...

pollicitationes ob honorem - Università degli Studi dell`Insubria

by user

on
Category: Documents
32

views

Report

Comments

Transcript

pollicitationes ob honorem - Università degli Studi dell`Insubria
1
Problema:
1)
sussistenza piena corrispondenza tra l’OFFERENTIS
SOLIUS PROMISSUM / DUORUM CONSENSUS ATQUE
CONVENTIO di D. 50.12.3pr. e lo SPONTE / ROGATUS di
Servio e di Isidoro di Siviglia per cui a posnte e a rogatus
andrebbe ascritta la funzione di significare rispettivamente
l’unilateralità del polliceri e la bilateralità del promettere
(espressione non della sola promessa ma anche della rogatio, della
petitio rivolta dal futuro creditore al futuro debitore promettente,
circa la disponibilità di quest’ultimo a promettere; per cui la
risposta affermativa e adesiva alla domanda avrebbe rappresentato
il momento costitutivo di una vera e propria convento (il tutto
calato all’interno del rapporto PROMITTERE-GENUS /
POLLICERI-SPECIES, e quindi recepito non in termini di
assolutezza)?
2)
L’unica vera contrapposizione esplicitata da Servio
riguarderebbe lo SPONTE e il ROGATUS, per cui le promesse
espresse tramite polliceri si sarebbero di norma connotate per un
PARTICOLARE GRADO DI SPONTANEITA’, quelle espresse
tramite promettere, di contro, AVREBBERO DI NORMA
TROVATO LA LORO RAGIONE D’ESSERE IN UNA
SOLLECITAZIONE ESTERNA IN UN CONTESTO CHE
ANCHE QUANDO FOSSE STATO LIBERO NON SAREBBE
MAI RISULTATO DEL TUTTO ULTRONEO. LE DUE
AGGETTIVAZIONI
SAREBBERO
DUNQUE
STATE
ESPRESSIVE DI DUE DISTINTI STATI D’ANIMO
Quanto alla prima delle due ipotesi per cui SPONTE =
UNILATERALMENTE, precisato che, a stretto rigore logico le
due sfere, quella dell’ultroneità e quella della unilateralità non
sono del tutto coincidenti, mentre la prima attiene al piano volitivo
dell’atto la seconda ne connota l’aspetto strutturale, la carenza
della prima è di impedimento alla seconda non è, però, sempre
2
vero il contrario, merita di osservarsi come in Servio e in Isidoro
rigorrano alcuni interessanti indicatori:
- ROGATI PROMITTIMUS (in De diff. Anche
PROMITTERE QUOD PETITI), in proposito non è
possibile fare a meno di osservare come il verbo
ROGARE (assieme a quello PETERE) abbia(no) quale
significato elettivo quello di DOMANDARE di
CHIEDERE non quello di coartare, siano cioè
confacenti più ad esprimere la riferibilità della promessa
ad una preventiva interrogazione che la natura non del
tutto libera e spontanea della stessa, quindi a significare
il carattere adesivo, bilaterale e non, genericamente, non
ultroneo, di promettere (ovviamente nel caso in cui
quest’ultimo avvenga non sponte).
- Ma ecco che una volta ricondotta la locuzione rogati
promittimus all’interno di questa logica, lo stesso
sembra doversi fare anche rispetto alla formulazione ad
essa antitetica POLLICERI SPONTE (ULTRO, NEC
ROGATI), alla quale si impone il riconoscimento di un
OPPOSTO VALORE, ciò comporta riconoscere a
sponte (nec rogatus, ultro) la funzione di identificare il
polliceri con la dichiarazione del solo promettente, ossia
con l’offerentis solius promissum e di esprimere l’essere
unilaterale della promessa.
- Aggiungasi che come in Isidoro l’antinomia serviana
risulta condotta e chiarita all’interno di un quadro
definitorio e sistematico in cui promettere avrebbe
rappresentato una sorta di genus rispetto ad una species
circoscritta nel polliceri, a ben guardare lo stesso
rapporto
sembra
costruire
la
formulazione
POLLICITATIO VERO OFFERENTIS SOLIUS
PROMISSUM, che sembra ascrivere al pari di De diff. a
promittere un significato più ampio e meno tecnico
rispetto a polliceri (pollicitatio), mentre quest’ultimo
3
avrebbe potuto identificare solo la promessa
OFFERENTIS SOLIUS, PROMISSUM, al di fuori del
contestio connotante il principium ulpianeo, bene
avrebbe potuto esplicitare il contenuto di una promessa
NON OFFERENTIS SOLIUS
- Rileva inoltre la chiusa di De Diff. 1.217, indicante
nello scritto e nell’oralità i requisiti distintivi di polliceri
e di promettere, la quale cosa induce ad ascrivere alla
stessa una valenza tecnico-giuridica che sembra corretto
estendere anche alla prima parte del passo di Isidoro (e
quindi all’antitesi serviana), perciò allo sponte e al
rogatus.
Le locuzioni: TENEBITUR EX POLLICITATIONE (D.
50.12.1.1) – EX POLLICITATIONE…IPSUM QUIDEM
OMNIMODO IN SOLIDUM TENERI (D. 50.12.9) – EX
POLLICITATIONE DEBEANT (D. 50.4.6.1) – EX CAUSA
POLLICITATIONIS PRAESTARE NECESSE EST (D. 35.2.5)
Attraverso la riconduzione esplicita e diretta del teneri, del debere
e del prestare alla pollicitatio (sempre va detto OB IUSTAM
CAUSAM), sembrano funzionali ad individuare, in modo tecnico
ed esclusivo, nella promessa la fonte del vincolo giuridico ad
adempiere ovvero a dare della stessa un’impressione di
AUTOSUFFICIENZA
e di AUTONOMIA rispetto ad un
eventuale consensus rei publicae.
4
D. 50.12.1 (Ulp. l. sing. de officio curatoris rei publicae):
Si pollicitus quis fuerit rei publicae opus se facturum vel
pecuniam daturum, in usuras non convenietur: sed si moram
coeperit facere, usurae accedunt, ut imperator noster cum divo
patre suo rescripsit.
1. Non sempre autem obligari eum, qui pollicitus est, sciendum
est, si quidam ob honorem promiserit decretum sibi vel
decernendum vel ob aliam iustam causam, tenebitur ex
pollicitatione: sin vero sine causa promiserit, non erit obligatus,
et ita multis constitutionibus et veteris et novis continetur.
2. Item si sine causa promiserit, coeperit tamen facere, obligatus
est qui coepit.
3. Coepisse sic accipimus, si fondamenta iacuit vel locum
purgavit. Sed et si locus illi petenti destinatus est, magis est, ut
coepisse videatur item si apparatum sive impensam in publico
posuit.
4. Sed si non ipse coepit, sed cum certam pecuniam promisisset ad
opus res publicae contemplatione pecuniae coepit opus facere,
tenebitur quasi coepto opere.
5. Denique cum columnas quidam promisisset, imperator noster
cum divo patre suo ita rescripsit: ‘Qui non ex causa pecuniam
reipublicae pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur. Sed
si columnas Citiensibus promisisti et opus ea ratione sumptibus
civitatis vel privatorum inchoatum est, deseri quod gestum est
non oportet’
Elenco fattispecie che avrebbero potuto integrare un’ipotesi di
COEPISSE da parte del pollicitator (COEPISSE SIC
ACCIPIMUS)
1) gettito delle fondamenta (fundamenta iecit)
2) lo sgombero di un’area (‘vel locum purgavit’),
3) considera, allo stesso modo (‘magis est’), l’aver domandato
ed ottenuto la destinazione di un determinato sito (‘et si locus
illi petenti destinatus est … ut coepisse videatur’)
5
4) per, poi, concludere che, parimenti, realizzava l’inizio della
prestazione l’aver provveduto a predisporre quanto
necessario, si fosse trattato di materiale o di denaro (‘item si
apparatum sive impensam in publico posuit’).
Albertario, ovvero il primo sostenitore della bilateralità classica
del rei publicae polliceri,
commentando il valore ed il significato dell’inciso ‘sed et si
locus illi petenti destinatus est magis est ut coepisse videatur’, ha
avuto ad osservare: “esso vuol dire che nella destinazione del
locus fatta dalla civitas n o n s i d e v e v e d e r e u n a
modalità
della
sua
accettazione,
ma
una
e s e c u z io n e d e l l a p r o m e s s a : esso vuol dire, dunque, che
… la promessa obbliga senza che intervenga
l ’ a c c e t t a z io n e ”.
Sono considerazioni che mi sento di sottoscrivere laddove,
riconoscendo l’opportunità di scindere, sul piano giuridico, la
richiesta e la conseguente concessione del locus publicus dal
consensus rei publicae, finiscono per assumere l’unilateralità della
pollicitatio.
Il punto è che a tali affermazioni Albertario ha fatto seguire,
con formula altrettanto perentoria, la d i c h i a r a z i o n e d i
n o n c la s s i c i t à del periodo in esame.
A suo dire, il ‘sed et si locus illi petenti destinatus est magis est
ut coepisse videatur’ andrebbe espunto dal frammento.
Esso deriverebbe, infatti, da un’errata intellezione della ratio
sottesa al ‘coepisse sic accipimus’ e del valore della successione
‘petitio’ - ‘destinatio loci’.
A seguito di ciò i commissari giustinianei s a r e b b e r o s t a t i
i n d o t t i a c o n s id e r a r e ‘ i n c h o a t i o ’ q u a n t o p e r U l p i a n o
avrebbe, invece, rappresentato una modalità di
a c c e t t a z io n e d e l l a p r e s t a z i o n e p r o m e s s a .
