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separazione e divorzio
SEPARAZIONE E DIVORZIO
Curatore:
Maria Elena Casarano
martedì 15 marzo 2016
Contributi di: Valentina Azzini, Marco Borriello, Maria Elena
Casarano, Alessandra Castellino, Angelo Greco, Raffaella Mari,
Maria Monteleone, Noemi Secci, Vincenzo Rizza.
SEPARAZIONE E DIVORZIO
SOMMARIO
Presentazione: ................................................................................................................................. 4
INTOLLERABILITA’ DELLA CONVIVENZA ..................................................................................... 5
L’ABBANDONO DEL TETTO CONIUGALE di Maria Elena Casarano ......................................... 5
LA SEPARAZIONE DI FATTO di Maria Elena Casarano ........................................................... 8
TEMPI E MODI PER SEPARARSI E DIVORZIRE ......................................................................... 11
LA SEPARAZIONE CONSENSUALE ......................................................................................... 11
Il DIVORZIO ............................................................................................................................... 16
IL DIVORZIO IMMEDIATO ......................................................................................................... 18
SEPARAZIONE E DIVORZIO SE MANCA L’ACCORDO ........................................................... 19
LA MODIFICA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ...................................... 20
L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE ........................................................................................... 22
COS’E’ E COSA COMPORTA .................................................................................................... 22
LE CAUSE .................................................................................................................................. 22
IL TRADIMENTO di Maria Elena Casarano................................................................................ 24
LA RELAZIONE PLATONICA SU FACEBOOK di Vincenzo Rizza............................................. 29
Il REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA ............................................................................ 31
LA COMUNIONE DEI BENI ........................................................................................................ 31
LA SEPARAZIONE DEI BENI .................................................................................................... 34
COMUNIONE O SEPARAZIONE: COSA SCEGLIERE? di Valentina Azzini ............................. 36
Il FONDO PATRIMONIALE ........................................................................................................ 37
FONDO PATRIMONIALE E DIVORZIO: un vincolo a tempo indeterminato? di Vincenzo Rizza 41
GLI EFFETTI ECONOMICI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO ........................................ 43
L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DIVORZILE PER IL CONIUGE di Maria Elena Casarano43
LA RIVALUTAZIONE DEGLI ASSEGNI di Maria Elena Casarano ............................................. 49
Il TFR di Marco Borriello ............................................................................................................ 51
Il CONIUGE SEPARATO NON HA DIRITTO AL TFR MATURATO DALL’ALTRO di Alessandra
Castellino .................................................................................................................................... 52
DOPO LA SEPARAZIONE CHI PAGA TUTTE LE SPESE LE BOLLETTE E LE RATE? di Maria
Elena Casarano .......................................................................................................................... 54
IMU TARI E TASI: CHI LE PAGA IN CASO DI SEPARAZIONE? di Alessandra Castellino ....... 57
LE DETRAZIONI FISCALI .......................................................................................................... 58
GLI ASSEGNI FAMILIARI .......................................................................................................... 63
A chi spettano in caso di separazione o divorzio? di Alessandra Castellino ............................... 63
Assegni familiari: possono coprire parte del mantenimento? di Maria Elena Casarano ............. 64
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LA TUTELA DEI FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE E IL DIVORZIO .............................................. 65
L’ASCOLTO DEL MINORE di Maria Elena Casarano ................................................................ 65
L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI ........................................................................ 70
Criteri per la determinazione di Maria Elena Casarano .............................................................. 70
LE SPESE STRAORDINARIE PER I FIGLI di Raffaella Mari ..................................................... 73
IL MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI di Maria Monteleone ...................................... 77
L’AFFIDAMENTO DEI FIGLI: condiviso o esclusivo? di Maria Elena Casarano ........................ 79
LA CASA FAMILIARE .................................................................................................................... 87
A CHI SPETTA IN CASO DI SEPARAZIONE? di Maria Elena Casarano .................................. 87
CAMBIO DELLE SERRATURE: E’ LECITO? di Maria Elena Casarano ..................................... 92
IL PRELIEVO DI BENI DALLA CASA CONIUGALE DOPO LA SEPARAZIONE di Maria Elena
Casarano .................................................................................................................................... 94
Il CAMBIO DI RESIDENZA CON I FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE di Maria Elena Casarano 97
LE PROVE NEL PROCESSO (Mantenimento e addebito) .......................................................... 105
COME FARE PER PROVARE I GUADAGNI IN NERO DEL CONIUGE di Maria Elena Casarano
.................................................................................................................................................. 105
Delega delle indagini alla polizia tributaria: solo a discrezione del giudice ............................... 108
LA PROVA DELL’INFEDELTA’ AI FINI DELL’ ADDEBITO ...................................................... 110
POSSIBILE L’ADDEBITO PER TRADIMENTO VIRTUALE? di Angelo Greco ......................... 111
LA TUTELA DEL CREDITO DEL CONIUGE SEPARATO/DIVORZIATO .................................... 113
SE IL CONIUGE NON VERSA IL MANTENIMENTO: CHE FARE? di Maria Elena Casarano . 113
L’ORDINE DI PAGAMENTO DIRETTO AL TERZO di Maria Elena Casarano ......................... 116
REVOCABILITA’ DEL PASSAPORTO AL GENITORE CHE NON VERSA IL MANTENIMENTO
di Maria Elena Casarano .......................................................................................................... 118
MANTENIMENTO DEL MINORE: SE NON PAGA IL GENITORE SPETTA AI NONNI ........... 119
I DIRITTI SUCCESSORI .............................................................................................................. 120
CONIUGI SEPARATI: CHE ACCADE IN CASO DI MORTE E SUCCESSIONE EREDITARIA? di
Angelo Forte ............................................................................................................................. 120
PENSIONE DI REVERSIBILITA’ SEPARATI E DIVORZIATI, A CHI SPETTA? di Noemi Secci
.................................................................................................................................................. 121
Il DRITTO DI ABITAZIONE SULLA CASA CONIUGALE di Maria Elena Casarano ................ 123
L’ASSEGNO DI DIVORZIO A CARICO DELL’EREDITA’ di Maria Elena Casarano ................. 124
GLI STRUMENTI PER L’ACCORDO ........................................................................................... 127
LA MEDIAZIONE FAMILIARE di Maria Elena Casarano .......................................................... 127
LA PRATICA COLLABORATIVA di Maria Elena Casarano...................................................... 129
LA RICONCILIAZIONE DEI CONIUGI ......................................................................................... 132
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
PRESENTAZIONE:
Il presente lavoro è concepito e realizzato con lo scopo di affrontare, con approccio eminentemente pratico, il tema della separazione e del divorzio, attraverso una raccolta delle guide e degli articoli più rappresentativi pubblicati a riguardo dal portale “La Legge per Tutti”.
Il lavoro è strutturato in capitoli partendo dal problema della INTOLLERABILITA’ DELLA CONVIVENZA (causa primaria delle istanze di separazione) e delle conseguenze da essa scaturenti prima che i coniugi si rivolgano al giudice (abbandono del tetto coniugale e separazione di fatto) per
finire con il tema della RICONCILIAZIONE e dell’ACCORDO dei coniugi e degli strumenti paragiuridici (mediazione familiare e pratica collaborativa) utili per il loro raggiungimento.
I vari capitoli si soffermano specificamente su TEMPI e MODALITA’ PER SEPARARSI, DIVORZIARE e MODIFICARE le condizioni della separazione e del divorzio sia in caso dei procedura
consensuale (ricorso al giudice, negoziazione assistita, procedimento al Comune) che giudiziale;
sul REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA e gli effetti della separazione e del divorzio su
quello prescelto; sull’ ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE e i suoi presupposti e conseguenze;
sugli EFFETTI ECONOMICI e FISCALI di separazione e divorzio (assegno di mantenimento, spese e oneri gravanti sui coniugi separati e divorziati); sulla TUTELA DEI FIGLI sia in merito agli
aspetti patrimoniali (mantenimento e spese straordinarie) che personali (ascolto e forme di affidamento); sui presupposti e le conseguenze dell’assegnazione della CASA CONIUGALE e sul problema del trasferimento coi figli dopo la separazione; sul tema delle PROVE NEL PROCESSO sia
con riguardo al tema dell’addebito (prova della infedeltà coniugale) sia alle richieste economiche
(prova dei redditi effettivi percepiti dai coniugi); sulle forme di tutela in caso di MANCATO VERSAMENTO DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO per coniuge e figli da parte del soggetto obbligato al versamento; sui DIRITTI SUCCESSORI spettanti al coniuge separato e divorziato.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
INTOLLERABILITA’ DELLA CONVIVENZA
In presenza di motivi che rendono intollerabile la vita coniugale (infedeltà, disinteresse, violenze),
non sempre la scelta dei coniugi è quella di ricorrere al giudice per separarsi. A volte si decide di
lasciare la casa coniugale o di separarsi di fatto. Con quali conseguenze?
L’ABBANDONO DEL TETTO CONIUGALE
di Maria Elena Casarano
E’ facile che la decisione di lasciare la casa coniugale venga presa con una certa dose di leggerezza.
Conseguenze sul piano penale
Anche se l’abbandono del tetto coniugale non costituisce più un reato, si tratta in ogni caso di un
errore in quanto la legge penale [1] punisce la condotta di chi abbandona il “domicilio domestico” quando da essa derivi una violazione degli obblighi di assistenza familiare, cioè di quegli obblighi connessi non solo al mantenimento economico dei membri della famiglia, ma anche a quelli
di assistenza morale.
La norma penale fa riferimento non solo al comportamento del coniuge ma anche del genitore il
quale lasci la casa o porti una condotta contraria alla morale della famiglia.
Non è, tuttavia, sufficiente ad integrare il reato un temporaneo allontanamento dalla casa familiare, perché comunque occorre la volontà di non far ritorno a casa per un tempo indeterminato
sottraendosi, al contempo, ai doveri di assistenza morale e materiale nei confronti dei familiari.
La pena prevista in questo caso è quella della reclusione fino a 1 anno o la multa da 103 a 1032
euro.
A riguardo, la Cassazione ha, però, chiarito che l’ abbandono del tetto coniugale è punibile come
reato solo se alla base dell’allontanamento manca una giusta causa; posto, infatti, che il reato si
perfeziona solo se il soggetto si sottrae agli obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti
del coniuge abbandonato, ha evidenziato che, poiché – per l’evoluzione del costume sociale – la
qualità di coniuge non è più una condizione permanente, ma modificabile per la volontà anche di
uno solo di rompere il matrimonio, “la manifestazione di tale volontà può essere idonea a interrompere senza colpa e senza effetti penalmente rilevanti taluni obblighi, tra i quali quello della
coabitazione” [2].
In altre parole, affinché l’abbandono del tetto domestico non sia punibile, occorre che la scelta di
andar via si basi su una giusta causa (che naturalmente deve essere provata) che abbia reso intollerabile la convivenza familiare; si pensi, a riguardo, ai litigi ricorrenti fra i coniugi, al subire violenze fisiche o psicologiche di varia natura, alla violazione dell’obbligo di fedeltà del partner, alla
continua invadenza di altri familiari nelle scelte della coppia.
A riguardo, il deposito di una domanda di separazione al tribunale costituisce di per sé giusta
causa di allontanamento e non integra più il reato.
Resta, in ogni caso, ferma la condizione di non far mancare al familiare (e quindi anche i figli) il
necessario supporto economico e morale.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Conseguenze sul piano civile
Anche sotto il profilo civile, la scelta di lasciare la casa può avere delle conseguenze che, nello
specifico, scaturiscono dal fatto che uno degli obblighi che derivano dal matrimonio è quello alla
coabitazione [3].
Val la pena precisare, a riguardo, che la condotta dell’allontanamento non può essere punita
quando la scelta di non abitare sotto lo stesso tetto sia approvata dai coniugi, i quali sono naturalmente liberi di concordare insieme l’indirizzo della vita familiare [4] (si pensi alla scelta di tutti
coloro che accettano di lavorare in un’altra città, riunendosi con la famiglia solo nei w.e.).
Diversamente, qualora manchi il consenso reciproco, l’abbandono della casa familiare costituisce
di per sé violazione di un obbligo matrimoniale e di conseguenza è causa di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza.
Alla pronuncia di addebito consegue, quale immediato effetto pratico, la perdita dell’eventuale
diritto a un assegno di mantenimento ma non (ove ne sussistano i presupposti economici) il diritto
di ricevere gli alimenti che – a differenza dell’assegno di mantenimento – presuppongono uno stato di effettivo bisogno e l’impossibilità di poter provvedere ai bisogni di vita essenziali.
L’addebito è escluso quando la parte che abbia abbandonato il domicilio domestico provi che tale
abbandono:
– sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge (come nel caso di violenze perpetrate da quest’ultimo)
– o sia intervenuto quando l’intollerabilità della convivenza si sia già verificata e ne sia, perciò, un
semplice effetto: si pensi al caso in cui il rapporto sia connotato da frequenti litigi domestici con la
suocera convivente e nel conseguente progressivo deterioramento dei rapporti tra gli stessi coniugi [5].
In pratica, dinanzi ad una richiesta di addebito, chi ha abbandonato la casa coniugale dovrà provare, analogamente a quanto avviene in sede penale, la sussistenza di una giusta causa di allontanamento e che esso è stato solo la conseguenza di una preesistente situazione di intollerabilità della convivenza.
Tale preesistente intollerabilità può consistere anche nella semplice disaffezione al matrimonio
che abbia reso incompatibile la coabitazione. Come ha infatti chiarito la Cassazione a più riprese
[6] l’abbandono del tetto coniugale non comporta una dichiarazione di addebito della separazione
quando ormai la disgregazione della famiglia è irreversibile.
L’unico caso in cui è ammissibile l’abbandono del tetto coniugale senza necessità di addurre ulteriori prove è quello in cui sia stata proposta domanda di separazione.
In tal caso il consiglio rimane quello di:
– attendere la prima udienza nella quale il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente (sempre che la situazione oggettiva non lo sconsigli, come appunto nel caso di violenze in famiglia);
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
– o concordare col coniuge per iscritto l’allontanamento di uno dei due dalla residenza.
In tali ipotesi, infatti, è da escludere la possibilità che la circostanza dell’allontanamento possa essere utilizzata ai fini di una richiesta di addebito.
In tutti gli altri casi, l’abbandono volontario e definitivo della casa familiare da parte di uno dei coniugi, implica di fatto la cessazione degli obblighi connaturati alla convivenza, sicché grava su chi
si è allontanato l’onere di provare che quel comportamento fosse giustificato dalla preesistenza di
una situazione d’intollerabilità della coabitazione [7]. Prova che, peraltro, è richiesta in forma ancor più rigorosa quando l’allontanamento riguardi pure i figli, dovendosi specificamente e adeguatamente dimostrare, anche riguardo a essi, la situazione d’intollerabilità [8].
Se si lascia la casa dopo la separazione
L’ allontanamento può produrre delle conseguenze sul piano civile quando sia posto in essere
dopo la separazione.
Non è infrequente, ad esempio, che l’assegnatario della casa familiare, pur potendo avere la piena
disponibilità dell’immobile, scelga di trasferirsi altrove insieme ai figli. A riguardo, la legge [9] prevede espressamente che “il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che
l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”.
Il venir meno, tuttavia, non è automatico ma deve essere oggetto di una espressa richiesta di revoca dell’assegnazione, dinanzi alla quale il giudice deve verificare che il provvedimento richiesto
non contrasti con i preminenti interessi della eventuale prole affidata o convivente con
l’assegnatario.
Se, poi, è il figlio maggiorenne (convivente col genitore assegnatario) a lasciare la casa, tale
circostanza determinerà il diritto dell’altro genitore a chiedere – anche in questo caso – la revoca
del provvedimento di assegnazione dell’immobile.
Affinché non venga meno il diritto all’assegnazione occorre, infatti, che sia mantenuto fermo tra
assegnatario e figli il requisito della coabitazione; ciò in quanto l’assegnazione della casa familiare richiede la necessaria persistenza di una luogo inteso come centro degli affetti, degli interessi e
delle consuetudini in cui si esprime e, si è espressa, la vita familiare. Dunque, essa è disposta dal
giudice con lo scopo di assicurare ai figli una sorta di continuità con detto ambiente; ove ciò non
sia possibile in quanto i figli si siano allontanati da tale dimora, l’assegnazione non avrebbe più ragion d’essere [10] .
[1] Art 570 cod. pen.
[2] Cfr. Cass. sent. n. 12310/12.
[3] Art. 143 cod. civ.
[4] Art. 144 cod. civ.
[5] Cass. n. 4540/11.
[6] Cass. sent. n. 16285/13, n. 2183/13; Cass. n. 2011/11.
[7] Cass., sent. n. 2059/12.
[8] Cass. n. 10719/13.
[9] Art. 337-sexies cod. civ.
[10] Cass. sent. n. 4555/12.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LA SEPARAZIONE DI FATTO
di Maria Elena Casarano
In generale, la legge disciplina in via esclusiva la separazione legale (consensuale o giudiziale che
sia); al contrario, la separazione di fatto (cioè l’interruzione della convivenza coniugale posta in
essere da marito e moglie in via di fatto) non determina, in via automatica, delle conseguenze giuridiche e quindi legittima ciascun coniuge a domandare in qualsiasi momento la ripresa della convivenza.
Efficacia della scrittura privata
Ciò non esclude che i coniugi possano sottoscrivere una scrittura privata: in tal caso, essa proverebbe la sussistenza di un comune accordo in merito alla separazione, mettendo al riparo ciascuno dall’ eventuale rischio di una successiva domanda di separazione con addebito, tesa ad attribuire la responsabilità all’altro della rottura del matrimonio.
Come abbiamo visto, infatti, l’abbandono della casa coniugale posto in essere senza giusta causa
determina conseguenze sia sul piano civile che penale, salvo il caso in cui sia stata depositata
una domanda di separazione al tribunale o, quantomeno, sia stato informato il coniuge
dell’intenzione di lasciare il domicilio coniugale e di separarsi, motivando con una lettera le gravi
ragioni della propria scelta (condizioni queste che rappresentano una giusta causa di allontanamento).
Nello specifico, i coniugi, prima ancora di rivolgersi al giudice, possono mettere nero su bianco un
accordo con cui regolamentare la loro separazione. Si tratta, cioè, di un contratto valido a tutti gli
effetti, se pur entro determinati limiti.
Possono quindi ben essere possibili tanto degli accordi anteriori, che contemporanei, ma anche
successivi alla separazione o al divorzio, nella forma della scrittura privata o dell’atto notarile. Si
pensi al caso in cui marito e moglie, nelle more della fissazione dell’udienza di separazione consensuale, decidano già di dividersi i mobili e gli arredi della casa coniugale.
Contenuto degli accordi
La libera negoziabilità delle parti è, tuttavia, da escludersi con riferimento ai diritti e doveri coniugali di carattere non patrimoniale, quali la fedeltà, la coabitazione, l’assistenza morale e la collaborazione, come pure con riferimento ai diritti di libertà e i diritti personalissimi dei componenti la
famiglia: gli sposi, infatti, non possono derogare ai diritti e doveri previsti dalla legge per effetto del
matrimonio (cosiddetta clausola di ordine pubblico) [1].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Per quanto riguarda, invece, i rapporti patrimoniali tra coniugi, la Cassazione ha ribadito proprio
di recente la piena validità della clausola o del contratto di trasferimento di immobili tra i coniugi
[2]. Al pari vi è un generale pieno diritto di ciascun coniuge a rinunciare al mantenimento; tuttavia,
è da considerare indisponibile il diritto agli alimenti [3] che presuppone, invece, uno stato di bisogno. Ciò in quanto il diritto al sostentamento minimo e basilare vuole proprio garantire la tutela della personalità di ciascun membro della famiglia e pertanto deve essere sottratto al potere dispositivo dei coniugi.
L’accordo sui figli
Esso non potrebbe riguardare il loro affidamento, né tantomeno esonerare uno dei genitori dalla responsabilità e dal diritto/dovere (nel primario interesse del figlio alla bigenitorialità) di cura,
educazione, istruzione e mantenimento della prole.
Con particolare riferimento, invece, alle questioni di natura economica riguardante i figli (minori
o maggiorenni non economicamente autonomi), una recente pronuncia [4] ha chiarito che è valido
l’accordo intervenuto tra i coniugi in occasione della separazione di fatto, riguardante non solo i
contributi di mantenimento provvisori per la moglie, ma anche quello per il figlio minore anche
senza ratifica del giudice, per lo meno nella misura in cui esso cui non metta a repentaglio il bene
di figli.
In altre parole se l’accordo quantomeno non prevede una situazione peggiorativa o addirittura
ne prevede una migliorativa, esso è pienamente valido.
Tale accordo, in ogni caso, non impedisce ai coniugi:
– di rivolgersi al giudice della separazione in un momento successivo per chiederne
l’omologazione
– oppure di chiedere congiuntamente al giudice delle misure a tutela dell’unione coniugale di decidere a riguardo [5]. La legge, infatti, dà la possibilità ai coniugi che stanno attraversando una crisi
familiare di rivolgersi al giudice senza formalità affinché adotti la soluzione che reputa più adeguata alle esigenze della famiglia. Tale domanda è preclusa alle parti quando sia già stata depositata
una domanda di separazione.
In conclusione è possibile, nell’attuale situazione di crisi (e in vista di una decisione ponderata su
una futura separazione) che i coniugi si accordino, mettendolo nero su bianco, per
l’allontanamento da parte di uno dei due da casa familiare e su una disciplina provvisoria del mantenimento del coniuge e dei figli. Un simile accordo metterebbe entrambi al riparo dal pericolo di
una successiva domanda di separazione con addebito, ma non potrebbe avere ad oggetto (anche
solo nel senso di limitarli) i diritti indisponibili derivanti dal matrimonio o dalla filiazione (fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione, libertà e status personale, responsabilità e affidamento dei figli).
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Resta comunque che la scrittura così formulata non avrebbe – in caso di mancato rispetto – il medesimo valore di un provvedimento, anche provvisorio, del giudice e pertanto costringerebbe la
parte interessata ad instaurare una procedura più lunga e articolata per la sua attuazione: si pensi
al caso in cui la moglie dovesse frapporre ostacoli al marito ad una serena frequentazione dei figli
(l’affidamento del minore non potrebbe, infatti, costituire oggetto di accordo, dovendo sempre passare dall’omologazione del magistrato), come pure all’ipotesi in cui il marito non dovesse versare
puntualmente alla donna il mantenimento concordato.
[1] Ai sensi dell’art. 160 cod.civ.
[2] Cass. sent. n. 24621/2015.
[3] Disciplinato dagli artt. 433 e ss. cod. civ.
[4] Tribunale d’appello di Lugano sent. del 25.02.15.
[5] Ai sensi dell’art. 145 cod. civ.
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TEMPI E MODI PER SEPARARSI E DIVORZIRE
In Italia, non si può divorziare immediatamente: prima, infatti, di poter cancellare definitivamente il
matrimonio è necessario prima passare dalla separazione, che rappresenta, quindi, una sorta di
“gradino” anteriore al divorzio. I due procedimenti sono pressoché simili e le regole per l’uno valgono anche per il secondo.
Attualmente, se c’è l’accordo di entrambi i coniugi su tutti gli aspetti economici e personali (quella
che un tempo si chiamava “consensuale”), ci si può separare o divorziare, o rivedere le precedenti
condizioni, in tre forme diverse.
In altre parole, la coppia deve avere trovato l’intesa sull’assegno di mantenimento, divisione dei
beni, assegnazione del tetto, collocamento dei figli e visite settimanali.
Diversamente, in mancanza di accordo, si procede sempre in tribunale (con quella che comunemente vie detta “la via giudiziale”) alla presenza degli avvocati e con una causa che, a volte, oltre che costosa può anche durare diversi anni.
Non si può divorziare se prima non sono passati almeno 6 mesi dalla data della separazione (se
è stata consensuale)e 1 anno se è stata giudiziale. Il passaggio è obbligato.
La differenza tra separazione e divorzio è che se la prima sospende soltanto gli effetti del matrimonio (restano in vita i diritti successori, salvo in caso di addebito), con il secondo cessano definitivamente.
LA SEPARAZIONE CONSENSUALE
La separazione, gradino necessariamente anteriore per poter poi divorziare, può essere consensuale o giudiziale. Nel primo caso i coniugi trovano un accordo su tutti gli aspetti, economici e personali, per poter procedere ad essa; nel secondo caso, invece, non essendo riusciti a conciliare le
rispettive posizioni (su tutto o parte delle questioni attinenti alla separazione) ricorrono al giudice
che provvede con sentenza, all’esito di una normale causa (cosiddetta separazione giudiziale).
Vantaggi
I vantaggi della separazione consensuale sono diversi. Innanzitutto le parti evitano laceranti conflitti giudiziali, che spesso si trascinando per lunghi anni, con indubbie ripercussioni sulla loro
stessa qualità di vita. Da un punto di vista giuridico, però, i benefici sono ancora più evidenti. Infatti, oltre ad evitare i costi e i tempi del giudizio di separazione, i coniugi possono procedere al
divorzio dopo solo 6 mesi (nel caso di separazione giudiziale, invece, il tempo si raddoppia: è
necessario attendere un anno).
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Inoltre, chi opta per la separazione consensuale può evitare di passare dal tribunale. In particolare
può procedere alla separazione consensuale in Comune, senza bisogno di avvocati alla separazione consensuale mediante negoziazione assistita dei rispettivi avvocati. L’accordo può essere
stipulato anche se la coppia ha avuto figli o è previsto il passaggio di proprietà di uno o più immobili.
Non in ultimo, la coppia che procede con una separazione consensuale può abbandonare prima
e più facilmente la stessa abitazione. Se, infatti, nelle ipotesi giudiziali è sempre più opportuno attendere la prima udienza (quella che si svolge davanti al Presidente del Tribunale), nel caso in cui
le parti abbiano raggiunto un accordo preventivo, possono già formalizzare l’interruzione della
convivenza e sospendere così alcuni effetti del matrimonio.
Le modalità
Ci si può separare consensualmente scegliendo una delle seguenti tre procedure:
- 1) Ricorso in Tribunale
La domanda di separazione deve essere proposta al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune o, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio. Se il coniuge
convenuto risulta irreperibile la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente.
Il ricorso è normalmente presentato da entrambi i coniugi (ricorso congiunto).
Al ricorso devono essere allegati i seguenti documenti:
– certificato di residenza di entrambi i coniugi;
– estratto per riassunto dell’atto di matrimonio;
– stato di famiglia dei coniugi.
Alcuni tribunali pretendono le ultime dichiarazioni dei redditi presentate, altri tribunali invece non le
ritengono necessarie (ad esempio il tribunale di Milano).
L’interessato deve depositare il ricorso presso la cancelleria del tribunale competente.
Non c’è un limite di tempo: trattandosi di diritti imprescrittibili, ciascuno dei coniugi può presentare
la domanda in ogni momento.
Nei 5 giorni successivi al deposito del ricorso, il presidente fissa con decreto una udienza presidenziale di comparizione dei coniugi davanti a sé, che si deve tenere entro 90 giorni dal deposito
del ricorso.
All’udienza davanti al presidente i coniugi devono comparire personalmente: la loro presenza fisica è necessaria affinché prestino il loro consenso alla separazione davanti al giudice.
Il presidente sente i coniugi congiuntamente e tenta di conciliarli per ristabilire l’unione. Nella prassi tutto avviene in un’unica udienza.
Quando il tentativo di conciliazione fallisce, il presidente fa redigere il verbale di separazione.
Il verbale viene letto e sottoscritto da entrambi i coniugi.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Il verbale di separazione viene trasmesso al tribunale. Si apre una fase alla quale i coniugi non
devono più partecipare: essa va avanti d’ufficio. Lo scopo di questa fase è arrivare
all’omologazione, ossia al controllo dell’accordo e delle sue clausole. L’omologa viene effettuata
dal tribunale in composizione collegiale (cioè con 3 giudici tra i quali il presidente) in camera di
consiglio (cioè a porte chiuse) su relazione del presidente e previo parere del P.M. Alla omologazione non partecipano né i coniugi né l’avvocato o gli avvocati.
Ottenuta l’omologazione il verbale acquista efficacia legale e viene comunicato alle parti.
Se non ci sono figli, il tribunale effettua un controllo solo formale dell’accordo e delle clausole che
riguardano i rapporti tra i coniugi, verificando che esse non siano contrarie a norme imperative,
all’ordine pubblico e al buon costume.
Se invece ci sono figli, il tribunale entra nel merito dell’accordo limitatamente alla parte che riguarda i figli, nel loro preminente interesse. Il collegio, in particolare, è tenuto a verificare se è salvaguardata la posizione dei figli e se gli accordi possono, in qualche modo, negare o limitare pesantemente il rapporto personale con un genitore, o ledere il diritto alla bigenitorialità del minore, o il
rapporto con i parenti di uno dei due genitori.
Il procedimento si esaurisce in una sola udienza, veloce e informale, davanti al Presidente del Tribunale. Questi tenta inizialmente una conciliazione tra le parti (che ha spesso più un valore puramente formale). In caso di fallimento, passa immediatamente alla lettura dell’accordo raggiunto
tra le parti e lo fa firmare, dichiarando la separazione. Il procedimento, che dal deposito del ricorso, richiede al massimo 3 o 4 mesi (anche se il termine dipende dal carico di lavoro del magistrato), termina con l’omologazione del consenso da parte del tribunale. Da questo momento la separazione acquista efficacia legale.
È possibile che i coniugi abbiano ciascuno un proprio difensore, così come è possibile avere un
unico professionista che segua l’intera procedura (con conseguente dimezzamento delle spese);
– 2) In Comune, davanti al Sindaco
Questa modalità di separazione è possibile solo se:
- la coppia non ha avuto figli
- e, negli accordi, non è previsto il trasferimento di immobili.
Le parti si presentano davanti al Sindaco (o altro ufficiale di stato civile da questi delegato) che
tenta una conciliazione. Fallito il tentativo, dà un altro appuntamento alle parti in Comune, dopo 30
giorni, in modo da dare loro la possibilità di riflettere sulla scelta. Quindi, al secondo incontro, procede alla separazione.
La procedura è gratuita e veloce, non richiede la presenza di avvocati (sebbene le parti possono
comunque scegliere di farsi assistere comunque). Non c’è bisogno di arrivare in Comune con un
accordo già scritto.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Nella procedura al Comune i coniugi devono andare personalmente?
Separazione o divorzio sono possibili al Comune anche delegando qualcun altro al posto proprio
che vada a firmare l’accordo. È quanto chiarito dal Tribunale di Milano con una recente sentenza
[1]. In tal caso, infatti, si può conferire procura speciale a un terzo (un avvocato, ma anche un
parente o chiunque altro) che, in sua sostituzione, si rechi dal Sindaco a confermare l’accordo di
separazione o divorzio. Ricordiamo infatti che questa speciale procedura è consentita solo quando
le parti abbiano raggiunto un’intesa su tutti i punti del distacco, sia quelli patrimoniali (per esempio,
il mantenimento) che personali. L’importante è non aver avuto figli e non disporre trasferimenti di
immobili.
L’ufficiale di stato civile non può rifiutarsi di procedere perché alla lettura dell’atto consensuale
manca uno dei due coniugi, sia questi il marito o la moglie. Se è vero che le parti possono munirsi
di una procura speciale nel caso di separazione o divorzio davanti al giudice, ciò a maggior ragione è possibile anche nel procedimento che si svolge in Comune per la cessazione degli effetti civili
del matrimonio. Del resto, chi ottiene la procura speciale può svolgere, in sostituzione del soggetto
rappresentato, tutte le attività che quest’ultimo dovrebbe porre in essere davanti all’autorità amministrativa. Non vi sono, quindi, preclusioni neanche in ambito di diritto di famiglia.
E d’altronde, se le procedure alternative al tribunale devono assicurare agli utenti del servizio le
stesse possibilità di agire che sarebbero loro riconosciute davanti al giudice, non si vede perché
escludere la possibilità di una procura speciale che, invece, in tribunale è consentita. Diversamente il risultato sarebbe invece quello di disincentivare il ricorso alle procedure semplificate piuttosto
che favorirlo.
Insomma: le procedure di degiurisdizionalizzazione devono distinguersi per la “semplificazione” e,
pertanto, devono consentire un maggiore ricorso agli strumenti alternativi piuttosto che irrigidirne
l’accesso.
[1] Trib. Milano, sent. del 19.01.2016.
– 3. Con Negoziazione assistita dagli avvocati
In tal caso, tutta la procedura è gestita dagli avvocati del marito e della moglie (non è possibile un
unico avvocato). In pratica, i rispettivi difensori redigono un atto con il quale regolano i rapporti delle parti successivi al divorzio.
È necessario l’accordo di entrambi i soggetti (quindi è possibile solo per il divorzio consensuale) e
un avvocato per parte. È percorribile anche se ci sono figli minori o maggiori incapaci economicamente o portatori di handicap.
La procedura è veloce visto che l’intesa raggiunta con l’assistenza dei legali, dopo essere stata
trasmessa al Pm (che, se non ci sono figli si limita a un controllo formale, mentre se i figli ci sono
valuta la rispondenza dell’accordo ai loro interessi) viene inviata all’ufficiale di stato civile del Comune entro 10 giorni;
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Contenuto dell’accordo di separazione consensuale
Ogni accordo di separazione deve avere un contenuto minimo essenziale:
– il consenso alla separazione, e quindi all’interruzione della convivenza;
– se ne sussistono i presupposti, l’assegnazione della casa familiare;
– gli obblighi di mantenimento del coniuge;
– in caso di figli minori i coniugi devono decidere e regolare il loro affidamento e mantenimento.
Nel contenuto eventuale i coniugi possono disciplinare l’assetto economico dei rapporti tra loro.
Possono stabilire regole relative al godimento e alla proprietà dei beni di cui hanno usufruito nel
corso del matrimonio, inclusi gli eventuali trasferimenti immobiliari.
Possono anche regolare la permanenza dell’animale domestico presso l’una o l’altra abitazione e
le modalità che ciascuno dei proprietari deve seguire per il suo mantenimento (non essendo
l’animale una cosa, ma un essere senziente).
Nella separazione consensuale le parti sono libere di determinare la misura dell’assegno di
mantenimento in base a quanto da queste ritenuto congruo e opportuno. Il giudice non verifica,
infatti, se esistono i presupposti di legge per il riconoscimento del mantenimento a favore di un
coniuge e a carico dell’altro, ma si limita a prendere atto della volontà delle parti, sostanzialmente
fidandosi di una quantificazione operata nel contraddittorio e in merito alla quale vi è il pieno accordo dei coniugi.
Ciò però non vale nel caso in cui vi siano figli. L’accordo di separazione consensuale riguardante
questi ultimi, infatti, dovrà superare il vaglio dell’autorità giudiziaria (tanto nel caso di separazione consensuale davanti al giudice quanto in quella mediante negoziazione assistita). Qualora
l’accordo non dovesse risultare consono agli interessi dei figli, il giudice potrebbe rifiutarne
l’omologazione. Per esempio, i coniugi non potrebbero prevedere la rinuncia all’assegno di mantenimento per i minori se questi vivono con la madre che non guadagna o guadagna poco.
Gli effetti
Dal momento in cui il tribunale omologa l’accordo dei coniugi la separazione consensuale produce
i suoi effetti personali e patrimoniali: si attenua il vincolo matrimoniale in attesa che le parti decidano di porre fine al loro matrimonio con il divorzio oppure decidano la riconciliazione.
In particolare:
– se i coniugi erano in comunione dei beni, passano a un regime di separazione dei beni;
– si acquisisce lo status giuridico di coniugi separati, ma la moglie può continuare a usare il cognome del marito.
Si può quindi dare esecuzione all’accordo in relazione a quanto stabilito per la casa familiare e per
il mantenimento del coniuge economicamente più debole.
In caso di figli, si procede all’esecuzione degli accordi relativi al loro affidamento e al loro mantenimento.
Inoltre se uno dei due coniugi dovesse decedere durante il periodo di separazione, l’altro sarebbe
suo erede.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Proprio perché finalizzata a realizzare un accordo tra le parti, la separazione consensuale non può
mai essere con addebito, neanche se uno dei due coniugi ha posto comportamenti contrari alle
regole del matrimonio. Quindi, chi volesse addebitare la separazione all’altro, dovrebbe necessariamente far ricorso alla separazione giudiziale.
L’accordo della separazione consensuale è modificabile?
Gli accordi presi in sede di separazione non sono vincolanti per il successivo divorzio, sicché le
parti potranno stabilire di comune accordo un differente assetto degli interessi. Se tale accordo
non si raggiunge, si procederà al divorzio giudiziale.
È anche possibile, tra la separazione e il divorzio, procedere alla modifica delle condizioni di separazione (per esempio, chiedendo al giudice un aumento o una diminuzione dell’assegno di mantenimento) ma solo a condizione che ricorrano ulteriori circostanze non presenti al momento della
separazione (si pensi alla perdita di lavoro di uno dei due coniugi).
Gli accordi tra coniugi successivi all’omologazione sono legittimi. ma per essere validi devono essere compatibili con il verbale omologato e devono disciplinare un aspetto da esso non considerato oppure devono contenere clausole che specificano il contenuto dell’accordo stesso.
Non è consentito ai coniugi incidere sull’accordo omologato con soluzioni alternative non soggette
al controllo del giudice.
Il DIVORZIO
Quali sono i tempi per poter divorziare?
A seguito delle modifiche del 2015 [1], per divorziare è necessario attendere tempi più brevi rispetto al passato, ossia solo:
– 12 mesi se le parti si sono separate giudizialmente, ossia – non avendo trovato un accordo – a
seguito di una normale causa in tribunale;
– 6 mesi se, invece, le parti si sono separate consensualmente: la separazione consensuale può
essere stata, indifferentemente, sia quella avvenuta in tribunale, davanti al Presidente (cosiddetta
separazione consensuale di tipo classico), sia quella davanti all’ufficiale di Stato Civile (separazione in Comune), sia quella fatta allo studio degli avvocati (cosiddetta negoziazione assistita).
Se ci sono figli, le cose cambiano?
No, la presenza di figli non cambia i tempi che bisogna attendere, dopo la separazione, per poter
divorziare. Influisce però sul tipo di procedura da prescegliere per separarsi: non ci si potrà, infatti,
divorziare in Comune.
Per divorziare resta necessario prima separarsi?
Si. La nuova legge non elimina quindi la fase di separazione, attraverso la quale bisogna sempre
passare prima di poter sciogliere in via definitiva il matrimonio, ma la abbrevia drasticamente.
Se la causa di separazione dura più anni, posso nel frattempo divorziare?
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Si. Qualora la coppia abbia optato per una separazione giudiziale e la durata di questa si stia protraendo oltre i 12 mesi necessari per potersi divorziare, si potrà nel frattempo attivare anche il giudizio di divorzio. I due giudizi cammineranno così su binari paralleli.
Quando si scioglie la comunione tra i coniugi?
Rispetto al passato viene anticipato lo scioglimento della comunione dei beni (per chi l’ha scelta):
essa non avverrà più con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, ma
scatterà dal momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati (nella
separazione giudiziale) o dalla sottoscrizione del processo verbale di separazione (nella separazione consensuale).
Quale procedura si può adottare per divorziare?
Attesi 6 (se la separazione è stata consensuale) o 12 mesi dalla separazione (se è stata giudiziale), ci sono tre diverse possibilità (tutte equivalenti e con gli stessi effetti) per sciogliere definitivamente il matrimonio:
–1. presentare ricorso in tribunale: è il procedimento tradizionale che, se trova l’accordo di entrambi i coniugi, si risolve in una sola udienza. In tal caso il ricorso deve contenere le condizioni su
cui marito e moglie si sono accordati. I coniugi possono utilizzare anche lo stesso avvocato.
La domanda congiunta di divorzio deve essere depositata in tribunale e deve contenere nel dettaglio le condizioni relative a figli e rapporti economici su cui marito e moglie si sono accordati. Il
giudice, sentiti i coniugi e verificati i presupposti di legge, pronuncia la sentenza di divorzio che
viene annotata nel registro dello Stato civile.
Se, invece, manca l’accordo, è necessario il giudizio per l’accertamento dei relativi obblighi e diritti;
–2. avviare una negoziazione assistita dai propri avvocati: l’iter è identico a quello illustrato per la
separazione consensuale;
– 3. recarsi davanti all’ufficiale dello stato civile del Comune, anche senza avvocati. Anche in
questo caso, come nel precedente, è necessario l’accordo di entrambe le parti (quindi è possibile
solo per il divorzio congiunto). Anche qui, l’iter è lo stesso descritto per la separazione (consensuale).
[1] L. 55/2015.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
IL DIVORZIO IMMEDIATO
Se, come abbiamo detto, per ottenere il divorzio occorre, di norma, aver prima passato la fase della separazione, vi sono però alcuni casi nei quali la legge sul divorzio del 1970 consente il divorzio
immediato [1].
Ciò può avvenire qualora - dopo la celebrazione del matrimonio – uno dei coniugi sia stato condannato in via definitiva, anche per fatti commessi in precedenza:
– all’ergastolo o a pena superiore ai 15 anni, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici
e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;
– a qualsiasi pena, se i reati commessi sono incesto, delitti sessuali o per induzione, costrizione,
sfruttamento, favoreggiamento della prostituzione;
– a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o per tentato omicidio a danno di coniuge o
figli;
– a qualsiasi pena, in caso di lesione personale aggravata, violazione degli obblighi di assistenza
familiare, maltrattamenti in famiglia, circonvenzione di incapaci, attuati contro coniuge o prole.
