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Inchiesta Melodia
Speciale Melodia Melodia e musica contemporanea Mito conciliabile o retaggio ingombrante? V a cura di Moreno Andreatta, Leonardo Mello e Ilaria Pellanda eneziaMusica e dintorni si è aperta nuovamente, dopo il ne con Moreno Andreatta, giovane studioso dell’Istituto francese, forum sulla lirica e il dibattito a più voci sul teatro speche cofirma il presente dossier e ci regala un esauriente scritto prerimentale del nostro territorio, a una discussione allarliminare, perché la materia non sia eccessivamente ostica ai non gata su un tema specifico. Attorno al concetto di melodia nella addetti ai lavori. musica contemporanea abbiamo costruito un piccolo quesito inTra le tante persone che hanno contribuito a queste pagine, oldirizzato a moltissimi compositori italiani oltre che a una ridottre a tutti gli interpellati e al determinante appoggio dell’ufficio ta ma quantomai autorevole pattuglia di studiosi e musicologi. stampa della Biennale, non si può non citare Mario Messinis, che Questa «inchiesta», che ancora una volta non si pone come obietda dietro le quinte ci ha anche questa volta consigliati al meglio e tivo l’esaustività, e men che meno intende fornire risposte granitiaiutati a colmare inevitabili lacune. che e assolute, ci è stata sugNon è questa la sede per bigerita in primo luogo dal tiLa domanda lanci e valutazioni, che lasciatolo che ha voluto dare Giormo ai singoli lettori. Tuttavia «L’evoluzione della musica nel corso del ‘900 ha vigio Battistelli alla sua terza il tenore delle risposte, estresto un progressivo ripensamento del concetto di meloBiennale Musica, «Va’ penmamente variegato e complesdia, che è stato da sempre fondamento della prassi comsiero», e che tra le tante imso, dà conto in ogni caso della positiva. Che spazio può assumere oggi una riflessioplicazioni simboliche rimancentralità che ancora possiene sulla funzione della struttura melodica nella musica da sia a una delle arie più de un terreno d’indagine come contemporanea?» celebri del nostro melodramquello proposto. In questo senma che all’universo semantiso siamo davvero lieti di aver Hanno risposto co dell’attività speculativa. Il messo insieme il fulmen epiClaudio Ambrosini, Mario Baroni, Giorgio Battistelli, caso ha poi voluto che quella grammatico di Fabio Vacchi Mario Bortolotto, Massimo Botter, Sylvano Bussotti, Aldo Clementi, che era poco più che una vacon la sentita e articolata riRenzo Cresti, Rossana Dalmonte, Carlo De Pirro, Ivan Fedele, ga intuizione si vestisse di un flessione di Alessandro SolFabrizio Festa, Luca Francesconi, Adriano Guarnieri, Giovanni senso maggiormente compiubiati, per citare soltanto due Mancuso, Giacomo Manzoni, Giordano Montecchi, Luca Mosca, to grazie alle due giornate denomi all’interno della trentiMario Pagotto, Marcello Panni, Quirino Principe, Enzo Restagno, dicate in ottobre proprio alna tra artisti e intellettuali Veniero Rizzardi, Valerio Sannicandro, Alessandro Solbiati, Javier la melodia dall’Ircam di Pache hanno avuto la gentilezza Torres Maldonado, Paolo Troncon, Fabio Vacchi, rigi. E ancora più fortunata di rispondere alla nostra breGiovanni Verrando. si è rivelata la collaboraziove domanda. (l.m.) La rivincita della melodia «S uccessione di suoni, con sviluppo nel tempo, che formano un organismo a sé. Il termine è usato in contrapposizione a puro ritmo e ad armonia (simultaneità dei suoni). Con essi è elemento essenziale della musica, e quello di più facile comprensione». Il redattore della voce «Melodia» per il volume enciclopedico Il mondo della musica (Garzanti, 1956), sarebbe senza dubbio sorpreso nel constatare che a distanza di mezzo secolo, musicologi e compositori continuano a interrogarsi sul concetto di melodia e sulle sue possibili ramificazioni teoriche e analitiche. Riassumere in qualche breve riga la storia della melodia e dei suoi rapporti possibili con i vari parametri musicali (quali l’armonia, il ritmo, il timbro…) è ovviamente fuori dalla portata di questo lavoro, così come risulta impossibile proporre una definizione esauriente del concetto di melodia. Dal Terminorum musicae diffinitorium (c. 1475) del fiammingo Johannes Tinctoris alla recentissima Enciclopedia della musica a cura di Jean-Jacques introduzione di Moreno Andreatta Nattiez (Einaudi, 1991-1995), le molteplici definizioni del termine «melodia» non fanno che rivelare la complessità di un concetto che oltre a rappresentare un fenomeno umano fra i più universali rimane, paradossalmente, fra i più difficilmente formalizzabili. Basti pensare che nel suo Traité de l’harmonie (1722), Rameau considera la melodia come subordinata all’armonia, a differenza, per esempio, di Rousseau che, a qualche anno di distanza, sottolinea l’autonomia della melodia rispetto agli altri parametri musicali (Dictionnaire de musique, 1768). È difficile non concordare con Rossana Dalmonte, quando afferma che la difficoltà nel definire la melodia è inerente alla sua stessa natura, in quanto il termine ««melodia» non corrisponde a un concetto unico ma, piuttosto, a un reticolo complesso di significati le cui interpretazioni, potenzialmente infinite, sono difficilmente iscrivibili all’interno di una tipologia esaustiva1. Ma per quanto le tipologie possano variare, a seconda dei contesti storico/stilistici, ci sem41 Speciale Melodia bra che le posizioni e di Rameau e Rousseau rispetto alla melodia restino attuali e costituiscano i due estremi all’interno dei quali si posiziona, de facto, ogni possibile indagine sulla struttura melodica. Dipendenza o autonomia della struttura melodica rispetto ai vari parametri musicali? Qualsiasi posizione si voglia assumere all’interno di questi estremi ideali, resta il fatto che il concetto di struttura melodica attraversa epoche storiche, correnti, stili musicali, tradizioni culturali e costituisce un terreno d’incontro per varie orientazioni della ricerca musicologica contemporanea, dalla semiologia musicale alla psicologia sperimentale, dall’etnomusicologia alla teoria matematica della musica. Vi sono senza dubbio delle ragioni profonde per le quali, come si chiedeva Hindemith, risulta così difficile analizzare una melodia mentre invece le regole dell’armonia si riducono a un corpus relativamente ridotto2 . Una delle ragioni che possono spiegare questa difficoltà riguarda la natura «psicologica» del concetto di melodia. A differenza delle strutture armoniche, per le quali i vari teorici della musica hanno saputo offrire dei criteri esaustivi d’enumerazione e classificazione3 , è molto più difficile offrire dei criteri oggettivi per dire, innanzitutto, quando una sequenza di note costituisce o meno una struttura melodica (e trovare, in caso affermativo, le proprietà che permettono di distinguerla da una qualsiasi altra melodica basata sulle stesse note musicali). Per quanto sia sempre possibile decomporre una melodia nelle sue costituenti elementari (note e intervalli), allo stesso modo di quanto avviene per gli accordi musicali, l’ordine temporale nel quale le note si susseguono svolge una funzione strutturante essenziale, che impedisce di ridurre una melodia alla somma delle sue costituenti elementari. Non stupisce quindi che buona parte dei primi tentativi di formalizzazione del concetto di melodia si siano ispirati allo studio dei fenomeni percettivi (in particolare alla teoria della Gestalt)4 . La ricerca teorica sulla melodia, sia essa basata su principi derivanti dalla psicologia della forma (Leonard Meyer e Eugene Narmour), dalla linguistica strutturale (Nicolas Ruwet), dalle grammatiche trasformazionali di Chomsky (come la Generative Theory of Tonal Music di Fred Lerdahl e Ray Jackendoff o Le regole della musica di Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni) o da teorie matematiche astratte (ultima delle quali è la teoria degli Orbifolds dell’americano Dmitri Tymoczko che utilizza delle rappresentazioni geometriche per mostrare che contrappunto e armonia sono fenomeni strettamente connessi), costituisce un campo di ricerca in forte espansione, suscettibile di interessare musicologi, teorici della musica, analisti, compositiori, filosofi, matematici 5 ... Dopo secoli di studi approfonditi sulla struttura armonica, che la melodia possa infine prendersi la meritata rivincita? Qui e nelle pagine seguenti, Variazioni melodiche di Anton Webern (1883-1945) a pag. 57, Primo, Retrogrado, Inversione, Rertogrado Inversione. Note 1. Per una cartografia dei significati più ricorrenti del concetto di melodia rinviamo il lettore al saggio sulla melodia di Rossana Dalmonte nel secondo volume dell’Enciclopedia Einaudi a cui si è fatto riferimento precedentemente. 