Insomma, l’inciso non sarebbe genuino, né nella forma né nella
sostanza.
6
Ora – si è sottolineato – dalla lettura combinata di D.
50.12.1.2: ‘Item si sine causa promiserit, coeperit tamen facere
obligatus est qui coepit’ e di D. 50.12.1.4 ‘sed si non ipse coepit
sed cum certam pecuniam promisisset ad opus rei publicae
contemplatione pecuniae coepit opus facere tenebitur quasi
coepto opere’
(l’esplicazione del ‘coepisse’ si completa, poi, in D. 50.12.1.5
attraverso i contenuti normativi di un rescritto di Antonino
Caracalla: ‘Denique cum columnas quidam promisisset,
imperator noster cum divo patre suo ita rescripsit: Qui non ex
causa pecuniam reipublicae pollicentur, liberalitatem perficere
non coguntur. Sed si columnas Citiensibus promisisti et opus ea
ratione sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est, deseri
quod gestum est non oportet’),
emergerebbe – stando sempre ad Albertario - come,
nell’ambito del ‘coepere’ (opus) Ulpiano avesse voluto
distinguere
1) i casi in cui il ‘facere’ (‘opus’), ovvero il cominciamento
della prestazione sarebbe dipeso, direttamente, dall’iniziativa
e dall’attività del pollicitante (‘coeperit … facere’ – ‘qui
coepit’),
2) le ipotesi in cui, essendo stata promessa una somma di
denaro ad opus, a ‘facere contemplatione pecuniae’ fosse stata
la stessa res publica.
In tale eventualità, dal momento che (‘sed si’) ‘non ipse (il
pollicitator) coepit’, non si sarebbe avuto un vero e proprio
‘coepto opere’, bensì un ‘q u a s i coepto opere’, rispetto al quale,
peraltro, il promittente sarebbe stato, comunque, obbligato a
‘perficere’
2bis) a dire il vero in D. 50.12.1.5 la formula ‘opus ea ratione
sumptibus civitatis vel privatorum inchoatum est, deseri quod
7
gestum est non oportet’ fa riferimento anche al caso che a
coepere opus fossero privati terzi ovviamente rispetto al
prmittente, ma Albertario è convinto che l’inciso ‘vel
privatorum’ sia di fattura giustinianea)
All’interno di tale discrimen la ‘petitio’ + ‘destinatio loci’,
ricompresa, come appare (‘magis est ut coepisse videatur’), tra
i casi in cui il promittente (‘ipse’) ‘coepit’ (tali, per l’appunto,
sarebbero stati, sempre secondo Albertario, il ‘fundamenta
iacere’, il ‘locum purgare’, l’‘apparatum sive impensam in
publico ponere’) costituirebbe un’a n o ma l i a l o g ic a .
L’errore di averla menzionata, lì dove si trova, tra le ipotesi
in cui ‘ipse (il pollicitante) coepit facere opus’ benché la stessa
– si è precisato – rappresentasse un atto della civitas e non del
pollicitante e, quindi, configurasse, al più, un’ipotesi di ‘quasi
coepto opere’, non si potrebbe di certo ascrivere ad Ulpiano.
Del resto, il carattere insiticio del ‘magis est ut coepisse
videatur’ rell., risulterebbe in modo lampante – anche a non
considerare la forma ‘magis est ut’ – dall’ordine anomalo con
cui le diverse fattispecie di coeptum opus risultano riferite.
A voler seguire la successione logica delle stesse,
nell’elencazione la petitio + destinatio loci avrebbe dovuto
essere inserita per prima.
Invece, così collocata dopo il ‘fundamenta iecit’ e il ‘locum
purgavit’ e prima dell’‘apparatum sive impensam in publico
posuit’, essa fa venir meno tale ordine che, altrimenti – si è
detto – a considerare, cioè, quali esempi di inizio d’esecuzione
dell’opus solo queste tre fattispecie, sarebbe risultato perfetto.
Insomma l’inciso andrebbe imputato ai compilatori
giustinianei i quali – lo ripeto – fraintendendo il valore della
destinatio loci, avrebbero considerato inchoatio ciò che in
diritto classico avrebbe, invece, configurato un caso di
accettazione (necessariamente esplicita, avendo riguardo ad
un opus) della promessa.
8
A fronte di quella che, esplicata dal ‘sed et si locus illi petenti
destinatus est magis est ut coepisse videatur’ di D. 50.12.1.3,
avrebbe costituito una modalità di a c c e t t a z io n e e s p r e s s a
di una pollicitatio operis (anche se fraintesa dai commissari
giustinianei e considerata alla stregua di un ‘coepisse’)
Albertario ha ritenuto di poter evincere una
m a n i f e s t a z i o n e t a c i t a d e l ‘ c o n s e n s u s r e i p u b l ic a e ’
da D. 50.12.1.5 e, soprattutto, da D. 50.12.6.1 (e da D.
50.4.16.1).
Procediamo con ordine.
In D. 50.12.6.1 Ulpiano, rifacendosi ad una precedente rescritto
di Antonino Caracalla (‘imperator noster Antoninus rescripsit’)
afferma:
Si quis pecuniam ob honorem promiserit coeperitque
solvere eum debere quasi coepto opere.
Si è da più parti, evidenziato come il tenore letterale di questo
disposto, richiamando il requisito del pagamento parziale
(‘coeperitque solvere’), sembri confliggere con il principio
fondante il regime del polliceri ob honorem (<ob iustam
causam>) in base al quale le promesse formulate a seguito o in
vista dell’ingresso in una carica pubblica avrebbero vincolato
giuridicamente il promittente, a prescindere dal fatto che fosse
stato dato inizio all’esecuzione della relativa prestazione.
Muovendo da tale assunto, allo stesso modo di quanto proposto
per D. 50.12.14, Theodor Mommsen ha sostenuto la necessità
di ristabilire prima delle parole ob honorem, un «n o n », che
l’errore di un amanuense avrebbe fatto scomparire dal testo
ulpianeo (‘Si quis pecuniam «n o n » ob honorem promiserit
coeperitque solvere’ rell.).
A suo avviso, quindi, il frammento avrebbe avuto riguardo
ad un polliceri non ob honorem, ovvero ad una promettere che
9
secondo la communis opinio – lo si è rimarcato più volte –
avrebbe vincolato il pollicitator a prescindere da qualsiasi
inizio di esecuzione.
Nel definire l’inserzione mommseniana, uno «sconfinato
arbitrio», Emilio Albertario ha sottolineato come l’illegittimità
della stessa risulti di tutta evidenza a confrontare
D. 50.4.16.1 (Paul. 1 Sententiarum): Qui pro honore
pecuniam promiserit si solvere eam coepit totam praestare
operis inchoati exemplo cogendus est.
In questo frammento – che, forse perché collocato fuori da
D. 50.12 (De pollicitationibus), sarebbe sfuggito all’attenzione
di Mommsen – Paolo, stando ad Albertario, avrebbe ripetuto
pari pari l’insegnamento di D. 50.12.6.1: chi ha promesso ob
honorem una somma di denaro (‘Qui pro honore pecuniam
promiserit’), se ne ha corrisposto una parte (‘si solvere eam
coepit’), è tenuto a versare anche il resto (‘totam praestare
cogendus est’).
Il ‘parallelismo’ dei due testi costituirebbe la miglior riprova
della genuinità di entrambi.
A detta del romanista italiano, la proposta originerebbe da un
errore, per così dire, ‘prospettico’ in cui i fautori della
‘negazione’, Mommsen in testa, sarebbero incorsi nel leggere il
passo ulpianeo (e quello di Paolo).
Essi sarebbero stati condizionati dall’idea che il rei publicae
polliceri avesse carattere unilaterale e, muovendo da tale
presupposto, avrebbero cercato di armonizzare il tenore di D.
50.12.6.1 (e, analogamente, quello di D. 50.4.16.1) con il
caposaldo secondo cui le pollicitationes ob honorem erano di per
sé, quali dichiarazioni ‘solius offerentis’, vincolanti per il
promittente (e i di lui eredi).
Esaminato ed inteso nel suo giusto valore D. 50.12.6.1 (e D.
50.4.16.1) fornirebbe(ro), invece, una prova inconfutabile della
10
bilateralità della pollicitatio, ovvero di come la stessa derivasse
la sua obbligatorietà dal rapporto instauratosi tra il
pollicitante e la res publica.
Secondo Albertario, Ulpiano (e Paolo), menzionando la
parziale solutio della pecunia promessa, avrebbe(ro) inteso
evidenziare proprio l’atto ed il momento identificativi
dell’accettazione. “Evidentemente – sono le parole dello
studioso – quando trattavasi di pollicitatio di pecunia anziché
di opus, non vi [sarebbe stata la necessità di] un’accettazione
espressa della pollicitatio da parte degli organi della civitas. ...
La pollicitatio [avrebbe preso] la sua giuridica consistenza
anche mediante una accettazione tacita: e tale tacita
accettazione [sarebbe stata], per l’appunto, quella della civitas
che riceveva il versamento anche parziale, della promessa
somma di denaro. Ma accettazione, almeno tacita, [sarebbe
stata] necessaria perché la pollicitatio avesse efficacia
giuridica: se così non fosse, non si capirebbe perché la
prestazione della pecunia fosse condizionata – s’intende in
mancanza di un’accettazione espressa – al versamento
parziale”.