Nel secondo e nel terzo caso, il divorzio immediato può essere richiesto anche se l’altro coniuge
sia stato assolto per vizio totale di mente (e il giudice del divorzio ne accerti l’inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare); il processo si sia concluso con sentenza di non doversi
procedere per estinzione del reato (che il giudice ritenga sussistere) o la causa d’incesto si sia
conclusa con proscioglimento/assoluzione per mancanza di pubblico scandalo.
Insomma, come dire, in tutte queste ipotesi che, a prescindere dalla punizione del colpevole, il fatto è stato comunque accertato ed è quest’ultimo che rileva nel giudizio sulla “pericolosità” del coniuge.
Si può, ancora, richiedere il divorzio immediato qualora:
– l’altro coniuge straniero abbia ottenuto divorzio all’estero o all’estero abbia contratto nuovo matrimonio;
– qualora il matrimonio non sia stato consumato o sia passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Il procedimento
A chiedere il divorzio immediato possono essere tanto i due coniugi congiuntamente, che uno
solo di essi. In entrambi i casi, la procedura è identica a quella della separazione.
In particolare:
– divorzio richiesto da entrambe le parti: i coniugi fissano le condizioni della separazione, del
mantenimento e dei rapporti con i figli con ricorso al Tribunale. Il giudice, in un’unica udienza, tentata la conciliazione, autorizza il divorzio, valutando anche l’interesse degli eventuali figli;
– divorzio richiesto da uno solo dei coniugi: in tal caso, si apre una vera e propria causa, prima
della quale il Presidente del tribunale fissa i provvedimenti temporanei e urgenti. Quindi si passa
alla raccolta delle prove e, infine, alla decisione.
[1] Art. 3 l. 898/1970.
SEPARAZIONE E DIVORZIO SE MANCA L’ACCORDO
Non sempre separazioni e divorzi avvengono perché entrambi i coniugi raggiungono un accordo
circa il fatto di non vivere più insieme; esistono anche casi in cui, a fronte della volontà di uno dei
due di separarsi o divorziare, l’altro invece vorrebbe ancora rimanere insieme. E anche casi in cui
l’opposizione allo scioglimento del vincolo deriva da semplice intento ostruzionistico, non dettato
tanto da amore, ma dalla volontà di complicare la strada della libertà all’ex.
In tal caso, perciò, occorrerà presentare ricorso al giudice mediante un avvocato. Sarà poi il tribunale a pronunciare la separazione o lo scioglimento degli effetti civili del rapporto coniugale, anche nonostante il dissenso dell’altro coniuge o la sua assenza dal processo (cosiddetta contumacia).
Nello stesso giudizio, quindi, il magistrato deciderà tutte le questioni conseguenti alla separazione
o al divorzio: obbligo di mantenimento, assegnazione della casa coniugale (solo se in presenza di
prole), affidamento dei figli e loro mantenimento, diritti di visita, ecc. Si tratta di provvedimenti a cui
il giudice non può sottrarsi solo perché uno dei due coniugi faccia ostruzionismo e, dunque, il processo andrà avanti anche contro la sua volontà.
L’indissolubilità del matrimonio, infatti, riguarda solo “l’ordine morale cattolico” e “l’ordinamento
canonico”. Di conseguenza, esso non rileva sugli effetti civili del matrimonio concordatario, né può
ostruire il diritto – strettamente personale ed irrinunciabile – riconosciuto a moglie e marito dalla
legge italiana, di separarsi o divorziare (ossia di far cessare gli effetti civile del matrimonio) [1].
La mancata collaborazione di uno o di entrambi i coniugi all’accordo di separazione impedisce,
dunque, solo la possibilità di intraprendere la via (più veloce ed economica) della cosiddetta separazione consensuale che, peraltro, in assenza di figli e di passaggi di proprietà di immobili, può effettuarsi anche in Comune, senza bisogno di avvocati. In alternativa (e sempre che vi sia il consenso di marito e moglie) si potrebbe intraprendere anche la via della negoziazione assistita, una
soluzione concordata che passa per la firma di un accordo con l’assistenza dei rispettivi avvocati,
ma senza il tribunale.
[1] Cass. ord. 23.09.015 – 11.01.2016
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LA MODIFICA DELLE CONDIZIONI DI SEPARAZIONE E DIVORZIO
A uno o entrambi i coniugi che abbiano ottenuto un provvedimento di separazione o di divorzio
(sia a seguito di un accordo congiunto, sia a seguito di una causa [1]) è consentito chiedere al
giudice di modificare o revocare le condizioni in esso contenute [2].
Requisiti per la richiesta di modifica
La richiesta di modifica o revoca di questi provvedimenti dipende, tuttavia, da alcune condizioni:
– che sussistano giustificati motivi;
– che tali giustificati motivi siano sopravvenuti rispetto all’iniziale provvedimento di separazione/divorzio. Essi, quindi, devono costituire fatti nuovi e non preesistenti alla separazione o al divorzio, anche se non siano stati presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo;
– che essi modifichino la situazione rispetto alla quale era stata emessa la pronuncia di separazione/divorzio;
– che le nuove circostanze siano definitive e quindi non legate a fatti contingenti;
– che il provvedimento con cui il giudice ha pronunciato la separazione/divorzio sia divenuto definitivo, ossia non sia più impugnabile dalle parti [3].
Ciò in quanto il codice civile [4] ricollega la revoca o la modifica dei provvedimenti adottati dal giudice in tema di separazione al sopravvenire di “giustificati motivi“. Il procedimento infatti, non si caratterizza quale revisione del precedente giudizio, e quindi rivisitazione delle determinazioni già
adottate nella causa di separazione, ma come un nuovo giudizio, finalizzato ad adeguare la regolamentazione dei rapporti – anche economici – tra i coniugi al mutamento della situazione di fatto; ma ad una sola condizione: che tale modificazione incida realmente sulle loro condizioni patrimoniali, determinandone uno squilibrio profondo [5].
In presenza delle predette condizioni, questa domanda può essere formulata in ogni tempo.
Oggetto di modifica
La richiesta di modifica potrà riguardare:
– le questioni patrimoniali attinenti alla sola coppia che quelle relative ai figli(come la misura
dell’assegno di mantenimento, i criteri di ripartizione delle spese tra le parti);
– le questioni personali, come quelle attinenti alle modalità di affidamento e di visita dei figli.
Come si propone la domanda
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
L’istanza di modifica segue regole analoghe a quelle previste per la domanda di separazione e divorzio.
Sicché, ove essa sia presentata da solo uno dei coniugi, sarà possibile il solo ricorso al giudice
il quale dovrà:
– accertare se, e in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio raggiunto
tra le parti;
– adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale;
– rimodulare le questioni diverse da quelle economiche (per esempio: modalità degli incontri genitori-figli) sulla base delle nuove esigenze emerse.
Ove, invece, i coniugi abbiano raggiunto un accordo, in tal caso essi potranno alternativamente:
- depositare ricorso congiunto in tribunale,
- usufruire della procedura della negoziazione assistita,
- sottoscrivere i nuovi accordi direttamente davanti al Sindaco, sempre che però non ci siano figli
minori, maggiorenni non autosufficienti o portatori di grave handicap e non riguardino patti di trasferimento patrimoniale.
[1] Cass. S.U. sent. n. 23866/2013.
[2] Art. 710 cod. proc. civ.
[3] Art. 9, L. n. 898/1970.
[4] Art. 156 ult. c. cod. civ.
[5] Trib. Trani, sent. del 20.70.2012.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
L’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE
COS’E’ E COSA COMPORTA
Quando marito e moglie hanno avuto, durante la vita coniugale, comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio (coabitazione, fedeltà, assistenza morale e materiale), il giudice
della separazione può imputare loro la responsabilità per la rottura dell’unione coniugale. Si tratta del cosiddetto addebito, provvedimento tipico dei procedimenti di separazione giudiziale (quelli
cioè che si instaurano quando, i coniugi, non trovando tra loro un accordo, ricorrono al giudice).
Non è indispensabile che il Tribunale si pronunci sull’addebito della separazione: non è necessario, cioè, davanti al giudice, che la responsabilità della separazione sia necessariamente attribuita
all’uno o all’altro coniuge. Ciò però può avvenire su richiesta di uno dei due.
Dall’altro lato, viceversa, la separazione può anche essere addebitata ad entrambi i coniugi.
Come detto, l’addebito della separazione presuppone che il coniuge si sia reso responsabile di
una grave violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio.
Conseguenze
Il coniuge al quale sia stata addebitata la separazione:
– non ha diritto all’assegno di mantenimento (che gli dovrebbe garantire un tenore di vita analogo a quello che aveva durante il matrimonio), ma non perde quello agli alimenti, che gli possono
essere concessi solo in caso di effettivo bisogno e in ammontare sufficiente solo a garantirgli i minimi di sussistenza (e non, invece, lo stesso tenore di vita avuto in costanza del matrimonio, come
è, invece, il caso dell’assegno di mantenimento);
– in caso di decesso dell’altro coniuge, ha diritto solo a un assegno vitalizio (commisurato alle
sostanze ereditarie e al numero di eredi) soltanto se già titolare di un assegno alimentare e nei limiti dell’importo di detto assegno;
– ha diritto alla pensione di reversibilità solo se titolare di assegno alimentare;
– ha diritto all’indennità di anzianità e di preavviso che gli deve essere corrisposta dal datore di lavoro del coniuge deceduto, solo se titolare di assegno alimentare.
LE CAUSE
(Alcuni esempi):
Violenza
La violenza domestica è gravissima ed è da sola causa risolutiva del rapporto coniugale. Per questa ragione, anche un solo episodio di percosse esclude la normalità fisiologica del quadro relazionale interno alla coppia, perché afferma la supremazia di una persona su di un’altra e disconosce la parità della dignità di ogni persona, come principio base dei diritti costituzionali [1].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Abbandono della casa (vd. sopra)
L’abbandono della casa coniugale costituisce causa di addebito della separazione (conseguendone il venir meno della convivenza), salvo che il coniuge provi di aver lasciato il tetto a causa
dell’altrui comportamento, o che la decisione sia stata presa nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza fosse già in atto. Questa prova, però, va valutata in modo più rigoroso se l’allontanamento riguarda anche i figli [2].
Furto
Scatta l’addebito per il coniuge dedito al gioco e autore di furti del denaro familiare, anche se
l’altro, per un periodo, ha tollerato le violazioni. Nel caso specifico, il coniuge tradiva la moglie e
frequentava assiduamente case da gioco. Di qui, l’uscita di molto denaro, sottratto al ménage familiare. La moglie, sperando nel cambiamento del marito, aveva accettato il comportamento, finché questi commise il reato di falsità in titoli di credito a suo danno. Allora la donna decise di separarsi e chiedere l’addebito [3].
Nascita di un figlio da altra relazione
La nascita di un figlio da un’altra donna, a matrimonio in corso, non basta a far scattare l’addebito.
Nel caso esaminato, la crisi era iniziata molto prima della relazione extraconiugale. Né era stato
sufficiente a provare il ripristino dell’unione coniugale il fatto che marito e moglie fossero stati in
seguito in vacanza insieme: da questa vacanza non si potevano trarre elementi sufficienti a dimostrare il recupero del profilo spirituale del vincolo e il solo legame materiale si risolveva “in un simulacro di vita coniugale” [4].
Gelosia
È escluso l’addebito per il coniuge che lascia il tetto coniugale, per via di un matrimonio bianco.
L’abbandono dalla casa familiare non costituisce infatti violazione degli obblighi familiari da cui
possa conseguire l’addebito, se il coniuge che l’ha posto in essere provi l’anteriorità della crisi rispetto all’allontanamento. Nella specie, la condotta era motivata dal comportamento della moglie
che rifiutava di avere rapporti sessuali con il marito da circa dieci anni [5].
Dipendenza
No all’addebito della separazione al coniuge alcolista se l’altro era a conoscenza della dipendenza
già prima del matrimonio. Secondo i giudici, infatti, non è possibile obbligare nessuno a sottoporsi
a trattamento sanitario; inoltre, se il marito era già a conoscenza dello stato di salute della moglie
e, nonostante ciò, l’ha sposata, le difficoltà successive non possono essere sicuramente poste a
fondamento della pronuncia di addebito [6].
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Carriera
Niente addebito alla moglie che, per salvaguardare la carriera, rifiuta di seguire il marito. Infatti se
la moglie non si trasferisce per non perdere il proprio posto di lavoro, non le si può addebitare la
separazione. E questo anche se, facendo tale scelta, è consapevole che il matrimonio potrebbe
andare alla deriva. Si tratta infatti di una decisione che, secondo i giudici, non può essere considerata causa generatrice dell’intollerabilità della convivenza [7].
[1] C. App. Palermo sent. del 12.06.2013.
[2] Trib. Treviso sent. n. 1212 del 28.06.2013.
[3] Cass. sent. n. 5395 del 7.03.2014.
[4] Cass. sent. n. 27730 dell’11.12.2013.
[5] Cass. sent. n. 2539 del 5.02.2014.
[6] Cass. sent. n. 28228 del 18.12.2013.
[7] Cass. sent. n. 13026 del 10.06.2014.
IL TRADIMENTO
di Maria Elena Casarano
Se è vero che l’adulterio non costituisce più – come un tempo – un’ autonoma figura di reato [1],
tuttavia esso continua a rappresentare uno dei motivi più frequenti di separazione delle coppie.
Quando è necessaria la prova del tradimento
Perché la domanda di separazione sia accolta non è, tuttavia, necessario fornire al giudice la prova dell’adulterio: è sufficiente infatti che siano intervenute tra i coniugi incomprensioni (anche solo
scaturenti dal venir meno della fiducia nell’altro) tali da rendere intollerabile la vita coniugale.
La prova dell’infedeltà è invece indispensabile quando il coniuge tradito, oltre alla separazione,
voglia ottenere anche l’addebito [2]: ossia la dichiarazione con cui il giudice attribuisce la responsabilità della rottura del matrimonio al coniuge fedifrago.
Tale pronuncia, infatti, comporta nei confronti di quest’ultimo la perdita dell’eventuale diritto ad un
assegno di mantenimento (che gli dovrebbe garantire un tenore di vita analogo a quello avuto durante il matrimonio), così come una forte attenuazione dei diritti successori: infatti, al coniuge cui è
stata addebitata la separazione spetta solo il diritto a un assegno vitalizio se al momento della
apertura della successione egli godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto.
Quando la prova dell’infedeltà non rileva ai fini dell’addebito
Non sempre, tuttavia, l’adulterio, se pur provato, può dar luogo all’addebito.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Se è vero, infatti che la pronuncia di addebito si basa sulla violazione di uno dei doveri nascenti
dal matrimonio (quale appunto quello di fedeltà), tuttavia è anche necessario al contempo che sia
data prova al giudice di un rapporto di causa-effetto tra l’infedeltà e la separazione.
In parole semplici, ai fini della pronuncia di addebito occorre che il giudice accerti che il tradimento
sia stata la vera causa della rottura tra marito e moglie.
In mancanza di tale prova, nessuna responsabilità potrà essere attribuita al coniuge fedifrago.
Cosa deve accertare il giudice
Nello specifico, occorre provare non solo che tradimento vi sia stato, ma anche che esso abbia
provocato l’ intollerabilità della convivenza [3] o la lesione di diritti della personalità del coniuge
(come quello alla dignità, all’onore e alla reputazione) [4]; si pensi, ad esempio, al caso in cui, pur
essendosi esso manifestato in un singolo episodio, tuttavia abbia provocato una grave offesa
all’altro coniuge per il fatto di essersi consumato proprio nella casa coniugale [5].
Se, perciò, la crisi tra i coniugi sia stata antecedente all’infedeltà tale per cui, ad esempio, la convivenza tra marito e moglie aveva già una natura meramente formale (per la mancanza del necessario legame affettivo tra i coniugi), in tal caso il giudice potrà escludere l’addebito; in questa ipotesi, infatti, il tradimento non costituisce il motivo dell’intollerabilità della convivenza ma una sua diretta conseguenza [6].
A riguardo, la Suprema Corte ha ribadito come la pronuncia di addebito da parte del giudice non
può basarsi solo sull’inosservanza dei doveri coniugali, ma che occorre la prova che la irreversibile crisi coniugale sia riconducibile esclusivamente al comportamento contrario, in modo volontario
e consapevole, a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi [7].
Nel verificare l’inesistenza di un diretto collegamento tra infedeltà e crisi coniugale, il giudice dovrà
svolgere un accertamento rigoroso e una valutazione complessiva del comportamento di entrambi
i coniugi da cui evincere la preesistenza di una crisi coniugale in un contesto di vita caratterizzato
da una convivenza tra marito e moglie puramente formale [8].
Si pensi, ad esempio, al caso in cui uno dei coniugi ponga in modo ingiustificato il rifiuto di consumare rapporti sessuali con l’altro e quest’ultimo poi lo abbia tradito.
Irrilevanza della tacita accettazione del coniuge
Secondo la giurisprudenza, inoltre, anche quando sia stata tollerata l’infedeltà del coniuge ciò non
impedisce la richiesta di addebito; ciò che rileva, infatti, è che il partner tradito non sia più stato in
grado di sopportare l’infedeltà sicché essa, per quanto tollerata durante il matrimonio, abbia rappresentato la causa della rottura del legame [9].
Il fatto, perciò, che il coniuge abbia chiuso gli occhi per anni davanti all’adulterio, magari sperando
in un cambiamento dell’ex, non giustifica il rigetto della richiesta di addebito.
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Esempi
Riportiamo di seguito una panoramica di situazioni di infedeltà ritenute dalla giurisprudenza motivo
di addebito:
– aver intrapreso una relazione extraconiugale che abbia portato il coniuge fedifrago ad allontanarsi dall’ex, così privandolo della necessaria assistenza durante la malattia [10];
– relazione adulterina dalla quale sia nato un figlio [11];
– tradimenti scoperti in seguito ai quali i coniugi hanno tentato di recuperare il rapporto, fino alla
scoperta di una nuova infedeltà [12];
– numerosi episodi di infedeltà aggravati da forti litigi e da violenza fisica da cui sia derivato
l’allontanamento del coniuge fedifrago dalla casa coniugale [13];
– aver intrapreso una relazione extraconiugale sfociata in una convivenza di dominio pubblico a
seguito del trasferimento del coniuge fedifrago in altra città per motivi di lavoro [14];
– esercizio diretto della prostituzione da parte del coniuge [15];
– relazione extraconiugale omosessuale [16].
Addebito per infedeltà apparente
Vi sono, poi, alcuni comportamenti che rilevano ai fini dell’addebito pur non costituendo adulterio
in senso stretto; ciò in quanto essi sono comunque ritenuti ingiuriosi nei confronti del coniuge anche in ragione della percezione che di essi ne ha la società.
Si parla in tal caso di” infedeltà apparente” di cui sono un classico esempio le relazioni platoniche.
Tali comportamenti si caratterizzano [17] per il fatto che la condotta di un coniuge:
– provochi nell’altro e nei terzi il fondato sospetto del tradimento;
– sia posta in essere con l’intenzione e la consapevolezza di ledere l’onore e la dignità del coniuge;
– rechi un pregiudizio alla dignità personale del coniuge anche in relazione al contesto sociale di
appartenenza e alla sua sensibilità.
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Esempi
Riportiamo qui di seguito, a titolo esemplificativo, alcuni casi di infedeltà apparente ritenuti dalla
giurisprudenza rilevanti ai fini dell’addebito:
– il comportamento di un coniuge portato avanti in modo tale da far supporre a terzi l’esistenza di
una relazione extraconiugale anche se essa non si sia realmente verificata [18];
– la relazione intrapresa da uno dei coniugi subito dopo l’allontanamento dalla casa coniugale in
concomitanza con l’inizio della causa di separazione che dia luogo a plausibili sospetti di tradimento [19]; – approcci fisici insistenti posti in essere pubblicamente, se pur non accompagnati da
rapporti sessuali;
– la forte attrazione provata da uno dei coniugi nei confronti di una persona e tale da aver portato
all’allontanamento dalla casa coniugale per diverso tempo [20];
– l’appuntamento, dopo la intrapresa riconciliazione dei coniugi, con persona con la quale si era
convissuto durante la separazione dal coniuge [21];
– la relazione platonica che per gli aspetti esteriori con cui è coltivata e l’ambiente ristretto di frequentazione dei coniugi, dà luogo a verosimili sospetti di infedeltà, provocando offesa all’onore e
alla dignità dell’altro coniuge [22];
– l’infedeltà del coniuge rimasta allo stadio di mero tentativo solo per il sentimento non corrisposto
da parte del terzo [23].
Come provare l’adulterio
Nel giudizio di separazione, il problema delle prove che si possono utilizzare in causa è particolarmente delicato, non solo per la difficoltà in sé di documentare al giudice situazioni che di norma
sono vissute nell’intimità e non platealmente, ma anche per i limiti che la legge pone alla ricerca di
tali prove.
Tuttavia, se di norma l’utilizzo di dati personali di un soggetto ha sempre bisogno del consenso di
quest’ultimo (si pensi all’esibizione in Tribunale di registrazioni, foto, ecc.), ciò non vale anche nel
caso in cui si agisce allo scopo di tutelare un proprio diritto (come, appunto, avviene quando un
coniuge voglia dimostrare la relazione extraconiugale dell’altro).
Non vi è perciò alcuna violazione della privacy da parte del marito o della moglie che, sospettando
di essere tradito, scelga di far pedinare il coniuge da un investigatore privato e usare le “prove” nel
corso del giudizio di separazione al fine di ottenere la dichiarazione di addebito. Le prove documentali ottenute anche a mezzo di agenzie di investigazione sono, infatti, ammesse nel processo
se pur con un limite: quello che chi le abbia procurate sia sentito come testimone e, quindi, riferisca di persona al giudice quanto ha visto e fotografato.
Il giudice può anche valutare ai fini della prova le dichiarazioni da testimoni che non abbiano avuto
conoscenza diretta della relazione adulterina, così come può dare rilevanza alla testimonianza del
figlio.
Attenzione però: la lesione del diritto alla privacy non può spingersi fino al punto di violare la corrispondenza del coniuge; pertanto, non sarebbe possibile, al fine di procurarsi la prova
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
dell’adulterio, frugare nella posta o tra le email o gli sms ricevuti dal coniuge. Curiosare nella posta
dell’ex coniuge costituisce, infatti, un vero e proprio reato.
Una volta provato l’adulterio, spetterà poi al coniuge che voglia evitare l’addebito provare che la
relazione extraconiugale sia sopravvenuta in un contesto familiare già disgregato (per un approfondimento leggi: Separazione: col tradimento onere della prova invertito).
[1] La Corte Costituzionale con le sentt.n.126/1968 e n.147/1969 ha dichiarato illegittimi gli artt. 559 e 560 cod. pen.
che rispettivamente prevedevano il reato di “adulterio” a carico della moglie (che comportava la pena della reclusione
fino a un anno) e il reato di “concubinato” a carico del marito (per il quale era stabilita la pena della reclusione fino a
due anni).
[2] Ai sensi dell’art. 151 cod. civ., il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e
ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.
[3] Cass. sent. n. 27730/13, 8512/06, 13431/08, 17643/07, 13592/06, 8512/06 e Trib. Milano 8.04.11.
[4] Cass. sentt. n. 8929/13; 15557/08; 3511/94, Trib. Brescia 14.10.06.
[5] C. App. Firenze sent. n. 500/05.
[6] Cass. sentt. n. 8675/13; 16089/12; 18175/12; 9074/11.
[7] Cass. sent. n 21245/2010 e 14042/08.
[8] Cass. sent. n.8675/13.
[9] Cass. sentt. n. 5395/14; n. 4305/14;n. 10273/04; n 5090/04 e 18132/03.
[10] Cass. sent. n. 1893/14.
[11] Cass. sent. n. 929 del 17.01.14 e Trib. Bologna sent. del 25.10.07.
[12] Cass. sent. n. 4305 del 24.02.14.
[13] Cass. sent. 14386/13 .
[14] Cass. sent. n. 8285 del 4.04.13.
[15] Cass. sent. n.20256/06.
[16] Cass. sentt. n.19114/12; n. 7207/09; Trib.Brescia sent. del 14.10.06.
[17] Cass. sent. n. 6834/98 e 7156/83.
[18] Cass. sent. n. 29249/08.
[19] Cass. sent. n. 6834/98.
[20] Cass. sent. n. 23939/08.
[21] Cass. sent. n. 26/91.
[22] Cass. sent. n. 15551/08 e C. App. Perugia, sent. 28.09.94.
[23] Cass. sent. n. 9472/99.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LA RELAZIONE PLATONICA SU FACEBOOK
di Vincenzo Rizza
Lo sviluppo incontrollabile di social network come Facebook o Whatsapp e le molteplici possibilità
della comunicazione telematica, rendono oltremodo attuale il tema del tradimento platonico non
concretatosi in una vera e propria relazione adulterina, e degli effetti che esso riverbera dal punto
di vista giuridico sulle dinamiche familiari.
Si potrebbe affermare che secondo il modo di pensare ordinario il tradimento è di per sé motivo di
separazione, sia perché viola il dovere di fedeltà, sia perché mina fin dalle fondamenta la fiducia
ed il rispetto reciproci che dovrebbero essere i presupposti di qualunque rapporto di coppia.
La Cassazione nella sua giurisprudenza assume, invece, atteggiamenti più riflessivi ritenendo che
l’effetto della relazione extraconiugale sull’addebito della responsabilità della separazione deve
essere valutato nel caso concreto per determinare il peso che esso ha avuto nella crisi coniugale:
per esempio, una crisi già conclamata e nella quale l’affetto familiare sia già venuto meno per altre
cause, non consente di considerare il tradimento come motivo della separazione.
Sul terreno dell’onere della prova si afferma che una volta che l’un coniuge abbia dimostrato la relazione dell’altro, graverà su quest’ultimo di dimostrare che il matrimonio era già in crisi per altre
cause, evitando così l’addebito a suo carico della responsabilità [1].
A prescindere dal giudizio morale sul tradimento operato attraverso le chat, gli SMS, le telefonate,
non v’è dubbio che la questione assuma una sua originalità nel caso in cui questi comportamenti,
spesso messi in atto tra persone residenti in luoghi lontani, non abbiano implicato anche incontri
diretti tra i protagonisti e quindi nel caso in cui non vi siano stati rapporti sessuali e la relazione si
sia mantenuta nei limiti della riservatezza sociale.
Sul punto è possibile rinvenire un precedente specifico della Cassazione secondo il quale
l’addebito non può discendere da una relazione platonica e svolta in modo da non recare alcuna
offesa alla dignità ed all’onore del marito per le modalità discrete con cui si era svolta [2].
La sentenza propone, nella sua motivazione, l’orientamento prima indicato secondo il quale occorre, preliminarmente, accertare se il tradimento abbia avuto un’incidenza sostanziale sulla compromissione del rapporto coniugale.
Essa afferma il principio secondo cui il giudizio sull’addebito della responsabilità deve procedere
secondo una valutazione non solo dell’esistenza dell’adulterio, ma anche degli aspetti esteriori con
cui è coltivata la relazione, in modo da accertare se essa dia luogo nell’ambiente in cui vivono i
coniugi a plausibili sospetti di infedeltà, e comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge.
Nella specie – afferma la Suprema Corte – i giudici d’appello hanno correttamente escluso che lo
scambio interpersonale, extraconiugale, avesse potuto assumere i concreti connotati di una relaPagina 29 di 134
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
zione sentimentale adulterina e, comunque, fosse traducibile in contegni offensivi per la dignità e
l’onore del marito. Il legame intercorso tra la moglie e l’estraneo, infatti, si era rivelato platonico e
si era sviluppato solo telefonicamente o via internet, data anche la notevole distanza tra i luoghi di
rispettiva residenza. Tra l’altro non era stato provato in giudizio il coinvolgimento sentimentale di
lei, sebbene fosse stata prodotta una lettera d’amore che dimostrava ineluttabilmente
l’infatuazione di lui.
Per la Cassazione, dunque, il tradimento, per essere rilevante ai fini della responsabilità della separazione, deve essere concretato con comportamenti tangibili e comunque suscettibili di pregiudicare l’onore dell’altro.
La Consulta si mette al passo con i tempi disegnando la legittimità di un rapporto interpersonale
molto libero ed in linea con la molteplicità delle occasioni di incontro offerte dalla comunicazione
telematica.
Quest’atteggiamento di tolleranza non si spinge, però, a legittimare comportamenti che vadano al
di là del flirt, della “relazione di simpatia o di amoreggiamento leggero, superficiale, temporaneo e
avventuroso, caratterizzato da atteggiamenti sentimentali adottati senza un reale impegno o progetto” per usare la definizione di Wikipedia, visto il tema.
Se è vero, però, che il codice civile impone il principio generico di buona fede nell’esecuzione dei
contratti, a maggior ragione si può sostenere che tale obbligo esiste nel “contratto nuziale”: un
contratto che, più di qualunque altro, si caratterizza per l’esigenza di rapporti corretti e trasparenti,
al di là di ciò che può pregiudicare la reputazione o essere negativamente apprezzato “dall’occhio
sociale”.
Di là dagli ermellini di Piazza Cavour un giudice ben più severo, in definitiva, è l’unico capace di
giudicare la legittimità etica di certi comportamenti: la propria coscienza.
[1] Cass. sent. n. 11516 del 23.05.2014
[2] Cass.sent. n. 8929 del 12.04.2013.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
LA COMUNIONE DEI BENI
La separazione personale tra i coniugi determina lo scioglimento della comunione legale dei beni.
Questo effetto decorre, in caso di separazione consensuale, dall’omologazione del verbale di separazione; tra l’udienza presidenziale e il decreto di omologazione permane il regime di comunione legale.
Ciascuno dei coniugi può quindi liberamente disporre dei beni oggetto della comunione nei limiti
della quota, senza il consenso dell’altro.
La separazione di fatto tra i coniugi non ha l’effetto di sciogliere la comunione
Se i coniugi hanno scelto il regime della separazione dei beni al momento della celebrazione del
matrimonio (o successivamente), la loro separazione personale o il loro divorzio non hanno in linea di principio alcun effetto sui loro beni personali: essi restano nella proprietà o nella disponibilità del coniuge che li ha acquistati. Tuttavia per i beni acquistati durante il matrimonio bisogna distinguere tra beni mobili e immobili perché molti sono i problemi nati nella pratica dal fatto che i
coniugi non riescono a provare la proprietà del bene.
Come si sceglie il regime patrimoniale?
Il regime di comunione legale dei beni si applica in automatico all’atto del matrimonio, senza
bisogno di alcuna comunicazione da parte dei coniugi. Se questi, dunque, nulla dichiarano a riguardo del proprio regime patrimoniale, opera la comunione. Al contrario, per optare per la separazione dei beni è necessario effettuare apposita dichiarazione ricevuta dal notaio o ufficiale di
stato civile.
Dire che i coniugi sono “in comunione dei beni” significa approssimativamente che su tutti i beni
acquistati dopo la data del matrimonio, entrambi vantano la proprietà. Tuttavia, nella comunione
legale fra i coniugi, a differenza di quanto accade in quella ordinaria, non vi sono quote e non è
ammessa la partecipazione di soggetti terzi alla stessa.
In pratica i coniugi sono solidalmente titolari dei beni e dei diritti in comunione. Il singolo coniuge
non è titolare di una quota indivisa pari al 50% dei beni, ma è titolare di diritti unici e pieni sul bene.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Quali beni entrano nella comunione legale dei coniugi?
La comunione legale tra i coniugi non si estende a tutti i beni. Vi fanno parte i seguenti beni e diritti
(attività):
a- tutti i beni ed i diritti acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi durante il matrimonio (salvo quanto di seguito esposto per particolari casi). Quanto acquistato durante il matrimonio
rientra nella comunione anche se l’acquisto è effettuato con denaro proveniente dall’attività lavorativa di uno dei coniugi;
b- i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi;
c- i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi;
d- le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Tuttavia, mentre i beni indicati alle lettere a) e d) entrano direttamente in comunione (cosiddetta
comunione attuale), quelli indicati alle lettere b) e c) vi entrano solo eventualmente allo scioglimento della comunione (cosiddetta comunione residuale).
I beni che uno dei coniugi acquista non per atto negoziale ma per usucapione o accessione (acquisti a titolo originario) rientrano nella comunione legale a condizione che l’effetto dell’acquisto si
realizzi durante il matrimonio.
Quali beni non rientrano nella comunione legale dei coniugi?
Non rientrano nella comunione, e pertanto restano nella piena proprietà di ciascun singolo coniuge, i seguenti beni:
a- di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto
reale di godimento;
b- acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando
nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione;
c- di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori. Si tratta, ad esempio, del
vestiario e degli accessori, come anche dei beni utilizzati per gli interessi e svaghi personali (hobby).
Il valore del bene (anche rispetto alle condizioni economiche della famiglia) dovrebbe essere irrilevante al fine di valutare se un bene è personale o in comunione, rilevando solamente la finalità
dell’acquisto; tuttavia, l’acquisto di un bene di particolare valore potrebbe essere inteso come investimento piuttosto che per uso personale;
d- che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di
un’azienda facente parte della comunione. Per svolgimento di attività professionale deve intendersi sia l’attività professionale in senso stretto (quale quella del medico, dell’avvocato, dell’ingegnere
ecc.) che quella subordinata;
e- ottenuti a titolo di risarcimento danni nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale
della capacità lavorativa (per es. la pensione di invalidità);
f- acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
È possibile escludere singoli beni dalla comunione?
I coniugi che abbiano optato per il regime della comunione legale dei beni possono escludere dalla comunione medesima singoli beni acquistati dopo il matrimonio. Ciò è possibile per i beni immobili e per i beni mobili registrati (per es. auto). Per poter escludere l’altro coniuge dalla comproprietà del singolo bene è necessario che quest’ultimo partecipi all’atto di acquisto e da tale atto risulti espressamente l’esclusione con apposita dichiarazione.
Il coniuge non acquirente deve intervenire nell’atto di acquisto per dichiarare che l’acquisto è
escluso dalla comunione; in questo modo manifesta di essere a conoscenza di questo fatto.
In caso di acquisto di beni mobili, il coniuge può rendere la dichiarazione di aver acquistato con
ricavato di vendita di bene personale, senza particolare forma e anche oralmente ma è preferibile
che adotti la forma scritta per poterne dare prova in caso di necessità.
Se un coniuge vuole acquistare separatamente anche un solo bene che ordinariamente rientrerebbe nella comunione, deve stipulare con l’altro coniuge una convenzione matrimoniale derogatoria del regime di comunione. Non è invece sufficiente che indichi nell’atto che l’acquisto avviene
separatamente.
Si può vendere a terzi la propria comproprietà in comunione?
Il coniuge non può cedere a terzi la quota sulla massa dei beni comuni né, si ritiene, cedere unilateralmente la propria quota su singoli beni.
I terzi non possono espropriare la quota di comunione ma c’è comunque una responsabilità comune.
Che succede coi creditori se uno dei coniugi ha dei debiti?
Per i debiti del singolo coniuge risponde prima quest’ultimo coi suoi beni personali e, se questi non
sono sufficienti, anche i beni in comunione ma nella misura della metà del credito; per i debiti comuni risponde il patrimonio in comunione e, se questo non è sufficiente, i beni personali di ciascun
coniuge nella misura della metà del credito. Pertanto i creditori personali del coniuge possono aggredire, in via sussidiaria, i beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.
Per esempio: se Tizio, sposato con Caia, ha contratto un debito per l’acquisto della propria auto di
lavoro, i creditori devono prima tentare di aggredire i beni personali di Tizio e, non riuscendovi,
possono aggredire i beni in comunione (per es. la casa), ma nei limiti del 50%.
I debiti che ciascun coniuge ha contratto prima del matrimonio sono debiti personali del coniuge.
Sono debiti comuni quelli assunti nell’interesse della famiglia, indipendentemente dalla natura ordinaria o straordinaria della relativa operazione.
Per i debiti contratti congiuntamente dai coniugi essi rispondono dei debiti comuni in via principale
con i beni della comunione e, in via sussidiaria, con i propri beni personali.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Come avviene il pignoramento di un bene della comunione?
Nel momento in cui il creditore intende espropriare, per crediti personali di uno solo dei coniugi, un
bene della comunione, deve pignorare il bene per intero e non per la metà e deve fare trascrivere
il pignoramento contro entrambi i coniugi. All’atto della vendita o dell’assegnazione (a seconda del
tipo di esecuzione forzata intrapresa) si verifica lo scioglimento della comunione limitatamente al
bene pignorato e il coniuge non debitore ha diritto a ottenere la metà della somma lorda ricavata
dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione e pertanto il Giudice
assegna il ricavato della vendita, al lordo delle spese, per il 50% al coniuge non debitore.
Che succede se uno dei coniugi fallisce?
La sentenza che dichiara il fallimento di uno dei coniugi determina lo scioglimento della comunione legale con effetto dal deposito. Da tale momento i coniugi sono in separazione dei beni; i beni
che ricadevano nella comunione legale sono in comunione ordinaria fra i coniugi fino a quando
non procedano consensualmente o giudizialmente, alla divisione che può essere richiesta anche
dal curatore fallimentare.
Cos’è la comunione convenzionale?
In alternativa alla comunione legale e alla separazione dei beni, i coniugi possono scegliere il regime intermedio della comunione convenzionale; in assenza di scelta si applica la comunione legale.
Con la comunione convenzionale dei beni i coniugi disciplinano ogni singolo aspetto patrimoniale
dei loro rapporti; possono ad esempio convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità dei beni
acquistati durante il matrimonio ma tale convenzione riguarda sempre il regime complessivo e non
può essere limitata a beni specifici che sarebbero compresi nella comunione legale.
La comunione convenzionale si fonda essenzialmente su modifiche convenzionali al regime della
comunione legale, con l’ampliamento o il restringimento dei beni che ricadono in comunione e delle modalità di amministrazione.
La comunione convenzionale può coesistere con:
– un patto di famiglia;
– l’esistenza di un’impresa familiare.
LA SEPARAZIONE DEI BENI
Quando i coniugi vogliono conservare la titolarità esclusiva dei beni che acquisteranno durante il
matrimonio devono esplicitamente dichiarare nell’atto di matrimonio, o eventualmente anche in
una dichiarazione congiunta successiva, che optano per il regime della separazione dei beni.
Se i coniugi non formulano alcuna dichiarazione la legge prevede che in via automatica si applichi
il regime della comunione dei beni; in tal caso tutti beni che vengono acquistati da ciascuno di essi, durante il matrimonio, fanno parte della comunione, anche se non sono stati acquistati in comune, e non ne possono disporre autonomamente.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Se i coniugi optano per la separazione dei beni, ciascuno di loro ha invece il godimento e
l’amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo.
Se uno dei coniugi, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni esclusivi dell’altro o compie atti relativi a essi, risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti.
Se uno dei coniugi amministra i beni dell’altro in base a una procura e con l’obbligo di rendiconto sui frutti, è responsabile secondo le regole del mandato.
Se invece con la procura non è stato fissato l’obbligo di rendiconto dei frutti, a richiesta dell’altro
coniuge o allo scioglimento del matrimonio, deve consegnare i frutti esistenti e non risponde di
quelli consumati.
È possibile con l’accordo o con la non opposizione dell’altro coniuge l’amministrazione e il godimento congiunti del bene di cui uno solo di essi sia titolare esclusivo.
Se il coniuge gode dei beni dell’altro, è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario; deve
quindi usare l’ordinaria diligenza, non deve mutare la destinazione del bene e lo deve restituire
quando ne ha terminato l’uso.
Dei beni mobili in uso al nucleo familiare ciascuno dei coniugi può provare la proprietà esclusiva
con ogni mezzo; ma se nessuno di essi è in grado di dimostrare la propria titolarità esclusiva, il
bene si presume di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.
Per quanto riguarda invece i beni immobili, solitamente, questa regola non può valere, avvenendo l’acquisto anche con un’intestazione formale all’acquirente.
Se il coniuge non intestatario dell’immobile volesse invece dimostrare che l’intestazione è fittizia o
che il coniuge intestatario si sia prestato a un’interposizione reale, non potrebbe provarla con ogni
mezzo (ad esempio testimoni o giuramento). Dovrebbe semmai dimostrare che il coniuge si è obbligato a ritrasferire all’altro il bene acquistato: e questo obbligo deve risultare, a pena di nullità, da
atto scritto. Solo la dimostrazione di avere smarrito incolpevolmente tale atto può consentire il ricorso ad altri mezzi di prova.
I coniugi in regime di separazione dei beni rispondono ciascuno dei propri debiti con i rispettivi
creditori che possono quindi aggredire solo i beni di cui sono titolari esclusivi.
Ognuno di essi tuttavia mantiene l’obbligo di concorrere con le proprie sostanze, anche con quelle
di cui è titolare esclusivo, alle esigenze dell’altro coniuge e dei figli. In ragione di questo, quando
uno dei coniugi abbia assunto nei confronti di terzi delle obbligazioni nell’interesse della famiglia
l’altro coniuge, anche se in regime di separazione dei beni, può essere chiamato ad adempiere
solidalmente queste obbligazioni.