2. Si veda in particolare il capitolo V della parte teorica del trattato Unterweisung im Tonsatz (1940). 3. Per esempio teorici della musica, analisti e compositori concordano sul fatto che nel sistema temperato tradizionale vi sono 80 accordi di 6 note (esacordi), che possono essere classificati in una sorta di «dizionario ragionato», nel quale i vari elementi si susseguono secondo un ordine logico (lessicografico). 4. E viceversa, nel saggio che dà origine alla teoria della Gestalt, Christian von Ehrenfels utilizza il fenomeno melodico per spiegare che la forma è una struttura globale che non può quindi es- 42 sere ridotta alla somma delle singole parti, al pari per l’appunto di una melodia che trasposta in una qualsiasi tonalità mantiene lo stesso grado di percettibilità indipendentemente dalle note che la costituiscono (Ernst Cassirer suggerirà qualche anno più tardi, in un studio intitolato The Concept of Group and the Theory of Perception (1944), che è possibile offrire una formalizzazione matematica di questo fenomeno musicale basata sulla teoria matematica dei gruppi. 5. Per questa ragione l’Ircam e la Sfam (Società Francese di Analisi Musicale) hanno preso l’iniziativa comune di organizzare, recentemente, un Convegno Internazionale dedicato alla melodia e funzione melodica come oggetto d’analisi (Ircam, 17-18 ottobre 2006) del quale diamo una breve descrizione nella scheda informativa a fine dossier. Speciale Melodia Claudio Ambrosini Melodia c’è sempre, anche se il compositore non la mette. C’è perché l’orecchio la cerca. In qualsiasi evento, o successione di eventi sonori, l’orecchio scandaglia ciò che più si muove, ciò che più varia e che ha contorno: quella è «melodia». L’orecchio cerca «al dettaglio» – come melodia – quello che poi coglie più o meno consciamente, «all’ingrosso», come forma dell’intero brano: è, in entrambi i casi, una ricerca di fisionomia, una ricerca di identità. «Melodia» può essere varia e vasta: se non sta nelle altezze dei suoni, se non è prioritariamente cantabile, può annidarsi nella successione dei colori strumentali, nella klang farbenmelodie, come ha insegnato Schoenberg (ma l’avevano già fatto ben intuire Giovanni Gabrieli e gli altri compositori rinascimentali che orchestravano a «cori battenti» per la Basilica di San Marco a Venezia). Se invece è un altro aspetto a variare in continuazione, come per esempio il ritmo, si avrà anche lì la sensazione di un «melodizzare», come nel fluire inarrestabile e ribollente di alcuni jazzisti. Elvin Jones che accompagna John Coltrane, per esempio: un vero «controcanto». E ancora «controcantano» i tabla, coppia di tamburi indiani, quando accompagnano il sitar e lo contrappuntano con arabeschi incalzanti. E «cantano in melodia» e in coro tutti i rumori, dai padri Futuristi in poi. Ha valenza melodica tutto ciò che ha una direzione: sale, scende o anche solo prosegue diritto. È melodico ciò che costituisce un contorno, un profilo, ciò che delimita una massa meno distinta che da questo «confine in movimento» viene contenuta e delineata, definita. O che, miniaturizzata in movimenti infinitesimali, si costituisce essa stessa come massa: le «micromelodie» di Ligeti, per esempio. È melodico ciò che, oltre ad una fisionomia, ha un andamento, un comportamento (logico, illogico), una direzione che, nell’evolversi, si tramuta in forma. Visto che la si percepisce comunque, la «melodia», tanto vale che sia nuova, che permetta di cantare in modo nuovo, e anche di ascoltare in modo nuovo. Nella musica che scrivo, che usa la melodia – ma non l’armonia – le linee vocali (ma anche quelle strumentali) sono spesso basate su una gradazione di «forza intervallare», a partire dalla scala cromatica – intesa come materiale base, indifferenziato (anche se in realtà ricco di connotazioni). Da qui hanno luogo degli «allargamenti» intervallari secondo la gradazione espressiva di cui di volta in volta ho bisogno e che è connaturata all’aumento di distanza tra le note, al salto (psico-acustico) che esse compiono, all’«aura» che esse acquistano nella relazione-confronto con l’intervallo precedente. Compressione, decompressione, tendere, stendere, cangiare… Una tecnica «a fisarmonica». Ma, ovviamente, su tutto governa – e deve governare – il dio Pan, che tutto prende con quel suo raptus, che un tempo chiamavano «ispirazione». Mario Baroni Com’è noto, la maggior parte dei musicisti d’avanguardia della seconda metà del secolo scorso ha cercato tutti i modi possibili per disfarsi di quel peso ingombrante della tradizione musicale che va sotto il nome di melodia: il problema non era quello di inventare nuove forme di melodia, ma proprio di negare il principio melodico stesso. Non è ben chiaro il perché, a meno che non si voglia ricorrere alle solite formule: bisognava rinnovare tutto, fare tabula rasa. Ma si tratta di spiegazioni che non spiegano niente. Ci si potrebbe infatti chiedere di nuovo: «Ma che ragione c’era di far tabula rasa?» E così via. Il fatto è che fenomeni di questo tipo hanno radici occulte se non addirittura misteriose: stanno nel profondo delle scelte stilistiche dei compositori e i compositori sono interessati a comporre e non necessariamente a mettere in luce le ragioni delle proprie scelte compositive. Non è loro compito ed è giusto che lo facciano in modo approssimativo e che si accontentino di dichiarazioni inutili come quelle sulla tabula rasa. Dunque non ci resta che prendere atto del fenomeno. Perché infatti il problema reale è un altro: è quello di cercar di capire se il procedere melodico che le avanguardie del dopoguerra hanno evitato con tanta cura sia un fenomeno generale (non voglio usare il termine «universale») cioè ampiamente diffuso nelle culture musicali del mondo, o sia invece limitato alla tradizione occidentale. La risposta è quasi ovvia: usare la voce, e usarla melodicamente, è qualcosa che fanno e hanno sempre fatto civiltà di tutte le epoche e di tutti i continenti e che tendono a fare, e comunque imparano precocemente a fare, anche i bambini in tenerissima età. Insomma è una cosa che «viene spontanea». E infatti i musicisti degli anni cinquanta e sessanta per riuscire a non melodizzare hanno dovuto darsi regole che chi le osserva dall’esterno potrebbe persino considerare cervellotiche. Parlo delle regole della cosiddetta serialità integrale: fatica nel comporre, fatica nel cantare, fatica nell’ascoltare, e mancanza di naturalezza. Non è una critica, è solo un’interpretazione delle caratteristiche espressive delle musiche d’avanguardia. Non voglio tornare a chiedermi il perché: mi limito a fare qui una constatazione e una previsione. La constatazione è che la «naturalezza» dei comportamenti in tutte le arti (non penso solo all’uso del canto, ma anche a quello della lingua, del gesto, del segno grafico, del colore, della costruzione di oggetti) deve essere considerata una condizione umana ineludibile, dipendente dalla natura del nostro corpo e del nostro cervello. Dal punto di vista delle attività artistiche non deve essere considerata un obbligo, ma di fatto è un limite: tuttavia l’area concessa all’espressività dai limiti della natura umana è talmente grande che al suo interno si può fare di tutto, come dimostra la storia dell’uomo. A questo punto diventa naturale la previsione. Non trovo nessuna ragione antropologicamente valida per pensare che oggi non si possa più cantare, o si debba continuare ad arrampicarsi sugli specchi per farlo in 43 Speciale Melodia modo innaturale, tant’è vero che tutti continuano allegramente a farlo nella vita quotidiana senza porsi i problemi che si pongono (o si ponevano) i musicisti «impegnati». Non si tratta dunque di inventare nuove motivazioni ideologiche o inedite giustificazioni, per ricominciare a far melodie. Si tratta semplicemente di mettere in moto le risorse della fantasia musicale. È questo l’augurio che mi piacerebbe fare ai compositori delle prossime generazioni. Giorgio Battistelli Se si intende per melodia una successione orizzontale di suoni, la questione è come questo concetto di orizzontalità viene inserito all’interno di una struttura più ampia. In ogni caso, non è che la melodia sia più rischiosa rispetto a una verticalizzazione: la melodia è rischiosa quanto lo può essere un’armonia. L’orizzontalità è rischiosa quanto la verticalità del suono, ammesso che si possa parlare di rischio e di retorica, perché ormai la velocità di connotazione nella musica è fortissima, è questo il tema su cui bisogna riflettere. C’è una connotazione alta perché i media, il cinema la televisione divorano tutto, anche la musica pop, di consumo, commerciale è molto veloce… E invece noi come autori del presente siamo interessati ad allargare il mondo percettivo e quindi a inventare e scoprire nuove fonti di suono. Massimo