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Stefano Benni marzo 2006 - Corriere degli Italiani
CORRIEREdegliITALIANI MERCOLEDÌ 22 MARZO 2006 INTERVISTA CULTURA 3 Conversando insieme allo scrittore Stefano Benni SCRITTURA Autenticità di una scrittura orchestrale fuori dal coro Non esiste un punto d’arrivo Quella di Benni è una scrittura polifonica fatta di tanti stili diversi che ama combinare e contaminare i linguaggi più disparati e inventarne di nuovi. Che cosa ha imparato sulla scrittura scrivendo? Come dicevo prima, ho imparato a suonare altri strumenti, ho imparato che non è mai finita. La persona che mi manca di più, che è stato il mio fratello maggiore di insoddisfazione, è Fabrizio De André. Il quale diceva: "Quando pensi di essere più bravo di tutti, sei diventato vecchio". Quando era vivo lui, lui che era evidentemente tanto più bravo di me, bastava questa invidia fertile a spronarmi tutte le volte. Ho imparato a vedere la scrittura come un percorso mai concluso. Il giorno in cui dirò di aver scritto il capolavoro sarà un giorno terribile; probabilmente lo dirò e non avrò scritto il capolavoro. È una continua ricerca, una continua insoddisfazione. Tuttavia, continuo a provarci: credo sia questa la passione dello scrivere. Una volta pubblicato un libro, Stefano Benni lo deve abbandonare per potersi mettere dentro la nuova storia, oppure è possibile una pacifica convivenza? Quando un libro è uscito, per un po’ di tempo lo odio, perché se lo rileggo sono scontento. Passa quindi parecchio tempo prima che lo rilegga, anche perché l’ho riletto tante volte prima della pubblicazione. Per 1 anno o più lo abbandono e sento che cosa ne dicono i lettori. In seguito magari lo rileggo. Soltanto una volta mi è accaduto di fare due libri quasi sovrapposti perché stavo talmente male che avevo bisogno di stordirmi un po’. Da quando è uscito Margherita Dolcevita credo di averne riletto una decina di pagine. È però anche vero che, quando rileggo alcuni dei miei libri, sono contento di averli scritti, pur trovandoci delle pagine che non mi piacciono, o degli errori che errori non sono, ma che sono più che altro insoddisfazioni. Alla fine, comunque, li amo tutti. È noto che lei non ama quei critici che si impossessano di un autore. Sull’argomento ha persino scritto lo sferzante racconto dal titolo Il ritorno di Garibain (in L’ultima lacrima, Feltrinelli, 1994). Tuttavia, compete davvero agli scrittori la presentazione e la spiegazione delle loro opere? Io rilascio pochissime interviste proprio per questo motivo: detesto spiegare i miei libri. Dico soltanto che spetta ai lettori parlarne. I critici in Italia non esistono, nel senso che ci sono certamente persone intelligenti e capaci, ma non avendo tempo... L’unico modo di spiegare, meglio, di dispiegare un libro, è vedere lo spiegamento di tutti i pareri dei lettori: questa è l’unica cosa che a me interessa. Sono loro che dispiegano il libro a me, è la loro libertà a fare di ogni libro il loro libro, creando allo stesso tempo tanti libri diversi. La scrittura è terapeutica per uno scrittore? La scrittura è un bel lavoro. Io penso che ogni lavoro che si fa con passione è terapeutico, nel senso che se devi separare il tuo lavoro dalla tua vita ti ammali. Un falegname che lavora cantando è esattamente come uno scrittore che è contento di scrivere. Forse la lettura è terapeutica: leggere mi ha veramente aiutato tanto: mi ha chiarito tante cose, mi ha dato sollievo, mi ha fatto ridere. La scrittura è terapeutica ma non per lo scrittore che a volte, mentre scrive un libro, sta male come un cane. La soddisfazione arriva quando qualcuno gli dice che un suo libro l’ha fatto ridere, l’ha aiutato a superare una situazione difficile. Non so come si sentisse Queneau quando ha scritto I fiori blu, ma io posso dire come mi sono sentito io quando l’ho letto: sono stato felice una settimana, il mondo è diventato più grande. di LUCA BERNASCONI ZURIGO - Gli universi narrativi creati dalla penna di Stefano Benni hanno il pregio dell’autenticità umana. Sebbene le sue narrazioni siano invenzioni che sconfinano spesso nel fantastico, nell’inverosimile, in esse brillano le verità che riguardano la nostra esistenza, raccontate ora in chiave comica, ora in chiave polemica, ora in chiave tragica. Dentro le storie vitali, intense create dalla sua scoppiettante immaginazione, il lettore sperimenta il divertimento, ma viene pure stimolato alla riflessione sul mondo contemporaneo. Quella di Benni è una scrittura polifonica fatta di tanti stili diversi che ama combinare e contaminare i linguaggi più disparati e inventarne di nuovi. La passione che lo scrittore bolognese nutre nei confronti del suo mestiere, era chiaramente percepibile anche durante la serata che lo ha visto protagonista al Literaturhaus di Zurigo la settimana scorsa. La sua spontaneità e libertà nel dire ciò che sente e ciò che pensa, lo fanno essere un uomo e uno scrittore leale che resiste alle