpnell d’emozioni generazionali, ma prima ancora epocali, come un unico, piccolo e
monologante Ulisses rapito per le vie di Roma (non più di Dublino!), nell’arco e nel bilancio di una
sola giornata… Non so più se tu sia insieme e contemporaneamente Leopold (Marco) Bloom o
Stephen (Marco) Dedalus – cioè a dire Leopold Ulisse e Stephen Telemaco… Ma forse il primo,
che fu giovane, è diventato il secondo (che non lo è più) proprio nell’arco ora e qui riassunto,
miniaturizzato e imploso di tutti questi interminabili, interminati spettacoli – li battezzi, li
amplifichi e controromanzi tu – da Teatronauti del Chaos:
“… La prassi di una moltitudine spuria di ‘teatronauti’, dove ha prevalso una composizione per scritture
sceniche eteromorfiche, per interazione con i linguaggi polisemici, multimediali della contemporaneità, per
libere con-fusioni di arte/vita. Se il Caos, come insegna Esiodo, è il magma tenebroso e informe da cui si
origina l’ordine del Cosmo, in questo teatro ho rinvenuto l’attitudine a transitare nel tempo presente del
caotico usando le armi perturbate e perturbanti dell’arte per allegorizzare il caotico e risolverlo, forse, in
Caosmos. È questo il teatro in cui mi sono ‘ri-conosciuto’ e che più ha contribuito a formare il gusto e
l’immaginario del mio ‘esserci’ teatrale-autorale. Sicuramente caosmotico.”
(qui cito dalla tua “Nota dell’autore” ai Teatronauti – che per
un curioso, balzano e sublime effetto ottico, ho per un attimo letto
come: “Nota dell’untore”!…)
E anche la fine è senza fine: e a notte fonda Stephen se ne va, e Bloom si corica; Molly è già a
letto e monologa, mentalmente sempre in scena, tra il ricordo e il sogno, tra ieri e quest’oggi, tra il
passato e la giovinezza, il presente e questo viaggio che mai finisce, che non può finire… Come non
può finire la ricerca che il sogno fa del sogno, e il linguaggio del linguaggio – ancora più avanti,
oltre le colonne d’Ercole dell’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco (e joyciano!, mutatis mutandis),
fino all’oceanica deriva sintattico-lessical-alfabetica, of course, de La veglia di Finnegan…
“… Il suo punto d’incontro con il Finnegans si rinviene in un senso più analogico che estrinseco. Ossia
conta poco o nulla l’avere voluto implicarsi e intrigarsi con l’opinabile e, in fondo, banale prototipo
femminile joyciano, vale assai di più l’aver messo ‘in forma’ un élan estetico, una dinamica di appercezione
del soma-sema globali che, sotto il profilo della sperimentazione plurilingue del teatro, replicano (con le
dovute proporzioni) la sperimentazione letteraria del geniale scrittore dublinese. La prassi scenica di Di
Marca corre, insomma, rasente quel diaframma che divide e insieme connette, come dice Vattimo,
l’enérgheia e l’enàrgheia, ovvero l’onda energetica che pone ‘in atto’ l’essere e la frequenza di distinzione,
di evidenziazione di quel che appare, di ciò che si manifesta integralmente come fenomeno. …”
(Pippo Di Marca, Violer d’Amores, 1981)
Un teatro dove il teatro sparisca e resti forse solo la Storia… Sì, per fondale d’urlo o melodia
marciante, scenografia goffa o meglio vietatasi, dismessa, annullata…
“… Tra il settembre 1943 e il giugno ’44, durante l’occupazione tedesca, c’era a Roma, a via Tasso, al
numero 145, la sede del Sipo (la polizia di sicurezza) con le celle dove venivano detenuti e torturati
antifascisti e dissidenti, non pochi dei quali furono massacrati il 24 marzo ’44 alle Fosse Ardeatine. Oggi
quel sinistro edificio ospita il Museo Storico della Liberazione, che ha conservato l’antica struttura. E proprio
lì, presso la cella 11 del terzo piano, ho potuto assistere (2003) con una ventina di spettatori, ad una
rappresentazione speciale di Morti senza sepoltura di Jean-Paul Sartre, organizzata dal regista Marcello
Cava. …”
(Marcello Cava, Morti senza sepoltura di J.P. Sartre, 2003)
Un teatro dove il teatro sparisca e resti, bruci solo la Parola – understatement o eccesso di ogni