Botter ...innanzitutto sarei più preciso perché negli ultimi decenni vi è stata anche la fase del rifiuto totale della melodia, la distruzione del pensiero melodico, una dissoluzione totale come anche per il pensiero armonico e quindi, in antitesi con la frase «da sempre fondamento della prassi compositiva», io direi che ciò che si è espresso è valido se pensiamo la «non melodia» come punto di partenza per il lavoro compositivo. Più tardi vi è stato il ripensamento di tutto questo processo di decostruzione ed è iniziato un recupero, uno sviluppo, forse anche aiutato dall’uso dell’informatica musicale, e oggi armonia e melodia hanno riconquistato il loro ruolo fondamentale nell’estetica musicale contemporanea. C’è da aggiungere che, parlo ora a livello personale, la melodia viene invasa da tutto ciò che ci circonda, e sta poi al compositore e alla libertà che ognuno ha o che si vuole prendere, più o meno condizionata dalla tecnica e dalla ricerca, di rielaborare tutto questo materiale di diverse provenienze, di diversi stili, di diversa natura. Abbiamo aggiunto potenza e nuova linfa a un albero che pare non finisca mai di crescere pur con rami secchi ormai estirpati o da estirpare... Vedremo dove la linea melodica porterà la crescita del nostro albero; l’albero della musica contemporanea. Sylvano Bussotti Mario Bortolotto In linea di principio nulla ostacola l’idea di usare una melodia, però si tratta di vedere che melodia è, cosa vale e come si può collegare con tutto il resto. Nella musica tutto è possibile, non ci sono divieti né regole. Le regole casomai si deducono dai successi dei compositori. Proporre un’idea di melodia come la intendono i «codini» di oggi (ce ne sono tanti, di compositori codini…), vicina a quella che poteva avere per esempio Bellini, è chiaro che non ha nessun senso. Ma molti compositori hanno usato la voce, e questo significa già in un certo modo scrivere delle melodie. Si tratta di sapere quale significato diamo alla parola «melodia», che, come l’armonia, deve essere eternamente rinnovata. Ma il rinnovo avviene nella pratica. Prima vengono le opere e poi la storiografia e la critica. 44 Nel mio lavoro specifico il concetto di melodia è probabilmente l’unico concetto esistente. Naturalmente lo dico con un minimo di paradosso e di forzatura, ma lavorando in grande misura e da sempre con la voce che canta, è chiaro che questo concetto è per me fondamentale. In una riflessione più generale, ricordo una massima di Max Deutsch, che ho sempre riconosciuto come mio maestro: «La musica, se non è armonia, non è». L’armonia può sembrare una sorta di contraltare alla melodia, tanto è vero che parlando di melodia sovente si diceva anche «linea melodica», mentre per armonia i più intendono degli accordi, cioè una sovrapposizione di suoni. Scolasticamente infatti le melodie armonizzate si definivano «accompagnate» e dunque l’armonia diventava qualcosa di simile all’accompagnamento, che coinvolgeva anche il ritmo. Mettendo un’altezza o una frequenza dopo l’altra naturalmente viene a crearsi l’intervallo. Questo intervallo, regolato oramai da parecchio tempo sulla serie dodecafonica – nel senso della sequenza di dodici intervalli diversi e differenti l’uno dall’altro (anche se a molti o alla quasi totalità dei musicisti oggi può sembrare una regola antiquata) – rimane pertanto l’ossatura principale della melodia. Se parliamo Speciale Melodia di strumenti musicali sappiamo che alcuni sono in grado di emettere più di un suono contemporaneamente e altri no. Ma quello che rimane comune denominatore a tutti gli strumenti, come alla voce umana, è appunto il dato melodico, l’intervallo, il passaggio da una frequenza alla frequenza successiva. Quando il dato melodico diventa un motivo di estrema semplicità (pensiamo alla cosiddetta «canzonetta», anche se è una parola che non si usa più…), la lingua italiana utilizza un termine intraducibile nelle altre lingue, cioè «orecchiabile». L’orecchiabile rimane il dato fondamentale dell’intervallo, della sequenza, del susseguirsi di intervalli. E non credo faccia differenza che questi intervalli siano dodici diversi l’uno dall’altro o siano due sempre identici a se stessi (come appunto in certe canzonette). La melodia dunque è un dato fondamentale che permette a chiunque si avvicini a una qualsiasi forma di intrattenimento musicale, di spettacolo e perché no di pensiero musicale di coglierne immediatamente il senso. Questo ci fa pensare che si tratti del momento più importante. Stockhausen ha detto spesso che sono necessari almeno due elementi per creare qualcosa di significativo, e infatti una volta che si arriva all’intervallo ecco che c’è già in nuce una certa melodia. In conclusione vorrei citare un bellissimo intervallo (fa diesis e do bequadro naturale): si tratta di quello che gli antichi chiamavano diabolus in musica, la personificazione del demonio, che diventa proprio una sorta di base sulla quale vengono molto spesso a distribuirsi degli altri suoni. E vorrei chiudere evocando Luigi Dalla Piccola, persona religiosissima, che sul diabolus in musica basa tutte le sue composizioni. Aldo Clementi La melodia mi serve per un lavoro di linee e contrappunto. Ho composto anche per voce sola, ma normalmente quello che mi interessa è il gioco delle linee. Renzo Cresti In aderenza all’etimo mélos il termine «melodia» è impiegato spesso come sinonimo di canto, inteso però non in senso ampio e generale, ma con l’accezione romantica, per cui s’intende melodia tout court quella di un Mozart o di un Rossini, di uno Chopin o di un Verdi, ma non è detto che sia proprio questo o solo questo il significato da dare al termine «melodia». Il Canto gregoriano, l’Ars Antiqua e Nova, il Rinascimento e il Manierismo hanno melodie struggenti e profonde, ma molto diverse da quelle del periodo tonale. Il poeta trecentesco Iacopone la definiva, in maniera assai propria, «una successione di diversi suoni aventi fra loro una organica relazione» e il Novecento ha – a grandi linee – privilegiato proprio l’«organica relazione» ossia una melodia che deriva da un progetto compositivo unitario e complesso. A parte rigurgiti neo-qualunquisti che rifanno il verso alla melodia (post)romatica (i musicisti che si sono rifatti al déjà vu nella storia della musica sono sempre stati chiamati «accademici»), la melodia è oggi quel quid espressivo che deriva da un’«organica relazione» fra parametri ed elementi compositivi che, di volta in volta, il compositore sistema in maniera da fornire loro un carattere fortemente comunicativo: i timbri, le dinamiche, la gestualità... ogni aspetto può assumere un tratto melodico, un filo rosso che conduce l’ascoltatore nei meandri della composizione. Melodia è tutto ciò che ogni compositore intende e chiama con questo nome. Melodia dunque come figura, come punto focale di un espandersi della musica, più che canto lirico, la sua funzione è allora quella di una sorta di espansione del tessuto compositivo verso un abbraccio di suoni. Rossana Dalmonte A cavallo dei secoli XIX-XX il «fait musical» per dirla con Molino-Nattiez, vive profonde trasformazioni in ciascuno degli aspetti che lo compongono ed è naturale che l’elemento più «esposto» sulla superficie della musica, la melodia, rimanesse come gli altri o forse più degli altri influenzato dal nuovo spirito del tempo. Nella melodia le correnti di pensiero più radicali del primo Novecento videro il riflesso impudico delle poetiche ottocentesche con al centro l’io lirico che soffre e canta le sue passioni, videro impronte di aspirazioni inconfessate, di velate o troppo palesate angosce, espressioni di Sehensucht e di spleen, di disperazione e di euforia, mondi interiori per loro natura «privati», che agli occhi del nuovo secolo parevano poco interessanti quanto non addirittura decisamente imbarazzanti. Ma, nonostante il mutato clima culturale, nella musica la melodia è sopravvissuta molto più a lungo che nelle teorie, e forse non è mai definitivamente morta, anche se si è presentata con maggiore precauzione o si è nascosta dietro forme diverse. D’altra parte il fatto di «abbandonarsi» a qualche frase cantabile non ha mai relegato un compositore nel novero dei «sorpassati». Che dire, ad esempio delle canzoni o dei «recitativi» sparsi qua e là, ma non avaramente, nelle opere di De Falla, di Bartók o di Stravinskij? Qui la melodia ha spesso grande risalto, anche se viene esposta «furtivamente», sotto banco, nelle citazioni più o meno infedeli di una tradizione non sospetta di svenevolezze e romanticherie. Altre volte si manifesta in aiuto della dimensione verticale, quella sì del tutto vedova dell’antica armonia. Si riascoltino, ad esempio i Lieder di Das Buch der hängenden Gärten (Schönberg 1908-1909) con