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COMUNIONE O SEPARAZIONE: COSA SCEGLIERE?
di Valentina Azzini
Quando ci si sposa è necessario dichiarare quale regime patrimoniale si intende scegliere per la
famiglia che, con il matrimonio appunto, si andrà a costituire.
Durante la celebrazione del matrimonio, civile o religioso, i coniugi sono tenuti a precisare se vogliono la separazione dei beni, mentre se tacciono scatta automaticamente la comunione dei beni.
Infatti il “regime legale”, ossia quello he la legge considera quale scelta “standard”, è quello della
comunione dei beni.
Scegliendo la comunione legale, tutti i beni acquistati dopo la data delle nozze sono di proprietà di
entrambi i coniugi in uguale misura, anche se sono stati acquistati solo da uno di essi.
In regime di comunione cadono però anche i debiti, che vengono quindi condivisi dai coniugi.
Restano estranei alla comunione solo determinati beni espressamente indicati dalla legge: ad
esempio l’eredità acquisita da uno dei coniugi, oppure i beni necessari per l’esercizio della professione.
Con il regime di separazione dei beni, invece, ciascun coniuge sarà titolare esclusivo del bene da
lui acquistato, anche se l’acquisto avviene durante il matrimonio e debiti di ciascun coniuge non
ricadranno anche sull’altro.
Contro
I problemi relativi alla comunione dei beni sono molteplici e sorgono soprattutto in caso di separazione:
– spesso, ad esempio, è difficile distinguere tra beni posseduti prima o acquistati dopo il matrimonio e provare quindi chi ne sia il solo proprietario;
– i soldi utilizzati per ristrutturazioni e migliorie degli immobili sono difficili da quantificare e dividere
in sede di separazione;
– è difficile provare che le donazioni fatte in modo non ufficiale, ad esempio dai genitori di uno dei
due coniugi, appartengono a questo soltanto;
– se il coniuge che esercita un’attività commerciale autonoma si è attribuito dei beni che non
c’entrano con l’attività, intestandoli alla ditta, questi anche se di fatto appartengono al patrimonio
comune, saranno riconosciuti soltanto al coniuge in questione;
– è difficile stabilire la proprietà di uno solo dei coniugi di alcuni beni personali, come i gioielli;
– se uno dei coniugi è titolare di un’impresa e fallisce o comunque matura debiti nei confronti di
fornitori e dipendenti, i creditori potranno pignorare i beni, anche se per metà di proprietà dell’altro
coniuge, che con quei debiti non ha nulla a che fare.
Pro
I vantaggi della separazione dei beni sono invece molteplici e immediati:
– la separazione conviene quando uno dei due coniugi ha già usufruito degli sconti sulle imposte
prima casa e vuole mantenere l’immobile; se in questo caso la famiglia vuole acquistare un altro
immobile, si potrà ugualmente usufruire dell’imposta agevolata di registro al 3% o dell’Iva al 4%;
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
– se uno dei due coniugi esercita un’impresa commerciale, la separazione dei beni conviene perché, in caso di fallimento, si salvano comunque i beni posseduti dall’altro coniuge, che non vengono così coinvolti nel fallimento stesso;
– se uno dei due coniugi ha dei figli da un altro matrimonio, la separazione dei beni col nuovo matrimonio, eviterà al coniuge rimasto in vita, alla morte dell’altro, di litigare con i figli dell’altro per
l’eredità.
È comunque sempre possibile modificare il regime patrimoniale scelto al momento delle nozze,
ma questo si potrà fare solo con l’assistenza di un Notaio, con i costi che ciò comporta.
[1] Artt. 177 e 178 cod. civ.
[2] Art. 191 cod. civ.
Il FONDO PATRIMONIALE
Cos’è
La coppia sposata, anche in regime di separazione dei beni, può istituire un fondo patrimoniale su
beni mobili o immobili (per come meglio vedremo a breve): col fondo patrimoniale non si vende,
né si dona il bene, ma lo si “mette al riparo”, entro determinati limiti, dalle aggressioni dei creditori, pur rimanendo detto bene nella titolarità del precedente intestatario (se la coppia è in regime
di comunione, il bene rimane al 50% di entrambi). Per questo, nell’ambito dei mezzi di tutela del
patrimonio, il fondo è certamente preferibile rispetto alla donazione o alla vendita: il bene, infatti,
non esce fuori dalla disponibilità del proprietario.
Dunque il fondo patrimoniale può considerarsi come un patrimonio di destinazione, separato dai
beni dei singoli coniugi, ossia un fondo costituito con determinati beni per far fronte esclusivamente ai bisogni della famiglia. In particolare, i beni del fondo sono funzionali al soddisfacimento degli
obblighi di assistenza reciproca e di mantenimento, educazione e istruzione dei figli: per realizzare
tale finalità il codice civile stabilisce che nessun creditore può pignorare i beni immessi nel fondo
patrimoniale. Con una sola eccezione: se la spesa che ha dato origine al debito è conseguenza di
uno dei bisogni della famiglia, il relativo creditore potrà pignorare il fondo patrimoniale. Tanto per
fare un esempio: poiché gli oneri condominiali sono una spesa inerente a un bene essenziale per
la famiglia – la casa – il condominio potrà pignorare l’immobile inserito nel fondo patrimoniale; così
le spese di istruzione per i figli, le tasse sull’abitazione, ecc.
Chi può costituire il fondo patrimoniale?
Possono costituire il fondo patrimoniale:
– ciascuno o entrambi i coniugi sposati;
– un terzo.
Non può costituire il fondo la coppia di conviventi.
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Quali beni possono essere inseriti nel fondo patrimoniale?
Sono oggetto di fondo patrimoniale i beni immobili, i mobili iscritti in pubblici registri e i titoli di credito. Non possono essere oggetto del fondo, invece, l’azienda e i beni futuri.
Nel fondo patrimoniale può essere conferito il diritto di proprietà sui beni immobili, sui mobili iscritti
in pubblici registri e sui titoli di credito; dubbi sussistono sull’attribuzione di altri diritti reali limitati
(uso, abitazione, servitù, enfiteusi, usufrutto ecc.).
Come si costituisce il fondo patrimoniale?
Se costituito da uno o da entrambi i coniugi, è necessario l‘atto pubblico con la presenza irrinunciabile dei testimoni; se costituito da un terzo, è necessario l’atto pubblico oppure il testamento (in
tutte le sue forme: dunque, non necessariamente il solo testamento pubblico, ma anche l’olografo,
il segreto o i testamenti speciali).
La costituzione del fondo patrimoniale per atto tra vivi, effettuata dal terzo, si perfeziona con
l’accettazione dei coniugi. L’accettazione può essere fatta anche con atto pubblico posteriore.
In quanto convenzione matrimoniale, il contratto costitutivo del fondo patrimoniale deve essere
annotato a margine dell’atto di matrimonio, con l’indicazione della data del contratto, del notaio
rogante, delle generalità dei contraenti. Inoltre:
– qualora si tratti di beni immobili o beni mobili registrati, l’atto va trascritto nei pubblici registri. Tuttavia, l’opponibilità del fondo ai creditori opera a partire dalla semplice annotazione dell’atto a
margine dell’atto di matrimonio, non rilevando a tal fine la trascrizione. Se l’annotazione della convenzione all’atto di matrimonio è successiva all’iscrizione ipotecaria o al pignoramento il fondo patrimoniale non è opponibile al creditore procedente. Allo stesso risultato si perviene quando il pignoramento sia successivo all’annotazione, ma l’ipoteca sia stata iscritta in precedenza, in quanto
con l’iscrizione sorge immediatamente per il creditore il potere di espropriare il bene con prevalenza rispetto ai vincoli successivi;
– qualora si tratti di titoli di credito, essi devono essere vincolati rendendoli nominativi (ciò è necessario, ovviamente, qualora non lo siano già, ma abbiano la forme dei titoli all’ordine o al portatore); inoltre, si deve procedere all’annotazione del vincolo sul titolo stesso e nel registro
dell’emittente.
L’azione revocatoria
Il fondo patrimoniale – così come ogni altro atto di disposizione dei propri beni (v. donazione, vendita, trust, ecc.) – può essere oggetto di revocatoria da parte dei creditori: in pratica, entro 5 anni
dalla data di costituzione del fondo, ogni creditore che riesca a dimostrare che il debitore ha agito,
istituendo il fondo, al solo scopo di frodare le ragioni dei creditori, può far sì che il fondo stesso
venga (nei suoi confronti) dichiarato inefficace. Con la conseguenza che i relativi beni ivi inseriti
saranno pignorabili.
Tale azione revocatoria viene concessa a tutti i creditori per debiti anteriori alla costituzione del
fondo (e non per quelli successivi). Inoltre, la possibilità della revocatoria vale per qualsiasi tipo di
creditore e non solo per quelli nati da spese per esigenze della famiglia.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
La prova che il fondo è stato creato solo per frodare le garanzie dei creditori si dà semplicemente
dimostrando che il debitore non ha altri beni, di pari o superiore valore, sui quali il creditore può
agire con l’esecuzione forzata.
Limite alla costituzione del fondo
La costituzione ad opera di uno solo dei coniugi o di un terzo è soggetta, in caso di successione,
ad azione di riduzione della legittima, qualora leda la quota dei legittimari del costituente; allo
stesso modo, la costituzione di fondo patrimoniale non può essere imposta a un legittimario.
Con una recente riforma, è stato previsto che la pignorabilità dei beni inseriti nel fondo patrimoniale non richiede la previa azione revocatoria se il creditore, purché sorto prima della costituzione del fondo stesso, abbia trascritto il proprio atto di pignoramento entro 1 anno dalla trascrizione del fondo nei pubblici registri. In pratica, il regime di opponibilità del fondo patrimoniale può
essere così sintetizzato:
– entro 1 anno dalla costituzione del fondo, è sempre possibile il pignoramento dei beni del fondo,
da parte dei creditori, a condizione che questi abbiano trascritto, nell’anno successivo alla costituzione del fondo medesimo, il proprio atto di pignoramento;
– superato l’anno, e per i successivi 4 anni (per un totale di 5 anni dalla data di costituzione del
fondo), è sempre possibile l’azione revocatoria.
Modificabilità della composizione del fondo
È consentito l’ampliamento del novero dei beni oggetto del fondo patrimoniale, adottando le stesse modalità di forma con le quali si è costituito il fondo (l’atto pubblico con la presenza irrinunciabile dei testimoni, se costituito da uno o entrambi i coniugi; l’atto pubblico o il testamento in tutte le
sue forme, se costituito da un terzo); si ritiene consentita anche la riduzione dei beni oggetto di
fondo patrimoniale, purché non vi siano figli minori.
Dunque, non per tutti i creditori vale la regola del divieto di pignoramento dei beni immessi nel
fondo patrimoniale, ma solo per quelli contratti per esigenze differenti dai bisogni familiari.
Di recente la Cassazione ha allargato notevolmente il concetto di “spese per i bisogni della
famiglia” ricomprendendovi anche i debiti dell’attività lavorativa di uno dei due coniugi quando è
con essa che il nucleo familiare si mantiene. Si comprende, così, che la funzione di tutela del fondo si sta gradualmente sgretolando.
A chi spetta la titolarità dei beni sul fondo?
La proprietà dei beni del fondo spetta a entrambi i coniugi, salvo che nell’atto di costituzione sia
diversamente stabilito.
L’amministrazione dei beni del fondo, a prescindere dalla titolarità (congiunta o di uno solo dei coniugi) è regolata dalle norme sulla comunione legale (art. 168, comma 3, c.c.). Pertanto:
– gli atti di ordinaria amministrazione e la rappresentanza in giudizio spettano disgiuntamente a
entrambi i coniugi;
– gli atti di straordinaria amministrazione, se non è stato diversamente disposto nell’atto di costituzione, devono essere compiuti congiuntamente da entrambi i coniugi;
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– in tale ultima ipotesi, però, se vi sono figli minori, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale senza l’autorizzazione del giudice che può
rilasciarla nei soli casi di necessità o di utilità evidente.
I frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia.
Si può vendere un bene inserito nel fondo patrimoniale?
Salvo che sia stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, i beni del fondo patrimoniale possono essere alienati, ipotecati, dati in pegno o comunque essere vincolati solo con il consenso di entrambi i coniugi e in presenza di figli minorenni con l’autorizzazione concessa dal giudice nei soli casi di necessità od utilità evidente.
Il provvedimento autorizzativo viene emesso dal giudice in camera di consiglio.
Limiti al pignoramento dei beni nel fondo patrimoniale
Come detto in precedenza, sui beni del fondo e sui frutti di essi potranno agire in via esecutiva,
con un pignoramento, solo i soggetti il cui diritto di credito sia sorto per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia e i soggetti il cui credito sia stato contratto per scopi estranei al soddisfacimento della famiglia, ma che in buona fede ignorino tale circostanza. Ciò vale sia se il creditore è sorto
prima che dopo la costituzione del fondo.
L’esecuzione sui beni e sui frutti degli stessi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. L’onere di provare
l’estraneità del credito ai bisogni familiari e la consapevolezza del creditore grava sui coniugi.
Separazione e divorzio: quali effetti sul fondo?
Il fondo cessa di esistere con l’annullamento del matrimonio o il divorzio sempre a condizione
che non ci siano figli minorenni; se invece ve ne sono, il fondo cessa con il raggiungimento, da
parte loro, della maggiore età.
Non determinano, invece, lo scioglimento del fondo la separazione giudiziale dei beni o la separazione personale dei coniugi o il fallimento di uno di essi (peraltro, in tale ultima ipotesi, il fondo patrimoniale è acquisito alla massa fallimentare per soddisfare i soli creditori che avrebbero diritto di
agire su tali).
Quando a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del
matrimonio il fondo si scioglie, venuti a maggiore età tutti i figli, il giudice – considerate le condizioni economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza – può attribuire ai figli medesimi,
in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo.
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FONDO PATRIMONIALE E DIVORZIO: un vincolo a tempo indeterminato?
di Vincenzo Rizza
La progressiva perdita di importanza dell’istituto del Fondo patrimoniale aggravata dalla possibilità
di pignoramento entro l’anno dalla sua costituzione, discende anche da alcune caratteristiche che
consigliano estrema prudenza prima di costituirlo.
È stata già introdotta dal Governo la norma che prevede la pignorabilità del bene facente parte del
Fondo patrimoniale entro un anno dalla sua costituzione [1]. Ciò significa che il creditore non avrà
bisogno di instaurare una causa per dimostrare che la costituzione del Fondo era stata adottata
quale misura per proteggere un bene – normalmente la casa coniugale – da eventuali procedure
esecutive. Chi ha un credito potrà agire sul bene direttamente senza dover prima passare da un
Tribunale se l’azione viene iniziata entro l’anno dalla stipula presso il notaio del relativo atto pubblico.
La nostra legislazione tende oramai a togliere significato ad un istituto che era stato introdotto
nell’ordinamento insieme alla riforma del diritto di famiglia intervenuta nel 1975 [2] e che aveva
previsto, tra l’altro, il regime legale della comunione dei beni se i coniugi non avevano optato al
momento del matrimonio, o successivamente, per quello della separazione dei beni.
Vi erano già, però, alcune controindicazioni all’utilizzo di questo istituto che, spesso, non vengono
sufficientemente valutate prima di istituire il Fondo patrimoniale e che, successivamente, possono
portare i coniugi a pentirsi di aver stipulato questo tipo di atto, apparentemente di grande utilità per
proteggere alcuni beni nel caso in cui gli affari di uno degli interessati avessero cominciato ad andar male.
Una delle conseguenze più gravose – a parte il pesante vincolo che costringe ad andare dal Giudice per modificarlo qualora se ne ravvisi la necessità – previste dal Codice Civile riguarda il caso
dell’esistenza di figli minori.
Il Codice [3] che regola l’ipotesi della sua cessazione, stabilisce che il Fondo patrimoniale si estingue in seguito all’annullamento del matrimonio, dello scioglimento o della cessazione degli effetti
civili del matrimonio. E se questa potrebbe sembrare una conseguenza logica del venir meno dello
scopo dell’istituto, che è quello di destinare dei beni ai bisogni della famiglia, molti non fanno in
genere caso ad un altro effetto, anch’esso previsto dal medesimo articolo nel secondo comma: se
vi sono figli minori, il vincolo dura fino a che essi non hanno raggiunto la maggiore età.
Non è raro il caso di coniugi divorziati che, sebbene abbiano sciolto definitivamente il loro matrimonio con il divorzio, si trovano legati al vincolo costituito quando le cose andavano bene, per
molti anni ancora dopo aver cessato qualunque rapporto. Se vi sono più figli, occorre che tutti abbiano raggiunto la maggiore età. E questo potrebbe ancora non bastare!
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Intanto occorre dire che per modificare la struttura del Fondo patrimoniale occorrerà rivolgersi al
Tribunale dei Minorenni e questo implica già un procedimento complesso e costoso, nel quale è
necessario rivolgersi ad un avvocato. Secondo molti studiosi ed anche per alcuni Tribunali, inoltre,
il Fondo perdura anche oltre la maggiore età dei figli, se essi non hanno raggiunto l’autosufficienza
economica. La stessa disciplina applicata in materia di alimenti: i genitori, infatti, possono essere
obbligati a corrisponderli anche dopo i diciotto anni, se i figli non hanno raggiunto l’indipendenza
economica.
Si tratta di situazioni nelle quali, in definitiva, i coniugi si troveranno per molti anni a non poter disporre del bene, sebbene il matrimonio sia cessato da tempo.
E se questo è già un effetto della legislazione esistente, non è da escludere che ulteriori interventi
possano ulteriormente peggiorarla.
Attenzione, dunque: il rimedio potrebbe essere peggiore del male!
[1] L. 17/05/1975 n.151
[2] Decreto legge n. 83/2015 del 27.06.2015
[3] Art. 171 cod. civ.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
GLI EFFETTI ECONOMICI DELLA SEPARAZIONE E DEL DIVORZIO
L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO E DIVORZILE PER IL CONIUGE
di Maria Elena Casarano
Spesso la parola “mantenimento” è usata per riferirsi a situazioni diverse.
Una cosa è, infatti, l’assegno di mantenimento, una cosa quello divorzile e altra cosa ancora sono
gli alimenti. Pur avendo, infatti, tutti questi benefici una funzione assistenziale del coniuge, essi
hanno, tuttavia, alla base diversi presupposti. Cerchiamo allora di fare chiarezza.
L’assegno di mantenimento
L’assegno di mantenimento [1] è un importo periodico dovuto da un coniuge all’altro dopo la separazione e trova la sua fonte nel reciproco dovere di solidarietà tra marito e moglie previsto dalla
legge [2]. Esso è legato al fatto che la separazione non fa cessare il vincolo del matrimonio ma lo
sospende semplicemente.
Tale assegno vuole permettere al coniuge (che non abbia mezzi sufficienti per sostenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio) di adeguarsi alle nuove condizioni di vita derivanti dalla disgregazione del nucleo familiare.
Dunque, la legge non si riferisce allo stato di bisogno del soggetto più debole bensì alla insufficienza di risorse economiche idonee ad assicurargli la conservazione del tenore della vita coniugale e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stessa.
Ove, invece, il coniuge versi in uno stato di bisogno vero e proprio, egli potrà richiedere all’altro
di versargli gli alimenti, ossia quell’importo necessario a far fronte ai bisogni di vita primari. Gli
alimenti possono essere chiesti da chiunque anche al di fuori del giudizio di separazione e divorzio, a prescindere dall’eventuale sentenza di addebito e indipendentemente dall’età del richiedente (ne abbiamo parlato in questo articolo: “Stato di bisogno di familiari anziani: alimenti, come e da
chi ottenerli”).
L’assegno divorzile, ossia quello dovuto da uno dei coniugi dopo il divorzio, si basa, sulla definitiva
chiusura di ogni legame tra le parti.
Per tale motivo, pur essendo anch’esso finalizzato a consentire la conservazione del tenore di vita
goduto durante la vita matrimoniale, ai fini del suo riconoscimento la legge richiede la sussistenza
di requisiti più severi (vedi dopo): non basta, dunque, la mancanza di adeguati redditi, ma occorre
anche che si trovi nella oggettiva impossibilità di procurarseli.
Ciascuno di questi benefici, vanno espressamente richiesti in giudizio sicché il giudice (a differenza di quanto avviene per l’assegno di mantenimento per i figli) non potrebbe disporli se non gli sia
stata fatta esplicita istanza tal senso.
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Quali sono i requisiti per aver diritto all’assegno di mantenimento?
In caso di separazione dei coniugi, la legge [1], ai fini del riconoscimento dell’assegno, fa riferimento a due precise condizioni.
Quella che l’eventuale beneficiario:
– non abbia ricevuto una pronuncia di addebito a seguito del giudizio di separazione (cioè che il
giudice non l’abbia ritenuto responsabile del fallimento del matrimonio) per aver tenuto una condotta contraria ai doveri coniugali;
– non disponga di “adeguati redditi propri“.
Attenzione però: disponendo l’obbligo di versamento dell’assegno, il giudice deve cercare di riequilibrare le posizioni economiche dei coniugi, permettendo ad entrambi i coniugi (e non solo a
quello più debole) di mantenere il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio, se compatibile con l’attuale reddito complessivamente disponibile oppure (ove ciò non sia concretizzabile)
consentire un tenore di vita che si avvicini il più possibile a questo.
Cosa deve valutare il giudice?
Con tale obiettivo, il giudice dovrà valutare, anche avvalendosi dell’ausilio di un consulente tecnico, “le circostanze e i redditi dell’obbligato”, accertando:
– quale sia stato il tenore di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio e se i mezzi economici di
cui dispone il richiedente gli permettano di conservarlo anche in assenza dell’assegno;
– la sussistenza o meno di una disparità economica tra le parti attraverso l’analisi dei redditi derivanti dall’attività lavorativa anche, cosiddetta “in nero” di ciascuna (in caso di disoccupazione del
richiedente, l’attitudine a svolgerla tenuto conto dell’età, della salute e dell’eventuale esperienza
lavorativa acquisita), il possesso di titoli, depositi e conti correnti;
– ogni utilità, diversa dal denaro, valutabile in termini economici: si pensi alla titolarità di immobili
che producono reddito, all’assegnazione della casa coniugale (utilità valutabile in misura pari al risparmio della spesa necessaria per godere dello stesso immobile a titolo di locazione), ecc.;
– le spese gravanti su ciascuno dopo la separazione, ad esempio il mutuo sulla casa coniugale, il
canone di locazione o il mutuo su una nuova casa, la presenza di figli nati da un’altra relazione, le
spese sanitarie ove vi sia una malattia cronica, ecc.
Stabilendo la misura dell’assegno, il giudice – come dicevamo – dovrà cercare di riequilibrare
l’eventuale disparità economica delle parti: l’attribuzione dell’assegno al coniuge economicamente
più debole non dovrà, infatti, provocare effetti analoghi sull’altro.
Si comprende bene, allora, come tale compito non sia certamente facile anche tenuto conto che,
di norma, l’elemento in maggiore discussione nelle cause di separazione è costituito proprio dalla
verifica del reale patrimonio e reddito di marito e moglie.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Pertanto il magistrato dovrà:
– in un primo momento (ai fini della pronuncia dei provvedimenti provvisori pronunciati alla prima
udienza presidenziale) svolgere una cognizione sommaria della documentazione depositata dalle
parti
– e, di seguito, nel corso della causa, valutare ogni prova documentale e testimoniale che lo conduca alla stima non solo del pregresso tenore di vita dei coniugi, ma anche della loro attuale ed effettiva condizione economica, anche avvalendosi dell’ausilio della polizia tributaria. Tale indagine
potrà anche portare a smentire le risultanze documentali inizialmente prodotte.
Assegno di divorzio: i requisiti per il riconoscimento
Come dicevamo in premessa, ai fini del riconoscimento di tale assegno, poiché col divorzio il legame coniugale si scioglie in modo definitivo, la legge richiede dei requisiti più severi.
Non è sufficiente, infatti, che l’ex coniuge non abbia mezzi adeguati, ma occorre anche che non
possa procurarseli per ragioni oggettive.
A riguardo, si registra negli ultimi tempi una maggior rigidità da parte dei giudici i quali non solo
sembrano circoscrivere il riconoscimento dell’assegno ai casi di comprovata impossibilità a
procurarsi un reddito da parte del coniuge più debole, ma anche riguardo alla prova che questi
dovrà fornire a riguardo.
Non basta, insomma, domandare l’assegno dichiarandosi, ad esempio, casalinga; bisognerà, invece, dimostrare in giudizio la propria effettiva incapacità economica: prova tanto più difficile quanto più giovane sia l’età di chi richiede l’assegno e quanto minori siano stati gli anni di matrimonio
(di tanto abbiamo parlato, di recente nell’articolo: “Divorzio: addio mantenimento della moglie”).
Cosa deve valutare il giudice?
La legge sul divorzio [3] elenca in modo più dettagliato i requisiti (corrispondenti alle “circostanze”
e ai “redditi” di cui all’assegno di mantenimento) dei quali il giudice deve tener conto ai fini del riconoscimento e della quantificazione dell’assegno divorzile. Essi, tuttavia, non costituiscono un
elenco tassativo, potendo il magistrato valutarne solo alcuni.
Si tratta in particolare:
– della durata del matrimonio: la brevità dell’unione rende più debole il vincolo familiare da cui
scaturisce l’obbligo di versare l’assegno; in altre parole, un matrimonio durato poco non può costituire una sorta di “assicurazione a vita” per il coniuge più debole, il quale potrà sì aspettarsi di ricevere un assegno dall’ex ma certamente di importo ridotto rispetto a quanto previsto. Tra l’altro,
la Cassazione ha chiarito [4] che il diritto all’assegno viene meno nei casi in cui il matrimonio sia
stato celebrato solo formalmente senza poi dar vita ad alcuna comunione materiale e spirituale tra
i coniugi per volontà e colpa del coniuge che richiede l’assegno;
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– del contributo personale fornito alla vita famiglia durante il matrimonio: si pensi alla donna
che pur non avendo mai lavorato abbia comunque consentito per anni al marito un notevole risparmio in quanto si sia sempre occupata della cura della casa e dei figli [5]. Tale contributo deve
essere stato effettivo e non potrebbe certamente ritenersi sussistente nel caso in cui la donna, pur
essendo sempre rimasta in casa, si sia abitualmente avvalsa dell’aiuto di colf e di baby sitter, pesando parimenti sul bilancio familiare;
– del contributo economico fornito alla conduzione familiare durante il matrimonio: in tal caso il
giudice dovrà più che altro fare riferimento alle risultanze emerse a riguardo nel giudizio di separazione;
– delle condizioni dei coniugi, ossia della loro attuale situazione patrimoniale e personale (e i
suoi riflessi sul piano economico): si pensi all’instaurazione di una nuova famiglia da parte del coniuge che dovrebbe versare l’assegno oppure al subentro di gravi problemi di salute che riducono
la capacità lavorativa di uno dei due;
– delle ragioni della decisione, cioè dei comportamenti, anche processuali, che hanno portato alla definitiva conclusione del rapporto coniugale: si tratta comunque di un criterio che di norma viene ritenuto marginale nei giudizi di divorzio in quanto, di solito, in tale sede non trovano ingresso
prove attinenti alle cause del fallimento del matrimonio. Fa eccezione il caso in cui vi sia stato divorzio immediato senza separazione, come, ad esempio, quando il matrimonio non è stato consumato.
L’assegno di divorzio deve uniformarsi a quello di separazione?
A volte accade che in sede di divorzio, venga confermato al coniuge richiedente un assegno divorzile di misura pari a quello di mantenimento riconosciuto con la sentenza di separazione.
Ciò non deve rappresentare una regola generale, per quanto accada non di rado che l’assegno di
mantenimento sia preso dal magistrato a parametro di quello divorzile.
In realtà, come chiarito dalla Suprema corte [6], la diversa natura dei due assegni fa sì che il giudice non possa riconoscere l’assegno di divorzio motivandolo solo in base alla condizione economica dei coniugi al momento della separazione, ma richiede la necessaria valutazione delle attuali
condizioni attuali dei coniugi, accertando se il coniuge più debole si trovi nella impossibilità oggettiva di procurarsi mezzi adeguati al proprio sostentamento.
Potrebbe ben darsi, quindi, che l’assegno divorzile abbia un importo diverso (maggiore o minore)
rispetto a quello di mantenimento o anche che il giudice ritenga che siano venuti meno i presupposti per il suo riconoscimento.
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Esistono dei modi per calcolare l’assegno?
Non esistono dei criteri matematici che consentono il calcolo esatto dell’assegno e, pertanto, il
giudice dispone di una certa discrezionalità a riguardo: come abbiamo visto, infatti, sono molti i
fattori che il giudice deve valutare ai fini del riconoscimento del beneficio e, soprattutto, dipendono
da molteplici variabili.
In ogni caso, alcuni specifici studi hanno permesso la realizzazione di tabelle utilizzate in molti tribunali che fanno riferimento a uno specifico modello di calcolo (cosiddetto MoCAM: Modello
Calcolo Assegno Mantenimento) che, attraverso un software, consente di calcolare l’ammontare
dell’assegno sia per il coniuge (nei casi di separazione e divorzio) che per i figli (anche nel caso di
rottura di una unione di fatto).
Il coniuge può rinunciare all’assegno?
In generale la rinuncia all’assegno è sempre possibile, purché riferita solo all’assegno di mantenimento personale e non a quello per i figli e d’altronde, come dicevamo, il giudice può disporlo solo
se vi sia una espressa richiesta in tal senso.
Rimane fermo il fatto che tale rinuncia vale con riferimento alle condizioni di autosufficienza esistenti al momento della separazione e non preclude in assoluto che ove esse mutino (si pensi ad
un problema di salute che non permetta al soggetto di poter lavorare) il coniuge possa chiedere al
giudice che l’assegno gli venga versato.
L’assegno può essere modificato?
Ciascuno dei coniugi può sempre chiedere, anche indipendentemente dall’altro, la modifica (nel
senso di un aumento, di una riduzione o anche di una revoca) dell’assegno. Tale richiesta deve
comunque essere motivata e basarsi su una circostanza che abbia modificato i presupposti della
precedente provvedimento (si pensi al caso di perdita del posto di lavoro o alla nascita di un figlio).
Quando si perde il diritto all’assegno?
Il diritto all’assegno (a seconda dei casi, di mantenimento o divorzile) viene meno:
– se l’avente diritto subisce l’addebito della separazione per aver assunto dei comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio (fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia). In tal caso, rimane fermo il diritto ad ottenere dal coniuge
gli alimenti qualora versi in stato di bisogno;
– in caso di mutamento delle condizioni di reddito richieste dalla legge per averne diritto e tali
da consentire al coniuge beneficiario dell’assegno di mantenere un tenore di vita analogo a quello
avuto durante il matrimonio;
– se dopo la separazione, interviene la riconciliazione dei coniugi; attenzione però: in tal caso
non sarebbe sufficiente provare che i coniugi abbiano continuato a convivere anche dopo che il
giudice li ha autorizzati a vivere separatamente;
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– se, ottenuto il divorzio, l’avente diritto contrae nuovo matrimonio, in quanto in tale ipotesi i doveri di assistenza e solidarietà coniugale si trasferiscono sul nuovo coniuge: peraltro, poiché le
nuove nozze non costituiscono una circostanza soggetta a valutazione discrezionale (in quanto rilevabili da semplice indagine anagrafica), il coniuge obbligato potrà cessare di versare l’assegno
senza rivolgersi al giudice per ottenere la revoca della pronuncia che lo disponeva [7];
– se il beneficiario dell’assegno intraprenda una nuova convivenza, indipendentemente dal fatto
che in seguito la relazione possa rompersi: come, infatti, chiarito di recente dalla Cassazione [8] la
formazione di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato determina la perdita definitiva dell’assegno divorzile in quanto “una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale,
libera e consapevole da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli, dovrebbe essere necessariamente caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle
vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del
rapporto tra conviventi”.
In tal caso, tuttavia, la cessazione del diritto non è automatica, ma il coniuge interessato a non
versare più l’assegno dovrà sottoporre la sua istanza di revoca alla valutazione del giudice, provando le circostanze della stabilità della nuova relazione intrapresa dall’ex;
– in caso di morte del coniuge obbligato al versamento.
In tale ipotesi, il beneficiario dell’assegno ha diritto ad altre forme di tutela economica sia sul piano
previdenziale che successorio, come ad esempio la pensione di reversibilità e l’assegno a carico
dell’eredità.
La prescrizione degli assegni
Assegno di mantenimento
Il diritto al pagamento dell’assegno di mantenimento ha ad oggetto prestazioni autonome, distinte
e periodiche da pagare in termini inferiori all’anno per cui il termine di prescrizione è di 5 anni decorrenti dalle singole scadenze di pagamento [1].
Tale infatti è la disciplina prevista dal codice civile [2] secondo cui si prescrive in cinque anni (…)
in generale tutto ciò che deve pagarsi periodicamente entro un anno o in termini più brevi.
Il termine riguarda le singole rate e inizia a decorrere dalle singole scadenze di pagamento delle
prestazioni dovute, in relazione alle quali sorge di volta in volta il diritto all’adempimento. Dunque
la prescrizione non decorre dalla data della pronuncia della sentenza di separazione [3].
La prescrizione diventa però di 10 anni se, tra le parti, sorge contestazione sull’obbligo di corrispondere uno o più mensilità e se sull’esistenza di tale obbligo si va davanti al giudice: il magistrato, infatti, accerta l’obbligo di pagare la somma con sentenza che, una volta divenuta definitiva,
garantisce un diritto di durata decennale. In tali casi, infatti, si applica il termine di prescrizione delle sentenze e di tutti i provvedimenti del giudice che è di dieci anni.
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La prescrizione dell’assegno divorzile
Le stesse regole viste per la prescrizione dell’assegno di mantenimento valgono per quello divorzile. Il credito relativo al pagamento dell’assegno dei figli e del coniuge ha ad oggetto prestazioni
periodiche da pagare in termini inferiori all’anno per cui il termine di prescrizione è di 5 anni decorrenti dalle singole scadenze di pagamento.
La prescrizione decennale si applica solo se sorge contestazione sull’obbligo di corrispondere uno
o più ratei e se sull’esistenza di tale obbligo intervenga l’accertamento giudiziale sul quale si formi
il giudicato.
[1] Cass. sent. n. 13414/2010.
[2] Art. 2948 n. 4 cod. civ.
[3] Cass. sent. n. 7981/2014, n. 6975/2005.
LA RIVALUTAZIONE DEGLI ASSEGNI
di Maria Elena Casarano
La rivalutazione Istat rappresenta un meccanismo di aggiornamento dell’importo (indicato in sentenza) relativo al mantenimento in favore del coniuge e/o della prole.
L’aggiornamento Istat costituisce un vero e proprio obbligo stabilito dalla legge [1] sul divorzio, ma
che – per via analogica – viene esteso anche alla separazione.
Che funzione svolge?
La rivalutazione dell’assegno di mantenimento ha il duplice scopo:
– di adeguare l’importo dovuto al coniuge a un parametro che tiene conto del costo medio della vita, ossia del prezzo medio di un dato genere di beni (come pane, latte, eccetera) di solito rappresentativi del consumatore medio;
– di conservare il potere d’acquisto dell’assegno (ad esempio: se oggi con un euro si può acquistare un litro di latte fresco, il prossimo anno occorrerà un euro e dieci centesimi per lo stesso acquisto).
È consigliabile, perciò, adeguare in modo periodico la somma indicata in sentenza per non trovarsi, poi, a dover versare un importo che potrebbe risultare gravoso e inaspettato.
Quando va fatta la rivalutazione?
L’adeguamento deve essere fatto ogni anno a partire dal mese indicato dal provvedimento di separazione, di divorzio o modifica delle condizioni economiche di uno o dell’altra.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Come si effettua il calcolo
Per calcolare la rivalutazione dell’importo dovuto al coniuge, la legge prende come riferimento il
parametro FOI, ossia l’indice dei prezzi al consumo per Famiglie di Operai e Impiegati [2] al netto
dei consumi dei tabacchi.
Sono reperibili su internet molti programmi abilitati al calcolo automatico della rivalutazione; uno
dei più semplici è http://www.rivaluta.it/assegno-di-mantenimento.htm che è pubblicato dall’Istat;
si tratta di un servizio gratuito online per il calcolo delle variazioni percentuali tra gli indici maggiormente utilizzati per i fini previsti dalla legge.
Sarà sufficiente inserire rispettivamente le date della consegna del primo assegno di mantenimento e quella per la quale si vuole ottenere la rivalutazione e richiedere il calcolo al programma. Si
otterrà, così, l’importo dovuto, comprensivo di rivalutazione. Tale importo costituirà la base per
calcolare la rivalutazione dell’anno successivo.
Che succede se l’obbligato non versa la somma rivalutata?
A quest’obbligo, spesso, il coniuge tenuto a versare il mantenimento non dà la necessaria importanza, spesso limitandosi a versare all’ex solo l’importo indicato nel provvedimento di separazione
o divorzio.
Si tratta di un grave errore. Il mancato versamento, infatti, della somma dovuta all’ex a titolo di rivalutazione dà diritto a quest’ultimo di rivolgersi a un avvocato per richiedere gli arretrati e gli interessi maturati sulle somme non versate nei cinque anni precedenti. Il termine di prescrizione può
essere interrotto (ricominciando a decorrere per altri cinque anni o per il periodo di legge) con una
semplice raccomandata a. r. in cui si chiede il pagamento ed – eventualmente – si specifica in
modo espresso che si interrompe la prescrizione.
Nello specifico, il beneficiario dell’assegno potrà:
– prima rivolgere all’ex una formale diffida ad adempiere entro un determinato termine (di solito 10
giorni), indicando l’esatto calcolo degli importi maturati;
– di seguito, nell’ipotesi di mancato riscontro, potrà procedere (tramite un legale) alla notifica di un
atto di precetto, senza che occorra una preventiva domanda al giudice finalizzata a stabilire
l’ammontare della somma rivalutata;
– infine, in caso di mancato pagamento, potrà dar luogo ad una procedura espropriativa (cioè
espropriando beni mobili o immobili del debitore) oppure con un pignoramento presso terzi (cioè
espropriando le somme di cui il debitore sia a sua volta creditore, come lo stipendio, la pensione
ecc.).
[1] Art. 5 comma 7, L. n.898 del 1.12.1970.
[2] La rivalutazione viene calcolata tenendo in considerazione l’indice FOI pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale periodicamente e nel sito dell’ISTAT.
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Il TFR
di Marco Borriello
Dopo una vita dedicata al lavoro, il dipendente ha diritto non soltanto alla pensione ma anche alla
cosiddetta liquidazione, ossia il TFR, acronimo che sta per trattamento di fine rapporto. Ebbene,
se il lavoratore è stato sposato, l’ex coniuge ha diritto ad una percentuale della medesima. Si tratta di una previsione normativa, a tutela della ex “metà”, che si affianca a quelle già previste dalla
famosa legge sul divorzio, come, ad esempio, la previsione di un assegno divorzile.
Quand’è che spetta all’ex coniuge il Tfr?
La legge [1], in primo luogo, presuppone che la coppia abbia già divorziato. Non è sufficiente, ad
esempio, che marito e moglie siano in regime di separazione personale. È necessario, pertanto
che sia avvenuto lo scioglimento del matrimonio, il quale, secondo la legge, coincide con il divorzio e non con la semplice separazione, anche se legalmente accertata.
In secondo luogo, l’ex coniuge deve percepire un assegno divorzile: se non ne ha diritto oppure ha
ricevuto tale contributo in un’unica soluzione, egli non potrà avere la quota di Tfr.
Infine, l’altra “metà” deve essere rimasta nubile o celibe e quindi, più semplicemente, non
dev’essersi risposata. Attenzione, a tal proposito: la sola convivenza dell’ex coniuge, con un’altra
persona, non impedisce di ricevere la quota di Tfr prevista dalla legge.
A quanto ammonta la percentuale di Tfr dovuta all’ex coniuge?
Sempre secondo la legge citata, la percentuale dovuta ammonta al 40% del Tfr.
Come si calcola la percentuale del Tfr dovuta al coniuge divorziato?
Abbiamo visto che, la percentuale in questione ammonta al 40%. Il calcolo in questione, però, deve essere rapportato agli anni di matrimonio. La legge e la sua interpretazione corrente, però, non
prendono in considerazione solo il periodo in cui le cose andavano bene nella coppia, ma anche
quello successivo e più tormentato della separazione.
In altri termini, bisogna considerare il Tfr maturato durante il matrimonio e la successiva separazione legale, sino alla sentenza di divorzio.
Facendo un esempio pratico, se sino allo scioglimento del matrimonio, il lavoratore ha maturato un
Tfr pari a 100, l’ex coniuge avrà diritto a 40. Ovviamente, il Tfr maturato negli anni successivi al divorzio sarà di esclusiva competenza e diritto del lavoratore.
Nel calcolare la percentuale del Tfr dovuta all’ex coniuge, come si considerano gli oneri fiscali?
Come chiarisce la Suprema Corte di Cassazione [2], la quota di competenza del coniuge divorziato deve essere calcolata sulla somma effettivamente dovuta e percepita dal lavoratore e non sulla
somma, cosiddetta, “lorda”, cioè gravata dagli oneri fiscali.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
In caso contrario, sarebbe ingiustificatamente riconosciuta una percentuale su un importo concretamente non ricevuto, con illegittimo aggravio a carico del lavoratore.