Il frammento ulpianeo (e quello paolino), stando ad
Albertario, avrebbe(ro) espresso, dunque, in modo chiaro e
diretto il principio secondo cui “l’adempimento delle
pollicitationes ob honorem, cioè di quelle per cui soltanto … il
cittadino è tenuto, presuppone[va] una accettazione, almeno
tacita della promessa”, quale si sarebbe realizzata nel ricevere
il versamento parziale della pecunia.
Sempre a seguire Albertario, questo medesimo insegnamento si
coglierebbe nella formula ‘qui non ex causa pecuniam rei
publicae pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur’ che
ricorre al paragrafo 5^ di D. 50.12.1.
11
D. 50.12.1.5 (Ulp. l. sing. de officio curatoris rei
publicae): Denique cum columnas quidam promisisset,
imperator noster cum divo patre suo ita rescripsit: Qui
non ex causa pecuniam reipublicae pollicentur,
liberalitatem perficere non coguntur. Sed si columnas
Citiensibus promisisti et opus ea ratione sumptibus
civitatis vel privatorum inchoatum est, deseri quod gestum
est non oportet.
Dalla lettera del frammento si apprende che alcune colonne
erano state promesse (si sarebbe trattato di una pollicitatio non ex
causa) Citiensibus (‘cum columnas quidam promisisset’).
Settimio Severo ed Antonino Caracalla, investiti della questione,
avrebbero disposto, con un rescritto (‘Imperator noster cum divo
patre suo ita rescripsit’), che qualora, in base alla pollicitatio (‘ea
ratione’), a spese della res publica o di privati (‘sumptibus
civitatis vel privatorum), avesse avuto inizio la realizzazione
dell’opus (‘opus inchoatum est’), non bisognava abbandonare
quanto fosse stato intrapreso (‘deseri quod gestum est non
oportet’).
Nello statuire ciò, i due Augusti avrebbero, altresì,
richiamato il caso di chi, sempre non ex causa, ‘pecuniam rei
publicae pollicetur’, di chi, cioè, avesse promesso non un opus
od una somma di denaro ad opus, bensì della pura e semplice
pecunia.
Rispetto a tale ipotesi – secondo quanto riferito da Ulpiano –
Settimo Severo e Antonino Caracalla avrebbero disposto che
‘liberalitatem perficere non coguntur’, che, dunque, anche nel
caso di versamento parziale del denaro, non sarebbe sorto
alcun vincolo a portare a termine la solutio pecuniae.
Ora – Albertario ne è convinto – attraverso una lettura a
contrario di ‘Qui non ex causa pecuniam reipublicae
12
pollicentur, liberalitatem perficere non coguntur’ sarebbe
possibile desumere che:
«Qui ex causa pecuniam rei publicae pollicentur,
liberalitatem perficere coguntur».
Anche nell’ipotesi si fosse trattato di una pollicitatio
relazionata ad una iusta causa, l’obbligo di dare esecuzione
alla prestazione promessa sarebbe, comunque, dipeso dal
ricorrere di un principio di adempimento della stessa.
La cosa – ha concluso Albertario – andrebbe intesa nel senso
che, quale che fosse la species pollicitationis, l’obbligo di
adempiere avrebbe, sempre presupposto l’accettazione, anche
solo tacita, da parte della comunità beneficiata. Tale, per lo
studioso italiano – lo si è visto – sarebbe stato il parziale
pagamento della pecunia promessa.
Seppure in forma implicita, D. 50.12.1.5 avrebbe, dunque,
espresso il medesimo principio enunciato, in modo diretto e
preciso, da D. 50.12.6.1 e da D. 50.4.16.1: occorreva il consensus
rei publicae affinché la pollicitatio assumesse consistenza
giuridica.
DISCUSSIONE
Il primo punto da riconsiderare è
la dichiarazione di non genuinità dell’inciso ‘sed et si locus
illi petenti destinatus est magis est ut coepisse videatur’ che
ricorre in D. 50.12.1.3
e, di riflesso, l’ipotesi secondo cui – stando ad Albertario – lo
13
stesso sarebbe stato erroneamente inserito tra le fattispecie di
‘coepisse’ dai commissari giustinianei. Costoro avrebbero dato ad
intendere di considerare una fattispecie di inizio d’opera quanto
che per i classici avrebbe rappresentato una modalità di
accettazione della pollicitatio.
A riprova di ciò il romanista italiano – lo si è visto – ha
ritenuto di poter addurre:
(a) il fatto che la destinatio, pur costituendo un atto della res
publica, figuri tra i casi in cui ‘ipse (il pollicitator) coepit facere’
(b) il fatto che nella sequenza logico-cronologica con cui le
diverse fattispecie di coeptum opus risultano riferite vi sia un
ordine sconvolto: “questo esempio di cominciamento dell’opus
(leggasi petitio + destinatio loci), se tale fosse stato, avrebbe
dovuto essere indicato per primo”.
Non mi sembrano argomentazioni ostative.
(a) Quanto alla prima, non va dimenticato come il
presupposto necessario dell’eventuale concessione loci fosse
costituito dalla petitio formulata dal promittente.
Petitio e destinatio avrebbero, dunque, rappresentato – è
quasi inutile precisarlo – due momenti di un atto, in buona
sostanza, unitario.
Del tutto verosimile, quindi, che Ulpiano (e, forse, non solo lui)
guardasse al ‘si locus illi petenti destinatus est’, quale modalità di
‘facere’ (opus) da parte dello stesso pollicitator.
Certo un ‘facere opus’ in senso, per così dire, ‘materiale’,
ovvero analogo al ‘fundamenta iacere’ o al ‘locum purgare’,
non vi sarebbe stato (peraltro non solo da parte del
pollicitante ma neppure da parte della res publica); si sarebbe,
comunque, integrata un’attività che, seppur a partecipazione
complessa, promittente + civitas, avrebbe rappresentato il
frutto dell’iniziativa del primo.
Tale agire, quindi, avrebbe potuto essere ricompreso, lato sensu,
14
tra le fattispecie in cui ‘ipse (il pollicitator) coepit facere’.
Del resto, l’impressione che si ha nel leggere l’inciso ‘sed et si
locus illi petenti destinatus est’ rell. è che Ulpiano, in ordine al
valore della petitio + destinatio loci, più che una diffusa e
consolidata convinzione giurisprudenziale, intendesse esprimere
un ‘orientamento’ interpretativo – così sembrerebbe evincersi
dalla sottolineatura, ‘magis est ut coepisse videatur’ – e con esso
l’opportunità di assimilare, sul piano degli effetti giuridici, la
fattispecie in parola a quelle di ‘coepisse’ che aveva appena prima
richiamato.
Peraltro, sono convinto che a questa medesima prospettiva,
Ulpiano si sia rifatto per valutare l’ipotesi dell’‘in publico
ponere apparatum sive impensam’, menzionata di seguito.
Sono, cioè, convinto che l’‘ITEM’ sottintendesse non,
semplicemente, il ‘coepisse’ ma lo stesso ‘magis est ut coepisse
videatur’, utilizzato per qualificare la petitio + destinatio loci.
Insomma, anche rispetto all’‘in publico ponere apparatum sive
impensam’ il giurista si sarebbe interrogato in ordine alla
possibilità di ricompredere tale eventualità all’interno del
‘coepisse’ (‘ut coepisse videatur’). La risposta (positiva) sarebbe
passata attraverso un procedimento di estensione analogica simile
a quello applicato al ‘sed et si locus illi petenti destinatus est’ rell.
Pur integrando un atto dello stesso pollicitante, la
predisposizione del materiale o del denaro necessari alla
realizzazione di quanto promesso non avrebbe, infatti,
significato, propriamente, il compimento di un facere, nel
senso di un agire diretto sull’opus.
Si sarebbe trattato di un’attività preliminare e funzionale al
‘facere opus’ ma, in buona sostanza, distinta da questo.
Da ciò, credo, possa essere originato il timore in ordine alla
legittimità o meno di considerare l‘in publico ponere apparatum
sive impensam’, alla stregua di un vero e proprio ‘coepisse’ e la
necessità di riconnettere la risoluzione positiva, al pari di quanto
15
fatto rispetto alla petitio + destinatio loci, attraverso una lettura,
per così dire, estensiva dell’‘ipse coepere facere opus’.
(b) Stando così le cose, ecco che anche la seconda obiezione
mossa da Albertario, relativa al presunto ‘ordine sconvolto’,
‘guasto’ dell’elencazione, sembra potersi superare senza
particolari difficoltà.
L’affermazione secondo cui l’inserimento del ‘magis est ut’ rell.
avrebbe determinato uno sconvolgimento nell’ordine logicotemporale delle diverse fattispecie di ‘coepisse’, in quanto la
destinatio loci avrebbe, necessariamente, individuato un
momento precedente agli altri considerati e, quindi, tutt’al più
avrebbe dovuto essere menzionata per prima, sono convinto
sia il frutto di un equivoco.
Non ritengo, infatti, sussista alcun valido e concreto indizio che
possa fondare l’idea che Ulpiano avesse avuto in animo di seguire
nell’esposizione un ordine cronologico.
Aggiungasi che si sarebbe trattato di un criterio inidoneo a
realizzare un effettivo coordinamento in successione delle diverse
previsioni e, in ogni caso, a tal fine non sarebbe di certo stato
sufficiente spostare il ‘magis est ut’ rell. in cima all’elenco, così
come ha preteso Albertario.
È evidente, infatti, che, ovunque la si fosse collocata, la
petitio + destinatio – se, realmente, la relazione tra i ‘coepisse’
fosse stata costruita solo su base diacronica – avrebbe finito
per ‘assorbire’ tutte le altre ipotesi di incominciamento
dell’opus.