orecchio selettivo capace di (quasi) annullare la parte strumentale e non si potrà negare la forza di figure lineari di una cantabilità struggente, anche se condita di 45 Speciale Melodia qualche durezza nei salti e nei cambi di registro. Nei così detti neo-classici (in un certo Hindemith, in Milhaud o in Alfredo Casella), al contrario, la melodia si nasconde dietro la freddezza della monotonia, anticipatrice, forse, della sospensione del tempo raggiunta dai minimalisti; in entrambi i casi, tuttavia, pur da percorsi diversissimi, si approda al canto, un canto «oggettivato» ma sempre in sintonia con i ritmi del linguaggio, fonte primaria della melodia. Chi può attribuirsi il vanto di aver cacciato la melodia da un brano di musica vocale? Si potrà dire che le scale su cui si distendono le peripezie vocali di Lulu non sono né maggiori né minori, che l’isteria delle successioni orizzontali non rispetta le regole auree del rapporto fra gradi congiunti e salti, ma la «natura melodica» resiste e a volte, perfino, commuove. Ciò che muta decisamente nella melodia novecentesca è il «respiro», ossia la sua scansione in frasi formate da un inizio, un corpo centrale e una fine ben delineata. Questa cornice si disgrega già prima dell’inizio del XX secolo: si ritrova di rado in Debussy e non nelle parti più significative dei suoi canti. L’aver negato il modello formale non significa però negare la melodia, ma soltanto tentarne manifestazioni diverse, più fluide, duttili, imprevedibili. un rapporto di timbri (il vestito strumentale scelto) e di tensioni (l’altezza ottimale in cui quel rapporto produce il suo senso). Nello scrivere ci si può innamorare di una perla d’ispirazione, ma è la collana che regala il tesoro compiuto. Il senso del com-porre (porre in relazione) è questo, creare un plus-valore olistico nella connessione dei neuroni melodici. Proprio questo continuo scambio fra un carattere archetipo-sintetico e la storia degli artifici retorici che ne hanno modificato il DNA rende tuttora centrale questa speculazione. Ridisegnando il rapporto fra figura e fioritura, assimilando nuovi orizzonti di materia che facilitino il dialogo espressivo fra temperato e non-temperato, sperimentando forme di ripetizione non necessariamente regressive. Per narrare (come per comporre) ci vuole una precisa definizione di caratteri e il controllo del superfluo. Proprio l’orizzonte del narrare, con tutte le integrazioni novecentesche, compresa la gestione di tempi paralleli sviluppata dal montaggio cinematografico, può fornire corporeità di pensiero ai nuovi melos. Teatro della meraviglia di un ritrovato orgoglio popolar-sperimentale. Ivan Fedele* Carlo De Pirro Primo: cosa ereditiamo? Forti impulsi artificiali, poi codificati in retorica, hanno esercitato pressione sul diagramma melodico. Ovviamente le parole chiave di un testo letterario, più recentemente il magnete armonico e la veste timbrica. Come una calamita che ordina occultamente la limatura di ferro melodica, l’armonia ne stabiliva – e spesso stabilisce – il carattere (il sistema modale in cui agisce), il grado di tensione (rispetto alla temporanea fondamentale), la scansione (tramite le varianti del ritmo armonico). La metamorfosi da motto tematico, soggetto di fuga, tema di sonata e leitmotiv porta alla definizione di personaggio melodico, a una variazione nella percentuale di ripetizioni (l’automemoria di una melodia) e a una variazione di reattività a seconda della posizione formale. Quando la centralità del comporre evapora verso nuove astrazioni, si assiste a una frammentazione subliminale delle precedenti retoriche e a un rafforzamento della seduzione timbrica. D’altronde tutto si logora. In Cipriano De Rore la sesta maggiore sonorizza l’aggettivo«crudele»; lo stesso intervallo, trecento anni dopo, lanciò il Brindisi in Traviata. Da queste eredità si possono raccogliere idee da trasformare in stile. Ciò che attribuiamo al sedimento melodico è una somma di relazioni (non a caso personaggio melodico) che tratteggiano un carattere plurimo. Certamente la frammentazione, il tabù della ripetizione semplice e un certo sospetto per intervalli consonanti non facilitano la proiezione emotiva in chi ascolta. Escluso (almeno per mio conto) il ruminaggio stilistico, la via è quella di creare nuovi rapporti e nuove polarità. Melodia non è solo un rapporto di altezze, ma 46 Evidentemente si tratta di una domanda che ci si pone da oltre mezzo secolo. Da quando, cioè, si affermò l’estetica e la prassi (ora superate) del serialismo integrale, coi suoi intenti rivoluzionari tra i quali quello della disintegrazione del linguaggio musicale in tutti i suoi parametri. Quella istanza aveva come obiettivo la «degerarchizzazione» degli elementi strutturali della composizione affinché nessuno di essi potesse assumere un ruolo premininente o di rilievo rispetto agli altri, i quali, in questo modo, avrebbero assunto a loro volta un ruolo di «contesto». Quindi, nulla che potesse identificarsi con una linea melodica nè con un campo armonico «dominanti». Nessun registro che potesse assumere un ruolo di rilievo rispetto agli altri. Nessuna dinamica che ricorresse anche solo due volte di seguito e quindi, almeno in linea teorica, potesse assumere un ruolo semantico di riferimento più o meno «stabile». Ne consegue che, all’interno di questo auspicato «comunismo strutturale», in realtà il compositore decideva di non decidere. Ed è bellissima l’osservazione di Nicolas Ruwet, il quale afferma che, a conti fatti, lo scollamento progressivo tra la musica nuova e la sua percezione non è soltanto di tipo culturale, ma soprattutto di tipo concettuale e psicoacustico. La musica è un linguaggio autoreferenziale, ovvero per essere percepita come evento dotato di senso (poetico) non può fare riferimento che a sé stessa. E il serialismo integrale (in seguito anche lo strutturalismo radicale e altre correnti di pensiero) non fornisce più questi elementi intriseci poichè abolisce i principi di «direzionalità» («Ti faccio vedere da dove sto partendo», «Guarda dove ti conduco, e guarda dove arrivo»…) e di «ridondanza» («Guarda che sto ripetendo questa cosa, anche se un po’ variata, perché questo è un elemento centrale della composizio- Speciale Melodia ne...»). In questo modo scompare la componente drammaturgica della musica. E questo accade a causa di un grande equivoco dal quale sono stati tentati, nel loro «furore» giovanile, geni assoluti della musica del Novecento come Boulez, Berio, Stockhausen. Quegli stessi compositori che, conclusasi quella esperienza così radicale, hanno generosamente recuperato il concetto di «gerarchia» nella loro musica! Che cosa accadde veramente in quegli anni? A mio avviso, sotto l’impulso rivoluzionario e innovativo, si commise una semplificazione impropria, assimilando il concetto generale di gerarchia (nel senso di ruolo diverso che gli elementi ricoprono all’interno della struttura del linguaggio musicale) e quello di gerarchia tardoromantica o espressionista. Un po’ come dire butto via il bambino con l’acqua sporca! Alla luce di quella esperienza e di altre che ne sono derivate, ecco che, oggi, una riflessione sulla melodia può certamente dare frutti interessanti. Come pure un approfondimento del concetto di armonia. Riguardo a quest’ultimo, la ricerca più avanzata che è stata condotta negli ultimi anni è quella cosiddetta «spettralista». Dall’analisi del suono nella sua fisicità più recondita sono state rilevate proprietà microformali del timbro estremamente interessanti. Al punto tale da prenderle a modello anche della macroforma. Questo ci fa comprendere meglio come, ad esempio, melodia e armonia siano due aspetti della stessa medaglia, così come spazio e tempo sono due aspetti dell’evento, o dell’avvenimento, come Einstein ci insegna. Il problema allora è distinguere che cos’è una melodia e che cosa non lo è. Ancora meglio sarebbe formulare una domanda del tipo: «Che cosa percepiamo come melodia e che cosa no?» La melodia non è altro che uno snodarsi di eventi sonori, che possono essere singole note, timbri o anche costellazioni di «figure» posti diacronicamente uno dopo l’altro e legati da almeno un elemento comune aggregante. Direi che gli elementi di coerenza potrebbero essere suddivisibili in due famiglie: da una parte la coerenza «fisica», inerente al succedersi diacronico di eventi musicali; dall’altra quel tipo di coerenza che si esplicita all’interno della melodia ma che è extrafisica, cioè culturale. È sufficiente che un’ocarina suoni tre note qualsiasi perché io mi «disponga» a coglierne un’origine di tipo etnico, perché ho un imprinting di questo genere su quel timbro. Ma quali sono gli elementi che rendono una successione diacronica di eventi un tutto coerente, e quindi una «linea melodica»? Per esempio il timbro, come si è già accennato. Ma potremmo dire anche la dinamica: un pezzo che avesse delle dinamiche non «ballerine» presenterebbe delle continuità e delle discontinuità, dei percepibili incrementi e decrementi d’intensità. Prendiamo, ad esempio, una successione diacronica di note che si svolge tutta su un campo limitato di frequenze polarizzate (poche note incastonate nella tavola delle altezze): ciò determinerebbe una sorta di omogeneità (che in alcuni casi può sfociare anche nella «monotonia», come accade talvolta con la musica modale) per cui questa melodia sarebbe percepita come un percorso che ha una sua coerenza all’interno di una «superficie» armonica solida, definita e, fondamentalmente, «significante». Questi sono alcuni modi, a mio avviso efficaci, che, (reintroducendo il concetto di ge- rarchia tra elementi importanti ed elementi non secondari ma «di contesto»), ci rimandano inevitabilmente alla nozione di «archetipo». Gli archetipi sono il motore e il fondamento dei comportamenti simbolici e di tutte le invenzioni artistiche. E un compositore attento se ne rende conto in ogni istante della sua attività.