Durante il matrimonio ho chiesto ed ottenuto un anticipo del Tfr: lo stesso deve essere calcolato nella quota dovuta?
Assolutamente no. La Cassazione, a tal proposito, ha precisato che il calcolo della quota di Tfr
dovuta all’ex coniuge del lavoratore, deve essere effettuato al netto degli anticipi richiesti ed ottenuti dallo stesso, in costanza di matrimonio [3]. Tra questi, anche quelli percepiti durante la separazione personale legale dei due.
L’anticipo in questione, quindi, non deve essere preso in considerazione per stabilire la percentuale dovuta al coniuge divorziato.
Qual è il motivo? La Suprema Corte spiega che gli anticipi predetti diventano di esclusiva appartenenza del lavoratore nonché parte del suo patrimonio personale.
È importante sapere che, questa regola si applica unitamente a quella principale: bisogna sempre
considerare solo il Tfr in rapporto alla durata del matrimonio e della successiva separazione legale, sino alla sentenza di divorzio.
Sono già divorziata e mio marito ha appena percepito il Tfr: come faccio a vedere riconosciuto il mio diritto alla percentuale di legge?
Se suo marito non vuole cedere in alcun modo e non c’è accordo tra di voi, non le resta che rivolgersi ad un legale che, in nome e per suo conto, agirà in Tribunale affinché venga accertato, riconosciuto e quantificato il suo diritto in merito.
[1] Art. 12bis Legge 898/1970.
[2] Cass. ord. n. 24421/2013 del 29.10.2013.
[3] Cass sent. n. 19427/2003, n. 19046/2005, n. 24421/2013.
Il CONIUGE SEPARATO NON HA DIRITTO AL TFR MATURATO DALL’ALTRO
di Alessandra Castellino
La Legge sul divorzio [1] riconosce al coniuge divorziato, purché titolare di assegno periodico di
mantenimento e non risposatosi, il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto maturato
dall’altro coniuge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche nel caso in cui tale
indennità sia maturata prima della sentenza del divorzio. Tale quota è riconosciuta nella misura
del 40% riferibili agli anni di matrimonio coincidenti con il rapporto lavorativo. Nella determinazione
della durata del matrimonio, si tiene conto anche dell’eventuale periodo di separazione legale,
mentre nessuna rilevanza è riconosciuta alla cessazione della convivenza tra i coniugi [2].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Eguale diritto non è riconosciuto al coniuge separato. Ed invero, le norme sull’istituto della separazione non prevedono in alcun modo la partecipazione di un coniuge all’indennità di fine rapporto
percepita dall’altro e la giurisprudenza, intervenuta più volte in materia, ha escluso l’applicazione
di un’interpretazione estensiva della norma contenuta nella legge sul divorzio [1], che possa consentirne l’applicazione anche al coniuge separato.
La giurisprudenza ha infatti precisato che il diritto alla quota del TFR dell’atro coniuge sorge solo
quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, ma
non anche quando sia maturata precedentemente ad essa [3].
Pertanto, se il coniuge separato cessa di lavorare dopo la pronuncia di separazione ma prima
dell’instaurazione del giudizio di divorzio, egli di fatto può disporre liberamente delle somme ricevute a titolo di indennità di fine rapporto e l’altro coniuge non può pretendere alcunché, anche se
titolare di assegno di mantenimento.
La giurisprudenza ha anche escluso la possibilità per il coniuge di pretendere una quota delle
eventuali anticipazioni sul TFR percepite dall’altro coniuge in costanza di separazione, essendo
ormai dette somme entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto [4].
Conseguenza di quanto detto è che il coniuge separato potrà pretendere una quota del TFR
dell’altro coniuge soltanto se, al momento della maturazione dell’indennità di fine rapporto, egli
abbia già depositato ricorso per divorzio dinanzi la cancelleria del tribunale competente.
Tuttavia, se il coniuge percepisce il TFR in costanza del giudizio di separazione, il giudice dovrà
tenerne conto nella determinazione della sua situazione economica e quindi ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge.
Qualora, invece, il coniuge separato percepisca il TFR dopo la pronuncia della separazione, ma
prima della presentazione della domanda di divorzio, l’altro coniuge sarà legittimato a chiedere
una revisione dell’assegno di mantenimento, atteso che la riscossione dell’indennità di fine rapporto da parte di un coniuge comporta di fatto una modifica della situazione economica rispetto a
quella esistente al momento in cui fu pronunciata la separazione.
[1] Art. 12 bis Legge n° 898/1970.
[2] Cass. sent. n. 1348 del 31.01.2012.
[3] Cass. sent. n. 25520 del 16.12.2010.
[4] Cass. sent. n. 24421 del 29.10.2003.
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DOPO LA SEPARAZIONE CHI PAGA TUTTE LE SPESE LE BOLLETTE E LE
RATE?
di Maria Elena Casarano
Nel momento in cui una coppia decide di separarsi, uno dei problemi più spinosi e motivo di attrito
è la suddivisione delle spese e i debiti ancora pendenti sulla famiglia. Chi dovrà pagare tasse e
bollette? Chi beneficerà delle detrazioni sui beni acquistati insieme?
Se i coniugi avevano scelto il regime della separazione dei beni, ognuno di essi – anche con la
sentenza di separazione – conserva la proprietà, l’amministrazione e il godimento di ogni bene
acquistato prima e durante il matrimonio. In questo caso, il problema dei “conti in sospeso” si risolve facilmente: chi ha acquistato o si è obbligato coi creditori resta responsabile delle proprie
spese e ne subisce tutte le eventuali conseguenze: per cui sarà questo stesso che dovrà continuare a pagare rate, bollette, bollettini, tasse, ecc. (si pensi, ad esempio, alle spese relative
all’auto utilizzata dalla famiglia o alle rate da pagare per l’acquisto di un mobile).
Se i coniugi, pur avendo scelto il regime di separazione, avevano cointestati dei beni, o dei titoli o
il conto corrente, essi dovranno trovare un accordo di divisione. Altrimenti, si dovrà procedere alla
divisione effettuata dal giudice.
Se, invece, i coniugi erano in regime della comunione dei beni (il che comporta la contitolarità
dei beni acquistati, anche separatamente, durante il matrimonio), la comunione medesima cesserà quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separatamente. Nel momento in cui la comunione
si scioglie, i coniugi potranno procedere alla divisione del patrimonio di proprietà comune. Ogni
cosa dovrà essere distribuita in parti uguali: sia l’attivo (costituito non solo dai beni acquistati, ma
anche dai risparmi di ciascuno dei coniugi, frutto del patrimonio e del lavoro personale di ognuno)
che le passività (finanziamenti, crediti al consumo, mutui).
I beni che non sono divisibili (come l’auto) potranno essere venduti per poi spartire tra le parti la
somma ricavata.
Chi deve pagare i debiti in caso di comunione dei beni?
Nel caso siano stati contratti dei debiti dai coniugi durante il matrimonio è necessario fare una distinzione tra i debiti assunti dai coniugi prima e dopo la separazione.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
1) Debiti sorti prima della separazione
Con riferimento ai debiti contratti insieme dai coniugi e che riguardino:
– spese compiute nell’interesse della famiglia (per esempio, quelle relative all’istruzione dei figli),
– obblighi assunti dai coniugi e gravanti sui beni comuni al momento dell’acquisto (per esempio,
finanziamenti legati all’acquisto di beni, mutui sulla casa coniugale),
– doveri derivanti dall’amministrazione degli stessi beni (per esempio, le spese condominiali),
nel caso in cui il coniuge tenuto al pagamento non vi provveda, i creditori potranno aggredire solo i
beni che sono ricompresi nella comunione (e non quelli personali). Nel caso di debiti contratti dal
singolo coniuge nell’interesse della famiglia, i creditori possono rivalersi sui beni della comunione
fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.
Se i beni comuni non sono sufficienti a coprire i debiti, i creditori potranno agire sui beni personali
di ciascun coniuge per un importo pari alla metà del credito.
2) Debiti sorti dopo la separazione
Nel caso in cui i debiti siano stati contratti dopo la separazione, i creditori potranno aggredire i singoli beni di ciascun coniuge che li abbia contratti e non più quelli in comune o quelli dell’ex.
Attenzione: se i coniugi non abbiamo ancora diviso i beni in comproprietà rientranti nella comunione, i creditori potranno comunque aggredire anche questi ultimi fino a metà del valore (ossia solo
per la parte spettante al coniuge debitore).
Si pensi, ad esempio, ad una casa in comproprietà: se, dopo la separazione, non è stata venduta
per dividerne il ricavato, i creditori potranno rivalersi su di essa (instaurando una procedura espropriativa sull’intero bene) per i debiti contratti anche dopo la separazione da uno dei due coniugi,
chiunque esso sia.
Chi deve pagare le bollette?
Le spese ordinarie sulla casa coniugale (manutenzione ordinaria, bollette, spese condominiali ordinarie) gravano su chi occupa la casa, poiché è quest’ultimo che fruisce dei servizi ai quali tale
spese fanno riferimento.
Chi deve pagare le spese straordinarie degli immobili?
Le spese straordinarie, invece, come quelle relative alle ristrutturazioni sull’immobile cointestato,
dovranno invece essere divise a metà da ciascuno.
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Chi deve pagare il mutuo e chi beneficia delle relative detrazioni?
Il mutuo sulla casa va pagato dal soggetto a cui risulti intestato il contratto con la banca.
Se i coniugi hanno contratto insieme un mutuo per l’acquisto della casa familiare, dividendo tra loro i costi di tale impegno, in caso di separazione consensuale in cui abbiano stabilito che
l’appartamento spetti in proprietà a uno solo dei due, il coniuge che sia divenuto unico proprietario
dell’immobile sarà tenuto al pagamento delle rate del mutuo e avrà diritto alla detrazione fiscale
sugli interessi passivi dell’intera somma.
La detrazione degli interessi sul mutuo stipulato per l’acquisto dell’abitazione principale spetta al
coniuge acquirente e intestatario del contratto di mutuo, anche se l’immobile è adibito ad abitazione principale di un suo familiare; è considerato “familiare” anche il coniuge separato, finché non
intervenga l’annotazione della sentenza di divorzio. Pertanto il coniuge proprietario, trasferitosi
dopo la separazione, può continuare a beneficiare della detrazione.
In caso di divorzio, il beneficio della detrazione spetta al coniuge trasferito per la quota di competenza solo se nell’immobile continuano ad abitare i figli.
E le spese di ristrutturazione e per l’acquisto di mobili?
Nel caso in cui la coppia separata o divorziata abbia fatto svolgere dei lavori di ristrutturazione sulla casa familiare, beneficiando delle detrazioni previste (che possono essere suddivise in diverse
annualità), le quote di detrazione continuano a spettare al coniuge proprietario dell’immobile, anche se non ne sia assegnatario.
In ogni caso é possibile estendere il beneficio anche al coniuge assegnatario dell’immobile a seguito della sentenza di separazione, anche se non titolare del diritto di proprietà, purché abbia sostenuto e siano rimaste a suo carico le relative spese [2].
Autonomia dei coniugi sugli accordi economici
Resta in ogni caso fermo il diritto delle parti di disciplinare come meglio credono i propri rapporti
economici, depositando in tribunale un ricorso congiunto per la loro separazione, o anche di raggiungere un accordo (che il giudice dovrà solo omologare) in corso di causa.
In mancanza di accordo dovrà decidere il giudice.
L’unico limite è costituito dagli accordi relativi ai figli ai quali la legge riserva una tutela maggiore e
pertanto dovrà essere il giudice a valutare che tali accordi siano rispondenti all’interesse della prole.
[1] Introdotta dal DL 201/11, cosiddetto “Salva Italia” convertito in legge n. 214/11.
[2] Circolare 12/Edel 3 maggio 2013 dell’Agenzia delle Entrate.
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IMU TARI E TASI: CHI LE PAGA IN CASO DI SEPARAZIONE?
di Alessandra Castellino
Se il rapporto affettivo tra marito e moglie può terminare, i coniugi non possono tuttavia separarsi
e prendere “semplicemente” ciascuno la propria strada: molteplici sono le conseguenze da affrontare tra cui quella di stabilire a chi compete continuare a vivere nella casa che è stata l’abitazione
familiare.
Qualora vi siano figli, la nuova normativa sull’affidamento condiviso [1] prevede che il godimento
della casa familiare sia attribuito tenendo conto, in via prioritaria, dell’interesse della prole la quale
deve risentire nella minor misura possibile della rottura dell’unità familiare [2].
Per tale ragione, il legislatore prevede che nella casa familiare continuino ad abitare i figli e con loro uno dei genitori (che di solito è la madre) pur dovendo entrambi i genitori provvedere al mantenimento della prole in misura proporzionale ciascuno al proprio reddito [3].
A chi spetta però pagare gli oneri tributari gravanti sulla casa familiare?
Mediante il provvedimento di assegnazione della casa, sentenza o decreto di omologazione, il coniuge assegnatario diviene titolare di un vero e proprio diritto di abitazione e dunque unico destinatario degli obblighi tributari.
Poiché, però, la legge di stabilità del 2014 ha eliminato l’IMU relativamente alla prima casa (ricollegando la nozione di prima casa a quella di residenza), il coniuge assegnatario non sarà oggi tenuto a pagare l’Imposta municipale aggiunta sull’immobile in cui vive con i figli [4].
Ad ogni buon conto l’agevolazione ora indicata è tutt’altro che reale perché il legislatore ha ben
pensato di sostituire all’IMU sulla prima casa, la TASI cioè la Tassa sui servizi indivisibili.
Presupposto per l’applicazione della TASI è il possesso o la detenzione a qualunque titolo di immobili: ciò significa che il coniuge assegnatario si ritroverà a dovere sostenere in via esclusiva
l’obbligo tributario in quanto unico occupante, insieme ai figli, della casa familiare.
Cosa accade, però, al coniuge non assegnatario che sia titolare del diritto di proprietà su altro immobile presso il quale ha trasferito la propria residenza? Alla luce delle considerazioni prima
esposte, il coniuge non assegnatario non dovrà pagare l’IMU sulla nuova abitazione, a meno che
non si tratti di immobile di lusso, ma si troverà a dover pagare anch’egli la TASI.
Le stesse considerazioni valgono per la TARI, cioè la Tassa sui rifiuti, che dovrà essere pagata
soltanto da chi abita nell’immobile.
A questo punto, altro quesito che spesso si pone riguarda il caso in cui il coniuge non assegnatario proprietario dell’immobile in cui vive sia anche proprietario esclusivo o comproprietario insieme
alla moglie della casa familiare: come dovrà considerarsi per lui quest’ultima? Equivarrà a seconda casa sulla quale sarà tenuto a pagare l’IMU?
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Sul punto non vi sono dubbi: poiché l’immobile viene utilizzato dall’ex moglie quale abitazione
principale del nucleo familiare sulla quale la stessa vanta un diritto reale di godimento, cioè il diritto di abitazione, ai fini tributari la casa familiare non potrà essere considerata seconda casa ed il
coniuge non assegnatario non sarà tenuto, quindi, a versare l’IMU.
[1] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori ed affidamento condiviso dei figli”.
[2] Art. 155 quater, co. 1, cod. civ.
[3] Art. 155, co. 4, cod. civ.
[4] D.L. 31.08.2013, n. 102 convertito in L. 28.10.2013, n. 124.
LE DETRAZIONI FISCALI
Come abbiamo visto, esistono due tipi di separazione: quella consensuale, in cui i coniugi sono
d’accordo su come regolare i loro rapporti e chiedono che il Tribunale prenda atto della loro volontà, e quella giudiziale, dove non esistono accordi preventivi tra i coniugi ed è il Tribunale che decide, dopo gli opportuni accertamenti, le condizioni della separazione.
Ai fini fiscali, i due tipi di separazione sono trattati allo stesso modo. Diversi effetti sui contribuenti derivano invece dalla sentenza di divorzio, il cui procedimento può avere inizio dopo 6 mesi
o un anno dalla separazione.
1 | Assegni di mantenimento (per coniuge e figli)
Il contribuente che versa periodicamente assegni al coniuge può portarli interamente in deduzione dal proprio reddito imponibile, a condizione che sia intervenuta la separazione legale ed effettiva, l’annullamento o il divorzio, che l’importo sia pari a quello determinato dal giudice (comprese le rivalutazioni) e che le somme siano pagate periodicamente e non in unica soluzione. In caso
di separazione di fatto, dunque, l’eventuale versamento volontario di assegni non fa sorgere alcun
diritto alla deduzione.
Per quanto riguarda il mantenimento dei figli, poiché entrambi i genitori devono continuare a
provvedervi, il genitore cui non siano stati affidati dovrà contribuire economicamente al loro sostentamento, versando al genitore affidatario un assegno determinato dal giudice in base ai rispettivi redditi e alle esigenze dei figli. Ma gli assegni di mantenimento per i figli non sono deducibili
dal reddito imponibile. Pertanto, è necessario che nel provvedimento del giudice che dispone il
pagamento a favore dell’ex coniuge e dei figli siano chiaramente indicati i due importi distinti. Se
non c’è questa distinzione, l’assegno è da considerare destinato per metà ai figli.
Di conseguenza il coniuge che lo versa avrà diritto a dedurre la metà dell’importo totale.
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Come usufruire delle deduzioni
Per poter usufruire delle deduzioni, occorre presentare al Caf l’atto del giudice e inserire l’importo
nei quadri del 730 o dell’Unico tra gli oneri deducibili dal reddito.
Il coniuge che percepisce gli assegni di mantenimento deve inserirli nella dichiarazione dei redditi,
visto che sono imponibili ai fini Irpef. La parte dell’assegno destinata al mantenimento dei figli non
è imponibile, quindi non deve essere dichiarata né dai figli né dal coniuge che li ha in affidamento.
Per il calcolo della no tax area (la quota di reddito esente Irpef) gli assegni di mantenimento, pur
essendo assimilati ai redditi da lavoro dipendente, non possono usufruire dell’incremento di deduzione di 4.500 euro previsto per questa tipologia di reddito.
Quindi nel caso in cui il coniuge percepisca redditi solo sotto forma di assegni di mantenimento,
calcolerà la sua no tax area utilizzando esclusivamente la deduzione base di 3.000 euro e non potrà sfruttare le detrazioni da lavoro dipendente (4.500 euro).
2 | La dichiarazione congiunta
In caso di separazione o divorzio non è possibile presentare la dichiarazione congiunta. Se invece
arriva il rimborso di un credito Irpef risultante da una precedente dichiarazione congiunta, l’importo
può essere attribuito per la quota di sua competenza a ciascun coniuge personalmente (trovate gli
importi sulla copia del 730 che avete presentato). Per far questo bisogna dare comunicazione
scritta della separazione legale o del divorzio all’Amministrazione Finanziaria.
3 | La liquidazione del Tfr
In caso di cessazione del rapporto di lavoro, l’altro coniuge separato non ha diritto a parte del Tfr,
che invece spetta in caso di divorzio a favore del coniuge che percepisce un assegno di mantenimento, nella misura del 40% del Tfr maturato negli stessi anni in cui i due erano sposati.
Se per esempio il rapporto di lavoro è durato 20 anni e il matrimonio 5 anni, all’ex coniuge spetta il
40% del Tfr maturato nei 5 anni. Il Tfr subiranno la tassazione prevista normalmente per questi
redditi.
4 | Familiari a carico
Il fisco stabilisce che il genitore può considerare a carico i figli se, singolarmente, producono redditi lordi annui inferiori a 2.840,51 euro, anche se non conviventi.
In caso di divorzio o separazione, i figli possono essere dichiarati a carico da entrambi i genitori
nella percentuale da essi concordata, indipendentemente da chi li ha in affidamento. L’unico vincolo è che la somma delle percentuali di carico dei figli fra i coniugi sia sempre 100%.
È bene ricordare che in caso di separazione e divorzio non è possibile usufruire per i figli a carico
della detrazione per coniuge mancante, prevista invece quando l’altro genitore è deceduto o non
ha riconosciuto il figlio.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Detrazioni e deduzioni per gli oneri e le spese sostenute per i figli (spese mediche, di istruzione,
assicurazioni, ecc.) sono utilizzabili dal genitore che dichiara i figli a carico. Se gli ex coniugi stabiliscono di dichiarare i figli a carico di entrambi al 50 %, possono, in sede di dichiarazione dei redditi, decidere di spartirsi oppure no le spese detraibili/deducibili sostenute per i figli.
Anche il coniuge effettivamente e legalmente separato può essere considerato come “altro familiare a carico” del dichiarante. Quando invece subentra il divorzio, l’ex coniuge non può mai essere a
carico.
5 | La casa familiare
La casa familiare normalmente viene assegnata a uno solo dei coniugi, a prescindere dalla effettiva quota di proprietà personale. Se ci sono figli, di preferenza la casa familiare spetta al genitore
al quale vengano affidati o presso il quale sono collocati.
Se la casa è in affitto, il contratto viene trasferito a nome del coniuge che vi rimane ad abitare. Se
non ci sono figli, generalmente la casa resta al coniuge che ne è proprietario o che è titolare del
contratto di locazione; se la casa è intestata a entrambi i coniugi, sono loro o il giudice a decidere
a chi assegnarla, salvo dividerla (se è possibile), oppure venderla su accordo delle parti.
6 | Irpef
In caso di separazione, se l’abitazione principale della coppia (cointestata) viene assegnata a un
solo coniuge, entrambi possono continuare a dichiarare la casa come principale, usufruendo della
deduzione totale del reddito riferito a essa.
In caso di divorzio, il coniuge trasferito può comunque continuare a dichiarare l’immobile come
abitazione principale nella percentuale di sua proprietà solo se vi dimorano i suoi figli.
In entrambe le situazioni, il coniuge trasferito non deve risiedere in altro alloggio di sua proprietà,
che diventerebbe automaticamente sua abitazione principale.
Le stesse regole valgono nel caso in cui l’immobile sia intestato esclusivamente al coniuge al quale non è stata assegnata la dimora familiare.
7 | Interessi sui mutui
La detrazione degli interessi passivi sul mutuo stipulato per l’acquisto dell’abitazione principale
spetta all’intestatario del contratto di mutuo, anche se l’immobile è adibito ad abitazione principale
di un suo familiare. Il titolare del contratto di mutuo è, appunto, di norma, il proprietario
dell’immobile.
Nel caso di separazione legale, anche il coniuge separato, finché non intervenga l’annotazione
della sentenza di divorzio, rientra tra i familiari. Pertanto, il coniuge trasferito può continuare a usufruire della detrazione.
In caso di divorzio, al coniuge che ha trasferito la propria dimora abituale spetta comunque il beneficio della detrazione per la quota di sua competenza se nell’immobile hanno la propria dimora
abituale i figli (la legge parla infatti di parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo).
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
8 | Spese di ristrutturazione
Nel caso in cui la coppia che si separa/divorzia abbia effettuato lavori di ristrutturazione edilizia
sulla casa familiare, usufruendo delle detrazioni previste (che possono essere ripartite in diverse
annualità), le quote di detrazione continuano a spettare anche al coniuge trasferito. Sempre che,
ovviamente, mantenga la proprietà dell’immobile.
9 | Imposta sulla casa e sui rifiuti
L’imposta sulla casa ormai cambia ogni anno. Ad oggi, nel caso di una separazione sarà il coniuge che si è visto assegnare la casa e che quindi la abita concretamente, a dover pagare la TASI,
non conta a chi dei due coniugi appartenga la casa. Nel caso invece della casa in affitto, paga il
proprietario con contributo variabile del locatario.
Come la TASI, anche l’IMU ricade sul coniuge che ha il diritto abitativo della casa familiare, ovvero
su colui che si è visto assegnare in sede di separazione la casa. Non si ripropone infatti la situazione che si aveva con la vecchia ICI quando era il coniuge legittimamente proprietario del bene a
dover ottemperare al pagamento della tassa.
Al coniuge assegnatario rimangono gli obblighi di pagamento connessi alla Tassa rifiuti , che viene
richiesta direttamente dal Comune mediante invio di bollettino o di F24 precompilato.
Il trasferimento di immobile tra coniugi
Se, all’atto di separazione o del divorzio, il marito vuol cedere alla moglie (o viceversa) la sua proprietà su un immobile, non dovrà più pagare l’imposta di registro e di bollo. È questo il frutto di un
nuovo orientamento sposato dalla Cassazione di recente [1]. Il vantaggio è netto: in questo modo,
nel caso di una coppia in regime di comunione dei beni, il coniuge potrà cedere all’altro il proprio
50% senza doversi svenare per via delle tasse. Tali trasferimento sono infatti tutti esenti.
Se, poi, ci si vuole separare o divorziare senza neanche passare dal tribunale, il tutto potrà essere
effettuato presso lo studio dell’avvocato, con il procedimento di negoziazione assistita, con cui, da
poco tempo, è possibile porre fine al matrimonio in via consensuale.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Niente imposta di registro e di bollo
Non scontano dunque l’imposta di registro e di bollo tutti gli atti posti in essere dai coniugi con gli
accordi di separazione, anche con il trasferimento di beni immobili e mobili, destinati a sfociare di
lì a poco nella fine del matrimonio voluta dalle parti. Il beneficio fiscale in commento, previsto dalla
legge del 1987 [2], non spetta più solo per gli atti posti in essere in attuazione degli obblighi connessi all’affidamento dei figli, al loro mantenimento e a quello del coniuge oltre al godimento della
casa familiare. E ciò perché nel frattempo è cambiato il contesto normativo: da una parte la negoziazione assistita dagli avvocati per separazione consensuale, divorzio e modifica delle condizioni,
dall’altra la legge sul divorzio breve attribuiscono di fatto al consenso dei coniugi un valore ben più
pregnante rispetto a quello che aveva in passato. I recenti interventi di “degiurisdizionalizzazione”,
si legge in sentenza, hanno ridotto di molto l’intervento del giudice in materia di diritto di famiglia,
in procedimenti segnati da una vasta area di diritti legati allo status di coniuge e alla tutela della
prole. Pertanto deve riconoscersi il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi di separazione.
L’unico appiglio che ha il fisco per recuperare l’imposta è quello di dimostrare che la separazione
o il divorzio non è effettivo, ma siglato solo per una finalità elusiva: una prova estremamente difficile che potrebbe essere fornita, per esempio, se i due coniugi continuano a risiedere nello stesso
immobile e uno dei due continua a percepire gli assegni per il nucleo familiare.
Nulli gli avvisi di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate
È quindi nullo l’avviso di liquidazione, notificato dall’Agenzia delle Entrate, relativo alla registrazione del trasferimento della proprietà sull’immobile avvenuto in attuazione degli accordi di separazione. Quale che sia la forma che i negozi assumano, tutti gli atti frutto di accordi relativi al procedimento di separazione o divorzio possono allora godere dell’esenzione di imposta.
[1] Cass. sent. n. 3110/16 del 17.02.2016.
[2] Art. 19 della legge 74/1987 di cui alla normativa nel testo conseguente alla sentenza della C. Cost. n. 159/99.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
GLI ASSEGNI FAMILIARI
L’assegno per il nucleo familiare è una prestazione che è stata istituita per aiutare le famiglie dei
lavoratori dipendenti, dei parasubordinati e dei pensionati. L’assegno spetta in misura diversa in
rapporto al numero dei componenti e al reddito del nucleo familiare.
A chi spettano in caso di separazione o divorzio?
di Alessandra Castellino
Il genitore affidatario o convivente con i figli minori ha diritto a percepire gli assegni per il nucleo
familiare, anche nel caso in cui ne sia titolare l’altro coniuge, in aggiunta all’assegno di mantenimento, se non diversamente stabilito in sede di separazione o divorzio.
In caso di separazione o divorzio, gli assegni famigliari spettano solo al coniuge cui il giudice abbia affidato i figli, anche se a percepirli sia l’altro coniuge [1]. Lo stesso principio si applica tanto
nel caso di affidamento esclusivo che condiviso. Tale principio è stato chiarito in una circolare
dell’Inps [2].
Pertanto, il genitore non affidatario o non convivente con i figli, che percepisce gli assegni familiari,
deve corrispondere tali somme all’ex coniuge, al quale di fatto spettano, in aggiunta all’assegno di
mantenimento e indipendentemente dall’ammontare di quest’ultimo.
Nonostante la legge sia chiara, spesso il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori
che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro omette di versarli all’altro genitore,
cui spettano, pensando che l’unico obbligo a cui è tenuto sia quello di versare l’assegno di mantenimento per i figli economicamente non autosufficienti.
In realtà gli assegni familiari per i figli minori da un lato, e l’assegno di mantenimento dall’altro (sia
esso stabilito dal giudice o di comune accordo dalle parti con la separazione/divorzio consensuale) hanno natura e funzioni diverse. I primi fungono da “integrazione alimentare”, per cui non possono che essere percepiti dal genitore che di fatto provvede al mantenimento dei figli. Al contrario,
l’assegno di mantenimento costituisce il contributo fornito dal genitore non convivente con i figli al
mantenimento, all’istruzione ed all’educazione di questi ultimi, la cui misura viene calcolata in proporzione alla capacità reddituale del genitore.
Tuttavia, in sede di separazione o divorzio, i coniugi possono addivenire ad accordi diversi, riconoscendo al genitore che percepisce gli assegni familiari dal proprio datore di lavoro la possibilità
di trattenerli, stabilendo comunque la misura dell’assegno di mantenimento in considerazione della
somma percepita a titolo di assegni familiari dal genitore obbligato al mantenimento.
È chiaro, dunque, che il genitore non affidatario o non convivente con i figli minori, che trattiene
per sé gli assegni familiari, non versandoli all’ex coniuge, commette il reato di “appropriazione indebita”, incassando del denaro non proprio ma dell’altro genitore e che ha percepito per conto di
quest’ultimo [3].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Pertanto, il coniuge affidatario o convivente con i figli minori che non ha mai ricevuto dall’ex gli assegni familiari potrà rivolgersi al tribunale per ottenere il rimborso delle somme indebitamente trattenute dall’altro coniuge. Ad ogni modo, la richiesta di rimborso deve essere limitata alle somme
percepite dall’ex coniuge nel decennio precedente, attesa l’applicazione del termine di prescrizione decennale.
[1] Art. 211 della Legge 19 maggio 1975 n. 151
[2] Circolare n. 210 del 7.12.1999.
[3] Cass. sent. n. 694/85 del 01.02.1985.
Assegni familiari: possono coprire parte del mantenimento?
di Maria Elena Casarano
Il mantenimento e gli assegni familiari sono due tipi di proventi separati e distinti e pertanto non
possono essere considerati parte del mantenimento dovuto da un genitore. Tuttavia a tale principio è possibile derogare.
Innanzitutto va precisato che, secondo la legge [1], dopo la separazione dei coniugi, il genitore al
quale sia stata affidata la prole ha diritto a percepire gli assegni familiari per i figli, sia che ad essi
abbia diritto per via del proprio lavoro, sia che di essi sia titolare l’altro coniuge.
Questo significa che il genitore convivente con i figli, a seguito della separazione, ha diritto a chiedere che vengano versati direttamente a lui gli assegni familiari fino a quel momento corrisposti
dall’Inps all’altro coniuge che faceva parte del nucleo familiare.
Va, inoltre, detto che al momento della separazione, il giudice non è tenuto a includere
nell’importo del mantenimento quanto già percepito da uno dei genitori a titolo di assegni familiari.
Con la conseguenza che nel momento in cui il magistrato stabilirà l’importo dell’assegno, lo farà
per intero e non potrà decurtare da esso quanto già un genitore riceve a titolo di assegni familiari.
Ciò non toglie, tuttavia, che i coniugi siano liberi di concordare in senso diverso nel caso in cui
decidano di separarsi consensualmente.
I coniugi, infatti, possono prevedere, tra le clausole degli accordi per la separazione consensuale,
che la somma che un coniuge è tenuto a versare all’altro per il mantenimento dei figli sia comprensiva degli assegni familiari, il cui ammontare andrà detratto da quanto dovuto nel caso in cui
essi siano percepiti direttamente dal coniuge cui sia affidata la prole.
Ad esempio, ipotizziamo che il marito debba versare un assegno di mantenimento di 250 euro alla
moglie cui sia stata affidata la prole e che questa percepisca già gli assegni familiari che, supponiamo, ammontino in 130 euro. In tal caso il padre, obbligato al mantenimento dei figli, dovrà versare un importo di 120 euro e non più di 250.
[1] Art. 211, L.19.5.75 n. 151.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LA TUTELA DEI FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE E IL DIVORZIO
L’ASCOLTO DEL MINORE
di Maria Elena Casarano
Quando una coppia di genitori si separa è quasi inevitabile che, se ci sono figli minori, questi debbano essere ascoltati dal giudice sulle questioni che li riguardano. Il momento dell’ascolto (che
rappresenta oltre che un dovere per il giudice anche un vero e proprio diritto per il figlio) viene
spesso guardato dai genitori con diffidenza e sospetto, come se si trattasse di una situazione in
grado di nuocere in qualche modo alla prole. In realtà, l’ascolto è uno strumento di tutela per il figlio, attraverso il quale egli partecipa alla assunzione delle decisioni che lo riguardano; per questo
motivo esso non va visto né come una sorta di “interrogatorio” né come una testimonianza (in
quanto non è rivolto all’accertamento di fatti), ma semplicemente alla presa d’atto (con modalità
che a breve vedremo) delle opinioni ed emozioni manifestate dal minore in un determinato momento storico, e potremmo dire critico, della famiglia.
Le norme che prevedono l’ascolto
L’ascolto del minore, oltre che previsto in numerose norme internazionali [1], ha trovato nel nostro
Paese la sua prima disciplina giuridica nell’ambito delle procedure di adozione e affidamento [2]
che prescrivono l’ascolto del minore che ha compiuto i 12 anni, così come quello di età inferiore in
considerazione della sua maturità e capacità di comprendere il significato delle proprie affermazioni (cosiddetta capacità di discernimento).
Attualmente, l’obbligatorietà dell’ascolto è anche prevista anche nelle procedure contenziose (cioè
quelle in cui i genitori siano in contrasto) di separazione/ divorzio e per quelle relative
all’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio [3]; per esse la legge prevede, infatti, che prima
dell’emanazione, anche in forma provvisoria, dei provvedimenti riguardanti la prole [4] “il giudice
dispone l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto i 12 anni e anche di età inferiore ove capace
di discernimento”.
Nel caso in cui, invece, i genitori siano d’accordo (quindi la procedura sia consensuale), “il giudice
non procede all’ascolto se in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo” [5].
Dunque, oggi (salvo alcuni casi che a breve vedremo) il minore deve essere sempre ascoltato
nell’ambito di qualsiasi procedura che lo riguardi [6].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Quali sono le procedure che riguardano il minore?
Quando, però si parla di procedimenti che riguardano il minore bisogna distinguere tra quelle patrimoniali (ad esempio il contrasto tra i genitori sulla misura dell’ assegno di mantenimento o sul
rimborso delle spese straordinarie) e quelli relative alla sua persona.
Proprio di recente, infatti, il Tribunale di Milano [7] ha chiarito che le norme che prescrivono
l’obbligatorietà dell’ascolto del minore si riferiscono alle situazioni in cui debbano essere assunti
provvedimenti su questioni diverse da quelle economiche. Ciò, secondo il giudice meneghino, se
pur non espressamente previsto dalla legge, lo si può evincere tuttavia dalla norma che (in tema di
prescrizioni del giudice tutelare circa l’educazione e l’amministrazione del minore) [8], prevede
espressamente che il magistrato debba procedere all’ascolto del fanciullo solo quando debba decidere su questioni “di vita” di quest’ultimo (dove vuole vivere, che tipo di studi intraprendere, che
arte o mestiere imparare) e non invece su tutte le altre questioni di carattere patrimoniale (spese
di mantenimento, alienazione di beni, ecc.).
Come deve avvenire l’ascolto?
Quanto alle modalità con le quali va effettuato l’ ascolto, la legge [9] prevede che il minore è
ascoltato dal Presidente del tribunale o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo riguardano, anche con l’ausilio di esperti (come psicologi dell’età evolutiva).
Nello specifico, le modalità di ascolto possono essere di due tipi:
– diretto (quando l’audizione da parte del giudice avviene in udienza, eventualmente, anche con
un ausiliario esperto)
– o indiretto (cioè totalmente delegato ad un ausiliario anche nell’ambito di un Consulenza tecnica d’ufficio).
Indipendentemente dalle modalità prescelte, esistono una serie di raccomandazioni che rappresentano l’“ABC” della procedura dell’ascolto e che il giudice, e tanto più l’esperto che lo affianca,
hanno il dovere di osservare, tenendo in debito conto l’età del minore, il quale:
– deve essere messo al corrente in precedenza (meglio se dai genitori o dal suo eventuale curatore o tutore) del colloquio che avrà con il giudice e/o il suo delegato e di come esso si svolgerà;
– al momento della convocazione non deve essere costretto a lunghe attese: pertanto, chi effettua
l’ascolto è tenuto alla puntualità;
– deve essere adeguatamente informato sulle motivazioni per cui è stato richiesto l’incontro e del
fatto che il giudice (o il suo delegato) potrà non mantenere il segreto su quanto emerso dal colloquio;
– deve ricevere l’opportuna accoglienza, allo scopo di essere messo a suo agio;
– deve aver dedicato un tempo congruo per potere raccontare il suo vissuto e rispondere alle
domande che gli vengono poste: è quindi impensabile che le audizioni di diversi minori siano cadenzate tra di loro in modo ravvicinato, potendo ciascuna richiedere tempi assai differenti;
– deve essere ascoltato attraverso un linguaggio semplice e il più possibile adeguato alla sua
età;
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– non deve subire alcun tipo di pressioni: non bisogna, quindi, prospettarli la risposta già nella
domanda, tentando di fargli confermare qualcosa che chi ascolta già conosce, ritiene assunto o
valuta come la soluzione migliore per lui;
– deve essere ascoltato in un luogo adeguato, né troppo affollato (come un’aula di pubblica
udienza) né desolato; la stanza dell’ascolto deve essere, quindi, accogliente e attrezzata con criteri finalizzati ad evitare al minore il trauma dell’impatto con l’istituzione giudiziaria e rendere così più
agevole l’acquisizione delle sue dichiarazioni. Per questo, molti tribunali hanno predisposto delle
specifiche aule, munite di sistemi di audio e video ripresa e di specchio unidirezionale che consente agli eventuali soggetti presenti in una stanza adiacente di assistere all’ascolto. Il giudice, infatti,
può autorizzare i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore ed il pubblico ministero a partecipare all’audizione; tutti questi soggetti possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’ adempimento.
Il contenuto del colloquio (che dovrà riferire anche il contegno avuto dal minore) può essere riprodotto in un verbale scritto oppure essere video registrato.
Quando si può evitare di ascoltare il minore?
Esistono, in ogni caso, delle situazioni nelle quali il giudice può rinunciare all’audizione del figlio.
- Una di queste è quella in cui il minore, avendo meno di 12 anni, non sia ritenuto capace di discernimento. Tale capacità non va confusa con quella di intendere e di volere, meglio nota in
ambito penale (dove il minore di 14 anni non è imputabile e si presume incapace di comprendere il
significato delle leggi penali e le conseguenze di legge di una determinata condotta) ma essa rappresenta una categoria psico- giuridica che fa riferimento alla capacità del minore di elaborare autonomamente idee e concetti, di avere opinioni proprie e di comprendere gli eventi. Il giudice potrà
valutare la sussistenza o meno di tale capacità anche disponendo, prima di ascoltare il minore,
una osservazione (attraverso un colloquio clinico-valutativo) da parte di un perito. Di solito comunque, tale capacità viene ritenuta sussistente quando il bambino abbia raggiunto l’età scolare.
- Altra ipotesi di esclusione è prevista quando l’ascolto contrasti con l’interesse del minore: ne
è un esempio tipico il caso in cui il figlio sia già stato sentito in altre occasioni su questioni per lui
molto dolorose e in grado di porlo in uno stato d’ansia (come violenze fisiche o psicologiche subite
o anche assistite).
- Ancora, il giudice può evitare l’ascolto del minore quando questo sia manifestamente superfluo; tale situazione viene di norma individuata in tutti quei casi in cui i genitori abbiano raggiunto
un accordo sulle questioni di vita dei figli; in tali casi, infatti, si presume che sussista (al pari di
quanto avviene nella vita quotidiana di una coppia non separata) la capacità dei genitori di trovare
le soluzioni che maggiormente tutelino la prole. Ciò non toglie che – poiché il giudice, anche in caso di accordo, non è tenuto ad omologare condizioni relative ai figli che ritenga potenzialmente
dannose per gli stessi – egli possa comunque decidere di procedere all’audizione (cosa che, di solito, tuttavia, non avviene).
- Un ultimo caso in cui l’obbligo dell’ascolto viene meno si ha quando sia proprio il figlio a rifiutare
l’audizione. Quello del figlio ad essere ascoltato, infatti, è innanzitutto un suo diritto e ad esso corrisponde anche la facoltà del minore di non avvalersene. Risulta evidente (specie nei casi in cui i
genitori si “contendono” l’affidamento o la collocazione della prole) il forte rischio di condizionamento dei minori da parte di uno o dell’altro dei genitori volti a rifiutare l’ascolto e ad ostacolare il
rapporto del figlio con l’ex partner.