Perché ciò non avvenga è necessario presupporre un
correttivo di carattere interpretativo, un criterio distintivo
della petitio + destinatio loci rispetto alle altre fattispecie ivi
considerate.
Ad integrare quest’ultimo sono dell’avviso vi fosse – non
vedo proprio come avrebbe potuto essere altrimenti – la
‘demanialità’ del terreno su cui avrebbe dovuto essere stata
16
realizzata l’opera promessa.
La petitio + destinatio loci avrebbe, cioè, costituito, per così
dire, una ‘necessità eventuale’, dipendendo dalla natura
pubblica del locus.
Tale condizione – va detto – non avrebbe rappresentato una
costante.
Essa mi sembra si configuri, oltre che in CIL. XI.3614 = ILS.
5918a – ove, si è visto, più volte, si fa esplicita e diretta menzione
della petitio e della destinatio loci – in tutti quei casi in cui si ha
chiara sottolineatura del carattere publicus del luogo che avrebbe
dovuto accogliere l’opus promesso.
La cosa risulta, in particolare, per: l’opus che ‘Lucius Nonius
Rogatianus Honoratianus s o l o p u b l i c o promiserat’ alla res
publica di Mustis (AE. 1968, 591) – l’arcus che, sempre a Mustis,
‘Caius Cornelius, inlata legitima summa ex sestertium V milibus
nummum quae … patriae suae promiserat … s o lo p u b l ic o
coepit et … dedicavit …’ (CIL. VIII.1577 + VIII.15572) – ancora,
il templum Fortunae che ‘Marcus Salvius Celsus Pinarianus
nepos et heres … multiplicata pecunia simulacro auro reculto
s o lo p u b l i c o consummavit idemque dedicavit’ (CIL.
VIII.23107 = AE. 1894, 64 = BCTH. 1893, p. 236 n. 101).
Resta, perciò, escluso che l’elencazione ulpianea fosse
conformata all’ordine logico-temporale dei ‘coepisse’.
Non per questo si deve concludere che mancasse un criterio
guida; semplicemente, questo sarebbe stato altro rispetto a quello
individuato dagli interpreti.
Sarei propenso a riconoscere tale valore alla maggiore o
minore evidenza, alla maggiore o minore riferibilità di ogni
singola ipotesi di ‘coepisse’ ad un vero e proprio ‘facere opus’
da parte del pollicitator.
La successione sarebbe, dunque, stata la seguente.
1) In prima battuta, sarebbero state richiamate le fattispecie
17
che non ponevano particolari dubbi circa la loro
riconducibilità all’iniziativa e all’attività del pollicitante
(‘coeperit … facere’ – ‘qui coepit’). Tali sarebbero state, per
l’appunto, il ‘fundamenta iacere’ e il ‘locum purgare’.
2) Di seguito, sarebbero stati presi in esame la petitio +
destinatio loci e l’‘apparatum sive impensam in publico ponere’.
Entrambi, come si è visto, sebbene in forza di ragioni e
specificità differenti, sarebbero stati avvertiti come casi
problematici.
La riferibilità degli stessi al ‘coepere facere’ del promittente non
sarebbe stata percepita in modo immediato. Ad essa Ulpiano
(quantomeno lui) sarebbe addivenuto attraverso un non semplice
‘sforzo’ interpretativo, al termine del quale, sacrificato in certa
misura il rigore fenomenico del ‘facere opus’, avrebbe concluso,
positivamente, che, anche per la petitio + destinatio loci e per
l’‘apparatum sive impensam in publico ponere’, ‘magis est ut
coepisse videatur’.
3) Da ultimo, il giurista sarebbe venuto a considerare,
nell’ordine, l’eventualità che ‘cum certam pecuniam promisisset
ad opus rei publicae <res publica> contemplatione pecuniae
coepit opus facere’ e ‘denique’ quella che ‘columnas quidam
promisisset … et opus ea ratione sumptibus civitatis vel
privatorum inchoatum est’.
Ad accomunare questi due casi vi sarebbe stato il fatto che il
‘coepere’ non era riferibile (neppure per relationem) al
promittente (‘sed si non ipse coepit’), bensì o alla res publica
(‘rei publicae <res publica> contemplatione pecuniae coepit opus
facere’) o, indifferentemente, a quest’ultima o a privati terzi,
per l’appunto rispetto al pollicitator (‘sumptibus civitatis vel
privatorum inchoatum est’).
18
Non si sarebbe, quindi, realizzato un vero e proprio
‘coeptum opus’, bensì un ‘quasi coeptum opus’ (‘quasi coepto
opere’).
In forza di esso – è la conclusione cui è giunto Ulpiano – il
pollicitator avrebbe dovuto, comunque, ritenersi obbligato a
perficere.
Circa, poi, la possibilità – sostenuta da Albertario – di derivare
dalla lettura a contrario della formula ‘Qui non ex causa
pecuniam reipublicae pollicentur, liberalitatem perficere non
coguntur’, che:
«Qui ex causa pecuniam rei publicae pollicentur, liberalitatem
perficere coguntur»
e – proseguendo – le implicazioni logiche che il romanista
italiano ha desunto dall’impiego di
‘perficere’ (in sintesi: il parziale pagamento della pecunia
avrebbe individuato una modalità di accettazione tacita della
pollicitatio da parte della res publica),
ritengo di poter condividere il giudizio di arbitrarietà e di
erroneità formulato in proposito da Gian Gualberto Archi.
All’interno di un contesto, quale appare quello di D.
50.12.1.5, in cui l’oggetto del ‘deseri quod coeptum est non
oportet’ è costituito da un opus, l’impressione che si ha a
leggere il richiamo, attuato dall’inciso in esame, ad una
pollicitatio pecuniae (non ad opus) parzialmente soluta (‘ …
non ex causa pecuniam reipublicae pollicentur …’), è che lo
stesso fosse stato pensato in funzione di contrapposizione
strumentale, ovvero che dovesse servire ad illustrare ed a
motivare, in chiave negativa ed indiretta, le ragioni che
19
avrebbero presieduto, per l’appunto, al ‘deseri quod coeptum
est non oportet’ e, quindi, a rimarcare come nella logica di
Settimio Severo e di Antonino Caracalla (‘imperator noster
cum divo patre suo ita rescripsit’), condivisa da Ulpiano, un
ruolo determinante l’avesse il fatto che l’‘inchoatio’ e, di
riflesso, il ‘perficere’ riguardassero (o meno) un opus.
L’interesse che la res publica avrebbe dovuto assumere come
prioritario – è quanto sembrano aver voluto sancire i due
Imperatori e sottolineare il giurista – sarebbe stato,
essenzialmente, quello che l’assetto urbanistico e monumentale
della res publica non avesse a subire pregiudizio dall’iniziativa del
singolo promittente, da qui la necessità di scongiurare che il suolo
cittadino rimanesse ingombrato da costruzioni lasciate a metà e,
quindi, l’obbligo di portare a compimento le opere iniziate.
Ove, però, siffatte ragioni di edilizia pubblica non fossero
intercorse, come, per l’appunto, nel caso in cui l’oggetto della
promessa fosse stato rappresentato dalla pura e semplice
pecunia, pur in presenza di una parziale solutio pecuniae, non
sarebbe sorto alcun obbligo di perficere: ‘liberalitatem
perficere non coguntur’
(al contrario, nell’ipotesi di certa pecunia promessa ad opus, il
pollicitante sarebbe stato tenuto a perficere, qualora si fosse avuto
un principio operis, come si evince chiaramente da quanto riferito
in D. 50.12.1.4, ovvero nel paragrafo immediatamente precedente
a quello qui considerato: ‘Sed si non ipse coepit sed cum certam
pecuniam promisisset ad opus rei publicae <res publica>
contemplatione pecuniae coepit opus facere tenebitur quasi
coepto opere’).
Non sarebbe stato, dunque, rilevante il solo fatto che si fosse
dato inizio all’esecuzione della prestazione promessa, ma
anche e soprattutto che essa avesse interessato un opus e, di
riflesso, che dalla stessa potessero derivare inconvenienti di
carattere urbanistico.
20
In tal caso (ma solo in tal caso), infatti, non sarebbe stato
dato (‘non oportet’) di ‘deseri quod gestum est’.
In ciò sarebbe da individuare la specificità normativa del
rescriptum di Settimio Severo e di Caracalla e, quindi, di D.
50.12.1.5.
Ecco perché, nell’ipotesi di chi avesse iniziato a solvere la
pecunia promessa (trattandosi, come nel caso di specie, di una
pollicitatio non ex causa), non sussistendo le esigenze di ordine
pubblico che l’inchoatio di un opus avrebbe finito,
inevitabilmente, per suscitare, non sarebbe sussistito neppure
l’obbligo di ultimare la prestazione e, quindi, ‘liberalitatem
perficere non coguntur’.
È chiaro che in una simile contesto risulta assai difficile vedere
sottintesa – come vorrebbe Albertario – nella parziale esecuzione
dell’opus e/o nel parziale pagamento della pecunia l’accettazione,
espressa (nel primo caso), tacita (nel secondo caso), della
pollicitatio da parte della res publica.
Questi due momenti appaiono, piuttosto essere stati assunti
quali SITUAZIONI EX FACTO e, proprio in quanto tali,
scissi sul piano delle conseguenze giuridiche.
Il passo in parola avrebbe, cioè valutato in modo opposto,
rispetto alle pollicitationes non ex causa, l’inchoatio operis e
l’inchoatio solutionis pecuniae; dalla prima sarebbe derivato
per il promittente l’obbligo a proseguire e ad ultimare la
prestazione iniziata, dalla seconda no.