* * Ivan Fedele proprio in questi giorni ha terminato la stesura della sua prima opera di teatro musicale, Antigone. Fabrizio Festa Melodia, ritmo e armonia – nonostante l’evoluzione storica e le peculiarità geografiche che ne hanno contraddistinto le diverse storie – sono gli elementi fondanti della grammatica musicale. Così come materia ed energia, spazio e tempo, restano gli elementi costitutivi delle nostre teorie fisiche e cosmologiche, indipendentemente dall’evoluzione delle stesse, analogamente melodia, ritmo e armonia appartengono in maniera naturale (in senso fisico e psicologico) all’universo della musica. In particolare, la melodia costituisce l’elemento strutturale con il più alto contenuto informativo, e perciò quello che contribuisce in maniera determinante a stabilire una connessione intellettiva tra opera e ascoltatore, piuttosto che quella intuitiva (percettiva) che si fonda invece sul ritmo, o quella simbolica evocata dalle combinazioni armoniche. Di conseguenza la melodia, qualora pensiamo alla musica come un linguaggio che debba mettere in relazione musicista e ascoltatore (una relazione tanto intellettiva quanto emotiva), assume una funzione primaria: trasmettendo informazioni, è l’uncino che il compositore utilizza per agganciare l’ascoltatore. Che le informazioni in oggetto siano meri fonemi (e quindi non abbiano un contenuto semantico) è irrilevante. Si tratta comunque di fenomeni fisici con un alto impatto psicologico e fisiologico. Del resto, non tutte le informazioni veicolano dati, e il concetto stesso d’informazione ha assunto valenze che vanno al di là di una visione esclusivamente «nozionistica» del sapere. Esiste un sapere «emotivo», uno «evocativo», uno «percettivo», saperi che sono altrettanto importanti di quello cognitivo, e sono commensurabili, sebbene con gli strumenti adeguati. Che poi qualcuno tra i compositori, una minoranza sia rispetto all’intero mondo della musica, sia all’interno del più ristretto contesto della «classica», abbia deciso di non avvalersi di melodia, ritmo e armonia, o comunque di rielaborare tali elementi all’interno di contesti nati da una precedente destrutturazione delle grammatiche musicali tradizionali, non modifica la sostanza delle cose. La musica, in quanto linguaggio, può essere anche concepita attraverso la generazione di grammatiche totalmente artificiali, e quindi fondate su basi estetiche e/o ideologiche. Che poi i risultati siano insoddisfacenti e che tali esperienze siano finite ai margini dell’attività artistica è un fatto stori47 Speciale Melodia co. Un esito che si sarebbe potuto facilmente prevedere, dal momento in cui si è pensato all’opera d’arte come il prodotto di un solo individuo, e non in relazione alla comunità, cui quello stesso individuo appartiene. Luca Francesconi Innanzitutto bisogna intendersi sulla definizione stessa della parola. Da un certo punto di vista, nell’ambito della musica moderna, porre il problema usando la parola «melodia» è forse poco preciso. Siamo soliti concepire la melodia come funzione della struttura armonica, dell’armonia tonale. In realtà si tratta di un concetto molto più vasto, che ha a che fare con alcuni principi fondamentali della logica percettiva. Ecco quindi che, dal punto di vista della percezione, il discorso viene immediatamente allargato a un approccio di tipo fenomenologico. Se si parla di melodia per quel che concerne la musica più recente, preferirei parlare piuttosto di una sequenza privilegiata di altezze con una struttura lineare. Si tratta di capire che tipo di comparazione può essere fatta fra un comportamento lineare, non lineare e, ampliando il discorso, poli lineare. Questo significa chiedersi se esista la possibilità di avere più linee, o addirittura dei comportamenti non lineari e lineari allo stesso tempo. Bisogna fare una piccola premessa: riguardo qualsiasi evento di tipo estetico oggi siamo sottoposti a una doppia pressione. Da una parte c’è quella che chiamo «pressione semantica», che si rivolge a quanto viene evocato: attinge all’archivio che abbiamo nella mente, un archivio storico legato alle tradizioni delle diverse culture. Esiste una semanticità della musica, un potere evocativo, il confine del quale è impossibile stabilire dal punto di vista fisiologico o storico. Il massimo di questo stato è rappresentato dalla citazione: il massimo della pressione semantica lo si ravvisa quando a essere citato è qualcosa di estremamente noto, per cui la nostra percezione estetica viene immediatamente attratta in quanto riconosce un modello. A questo punto non siamo più all’interno di un organismo estetico a sé stante, ma introduciamo un elemento estraneo che distrugge, dal punto di vista di una composizione nuova, l’elaborazione strutturale del pezzo in quanto distoglie totalmente l’attenzione dalla costruzione del compositore. Dall’altra parte possiamo immaginare invece una sorta di esplosione di energie fisiche pure in movimento, come materia organica, in evoluzione e trasformazione continua. La musica partecipa di quest’attività puramente fisica, incandescente: uno stato di trasformazione perenne. Al momento in cui si dà forma e si crea un equilibrio di tutte queste energie tipo, si può arrivare a costruire una figura musicale, un equilibrio unico di queste forme che può arrivare anche a cristallizzarsi in una forma definita, statica. Un procedimento lineare è un procedimento che prevede un certo andamento del tempo: in qualsiasi fenomeno lineare della percezione, il momento t4 o tn è legato al momento che precede da un’evidente connessione di valori in aumen48 tazione o in diminuzione. Allo stesso modo anche un crescendo è un elemento lineare, perché la pressione delle onde sonore nell’aria ha un andamento accrescitivo-cumulativo. Fenomeni lineari sono anche il ritmo e, evidentemente, la melodia. Un fenomeno non lineare, invece, fa riferimento a elementi unici, nel senso che ogni evento ha un suo set di informazioni parametriche autonomo, indipendente dall’elemento che l’ha preceduto e da quello che lo seguirà. Non ci sono necessariamente delle connessioni lineari, cioè un trapasso graduale di energia nei diversi parametri, da un elemento all’altro. In questo ambito abbiamo la cosiddetta musica seriale, in cui ogni momento è organizzato con un suo set di informazioni parametriche autonome. Quanto finora detto implica l’essere di due concezioni del tempo completamente diverse: una, quella lineare, ha una fenomenologia teleologica, va da un punto A ad un punto B; l’altra è una concezione del tempo che prevede invece una percezione istante per istante. Questa distinzione è fondamentale e implica un elemento altrettanto fondamentale: il lavoro sulla memoria. In che modo il compositore decide o meno di costruire una mappa geografica ideale del tempo nella memoria dell’ascoltatore? Si può ravvisare un tardo modernismo che implica l’inesistenza di una lingua comune che pretenda di costruire un oggetto secondo regole private o non necessariamente condivise con chi ascolta. Questo atteggiamento ha generato la cosiddetta musica contemporanea, sviluppandone anche la separazione dal pubblico: se un oggetto apparentemente ha senso solo per chi lo ha costruito, provocherà automaticamente un certo disinteresse negli altri. Quando l’identità degli oggetti musicali non cambia nel tempo, quando ciò che viene a verificarsi è piuttosto una rotazione, o un cambio di prospettiva, o un cambio di scala che lasciano inalterato il cromosoma tematico, allora anche l’identità dell’oggetto in questione, anche se