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Se il giudice non c’è: la negoziazione assistita
La necessità di ascoltare il figlio potrebbe sorgere (se pure per semplice opportunità) anche in una
procedura di negoziazione assistita dove - lo ricordiamo - sono i coniugi insieme agli avvocati, a
lavorare insieme alla redazione di una convenzione di separazione, divorzio o modifica delle condizioni ad essi relativi, prima di trasmetterla al p.m. per l’autorizzazione e di seguito al Comune di
competenza.
In questi casi, dunque, il giudice, neppure nella persona del p.m. può ascoltare il minore (ma
semmai solo negare l’autorizzazione all’accordo ove lo ritenga in contrasto con gli interessi del figlio).
Potrebbero, allora, essere gli stessi avvocati a procedere all’ascolto dei figli per avere un quadro
più completo delle ipotesi di accordo tra i genitori?
A riguardo, il nuovo codice deontologico forense ha previsto una serie di divieti per l’avvocato [10]:
- quello di procedere all’ascolto di una persona minore di età senza il consenso degli esercenti la
responsabilità genitoriale,
- quello assoluto (cioè anche se il consenso vi sia)di ascoltare il minore quando vi sia un conflitto
di interessi con chi esercita la responsabilità genitoriale;
- quello di procedere, nelle controversie in materia familiare che coinvolgano un minore, ad ogni
forma di colloquio e contatto con i figli minori sulle circostanze oggetto delle stesse (per un approfondimento leggi: Ascolto del minore: la deontologia dell’avvocato).
Risulta quindi evidente che, in tutti quei procedimenti in cui vi sia una contrapposizione su questioni riguardanti i minori e per le quali si suppone che i genitori stiano cercando una soluzione insieme ai propri avvocati (come appunto avviene nelle separazioni) questi ultimi non potranno
ascoltare i figli minori.
Nulla vieta, tuttavia, ai genitori di incaricare concordemente un esperto affinché proceda
all’ascolto; ciò potrà avvenire tanto più facilmente se – nella stessa procedura di negoziazione – si
sia scelto avvalersi di un percorso di mediazione familiare o di pratica collaborativa.
[1] La Convenzione internazionale di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo (ratificata dall’Italia con
legge 27 maggio 1991, n. 176), la Convenzione europea di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 25 gennaio 1996 (ratificata dall’Italia con la legge 20 marzo 2003, n. 77), la Carta di Nizza sui diritti fondamentali dell’Unione
europea del 7 dicembre.2000 , il Regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, la Convenzione dell’Aja del
25 ottobre 1980 (ratificata dall’Italia con la legge 15 gennaio 1994, n. 64) .
[2] Disciplinate dalla legge 4 maggio 1983, n. 184 poi modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149.
[3] Vecchio art. 155-sexies cod. civ. (nel testo inserito dalla legge 14 febbraio 2006, n. 54), oggi art. 337-octies, ( a
seguito della legge 10 dicembre 2012, n. 219 e il D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154.
[4] Art. 337 ter cod. civ.
[5] Art. 337-octies del cod. civ. come riformato dalla legge 219/2012.
[6] Art. 315 bis. cod. civ.: “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”.
[7] Trib. Milano ord. 20.03.14.
[8] Art. 371 n. 1) cod. civ. aggiunto dal D.Lgs 154/2013.
[9] Art. 336 bis. cod. civ.
[10] Art. 56 Cod. deont. forense, approvato il 31 gennaio 2014, pubblicato nella G.U. del 16 ottobre 2014 ed in vigore
dal 15 dicembre 2014.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Niente ascolto dei figli sulle questioni economiche
Nei procedimenti di separazione e divorzio tra i coniugi, l’obbligo per il giudice di disporre
l’audizione del figlio minore riguarda solo le questioni che possano incidere sugli interessi personali di quest’ultimo. Pertanto, è esclusa l’audizione del bambino per le questioni economiche come
il diritto all’assegno di mantenimento. Al contrario, deve disporsi (sempre che il figlio abbia compiuto dodici anni) per le questioni relative alle modalità dell’affidamento e alla collocazione.
Questo non esclude la possibilità di audizione del minore anche nei casi in cui si proceda alla
semplice revisione delle condizioni di separazione o divorzio, ma purché, appunto, non si verta
sulle questioni meramente economiche [1].
Questa è la conseguenza del recente decreto legislativo che ha modificato il diritto di famiglia[2].
Tra le disposizioni modificate, infatti, vi è quella che riguarda il minore sotto tutela [3]. Nella norma
in esame è previsto che il giudice assuma, d’intesa con il tutore, i provvedimenti circa l’educazione
del minore e l’amministrazione del suo patrimonio.
Dunque, la legge ha voluto precisare che l’obbligo dell’ascolto del minore è relativo solo alle questioni “di vita” del bambino: ossia dove questi voglia vivere, che studi intenda fare, che mestiere/arte imparare. Resta quindi esclusa l’audizione per le questioni che riguardano il mantenimento,
l’amministrazione del patrimonio e le eventuali imprese/società.
Il legislatore ha infatti ritenuto contraria all’interesse del minore [4] l’audizione di quest’ultimo in
processi che abbiano ad oggetto solo questioni economiche e patrimoniali.
[1] Trib. Milano, sent. del 20.03.2014.
[2] D.lgs. 154/2013.
[3] Art. 371 cod. civ.
[4] Art. 336-bis cod. civ.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI
Criteri per la determinazione
di Maria Elena Casarano
Il problema della quantificazione dell’assegno dovuto per il mantenimento dei figli parte del genitore che lascerà la casa familiare rappresenta uno dei problemi più spinosi insieme a quello relativo
alle modalità di affidamento dei figli (vd. dopo.).
C’è un modo per stabilire come esso vada calcolato?
Per dare risposta a questa domanda occorre partire dalla lettura della norma [1] che, in tema di
provvedimenti economici relativi ai figli in caso di separazione tra i genitori, prevede che ciascuno
dei genitori (salvo diversi accordi tra di loro) è tenuto a provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Il giudice stabilisce, quando necessario, la corresponsione di
un assegno periodico che va determinato considerando:
– le esigenze attuali del figlio;
– il tenore di vita goduto dal figlio durante la convivenza con entrambi i genitori;
– i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
– le risorse economiche di entrambi i genitori;
– la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Il dovere di mantenimento gravante su entrambi i genitori impone di far fronte a molteplici esigenze dei figli, che non sono soltanto l’obbligo alimentare, ma vanno estese anche all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli lo richieda, di una organizzazione domestica stabile, in grado
di rispondere alle loro specifiche necessità di cura e di educazione [2].
L’accertamento dei redditi effettivi
Nell’ambito di un procedimento in tribunale dove manchi l’accordo sull’entità dell’assegno (e quindi
sia stata intrapresa una causa vera e propria tra i genitori) sin da subito il giudice è tenuto ad una
prima valutazione, se pur sommaria, degli elementi offerti dalle parti, con lo scopo di stabilire, in
primo luogo, il pregresso tenore di vita della coppia e le loro attuali condizioni patrimoniali e di
reddito.
Non può, infatti, certamente attendersi l’esito della causa per stabilire quanto un genitore debba
versare all’altro affinché provveda ai bisogni dei figli. Quanto deciso, tuttavia, in questa prima fase
non ha nulla di definitivo, ben potendo essere modificato in relazione alle prove emerse in seguito.
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Si tratta di una valutazione che, spesso, pone la necessità che il giudice non si fermi solo alle dichiarazioni dei redditi presentate; ciò può accadere, nello specifico, quando esse contrastino con
l’effettivo stile di vita delle parti per come dimostrato dalla parte interessata a ricevere l’assegno (si
pensi al possesso in capo al coniuge di auto di lusso, viaggi costosi, ecc.). Sicché, quando le informazioni di tipo economico fornite dai genitori non sono sufficientemente documentate, il giudice
può disporre un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto in contestazione,
anche se intestati a persone diverse.
A riguardo, le recenti novità legislative [3] hanno attribuito al giudice – nell’ambito di tutti i procedimenti di famiglia – la piena facoltà di ricavare informazioni sul patrimonio, il reddito e il tenore di
vita dei coniugi e provvedere alla ricerca di beni con modalità telematiche, anche accedendo alle
banche dati dell’Agenzia delle Entrate o inviando alla stessa richieste in tal senso.
Il magistrato, infatti, deve effettuare una ripartizione del reddito familiare al fine di ripristinare le
condizioni economiche precedenti alla separazione, sulla base di un principio di “proporzionalità”
con l’obiettivo di assicurare ai figli un tenore di vita il più possibile vicino a quello goduto quando la
famiglia era unita.
Criteri generali di riferimento
Non esistono dunque dei criteri di calcolo dell’assegno espressamente indicati dalla legge, ma i
giudici di solito applicano dei criteri di massima, tenendo conto di quanto previsto dalla legge e
dagli orientamenti giurisprudenziali prevalenti; allo scopo, essi tengono conto sia redditi percepiti
da ciascuno dei due coniugi (incluse eventuali rendite finanziare), sia del valore locativo mensile di
eventuali proprietà immobiliari, ivi compresa l’incidenza dell’assegnazione della casa coniugale e il
numero dei figli a carico e conviventi.
Naturalmente tali criteri sono orientativi in quanto ogni magistrato ha un ampio margine di discrezionalità nel determinare la misura del mantenimento, il cui risultato va personalizzato e adattato
alle specificità del caso concreto (come il fatto che, l’assegno sia destinato, oltre che al mantenimento dei figli, anche a quello del coniuge).
È possibile, ad esempio, che il giudice stabilisca un assegno di misura differenziata per ciascun
figlio in ragione dell’età e delle specifiche esigenze (di solito secondo un criterio di proporzione inversa all’età).
I modelli di calcolo
Partendo, comunque, dai criteri indicati dalla legge [1] e dalla giurisprudenza maggioritaria, alcuni
Tribunali hanno elaborato dei loro parametri di calcolo: ad esempio il Tribunale di Firenze, insieme
alla Facoltà di Economia, ha elaborato un Modello per calcolare l’assegno di mantenimento (MoCAM), il Tribunale di Palermo, allo stesso scopo, ha elaborato un software pubblico (scaricabile
dal sito www.giustiziasicilia.it) e il Tribunale di Monza, ha predisposto nel 2008 delle Tabelle (acquisite quale strumento di riferimento in numerosi fori) che riassumono le ipotesi più ricorrenti e le
possibili risposte alle richieste di mantenimento formulate da parte di uno dei coniugi (sia per sé
che per i figli).
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Tali tabelle, in particolare, conducono ad un criterio di liquidazione “di massima” di un assegno pari ad un quarto del presunto reddito dell’obbligato (in ipotesi di assegnazione della casa coniugale
al coniuge richiedente) ovvero pari ad un terzo (nella più rara ipotesi di non assegnazione) che,
però, potrà essere rispettato, solo dopo un opportunamente soppesato la complessiva situazione
patrimoniale evidenziata in giudizio (si pensi al caso in cui gravi ancora un mutuo sulla casa coniugale).
Ad esempio, se al genitore collocatario della prole e assegnatario della casa coniugale non venga
riconosciuto alcun assegno di mantenimento, la liquidazione del contributo al mantenimento dei
figli potrà prevedere, in una situazione di reddito medio (operaio/impiegato: € 1.200,00 / 1.600,00
mensili per 13 o 14 mensilità) e sempre che non vi siano particolari condizioni da valutare (si pensi
a proprietà immobiliari, depositi o conti correnti di una certa entità), una quantificazione
dell’assegno di questo tipo:
– in presenza di un solo figlio: circa il 25 per cento del reddito;
– in presenza di due figli: 40 per cento del reddito;
– in presenza di tre figli: assegno pari al 50 per cento del reddito.
Si tratta, in ogni caso, di esemplificazioni che, nelle dovute proporzioni, possono applicarsi anche
a situazioni di redditi ben più alti. Infatti, per la quantificazione dell’assegno di mantenimento dovuto ai figli, la capacità economica di ciascun genitore va determinata con riferimento al patrimonio
complessivo di entrambi, costituito, oltre che dai redditi di lavoro, da ogni altra forma di reddito o
utilità (come ad esempio il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione
societaria, altri proventi di qualsiasi natura) [4].
I diversi accordi dei genitori
Se questi sono gli orientamenti generali, non va dimenticato che la legge [1] prevede comunque la
possibilità che il giudice tenga conto di “diversi accordi liberamente raggiunti dalle parti”, ed in
questo senso si aprono per i genitori molte strade.
Una di queste è rappresentata, solo per fare un esempio, dal fatto che l’obbligo di mantenimento
dei figli può essere adempiuto anche attraverso un accordo che preveda, in sostituzione o in concorso con un assegno periodico, l’attribuzione ai figli della proprietà di beni mobili o immobili [5].
Soluzione questa, più facilmente ipotizzabile nel caso in cui l’altro genitore abbia una adeguata
autosufficienza economica.
[1] Art. 337 ter cod. civ.
[2] Cfr. Cass. sent.. 3974/2002.
[3] DL n. 132/14, conv. con L. n. 162/14.
[4] Cfr. Cass. sent. n. 6872/99.
[5] Cfr. Cass. sent. n. 3747/06.
[6] Art. 158 cod. civ e art. 711 cod.. proc. civ.
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LE SPESE STRAORDINARIE PER I FIGLI
di Raffaella Mari
È sempre problematico, per i genitori separati e in continuo conflitto, stabilire cosa rientri nelle
spese ordinarie per il sostentamento del figlio (cui normalmente deve provvedere il genitore presso cui la prole è collocata o cui è affidata) e spese straordinarie (che, al contrario, devono essere
sostenute al 50% da entrambi gli ex coniugi).
La legge, forse per garantire ai giudici una soluzione, di volta in volta, più consona al caso concreto, non elenca né distingue con precisione le spese attinenti al soddisfacimento dei bisogni della
prole, tra “spese straordinarie” e “spese ordinarie”.
È dunque il giudice che deve individuare, per quanto possibile in modo analitico e dettagliato nel
caso in cui sorgano contrasti tra i genitori, quali spese vadano considerate nell’una o nell’altra categoria. Li dove, infatti, si parli di “spese ordinarie” il genitore non collocatario (o non affidatario)
della prole vi contribuisce già attraverso il mantenimento diretto ossia con l’assegno periodico disposto a suo carico; ma tale inglobamento non vale invece per le “spese straordinarie“.
Una sentenza del Tribunale di Roma [1] fissa un parametro di distinzione tra le due categorie di
spese e, in particolar modo, con riferimento ai corsi privati dei figli.
I giudici ritengono che le “spese straordinarie” non possano mai ritenersi comprese in modo forfettario all’interno della somma da corrispondersi con l’assegno periodico; diversamente si rischierebbe di recare pregiudizio al minore [2]. Così, nelle “spese ordinarie” si considerano comprese
quelle destinate a soddisfare i bisogni quotidiani del minore, ed in quelle “straordinarie“, invece, gli
esborsi necessari a far fronte ad eventi imprevedibili o addirittura eccezionali, ad esigenze non
rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli minori fino a quel momento, o comunque spese
non quantificabili e determinabili in anticipo o di non lieve entità rispetto alla situazione economica
dei genitori [3].
Le aule di tribunale definiscono “straordinarie” le spese: “non ricorrenti e, comunque, non prevedibili in anticipo sempre che di apprezzabile importo, ad esclusione di natura voluttuaria (ossia per
bisogni ludici, non strettamente necessari) [4].
Ciò che spesso il genitore non collocatario (o non affidatario) del minore contesta all’altro, innanzi
ad una richiesta di rimborso di spese già effettuate, è il fatto che la spesa medesima non sia stata
decisa di comune accordo ma, al contrario, in modo unilaterale ed arbitrario, cosicché nulla a lui
può essere addebitato. Ecco che, allora, si parla a riguardo di “scelte straordinarie” che sono appunto quelle che vanno prese di comune accordo.
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Le scelte straordinarie
In proposito è fondamentale specificare come tra “scelte straordinarie” e “spese straordinarie” non
sussista un’assoluta ed automatica coincidenza.
Non sempre, infatti, una spesa straordinaria è conseguenza di una “decisione straordinaria”, cioè
“di maggior interesse”. Al contrario, più frequente è invece che una “scelta straordinaria“, riguardante qualsiasi profilo della vita del minore (scolastico; ludico; sanitari; ecc.), comporti una “spesa
straordinaria” [5].
Illuminante è, a riguardo, una recente pronuncia della Cassazione [6] secondo cui: “l’affidamento
congiunto presuppone un’attiva collaborazione dei genitori nell’elaborazione e la realizzazione del
progetto educativo comune”. Le singole decisioni, quanto meno di quelle più importanti, è necessario che vengano assunte sulla base di effettive consultazioni tra i genitori, e quindi con il consapevole contributo di ciascuno di essi. In altre parole, le “scelte straordinarie” devono essere sempre prima concordate.
Ne discende che il genitore che richieda all’altro il rimborso di spese sostenute per il minore deve
dimostrare al giudice di aver provveduto a consultare preventivamente l’ex coniuge, al fine di ottenere il consenso all’atto. Così, per esempio, all’iscrizione della prole presso un “istituto privato“.
L’istituto privato
Nel caso concreto, quindi, l’iscrizione della minore ad una scuola privata, come qualsiasi altra decisione di “maggiore interesse”, si deve assumere concordemente da parte di entrambi i genitori e
con il comune consenso. In caso, invece, di assenza di qualsiasi consultazione del genitore non
collocatario esclude che lo stesso possa essere solo richiamato per rimborsare il 50% della spesa
straordinaria che ne consegue.
Le spese straordinarie
Tuttavia, la Cassazione [7] ha stabilito che il coniuge affidatario non ha l’obbligo di informare e
trovare un previo accordo con l’altro per la determinazione delle spese straordinarie (nella specie,
spese di soggiorno negli U.S.A. per la frequentazione di corsi di lingua inglese da parte di uno
studente universitari di lingue). Il coniuge non affidatario, pertanto, è obbligato a rimborsare la sua
parte qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.
Ne consegue che, nelle scelte “di maggior interesse” della vita quotidiana del minore – quali, di
regola, quelle attinenti alla sua istruzione, ciascun genitore, in ogni caso ed in ogni tempo, ha un
autonomo potere di attivarsi nei confronti dell’altro per concordarne le eventuali modalità, e, in difetto, ricorrere all’autorità giudiziaria.
Dopo questa breve precisazione, è necessario individuare gli attuali indirizzi giurisprudenziali nella
tipizzazione delle diverse tipologie di spese.
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Spese scolastiche educative
Per quanto riguarda quelle maggiormente attinenti al profilo scolastico/educativo del minore, dunque, i giudici riconducono tra le “spese ordinarie“, anche se parametrate nell’arco di un anno e non
di carattere giornaliero, quelle effettuate per l’acquisto di libri scolastici, di materiale di cancelleria,
dell’abbigliamento per lo svolgimento dell’attività fisica a scuola, della quota di iscrizione alle gite
scolastiche.
Tutto ciò, ovviamente, basandosi sulla considerazione che la frequenza scolastica da parte del
minore non è qualcosa di eccezionale ed imprevedibile ma, al contrario, di obbligatorio e fondamentale.
Anche le spese mensili per la frequenza scolastica con annesso semi-convitto è stata considerata
una “spesa ordinaria” in relazione al normale standard di vita seguito dal minore fino al momento
della crisi familiare.
Per quanto riguarda, invece, i viaggi studio all’estero [8] e le ripetizioni scolastiche o gli sport [9] la
giurisprudenza li riconduce più frequentemente alla categoria delle “spese straordinarie“.
Esigenze sanitarie
L’altra categoria di esborsi particolarmente rilevante è quella concernete le esigenze sanitarie della prole le quali, a seconda della loro natura, vengono a volte ricomprese nelle “spese ordinarie”
ed altre volte qualificate come “spese straordinarie”.
A titolo esemplificativo rientrano tra le prime, secondo quanto risulta da innumerevoli pronunce dei
giudici, le cosiddette “cure ordinarie“, come le visite pediatriche, l’acquisto di medicinali da banco o
comunque di uso frequente, visite di controllo routinarie [10]. Anche quanto necessario a garantire
cura ed assistenza al proprio figlio disabile non può che ritenersi “spesa ordinaria” essendo destinata, invero, a soddisfare i bisogni quotidiani del ragazzo in relazione alla specificità della sua situazione [11].
Diversamente vengono qualificate come “straordinarie” le spese concernenti un improvviso intervento chirurgico, dei trattamenti psicoterapeutici, dei cicli di fisioterapia necessari in seguito ad un
incidente stradale od altro ed, infine, quanto erogato per acquistare un paio di occhiati da vista al
minore o l’apparecchio ortodontico [12].
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Divertimento
La vita del minore, ovviamente, si compone anche di essenziali momenti ludici e di svago che i
genitori, nei limiti ovviamente della loro situazione economico-reddituale, sono chiamati a soddisfare. Basti citare ad esempio l’acquisto di un computer o quello di un motorino, qualificate come
“spese straordinarie“, od anche le somme necessarie per giungere a conseguire la patente di guida ed a pagare, successivamente, eventuali contravvenzioni dovute a violazione del codice della
strada da parte dei figli [13].
[1] Trib. Roma sent. n. 23353/2013.
[2] Cass. civ., n. 9372, del 08 giugno 2012, nella parte in cui si afferma che: “… la soluzione di includere le spese
straordinarie, in via forfettaria, nell’ammontare dell’assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi in netto contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall’articolo 155 cod. civ. E con quello dell’adeguatezza del mantenimento, poiché si introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i
principi che regolano la materia”.
[3] Cass. sent. n. 7672, del 19.07.1999; Cass. sent. n. 6201, del 13.03.2009; Cass. sent. n. 23411, del 04.11.2009.
[4] Tribunale di Catania, ord. 11.10.2010; il Tribunale di Catania già il 04 novembre 2008, definiva le spese straordinarie come: “quelle connotate dal requisito dell’imprevedibilità che non ne consente l’inserimento nell’assegno mensile, il
quale copre le normali esigenze di vita quotidiana ma non gli esborsi (eventualmente anche periodici) dettati da esigenze specifiche non quantificabili ex ante proprio perché non rientranti nella consuetudine di vita avuto riguardo al
livello sociale del nucleo familiare”).
[5] Cass. sent. n. 4459, del 05.05.1999; Cass. sent. n. 26570 del 17.11.2007; Cass. sent. n. 2189, del 20.012009.
[6] Cass., sent. n. 10174, del 20.06.2012.
[7] Cass. sent. n. 19607/2011.
[8] Cass. sent. n. 19607/26/09/2011.
[9] Trib. Roma, sent. n. 147, del 2013.
[10] Trib. Catania, sent. del 04.12.2008; C. App. Catania, sent. del 29.05.2008 e 05.12.2011.
[11] Cass. civ. sent. n. 18618/2011.
[12] Trib. Perugia, sent. n. 967/2011.
[13] Trib. Ragusa, sent. n. 278/2011; Trib. Ragusa sent. n. 243/2011.
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IL MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI
di Maria Monteleone
L’obbligo di mantenimento da parte dei genitori perdura oltre la maggiore età dei figli qualora costoro non siano in grado di provvedere in modo autonomo alle proprie esigenze di vita, né si siano
ancora essenzialmente svincolati dall’habitat domestico.
Non è possibile prefissare un termine di durata dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni.
In generale, l’obbligo cessa quando il figlio raggiunge l’indipendenza economica o costruisce una
nuova famiglia autosufficiente. L’obbligo termina anche quando, pur essendo stato messo nella
condizione di farlo, il maggiorenne non ha saputo o non ha voluto – per sua scelta o per sua colpa
(per es. trascuratezza) – raggiungere l’autonomia economica dai genitori.
Il giudice, nel disporre l’assegno di mantenimento, deve valutare la diligenza del figlio nella ricerca
di un’occupazione al termine degli studi [1]. Pertanto il tribunale può estinguere il diritto alla corresponsione dell’assegno qualora la condizione di non autosufficienza economica del giovane sia
dipesa da una sua inerzia o rifiuto ingiustificato.
In caso di separazione tra i coniugi
Al raggiungimento della maggiore età del figlio, il coniuge onerato del mantenimento (in caso di
separazione tra i coniugi) non può autonomamente provvedere ad autoridursi o eliminare del tutto
il contributo che versa al figlio; al contrario, egli deve instaurare un giudizio davanti al giudice, volto ad ottenere la modifica delle condizioni di separazione o divorzio [2].
Infatti il solo raggiungimento della maggiore età del figlio o la sua acquisita autosufficienza economica non liberano, in automatico, il genitore onerato dal versargli il mantenimento; perché ciò
avvenga è necessario un provvedimento del giudice [3].
L’assegno di mantenimento non è più dovuto qualora il figlio maggiorenne abbia iniziato con carattere di stabilità un’attività lavorativa conforme alla professionalità acquisita [4].
Quando si raggiunge l’indipendenza economica?
Secondo l’orientamento più recente, affinché venga meno l’obbligo dei genitori di mantenere il figlio, non è sufficiente che questi abbia trovato un impiego stabile, ma è addirittura necessario che
tale impiego sia adeguato alle sue attitudini e aspirazioni. Pertanto, il figlio ha diritto a essere mantenuto dai genitori anche se ha rifiutato una sistemazione lavorativa non adeguata a quella cui sono rivolti la sua preparazione, le sue attitudini e i suoi effettivi interessi [5].
In alcuni casi, i giudici hanno ritenuto che non è sufficiente a esonerare il genitore dall’obbligo di
mantenimento l’offerta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio; solo il
rifiuto – privo di una valida giustificazione – di una offerta del tutto idonea rispetto alle concrete e
ragionevoli aspettative del giovane [6] esonera il genitore dall’obbligo di mantenimento.
Quanto all’onere della prova, spetta al genitore dimostrare, davanti al giudice, l’avvenuto raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato, oppure che egli si sottrae volontariamente allo svolgimento di un’attività lavorativa adeguata [7].
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Se il figlio perde la propria indipendenza economica ha nuovamente diritto di essere mantenuto dai genitori?
Se il figlio ha trovato un impiego stabile che lo ha reso economicamente autosufficiente, ma poi lo
perde, non risorge l’obbligo di mantenimento per i genitori; l’obbligo infatti si è estinto definitivamente con il raggiungimento dell’indipendenza economica del figlio [8].
Il figlio disoccupato non può quindi reclamare l’assegno di mantenimento; ma, se ne ricorrono i
presupposti, può chiedere la corresponsione degli alimenti. L’obbligo alimentare è diverso da quello di mantenimento, in quanto può ricorrere in capo al genitore anche quando sia cessato il secondo. Occorre, però, che vi sia un vero stato di bisogno del figlio che obbliga i genitori a fornirgli
quanto necessario per vivere.
L’obbligo di mantenimento cessa quando il figlio si sposa?
L’obbligo di mantenimento cessa quando il figlio maggiorenne contrae matrimonio e crea un nuovo nucleo familiare, salvo persista lo stato di bisogno e la necessità di mezzi di sostegno per vivere. In un caso recente, infatti, la Cassazione ha obbligato una coppia al mantenimento della loro
figlia maggiorenne nonostante si fosse sposata, poiché sia lei che il neo marito erano ancora studenti, privi di autonomia economica e ancora conviventi con i genitori [9].
Chi è legittimato ad agire per ottenere l’assegno di mantenimento?
Nell’ipotesi in cui sussistano i presupposti per l’assegno di mantenimento, ma il genitore obbligato
non vi provveda, possono agire in giudizio il figlio maggiorenne o l’altro genitore. In particolare, se
il figlio non convive più con il genitore, è lui l’unico creditore dell’assegno, e quindi l’unico legittimato ad agire per ottenerlo [10].
Se, invece, il figlio non ha abbandonato la casa familiare e convive con il genitore affidatario, il
quale continua a provvedere direttamente ed integralmente al suo mantenimento, sono ugualmente legittimati sia il figlio che il genitore [11]. Infatti, il genitore convivente resta legittimato ad ottenere dall’altro genitore anche l’assegno di mantenimento a proprio favore, a titolo di rimborso di
quanto già anticipato per mantenere il figlio [12].
In ogni caso, il giudice può prevedere che il genitore onerato del mantenimento versi direttamente
l’assegno al figlio e non all’ex che convive con questo.
[1] Cass. sent. n. 1506/1990 e n. 1353/1998.
[2] Cass. sent. n. 13184 del 16.06.2011.
[3] Trib. Modena, sent. del 23.02.2011.
[4] Trib Modena, sent. del 27 gennaio 2011.
[5] Cass. sent. n. 4765/2002.
[6] Cass. sent. n. 4616/1998.
[7] Cass. sent. n. 14123/2011.
[8] Cass. sent. n. 19589/2011.
[9] Cass. sent. n. 1830 del 26 gennaio 2011.
[10] Trib. Trani, sent. n. 440/2008.
[11] Cass. sent. n. 2934/1999.
[12] La legittimazione del genitore convivente con il figlio maggiorenne è quindi diversa dalla legittimazione del figlio di
maggiore età. La prima è fondata sulla continuità dei doveri gravanti su uno dei genitori nella persistenza della situazione di convivenza, l’altra invece trova fondamento, nella titolarità del diritto al mantenimento.
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L’AFFIDAMENTO DEI FIGLI: condiviso o esclusivo?
di Maria Elena Casarano
Nell’ultimo decennio si è passati da un sistema che dava prevalenza, dopo la separazione,
all’affidamento ad un solo genitore (di solito la madre) ed in via subordinata ad entrambi (cosiddetto affidamento congiunto), ad un sistema nel quale – recependo i principi già enunciati a livello internazionale [1] – l’affidamento ad entrambi i genitori (cosiddetto condiviso) rappresenta la regola
ordinaria [2].
Si è voluto, così, assicurare ai minori il diritto alla bigenitorialità, ossia a mantenere, anche a seguito della crisi familiare, un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere
da loro cura, educazione, istruzione e assistenza morale e di conservare rapporti significativi con
tutti i parenti di ciascun ramo genitoriale [3].
A questo scopo il giudice deve:
– valutare in via prioritaria la possibilità che essi restino affidati ad entrambi i genitori (come avveniva prima della separazione della coppia)
– oppure stabilire a quale dei due essi vadano affidati [4].
Dunque, l’affidamento ad un solo genitore (cosiddetto esclusivo) rappresenta l’eccezione che
potrà essere praticata solo quando l’affidamento all’altro si riveli, per le più svariate ragioni (che a
breve vedremo), contrario all’interesse dei figli minori [5].
Quanto enunciato rappresenta un principio di carattere generale che va applicato con riferimento a
tutti i figli e, perciò, non solo nell’ambito di procedimenti di separazione o divorzio dei genitori, ma
anche di quelli di regolamentazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio. Principio,
peraltro, rafforzato a seguito della più recente riforma sulla filiazione [6] che ha totalmente parificato la figura dei figli, eliminando la pregressa distinzione tra quelli naturali (cioè nati da coppie non
coniugate) e legittimi (in quanto nati da coppie di fatto).
Che significa avere l’affido esclusivo dei figli?
Di solito, si è istintivamente indotti a pensare che il genitore al quale il giudice abbia affidato i figli
in via esclusiva possa decidere su tutto ciò che li riguarda senza dover interpellare l’altro. In realtà
le cose non affatto in questi termini.
Cerchiamo allora di fare chiarezza.
Già prima della riforma sulla filiazione, si era detto che anche se l’affido ad un solo genitore non
esclude l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, le decisioni di maggiore interesse per i figli
non possono essere assunte da entrambi i genitori se uno dei due non abbia affatto (o la abbia in
forma ridotta) idoneità educativa; in questi casi, perciò, all’affidamento ad un solo genitore deve
inevitabilmente conseguire l’esercizio esclusivo della potestà [7].
Tale conclusione è stata poi cristallizzata con l’entrata in vigore la legge che ha sancito
l’uguaglianza giuridica di tutti i figli [6]. Sicché oggi:
– il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva – salva diversa disposizione del giudice – ha
l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi, con l’obbligo di attenersi alle condizioni stabilite dal magistrato;
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– il genitore al quale non sono affidati i figli ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione
ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse;
– entrambi i genitori, salvo che non sia un diverso provvedimento, devono adottare insieme le decisioni di maggiore interesse per i figli [8].
Rimane, dunque, ancora oggi la necessità che le decisioni importanti siano prese da entrambi i
genitori, sicché, in presenza di motivi di particolare gravità che rendano del tutto impraticabile la
decisione congiunta sulle questioni di maggior interesse per la prole, il genitore affidatario potrà,
semmai, richiedere un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale [9].
Il diritto di visita dei minori se l’affido è esclusivo
Quando i figli minori sono affidati ad un solo genitore, l’altro conserva il pieno diritto a frequentarli.
In tal caso, fatti salvi i casi in cui alla base del provvedimento di affido esclusivo vi sia una grave
inidoneità genitoriale (si pensi ad esempio al caso in cui la prole abbia subito violenze dal genitore), il giudice dovrà sempre indicare i modi e i tempi di permanenza del minore presso il non affidatario, dovendo in ogni caso tener conto del diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato
e continuativo sia con la madre che con il padre [10].
A chi spetta decidere sulla forma di affido?
Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l’affidamento esclusivo dei figli minori
[11].
Ma attenzione! Le motivazioni alla base di tale richiesta devono essere adeguatamente provate.
In altre parole non basterà che il genitore fondi la propria domanda sul semplice timore, o anche la
convinzione, che l’altro genitore non sia in grado di assumersi le responsabilità derivanti dal suo
ruolo, ma dovrà dar prova di come la condotta di quest’ultimo abbia pregiudicato, o possa fondatamente pregiudicare il futuro benessere dei figli.
Nel caso in cui, infatti, l’istanza di affido esclusivo si riveli palesemente infondata, il giudice potrà:
– prendere dei provvedimenti nell’interesse dei figli che tengano in debito conto del comportamento del genitore richiedente (come quella di affidare il figlio solo all’altro genitore),
– condannare, anche d’ufficio (cioè senza che gli sia formulata una espressa richiesta) chi richiede
l’affido al risarcimento del danno da responsabilità aggravata (con una somma determinata in via
equitativa) per aver agito in giudizio con mala fede o colpa grave [12].
In altre parole, una richiesta di affido esclusivo priva di fondamento (magari formulata solo per ripicca nei confronti dell’ex) potrebbe addirittura avere un effetto boomerang nei confronti del genitore che l’abbia formulata. Come ha, infatti chiarito il Tribunale di Milano [13], il comportamento
processuale del genitore che mantiene ferma la richiesta di affido senza fornire elementi a sostegno della sua domanda,” limita fortemente il libero esplicarsi del diritto dell’altro genitore ad allevare il figlio ed è contrario ai doveri di lealtà”.
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Affido esclusivo: quando?
Il giudice, dunque, ha piena facoltà di derogare al criterio generale di affidamento dei figli minori
ad entrambi i genitori, disponendo quello in favore di un solo genitore.
Tale autonomia decisionale, tuttavia, non è assoluta e incondizionata; la scelta del magistrato, infatti, deve essere supportata da una corretta motivazione [5], mancando la quale il genitore interessato potrebbe legittimamente decidere di impugnare il provvedimento.
Il criterio che il giudice deve seguire – come affermato dalla giurisprudenza costante [14] – è quello della cosiddetta motivazione in negativo. In parole semplici si tratta di questo: poiché l’affido
condiviso rappresenta la regola rispetto a quello esclusivo, per poter derogare ad esso, non basta
che la decisione di affido ad un solo genitore si fondi sulla valutazione “in positivo” della idoneità
del genitore affidatario (che nulla dice in merito alle capacità genitoriali dell’altro), ma occorre anche che il giudice fornisca una motivazione “in negativo” sulla:
– inidoneità educativa del genitore che si vuole escludere dall’analogo esercizio della responsabilità sui figli
– e non rispondenza all’interesse della prole della modalità ordinaria di affidamento condiviso.
Ad esempio: è stata annullata una decisione che aveva negato l’affidamento condiviso ad una
madre, condannata per calunnia nei confronti dell’altro genitore, in quanto il giudice non aveva
motivato la inidoneità educativa della donna, quale genitore non affidatario [15]. I cattivi rapporti
tra i genitori, infatti, non rappresentano (come a breve vedremo) una prova di inidoneità genitoriale
tale da giustificare la scelta dell’affido esclusivo.
L’affido esclusivo può essere previsto con accordo?
Come ribadito in diverse pronunce [16] la regola dell’affido condiviso non ammette deroghe
neppure nell’ambito di un accordo prodotto in un procedimento consensuale. Ciò in quanto, il giudice, nel momento in cui decide in merito al tipo affidamento deve avere come obiettivo primario
l’esclusivo interesse dei minori a ricevere l’istruzione, le cure e l’educazione di entrambi i genitori.
Il magistrato, dunque, salvo che non ravvisi fattori di rischio o di pericolo per una serena crescita
dei figli (si pensi al caso in cui un genitore, consapevole del proprio stato di forte dipendenza
dall’alcool, si dichiari in favore dell’affido esclusivo all’altro genitore, sentendo di poter costituire un
pericolo alla incolumità dei figli) non è in alcun modo vincolato da una eventuale richiesta congiunta dei genitori di affido esclusivo ad uno solo di loro.
Tale principio vale per ogni genere di accordo che riguardi i figli che il giudice non è tenuto ad
omologare nel momento in cui esso contrasti con il loro interesse; i provvedimenti sui figli minori ,
infatti, possono essere assunti anche d’ufficio, cioè senza che nessuno dei genitori formuli una
espressa richiesta a riguardo (si pensi al caso in cui il tribunale decida di affidare a terze persone
un minore che vive in una situazione di particolare degrado).
I casi più frequenti di richiesta di affido esclusivo
Sono molte le richieste di affidamento esclusivo dei figli da parte dell’uno o dell’altro genitore sulle
quali i giudici si trovano a dover decidere.
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Prima di procedere ad un esame delle più ricorrenti (ma anche le più problematiche), è bene chiarire che il magistrato è tenuto a valutare la inidoneità genitoriale (in grado giustificare la deroga
all’affidamento condiviso) in modo oggettivo.
In parole semplici, la decisione del giudice deve tener conto di qualunque situazione, comportamento o condizione personale (anche involontaria) che imponga di tutelare l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli (si pensi a situazioni di malattia psichica, alcolismo, tossicodipendenza).
Ma se vi sono situazioni nelle quali può apparire con maggiore evidenza l’inadeguatezza del ruolo
genitoriale (ad esempio nel caso di violenza perpetrata sui figli) ve ne sono altre, di certo assai più
frequenti, per le quali la scelta sul tipo di affidamento non appare altrettanto scontata.
Esaminiamo di seguito le più ricorrenti:
1.La conflittualità tra i genitori: l’affidamento condiviso alternato.
Un principio ribadito in numerose pronunce [17] è che la litigiosità tra padre e madre non rappresenta di per sé una condizione di inidoneità genitoriale e, di conseguenza, non giustifica
l’affidamento esclusivo. Si è detto, infatti, che far dipendere la scelta sul tipo affidamento dal rapporto (più o meno armonico) esistente tra padre e madre separati, finirebbe col subordinare il primario diritto dei figli a vivere pienamente la bigenitorialità alla qualità dei rapporti che vi sono fra
padre e madre, i quali potrebbero anche (cosa che spesso avviene) usare il conflitto per limitare la
piena relazione dell’ex con i figli.
Dunque, l’eventuale ostacolo all’affido condiviso, va individuato solo nell’ambito del rapporto diretto tra il singolo genitore e il minore, quando vi sia una concreta situazione di pregiudizio o anche di
mero disagio per il figlio stesso tale da giustificare una limitazione alla regola generale dell’affido
ad entrambi i genitori.
Vi sono, tuttavia alcune pronunce in senso contrario che, in presenza di un alto grado di litigiosità
dei genitori giustificano:
– la scelta dell’affido esclusivo ritenendo che il grave conflitto tra gli adulti possa rappresentare un
serio pericolo per l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli (specie se in tenera età) [18]
– o forme differenti di affidamento condiviso, come quella dell’affidamento alternato.
Di che si tratta? Per capirlo occorre fare riferimento ad un recente provvedimento col quale il Tribunale di Ravenna [19], dinanzi ad una situazione di forte conflitto fra i genitori, ha disposto
“l’affidamento condiviso dei figli ai genitori con collocamento alternato settimanale a rotazione annuale dei periodi presso gli stessi”.
Il Tribunale ha precisato che a questo tipo di collocamento conseguono gli obblighi per ciascun
genitore nei periodi di rispettiva permanenza del figlio:
– di provvedere al mantenimento diretto del minore, fatta eccezione delle spese di natura straordinaria gravanti su padre e madre in parti uguali
– nonché di garantire all’altro almeno un contatto telefonico al giorno con il minore.
Il provvedimento in questione è apparso, sulla base delle conclusioni della ctu disposta nel caso
concreto, l’unica soluzione in grado di tutelare al massimo la tranquillità e serenità del minore (di
soli 6 anni) minacciata dal serio rischio che la forte litigiosità dei genitori, inasprita nelle occasioni
di contatto tra loro, potesse ripercuotersi sulla serenità del figlio.
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2.La distanza tra le residenze dei genitori e il trasferimento di residenza
In linea generale, si esclude che la distanza tra i luoghi di residenza dei genitori possa essere di
per sé motivo per derogare all’affido condiviso [20].
Sta di fatto che essa rappresenta una situazione che presenta forti problemi pratici.