scritture alla moda, schierato non già dalla parte del potere, ma, come egli stesso ha affermato, dalla parte dei libri. Stefano Benni era a Zurigo in occasione dell’uscita in tedesco, presso Wagenbach, del suo penultimo romanzo Achille piè veloce. L’evento, organizzato dal Literaturpodium in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura e la Società Dante Alighieri, è stato vissuto come una vivace, piacevole riunione familiare. I presenti hanno interagito con l’autore che ha suscitato un entusiasmo corale. A colloquiare con lui è stata la professoressa Tatiana Crivelli, titolare della Cattedra di Letteratura Italiana all’Università. La quale ha sottolineato il trentennale di attività di un uomo che, oltre ad essere scrittore prolifico, è anche attore, regista ed editorialista de Il Manifesto. All’attrice Graziella Rossi è stata affidata la lettura in tedesco di alcuni brani di Achille piè veloce, mentre Stefano Benni si è misurato con la recitazione di alcune pagine del romanzo, facendo lievitare e brillare la parola scritta. Prima che la serata avesse inizio, egli ha accettato di raccontare alcuni aspetti legati alla sua attività di scrittore. Come nasce un libro di Stefano Benni? Un mio libro nasce ogni volta in un modo diverso, non ci sono regole. Forse per questa ragione i miei libri sono diversi uno dall’altro. A me non dispiace, e credo non dispiaccia neanche ai lettori. Sebbene ogni sua opera sia diversa, hanno tutte un’impronta precisa che le accomuna e che le rende benniane. Come ha trovato la sua voce letteraria? Non saprei, lo dovrebbero dire i lettori. Io ovviamente non riesco a capire perché la mia scrittura è diventata quello che è. Credo di non essere nato con il dono dello stile, mi sono molto trasformato nel corso degli anni. La mia è una scrittura molto complessa che chiamo orchestrale, nel senso che ho imparato a suonare degli strumenti che in precedenza non sapevo suonare. Forse questo tipo di scrittura in cui uno si deve anche avventurare, in cui uno deve magari trovare una parola inventata, in cui uno può essere sorpreso, è la scrittura che piace ai miei lettori e che non piace ai miei non lettori. Più che uno stile preciso, definirei la mia scrittura una varietà di stili con una specie di musica in comune. "Fantasticare è piacevole, scrivere è faticoso" è una frase pronunciata da Margherita, la protagonista del suo ultimo romanzo intitolato Margherita Dolcevita (Feltrinelli, 2005). Di che cosa è fatta la fatica della scrittura letteraria? Per me è riscrivere, perché io non scrivo mai al primo colpo. Ho molti amici che dicono di scrivere subito in bella copia: li invidio, anche se credo dicano delle bugie. Io ho sempre avuto un grande rispetto della parola "malacopia", cioè la minuta: è la storia dei tuoi dubbi e delle tue incertezze, dei fregacci, del fatto di esigere di più dalla propria scrittura. Io riscrivo dieci, quindici, venti volte i miei libri: una piacevole fatica, ma pur sempre una fatica, perché a volte diventa quasi un’ossessione e a un certo momento ci vuole qualcuno che mi aiuti a smettere, altrimenti riscriverei in continuazione. Quando batte sui tasti del computer e le parole si allineano una dopo l’altra, sono le immagini nella sua mente a trasformarsi in parola oppure il procedimento è un altro? Io non batto sui tasti del computer perché ancora lavoro con la macchina da scrivere. Per rispondere alla domanda su quale sia il rapporto fra immaginare e scrivere, ho dedicato un seminario durato 6 mesi. Impossibile, dunque, condensare la risposta in uno spazio limitato come questo. Mentre batte sui tasti della macchina da scrivere, vive come se fosse reale ciò che sta immaginando e traducendo in parola? Delle volte mi capita di ridere mentre scrivo, non scrivo in trance; anche se scrivo di notte, mi rendo conto di quello che sto facendo. Comunque un mistero c’è: può anche succedere che un personaggio appaia in modo misterioso. Il fatto stesso che talvolta rida delle cose che invento, significa che una specie di sortilegio c’è, come se fossi sdoppiato in scrittore e lettore. Il lettore è poi molto esigente, perciò, appena ho scritto, è lì pronto a criticare. Com’è la convivenza con gli inquilini della sua fantasia? I personaggi li lascio ai lettori. Mi fa molto piacere quando un lettore mi dice che quel tal personaggio è il suo preferito. Io ho una folla di personaggi in testa e quindi non ne ho uno preferito. Voglio bene anche ai cattivi visto che li ho creati io. Recentemente un lettore mi ha detto di preferire i tre diavoli di Elianto: in quel momento mi tornano in mente ed è come se li rivedessi. La protagonista del romanzo Margherita Dolcevita è una ragazza di quasi 15 anni. Perché ha scelto di adottare lo sguardo di una adolescente? Interamente non lo so, altrimenti sarei uno scrittore americano di quelli che scrivono un libro sapendo già che sarà una sceneggiatura e poi un film. Ricostruendo, credo che, siccome ho molti