Del resto, se D. 50.12.1.5 avesse, realmente, significato
quanto asserito da Albertario, la conclusione logica sarebbe
stata quella per cui, sommandosi, qui, in un rapporto di
identificazione, il ‘coepisse’ con l’accettazione (tacita) rei
publicae, il pollicitator, pur non ricorrendo una iusta causa,
21
sarebbe stato tenuto a ‘perficere’, ma il paragrafo va nella
direzione contraria: ‘Qui non ex causa pecuniam reipublicae
pollicentur, liberalitatem perficere n o n coguntur.’
Sono, poi, convinto che quale altro dato significativo debba
assumersi il fatto che, sempre nel frammento, accanto
all’‘inchoare opus sumptibus civitatis’ si contempli
l’‘INCHOARE OPUS SUMPTIBUS PRIVATORUM’, figuri,
cioè, legittimata l’eventualità che all’inizio della prestazione
promessa provvedessero a loro spese dei privati.
In proposito, lo stesso Albertario, ebbe ad osservare: “nel
cominciamento dell’opus da parte dei privati, seguito alla
pollicitatio di un civis, non può vedersi accettazione, perché
una pollicitatio a loro favore non vi fu. Vuol dire allora che la
pollicitatio è qui considerata come una promessa unilaterale,
obbligatoria sempre se è ob honorem; obbligatoria, quando
l’opus promesso è già in via di esecuzione, se ob honorem non
è: chiunque sia, la civitas o un terzo (privati!), l’esecutore
dell’opus”.
Solo che, all’evidenza di tali considerazioni, lo studioso ha fatto
seguire, analogamente a quanto proposto rispetto al ‘si locus illi
petenti destinatus est magis est ut coepisse videatur’, la
dichiarazione di non genuinità del ‘vel privatorum’. Si sarebbe
trattato dell’ennesima aggiunta giustinianea.
Mi limito a constatare che, se all’interno di un quadro – quale è
quello prefigurato, per l’appunto, da Albertario – in cui i sospetti
di interpolazione avrebbero interessato diversi punti, qualificanti il
dettato normativo di D. 50.12.1, sarebbe potuto sembrare quasi
doveroso verificare la corretta di tale asserzione e, quindi, la
classicità del ‘vel privatorum’, dopo quanto è emerso dall’esegesi
condotta sul testo, le cose, di certo, non stanno più così.
Ricondotta al contesto conservativo così delineato, l’asserzione
22
di Albertario, concernente la presunta natura compilatoria del ‘vel
privatorum’, viene ad apparire in tutta la sua labilità, finendo, in
buona sostanza, per essere privata di ogni ragion d’essere, per
annullarsi.
Resta, piuttosto, da rimarcare come nel ‘coeptum opus
privatorum’ non sia dato di percepire alcuna accettazione da
parte della res publica; come a tale circostanza sembri
confacere il valore, peraltro, ascrittole, in modo letterale, di
modalità di inizio della prestazione pollicitata (e – va aggiunto
– visto il modo in cui il coepere da parte dei privati risulta colto
in una prospettiva di alternatività e di identità di effetti
giuridici rispetto alle altre ipotesi di coepisse, riferibili
all’agire o dello stesso pollicitator o della res publica, come ne
venga una, seppur indiretta, conferma della riferibilità anche
a queste ultime del medesimo valore); quindi, in ultimo, come
la pollicitatio configuri una promessa unilaterale, la rilevanza
giuridica della quale sarebbe dipesa, nel caso di specie (‘non ex
causa’) dall’essere già venuto ad esecuzione l’‘opus’ promesso
(‘ … opus … inchoatum est, deseri quod gestum est non
oportet’).
Dopo ciò che si è rilevato nei paragrafi precedenti in ordine alla
natura ed al valore del ‘coeptum opus’ e della parziale ‘solutio
pecuniae’, viene meno complicato spiegare in chiave di
unilateralità del rei publicae polliceri anche il tenore di D.
50.12.6.1 e di D. 50.4.16.1.
In particolare, si è visto come nel riportare e nell’analizzare i
due frammenti Albertario abbia posto in evidenza il ‘coeperitque
solvere’ (D. 50.12.6.1) e il ‘si solvere eam coepit’ (D. 50.4.16.1).
Egli ha, invece, contestualmente, omesso il ‘quasi coepto
opere’ (D. 50.12.6.1) e l’‘operis inchoati exemplo’ (D. 50.4.16.1)
(i passi figurano così riportati dallo studioso: «Si quis pecuniam
ob honorem promiserit coeperitque solvere, eum debere …
23
imperator noster Antoninus rescripsit», D. 50.12.6.1 e «Qui pro
honore pecuniam promiserit, si solvere eam coepit totam
praestare cogendus est», D. 50.4.16.1).
Ora questo modo di procedere – è un’osservazione che si deve a
Gian Gualberto Archi – avrebbe costituito il presupposto per la
non corretta intellezione dei testi.
Secondo lo studioso, infatti, proprio nelle locuzioni soppresse
sarebbe dato di cogliere l’essenza normativa del frammento
ulpianeo e di quello paolino: l’equiparazione, realizzata in via
analogica, tra il ‘solvere pecuniam’ e il ‘coepere opus’, per cui
in entrambi i casi il pollicitator sarebbe stato tenuto a
‘perficere’.
Questo avrebbero statuito D. 50.12.6.1 e D. 50.4.16.1 nulla di
diverso e nulla di più.
Nel caso avessero, realmente, inteso asserire, quanto sostenuto
da Albertario – che le promesse di pecunia fatte ob honorem,
avrebbero richiesto, per diventare obbligatorie, se non
un’accettazione esplicita, almeno un’assenso tacito da parte della
res publica, e che tale, per l’appunto, sarebbe stato il ricevimento
di parte della somma promessa – sia Ulpiano sia Paolo si
sarebbero dovuti esprimere in altro modo; avrebbero, di certo,
dovuto utilizzare una formulazione meno ellittica, più diretta.
Penserei, ad esempio, ad una dichiarazione del tipo: «chi ha
promesso ob honorem una somma di denaro, e ne ha
corrisposta una parte, si deve ritenere obbligato a versare
anche il resto».
Senonché – è la sostanza del pensiero di Archi – i due giuristi
non avrebbero dichiarato ciò, non avrebbero affermato che il
pollicitante rimane obbligato dalla parziale ‘solutio’, valendo
questa come accettazione (tacita), piuttosto da essa in quanto
equiparabile, ovviamente, sul piano degli effetti giuridici, ad un
cominciamento di opus (‘quasi coepto opere’ vel ‘operis inchoati
exemplo’).
24
Entrambi avrebbero, dunque, ricondotto l’obbligo di
eseguire l’intera prestazione, al criterio del ‘coeptum opus’.
Quest’ultimo – lo si è sottolineato – sarebbe stato preso in
considerazione rispetto alle promesse non ex causa, quale
circostanza determinante uno stato di fatto che, incidendo
sull’assetto urbanistico e monumentale della res publica,
avrebbe determinato l’obbligo a portare a termine l’opus
iniziato (‘deseri quod gestum est non oportet’).
A rilevare sarebbero state, dunque, ragioni di opportunità
estetica, considerazioni e motivazioni di edilizia pubblica e non
il fatto che attraverso il ‘coeptum opus’ si sarebbe manifestata,
anche solo implicitamente, una qualche consensualità tra
promittente e res publica.
L’assimilazione della parziale ‘solutio pecuniae’ all’‘inchoatio
operis’, sancita da D. 50.12.6.1 e da D. 50.16.4.1, avrebbe operato
nel senso di assumere il pagamento di parte della somma
promessa, allo stesso modo di quanto già avvenuto per
l’incominciamento dell’opus, a stato di fatto che, nel caso di
pollicitatio ob honorem (<ob iustam causam>), avrebbe obbligato
a perficere; non avrebbe per nulla significato il riconoscimento di
una nuova forma di accettazione (tacita).
Elevare – come ha fatto Albertario – D. 50.12.6.1 e D. 50.4.16.1
ad «emblemi» della natura bilaterale del rei publicae polliceri,
sembrerebbe, dunque, costituire un nonsenso: i due testi, infatti
lungi dal rappresentare un sostegno alla consensualità, parrebbero,
piuttosto, volerla escludere.
L’evidenza di questa conclusione negativa mi pare difficile da
contestare.
In ordine, poi, al modo di reinterpretare D. 50.12.6.1 e D.
50.4.16.1, e, quindi, di spiegare, in relazione alla tesi
dell’unilateralità, perché mai Ulpiano e Paolo abbiano sentito
il bisogno di scomodare il criterio della parziale ‘solutio
25
pecuniae’ = ‘coeptum opus’, rispetto ad una pollicitatio ob
honorem (per questa – lo ripeto – stando alla communis opinio,
sarebbe, infatti, valso il principio, secondo cui l’obbligazione
sarebbe sorta dalla semplice formulazione della promessa), si
tratta di questione assai complessa, ancora irrisolta e, forse,
non risolvibile.
Non che non si siano avuti articolati tentativi ricostruttivi in
proposito.
Solo che questi, anche per il fatto di aver riferito la disciplina dei
due frammenti ad «ipotesi eccezionali» di rei publicae polliceri,
sono sembrati forzare la lettera degli stessi.
Nondimeno, permane l’utilità di procedere alla loro
contestualizzazione, così da dar voce ad alcune possibili ragioni di
perplessità.
Innanzitutto, va ricordata la spiegazione proposta da
ARCHI.