Il Tribunale per i Minorenni di Bologna, ad esempio, in una delle prime decisioni sul punto [21], ha
evidenziato che il diritto dei minori alla bigenitorialità (espressamente riconosciuto dalla legge
sull’affidamento condiviso) limita in modo significativo il diritto costituzionale di chiunque di fissare
la propria residenza in qualunque parte del territorio nazionale, o all’estero.
Non di poco conto è poi il fatto che, se da un lato i genitori dovrebbero assumere di comune accordo la decisione sulla residenza abituale dei figli anche in caso di separazione, trattandosi di
una decisione” di maggior interesse” ( insieme a quella su istruzione, educazione e salute),
dall’altro lato la stessa legge prevede che “in presenza di figli minori, ciascuno dei genitori ha
l’obbligo di comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento
di residenza o di domicilio [22], dovendo – in mancanza – risarcire il danno eventualmente verificatosi all’altro o ai figli per la difficoltà di reperire il soggetto.
Dunque, l’unico obbligo gravante sul genitore che decide di trasferirsi è quello di darne comunicazione all’altro, ma null’altro.
Come conciliare queste due norme? Sul punto è intervenuta, proprio di recente, la Cassazione
con alcune pronunce [23] che hanno chiarito come, il giudice non può imporre ad alcuno dei genitori di rinunziare al progetto di trasferirsi, che –come dicevamo – rappresenta un diritto garantito
dalla Costituzione; egli può solo prendere atto delle decisioni a riguardo e regolarsi di conseguenza nell’assumere i provvedimenti sull’affido e il collocamento della prole nell’esclusivo interesse di
questa (possiamo pensare, ad esempio, a dei provvedimenti che disciplinino con cadenza differente da quella infrasettimanale il diritto di visita del genitore che non collocatario).
In altre parole, se pure la scelta di uno dei genitori di trasferire altrove la residenza coi figli è insindacabile , il giudice deve valutare se la collocazione presso l’uno o l’altro dei genitori risponda al
prioritario interesse della prole.
3.Nuova famiglia o nuova relazione dell’altro genitore
Anche la circostanza che l’altro genitore abbia inserito il figlio nella sua nuova famiglia non giustifica la deroga all’affido condiviso; a riguardo, il Tribunale di Milano, ad esempio, ha affermato [24]
che l’inserimento graduale da parte dei genitori separati dei nuovi partner nella vita dei figli nati
dalla precedente unione, corrisponde al loro benessere, sempre che tuttavia i genitori abbiano la
premura di far comprendere ai minori che i nuovi compagni non sostituiscono l’altro genitore.
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Si è anche escluso che la circostanza che un genitore viva una relazione omosessuale sia motivo
per escludere l’affido condiviso, a meno che non venga provato che tale contesto familiare si traduca in comportamenti dannosi per il bambino. I giudici hanno affermato, infatti, che
l‘omosessualità non esprime in sé alcuna inidoneità genitoriale; non ci si può, dunque, limitare ad
evocare in giudizio modo generico ed astratto possibili ripercussioni negative sul piano educativo
e sulla crescita del minore, senza allegare prove concrete (come certezze scientifiche o dati di
esperienza) a fondamento della propria tesi. In tal caso, infatti, la richiesta di affido esclusivo sarebbe basata sul mero pregiudizio che la vita del minore in una famiglia composta da una coppia
omosessuale sia di per sé dannosa per un suo sano sviluppo [25].
4.Il coinvolgimento del figlio nella fede religiosa
Anche in tema di educazione religiosa dei figli, si è detto che l’eventuale cambiamento della fede
religiosa da parte di uno dei genitori può incidere sull’affidamento nel caso in cui l’educazione secondo i principi del nuovo credo si riveli pregiudizievole all’interesse del minore in quanto effettuata in modo tale da avere un’incidenza (anche in ragione dell’età) sul suo processo evolutivo. Nel
caso specifico, semmai, il giudice, nel disporre l’affido condiviso dei figli minori, può prevedere –
nell’interesse di questi – specifiche prescrizioni e divieti a carico dei genitori (ne abbiamo parlato in
questo articolo: “La separazione può incidere sull’educazione religiosa dei figli?”).
Ad esempio, non è stato ritenuto di ostacolo all’affido condiviso il comportamento di una madre
collocataria di un minore preadolescente, divenuta testimone di Geova, che intendeva educare il
figlio secondo il nuovo credo; in tal caso, il giudice ha confermato il provvedimento col quale aveva
imposto alla donna di non coinvolgere il figlio nella propria scelta religiosa [26].
5.Il totale disinteresse (morale e materiale) del genitore: l’affido superesclusivo
La Cassazione, in molte pronunce [27], ha ritenuto un chiaro indice di inidoneità genitoriale in grado di giustificare la revoca dell’affido condiviso, il comportamento del genitore che non adempia
all’obbligo di contribuire al mantenimento del figlio minore, si disinteressi completamente del suo
benessere, non si preoccupi di conoscere, né tantomeno soddisfarne i bisogni, non ne rispetti la
sensibilità.
Pertanto, è stato ritenuto legittimo disporre l’affidamento esclusivo o confermarne il permanere
(anche in sede di successiva richiesta di modifica) quando il genitore non collocatario:
– abbia mancato di versare l’assegno di mantenimento
– o sia stato discontinuo nell’esercizio del diritto di visita.
Con riferimento a tale situazione di totale disinteresse per il figlio, i giudici hanno parlato per la
prima volta di affido superesclusivo.
Questo rappresenta una forma di affido che concentra tutto l’esercizio della responsabilità genitoriale sull’altro genitore, sicché (in deroga a i principi generali) anche le scelte di maggior interesse
per la prole (come quelle sulla salute e sulla istruzione)sono assunte solo dal genitore affidatario
per evitare che la rappresentanza degli interessi del minore possa essere pregiudicata anche con
riferimento a questioni di particolare importanza.
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Il genitore non affidatario, in tal caso, conserverà:
– la responsabilità genitoriale nel tempo trascorso con i figli
– il potere-dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione
– il potere di fare ricorso al giudice nei casi in cui il genitore affidatario assuma delle decisioni pregiudizievoli per la prole.
6.Il rifiuto del figlio di incontrare un genitore
Nel caso in cui sia il figlio a rifiutare l’incontro con il genitore, in genere viene data prevalenza alle
ragioni del minore, a prescindere dalla circostanza che il rifiuto possa o meno essere stato indotto
dal genitore con cui il minore convive. In pratica, poiché l’affidamento esclusivo può essere disposto solo nell’ interesse dei figli, il giudice può ben escludere l’affido condiviso quando il minore
manifesti il fermo rifiuto di incontrare il genitore [28].
È bene chiarire, tuttavia, che un tale provvedimento non viene mai assunto senza che il giudice
abbia prima tentato ogni strada per il recupero del rapporto tra il genitore e figli (con l’intervento
dei servizi sociali e l’invio in mediazione familiare).
[1] Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la L. 27 maggio 1991, n. 176 nel
Preambolo recita: “Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un
ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione” e nell’art. 9, comma 3: “Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo” e Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa
esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77) che individua nel minore un soggetto non più incapace di provvedere a se
stesso e necessariamente oggetto di decisioni altrui, ma una persona titolare di una serie di diritti e protagonista delle
sue scelte esistenziali.
[2] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso
dei figli”.
[3] Art. 155, comma 1, cod.civ.
[4] Art. 115, comma 2, cod.civ.
[5] Art. 155-bis cod. civ. e 337–quater cod. civ.
[6] Legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154.
[7] Trib. Roma, l 5.10 2012.
[8] Art. 337-quater co. 3 cod. civ.
[9] Art. 330 cod. civ.
[10] Trib. Roma, 26.10. 2012.
[11] Art. 337 quarter co.2 cod. civ.
[12] Ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.
[13] Trib. Milano, 4.03. 2011.
[14] Cfr. Cass. sent. n. 16593/08; n. 26587/09, n. 24526/10; n. 12308/10; n. 9632/15.
[15] Cass. sent n. 24841/10.
[16] Cfr. Trib. Bologna, 29.05. 2007; Trib. Bari, 10.10. 2008; Trib. Messina, 25.01. 2011 Trib. Varese, 21.01. 2013.
[17] Cfr. Cass. sent. n. 6129/15; n. 1730/15; n. 7477/14; n. 21591/12; n. 5108/12; 1777/12; n. 11062/11; n. 16593/08 e
nella giurisprudenza di merito cfr.: Trib. Milano, Sez. 20.03. 2013; Trib. Milano, 13.02.2013; Trib. Roma, 10.01. 2013;
C. App. Napoli 19.03 2010; Trib. Milano, 7.01. 2010; C. App. Bologna 24.11.2008; Trib. Firenze, 22.04.2006; C. App.
Ancona, 22.11. 2006; C. App. Caltanissetta, 29.07.2006.
[18] Trib. Bassano del Grappa, 1.03.2013; C. App. Bologna, 26.02. 2010.
[19] Trib. di Ravenna, ord. del 15.01. 2015.
[20] Cfr. Cass. sent. n. 24526/10; Trib. Messina, 12.10. 2010; C. App. Caltanissetta, 29.07.2006.
[21] Trib. Min. Bologna, 6.02.2007.
[22] Art. 337 sexies.
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[23] Cass., sent. n. 9633/15 del 12.05.15; e n. 6132/15 del 26.03.15.
[24] Trib. Milano, 23.03. 2013.
[25] Cfr. Cass. sent. n. 601/13; n. 16593/08.; Trib. Bologna, 15.07.2008.
[26] Cass. sent. n. 9546/12 e n. 24683/13.
[27] C. App. Bologna, 7.05. 2008; Trib. Napoli, 23.09. 2008 ; Cass. sent. n. 26587/09; Trib. Verona, 11.02. 2009; Trib.
Milano 2.02.2010; Trib. Milano, 10.02.2010 ; Trib. Novara, 11.02.2010; Cass. sent. n. 20075/11; Trib. Roma,
25.11.2013; Trib. Vicenza, 2.04.2013; Trib. Bologna, 13.05. 2014.
[28] Cass. sent. n. 18867/11 del 15.09.11.
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LA CASA FAMILIARE
A CHI SPETTA IN CASO DI SEPARAZIONE?
di Maria Elena Casarano
La legge [1] prevede che in caso di separazione, il godimento della casa familiare debba essere
attribuito tenendo conto, in via prioritaria, dell’interesse dei figli e che dell’assegnazione il giudice
tenga conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di
proprietà. Il provvedimento di assegnazione, come pure quello di revoca, sono trascrivibili e opponibili a terzi.
Si tratta di una formulazione piuttosto generica che lascia aperto lo spazio a molti interrogativi.
Cercheremo, quindi, in questo articolo di dare risposta ai più ricorrenti.
Cosa si intende per casa familiare?
Quando la legge parla di casa familiare, si fa riferimento:
– sia all’immobile nel quale si è articolata la vita della famiglia prima della separazione
– sia all’insieme e all’organizzazione di beni mobili in esso contenuti, quali elettrodomestici, arredi, attrezzature e servizi (si pensi ad esempio all’uso del garage), preordinati alle esigenze di utilizzo dell’assegnatario del bene.
Se ne deduce che il criterio dell’assegnazione non si applica:
– né alle seconde case nelle quali la vita familiare non ha carattere continuativo (come quella usata per le vacanze) e ai beni in esse contenuti
– né ai beni strettamente personali o quelli necessari alle personali esigenze del coniuge (si pensi
ad esempio agli strumenti necessari per la professione o per particolari bisogni di salute) [2].
Quali sono i presupposti per l’assegnazione?
Secondo la giurisprudenza prevalente [3], l’assegnazione della casa coniugale a uno dei due coniugi viene effettuata dal giudice non come misura assistenziale per il coniuge economicamente
più debole, ma solo per tutelare i figli; può quindi ben essere prevista anche rispetto al coniuge
che guadagna di più. Infatti lo scopo dell’assegnazione non è quello di tutelare il tenore di vita di
chi ha minor reddito, ma solo quello di garantire ai figli di continuare a vivere nello stesso ambiente domestico in cui sono cresciuti quando i genitori erano uniti.
Va comunque segnalato un orientamento (seppur minoritario) secondo il quale, poiché il codice
civile dispone che il godimento della casa familiare sia attribuito tenendo “prioritariamente” conto
dell’interesse dei figli, il giudice potrebbe assegnare l’immobile anche a quel coniuge separato (a
cui, però, non sia stata addebitata la separazione) non affidatario della prole, nel caso in cui questi
abbia una necessità prioritaria. Sul punto ci siamo soffermati in questo articolo: “Assegnazione
della casa coniugale: può favorire solo il coniuge più debole?”.
Di solito, tuttavia il godimento della casa familiare viene attribuito:
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– al genitore che abbia avuto l’affidamento esclusivo della prole;
– al genitore collocatario dei figli minori, nel caso – ordinario – in cui gli ex abbiano l’affido condiviso;
– al genitore che convive con figli maggiorenni, sempre che questi non abbiano ancora raggiunto
l’autosufficienza economica.
La scelta del giudice è obbligata?
La presenza di orientamenti discordanti (seppur l’uno prevalente rispetto all’altro) lascia desumere
che il giudice ha, comunque, un potere discrezionale nel decidere sulla assegnazione.
Ciò significa che egli potrebbe anche scegliere di non assegnare l’immobile al genitore con cui vivono i figli qualora:
– le circostanze del caso concreto lo convincano che una composizione globale di tutti gli interessi
coinvolti nella crisi familiare possa essere meglio realizzata attraverso l’allontanamento dei figli e
del genitore con essi convivente dalla casa in cui la famiglia viveva unita [4]: possiamo, a riguardo, pensare al caso in cui l’ambiente domestico rappresenti per i minori un luogo poco sicuro o
fonte di ricordi dolorosi;
– ritenga di dover dare priorità alle esigenze (ad esempio di salute) del genitore non affidatario o
collocatario dei figli (ne abbiamo parlato in questo in questo articolo: “Assegnazione casa coniugale: non sempre segue l’affidamento dei figli”).
Cosa succede se non ci sono figli?
In assenza di prole, il giudice della separazione non potrà pronunciarsi sulla assegnazione della
casa che rimarrà di proprietà del legittimo titolare o – in caso di comproprietà – dovrà essere venduta, data in locazione o divisa.
L’assegnazione incide sui rapporti economici?
L’assegnazione segue i predetti criteri a prescindere dal titolo di proprietà di uno o dell’altro genitore sull’immobile e ciò implica che il genitore che dovrà andar via di casa possa esserne anche il
legittimo proprietario (o comproprietario).
Situazione questa che crea da un lato un indubbio beneficio all’assegnatario, e dall’altro un altrettanto indiscutibile svantaggio al titolare del bene, in quanto:
– egli subirà la privazione del godimento sull’immobile;
– dovrà sostenere spese non indifferenti per soddisfare le proprie necessità abitative;
– subirà un pregiudizio derivante dalla diminuzione del valore del bene (derivante dalla impossibilità di godimento), ove volesse venderlo.
A bilanciamento di questa situazione, la legge [1] prevede che dell’assegnazione il giudice tenga
conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di
proprietà.
Ciò significa, in parole semplici, che, qualora decida di assegnare l’immobile a chi non ne sia proprietario (o comproprietario) il giudice dovrà tener conto di tale circostanza al momento della determinazione dell’eventuale assegno in favore del coniuge assegnatario; assegno che dovrà, di
conseguenza essere ridotto o anche escluso.
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Perciò da un lato il magistrato dovrà soppesare la indubbia utilità economica costituita dalla casa
familiare e dall’altro la consistenza delle “risorse economiche di entrambi i genitori” (patrimonio,
redditi da lavoro, ecc.), senza dimenticare che, in ogni caso, sull’assegnatario peseranno tutta una
serie di spese inerenti all’utilizzo del bene assegnato.
L’assegnazione quanto dura?
L’assegnazione della casa non dura “a vita”. Essa può, infatti, venire revocata, quando ricorrano i
seguenti presupposti:
– i figli raggiungano una loro autonomia economica o cessino di convivere stabilmente con il
genitore assegnatario dell’immobile [5]: in questi casi, il ritorno solo saltuario del figlio presso
l’abitazione, come per i weekend, raffigura un rapporto di semplice ospitalità da parte del genitore
e, come tale, esclude il diritto di abitare la casa familiare;
– altro caso è quello in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare nella casa: si pensi al caso
in cui egli sia costretto ad un trasferimento dettato da motivi di lavoro oppure preferisca, per semplice comodità, anche economica, trasferirsi dalla famiglia;
– ulteriore caso è quello in cui l’assegnatario intraprenda una nuova relazione e vada a convivere
stabilmente con il nuovo compagno/a oppure si risposi; in questo caso, tuttavia, la Cassazione, ha
affermato che la decisione sulla assegnazione della casa coniugale non vada esclusa a priori, ma
debba essere esaminata caso per caso, tenendo conto in via prioritaria dell’ interesse della prole.
In tutti questi casi, il diritto all’assegnazione non viene meno in via automatica, ma dovrà essere
formulata un’apposita istanza al giudice, corredata dalle prove a fondamento della stessa.
Che succede se la casa è in comodato?
Capita spesso che l’immobile che costituisce la casa familiare sia stato concesso alla coppia in
comodato d’uso (spesso dai genitori di uno dei due) per soddisfare le esigenze abitative della famiglia. In tal caso, come ha chiarito di recente la Cassazione a sezioni unite [6], tali esigenze non
possono intendersi cessate con la separazione dei due comodatari; quando vi sono figli, infatti, rimane ferma la necessità di soddisfare le loro necessità abitative.
I giudici supremi hanno perciò affermato che, in questa ipotesi, la lunga durata e la stabilità che
caratterizza le esigenze abitative di un nucleo familiare escludono che si possa applicare la disciplina sul comodato precario (che prevede il diritto del comodante di chiedere la immediata restituzione del bene in qualsiasi momento e senza necessità di uno specifico motivo).
In pratica, anche se le parti contraenti non abbiano stabilito un termine di durata, se il comodato
ha ad oggetto un immobile destinato alle esigenze abitative della famiglia, esso deve intendersi un
comodato di lunga durata, soggetto alle regole del comodato tradizionale.
Ciò implica che chi abbia concesso la casa in comodato può chiedere il rilascio dell’immobile solo
quando:
– cessino le esigenze abitative della famiglia (non quindi con la separazione);
– quando sorga un suo bisogno urgente e imprevisto di riavere l’immobile.
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Che succede se la casa è in locazione?
Se gli ex vivevano in affitto, l’assegnazione farà succedere l’assegnatario nel contratto di locazione stipulato dal coniuge (o convivente)/conduttore [7]. In pratica, il provvedimento del magistrato, provocherà:
– una cessione legale del relativo contratto di locazione in favore dell’assegnatario;
– l’estinzione del rapporto di locazione sul primo conduttore (coniuge/convivente);
– l’acquisizione da parte dell’assegnatario di tutti i diritti e doveri derivano dal contratto.
Il diritto di succedere nel contratto di locazione della casa familiare, tuttavia, cesserà nel caso in
cui l’immobile in questione ceduto, dopo la separazione non venga utilizzato per soddisfare le esigenze della famiglia.
Che succede se la casa viene venduta?
In questo caso bisogna distinguere l’ipotesi in cui la vendita sia successiva o precedente a provvedimento di assegnazione.
Se, dopo il provvedimento (anche provvisorio del tribunale), il proprietario vende la casa a terzi,
l’assegnazione della casa prevale sempre sul terzo che abbia acquistato l’immobile:
– per i primi nove anni se il provvedimento di assegnazione non è stato trascritto nei pubblici registri immobiliari
– ed anche oltre nel caso in cui vi sia stata la trascrizione.
Se il proprietario vende l’immobile prima del provvedimento di assegnazione, in tal caso, la successiva assegnazione della casa all’altro genitore prevarrà sul nuovo acquirente se questi era a
conoscenza dello stato di fatto o di diritto in cui si trovava l’immobile. Ciò vale anche nel caso in
cui l’assegnatario e collocatario della prole sia convivente e non coniuge. Dunque, anche
l’acquirente della casa che abbia regolarmente trascritto l’atto di compravendita prima del provvedimento di assegnazione del tribunale, potrà vedersi per così dire “scavalcato” dal successivo assegnatario della casa [8].
Quali sono le possibili modalità di assegnazione?
L’assegnazione può avere ad oggetto solo l’abitazione (insieme ad oggetti e arredi) nella quale si
è articolata la vita familiare prima della separazione; ciò allo scopo di garantire stabilità alla prole,
non allontanandola dal proprio habitat domestico e dalle consuetudini di vita avute durante la coabitazione della famiglia unita.
Ciò non toglie che, specie quando la coppia riesca a trovare un accordo, sia senz’altro possibile
che il giudice ammetta modalità differenti di assegnazione rispetto a quella tradizionale (cioè dell’
immobile inteso nella sua globalità e ad uno solo dei genitori).
L’assegnazione, infatti, deve proporsi come primario obiettivo quello di tutelare l’interesse dei figli,
tra cui rientra senz’altro quello di conservare, nonostante la separazione, rapporti paritari e significativi con ciascun genitore.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
In quest’ottica possono essere previste diverse modalità di assegnazione, quali:
a– la cosiddetta assegnazione parziale della casa, attraverso la sua suddivisione in due unità
abitative distinte e separate. Questa forma di assegnazione è da escludersi in due casi:
– se le dimensioni o la struttura non ne consentano la divisione;
– quando tra la coppia vi sia una forte conflittualità;
b– l’assegnazione della casa al figlio mentre i genitori si alternano nell’abitarvi [9]: una scelta
che può alleviare nel minore il senso del distacco e consentirgli di mantenere una maggiore stabilità per la conservazione delle sue ordinarie consuetudini di vita, senza bisogno di spostarsi con periodicità nella residenza dell’altro genitore;
c– l’assegnazione a chi tra gli ex non sia collocatario dei figli; ciò sarà possibile ove possa essere utilizzato un diverso immobile (come ad esempio la casa dei nonni) di cui la coppia abbia la
disponibilità: soluzione che potrà evitare al proprietario di sostenere i costi di un nuovo alloggio;
d– infine, il giudice potrà anche decidere di non assegnare l’immobile, ove la coppia opti per la
vendita o l’affitto della casa familiare, finalizzata all’acquisto di due immobili distinti.
In un’ottica di accordo, tra l’altro, gli ex potranno redigere una lista di beni, specificandone la relativa titolarità o escludendone dal godimento dell’assegnatario alcuni, di norma compresi
nell’arredo della casa coniugale [10].
Il magistrato, in altre parole potrà autorizzare le soluzioni più svariate in merito all’assegnazione
(anche eventualmente assunte nell’ambito di una negoziazione assistita), se le ritenga rispondenti
agli interessi dei figli, ma – in mancanza di accordo – non potrà che decidere con riferimento alla
casa familiare e ai beni in essa contenuti, senza poter considerare l’utilizzo di diversi immobili.
[1] Art. 337 sexies cod. civ.
[2] Cfr. Cass. sent. n. 7303/83 e Cass. sent. n. 5793/93.
[3] Cfr Cass. sent. n. 15367 del 22.07.15; sent. n. 18440 del 01.08.2013.
[4] Cfr. Cass. sent. n. 376/99.
[5] Cass., ord. n. 13295 del 12.06.14.
[6] Cass. Sez. Unite, sent. n. 20448 del 29.09.2014.
[7] Art. 6 L. n. 392 1978.
[8] Cass. sent. n. 17971 dell’11.09.2015.
[9] Cfr. Trib. Varese, decr. n. 158/2013; Trib. Milano, decr. del 16.09.2013.
[10] Cass. sent. n. 5189/98.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
CAMBIO DELLE SERRATURE: E’ LECITO?
di Maria Elena Casarano
Quando tra due coniugi, a causa dei continui litigi, la convivenza diventa insopportabile, spesso il
desiderio è quello di andar via da casa. Abbiamo già parlato (quando abbiamo affrontato il tema
dell’abbandono del tetto coniugale) dei possibili rischi legati al fatto che questa scelta sia compiuta
in modo troppo istintivo. Si tratta, inoltre, di una scelta spesso compiuta da chi non ha un titolo sulla casa familiare (come la proprietà o un contratto di locazione o di comodato).
Ma cosa accade quando a non tollerare più la convivenza sia, invece, il coniuge proprietario della
casa familiare? Di fronte a situazioni di forte crisi, egli può ritenersi autorizzato a cambiare le serrature per impedire al coniuge di rientrare in casa? La risposta è negativa: si tratta di un comportamento arbitrario e con precise conseguenze.
Conseguenze sul piano civile
Infatti, fino a quando il giudice non abbia emesso un provvedimento di separazione con cui autorizzi i coniugi a vivere separatamente e assegni a uno dei due la casa familiare, il proprietario
dell’immobile non ha alcun diritto di cambiare la serratura di ingresso; infatti, ciascun coniuge ha
un preciso diritto, garantito dalla Costituzione [1], a godere della casa, indipendentemente dalla
titolarità di essa, fino a quando non intervenga la pronuncia del giudice.
In parole più semplici, anche se i coniugi vivono sotto il tetto coniugale da “separati in casa” anche
chi non sia proprietario dell’immobile conserva su di esso, in ogni caso, il diritto di abitazione. Tale
diritto non viene meno neppure se l’altro coniuge si sia allontanato da casa di sua spontanea volontà.
Ma quali possono essere le conseguenze, sul piano giuridico, della scelta di un coniuge di cambiare la serratura di casa? Innanzitutto, l’altro potrà rivolgersi al giudice per riottenere, attraverso
una specifica azione (la cosiddetta “azione di reintegrazione”[2]), il possesso del bene; potrà
quindi essere autorizzato a tornare in casa.
Ciò non potrà avvenire quando, ad esempio, nel procedimento di separazione vi sia stata
l’assegnazione alla moglie e ai figli della casa familiare di proprietà del marito; in tal caso, infatti,
questi non avrà diritto a chiedere la reintegra nel possesso nei confronti della moglie che abbia
cambiato la serratura, qualora intenda rientrare nell’appartamento per prelevare, ad esempio, dei
beni personali [3].
Ma non è tutto: il coniuge cui sia stato impedito l’accesso alla casa familiare potrà chiedere anche
il risarcimento per il conseguente danno riportato (si pensi alla necessità di trovare una nuova e
adeguata soluzione abitativa).
A riguardo, il Tribunale di Pisa [4], ha condannato una moglie a versare al marito 3.700 euro per il
danno non patrimoniale provocatogli per aver sostituito la serratura di casa, approfittando della
sua assenza: tale condotta, a parere del giudice, aveva gravemente leso il diritto di godimento del
coniuge della casa familiare.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Conseguenze sul piano penale
Cambiare arbitrariamente la serratura di casa espone anche a conseguenze sul piano penale; a
riguardo, la Cassazione [5], con una pronuncia di poche settimane fa, ha condannato per il reato
di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni”[6] un uomo che aveva sostituito la serratura
dell’appartamento in comproprietà, impedendo alla moglie di accedervi; e questo, nonostante la
donna si fosse volontariamente allontanata da casa preannunciando la volontà di separarsi.
Il coniuge, anche in una situazione di convivenza intollerabile, non può sostituire la serratura di ingresso della casa familiare; per farlo, dovrà necessariamente attendere il provvedimento del giudice sulla domanda di separazione e sempre che la sentenza gli assegni la dimora.
In caso contrario, il coniuge che abbia impedito l’accesso all’altro coniuge ne risponderà sia sul
piano civile che penale.
[1] Art. 2 Cost.
[2] Art. 1168 cod. civ.
[3] Cass. sent. n. 6348/91.
[4] Trib Pisa, sent. n. 273 del 13.3.13.
[5] Cass. sent. n. 413 del 29.01.14.
[6] Art. 392 cod. pen.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
IL PRELIEVO DI BENI DALLA CASA CONIUGALE DOPO LA SEPARAZIONE
di Maria Elena Casarano
Quando il giudice pronuncia la separazione, assegnando la casa familiare a uno dei due coniugi
[1] (di norma, a chi abiterà stabilmente con la prole), attribuisce sempre l’appartamento insieme a
tutti quei beni (mobilio, suppellettili, elettrodomestici) e servizi (si pensi ad esempio all’uso del
garage) necessari ad assicurare l’ordinaria organizzazione della vita familiare [2], a prescindere
da chi ne sia il proprietario.
Così facendo, la legge vuole garantire ai soggetti che rimangono ad abitare la casa coniugale (il
coniuge e/o i figli) la continuità delle abitudini domestiche nel luogo che ha costituito – prima della
separazione – l’habitat familiare.
La “casa familiare” è il centro delle consuetudini, degli interessi e degli affetti in cui si esprime e si
articola la vita familiare, e si identifica unicamente con quell’immobile che ha costituito il centro di
aggregazione della famiglia durante la convivenza coniugale [3].
Beni esclusi dall’assegnazione
Va da sé che il criterio dell’assegnazione non è esteso:
– alle seconde case (come, ad esempio, l’appartamento al mare o in montagna) e ai beni in esse
contenuti, utilizzate in maniera temporanea o saltuaria, e nelle quali la vita domestica non ha carattere continuativo;
– ai beni strettamente personali o quelli che soddisfano le particolari esigenze del coniuge (si
pensi ad esempio agli strumenti necessari per la professione o per particolari bisogni di salute):
possono essere prelevati dalla casa familiare senza che occorra alcuna specifica autorizzazione
dell’ex coniuge né, tantomeno, del magistrato.
Facoltà di diverso accordo
Ciò posto, i coniugi possono redigere, di comune accordo, una lista di beni, specificandone la relativa titolarità o escludendone dal godimento dell’assegnatario alcuni, di norma compresi
nell’arredo della casa coniugale [4].
In altre parole, la volontà dei coniugi sulla divisione dei beni prevale su qualsiasi provvedimento
del giudici: i coniugi hanno la possibilità di stabilire concordemente che alcuni beni (specie se di
proprietà di uno solo di loro) vadano a chi dei due dovrà lasciare la casa.
Tale accordo, in caso di separazione consensuale, può essere inserito nel ricorso per ottenere la
separazione o essere stilato in una scrittura separata; potrà anche essere raggiunto in un momento successivo, qualora la separazione, da giudiziale, si trasformi in consensuale.
In caso contrario, invece, rimane fermo il provvedimento di assegnazione secondo le modalità decise dal Tribunale.
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Conseguenze del prelievo di beni non autorizzato
È da considerarsi illegittimo il comportamento dell’ex coniuge non assegnatario dell’immobile che
porti via oggetti o altri beni dalla casa familiare senza che vi sia stato uno specifico accordo in tal
senso. In particolare, non solo, a seguito di una azione in sede civile [5], egli dovrà restituire i beni
al legittimo detentore (in virtù del provvedimento di assegnazione del Tribunale) ma, dinanzi ad
una denuncia dell’ex, dovrà risponderne anche in sede penale.
Secondo la Cassazione [6], infatti, il coniuge che non prenda di buon grado la pronuncia del giudice e si appropri – prima di lasciare la casa assegnata all’ex – di una serie di beni (oggetti di arredo, suppellettili o elettrodomestici) si procura un ingiusto profitto e deve rispondere del reato di
appropriazione indebita [7].
Stesso principio, tuttavia, vale nel caso opposto: quello cioè in cui il coniuge assegnatario
dell’immobile impedisce all’altro di ritirare i propri effetti personali dalla casa familiare.
In tal caso, infatti, sarà il coniuge che rimane in casa a trarre un ingiusto profitto dal godimento di
beni esclusi dalla titolarità personale, perché appartenenti all’altro.
Quando è escluso il reato
Attenzione: questo comportamento non è sempre punito dalla legge penale in quanto il reato è
escluso se il prelevamento di beni avvenga a danno del coniuge “non legalmente separato”, ossia
prima della sentenza di separazione [8].
La legge penale, infatti, non punisce alcuni comportamenti (di norma qualificati come reati) quando sono posti in essere tra congiunti, in quanto suppone che esista tra le parti quel sentimento di
solidarietà familiare (che i giuristi chiamano “affectio familiaris”) che costituisce la base della vita
matrimoniale.
Ma cosa avviene se la sottrazione dei beni è compiuta dopo che il Presidente del Tribunale ha autorizzato i coniugi a vivere separati (assegnando la casa a uno dei due), ma non ha ancora pronunciato la sentenza di separazione?
Il problema è stato affrontato in alcune pronunce dalla Cassazione [9] in cui si afferma che, anche
in questo caso, il coniuge che ha prelevato i beni non è punibile dalla legge penale in quanto la
causa di separazione non si è conclusa definitivamente con una sentenza.
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In parole semplici, il reato non sussiste se il fatto è avvenuto quando la causa di separazione era
ancora in corso o quando non era ancora stato omologato il verbale della separazione consensuale; in queste fasi, i coniugi non sono ancora considerati separati dalla legge.
Appare evidente l’inadeguatezza del sistema che finisce col privare di una opportuna tutela penale
il coniuge (e/o i figli) assegnatario dell’immobile in una fase (a volte lunga anni) estremamente delicata dei procedimenti di separazione e nella quale, spesso, le parti sono accecate dai reciproci
rancori per via del giudizi in corso.
[1] Art. 337 ter cod. civ.
[2] Cass. sent. n. 7303/83 e Cass. sent. n. 5793/93.
[3] Cass. sent. n. 8667/92.
[4] Cass. sent. n. 5189/98.
[5] Si può ipotizzare, in questi casi, l’esperimento di un’azione esecutiva per la consegna di beni mobili (ai sensi degli
artt. 605 e ss. cod. proc. Civ.) o di un’azione di reintegrazione e di manutenzione nel possesso (ai sensi dell’art. 703
cod. proc. civ.) o, ancora, di un giudizio ordinario per il risarcimento del danno (specie nel caso in cui l’assegnatario
abbia dovuto ripristinare i beni sottratti alla famiglia acquistandone di nuovi).
[6] Cass. sent. n. 11276 dell’11.03.13.
[7] L’art. 646 cod. pen. Recita: “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o
della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a lire due milioni….”.
[8] Art. 649, c. 1, n. 1, cod. pen.
[9] Cass. sent. n. 34866/2011 e n. 46153/13.
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Il CAMBIO DI RESIDENZA CON I FIGLI DOPO LA SEPARAZIONE
di Maria Elena Casarano
Quando da una relazione nascono dei figli, la separazione della coppia è molto spesso fonte di
contrasti legati al luogo in cui i minori resteranno ad abitare. Accanto al problema ricorrente di chi
debba essere il genitore cui spetta la casa familiare, non di rado i conflitti scaturiscono dalla necessità del genitore collocatario o affidatario della prole di trasferire altrove la propria residenza.
Spesso le motivazioni del trasferimento sono legate al bisogno di ritornare nella propria città
d’origine per poter godere del maggior sostegno da parte della famiglia oppure sono connesse ad
una proposta di lavoro che consentirebbe al genitore di realizzarsi anche sul piano professionale.
Il trasferimento insieme al figlio è lecito?
Che il cambio di residenza sia dettato da una necessità effettiva o da un semplice desiderio poco
importa; ogni cittadino ha, infatti, il pieno diritto (garantito dalla nostra Costituzione [1]) di libera
circolazione e di scelta del luogo di residenza con lo scopo di realizzare le proprie aspirazioni lavorative e sociali, senza poter subire limitazioni da parte dell’autorità giudiziaria (fatta eccezione per
quelle legate a motivi sanitari e di sicurezza).
Tale piena libertà, tuttavia, incontra dei limiti nella volontà dello stesso genitore di attuare il proprio
trasferimento insieme ai figli. Il cambio di residenza del minore (detto in gergo tecnico “rilocazione”), appartiene, infatti, a quelle decisioni di maggior interesse che i genitori hanno il dovere di assumere di comune accordo proprio al fine di salvaguardare il benessere della prole.
Significativa appare, a riguardo, una pronuncia [2] che ha sottolineato come “dovere primario di un
buon genitore affidatario e/o collocatario è quello di non allontanare il figlio dall’altra figura genitoriale: quali che siano state le ragioni del fallimento del matrimonio, ogni genitore responsabile,
consapevole dell’insostituibile importanza della presenza dell’altro genitore nella vita del figlio, deve saper mettere da parte le rivendicazioni e conservarne l’immagine positiva agli occhi e nel cuore del minore, garantendo il più possibile le frequentazioni del coniuge con la prole minorenne.
L’attitudine del genitore ad essere un buon educatore ed a perseguire primariamente il corretto
sviluppo psicologico del figlio si misura alla luce della sua capacità di realizzare un siffatto risultato
non a parole, ma in termini concreti”.
Quando occorre l’accordo dei genitori?
Nel caso in cui un genitore, senza aver ottenuto il consenso dell’altro, trasferisca altrove la residenza insieme al figlio minore, egli viola perciò quelli che sono dei principi fondamentali in materia
di affidamento, compiendo un atto illegittimo.
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Ciò vale sia nel caso di affido condiviso [3] che di affido esclusivo [4], in quanto, anche in tale secondo caso, i genitori hanno il dovere di adottare insieme le decisioni di maggiore interesse per i
figli, tra cui quella della residenza abituale [5]. Anche in caso di affido esclusivo, infatti, la responsabilità in capo ad un solo genitore incontra sempre un limite nella necessità che egli si attenga alle condizioni stabilite dal magistrato e nel diritto/dovere del genitore non affidatario di vigilare
sull’istruzione ed educazione dei figli, con piena facoltà di rivolgersi al giudice qualora ritenga che
siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.
Come fare se l’altro genitore non da il consenso al cambio di residenza?
Nel caso in cui, pertanto, l’altro genitore non approvi la scelta dell’ex di trasferirsi, l’interessato dovrà presentare una specifica domanda al giudice del luogo di residenza abituale del figlio al fine di
ottenere l’autorizzazione alla rilocazione del minore tramite la modifica delle condizioni della separazione, del divorzio o dei provvedimenti assunti riguardo a minori nati fuori dal matrimonio [6].
La medesima domanda potrà essere presentata anche dal genitore che, conoscendo l’intenzione
dell’ex di attuare il cambio di residenza del figlio, voglia appunto impedirlo.
Ciascun genitore potrà ovviamente opporsi a tale richiesta motivando le ragioni del dissenso.
Il tribunale dovrà decidere compiendo una serie di valutazioni finalizzate ad assumere la soluzione
più rispondente all’interesse del fanciullo.
Con tale obiettivo, il giudice dovrà ascoltare entrambi i genitori nella prioritaria ricerca di una soluzione consensuale della questione. Ove questa non venga raggiunta, il giudice potrà nominare un
esperto (generalmente uno psicologo) affinché, dopo aver ascoltato il minore, rediga una relazione
indicando la soluzione, a suo avviso, più adeguata al caso.
Conseguenze sotto il profilo civile
Se però il trasferimento sia comunque attuato, il genitore che sia stato forzatamente allontanato
dal figlio potrà rivolgersi al giudice del luogo di residenza abituale del minore [7] affinché assuma
gli opportuni provvedimenti a riguardo. Infatti, tra i requisiti di idoneità genitoriale richiesti ad un
genitore affidatario della prole un ruolo assai importante è costituito dalla capacità di questi di riconoscere le esigenze affettive del minore, mostrandosi capace di “preservargli la continuità delle
relazioni parentali attraverso il mantenimento, nella sua mente, della trama familiare, al di là di
egoistiche considerazioni di rivalsa sul coniuge” [8].
L’allontanamento arbitrario, pertanto, costituisce una grave inadempienza a seguito della quale il
giudice potrà [9] decidere di:
– modificare i provvedimenti in vigore, anche tramite un’inversione dell’affidamento e/o collocamento dei figli (in favore del genitore ingiustamente allontanato dalla prole) e, nei casi più gravi dichiarare la decadenza dalla responsabilità genitoriale;
– ammonire il genitore inadempiente;
– disporre a carico di quest’ultimo un risarcimento sia nei confronti del genitore leso che della prole;
– sanzionare il genitore con un’ammenda.
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Attenzione a non lasciar trascorrere del tempo…
Se quanto detto è senz’altro vero, non va però sottovalutato il fatto che, nella individuazione del
genitore presso il quale sarà collocato il figlio, il criterio primario di riferimento per il giudice è sempre rappresentato dal benessere del minore, con specifico riferimento alle consuetudini di vita da
questi acquisite.
Ciò significa, all’atto pratico, che qualora il trasferimento si già stato attuato senza consenso (né
dell’altro genitore né del giudice) e, di conseguenza, il fanciullo si sia già radicato nel nuovo contesto abitativo, il magistrato – nel primario obiettivo di far prevalere l’interesse del figlio ad un corretto e sereno sviluppo della sua personalità – potrà comunque decidere di non allontanarlo dal nuovo luogo di abituale residenza; un nuovo trasferimento, infatti, rischierebbe di destabilizzare il minore che abbia già acquisito delle nuove consuetudini di vita. Tutto ciò, naturalmente, fermo restando il diritto dell’altro genitore di poter frequentare il figlio con regolarità [10].
La residenza abituale del minore
A riguardo, la giurisprudenza [11] è costante nel ritenere che la residenza abituale del minore vada individuata nel luogo in cui il minore, per qualsiasi motivo e grazie ad una durevole e stabile
permanenza (ancorché di fatto) trova e riconosce il centro dei suoi legami affettivi non solo
parentali originati dalla sua quotidiana vita di relazione (si pensi al legame di amicizie connesso alla frequentazione scolastica). Pertanto, anche se il trasferimento sia stato deciso da un solo genitore, l’indugiare dell’altro nel rivolgersi al giudice al fine di ottenere il rientro del minore non può
che favorire il consolidarsi della nuova situazione giuridica [12].