viene diminuito o altro, non cambia: i rapporti interni, anche se moltiplicati per unità diverse, rimangono invariati. La mappa del tempo è una mappa della memoria; ne consegue che il principio di riconoscibilità e di ripetizione, di simmetria e di asimmetria, il principio di differenziare nella percezione degli eventi – e cioè il modo in cui il cervello capta la differenza fra un elemento A e un elemento B – sono tutti elementi che danno luogo a un diverso disegno e a diverse velocità di spostamento all’interno della mappa stessa. In questo senso il tempo è elastico e non cronometrico: è un’unità che si misura in senso qualitativo e non quantitativo. Il problema, così, si amplia e diviene un problema di scelte estetiche. Parlando di energie pure e di capacità evocativa – come diceva Luciano Berio, tutto quello che si fa significa anche se non lo si vuole – ne esiste una in riferimento a qualsiasi elemento musicale, anche al più astratto. Tant’è vero che un certo tipo di rumorismo può facilmente diventare la colonna sonora, ad esempio, di un certo tipo di cartoni animati, etc. La melodia o, meglio, qualsiasi tipo di figura musicale è uno stato «n» di una materia in continuo movimento. Questo stato è uno stato unico e in un certo qual modo irripetibile, che ha un dato e preciso equilibrio fra i parametri. Ogni parametro ha un suo quoziente di stabilità o instabilità: ritmo, timbro, altezze, etc. Questo stato «n» della materia è uno stato in Speciale Melodia evoluzione, per cui cambiando per esempio la quantità di pressione su uno dei parametri si può cambiare la faccia di questa figura in una certa direzione piuttosto che in un’altra. La riconoscibilità di un evento, di un oggetto musicale può essere determinato da tantissimi parametri e sub parametri, a cominciare dai due fondanti almeno per noi e cioè lo spazio e il tempo. Cosa importantissima nella melodia è la direzionalità delle note. Analizzando dei classici a volte si trova che gli intervalli sono di scarsissima importanza, e così anche per quel che concerne il ritmo. Più importante è la direzionalità di un certo salto intervallare. Ad esempio, se nella Quinta di Beethoven si cambia l’intervallo di inizio, la Quinta sarà comunque riconoscibile. E così anche se in una certa misura si prova a cambiarne il ritmo. Provando a lasciare inalterato ritmo e intervallo, e invece che fare «sol sol sol mi» si fa «sol sol sol si», quindi si va in su, il testo viene completamente stravolto, non riconosciuto nemmeno come citazione. Questo per dire che ci sono moltissimi aspetti che definiscono l’identità di un oggetto sonoro. La melodia in sé è un aspetto lineare, un andamento lineare, una serie di sequenze di suoni. Naturalmente ha dei limiti, come succede imprimendo energia a tutti questi parametri. Entro certi limiti la linearità funziona. La melodia è nata come fatto vocale, dunque le caratteristiche principali sono sempre state la restrizione dell’ambitus, la relativa semplicità degli intervalli, la ripetizione, la costruzione fraseologica e una serie di derivazioni. Molto importante è la limitazione di ambitus. Se facciamo un paragone e immaginiamo una melodia per orchestra, è certo possibile scrivere una grande melodia, anche con degli intervalli giganteschi che sarebbero impossibili per una voce sola, ma diventa ancora più importante il discorso della linearità.Ci vuole una coerenza parametrica, una gradualità, una collocazione a livello fraseologico, intervallare, vettoriale che renda comprensibile la connessione dei singoli elementi. Anche oltrepassando i limiti della voce rimane questo problema della coerenza lineare. E tuttavia la linearità non è una prescrizione: è una possibilità. Stiamo vivendo un momento in cui vi è un’enorme ricchezza di possibilità alla quale si può attingere liberamente, sempre che si conosca la materia che si ha fra le mani. Tornando alla melodia, il rapporto con la voce e col testo è sempre stato fondamentale, legato sia all’espressione, sia alla comprensibilità, a ragioni di tipo sociale, politico, liturgico, etc. Il canto gregoriano stesso limitava l’elaborazione melodica per motivi funzionali; andava così persa non solo comprensibilità del testo, ma anche quella collettività che era la funzione sociale del canto comune. Per quel che concerne la comprensione del testo, c’è stata probabilmente una doppia genesi: da una parte quella di tipo sociale-religioso, che prevedeva l’utilizzo della funzione melodica in senso rafforzativo del testo, dall’altra un’esplosione emozionale di origine popolare, che probabilmente ha dato origine non solo alla melodia di tipo romantico ma anche all’opera stessa. Quando la parola normale, quotidiana, quella dell’uomo semplice, della strada, non era più sufficiente a esprimere un sentimento che si faceva urgente nel proprio cuore e c’era il bisogno di urlare più forte l’urgenza di questa emozione, allora la corda vocale cominciava a vibrare e usciva così la nota più o me- no tenuta, più o meno intonata, stretta parente dell’urlo. Sia l’urlo sia il canto, infatti, sono degli stati di alterazione rispetto alla parola parlata: il primo legato a fenomeni istintuali e più animaleschi, se non addirittura infantili e quindi pre-verbali, il secondo è qualcosa di post-verbale, una trascendenza di tipo poetico che vira verso l’astrazione. Entrambi, comunque, sono al di qua o al di là della parola. Da questo punto di vista la melodia non è illegale: dipende dallo stato, dalla materia musicale che si trova in quel momento. Ogni stato è l’equilibrio, la combinazione unica di tutti i parametri musicali che a vicenda si compensano per evitare una fratturazione dell’informazione. Per avere un oggetto che abbia una sua comprensibilità, un suo valore, ci dev’essere una distribuzione di qualità fra i diversi parametri, distribuzione che può cambiare all’infinito. Per misurare un parametro ci sono vari sistemi, per esempio un quoziente di stabilità o di instabilità che permette di dare al parametro un certo valore: se il ritmo è stabile, ad esempio, il quoziente di instabilità sarà di conseguenza molto basso, e probabilmente succederanno altre cose ad altri livelli. La melodia come la conosciamo noi, è la melodia come funzione armonica: una sequenza privilegiata di note organizzate secondo dei principi di stabilità tale per cui c’è un equilibrio che in qualche modo privilegia l’aspetto delle altezze o/e della ripetizione e della costruzione fraseologica, è qualcosa di molto simile a uno stato melodico. C’è bisogno di una certa riconoscibilità, di un certo quoziente di ripetizione. Per questo è possibile un comportamento melodico, lineare, usando i parametri in modo anche molto diversificato. Oggi c’è un problema di saturazione delle informazioni e di disperato bisogno di riacquisire la capacità di discernere la qualità e, per fare questo, è indispensabile uno studio sulla percezione. Quello da realizzare è un laboratorio percettivo permanente, in cui si lavori divertendosi a ricostruire al buio e con quattro suoni una scala di valori qualitativi per poi aggiungerci tutto il resto. Lavorando con mondi a parte come quelli della parola e della semanticità della parola, si aprono moltissimi altri problemi di relazione. Si pensi solo a cosa avviene se a tutto ciò si vanno aggiungendo luci, immagini, personaggi in carne e ossa… Adriano Guarnieri Il concetto di melodia, termine tecnicamente sbagliato, non si è mai interrotto, come il basso continuo, del resto nemmeno con la serialità né con l’avanguardia. La melodia è una trave portante della struttura compositiva indipendentemente dal linguaggio. È sempre strutturalmente stata presente, perchè senza essa non sarebbe possibile identificare un’unità formale, intervallare, episodica. 