Al riguardo, il romanista, il quale non ha mancato di evidenziare
l’insufficienza della proposta mommseniana di inserire nel passo
di Ulpiano prima di ob honorem un «non» – rimarrebbe, pur
sempre, la necessità di giustificare D. 50.4.16.1, passo che, anche
Archi ne è convinto, avrebbe espresso, in buona sostanza, la stessa
normazione di D. 50.12.6.1 – [al tempo stesso, lo studioso ha
ritenuto doversi respingere la tesi sostenuta da alcuni
interpreti, Stoll e Bonfante in testa, secondo cui alle
pollicitationes di ‘certa pecunia’, sarebbe stato ascritto un
regime speciale e differenziato rispetto a quello applicato alle
promesse di ‘opus’, in forza del quale il promittente, anche se
ob honorem, sarebbe risultato vincolanto solo a seguito del
versamento di parte della somma promessa], ha ritenuto di
poter derivare indicazioni utili a spiegare il tenore del frammento
ulpianeo e di quello paolino – nello specifico, per quanto concerne
l’esigenza di contemperare l’esplicita menzione della parziale
‘solutio pecuniae’ e, quale elemento equivalente, del ‘coeptum
26
opus’, da un lato e il fatto che i due testi disciplinino un’ipotesi di
polliceri ob honorem dall’altro – dal dettato di
D. 50.12.11 (Mod. 9 pandectarum): Si quis ob honorem
vel sacerdotium pecuniam promiserit et antequam
honorem vel magistratum ineat decedet, non oportere
heredes eius conveniri in pecuniam, quam is ob honorem
vel magistratum promiserat, principalibus constitutionibus
cavetur, nisi forte ab eo vel ab ipsa re publica eo vivo
opus fuerit inchoatum.
Il caso qui considerato sarebbe stato quello di chi, avendo
promesso ob honorem una somma di denaro (‘Si quis ob
honorem vel sacerdotium pecuniam promiserit’), fosse deceduto
prima di poter assumere la carica (‘et antequam honorem vel
magistratum ineat decedet’).
Ora, stando ad Archi, Modestino, disponendo, sulla scorta di
precedenti
normazioni
imperiali
(‘principalibus
constitutionibus’), che, in tale eventualità, l’erede del
pollicitator non avrebbe potuto essere chiamato a rispondere
per la somma promessa dal suo dante causa (‘non oportere
heredes eius conveniri in pecuniam, quam is ob honorem vel
magistratum promiserat’), a meno che, ancora vivo questi, non
fosse intervenuto da parte sua o da parte della res publica un
principio di ‘coeptum opus’ (‘nisi forte ab eo vel ab ipsa re
publica eo vivo opus fuerit inchoatum’), avrebbe finito col
derogare al principio generale, in base al quale l’erede del
pollicitante, trattandosi di promessa ob honorem, sarebbe stato
tenuto ‘in solidum’.
Ebbene – ha concluso Archi – tra il caso descritto da
Modestino e quelli considerati da Ulpiano e da Paolo
sussisterebbero notevoli analogie ed una sostanziale identità di
regolamentazione.
27
Allo stesso modo di D. 50.12.11, anche D. 50.12.6.1 e D.
50.4.16.1 non avrebbero riguardato, in generale, le
pollicitationes ob honorem di certa pecunia.
Questi due ultimi passi avrebbero anch’essi disciplinato,
rispetto a tale categoria di promesse, il caso del tutto
particolare in cui il pollicitator, per un qualche motivo di
carattere personale (diverso, ovviamente, dalla morte), non
avesse potuto rivestire l’honor.
Avendo, comunque, egli già corrisposto parte della somma
pollicitata (con destinazione, peraltro, diversa da un ‘opus’), il
dubbio che, in tale circostanza si sarebbe posto era se fosse o
meno tenuto a versare il resto della somma e, se sì, per quale
motivo.
Si sarebbe, dunque, trattato – riferita alla persona del
pollicitator – della medesima questione posta da D. 50.12.11,
con riguardo agli eredi.
Identica sarebbe stata la risposta e la relativa motivazione.
Come Modestino, anche Ulpiano (e Paolo), nello statuire
l’obbligo per il promittente di ‘perficere’ la ‘solutio pecuniae’,
avrebbero invocato il criterio del ‘coeptum opus’, ovvero
l’assimilabilità della parziale ‘solutio’ al cominciamento di un
‘opus’.
In tale scelta non vi sarebbe stato nulla di strano.
La mancata assunzione della carica pubblica, avrebbe – Archi ne
è convinto – determinato la trasformazione della pollicitatio, da ob
honorem in non ob honorem (meglio non ex causa vel sine causa)
e, al contempo, fatto sì che l’efficacia della stessa dipendesse
dall’‘inchoatio’ della relativa prestazione.
Così sarebbe stato considerato – in ciò risiederebbe l’aspetto
saliente dei passi in esame – il ‘coepere solvere pecuniam’.
Come si è visto, Archi ha, in certo qual modo, desunto il
contenuto normativo di D. 50.12.6.1 e di D. 50.4.16.1 da D.
50.12.11.
28
Assunto che il frammento di Modestino avrebbe disciplinato
un’ipotesi «anomala» di pollicitatio ob honorem pecuniae in cui:
il promittente sarebbe deceduto prima di ‘inire honorem’ – per
tale ragione la pollicitatio da ob honorem si sarebbe trasformata in
non ob honorem – di conseguenza, sarebbe assurto a rilevanza
giuridica il fatto che da parte dello stesso pollicitator o della res
publica fosse intervenuto un principio di esecuzione dell’opus per
cui la pecunia sarebbe stata promessa, subentrando, in tal caso, a
vincolare gli eredi il principio del ‘coeptum opus’; lo studioso ha
trovato analoghe le fattispecie considerate da Ulpiano (D.
50.4.16.1) e da Paolo (D. 50.12.6.1).
Anche qui si sarebbe trattato di pollicitationes ob honorem,
anche qui l’oggetto diretto della promessa sarebbe consistito in
‘pecunia’, anche qui il promittente per un motivo qualsiasi, del
tutto personale, non avrebbe potuto assumere l’honor, anche qui
determinante sarebbe stato il fatto che vi fosse stato un principio
di esecuzione e anche qui a dare valore sul piano del diritto alla
parziale ‘solutio pecuniae’ sarebbe stato richiamato il criterio del
coeptum opus.
Nutro più di una perplessità in ordine al quadro così delineato.
In primo luogo, non mi persuade il modo in cui Archi è
sembrato porre sullo stesso piano i rinvii al ‘coeptum opus’ che
ricorrono in D. 50.12.6.1 e in D. 50.4.16.1 a quello che costituisce
la chiusa di D. 50.12.11; mi lascia, cioè, alquanto perplesso il fatto
che lo studioso abbia ritenuto di poter, per così dire, sovrapporre
le espressioni ‘quasi coepto opere’ di D. 50.12.6.1 e ‘operis
inchoati exemplo’ di D. 50.4.16.1 alla formula ‘nisi forte ab eo vel
ab ipsa republica eo vivo opus fuerit inchoatum’ che ricorre in D.
50.12.11.
Ebbene, proprio rifacendoci al pensiero di Archi, si è già avuto
modo di evidenziare come per Ulpiano (D. 50.12.6.1) e per Paolo
(D. 50.4.16.1 il richiamo al ‘coeptum opus’ avesse valore
strumentale ed operasse, esclusivamente, sul piano dell’astrattezza
giuridica, non inerisse, cioè, all’essenza della prestazione
29
promessa ed all’esecuzione della stessa.
Il rei publicae polliceri di D. 50.4.16.1 e di D. 50.12.6.1 avrebbe
avuto ad oggetto una somma di denaro e l’inizio
dell’adempimento – sono i due giuristi a sottolinearlo – sarebbe
coinciso, per l’appunto, con un principio di solutio pecuniae
(‘coeperitque solvere’ vel ‘solvere eam coepit’).
Le locuzioni ‘quasi coepto opere’ (D. 50.12.6.1) ed ‘operis
inchoati exemplo’ (D. 50.4.16.1), ponendo, in via analogica
(‘quasi’ vel ‘exemplo’), il ‘solvere pecuniam’ in rapporto di
equivalenza, ovviamente, sul piano degli effetti giuridici, con il
‘coepere opus’, avrebbero inteso significare la ratio fondante
l’obbligo per il pollicitator, che avesse proceduto a versare alla res
publica parte della somma promessa, di corrispondere il
rimanente.
Le espressioni in parola – lo ripeto – non sarebbero state
esplicative del contenuto della prestazione promessa ed
‘inchoata’, bensì di come dalla parziale ‘solutio pecuniae’ dovesse
farsi derivare a carico del promittente lo stesso vincolo a
‘perficere’ che sarebbe scaturito dal ‘coeptum opus’.
Se tale lettura è plausibile, va rilevato che Modestino, nel
sancire in D. 50.12.11 che ‘non oportere heredes eius conveniri in
pecuniam … nisi forte ab eo vel ab ipsa republica eo vivo opus
fuerit inchoatum’, parrebbe essersi conformato, rispetto al
successore pollicitatoris, ad un regime, in certo senso, antitetico a
quello fissato da Ulpiano (D. 50.12.6.1) e da Paolo (D. 50.4.16.1)
in riferimento al pollicitante.
La regola secondo cui l’heres non sarebbe stato tenuto a solvere
pecuniam (‘non oportere heredes eius conveniri in pecuniam,
quam is ob honorem vel magistratum promiserat, principalibus
constitutionibus cavetur’) avrebbe avuto quale motivo di deroga
(‘nisi forte’) l’ipotesi in cui, da parte dello stesso pollicitator (‘ab
eo’) o, potendo ancora costui (‘eo vivo’), in sua vece, ad opera
della res publica (‘vel ab ipsa re publica’), ‘opus fuerit
inchoatum’.