istrione… Memorabile, l’inesausto ritratto – per successive, apocalittiche pose di spettacoli, incontri
o interviste – che ci doni di Leo de Berardinis e del suo variegato, cadenzato o replicante cervello
esploso…
“… ‘Vado a vedere Leo’ significa andare a vedere un’idea incarnata di teatro come arte al servizio di
un’idea. Non è un gioco di parole, ma l’essenza del suo fare teatro, dominato dal pensiero della salvezza,
luogo estraniato dove l’attore è colui che cerca non tanto la verità assoluta, quanto la verità relativa e però
profonda dell’uomo, sovrano e buffone, alfa e omega, sistole e diastole del pulsare della vita del mondo. …”
(Leo de Berardinis, Macbeth da Shakespeare, 1988)
Un teatro dove il teatro sparisca e resta solo la sua Voce, inclita o smarrita, afona o tarantolata
d’ebbrezza, mistica e contemporaneamente corriva, laida e melodiosa come un arcano, una tara
ancestrale, un segreto di cui solo il tempo può fare un’epica – tragica o comica è lo stesso (ce lo
disse – rileggiamoci Auerbach! – perfino il Dante “infernale” del canto VII: “ ‘Pape Satàn, pape
Satàn aleppe!’, / cominciò Pluto con la voce chioccia”…)…
Per allegorizzare il caotico e risolverlo, forse, in Caosmos…
“… Lo scioglimento terminale è, ancora, nel segno del ‘cunto’ di Pirrotta che appare, in certi frenetici
apici, un puro rap monosillabico che funziona da litania psicagogica, da suono ipnotico-ancestrale, astruso e
coartante. Pirrotta, comunque, assume tutto ciò in modo non mimetico, anzi straniato, da ultimo irridendo
con toni plebei e vernacolari la conclusione a ‘lieto fine’ della tragedia eschilea: ‘ma che minchia di
traggedia jè?’. C’è dunque una grande consapevolezza culturale e una marcata ironia dentro e dietro
l’operazione scenica di Pirrotta, capace di connettersi alla tradizione, di riusare l’epica tragica, bypassandola
e rinnovandola attraverso un remixaggio linguistico elettrico ed eccitante. …”
(Vincenzo Pirrotta, Eumenidi da Eschilo, 2004)
Se va in scena il Chaos con tutti i suoi Teatronauti, chi raggiungerà il vello d’oro? Chi tornerà
indenne a casa? – senza scordarsi di issare la giusta vela?… Quale Giasone, filosofo-eroe o guruargonauta ci riapparenta al Mito? – quello eterno dell’Arte dentro, contro e oltre la Storia…
“… Così l’Odin sembra oggi autopercepirsi: una comunità di arte e vita che dopo una lunga marcia di 36
anni all’insegna di una rivoluzione estetico-politica chiamata, sulla scia di Grotowski, ‘teatro antropologico’
ha fallito il suo obiettivo, perché il mondo teatral-politico non è in sostanza cambiato, e insieme si è
trasformata in mito, in gruppo di culto della scena alternativa. Lo dice Barba citando il capitano Prestes:
‘Non abbiamo vinto, ma non siamo stati sconfitti’. Ma l’ambiguità è ancora maggiore: Barba come Barbosa
vorrebbe sentirsi come l’ultimo solitario combattente rivoluzionario, ma sa che l’essere diventato un mito
vanifica ciò, perché il mito indica la fine della storia viva, un mito è tale solo se è morto e imbalsamato, una
icona da adorare, ma anche da tradire o manipolare. …”
(Eugenio Barba e l’Odin Teatret, Mythos, 2000)
E come ogni romanzo che si rispetti, anche la tua lunga (ma attenzione, nient’affato proustiana –
semmai dostoevskijana!…) Recherche, trova linfa e turgore emozionale dal racconto delle
rocambolesche vicissitudini artistiche – ansie creative – soluzioni o dis-soluzioni o perfino
défaillances espressive dei tuoi massimi protagonisti…Dèmoni o Idioti che siano (cioè, entusiasti di
genio)…
Su tutti, un Carmelo Bene che tu, Marco, registri, tratteggi e fotografi come un azzoppato e
sublime dio dell’Olimpo, tornato, scaraventato come Vulcano giù in fucina, a fare armi d’arte con
l’arte, spade e scudi di parole, di gesti, di silenzi, nella grotta antro o caverna forse ancora platonica
dove l’arte e l’artista fabbroferraio (cornificato dal dio Ares della guerra, insomma da un robusto,
corazzato e arcidotato Marte sempre in amplesso con Venere) proietta le sue idee e le sue ombre