49 Speciale Melodia Giovanni Mancuso Parlare della melodia per me è riferirmi al concetto di LINEA, l’archetipo del segno che viaggia nel tempo; non a caso nella cultura occidentale si tracciano linee nello stesso verso dello scorrimento del tempo. Quindi penso che abbia ancora grande spazio la ricerca all’interno di questo concetto così semplice ma fondante. La sua evoluzione – non stiamo qui a parlare di melodia nella sua connotazione generica di canto o di un certo tipo di canto – può secondo me delinearsi in parallelo con una indagine rinnovata sul ritmo. L’esplorazione di geometrie complesse può portare la linea a nuove proposizioni musicali. A proposito della tradizione musicale italiana recente ricordo come Castiglioni, Berio, Donatoni, Rubin de Cervin, Sciarrino tra gli altri siano stati tra i più fervidi costruttori di linee in una corrente forse ancora peculiare (italiana?) di tradizione del di-segno. Da parte mia il lavoro su questo aspetto archetipico non solo della musica ma della comunicazione stessa è ora centrale. Certo, depurarsi dalle illusioni di una comunicazione «espressiva» del concetto di melodia sarebbe importante per cominciare a esplorare quella complessità che un autore – forse uno dei più grandi inventori di melodie-linee – come Zappa intravedeva alla fine della sua vita nelle geometrie complesse delle sempre più sottili articolazioni ritmiche del segno. Concludendo invito ad ascoltare – tra gli illuminanti esempi di fecondazione tra concetto di linea e di ritmo – le musiche di Frank Zappa ed Ernesto Rubin de Cervin quali possibili prospettive per il futuro del di-segno e far notare che attorno a questo concetto ruotano le indagini apparentemente più lontane e inconciliabili...segno che siamo di fronte a uno dei problemi centrali della musica occidentale. Giacomo Manzoni Contesterei l’affermazione che il «concetto di melodia è stato da sempre fondamento della prassi compositiva»: per esempio nella grande polifonia classica e fino a tutto il contrappunto barocco il concetto di melodia non è separabile dalla sua «negazione», o sublimazione, la polifonia; né ho mai sentito fischiettare una melodia, che so, di Richard Wagner o di Debussy. Il fatto è che la musica è di per sé «orizzontale», in un certo senso è sempre melodia, né mi interessa indagare da un punto di vista estetico o formale che cosa questo propriamente significhi: vorrei solo che l’ascoltatore di musica d’oggi (ma lo raccomanderei moltissimo anche per quella di ieri e dell’altroieri) si togliesse dalla testa questo principio, e si abituasse ad ascoltare la musica nella sua totalità complessa, rendendosi conto che l’eventuale melodia è solo una parte, spesso non la più importante, di un di50 scorso a più livelli, di cui egli non dovrebbe trascurare nessuno. Esisterà mai in Italia un’«educazione all’ascolto», magari fin dalle scuole dell’obbligo, che possa realizzare questo obiettivo? Giordano Montecchi Il ripensamento della melodia nel corso del XX secolo può forse riassumersi in un assioma di fondo che ha largamente influenzato, quantomeno in forma implicita, le successive formulazioni estetiche e poietiche inerenti la moderna arte del comporre: «La melodia è la forma d’espressione più primitiva della musica». È uno degli aforismi di Schönberg risalenti agli anni 1909-1910, ed è a partire da questo convincimento, mai espresso da nessun altro compositore con tanta provocatoria nettezza, che la musica accademica del XX secolo e le varie generazioni dell’avanguardia, con la loro ossessione per il nuovo e la sperimentazione (speculare alla fobia per un passato trasformato in tabù) hanno costruito la loro carta d’identità e, con essa, la loro fortuna e la loro decadenza. In sede di teoria e di prassi compositiva, il XX secolo sembra aver modificato l’area semantica della «melodia», separando il concetto di melos dalle nozioni di canto e di cantabilità, a favore di una concezione più astratta del termine, inteso come sviluppo puramente orizzontale di un insieme di suoni, totalmente indipendente da ogni valenza di cantabilità. Il risultato è stato un deprezzamento della nozione comune di melodia che ha marciato di pari passo con la guerra di posizione condotta sul piano estetico, ideologico e anche politico contro il crescente successo di una nuova cultura musicale marcatamente popolare e industrializzata; una cultura i cui trionfi sono stati in gran parte determinati per l’appunto della smaccata supremazia in essa esercitata da due fattori inscindibilmente intrecciati: la melodia e il ritmo. Certamente il successo della popular music ha svolto un ruolo determinante nel saldare definitivamente la categoria del melodico all’idea di una musica primitiva, plebea, concepita per cantare e per ballare e, in quanto tale, giudicata priva di un intrinseco valore estetico. La catena delle equivalenze: melodia = cantabilità = banalità = tonalità = regressione = disvalore è diventato così un filo rosso argomentativo profondamente fuorviante e ancora ampiamente operante. L’attenzione al piano melodico è stata a lungo interpretata come una scelta regressiva, come cedimento del rigore compositivo a favore di un gusto più corrivo, più vicino alle aspettative del pubblico. In parallelo, a fronte di una melodia trasformatasi concettualmente in un retaggio mentale dal quale occorreva liberarsi, il compito dell’educazione musicale è stato inteso spesso come opera di emancipazione dell’ascolto dall’asfissiante prigionia della pura dimensione melodica, ovvero come sviluppo della capacità di accettare e apprezzare costrutti melodici sempre meno cantabili. In questa prospettiva, il XX secolo è stato rappresentato nei termini del confronto fra una musica d’arte il cui sforzo di Speciale Melodia continuo autosuperamento l’ha condotta a immolarsi nella lotta disperata e solitaria contro l’orda arrembante di una musica barbarica e primitiva, capace di soggiogare le masse ottuse proprio in virtù della sua natura essenzialmente melodica. A fronte di questi argomenti vecchi e usurati che ben conosciamo, la negazione più radicale dell’aforisma schönberghiano e dell’impianto teorico che vi ha fatto seguito, l’ha fornita Béla Bartók con la sua ostinata opera di emancipazione della monodia contadina di fronte ai suoi denigratori: «Questo tipo di musica, scrive il compositore ungherese, è certamente, dal punto di vista formale, quanto di più perfetto possa esistere. Ha poi una enorme forza espressiva, ed è nello stesso tempo priva di qualsiasi sentimentalismo come di ogni inutile orpello: a volte, anzi, è così semplice da sembrare addirittura primitiva (non già banale però!)». La rivoluzione bartókiana, consistente nel reintegrare la natura della musica attraverso l’inclusione e la nobilitazione estetica della tradizione contadina, ha esercitato sul sistema tonale un’azione demolitrice altrettanto radicale quanto quella dell’atonalità e dei dodici suoni. Senonché in Bartók il superamento della tonalità avviene nella direzione di una ritrovata modalità, emancipata nel suo libero uso dei modi diatonici, ossia in direzione di una concezione eminentemente melodica che nulla ha a che vedere con la tonalità e nella quale il profilo melodico diventa l’elemento musicale fondante da cui scaturisce anche la dimensione verticale armonica. A ciò Bartók aggiunge la piena e profetica consapevolezza di quanto le inflessioni melodiche e ritmiche connesse alla performance vocale o strumentale (ossia quella dimensione che, unitamente allo spessore timbrico, non è trasferibile su carta tramite la notazione) siano una componente musicale assolutamente essenziale, nei confronti della quale la teoria e l’estetica del Novecento hanno manifestato un’incomprensione o una sordità addirittura imbarazzanti. Ora quel secolo è trascorso. Il lascito di Bartók e dell’etnomusicologia ha fornito gli strumenti epistemologici più affidabili per affrontare l’attuale universo musicale. Alla nuova musicologia la dimensione melodica si presenta come una realtà ricchissima che, dopo essere stata per lungo tempo ignorata, spregiata o fraintesa, deve essere totalmente rivalutata. Mario Pagotto Nella mia musica l’elemento melodico è fondamentale. Vigilo con molta attenzione affinché le mie linee melodiche soddisfino alcuni parametri: memorabilità, funzione strutturale, forza espressiva. La memorabilità è data da: direzionalità melodica, impianto centripeto, durata. La funzione strutturale è determinata dal fatto che gli elementi costitutivi delle mie melodie sono gli stessi che innervano l’opera in toto. Ciò può accadere per composizioni brevi, ma anche per composizioni lunghe e complesse dove le necessità d’unitarietà e sviluppo organico dell’opera stessa sono assicurate dal medesimo D.N.A. che informa gli elementi melodici principali. Se gli elementi descritti fanno parte di una dimensione evidentemente fisiologica della melodia, essendo dimostrato che le capacità percettive, ricettive e di memorizzazione, senza le quali peraltro non esiste reale comprensione, hanno dei limiti umani precisi, l’ultimo elemento, la forza espressiva, è un parametro soggettivo e denota il gusto, la cultura e la sensibilità del suo artefice. L’essenza melodica non è garantita da nessun sistema sintattico musicale, tuttavia ne può essere inibita, o estraniata del tutto, da principi compositivi intellettualmente autogeni, come la serialità. La melodia ha una forte componente fisica-coporale. Chi la scrive e chi l’ascolta deve essere in grado di compenetrarsi con essa, viverla sul proprio corpo, sentirla come un’essenza vivente. La seconda metà del Novecento, viceversa, ha prodotto una frattura, per fortuna non insanabile, tra mente e corpo. In base ad avventate ideologie di rinnovamento