30
Non solo, quindi, nessun obbligo sarebbe stato fatto discendere
(rispetto alla persona dell’erede) dalla semplice promessa (e ciò
sebbene quest’ultima risulti qualificata ob honorem) ma – è
quanto ritengo si ricavi del tenore perentorio della formula ‘nisi
forte rell.’ – lo stato di irresponsabilità dell’erede sarebbe
perdurato anche qualora avesse avuto luogo una parziale solutio
della pecunia promessa.
La chiusa di D. 50.12.11 non fa cenno a tale eventualità, anzi,
circoscrivendo ogni valore giuridico al caso in cui, in luogo del
versamento della somma promessa, il promittente o la res publica
avessero proceduto a ‘inchoare opus’, sembra andare proprio nella
direzione di escluderla.
In un simile contesto, non ritengo vi possa essere spazio per
prefigurare l’equivalenza «iure», posta, invece, da D. 50.12.6.1 e
da D. 50.4.16.1, tra il ‘coepere opus’ ed il ‘solvere pecuniam’.
Per Modestino l’‘opus inchoatum’ sarebbe stato rilevante non in
quanto – mi si passi l’espressione – «elemento di assimilazione»,
ma quale vero e proprio dato fenomenico.
La cosa – il ricorrere dell’effettiva realizzazione dell’opus e, di
riflesso, la legittimità di considerare tale circostanza quale
modalità di adempimento della prestazione pollicitata, in luogo del
‘solvere pecuniam’ (e, aggiungerei, quella che per alcuni interpreti
avrebbe costituito un’anomalia del dettato di D. 50.12.11, ovvero
il fatto che in esso si incominci a parlare di ‘pecunia’ e si finisca,
per l’appunto, con il parlare di ‘opus’) – sarebbe stato possibile in
ragione del fatto che, nel caso di specie, non si sarebbe trattato,
come, invece, parrebbe in D. 50.12.6.1 ed in D. 50.4.16.1 (stando,
almeno, alla lettera dei due frammenti), di una promessa di
‘pecunia’ pura e semplice, bensì di una promessa di ‘pecunia’ –
assumo la locuzione impiegata da Ulpiano in D. 50.12.1.4 – ‘ad
opus’.
Si è visto come, pur assumendo un diverso percorso ricostruttivo
31
e giungendo a soluzioni pressoché opposte, Archi, al pari di
Albertario, nell’analizzare D. 50.12.6.1 e D. 50.4.16.1, abbia dato
per presupposta l’equivalenza sostanziale degli stessi.
Sotto questo profilo un deciso cambiamento di rotta è stato
operato da Jules Roussier.
Egli ha svolto una lettura distinta dei due paragrafi (‘Si quis
pecuniam ob honorem promiserit coeperitque solvere eum debere
quasi coepto opere [imperator noster Antoninus rescripsit]’ –
‘Qui pro honore pecuniam promiserit si solvere eam coepit totam
praestare operis inchoati exemplo cogendus est’).
L’intendimento è stato duplice: coglierne le peculiarità
sintattico-lessicali, da un lato; valorizzare il contesto in cui
risultano calati, dall’altro.
In tale prospettiva Roussier ha ritenuto degno della massima
attenzione il fatto che in D. 50.4.16.1, a qualificare la pollicitatio,
ricorra la locuzione ‘pro honore’.
Il suo impiego in luogo della consueta ‘ob honorem’ –
quest’ultima risulta utilizzata in D. 50.12.6.1 – non avrebbe
rappresentato una mera scelta di carattere formale, ma avrebbe
sottinteso, ad avviso dello studioso, l’intenzione di significare un
concetto del tutto diverso.
Nello specifico, giusto il «comune» valore sintattico-lessicale
della particella ‘pro’, Roussier ha assunto che D. 50.4.16.1
avrebbe riguardato una fattispecie in cui la promessa di ‘pecunia’
sarebbe stata funzionale non all’assunzione di un honor ma
all’intenzione opposta, quella, cioè, di sottrarsi alla carica pubblica
(‘pro’ = «al posto della carica», «in luogo della carica»).
Tale proposta interpretativa di ‘pro honore’ e, di riflesso, del
senso complessivo del frammento paolino troverebbe pieno
suffragio dal contesto unitario in cui lo stesso appare inserito.
In particolare – ha precisato Roussier – a considerare il
principium: ‘Aestimationem honoris aut muneris in pecunia pro
administratione offerentes audiendi non sunt’, si avrebbe una
chiara conferma di come l’attenzione di Paolo fosse rivolta a
32
richiamare e a disciplinare l’ipotesi in cui la causa pollicitationis
fosse stata «negativa», nel senso che si è appena detto.
Qui il significato di ‘pro administratione’ non sarebbe in
discussione: “cette sentence a toujours éte entenduc comme visant
le cas où un citoyen offrirait une somme d’argent
(‘απαργυριζεσθαι’) représentative de la charge que lui
imposerait la fonction à condition que celle-ci ne lui soit pas
confèrée, pro administratione = ‘εις το µη λει τουργησαι’” e,
quindi, visto che in tale locuzione ‘pro’ vale «in vece di»,
«anziché», stupirebbe non poco che, solo cinque parole dopo, la
stessa preposizione, apposta all’ablativo ‘honore’, volesse
significare, all’opposto: «in ragione di», «invista di», «per»
(l’assunzione di un carica pubblica).
Ciò premesso, parrebbe alquanto più naturale e logico, per
Roussier, supporre che nel paragrafo 1^ di D. 50.4.16 fosse
considerata una fattispecie se non identica, quantomeno
assimilabile nella disciplina, a la quella di cui nel principium dello
stesso passo.
Del resto, ogni dubbio in ordine al valore di ‘pro’
(administratione – honore) e, quindi, sulla correttezza della lettura
fatta di D. 50.4.16.pr.-1, non potrebbe non intedersi fugato – ha
continuato lo studioso – a considerare un altro luogo di D. 50.12
(De pollicitationibus).
Si tratta di
50.12.13pr. (Pap. Iust. 2 de constitutionibus):
Imperatores Antoninus et Verus rescripserunt opera
extruere debere eos, qui pro honore polliciti sunt, non
pecunias pro his inferre cogi.
Ora, il frammento di Papirio Giusto è stato ritenuto,
comunemente, esplicativo del principio secondo cui chi avesse
promesso un ‘opus’ in vista di una carica pubblica avrebbe dovuto
prestare l’‘opus e non avrebbe potuto vedersi costretti dalla res
33
publica a versare l’equivalente in denaro.
A questa interpretazione Roussier ha obiettato che la stessa
toglierebbe ogni portata alla costituzione imperiale di Marco
Aurelio e Lucio Vero (‘Imperatores Antoninus et Verus
rescripserunt’) ivi richiamata, finendo per riconnetterle un
principio del tutto ovvio.
Secondo l’autore, per pervenire all’esatta comprensione di D.
50.12.13pr. occorrerebbe, in primo luogo, dare il giusto rilievo al
fatto che anche in esso si sia fatto uso della formula ‘pro honore’ e
di come a questa vada ivi riconosciuto il medesimo valore
sintattico-grammaticale che, per le ragioni sopra esposte, è stato
ascritto al ‘pro honore’ (e al ‘pro administratione’) di D.
50.4.16.1.
Quindi, in una prospettiva, per così dire, allargata, bisognerebbe
prendere atto di come la conformità formale sussistente tra il
linguaggio di Papirio Giusto e quello di Paolo, sottintendesse
un’uguale, piena identità di natura sostanziale, per cui i due
giureconsolti si sarebbero preoccupati di porre il seguente,
medesimo principio: chi ha promesso un ‘opus’ per sottrarsi al
conferimento di un honor sarà tenuto ad adempiere la promessa.
Del resto – ha proseguito Roussier – come non cogliere
un’ulteriore, significativa riprova della correttezza di tale linea
interpretativa nella chiarezza dispositiva del 1^ paragrafo di D.
50.12.12, ovvero del passo che nel titolo De pollicitationis risulta
posto subito prima del frammento di Papirio Giusto?
D. 50.12.12.1 (Mod. 11 pandectarum): Cum quidam ne
honoribus fungeretur opus promisisset: honores subire
cogendum quam operis instructionem divus Antoninus
rescripsit
A proposito della costituzione qui richiamata ed attribuita da
Modestino ad Antonino Caracalla (‘divus Antoninus rescripsit’),
Roussier ha sostenuto che si tratterebbe (quantomeno nella
34
sostanza) dello stesso provvedimento che in D. 50.12.13pr. risulta
ascritto a Marco Aurelio e a LucioVero.
La similitudine delle «forme» che ricorrono nei due frammenti
sarebbe sorprendente ed, al contempo, di assoluta evidenza:
‘rescripserunt opera extruere debere’ in D. 50.12.13.pr. – ‘…
subire cogendum … operis instructionem … rescripsit’ in D.
50.12.12.1.
Quest’ultimo testo sarebbe, poi, limpido nella sue finalità e nei
suoi contenuti.
La questione che si poneva a Modestino era – è il pensiero che
Roussier condivide con diversi altri interpreti – senza alcun
dubbio, quella di sapere a quali conseguenze sarebbe andato
incontro colui che avesse pollicitato al fine di sottrarsi ad un
determinato honor, ‘ne honoribus fungeretur’ per l’appunto.
La soluzione sarebbe stata la seguente: il promittente avrebbe
dovuto sia assumere la carica pubblica, alla quale voleva sottrarsi,
sia realizzare l’‘opus’ promesso (‘honores subire cogendum quam
operis instructionem’).