maiuscole, munifiche e numinose… Nel cozzo luminescente e terribile, metallico o figurato, di
mille soavi, ardenti e aeree, sfavillanti rose di scintille…
“… La faccia è un po’ gonfia, ma gli occhi sono sempre straordinariamente vivi e si dilatano a lanciare
scuri e corruschi dardi di inquietudine. E poi c’è la voce, ora profonda, quasi vellutata da basso, ora aspra e
gorgogliante, baritonale, ora alta e martellante, da tenore. I versi del Manzoni sono aggrediti, liquefatti e
ricreati secondo una tecnica della phoné strepitosa e inimitabile. L’Adelchi di cui serbiamo alcune, vaghe
reminiscenze scolastiche è come se lo si ascoltasse per la prima volta: la poesia del testo cede il campo alla
poesia grandissima dell’interpretazione-oralizzazione. Bene con ampi tagli propone un attraversamento di
tutta la tragedia; alternandosi ai tre microfoni legge i fogli che getta via via a terra, talora con violenza; a
volte rimane ad ascoltare la sua stessa voce registrata, ruotando la testa verso gli spettatori come una
demoniaca marionetta. …”
(Carmelo Bene, “L’Adelchi da Manzoni. In memoria di Aldo Moro”, 1992)
Ecco: lo struggente e dirompente racconto, ad esempio, dell’ultima audizione (quasi un’orfica
seduta spiritica!) di questa voce – disincarnata… dal suo stesso legittimo e creaturale/screaturato
possessore, Carmelo Bene –, veramente taglia, squarcia il libro come l’ultima, laica Missa
Sollemnis, forse, dell’intero, scombiccherato e atroce secolo scorso…
“… Carmelo ostenta a volte il suo disgusto, quasi una estraneità al suo medesimo stare e tramontare in
scena. Ma è la sua voce unica, ‘miracolosa’ che ancora s’impenna in lampi di antica, superba scansione
recitativa. Una voce che è al centro anche di ’l mal de’ fiori, l’abnorme poema che ha pubblicato da
Bompiani (2000): ‘Voce mia tua chissà chiamare questo / Mia tua chissà la voce che chiamare / … vani
smarriti soffi rauchi versi / prescritti da un voler che non si sa / … morti fiati / dimentichi ’n mia tua chissà la
voce / … Nel sogno che non sai che ti sognare / tutto è passato senza incominciare’. In questo testo
anacronistico e postmoderno al contempo, c’è il testamento scritto di Carmelo: la cifra di una vita vissuta,
interpretata e bruciata alla ricerca e nell’ossessione di una voce e di uno stile inimitabili. Tutto il resto,
appunto, è disfatta e silenzio. ...”
(Carmelo Bene, In-vulnerabilità d’Achille, 2000)
Un teatro che finalmente si liberi perfino e soprattutto degli attori, dei personaggi in cerca
d’autore, naturalmente degli autori medesimi – e torni bislacca catarsi epocale, atroce gioco e
severa, a tratti irridente scommessa generazionale:
“… E qui c’è la seconda intuizione importante della regia di Cauteruccio che a metà spettacolo fa
intervenire in video il sociologo-filosofo francese Jean Baudrillard che disserta sul mondo della patafisica
realizzata, cioè la realtà attuale, dove tutto dalla politica all’arte, da George Bush all’ultimo teatrante è
diventato ‘ubuesco’, ossia votato a un delirio catastrofico, a un agire dominato dalla più incontrollabile
stupidità. Per questa via il testo di Jarry appare una perfetta allegoria del mondo contemporaneo, delle
progressive allucinazioni del potere risucchiato in un moto di decervellamento planetario, che s’incarna nelle
schizzate parole di Padre e Madre Ubu, qui ottimamente impersonate da Fulvio Cauteruccio e Alida
Giardina. Nel finale il regista appare in video in veste di mastro burattinaio dei suoi attori, come a ribadire
che in ogni caso il vero Ubu è lui, il reuccio di un teatro che oggi per sopravvivere sa che deve saper
accoppiare il genio con l’idiozia. …”
(Giancarlo Cauteruccio, Ubu c’è, 2004)
Un teatro dove il teatro sparisca – intendiamo dire: come genere, come vulgata, o maniera, o
ridondanza, perfino mera provocazione…) e resti solo il Teatro, unzione e crisma di laicità…
Avanguardia ininterrotta (un po’ come la poesia volitivamente arringata e progressista di Éluard!)