Ad esempio, con particolare riferimento ai casi di sottrazione internazionale (ossia di trasferimento illegittimo del minore attraverso una frontiera o di permanenza in un Paese diverso da quello di
residenza abituale), per abitualità della residenza viene considerata, in caso di trasferimento lecito
(cioè attuato previo consenso dell’altro genitore), la durata di tre mesi, e in caso di trasferimento
illecito, la durata di un anno [13].
Il consiglio, quindi, in questi casi, è di non temporeggiare nel rivolgersi al tribunale (che dovrà essere quello del luogo di residenza abituale) affinché assuma le decisioni del caso; il rischio potrebbe essere infatti – al di là di possibili sanzioni comminate al genitore inadempiente – quello
che il magistrato possa ritenere la nuova residenza una condizione maggiormente rispondente al
bisogno di stabilità del minore.
Conseguenze sotto il profilo penale: la sottrazione del minore
Ci sono poi situazioni in cui il trasferimento di residenza, attuato da uno dei due genitori (in genere, ma non necessariamente, quello presso cui sono collocati i figli in modo prevalente) in modo
arbitrario (se non a volte anche in modo ingannevole) può essere punito dalla legge penale.
Nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, infatti, il codice penale disciplina una serie di figure di reato [14] che si caratterizzano proprio per la condotta della sottrazione di minore al genitore che ne esercita la responsabilità genitoriale (entrambi, quindi, nei casi più frequenti in cui
l’affido è condiviso).
Le norme, nello specifico puniscono chiunque (e quindi anche uno dei genitori) sottrae un minore
al genitore esercente la responsabilità su quest’ultimo:
– portandolo via con sé in modo da allontanarlo dal domicilio stabilito,
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– o anche trattenendolo presso di sé.
La legge, infatti, vuole tutelare:
– da un lato il diritto del genitore alla libera e piena esplicazione della funzione genitoriale e
– e dall’altro quello della prole a veder garantito il suo interesse a ricevere le cure e l’educazione
da parte di entrambi i genitori [15].
Viene punita, pertanto, la condotta che abbia l’effetto di impedire all’altro genitore di poter attuare
le diverse manifestazioni connesse al proprio ruolo, quali le attività di cura e assistenza, la vicinanza affettiva, la funzione educativa.
Dunque, affinché la sottrazione del minore sia punita non rileva tanto il fatto che l’altro genitore sia
stato o meno avvertito del trasferimento ma che, nella pratica, egli sia posto nella condizione di
non poter esercitare appieno il proprio ruolo genitoriale a causa della distanza che si frappone tra
lui e il figlio.
Come chiarito, infatti dalla Suprema Corte [16] il reato non sussiste quando la sottrazione sia durata per un tempo limitato, tale da non compromettere in modo incisivo l’interesse delle parti alla
reciproca frequentazione. Ad esempio, in un caso nel quale la sottrazione era durata due settimane la Corte ha ritenuto di non punire per il reato in questione una madre che si era allontanata con
la figlia [17], mentre ha ritenuto punibile la condotta del genitore che si era allontanato per alcuni
mesi a molti chilometri di distanza dalla città di residenza [18].
Inoltre tale condotta può subire in sede penale una doppia condanna perché, se operata quando
già esiste un provvedimento del tribunale che disciplina la collocazione e l’affidamento dei figli, il
genitore inadempiente potrà rispondere contestualmente del diverso reato di mancata esecuzione
dolosa di un provvedimento del giudice [19].
È sufficiente comunicare all’ex la nuova residenza?
Ciò detto, vien da chiedersi, tuttavia, come debba leggersi la norma (di recente introduzione [20])
secondo la quale, in presenza di figli minori:
– ciascuno dei genitori ha l’obbligo di comunicare all’altro l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio entro il termine perentorio di trenta giorni
– e la mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto.
Si tratta di una sorta di autorizzazione al trasferimento di residenza da parte di un genitore subordinato alla comunicazione all’altro nei termini di legge?
In realtà non vi sono pronunce che possano far pensare che il legislatore abbia inteso avallare
d’improvviso la condotta di uno dei genitori (senz’altro condannabile e tipica dei contesti di conflittualità di coppia) di escludere l’altro da decisioni importanti riguardo alla vita dei figli.
La nuova disposizione sembra, invece, riferirsi ai cambi di residenza (o domicilio) nell’ambito
dello stesso comune o, in ogni caso, a distanze tali da non interferire sulla possibilità dell’altro
genitore di partecipare pienamente alla vita dei figli.
Ove ciò non avvenga e il genitore attui un trasferimento del tutto arbitrario, l’altro avrà pieno diritto
di rivolgersi al giudice per come poc’anzi illustrato.
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Criteri per la decisione del giudice
Nel decidere sull’istanza di cambio di residenza del figlio minore, il giudice – pur disponendo di
un’ampia discrezionalità – è tuttavia tenuto ad attenersi a specifici criteri, individuati e collaudati
nella letteratura (nazionale internazionale) di settore riguardante la rilocazione a distanza dei figli.
È quanto ha chiarito il Tribunale di Milano [21] con una pronuncia che torna ad utile riferimento per
la loro individuazione in quanto – senza la pretesa di elencarli in modo esclusivo ed esaustivo (atteso che essi sono comunque strettamente legati alla singola fattispecie) – li individua nel dettaglio
affinché essi guidino il magistrato nella pronuncia di un provvedimento che, nel rispetto della legge
[22]:
– sia adottato nell’esclusivo interesse morale e materiale della prole;
– garantisca a quest’ultima il suo diritto a mantenere con entrambi i genitori un rapporto equilibrato
e continuativo;
– permetta alla prole di conservare rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Ecco di seguito gli otto criteri individuati dal giudice meneghino:
1. I motivi del trasferimento
Il giudice deve innanzitutto esaminare le ragioni che sono alla base del trasferimento del genitore
presso cui sono collocati i figli (sia anche in modo prevalente): tali ragioni devono essere sostanziali e non basate (in via esclusiva) da occasioni lavorative più remunerative o dal fatto che il mutamento dell’ambiente sociale sia in grado di offrire all’adulto (e a lui soltanto) maggiore sicurezza
rispetto a quella offerta dall’ambiente di attuale residenza.
Nel caso di specie, ad esempio, la richiesta di trasferimento da parte della madre non aveva come
scopo quello di ottenere migliori chance economiche o anche di progressione in carriera a discapito del proprio ruolo genitoriale, bensì era basata sulla più radicale esigenza di garantirsi la stabilità
lavorativa (poiché la donna, insegnante precaria, sarebbe entrata in ruolo definitivo).
2. Le garanzie di frequentazione genitore non collocatario/figli
Il magistrato, inoltre, deve valutare con quali tempi e modalità il genitore che intende attuare il trasferimento è in grado di garantire la frequentazione tra il genitore non collocatario e la prole: essi sottolinea la pronuncia -devono essere realisticamente fattibili e non costringere il genitore ad uno
stravolgimento delle proprie abitudini di vita o anche ad affrontare sforzi economici insostenibili o
comunque sproporzionati ai propri redditi; nel caso in esame la non eccessiva distanza tra le due
città (Novara e Ravenna) poteva consentire la frequentazione della minore (frequentante le scuole
medie) col genitore non collocatario -anziché per intervalli settimanali – per interi w.e. e periodi di
festività scolastica.
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3. La disponibilità del non collocatario a trasferirsi
D’altro canto, tuttavia, il giudice deve anche considerare la eventuale manifestata disponibilità dal
genitore non collocatario anche al proprio trasferimento, con lo scopo di mantenere la propria funzione genitoriale: scelta che – evidenzia la pronuncia – certamente non può essere forzata ma
che, ove non sia esclusa (in quanto razionale e possibile), permette al giudice:
– da un lato di valutare la volontà e capacità del genitore di mutare i propri riferimenti sociali e lavorativi con lo scopo di mantenere solido il legame con i figli
– e dall’altro di accertare che la scelta al trasferimento del genitore collocatario non abbia come
unico scopo quello di ostacolare (se non di danneggiare) il rapporto dei figli con l’altro genitore.
Nel caso di specie, ad esempio, appariva decisivo l’atteggiamento assunto in sede processuale
dai due genitori: la donna, infatti, pur formulando con forte decisione la richiesta di avere con sé la
figlia, non escludeva al contempo – seppur in via subordinata – che la minore fosse collocata
presso il padre con articolazione dei tempi e dei modi di frequentazione. Al contrario il padre
escludeva del tutto la possibilità di collocazione della figlia presso la madre, nella ferma convinzione che il miglior interesse per la minore fosse quello di rimanere nella città di attuale residenza. Atteggiamenti questi letti quale indice:
– da un lato di maggiore capacità della madre – in quanto verosimilmente legata in maggior misura alla quotidianità con la figlia – di cogliere maggiormente tutti gli aspetti sottesi dalla difficile decisione
– e dall’altro di mancanza da parte del padre di piena capacità di valutazione del problema nella
sua complessità.
4. Le possibilità che il minore conservi i rapporti i parenti
Ancora, il magistrato deve verificare in che modo il trasferimento possa salvaguardare e garantire
le relazioni del figlio con le altre figure familiari e affettive di riferimento (zii, nonni, ecc.) che definiscono l’identità familiare del minore, preservando la memoria e riconoscibilità delle proprie origini
geografiche, sociali e culturali: è naturale che ove il minore non abbia mai coltivato rapporti significativi con queste ultime per il giudice non si porrà la necessità di garantire la conservazione di tale
rapporto. Nel caso sottoposto all’esame del tribunale meneghino, il trasferimento della minore
avrebbe comportato la possibilità di maggiore frequentazione (fino ad allora sacrificata) dei nonni
materni in quanto residenti nella città di rilocazione.
5. Le possibili ripercussioni sul minore
Altro criterio di riferimento (e strettamente connesso al quello riguardante le ragioni del trasferimento) è costituito dalla valutazione – anche in prospettiva – da parte del magistrato dei possibili
effetti del trasferimento sul figlio in relazione al suo necessario bisogno di stabilità ambientale,
emotiva, psicologica e di relazione: allo scopo, il giudice avrà il compito di valutare se la richiesta
di trasferimento del genitore possa o meno essere definitiva o anche soggetta alle continue esigenze del genitore collocatario.
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6. Il nuovo contesto sociale e familiare
Ancora, il giudice deve analizzare le caratteristiche dell’ambiente sociale e familiare in cui il genitore collocatario (o affidatario) vuole trasferirsi rispetto a quelle del luogo di attuale residenza: si
pensi da un lato alla profonda diversità esistente tra una circoscritta realtà di paese e quella di una
città metropolitana e dall’altro all’eventualità che il minore possa contare comunque nella nuova
realtà su figure di riferimento: nel caso di specie, ad esempio, il trasferimento non avrebbe comportato un cambiamento radicale per la minore in quanto si trattava di due contesti sociali assai
simili (Novara-Ravenna) e per giunta la donna tornava a vivere nella realtà territoriale della propria
famiglia d’origine e quindi la minore avrebbe comunque coltivato i rapporti con le figure parentali di
riferimento materno.
7. L’età dei figli
Ulteriore parametro di riferimento per il magistrato è costituito dall’età della prole. Tanto più piccolo
è il figlio, infatti, tanto più facilmente rischia di venire compromessa la sua possibilità di mantenere
un significativo legame con il genitore non collocatario; ciò specie quando l’età della prole non abbia ancora consentito di sviluppare un legame significativo con uno o con entrambi i genitori (si
pensi ad un bambino in tenerissima età che necessita di un rapporto quotidiano e –potremmo dire
– epidermico per creare un contatto effettivo con i genitori): dunque, il giudice dovrà concentrare la
sua analisi non soltanto sulle qualità della rapporto già in atto, ma anche su quelle potenziali di
suo sviluppo. Nel caso in esame si trattava –come accennato – di minore in età adolescenziale la
quale aveva manifestato di avere un legame radicato anche con il padre.
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8. Le dichiarazioni del minore
Altro elemento di sostanziale importanza nella decisione in esame è rappresentato dalla volontà al
trasferimento eventualmente espressa da minore in sede di ascolto [23]: tanto più grande è il figlio, infatti, tanto più elevato potrà ritenersi il suo livello di maturazione e di sviluppo psicofisico.
Nel caso di specie, peraltro, la figlia, in sede di ascolto pur esprimendo il suo sano timore all’idea
di un cambiamento radicale di vita, non aveva escluso l’idea di poterlo attuare.
[1] Art. 16 Cost.
[2] Trib. Bari, decr. 10.03.09.
[3] Trib. Milano, decr. 17.06.14.
[4] Cass. Sez. Un., sent. n. 11915/14 del 28.05.14.
[5] Art. 316, co. 1 cod. civ.
[6] Art. 710 cod. proc. civ., art 337 quinquies cod. civ., art. 9 L.898/70.
[7] Art. 337-quater, co. 3, cod. civ.
[8] Cass. sent. n. 24907/08.
[9] Ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ.
[10] Così Cass. sent. n. 13619/10.
[11] Cfr. Cass. sent. 3798/08; Cass. sent. n. 19544/03.
[12] Cfr. Decr. Trib. Milano del 5.06. 2015, Cass sent. n. 11915/2014; n. 18541/2014.
[13] Regolamento CE n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale.
[14] Previste negli art. 573, 574 e 574 bis cod pen .
[15] Cass. sent. n. 17799 del 6.02.14
[16] Cass. sent. n. n.33452 del 27.07.14.
[17] Cass., sent. n.. 22911/13.
[18] Cass. sent. n. 21441/2008.
[19] Art. 388 cod. pen.
[20] Art. 337 sexies cod. civ. introdotto dal decr. lgs n.154/13.
[22] Art. 709 ter cod. proc. civ.
[23] Art. 573 e 574 cod. pen.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
LE PROVE NEL PROCESSO
(MANTENIMENTO E ADDEBITO)
COME FARE PER PROVARE I GUADAGNI IN NERO DEL CONIUGE
di Maria Elena Casarano
Capita spesso che, nei giudizi di separazione o divorzio nei quali si debba determinare il diritto e la
misura di un assegno di mantenimento, la situazione patrimoniale dichiarata dai coniugi non corrisponda a quella reale. Sia il marito che la moglie, infatti, possono avere interesse a nascondere le
loro reali diponibilità economiche; il primo al fine di sottrarsi all’obbligo di versare il mantenimento
alla ex e quest’ultima allo scopo di ottenerlo in misura maggiore di quanto non le spetti in realtà.
Cosa prevede la legge
La legge, a riguardo, dispone come unico onere a carico dei coniugi quello di allegare all’atto introduttivo della domanda di separazione copia delle ultime dichiarazioni dei redditi presentate [1].
In aggiunta a tale prescrizione, alcuni Tribunali invitano le parti (di solito nei provvedimenti di fissazione dell’udienza presidenziale) a depositare ulteriori documenti (come ad es. visure al Pra,
estratti dei conti correnti bancari, ecc.) o una autocertificazione relativa al patrimonio.
Ma tutto questo spesso non basta.Occorre, invece, fornire al giudice elementi ulteriori tali da far
presumere anche i guadagni in nero dell’ex.
Solo attraverso una visione globale e veritiera delle disponibilità economiche di ciascun coniuge,
infatti, il giudice potrà determinare una misura dell’assegno (di mantenimento e divorzile) il più
equa possibile.
In questi casi, tra l’altro, la tutela della privacy e della riservatezza sui dati sensibili cede il passo
alla necessità che sia assicurato il mantenimento della prole e del coniuge economicamente più
debole.
Per tale ragione il giudice ha un ampio potere di valutazione delle prove nell’ambito dei procedimenti riguardanti la tutela della famiglia e non è tenuto a considerare in via esclusiva i documenti
ufficiali esibiti agli atti.
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Le indagini
Le parti, perciò, possono svolgere un’autonoma attività di indagine (anche avvalendosi di investigatori privati) al fine di acquisire i documenti e le informazioni necessarie a provare i redditi reali e
l’effettivo stile di vita del coniuge (viaggi, abiti costosi, collaboratori familiari). In mancanza di prova, invece, le domande potrebbero non essere accolte dal giudice.
In base, infatti, al principio dell’onere della prova [2] deve essere la parte che ne ha interesse a
fornire al giudice elementi tali da indurlo a ritenere plausibile che le disponibilità e i redditi del soggetto, siano in realtà, superiori rispetto a quanto risulti dai documenti esibiti.
Il rapporto redatto dall’investigatore, tuttavia, non può essere utilizzato come prova all’interno del
processo. Occorre, invece, che quest’ultimo sia chiamato a testimoniare davanti al magistrato
(prova orale, dunque, e non documentale) sui fatti stessi [3]. Pertanto, la semplice produzione in
giudizio del dossier del detective non è sufficiente a dimostrare al giudice le risultanze in esso contenute.
Qualora, poi, le informazioni fornite al giudice risultino carenti o tra loro contrastanti, il magistrato
potrà chiedere alla polizia tributaria [4] di svolgere le opportune indagini; esse, per espressa
previsione di legge [5], potranno estendersi anche a prestanome di beni o attività riconducibili ad
uno dei coniugi, grazie ai quali l’ex potrebbe aver occultato il proprio patrimonio.
L’interessato potrà anche chiedere al giudice di ordinare l’esibizione di determinati documenti a
terzi soggetti (come ad esempio il datore di lavoro, la banca presso la quale in cui il coniuge ha un
conto corrente, ecc.) al fine di verificare la misura del patrimonio, così come potrà chiedere che
vengano sentiti in giudizio come testimoni persone in grado di fornire informazioni utili ad accertare quale sia l’effettivo lavoro svolto dal soggetto (anche se “in nero”).
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Ma non basta. A tale potere di indagine del magistrato, nei casi in cui dalla documentazione agli
atti emergano dati reddituali incompleti o contrastanti con lo stile di vita prospettato, la riforma della giustizia [6] ha affiancato quello di avvalersi dell’ufficiale giudiziario e dei suoi nuovi poteri di ricerca telematica [7] attraverso il ricorso all’Anagrafe tributaria.
In altre parole, se al fisco risulta una situazione di scarsezza di mezzi di sostentamento, ma il coniuge riesce a dimostrare che l’ex conduce uno stile di vita incompatibile con le entrate dichiarate,
il giudice dovrà tenerne conto nel determinare l’assegno di mantenimento (sia per l’ex che per la
prole) [8]. Ciò in quanto la decisione del giudice è discrezionale e non vincolata dalla documentazione fiscale alla quale si può, semmai, attribuire solo un valore indiziario [9].
[1] Art. 706 cod. proc. civ.
[2] Art. 2697 cod. civ.
[3] Trib. Milano, ord. dell’08.04.2013.
[4] Le indagini di polizia tributaria previste dalla normativa, in caso di giudizio di separazione, solo per la tutela della
prole, possono, in realtà, essere effettuate anche ai fini della tutela del coniuge economicamente più debole. In particolare la Cassazione ha stabilito che, “anche in materia di separazione dei coniugi deve ritenersi applicabile l’art. 5 c.
9 L. 898/1970, il quale prevede, in tema di riconoscimento e quantificazione dell’assegno divorzile, che in caso di contestazioni il Tribunale possa disporre indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, avvalendosi, se del caso, anche della Polizia Tributaria. Peraltro l’esercizio di tale potere rientra nella discrezionalità del
giudice di merito, che non è tenuto ad avvalersene ove ritenga compiutamente provata aliunde la situazione economica delle parti, ma ove non se ne avvalga non può rigettare le domande per mancata dimostrazione della situazione
economica delle parti” (Cass. sent. n. 14081/09).
[5] È lo stesso art. 337 ter ult.co. cod. civ. a stabilire che, se le informazioni di carattere economico fornite dai coniugi
non risultano sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui
beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.
[6] D.l. 132/2014, art. 19, c. 5.
[7] Il nuovo art. 492 bis cod. proc. civ. prevede che l’ufficiale giudiziario, tramite il collegamento telematico diretto alle
banche dati delle pubbliche amministrazioni o a quelle a cui le pubbliche amministrazioni hanno accesso (come
l’anagrafe tributaria, l’archivio dei conti correnti bancari ed degli altri rapporti finanziari, il P.R.A. e le banche dati degli
enti previdenziali), potrà acquisire “informazioni rilevanti per individuazione di cose e crediti da pignorare, comprese
quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti”.
[8] Trib. Caltanissetta, sent. del 25.07.2014.
[9] Cass. sentt. n.11517/2014 e 3905/2011.
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Delega delle indagini alla polizia tributaria: solo a discrezione del giudice
Come abbiamo visto, tra i criteri in base ai quali il giudice fissa l’ammontare dell’assegno di mantenimento o di divorzio, il principale peso è attribuito:
– da un lato, allo scarso reddito del beneficiario (di norma, la moglie) che non gli consente di
mantenere lo stesso tenere di vita goduto durante il matrimonio;
– dall’altro l’effettiva possibilità economica del coniuge onerato di garantire il mantenimento
dell’altro: è chiaro che non ha senso affermare che alla moglie spetti un mantenimento di mille euro per continuare ad avere lo stesso stile di vita che aveva quando viveva insieme al marito, se lo
stipendio di quest’ultimo arriva appena a mille euro.
Insomma, il modo migliore per farsi un’idea di come il giudice effettua il calcolo è pensare a una
bilancia: su un piatto mette il reddito della moglie e sull’altro pone quello del marito, dal quale però decurta tutte le spese necessarie alla sua sopravvivenza (come l’affitto per un nuovo appartamento dove andare a vivere, se la causa è stata assegnata alla moglie). Lo scopo di tale operazione è quella di eliminare tutte le sproporzioni di reddito esistenti tra i due.
Il problema, però, come anticipato, sorge laddove il reddito del coniuge onerato sia composto da
diverse voci e non da quelle di lavoro dipendente, facilmente individuabili. Si pensi a un uomo
che abbia diverse proprietà immobiliari, alcune di queste date in affitto; che detenga azioni, obbligazioni e un cospicuo patrimonio mobiliare che gli frutti in termini di rendite e interessi; o ancora al
libero professionista la cui dichiarazione dei redditi sia decisamente inferiore rispetto all’effettivo
reddito percepito.
Ebbene, in questi casi, la legge prevede [1] che il giudice possa chiedere alla polizia tributaria di
effettuare le ulteriori indagini necessarie per accertare, concretamente, le possibilità economiche
del coniuge che dovrà versare il mantenimento.
A riguardo, tuttavia, la Cassazione [2] ha precisato che, tutte le volte in cui il giudice del merito ritenga già provata l’insussistenza di redditi da parte del coniuge obbligato, può direttamente procedere al rigetto della domanda di mantenimento, anche senza avere prima disposto accertamenti
d’ufficio attraverso la polizia tributaria. Infatti, tali accertamenti non possono avere una valenza
esplorativa, non possono, cioè, sostituire quello che è un onere tipico delle parti: quello della raccolta delle prove ai fini della decisione. La dimostrazione dei propri diritti spetta ai soggetti coinvolti
nella causa e non può essere delegata agli ausiliari del giudice. La polizia tributaria potrebbe allora fungere da sola integrazione tutte le volte in cui la parte richiedente non sia riuscita, per proprie
impossibilità, a procurarsi la prova dei propri “sospetti” sui redditi dell’ex.
Dunque, il conferimento dell’incarico alla polizia tributaria rientra nella discrezionalità del giudice; non si tratta di un adempimento obbligatorio, imposto a semplice istanza di parte. È necessario comunque che il giudice abbia valutato come superflua tale indagine, per via dei dati istruttori
già acquisiti e ritenuti sufficienti all’emissione della sentenza.
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Lo stesso principio era già stato affermato da una sentenza della Suprema Corte di qualche anno
fa [3]: in tema di determinazione dell’assegno di mantenimento in sede di divorzio, l’esercizio del
potere del giudice che, può disporre — d’ufficio o su istanza di parte — indagini patrimoniali avvalendosi della polizia tributaria, costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova;
pertanto l’esercizio di tale potere discrezionale non può sopperire alla carenza probatoria della
parte onerata, ma vale ad assumere, attraverso uno strumento a questa non consentito, informazioni integrative del “bagaglio istruttorio” già fornito, incompleto o non completabile attraverso gli
ordinari mezzi di prova. Pertanto la relativa istanza avanzata dalla parte e la contestazione di parte dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge tenuto al predetto mantenimento devono
basarsi su fatti specifici e circostanziati.
Il diniego del giudice a valersi della polizia tributaria deve essere collegato a una valutazione sulla
superfluità dell’iniziativa per ritenuta sufficienza dei dati istruttori acquisiti [4].
[1] Art. 5, comma 9, della legge n. 898 del 1970.
[2] Cass. sent. n. 14050 del 7.07.2015.
[3] Cass. sent. n. 2098 del 28.01.2011.
[4] Cass. sent. n. 11415 del 22.05.2014.
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LA PROVA DELL’INFEDELTA’ AI FINI DELL’ ADDEBITO
Come abbiamo visto, perché l’infedeltà possa essere causa di responsabilità e, quindi, di “addebito”, è necessario che essa sia stata il motivo principale a determinare la crisi coniugale. Se, invece, questa era già in atto e il rapporto adulterino è solo l’effetto di un’unione già sgretolatasi in precedenza, al coniuge fedifrago non può essere recriminato nulla: nessuno può essere obbligato a
restare fedele a una persona che non lo ama più.
All’atto pratico, è la parte tradita che deve subito dimostrare l’infedeltà del coniuge. Infatti la legge
presume già in partenza che l’infedeltà sia la causa della rottura, vista la gravità della condotta.
La palla, quindi, passa all’altra parte che, se vuole evitare la condanna, deve dimostrare, a sua
volta, l’anteriorità della crisi rispetto all’accertata infedeltà, ossia la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. In
mancanza di questa prova resta a suo carico l’addebito.
La tutela della privacy
Sebbene la regola generale sia quella secondo cui, qualora vengano utilizzati i dati personali di un
soggetto, c’è sempre bisogno del previo consenso di quest’ultimo (per esempio: fotografie, registrazioni, ecc.), ciò non vale se chi recupera tali dati agisce per tutelare un proprio diritto in
tribunale (così, appunto, potrebbe essere il caso della moglie che voglia dimostrare la relazione
extraconiugale del marito).
Ma attenzione: la lesione della privacy non può spingersi sino a commettere reati come la violazione della corrispondenza. Pertanto la moglie non potrebbe frugare nella posta o tra le email o gli
sms ricevuti dal marito al fine di procurarsi le prove del suo tradimento [1] ; tale comportamento è
illecito e l’eventuale risultanza – sostiene la Cassazione [3] – non potrebbe avere ingresso nel
processo.
L’investigatore privato
Al pari, nella causa contro il coniuge fedifrago può avere un ruolo determinante la relazione
dell’investigatore privato. A riguardo la Cassazione [2] ha ritenuto ammissibili le prove del tradimento fornite attraverso tabulati telefonici, foto e resoconti di un detective.
È bene, però, avvertire che l’orientamento dei giudici è anche quello di non dare valore al semplice “report” dell’agenzia investigativa, in quanto si tratta di un atto di parte, formato peraltro fuori
dal processo.
I report delle agenzie investigative – da cui si evince il tradimento del coniuge – non possono costituire una prova nel giudizio civile di separazione [3]. Per la dimostrazione al giudice del rapporto
fedifrago, il detective deve essere sentito come testimone e, quindi, andare a ripetere davanti al
giudice ciò che ha visto e fotografato.
In altre parole, il rapporto dello 007, da cui emergono i pedinamenti, gli appostamenti, le registrazioni possono entrare nel processo civile solo rispettando il principio del contraddittorio, ossia
dando la possibilità alla controparte di difendersi. E ciò avviene solo chiamando a testimone
l’investigatore.
[1] Cass. sent. n. 585 del 9.01.2014.
[2] Cass. sent. n. 11516/14.
[3] Trib. Milano, ord. dell’08.04.2013.
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POSSIBILE L’ADDEBITO PER TRADIMENTO VIRTUALE?
di Angelo Greco
Facebook può essere usato come prova? Una bella domanda, ma la risposta non è così immediata come sembra.
Inutile dirlo: Facebook è nato per “rimorchiare” e tale – in buona parte – è rimasto per molta gente.
Così i tradimenti che si consumano nelle quattro pareti telematiche del social network sono
all’ordine del giorno.
Ed ecco il primo quesito: la relazione virtuale di amorosi sensi (quella cioè, scoperta prima ancora
dell’atto carnale) può fondare una richiesta di addebito a carico del partner “provolone”? La risposta è stata fornita più volte dalla Cassazione [1]: secondo i giudici, perché possa scattare la condanna al mantenimento del coniuge tradito, non è necessario un adulterio fisico vero e proprio, ma
è sufficiente porre in essere un comportamento che offenda la dignità e l’onore dell’altro coniuge.
Quindi, il rapporto platonico, se anche non raggiunge il tradimento in senso biblico, è vietato. Detto
in parole ancora più crude: se il vostro partner vi becca mentre chattate con allusioni sessuali
chiare, può chiedere la separazione e farvela pagare cara.
La prova del tradimento: la chat
Appurato che il tradimento virtuale è vietato, il problema – come sempre – è la prova, ossia come
dimostrare al giudice che c’è stato il comportamento fedifrago.
Ed ecco il secondo quesito: si può chiedere al tribunale di ordinare, all’altra parte in causa, di mostrare tutte le proprie conversazioni in chat e la messaggistica privata? Secondo il tribunale di
Santa Maria Capua Vetere, la risposta è negativa [2]. Chat, conversazioni e messaggi privati sul
social network sono coperti da privacy e neanche il giudice civile potrebbe violare questo segreto.
Qualcuno ritiene anche che si possa procedere ad ispezioni [3], ma solo in casi davvero eccezionali e solo se indispensabili ai fini del decidere. In ogni caso, tali attività non potrebbero violare segreti tutelati dalla legge come, appunto, quello della corrispondenza (tale è, infatti, la chat privata).
Ma se a recuperare questi dati segreti non è un ordine del giudice, ma il partner? Se quest’ultimo,
di nascosto, è riuscito a entrare nel profilo utente del coniuge, a criptare le relative password, a
“fotografare” tutte le conversazioni private? La risposta, a nostro giudizio, dovrebbe essere sempre la stessa: il divieto di utilizzare le prove acquisite illegalmente ricade su qualsiasi tipo di impiego, anche quello rivolto alla tutela dei diritti in processo. Ma non è stato questo l’orientamento del
tribunale di Torino dell’anno scorso [4], secondo cui le prove acquisite con “intercettazioni non autorizzate” possono essere usate per tutelare dei diritti non necessariamente costituzionali.
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Stato e fotografie
Al contrario delle chat private (considerate come corrispondenza privata), lo “stato” di Facebook, i
post, la cosiddetta “situazione sentimentale” e le eventuali fotografie pubblicate sul proprio profilo
possono essere utilizzate come prova. E ciò vale anche se tali “documenti scottanti” sono coperti
da privacy e visionabili solo da un numero ristretto di persone [2]. In altre parole, se le impostazioni di account sono “chiuse”, esse comunque si intendono pubbliche e, pertanto, possono essere
usate come prova in un processo.
Ciò ovviamente non vale solo per i tradimenti, ma anche per altri comportamenti illeciti come la diffamazione, la calunnia, l’offesa al proprio datore di lavoro, ecc.
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LA TUTELA DEL CREDITO DEL CONIUGE SEPARATO/DIVORZIATO
SE IL CONIUGE NON VERSA IL MANTENIMENTO: CHE FARE?
di Maria Elena Casarano
La legge prevede una tutela nel caso in cui il coniuge tenuto al mantenimento non versi quanto
impostogli dal giudice. Ecco, dunque, tutto ciò che si deve sapere a riguardo per potersi tutelare.
Procurarsi un titolo
Se non si possiede ancora un titolo (ciò può avvenire quando la separazione non sia stata ancora
formalizzata davanti al giudice) che quantifichi l’ammontare della somma da versare, allora occorre attivarsi per procurarselo.
Il primo passo da fare è quello di rivolgersi a un legale per il deposito di una domanda di separazione attraverso una delle modalità indicate nel primo capitolo.
Anche nel caso in cui i coniugi non trovino un accordo ( e quindi occorra intraprendere una causa
vera e propria) il giudice dovrà stabilire già a seguito della prima udienza (cosiddetta presidenziale) la misura – anche se provvisoria - dell’assegno.
Se l’assegno è dovuto per i figli nati fuori dal matrimonio, si tratterà di una domanda specificamente rivolta a stabilire il contributo dovuto dall’altro genitore.
Diffida
Una volta ottenuto il titolo per agire, è consigliabile inviare una diffida al genitore inadempiente
(sempre fatta tramite un avvocato), ricordandogli l’importo dovuto e non versato da quest’ultimo
nonché rinnovando l’invito a provvedere entro un termine (in genere 15 giorni).
Arretrati
Nella diffida è anche possibile chiedere al genitore inadempiente non solo il pagamento delle
somme non versate, ma anche quello relativo ai mancati aggiornamenti ISTAT dell’assegno (vd.
dopo).
La richiesta va fatta entro cinque anni (ad es. nel settembre 2013 si possono richiedere gli arretrati
che si riferiscono fino al maggio 2008, ma non prima).
Va detto, però, che per azzerare questo periodo di prescrizione e far decorrere nuovamente i cinque anni, è sufficiente una richiesta scritta (fatta con raccomandata a.r. o tramite posta elettronica
certificata). In tal caso gli avvocati dicono che la “prescrizione” si interrompe e il termine ricomincia
a decorrere da capo.
In seguito, sulla base della risposta ottenuta dal genitore inadempiente, si potrà decidere che passi ulteriori compiere.
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Rimedi sul piano penale
Qualora emerga che il genitore inadempiente si stia sottraendo volontariamente al proprio obbligo
per ragioni di “ripicca”, potrà sporgersi una denuncia penale contro di lui per il reato di “violazione
degli obblighi di assistenza familiare” [1]. In esso può incorrere “chiunque, abbandonando il
domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle
famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla patria potestà, o alla qualità di coniuge”.
Esso comporta, in caso di condanna, la reclusione fino a un anno. Il genitore, poi, costituendosi
parte civile nel procedimento penale potrà ottenere il mantenimento e le somme pregresse in sede
di esecuzione della sentenza.
Si può essere processati anche perché, nell’arco di meno di un anno, non si corrispondono a coniuge e /o prole poche mensilità. Se però, nel procedimento, l’imputato dimostra che tale somma
sia stata versata successivamente e che il ritardo è stato dovuto a difficoltà economiche (si pensi
al lavoro di un autonomo, soggetto alle fluttuazioni del mercato), si può ottenere un regime di favore consistente nella immediata archiviazione del procedimento penale per “particolare tenuità del
fatto” [2].
Per poter beneficiare della “non punibilità per tenuità del fatto”, è dunque necessario:
– provvedere al più presto al pagamento della somma, anche se in ritardo;
– non ripetere l’omissione per troppi mesi.
Se, quindi, la condotta sia stata occasionale e che le conseguenze del ritardato pagamento non
siano particolarmente gravi, vi sono tutte le condizioni per l’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Dette condizioni sono:
– l’offesa di particolare tenuità
– il comportamento non abituale del reo.
Rimedi sul piano civile
Se l’assegno è dovuto per i figli e dovesse emergere, poi, da parte del genitore obbligato, una
concreta impossibilità al pagamento per ragioni oggettive (come la perdita di lavoro o problemi di
salute), la strada migliore sarebbe quella di chiedere il contributo dei parenti ascendenti (vd.
dopo).
Che significa questo? Se da un lato la legge prevede che debbano essere, in primo luogo, i genitori a provvedere al mantenimento dei figli, dall’altro, qualora essi non abbiano i mezzi necessari
per farlo, saranno tenuti a provvedere “gli altri ascendenti legittimi o naturali (in special modo i
nonni), in ordine di prossimità [3].
2. Altra strada percorribile, è quella di ricorrere al giudice civile affinché risolva le “controversie
insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento” dei figli [4].
Il coniuge potrà depositare, a mezzo di un legale, un ricorso a tribunale del luogo di residenza del
minore.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
In tal caso, il giudice, convocate le parti e constatate da parte del genitore gravi inadempienze o
comportamenti che comunque arrechino pregiudizio al minore, potrà modificare i provvedimenti in
vigore e anche congiuntamente:
– ammonire il genitore inadempiente;
– disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
– disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
– condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria,
da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”.
In caso di mancato pagamento, su richiesta dell’interessato/a, il giudice potrà:
– disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e
– ordinare ai terzi (come il datore di lavoro), che una parte delle somme dovute al coniuge obbligato vengano versate direttamente agli aventi diritto.
Se il genitore tenuto al pagamento dovesse risultare formalmente disoccupato e nullatenente, la
cosa migliore da fare sarà quella di procurarsi le prove di eventuali attività svolte al nero.
In ogni caso il giudice ha sempre il potere di richiedere alla polizia tributaria di indagare sui redditi
e sui beni oggetto della contestazione (proprio allo scopo di individuare attività non dichiarate e fiscalmente rilevanti) [4].
3. Il coniuge che abbia in mano il titolo e che abbia accertato l’esistenza di beni mobili, immobili o
di somme di denaro nella titolarità dell’ex, potrà intraprendere la strada dell’esecuzione forzata
nei confronti di quest’ultimo.
Essa può consistere nel pignorare i beni mobili del debitore (come ad esempio l’arredamento di
casa), gli eventuali immobili o ancora le somme di denaro di cui il egli sia creditore (come ad
esempio, lo stipendio o il denaro depositato su un conto bancario).
[1] Art. 570 cod. pen.
[2] Art. 131-bis cod. pen.
[3] Art. 148 cod.civ.
[4] Art 709 ter cod. proc. civ.
[5] Art. 337 ter cod. civ. e art. 5 L. 898/70
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
L’ORDINE DI PAGAMENTO DIRETTO AL TERZO
di Maria Elena Casarano
Tra gli strumenti a disposizione del coniuge qualora quello obbligato a versare l’assegno di mantenimento si sottragga ai propri obblighi c’è l’ordine di pagamento diretto al terzo, che consente di
ricevere il mantenimento con un effetto molto simile a quello risultante da un pignoramento (presso terzi), pur avendone caratteristiche differenti.
Si tratta di uno strumento considerato fra i più idonei a garantire il soddisfacimento di un credito
periodico come quello derivante dall’obbligo di mantenimento, in quanto permette di “scavalcare”
l’inerzia dell’obbligato. Esso è previsto non solo nella ipotesi di separazione e divorzio, ma anche
in una serie di casi (come il mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio) in cui il familiare viene
meno all’obbligo di prestare il sostegno economico alla famiglia.
Separazione
Se per effetto della separazione, il tribunale ha stabilito a vantaggio di uno dei coniugi il diritto ad
un assegno di mantenimento [1], in caso di inadempienza dell’obbligato, il giudice può disporre –
su richiesta dell’avente diritto – il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai
terzi (ad esempio, al datore di lavoro), tenuti a corrispondergli anche periodicamente somme di
danaro, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto [2].
A riguardo, la Cassazione [3] ha ribadito che – anche se la norma fa riferimento solo ad “una parte” delle somme – in realtà non vi sono limiti quantitativi alla misura [4]. In altre parole, il magistrato può legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal terzo quando
questa copra per intero la misura economica determinata in sede di separazione.
Con riferimento, poi, ai “terzi” assoggettabili alla procedura, la legge si riferisce a tutti i soggetti tenuti a versare periodicamente somme di denaro al coniuge obbligato, e perciò non solo al datore
di lavoro privato, ma anche agli enti pubblici (pur eroganti prestazioni pensionistiche), ai conduttori
degli immobili nella titolarità dell’obbligato ed ogni altro soggetto che debba versare periodicamente somme al coniuge inadempiente (ad esempio chi debba pagare una somma rateale quale
adempimento di un debito).
Affinché, dunque, possa essere emanato l’ordine del giudice, è sufficiente che sussistano due
condizioni:
1. che il coniuge obbligato vanti nei confronti di terzi un credito che abbia ad oggetto il versamento, anche periodico, di somme di denaro (ivi compresi proventi di attività lavorativa, assegni pensionistici) [5];
2. sia accertato l’inadempimento o il non puntuale adempimento dell’obbligo, pure se con pochi
giorni di ritardo rispetto alla scadenza imposta, se esso faccia dubitare in modo fondato della tempestività dei pagamenti futuri [6]. Dunque, non occorre che l’inadempimento sia stato grave, ma
bastano anche semplici ritardi.
Tale previsione si estende anche all’ipotesi in cui l’inadempimento riguardi il contributo per il mantenimento dei figli e nell’ipotesi di separazione consensuale [7].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
In parole semplici, il Tribunale rivolge un ordine di pagamento a chi deve delle somme all’obbligato
(ad esempio il datore di lavoro), il quale dovrà versare direttamente all’ex coniuge beneficiario del
mantenimento l’importo dell’assegno dovuto, prelevandolo dallo stipendio. Il terzo sarà anche tenuto a corrispondere l’annuale aggiornamento Istat, senza che sia necessario un ulteriore ordine
del giudice.
Divorzio
Anche nell’ambito del divorzio, la legge prevede il diritto di ottenere somme di denaro che terzi sono tenuti a corrispondere all’obbligato [8]. Ma in tal caso non può essere emesso un ordine al terzo direttamente dal giudice, ma l’ex coniuge creditore deve prioritariamente seguire una via stragiudiziale sia per ottenere il proprio mantenimento che quello dovuto alla prole.