lettori giovani, sono stato molto colpito ed emozionato da queste ragazze e ragazzi di 15, 16 anni, pieni di passione, che hanno letto molti libri. Ho capito quanto sia importante per loro riuscire a vivere quegli anni difficilissimi. Avere 15 anni, essere intelligenti, essere anticonformisti, è molto difficile oggi. Mi hanno comunicato la loro grande passione letteraria e anche civile, ma allo stesso tempo un grande disagio, un grande dolore: l’impossibilità di poter vivere appieno la loro intelligenza perché quegli anni non amano né il talento né l’intelligenza ma la pecoraggine. In qualche modo mi sono allora ricordato che anch’io ero come loro a quell’età: sono anni meravigliosi, ma anche molto crudeli. Mi è perciò venuta voglia di raccontarli con questa voce, e mi sono chiesto che cosa possa pensare di questi anni una ragazza intelligente, sensibile, un po’ triste e confusa. Quali sono state le principali difficoltà nel calarsi nei panni del personaggio di Margherita che narra altresì la storia in prima persona? Non sono difficoltà, perché Margherita non parla come una ragazzina di 15 anni, ma come il personaggio di una ragazzina di 15 anni. Le lettrici si sono non identificate, ma l’hanno amata moltissimo perché è arrivata loro. Significa pure che qualcosa è mio e che qualcosa me l’hanno comunicato gli adolescenti. Margherita Dolcevita è stata una vera sorpresa per tutti. Considerata una storia crudele, poco leggibile, è invece diventato il mio libro più letto: anche questo è un mistero, in questo caso un piacevole mistero. Achille piè veloce (Feltrinelli, 2003) è la sua penultima opera nella quale narra l’intensa e sincera amicizia tra Ulisse, giovane lettore editoriale, e Achille, un giovane condannato alla sedia a rotelle con la passione per la scrittura. Qual è la molla che ha fatto scattare la scrittura di questo romanzo? Si tratta di una storia vera. È una delle poche volte in cui mi sono ispirato a un personaggio della realtà. In questo caso ho avuto bisogno di conoscere veramente una persona handicappata che ho poi trasformato e romanzato, anche se qualcosa del personaggio vero sfonda quello romanzesco. La mia amicizia difficile con una persona che assomiglia ad Achille mi ha aiutato a scrivere questo romanzo in cui ho raccontato soltanto quella parte della nostra amicizia che è sicuramente quella che mi insegnato di più: la loro voglia di essere interi, nel bene e nel male, il lo- ro non voler essere pietrificati dalla pietà o patinati in televisione, la loro voglia di esprimere tutto il loro erotismo, tutta la loro rabbia, anche la loro cattiveria. Vogliono essere interi. Il libro è stato molto apprezzato dalle persone che sono sulla sedia a rotelle proprio perché racconta come sono, senza censure: l’hanno sentito un libro vero. Per contro, molti genitori lo hanno apprezzato meno, affermando che i loro figli non sono come li racconto io: capisco ovviamente le loro ragioni. Nelle sue opere la critica contro la società contemporanea è un elemento costante. I libri hanno il potere di cambiare qualcosa? Questa è una vecchia domanda: i libri sono utilissimi! Bisognerebbe smettere di chiedere perché si continua a scriverli, visto che continueranno ad esserci, sempre. Bisognerebbe semmai cominciare a chiedere perché la politica e l’economia non cambiano più niente, essendo pietrificate, paralizzate. Gli artisti continueranno a fare il loro mestiere che non può rovesciare il mondo come un calzino, ma continua a cercare di non peggiorarlo. Credo che questa domanda dovrebbe essere abolita o quanto meno rivolta in primo luogo ai politici, poi agli economisti e infine agli scienziati - tra questi ultimi ve ne sono comunque di molto bravi. Dopodiché la si potrà anche porre agli artisti. I quali potrebbero anche tranquillamente rispondere che ciò che fanno non serve a niente perché tanto non è vero. A volte ho pensato di rispondere in questo modo perché sono intimamente convinto che un libro possa cambiare il mondo, dal momento che i libri hanno cambiato me e la mia vita. Se i libri hanno cambiato in meglio la mia vita, penso che un mio libro possa aver cambiato, di un battito d’ali, la vita di qualcuno. Continuo quindi a credere che i libri siano una delle grandi medicine che l’uomo ha a disposizione contro la disperazione. Gli scrittori posseggono il dono della piccola profezia? La profezia non è un dono. Se davvero la possedessi, sarebbe terribile. Lo scrittore ha semmai un punto di vista molto attento sulla realtà che non è quello del politico che deve dire che tutto va bene, che non è quello dell’economista per il quale tutto deve rendere, che non è quello dello scienziato secondo il quale tutto ha una coesione, una regola, una teoria. Il punto di vista diverso dello scrittore coglie - come dice la frase di Cortázar - la crepa nel muro dove si ritaglierà la maceria. Lì si vede un sintomo, un’orma, e allora si dice che potrebbe anche accadere questo, non che questo accadrà.