non perché faccia eternamente il verso a se stessa – ma perché sia davvero riuscita a fermare in sé,
una volta per tutte, quell’incipit o seme iniziale, provvido di giovinezza e di trasgressione,
assolutamente moderno e radicato nei corsi e ricorsi di tutte le gloriose, avvicendate e pugnaci
giovinezze espressive:
“Si è all’avanguardia una sola volta nella vita”, disse, lo hai ricordato bene, Man Ray – colui il
quale, sperimentando le nuove tecniche, tra New York e la Parigi d’inizio ‘900, s’inventò i
rayographs, cioè immagini astratte in bianco e nero, fotografando senza macchina da presa; poi girò
baldi film surrealisti, e infine tornò da vecchio a dipingere le Equazioni shakespeariane… Così
come l’amico Marcel Duchamp mise nel ’19 finalmente i baffi alla Gioconda (in cuor suo, e nel
nostro sguardo, veramente ridipingendola…); e soprattutto aveva, con l’esposizione dei primi
ready-made, trasformato ironicamente in opera d’arte dei banalissimi oggetti comuni: per
intenderci, il celebre orinatoio rovesciato del 1917… Cesso-Fontana, il cui originale andò, ahinoi,
perduto…
Un teatro dove…
Un teatro…
Il TEATRO!
“… I barboni più celebri del teatro del secondo ’900 sono Vladimir ed Estragon, i protagonisti del
capolavoro di Beckett Aspettando Godot. Ma sono barboni col rovello filosofico, con lo humour metafisico,
in una parola sono barboni letterari. I Barboni (1997) che l’attore-regista genovese Pippo Delbono convoca
in scena in uno spettacolo che ha girato l’Italia in lungo e in largo, sono invece barboni veri. Emarginati o
handicappati che hanno volti e fisicità che raccontano storie di dolore e di umiliazione forse irredimibili.
C’è Bobò, un microcefalo ex-lungodegente al manicomio di Aversa, tenero e lunare; c’è Mr. Puma, tatuato
e schizzato come un hooligan, in perpetuo, furioso corpo a corpo con il mondo; due ragazzone grottesche
ricordano le donne-cannone o la Saraghina di Fellini; lo storpio con le grucce ha lo sguardo di un pirata
sfortunato. Mescolati con attori professionisti, inscenano balli, azioni mimiche elementari, numeri
clowneschi o esibizioni naive. La spontaneità dei barboni, la loro disperata voglia di comunicare sono
commoventi. …”
(Pippo Delbono, Barboni, 1997)
Eccola, l’agnizione, il memento salvifico, la nemesi espressiva di questo teatro che esce di scena e
reclama, si annette anche e soprattutto il pubblico, dilaga di realtà, recita imploso, illividito e quasi
ingozzato, cariato di verità, necessario come un pudico rito privatissimo e insieme una spavalda,
pasionaria confessione collettiva – l’inconscio che emerge e si denuda come cibo e morale di tutti i
giorni…
Mi ha trafitto e abbandonato
un dio senza età
una prova senza storia
(poche storie!)
una prova di dio
per sconferma di utopia
per disdetta di salvezza
per relitto di mito
Per questo – e almeno per ora, giacché il “finale” è infinitamente ad libitum – termino
rileggendomi da Iperfetazioni, l’ultima tua raccolta del 2009, alcune poesie che di quell’inconscio
(e di quella parola disamorata) fanno un goloso frullato, un micidiale precipitato chimico, una
manifesta, molesta e onesta controelegia, insomma una pubblica nigredo alchemica per ritrovare
(nel contrappasso e per infiammata, intimissima rubedo del cuore) lunare, argentea albedo, ed
abbracciante, comiziante nitore di sguardo – un bianco velo o madido lenzuolo, compatìto e
stranìto, doloroso e gaudioso come ogni vero, tacito o monologato Mistero d’Amore:
Potremmo essere come delira Artaud
atleti del cuore, plastici lottatori
e gnostici nella sfera dell’affetto
senza esibire alcun effetto speciale
e però con sperpero di energia vitale
Potremmo essere attori senza recitare
artisti del corpo che modellano i muscoli,
calibrano il respiro sulla scena dell’esserci
dove l’esistenza si fa crudele con stile sensibile
Potremmo essere creatori di sentimenti
gridare il pensiero fisico e la carne metafisica
praticare la poesia degenerata nel sacro caos
per irradiazione mostruosa tra il pieno e il vuoto
Potremmo essere, ma in vero non siamo
esercizi spirituali ginnici pigramente ripetiamo
fatui gesti ossessivi tra sospetto e sragione
che la magia del kuore non sanno richiamare
l’anima nudanostra può, così, solo sprofondare
Carissimo Marco, cos’è davvero e in fondo per te il Teatro, se non un dio senza età … una prova
senza storia, anzi una prova di dio … per sconferma di utopia … per disdetta di salvezza … per
relitto di mito?…
Con l’affetto e la stima del tuo amico
Plinio
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