E’ dunque il creditore, in questo caso, per il tramite del proprio avvocato, a doversi fare parte attiva.
Nello specifico, all’ex coniuge va prima formulata una richiesta di pagamento tramite raccomandata A.R. Decorsi inutilmente trenta giorni senza che questi vi abbia provveduto, deve essere notificato al terzo datore di lavoro (o debitore di altre somme) il provvedimento con il quale il giudice
ha statuito l’obbligo di versamento periodico, insieme all’invito a versare direttamente il dovuto al
beneficiario del mantenimento.
Tale richiesta potrà essere formulata non solo in base ad una sentenza di divorzio, ma anche di
un provvedimento di revisione delle condizioni dello stesso o di pronunce emesse dal giudice della
fase istruttoria della causa.
Nel caso in cui anche il terzo si sottragga alla richiesta, l’avente diritto può promuovere una procedura esecutiva direttamente nei suoi confronti.
In questo caso, a differenza delle ipotesi precedenti, la legge prevede un limite al prelievo delle
somme, nella misura massima della metà dell’importo dovuto al coniuge obbligato, comprensivo di
assegni ed emolumenti accessori. Tale limite, tuttavia, non riguarda le somme periodiche non derivanti da attività lavorativa (ad esempio i canoni di locazione).
Qualora, al momento della notifica al terzo, risulti già un pignoramento sul credito del coniuge obbligato, il giudice dell’esecuzione dovrà provvedere a ripartire le somme fra i vari creditori (il coniuge avente diritto al mantenimento, creditore procedente ed eventuali altri creditori intervenuti
nella procedura esecutiva).
[1] Art. 156, c. 5, cod. civ.
[2] Art.156, c. 6, cod. civ.
[3] Cass. sent. n. 23668/06.
[4] Cass. sent. n. 12204/1998; Cass. sent. n. 1398/2004.
[5] Cass. sent. n. 159/79; Cass. sent. n. 13630/92.
[6] Cass. sent. n. 1095/90.
[7] Con la sent. n. 144/83, la Corte Cost. ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 156, c. 6, cod. civ., nella parte in cui non prevede che l’ordine al terzo di pagare agli aventi diritto in caso di inadempienza del genitore relativa al
mantenimento dei figli sia applicabile anche alla separazione consensuale.
[8] Art. 8, l. n. 898/70.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
REVOCABILITA’ DEL PASSAPORTO AL GENITORE CHE NON VERSA IL
MANTENIMENTO
di Maria Elena Casarano
Non sempre, tuttavia, gli strumenti a disposizione dell’avvocato per “fare pressione” sul coniuge
inadempiente sortiscono l’effetto sperato; ciò può avvenire quando, ad esempio, non vi siano beni
da pignorare o non risulti un reddito del coniuge, in quanto proveniente per lo più da attività “in nero”.
Ma c’è un rimedio che pochi conoscono e che può costituire un valido strumento di pressione per
il genitore inadempiente, specie nel caso in cui questi, per motivi di lavoro o di piacere, sia solito
recarsi all’estero.
Se, infatti da un lato esiste, per ogni cittadino, un diritto sacrosanto sancito dalla Costituzione, ossia quello alla libertà “di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi” [1], tale diritto, tuttavia, può trovare, in taluni casi, dei limiti, come quando ci si sottragga al proprio obbligo di assistenza economica nei confronti della prole.
Infatti, in presenza di figli minori è necessario il consenso all’espatrio da parte dell’altro genitore o,
in mancanza, l’autorizzazione del giudice tutelare [2].
Pertanto, qualora un genitore non adempia agli obblighi alimentari nei confronti della prole e scaturenti da una pronuncia del giudice, l’altro potrà decidere:
– di non dare il proprio consenso al rilascio del passaporto
oppure (se l’abbia già fatto),
– di revocare il consenso già prestato tramite una semplice dichiarazione in questura.
In questi casi, il genitore che si veda negare o revocare il consenso al passaporto sarà costretto a
rivolgersi al giudice tutelare, il quale convocherà davanti a sé entrambi i genitori per valutare, sulla base delle loro dichiarazioni, se dare o meno la propria autorizzazione all’espatrio.
[1] Art. 16 Cost.
[2] Art. 3 Legge 21 novembre 1967, n. 1185 come modificata dalla L. n. 3 del 16.01.03.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
MANTENIMENTO DEL MINORE: SE NON PAGA IL GENITORE SPETTA AI
NONNI
Quando il genitore separato non mantiene il figlio, a pagare devono essere i nonni: l’obbligazione
relativa ai mezzi di sostentamento nei confronti dei minori è fondamentale e, in base ai principi costituzionali [1], è possibile riaffermare che se i genitori non possono farsene carico dovranno essere gli ascendenti (nonni, bisnonni).
Infatti, in caso di inadempimento dell’obbligo di mantenimento posto a carico di uno dei due genitori verso il figlio, se il genitore collocatario o affidatario è impossibilitato da solo a provvedere all’integrale soddisfacimento di tutte le essenziali esigenze di vita del minore, diviene allora
possibile esigere il pagamento (in via sussidiaria) dagli ascendenti (i nonni) dello stesso minore,
che verranno obbligati a fornire al genitore i mezzi necessari per l’adempimento del dovere di sostentamento.
Condizione, dunque, per poter agire nei confronti dei nonni è che il genitore che si occupa dei figli
non sia indipendente economicamente: insomma, non deve avere le risorse economiche necessarie per la sopravvivenza sua, ma soprattutto dei bambini.
In questi casi, con un procedimento cautelare in forma abbreviata, è possibile ricorrere al giudice e
chiedere che emetta l’ordine di pagamento [2], introdotto dalla recente riforma della filiazione [3].
Del resto, è la stessa Costituzione italiana che pone, tra i principi fondamentali, il dovere e diritto
dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di
incapacità dei genitori – con tale intendendosi, quindi, anche quella economica – la “legge” prevede che siano assolti tali compiti da altri soggetti: siano essi pubblici, ma soprattutto, prioritariamente, individuati all’interno della famiglia stessa di origine. E quindi, i nonni in primo luogo.
[1] Art. 30 Cost.
[2] Art. 316bis cod. civ.
[3] D.lgs. n. 154/13.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
I DIRITTI SUCCESSORI
La separazione legale, che allenta il legame tra coniugi, non elimina i diritti di successione in caso
di decesso del marito o della moglie. Pertanto, se uno dei due decede dopo la sentenza di separazione e prima di quella di divorzio, l’altro è suo erede secondo le normali regole del codice civile.
L’unico caso in cui non si ha l’effetto della successione è qualora, nella separazione, sia stato dichiarato l’addebito e la sentenza sia passata in giudicato. In altre parole, il tribunale deve aver accertato che la rottura del matrimonio si è verificata per colpa di uno dei due coniugi (dichiarando,
appunto, a carico di questi il cosiddetto addebito).
CONIUGI SEPARATI: CHE ACCADE IN CASO DI MORTE E SUCCESSIONE
EREDITARIA?
di Angelo Forte
Sono spesso poco conosciute le regole in tema di successione ereditaria nell’ipotesi in cui questa
si apra, con la morte di un coniuge, nell’intervallo (spesso lungo) fra la sentenza di separazione,
già pronunciata, e quella di divorzio.
In questo caso, tutt’altro che raro, la legge [1] stabilisce che il coniuge separato abbia gli stessi ed
identici diritti successori del coniuge non separato, salva l’ipotesi in cui la separazione gli sia
stata addebitata.
Tale completa equiparazione ai fini successori fra coniuge separato (senza addebito) e coniuge
non separato vale se la morte di uno dei coniugi avvenga prima del momento in cui diviene definitiva la sentenza che pronuncia il divorzio, cioè prima che la sentenza di divorzio non possa più
essere impugnata con l’appello.
Se, quindi, la morte di un coniuge separato avviene prima di tale momento, l’altro coniuge (al quale la separazione non sia stata addebitata) eredita, in assenza di testamento:
1- ed in assenza di altri eredi, la metà del patrimonio del coniuge defunto [2],
2- in presenza di un solo figlio eredita un terzo del patrimonio stesso (un altro terzo spetta al figlio),
3- se infine, sempre in assenza di testamento, vi siano più figli, a questi spetta complessivamente
la metà del patrimonio del defunto ed al coniuge superstite un quarto [3].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Nel caso, invece, in cui il coniuge defunto abbia fatto testamento, egli, ferme restando le quote
sopra indicate (cosiddette quote legittime che sono intangibili), può destinare liberamente a chi
vuole le parti restanti (quote cosiddette disponibili).
Si precisa, infine, che il coniuge superstite al quale la separazione sia stata addebitata, ha diritto,
se l’altro decede prima che la sentenza di divorzio divenga definitiva, solo ad un assegno vitalizio
e solo se all’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto [4].
[1] Art. 548 cod. civ.
[2] Art. 540 cod. civ.
[3] Art. 542 cod. civ.
[4] Art. 548, 2° comma, cod. civ.
PENSIONE DI REVERSIBILITA’ SEPARATI E DIVORZIATI, A CHI SPETTA?
di Noemi Secci
La pensione di reversibilità, o pensione ai superstiti, è una prestazione che l’Inps liquida ai congiunti dell’assicurato deceduto, che può essere lavoratore o pensionato.
Il trattamento spetta al coniuge, fino a un determinato limite di reddito, ai figli, sino a 26 se studenti
universitari, o senza limiti se inabili, e in mancanza, ai genitori over 65 senza pensione o ai fratelli
ed alle sorelle inabili.
La pensione in caso di secondo matrimonio
Il problema della spettanza dell’assegno sorge in caso di più matrimoni, poiché la pensione deve
essere ripartita tra più coniugi: non ci si sposa più una volta sola, difatti, ormai sono sempre più
frequenti le ipotesi che vedono una seconda famiglia, o una famiglia di fatto.
Nel caso di un nuovo matrimonio, il secondo coniuge ha, ovviamente, pari diritto al primo, in merito alla pensione di reversibilità: il trattamento, allora, deve essere diviso tra i due soggetti.
Reversibilità e separazione
Attenzione: non in tutti i casi il primo coniuge ha diritto all’assegno, ma solo laddove sia separato
senza addebito e titolare di un assegno di mantenimento a carico del coniuge deceduto, sempre
che quest’ultimo risulti assicurato all’Inps prima della sentenza di separazione.
Reversibilità e divorzio
Il coniuge divorziato, invece, avrà diritto alla pensione ai superstiti se titolare di assegno di divorzio, purchè l’ex coniuge deceduto risulti iscritto all’Inps prima della sentenza di divorzio. Inoltre,
l’ex coniuge non deve aver contratto nuovo matrimonio: in questo caso, si perde il diritto alla pensione di reversibilità, ma viene liquidata, una tantum , una somma pari al trattamento percepito
moltiplicato per 26 [1].
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Reversibilità: ripartizione tra due coniugi
Nei casi in cui il lavoratore o pensionato deceduto abbia contratto un nuovo matrimonio, come
poc’anzi esposto la pensione di reversibilità deve essere divisa tra i due coniugi: la ripartizione è
effettuata dal giudice, su richiesta delle parti, con una sentenza motivata.
Il criterio fondamentale di ripartizione è quello temporale, ma la recente giurisprudenza ha affermato che non sia corretto basarsi solo su parametri matematici, e che vi sono delle situazioni che
possono influire sulla determinazione della percentuale spettante.
Pertanto, anche se la legge [2] indica soltanto il criterio della durata del rapporto, come unico parametro, al criterio possono essere applicati dei correttivi basati sulla situazione di entrambi i coniugi.
Inoltre, la nozione di durata del rapporto non è univoca, e si presta a molteplici interpretazioni: secondo il vecchio indirizzo giurisprudenziale, si doveva far unicamente riferimento alla durata legale
del matrimonio. La giurisprudenza più recente, tuttavia, considera e valuta altri elementi, purché
collegati ai fini solidaristici della pensione di reversibilità, come la convivenza prematrimoniale e
l’ammontare dell’assegno divorzile: è importante, difatti, che il giudice tuteli, tra le due posizioni
contrastanti, quella del soggetto economicamente più debole.
[1] Inps Circ.84/2012.
[2] Art. 5, L.. 898/1970.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Il DRITTO DI ABITAZIONE SULLA CASA CONIUGALE
di Maria Elena Casarano
Di regola, per legge, al coniuge separato (purché non responsabile della rottura del matrimonio)
spettano gli stessi diritti successori del non separato [1]. Tale principio, tuttavia, non si applica anche al diritto di abitazione sulla ex casa coniugale.
Infatti, con il venir meno della coabitazione, a seguito della separazione e l’impossibilità di individuare una casa adibita a residenza familiare, cessa anche il diritto di abitazione in favore del
coniuge superstite. Ciò in quanto tale diritto è condizionato all’effettiva esistenza, al momento
dell’apertura della successione, di una casa adibita ad abitazione familiare; tale situazione non ricorre quando è cessato lo stato di convivenza tra i coniugi.
Riguardo, la Cassazione [2] ha chiarito il diritto di abitazione sulla casa coniugale e di uso dei mobili da parte del coniuge superstite [3] ha ad esclusivo oggetto l’immobile in concreto adibito a residenza familiare, da identificarsi nella casa in cui i coniugi hanno coabitato stabilmente prima della morte di uno dei due, organizzandovi la vita domestica [4].
Questo principio si basa non tanto sulla volontà di tutelare l’interesse economico del coniuge superstite a disporre di un alloggio, quanto su altri interessi morali legati alla conservazione dei rapporti affettivi e consuetudinari con la residenza familiare: ad esempio, quello alla conservazione
della memoria del coniuge scomparso, al mantenimento del tenore di vita e delle relazioni sociali
goduti durante il matrimonio [5].
Ebbene, nel caso di separazione, esiste una oggettiva impossibilità di individuare una casa
adibita a residenza familiare, essendo venuto meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini
dell’attribuzione del diritto di abitazione, vale a dire la convivenza.
Pertanto, il coniuge superstite non può vantare nessun diritto di abitazione sull’ex casa familiare, a
seguito della separazione personale, qualora sia anche cessato lo stato di convivenza tra i coniugi.
Tale diritto potrebbe tutt’al più essere riconosciuto nel raro caso in cui, nonostante la separazione,
questi abbia continuato a coabitare con l’ex.
[1] Art. 548, c. 1, cod. civ.
[2] Cass. sent. n. 22456 del 22.10.2014.
[3] Ai sensi dell’art. 540 cod. civ., al coniuge è riservata, a titolo di legittima, una quota pari alla metà del patrimonio
dell’altro, salve le disposizioni dettate in caso di concorso con i figli dal successivo art. 542 cod. civ., il quale prevede
in favore del coniuge la riserva della quota di un terzo, in caso di un solo figlio, e di un quarto in caso di più figli. Ai
sensi del secondo comma dello stesso art. 540 cod. civ., al coniuge superstite sono riservati il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.
[4] Cass. sent. n. 4088/2012.
[5] Corte Cost. sent. n. 310/89.
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L’ASSEGNO DI DIVORZIO A CARICO DELL’EREDITA’
di Maria Elena Casarano
Di norma, con il divorzio, vengono meno tutti i diritti ereditari che la legge collega allo stato di coniuge. Ciò significa che il divorziato ha la possibilità di partecipare alla successione dell’ex, ormai
defunto, solo se questo lo abbia nominato nel proprio testamento.
Esiste, però (anche in mancanza di una espressa disposizione testamentaria) la possibilità per il
divorziato superstite di partecipare alla successione dell’ex consorte, ricevendo un assegno a carico dell’eredità (altrimenti detto assegno successorio). Vediamo nello specifico di cosa si tratta e a
quali condizioni è possibile ottenerlo.
Natura e finalità dell’assegno
L’assegno successorio [1] è un assegno periodico che il giudice, dopo la morte dell’ ex coniuge,
può porre a carico degli eredi (legittimi o testamentari) in favore dell’ex superstite, purché sussistano determinate condizioni (che vedremo a breve).
Tale assegno vuole garantire quel regime di solidarietà familiare nato con il matrimonio tutte le volte in cui non sia possibile sostenere in altro modo l’ex coniuge che si trovi in stato di bisogno [2].
Si tratta, in pratica, di un assegno con una natura alimentare, finalizzato ad assicurare all’ex di
sopperire al venir meno dell’assegno di divorzio conseguente alla morte dell’obbligato. Esso comunque non rappresenta una trasformazione dell’assegno divorzile ma un obbligo autonomo degli
eredi che deve essere espressamente riconosciuto dal giudice [3].
Dalla natura alimentare dell’assegno successorio, derivano alcune conseguenze, quali:
– l’indisponibilità (e perciò l’impossibilità di trasmetterlo ad altri soggetti);
– l’imprescrittibilità (cioè la possibilità di richiederlo in qualsiasi momento ove ne ricorrano i presupposti);
– la possibilità di chiederne la rivalutazione monetaria.
Presupposti per ottenere l’assegno
Per aver diritto all’assegno successorio, occorre che l’ex coniuge superstite si trovi al contempo
nelle seguenti condizioni:
1) gli sia stato già riconosciuto il diritto a un assegno di mantenimento divorzile;
2) versi in stato di bisogno;
3) dopo il divorzio non si sia risposato e non lo faccia in seguito;
4) non abbia già ricevuto con il divorzio il mantenimento attraverso una erogazione in unica soluzione (cosiddetto una tantum).
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Lo stato di bisogno
Nell’ambito dei suddetti presupposti, merita un approfondimento quello relativo allo stato di bisogno, trattandosi di una condizione che può essere oggetto di diverse interpretazioni.
Tale stato, pur non coincidendo con quello di assoluta povertà, viene – di norma – individuato in
una situazione peggiore rispetto a quella in cui manchino le disponibilità idonee a conservare il
precedente tenore di vita (presupposto, invece, per il riconoscimento di un assegno divorzile). Esso, infatti, deriva dall’insufficienza delle risorse economiche del superstite in rapporto alle sue esigenze esistenziali primarie “che non possono rimanere insoddisfatte se non a costo di deterioramento fisico e psichico” [4].
In altre parole, nonostante la natura di tale assegno sia analoga a quella degli alimenti, l’entità del
bisogno va valutata in relazione al contesto socio – economico del superstite e del defunto e non
con riferimento alle norme generali in tema di sostegno dell’indigenza [5].
Di conseguenza, tale stato di bisogno sarebbe configurabile anche nei casi in cui l’ex coniuge
possa far fronte in modo temporaneo alle proprie esigenze di vita, alienando beni mobili di valore
(come gioielli, argenteria, ecc.) [6].
In ogni caso, spetta al giudice la prudente valutazione in merito alla sussistenza o meno di tale
condizione che, tuttavia, deve essere dedotta e provata dal soggetto interessato ad ottenere il
predetto beneficio.
Tale stato di bisogno deve, inoltre, perdurare nel tempo, sicché il diritto all’assegno successorio si
estingue col suo venir meno e sorge nuovamente, ove tale stato si ripresenti.
Quantificazione dell’assegno
Per determinare la misura dell’assegno, il giudice deve tener conto non solo dei criteri previsti dalla normativa in tema di diritto agli alimenti [7] quali la proporzione del bisogno di chi li domanda e
le condizioni economiche di chi deve somministrarli, ma anche di specifici ulteriori elementi,
espressamente previsti dalla legge [1]:
– il numero, la qualità e le condizioni economiche degli eredi: con possibile valutazione e attribuzione dell’obbligazione in misura differenziata per i singoli eredi;
– il tenore di vita che era garantito dall’assegno divorzile;
– l’eventuale godimento da parte del richiedente della pensione di reversibilità;
– il valore dell’asse ereditario.
Tutti questi elementi devono essere valutati con riferimento alla situazione esistente al momento in
cui la ripartizione deve essere effettuata [8].
In ogni caso, poiché tale assegno deve considerarsi un onere a carico degli eredi, il suo ammontare non potrà mai superare il valore delle sostanze ereditarie; sicché, se vi sia una eredità passiva
(cioè costituita da debiti), l’ex superstite nulla potrà pretendere.
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Su accordo delle parti – ed è quello che in genere avviene nella prassi – la corresponsione
dell’assegno a carico dell’eredità può avvenire in un’ unica soluzione: ove ciò avvenga al beneficiario sarà preclusa la possibilità di avanzare qualsiasi richiesta futura, anche nel caso in cui subentri nuovamente lo stato di bisogno.
Come proporre la domanda
Poiché il diritto al mantenimento da parte dell’ex coniuge (attuato tramite il riconoscimento di un
assegno divorzile) ha natura strettamente personale e si estingue con la morte dell’obbligato, al
verificarsi di questo evento non sorge in via automatica alcun trasferimento a carico degli eredi di
corrispondere l’assegno all’ex superstite.
Occorre, quindi, che l’interessato si faccia parte attiva e formuli una espressa domanda giudiziale
(con l’assistenza di un avvocato) in tal senso; sicché la sentenza che accerta il diritto ad un assegno successorio non ha effetti retroattivi, ma li produce a partire da quel momento.
La domanda va proposta davanti al tribunale (in composizione collegiale) del luogo di apertura
della successione e , avendo ad oggetto un diritto di natura alimentare, può essere quindi presentata in qualunque momento sopravvenga l’eventuale stato di bisogno (non ha, quindi, termini di
prescrizione).
Essa non richiede, ai fini di una valida proposizione, la necessità di esperire un preventivo tentativo di mediazione o di negoziazione assistita.
L’assegno dovrà essere corrisposto in misura proporzionale alle rispettive quote ereditarie.
In caso di morte di uno dei soggetti obbligati a corrispondere l’assegno, il beneficiario potrà presentare una nuova domanda al giudice al fine di ad ottenere un aumento della quota a carico degli
altri obbligati.
[1] Art. art.9-bis delle l. 898/70: “1. A colui al quale è stato riconosciuto il diritto alla corresponsione periodica di somme di denaro a norma dell’art. 5, qualora versi in stato di bisogno, il tribunale, dopo il decesso dell’obbligato, può attribuire un assegno periodico a carico dell’eredità tenendo conto dell’importo di quelle somme, della entità del bisogno,
dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro
condizioni economiche. L’assegno non spetta se gli obblighi patrimoniali previsti dall’art. 5 sono stati soddisfatti in unica soluzione. 2. Su accordo delle parti la corresponsione dell’assegno può avvenire in unica soluzione. Il diritto
all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora risorga lo
stato di bisogno l’assegno può essere nuovamente attribuito”.
[2] Cass. sent. n. 1253 del 27.01.2012.
[3] Cass. 10557/96; Cass. n. 6045/81.
[4] Così Cass., 17 giugno 1992.
[5] Cass. sent. n 1253/12 e n. 9185/04.
[6] Trib. Pavia, 13 maggio 1993.
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
GLI STRUMENTI PER L’ACCORDO
Il desiderio di riprendere in mano la propria vita, specie a seguito di un doloroso percorso coniugale, spesso si scontra con l’amara necessità di dover delegare, a un soggetto estraneo alla famiglia
(un avvocato o un giudice), decisioni invece personali: decisioni, cioè, che attengono alle le emozioni e la gestione della nostra vita (doversi disfare di un bene che ha un valore affettivo; quando,
dove e come vedere i figli; vendere quella casa in cui si conservano i propri ricordi…).
È quanto accade a quelle coppie che decidono di separarsi percorrendo la strada giudiziale, ma
che e’ possibile evitare ricorrendo alla mediazione familiare e alla pratica collaborativa.
LA MEDIAZIONE FAMILIARE
di Maria Elena Casarano
La mediazione familiare è stato espressamente prevista quale strumento di risoluzione dei conflitti
familiari giudiziari dalla legge sull’affidamento condiviso [1] che ha stabilito che: “Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei
provvedimenti riguardo ai figli per consentire che i genitori, avvalendosi di esperti, tentino una
mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli” [2].
Dunque si tratta di uno strumento che la legge prevede ad espressa tutela della prole, ma al quale
i coniugi in procinto di separarsi (anche senza avere figli) ben possono fare ricorso per favorire
eventuali accordi di separazione o divorzio o per tentare la riconciliazione.
Che cos’è la mediazione familiare
La mediazione familiare è un percorso che offre a chiunque si trovi a vivere un momento di conflitto familiare (e perciò non solo a due coniugi) uno spazio e un tempo per ritrovare un dialogo rispettoso, un momento di ascolto reciproco, l’opportunità di far emergere i propri bisogni, riuscendo
a guardare – al contempo – a quelli dell’altro.
Ruolo del mediatore
Tutto questo avviene alla presenza di un terzo imparziale, il mediatore appunto, che non è né un
giudice, né uno psicoterapeuta, né uno psicologo, né un avvocato (e, se lo è, non ne riveste il ruolo in quel momento). Il mediatore è qualcuno che, a seguito di uno specifico percorso di formazione, ha imparato a fare un uso prezioso di alcuni strumenti, indispensabili per aiutare le parti in
conflitto a spogliarsi della maschera che indossano ogni giorno per proteggere se stessi (come
un po’ tutti facciamo) e che finisce con cancellare le persone con i propri problemi.
Il mediatore deve essere capace di accogliere, di sentire piuttosto che pensare, di ascoltare dando
il giusto contenuto alle parole (troppo spesso cariche di rabbia), di essere neutrale, cioè capace di
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stare al contempo sia con uno che con l’altro, di dare confidenzialità agli incontri, facendo da un
lato sentire ai mediati che possono farcela, dall’altro nel trasmettere loro la necessaria fiducia nei
mediatori.
Strumenti tutti questi necessari per affrontare diversi tipi di conflitto (quelli scolastici, sul luogo di
lavoro, in ambito penale, intergenerazionali) perché, in realtà, anche se si sente parlare spesso di
mediazione “familiare”, la mediazione in realtà è una sola, perché i mediatori non guardano
all’aggettivo che la accompagna (scolastica, penale, ecc.).
Il mediatore fa un po’ da cassa di risonanza di ciò che accade nella stanza, specchiando le emozioni senza porsi l’obiettivo della risoluzione della crisi, bensì quello della restituire ai mediati una
responsabilità che appartiene solo a loro, proprio attraverso l’accettazione del conflitto.
Il ruolo degli avvocati
Nella stanza di mediazione l’avvocato non può entrare e non è neppure detto che ve ne sia uno;
ben possono, infatti, le parti rivolgersi ad un mediatore senza avere alcuna intenzione di farsi causa, ma solo volendo risolvere un momento di crisi personale.
È importante, tuttavia, che quando un avvocato esiste (in quanto è in corso un procedimento giudiziario) egli sappia rispettare i tempi necessari a far procedere il percorso di mediazione e sappia accogliere le soluzioni che le parti siano riuscite a trovare insieme (per riportarle negli atti del
processo), senza sminuirle o ostacolarle (cosa che, purtroppo non sempre avviene), ma solo traducendole con linguaggio giuridico.
In altre parole, gli avvocati dovrebbero sempre agire come se fossero stati davvero presenti nella
stanza di mediazione, supportando le decisioni raggiunte dai propri clienti durante gli incontri.
Analogamente, nella stanza non entra neanche il giudice il quale, anche nel caso in cui abbia disposto l’invio in mediazione delle parti, potrà essere solo informato dell’esito positivo o negativo delle sedute ma non dei suoi contenuti, che resteranno confidenziali.
A chi rivolgersi
Quando l’invio in mediazione non viene suggerito dal giudice che, in tal caso, invia le parti, presso
l-ufficio di mediazione civile e penale di competenza, i coniugi possono liberamente individuare un
centro di mediazione tra i numerosi presenti sul territorio.
Spesso si tratta di un servizio gratuito offerto ai cittadini dal Comune di appartenenza quale sostegno alle famiglie in difficoltà; in ogni caso, anche il ricorso a centri privati ( e quindi a pagamento)
comporta, di solito, esborsi più che sostenibili, per cui vale senz’altro la pena tentare la strada della mediazione prima di affrontare quella lunga e, certamente, assai più costosa di un giudizio
dall’esito incerto.
[1] Art. 2 della legge n. 54/2006.
[2] Tale previsione, prima contenuta nell’art. 155 sexies cod. civ., è ora prevista all’art. 337 octies co. 2 cod. civ . a
seguito della totale parificazione delle tutele previste per i figli nati sia fuori che dentro il matrimonio.
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LA PRATICA COLLABORATIVA
di Maria Elena Casarano
Abbiamo visto che al mediatore familiare può anche rivolgersi chi sta attraversando un momento
di crisi senza, tuttavia, aver intenzione di far ricorso al giudice.
Quando, invece, qualcuno decide di andare in giudizio, egli per prima cosa cerca un avvocato,
affinché tuteli i suoi interessi: può trattarsi dei coniugi che decidono di separarsi o divorziare, dei
nonni che vogliano veder tutelato il proprio diritto a frequentare i nipoti, della coppia che intenda
regolamentare il mantenimento e l’affido di un figlio. Tutti questi soggetti non possono che individuare nell’avvocato il loro primo interlocutore.
Ebbene, la scelta della pratica collaborativa permette di affrontare un momento delicato della propria vita (come un giudizio di separazione, ma non solo) avvalendosi dei preziosi strumenti offerti
dalla mediazione familiare e da altre specifiche competenze professionali, ma avendo sempre al
proprio fianco la necessaria figura dell’ avvocato [1].
Di che si tratta?
Dopo aver dato rispettivamente al proprio avvocato di fiducia la disponibilità a seguire il percorso
collaborativo, la coppia e gli avvocati sottoscrivono un accordo di collaborazione in cui ogni
soggetto si impegna al rispetto di alcune regole che costituiscono la base di questo nuovo procedimento: riservatezza, trasparenza, cooperazione, fiducia. In sostanza, si gioca a carte scoperte
e tutte le informazioni utili vengono messe sullo stesso tavolo.
Tutti si impegnano a un dialogo costruttivo e si propongono un unico obiettivo, quello di raggiungere un accordo globale, soddisfacente e duraturo. Una regola fondamentale del percorso
collaborativo consiste nell’impegno di ciascuna parte a non minacciare cause.
Il risultato è possibile perché si lavora in team: ciascuna parte non guarderà l’altra e il suo avvocato come avversari, perché nello spirito collaborativo non ci sono battaglie da vincere, né sconfitti
o vincitori, ma c’è al contrario un’estrema collaborazione tra i protagonisti, tutti impegnati nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
Il coach
Se le parti riescono a dialogare, è possibile che bastino anche i soli avvocati collaborativi a consentire il raggiungimento dell’accordo; ma se nella coppia non c’è dialogo o questo è difficile, sarà
necessaria la presenza di qualcuno che aiuti le parti a concentrarsi sul comune obiettivo, come un
mediatore familiare o uno psicologo (a volte necessari – se non indispensabili – per aiutare i
genitori a gestire gli effetti laceranti che il conflitto ha generato sui figli).
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Questioni economiche
Se le questioni economiche sono complesse, ci si potrà avvalere della professionalità di un commercialista, anch’egli formato alla pratica collaborativa il quale, sulla base dei problemi e delle esigenze rappresentate dai coniugi, consiglierà la soluzione fiscalmente più adeguata alla specifica situazione familiare.
Tutte queste figure (avvocati, psicologo o mediatore, commercialista) entreranno a far parte del
team, vincolandosi al rispetto delle regole prima indicate.
Se l’accordo fallisce
Se le parti (o una di loro) non rispettano le regole (il che è l’anticamera di una causa), gli avvocati
rinunceranno al mandato impegnandosi a non seguire più i propri clienti qualora questi ultimi
decidano di andare davanti al giudice. Naturalmente questo porta ciascuno a concentrarsi
sull’obiettivo-accordo senza il timore di ricevere, per così dire, “colpi bassi”, anche perché i documenti esibiti nel corso degli incontri non potranno essere utilizzati in un eventuale giudizio.
In pratica, si tratta di un metodo che incoraggia tutti i soggetti coinvolti nel procedimento ad affrontare i problemi scaturiti dalla crisi, senza antagonismi e con metodi costruttivi, e che permette di
dare il giusto spazio sia alle questioni economiche che a quelle emotive della coppia e dei figli
coinvolti.
Perché conviene
Innanzitutto perché i tempi della giustizia non sono quelli di cui le famiglie (specie quelle in cui vi
sono bambini o adolescenti) hanno bisogno per riprendere in mano la propria vita e ricominciarla
con modalità nuove per tutti. Un processo può durare anche sette-otto anni; al contrario, grazie al
procedimento collaborativo, le parti sono in grado di raggiungere un accordo in pochi mesi.
Inoltre, anche la decisione finale da parte del giudice può essere in molti casi la causa di ulteriori conflitti nel contesto della famiglia, non solo perché presa da un soggetto che nulla conosce
della storia delle parti (e perciò difficilmente saprà rispondere ai bisogni di ciascuno), ma anche
perché i lunghi anni trascorsi fra studi di avvocati e aule di udienza spesso finiscono col minare
l’equilibrio psicologico delle coppie e dei loro figli.
I costi
La scelta del percorso collaborativo consente una possibilità di risparmio rispetto a una separazione giudiziale. Ciò non toglie che essa sia preferibile in tutti quei casi in cui (specie se ci sono
figli) la separazione consensuale (quella cioè sulla base di accordi predisposti con l’ausilio
dell’avvocato e poi omologati dal giudice) si poggia solo sulla volontà di fare presto, di risparmiare,
ma soprattutto di non aver a che fare troppo a lungo con l’ex. Ebbene, gli accordi che nascono su
queste basi hanno spesso un “effetto boomerang”: dopo qualche tempo si torna dagli avvocati
perché non si è soddisfatti e si vuole modificare tutto. E allora dov’è il risparmio?
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Cosa cambia rispetto alla negoziazione assistita?
Abbiamo visto - parlando (nel cap. II) dei diversi modi per separarsi o divorziare consensualmente
- che le recenti riforme hanno introdotto uno strumento alternativo al tradizionale ricorso congiunto
in tribunale: la negoziazione assistita dagli avvocati.
Ebbene, la pratica collaborativa trova nella negoziazione assistita la sua massima espressione,
proprio perché fa delle parti coinvolte i veri protagonisti dell’intero procedimento, nel rispetto di
quei principi di lealtà e correttezza che devono essere alla base di ogni negoziazione; tuttavia,
essa rappresenta – potremmo dire – una “marcia in più” rispetto alla negoziazione pura e semplice, in quanto la arricchisce di strumenti ulteriori (quali il possibile ricorso a professionisti diversi
dai soli avvocati) e di regole di collaborazione (si pensi solo al dovere dell’avvocato di rinunciare al
mandato ove non siano rispettati gli impegni) maggiormente in grado di non far perdere di vista alle parti l’obiettivo dell’accordo.
All’atto pratico, quindi, i coniugi potranno scegliere il percorso collaborativo:
- sia che intendano percorrere la strada tradizionale del ricorso congiunto al tribunale,
- sia che decidano di avvalersi della negoziazione assistita.
[1] Il metodo collaborativo è nato negli anni ’90 grazie alla sensibilità di un familiarista americano (Stuart Webb) che
comprese quanti danni può provocare ad una famiglia una separazione condotta lontano dai principi del rispetto e della collaborazione non solo fra i coniugi, ma anche fra i loro avvocati. Da allora sono moltissimi coloro che, sia negli
Stati Uniti che in molti paesi europei, hanno scelto di percorrere questa strada con risultati soddisfacenti. In Italia, il
metodo collaborativo è praticabile già da qualche anno grazie al lavoro di formazione dei professionisti e di diffusione
della cultura collaborativa svolto dai due istituti presenti sul territorio: l’Associazione Italiana Professionisti Collaborativi
(AIADC) e l’Istituto Italiano di Diritto Collaborativo (IICL).
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LA RICONCILIAZIONE DEI CONIUGI
Non sempre la separazione porta inevitabilmente al divorzio.
In primo luogo perché i coniugi potrebbero rimanere separati a vita, senza procedere anche al
successivo scioglimento del matrimonio: la legge, infatti, pone solo un termine minimo di 6 mesi
(nel caso di separazione consensuale) o di 1 anno (nel caso di separazione giudiziale) per poter
accedere al successivo divorzio, ma non prevede un termine massimo – per così dire – di “scadenza” degli effetti della separazione.In secondo luogo i coniugi separati possono sempre fare
marcia indietro e, dopo la separazione, tornare nuovamente “sposati” come prima.
È quello che si chiama riconciliazione [1]. Del resto è proprio questo lo scopo del doppio gradino
“separazione prima – divorzio dopo”: la pausa di riflessione serve a consentire agli sposi di poter
valutare con attenzione la propria scelta ed, eventualmente, revocarla in qualsiasi momento, facendo cessare gli effetti della separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice.
Quando si può fare
La riconciliazione può avere luogo anche durante il giudizio di separazione. In tal caso può risultare dal verbale di riconciliazione oppure se non è indicata nel verbale si desume dall’estinzione
del procedimento per mancato compimento delle attività processuali.
Sicuramente la riconciliazione può intervenire anche dopo la pubblicazione della sentenza di separazione (o dopo l’omologazione dell’accordo di separazione).
Come ci si riconcilia?
I coniugi possono riconciliarsi:
– tacitamente, con un comportamento incompatibile con lo stato di separazione;
– espressamente: dichiarando in un accordo scritto di volere riprendere la normale vita matrimoniale e ripristinarne tutti i doveri.
Perché possa parlarsi di riconciliazione è necessario che sia ricostituita l’unione coniugale.
All’accordo deve conseguire il ripristino di fatto della vita familiare. Rilevano i gesti e i comportamenti concreti ed effettivi dei coniugi: marito e moglie devono dimostrare la loro disponibilità a riprendere la convivenza e a costituire una rinnovata comunione (si privilegiano quindi elementi oggettivi e non i dati psicologici, difficili da provare in quanto appartenenti alla sfera intima dei sentimenti).
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La coabitazione
La semplice coabitazione fra ex non vale a interrompere il processo dei sei mesi o dell’anno di separazione ai fini del divorzio e non è sinonimo di riconciliazione; è invece necessario il ripristino
della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del matrimonio [2].
Quindi alla semplice ripresa della coabitazione deve essere equiparata anche la coabitazione per
inerzia o quella dettata solo da ragioni meramente materiali, dovute a fattori economici o logistici o
di altra natura (si pensi a uno dei due coniugi che non abbia i soldi per poter andare a vivere in affitto e abbia fatto domanda di alloggio popolare, mentre, nel frattempo è ospitato in casa dell’ex).
Non devono quindi riprendere le relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il
superamento delle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e
che si concretizzino in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione.
La prova della riconciliazione
Se uno dei due coniugi chiede il divorzio, l’altro può opporsi dando prova che, dopo la separazione, è intervenuta la riconciliazione. Tale prova ha come oggetto gli elementi esteriori, oggettivi e
diretti inequivocabilmente alla seria e comune volontà di ripristinare la comunione di vita. Il
coniuge che vuole provare la riconciliazione deve quindi cercare di dimostrare che si sono verificati fatti quali l’aver ripreso la convivenza, l’avere ripreso i rapporti sessuali, lo svolgimento in comune di una vita sociale, frequentando parenti ed amici o trascorrendo le vacanze insieme (se ciò
non avviene solo per il bene dei figli), che rispecchino la volontà non equivoca dei coniugi di ripristinare integralmente sia la convivenza materiale sia l’unione spirituale che è alla base della convivenza ed è caratteristica della vita coniugale.
In particolare per provare la riconciliazione:
– è necessaria una ripresa concreta e durevole della convivenza coniugale e della comunione spirituale e materiale fra i coniugi: come detto non è sufficiente una temporanea ripresa della coabitazione, specie se per ragioni di convenienza;
– non è sufficiente la nascita di un figlio in costanza di separazione: da questo fatto non si può
desumere implicitamente la riconciliazione, in quanto non basta un semplice rapporto sessuale,
ma occorre la restaurazione vera e propria del nucleo familiare e non il mantenimento di frequenti
rapporti, anche sessuali, fra i coniugi;
– non sono sufficienti le visite giornaliere al coniuge separato bisognoso di cure.
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La dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile
Sebbene la riconciliazione, per essere ufficializzata, non necessita del ricorso al giudice, è comunque necessaria, per rendere la riconciliazione opponibile ai terzi, una dichiarazione davanti
all’ufficiale di stato civile, presso il Comune dove fu celebrato il matrimonio o presso il Comune
dove il matrimonio fu trascritto.
L’ufficiale di stato civile iscrive la dichiarazione negli archivi dello stato civile e la annota a margine
dell’atto di matrimonio.
Gli effetti della riconciliazione
Gli effetti della riconciliazione sono:
a) quanto ai rapporti con il coniuge: la ripresa in vigore dei diritti ed i doveri connessi al matrimonio e la cessazione dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento;
b) in relazione al procedimento di separazione:
- l’abbandono della domanda di separazione se è ancora in corso il giudizio di separazione;
- l’interruzione del termine di 1 anno o di 6 mesi (a seconda se la separazione è stata giudiziale o
consensuale) a partire dal quale è possibile richiedere il divorzio;
- il ripristino della presunzione legale di paternità: quindi il figlio nato entro i 180 giorni da quando i
coniugi tornano insieme si presume concepito durante il matrimonio;
- il ripristino della comunione legale tra coniugi se da loro scelto come regime patrimoniale durante
il matrimonio, fatta salva una diversa convenzione.
I coniugi possono “revocare” la riconciliazione in ogni momento e presentare una nuova domanda di separazione.
[1] Art 157 cod. civ.
[2] Cass. sent. n. 19535/14.
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