Ma, allora, stando così le cose, e viste le assimilazioni
terminologiche di cui sopra, come non concludere – è quanto ha
sostenuto Roussier – che il ‘ne honoribus fungeretur’ di D.
50.12.12.1 e il ‘pro honore’ di D. 50.12.13pr. sono equivalenti,
esprimono la medesima ‘causa’ pollicitationis; come non
concludere che anche per Modestino, allo stesso modo di Ulpiano
in D. 50.12.6.1 e di Paolo in D. 50.4.16.1, la preposizione ‘pro’
avesse valore, per così dire, «negativo», significasse, cioè, «in
luogo di», «in vece di»?
Le soluzioni proposte in D. 50.12.12.1 e in D. 50.12.13pr. da un
lato, quella formulata in D. 50.4.16.1 dall’altro, non sarebbero
diverse nella sostanza e nella ratio.
Il fatto che Paolo, dopo aver sancito che gli ‘offerentes pro
administratione’ ‘audiendi non sunt’, a proposito di chi avesse
promesso della ‘pecunia’ pro honore (stando a Roussier, dunque –
lo ripeto – per non ricoprire un determinato honor) avesse
35
aggiunto: ‘si solvere eam coepit totam praestare operis inchoati
exemplo cogendus est’, avesse, cioè, richiamato il requisito del
‘coepere solvere pecuniam’ = ‘coepere opus’, avrebbe una sua
logica spiegazione.
In definitiva – ha sottolineato Roussier – la giurisprudenza e,
ancor prima, la legislazione imperiale avrebbero considerato le
pollicitationes ‘ne honoribus fungeretur’ = ‘pro honore’ come una
species particolare di quelle qualificate, genericamente, non ob
honorem.
In quanto tali, quindi, avrebbero subordinato l’efficacia delle
stesse al ‘coeptum opus’ e/o all’‘inchoata solutio pecuniae’. D.
50.4.16.1 rappresenterebbe la miglior attestazione di ciò.
In definitiva, dalla lettura sinergica di D. 50.12.12.1, D.
50.12.13pr. e D. 50.4.16.1, stando a Roussier, premesso che i tre
passi avrebbero riguardato la medesima fattispecie, quella, per
l’appunto, in cui si fosse promesso ‘ne honoribus fungeretur’,
emergerebbe che, in un caso simile, il pollicitator non solo
avrebbe dovuto, sempre e comunque, ricoprire la carica pubblica
ma, ancora, che, qualora avesse dato inizio a quanto promesso,
sarebbe stato tenuto, altresì, ad eseguire per intero l’‘instructio
operis’ o la ‘solutio pecuniae’.
Certo, anche Roussier ne è consapevole, rimarrebbe, pur
sempre, la difficoltà di inquadrare all’interno di questa «catena»
esegetica D. 50.12.6.1.
Nel frammento ulpianeo, infatti – si tratta del dato che, si è
visto, seppur in diversa misura, ha motivato tutte le proposte
ricostruttive fin qui riferite – all’‘eum (del pollicitator) debere’
presiederebbero, in un rapporto di apparente, reciproca necessità,
sia l’ob honorem (non più, quindi, il ‘pro honore’) sia il ‘coepere
solvere pecuniam’, in quanto quest’ultimo varrebbe ‘quasi coepto
opere’ (‘Si quis pecuniam ob honorem promiserit coeperitque
solvere eum debere quasi coepto opere’).
Ma di fronte a quella che, anche per Roussier, avrebbe
rappresentato un’anomalia rispetto ai principi generali del rei
36
publicae polliceri ob honorem, per cui lo si è più volte ricordato,
le promesse formulate a seguito o in vista dell’ingresso in una
carica pubblica sarebbero risultate giuridicamente vincolanti a
prescindere da qualsiasi ‘inchoatio’, lo studioso – riconosciuto,
nei termini che si sono appena detti, a D. 50.4.16.1 piena
autonomia e diversità di contenuti rispetto a D. 50.12.6.1 – non ha
esitato ad accogliere la proposta mommseniana di inserire un
«non» innanzi all’ob honorem e, quindi, a riferire la disciplina
dell’Imperator noster Antoninus, richiamata da Ulpiano, al
polliceri non ob honorem.
Insomma, anche per Roussier come per la gran parte della
dottrina, D. 50.12.6.1 avrebbe semplicemente disposto che, nel
caso di pagamento parziale di una somma di denaro promessa
«non» ob honorem, la città sarebbe stata dispensata dall’invocare
la destinazione ‘ad opus’ della ‘pecunia’, in quanto l’incominciata
‘solutio’ della stessa avrebbe, di per sé, integrato un’ipotesi di
‘coptum opus’.
Premesso che alla locuzione PRO ADMINISTRATIONE
sembra corretto ascrivere il valore negativo prospettato da Russier,
il punto è che ad ascrivere a PRO HONORE il medesimo valore di
afronte all’ampio tenero della formulazione UDIENDI NON
SUNT la contestuale regolamentazione dell’eventualità in cui il
pollicitator avesse comunque proceduto al versamento di una
quota della somma promessa QUI PRO HONORE PECUNIAM
PROMISIT, SI SOLVERE EAM COEPIT … FINISCE PER
CONFIGURARE UNA SORTA DI ELEMENTO ESTRANEO.
E’ come se nel formulare l’audiendi non sunt si fosse al
contempo preso atto dell’impossibilità di impedire alle singole res
publicae di compartecipare e di dare legittimità a tali promesse,
ricevendo una parte della relativa prestazione, per cui sarebbe
sussistita la necessità di richiamare l’eventualità che (si) solvere
eam pecuniam coepit e rispetto a questa di esplicitare gli effetti
che ne sarebbero conseguiti in ambiro giuridico
37
Aggiungasi interscambiabilità ob honorem – pro honore attestata
a più riprese dalle fonti epigrafiche
AE. 1916, 35 = 1914, 42
[L(ucius) Cosin]ius L(uci) f(ilius) A[rn(iensi tribu) Primus
pont(ifex) / fl(amen) p(er)p(etuus) taxa]tis ob honorem fl(amoni)
p(er)[p(etui) / (sestertium) XXX m(ilibus) n(ummum)
m]acellu[m] a f[un]d[amentis / multiplic]ata pecunia fecit
[item/q(ue) dedicavi]t curante C(aio) Cosin[io / Ma]ximo f[r]atre
AE. 1916, 36
L(ucius) [Cosinius L(uci) f(ilius) Arn(iensi tribu) Primus
aed(ilis) q(uaestor) IIvir] quinq(uennalis) [pon]t(ifex) f[l(amen)
p(er)p(etuus) mac]ellum cum columnis et statuis et ponderatio et
thol[o] quod pro honore fl(amoni) p(er)p(etui) e[x] (sestertium)
XXX m(ilibus) n(ummum) taxaverat multiplicata p[ecu]nia a
fundamentis fecit idemq(ue) dedica[vit curante C(aio) Cosinio
Ma]ximo fratr[e]
D. 50.12.13pr. – rescritto degli Imperatori Marco Aurelio e Lucio
Vero = D. 50.4.16.1, uso particella PRO (HONORE) IN
ENTRAMBI I PASSI: promessa formulata al fine di sottrarsi ad
un honor = OB NON HONOREM
Papirio Giusto SI SAREBBE CONFORMATO AL REGIME
FISSATO DA MODESTINO IN D. 50.12.12.1, le costituzioni
imperiali richiamate da Papirio Giusto e da Modestino sarebbero
identiche a dispetto della diversa attribuzione
CRITICA
In D. 50.12.13pr. e in D. 50.12.12.1 la necessità di extruere
l’opus promesso non è sottoposta ad alcuna condizione, in D.
50.4.16.1 l’obbligo di pecuniam totam prestare avrebbe
presupposto il ricorrere di un principio di solutio (quest’ultimo
assimilato sul piano giuridico ad un coeptum opus).
38
Anche riconducendo i tre passi al polliceri ob non honorem non
si otterrebbe comunque un quandro omogeneo, rimarrebbe una
disciplina diversa a seconda che la prestazione avesse avuto ad
oggetto un opus o una somma di denaro (a ciò va aggiunto il
problema rappresentato dal tenore di D. 50.12.6.1).
D. 50.12.12.1 = duplice vincolo a instruere opus e quello a
assumere
l’honor
(FINALITA’
COERCITIVE
E
SANZIONATORIE) UN’ANALOGA PREVISIONE NON
RICORRE IN D. 50.12.13pr. (PAPRIO GIUSTO) E IN D.
50.4.16.1 (PAOLO)
A tutto ciò va aggiunto che l’interpretazione secondo cui
l’avversativa ‘NON PECUNIAS PRO HIS INFERRE COGI’
che chiude D. 50.12.13pr. significherebbe che CHI HA
PROMESSO PER EVITARE UN HONOR SARA’ TENUTO
ALLA REALIZZAZIONE DI QUANTO PROMESSO E NON
POTRA’ LIBERARSI CORRISPONDENDO LA SOLA
SUMMA HONORARIA NON PARE RISPONDERE AL
TENORE DEL PRINCIPIUM
VD. DEBERE (opera extrure, oggetto di obbligazione in forza
della promessa) – COGI (in forma negativa, NON avrebbe
significato la non coercibilità del pecunias pro his inferre)
NECESSITA’ DI ASSICURARE UN ADEMPIMENTO IN
FORMA SPECIFICA, NO CONTROVALORE PECUNIARIO
OPUS PROMESSO
Fly UP