musicale, la musica, e quindi la melodia, erano diventate solo un fenomeno intellettuale e concettuale che trovava fondamento in processi logici, anche affascinanti, ma estranei all’essere musica. Marcello Panni Luca Mosca È paradossale che nel momento in cui l’altezza delle note era diventata il principal feticcio, la melodia fosse quasi completamente scomparsa. Da allora è passato del tempo e la melodia è tornata a essere semplicemente uno dei tanti parametri con cui si costruisce, si «compone» la musica. Il ritorno alla Melodia La Melodia al giorno d’oggi? Bisogna innanzitutto chiarire cosa si intende per melodia: se vogliamo, possiamo definirla semplicemente come una successione di frequenze o altezze che si succedono nel tempo, e in questo senso essa è un elemento essenziale della struttura di qualsiasi musica - si diceva un tempo dottamente un «parametro» - insieme al ritmo, alla durata, al timbro, e come tale insopprimibile, anche nel più astratto serialismo. Oppure possiamo intenderla come una sequenza di note nell’ambito di un’ottava e mezzo circa (l’ambito della voce umana) riconoscibile all’orecchio (orecchiabile, appunto) con 51 Speciale Melodia una ritmica chiara e procedente per piccoli intervalli nell’ambito tonale o cromatico. Questo tipo di melodia, dominante nella musica eurocentrica dal Rinascimento in poi, base della costruzione tematica della musica strumentale,e trionfante nella musica lirica da Mozart fino a Wagner, dalla fine dell’800 e nel corso del XX secolo venne a perdere progressivamente la sua importanza, con l’abbandono simultaneo della tonalità (salvo che nelle sacche neoclassiche), e con l’avvento, nel secondo dopoguerra, del serialismo post- weberniano. Si verificò un processo analogo a quello delle arti figurative dove la «figura», il corrispondente della melodia nella musica, nell’incalzare dell’astrattismo considerato come destino ultimo dello spirituale nell’arte, venne mortificata a vantaggio del colore, della geometria, del materico. Con una differenza: mentre nella pittura l’astrazione raggiunse quasi subito, anche se a livello inconscio, una popolarità enorme, adattandosi rapidamente al gusto contemporaneo nella sua forma decorativa (quanti negozi e hotel hanno un aspetto «alla Mondrian!), la rinuncia alla melodia e alla sua caratteristica, quella di restare nella memoria, ha isolato progressivamente la musica che chiameremo «d’arte» – secondo una recente definizione per distinguerla da quella di consumo e che non è mai stata così florida! – allontanando il grosso del pubblico dall’ascolto delle novità. Una frattura irrimediabile, che crea una situazione insostenibile: la musica «d’arte» sinfonica e lirica oggi è l’unico campo dell’attività culturale dell’uomo moderno in cui si preferisce il vecchio al nuovo e si consuma al 95% quella del passato. Mentre nel cinema, nella letteratura, nella moda, la novità è attesa e apprezzata in tutto il mondo, nella musica la presenza di un titolo moderno o contemporaneo è considerato un handicap per il botteghino. E questo lo sa bene chiunque organizzi concerti o opera al giorno d’oggi. Ma ancora una volta la storia ha cambiato direzione, trovando, se non è troppo tardi, i suoi correttivi. Nella pittura il ritorno alla figura è generalizzato dal fenomeno della post-avanguardia, con un grande riscontro nel pubblico e nel mercato: la musica si affaccia in quest’alba del XXI secolo anch’essa ad una ennesima trasformazione. Abbandonando la vertigine dell’assolutamente coerente, con una spinta propulsiva che ha origine dal minimalismo americano, la nuova generazione di compositori si apre a una libertà di espressione che include un ritorno alla tonalità, e di conseguenza alla melodia riconoscibile, alla ritmica semplice, pur non escludendo tutto il patrimonio della sperimentazione del secolo scorso. Un ritorno salutare e auspicato dal pubblico: anche se nulla si ripete e l’innocenza non si riacquista! A salvarci dalla banalità e dall’ovvio l’unica arma a disposizione per un arte disincantata dopo l’ubriacatura della modernità e della post modernità, resta quella dell’ironia, che da Nietzche in poi è ancora e sempre un valido passe-partout o alibi che sia. 52 Quirino Principe Ha senso la melodia nella musica contemporanea? C’è melodia nella musica che oggi i compositori scrivono? A prima vista, le due domande sono strane e inammissibili. La musica è, per definizione, ritmo, melodia, armonia, timbro, velocità, intensità, dinamica. Non è possibile che esista un quadrato di soli tre lati: se ne ha tre, allora è un triangolo, non un quadrato. Una musica qualsiasi non può NON avere ritmo: magari sarà un ritmo irregolarissimo e continuamente mutevole, con valori ritmici infinitesimi ed esorbitanti dalla «mensura», ma un ritmo, anche ripugnante e miserabile, ci sarà sempre, per definizione. E così, qualsiasi sequenza di suoni intonati in maniera determinata è una melodia, per piatta e poco significativa che sia. Ogni emissione simultanea di più suoni diversi è armonia, per sgraziata e dissonante e volgare che sia. Una musica qualsiasi, un suono qualsiasi, sarà sempre prodotto da QUALCOSA, e quella qualsiasi fonte sonora (che deve esserci, altrimenti non c’è il suono) avrà comunque un timbro. Eccetera. Detto questo, non sono tanto stolido da non capire che cosa si intenda, ponendo la domanda in oggetto. Non fingo di non capire. Quando si domanda se abbia un senso e se possa esistere ancora la melodia nella musica d’oggi, s’intende una melodia che abbia un minimo di riconoscibilità e d’intonazione precisa, non aleatoria né fondata sugli infinitesimi di tono; che abbia un minimo di regolarità aritmetica; che possegga un minimo di simmetria geometrica; che sia ritmicamente precisa e memorizzabile; che ci collochi con una certa riconoscibilità in un determinato ambito tonale. Esiste, è legittimo che esista tutto questo? Rispondo. Nulla, nel linguaggio delle arti e nell’ordine delle percezioni accolte dai nostri sensi (che, si badi, sono strumenti di conoscenza intellettiva, non di percezione soltanto fisica!), nulla è illegittimo. Questa è una definizione filosofica, e ha valore come formula etica e come opzione estetica. Ma c’è una definizione storica e politica in senso lato: la tendenza a cancellare la melodia (dico, la tendenza, poiché di fatto una effettiva cancellazione è impossibile per definizione, secondo ciò che abbiamo detto sopra) è stata un’arma utilizzata dagli ideologi della musica (figure alquanto turpi) negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta per perseguitare i musicisti liberi, i compositori contro corrente e non pronti a piegare la schiena, gli interpreti che accettavano l’emarginazione pur di non eseguire composizioni brutte di autori potenti. Concludo con una constatazione. Il Novecento è stato il secolo delle feroci ideologie e delle tendenze persecutorie connesse con le avanguardie e con le neo-avamguardie, più intolleranti delle prime. Ebbene, la musica del Novecento che sopravvivrà e resterà sarà proprio quella di cui chiunque può ritenere nella percezione personale e conservare nella memoria grazie alla sua evidenza melodica: Britten, Sostakovic, Ligeti, Stravinskij, Poulenc, Hindemith, naturalmente la triade Schoenberg-Berg-Webern... e resteranno a lungo le musiche che lungo il secolo XX hanno saputo as- Speciale Melodia sociarsi al cinema: Bernard Herrmann, Erich Wolfgang Korngold, Max Steiner, Nino Rota, Ennio Morricone, Maurice Jarre, Jacques Ibert, Sergej Prokof’ev... Per fortuna sono esistiti loro, giustificando con la propria felice creatività melodica un secolo noioso, mentitore e ottuso. Enzo Restagno È un tema vastissimo... L’idea di melodia, così come si è formata nella musica moderna dell’Ottocento, comporta, all’interno della nostra cultura musicale, la complementarità con l’armonia: una monodia, quindi, accompagnata. La melodia in sé certamente esiste, ma è quasi un’astrazione. Il grande sviluppo della melodia ravvisabile nella musica dell’occidente, che raggiunge il culmine nella civiltà ottocentesca, si fonda su questa stretta complementarità: è l’armonia a valorizzare la melodia, a metterne in luce gli aspetti più segreti, etc. Verso la metà del Novecento viene a verificarsi una crisi, un’eclissi della melodia coincidente con una crisi del sistema armonico. I compositori russi, in particolare Stravinskij, Prokofiev, Shostakovich, o Britten in Inghilterra, continuano a coltivare la melodia, in quanto continuano anche a coltivare la dimensione armonica. Un’eccezione va però segnalata: quella di Alban Berg, che pur adottando, anche se non in maniera esclusiva, le tecniche dodecafoniche, le quali comportano la cassazione del sistema armonico tradizionale, nella sua scrittura conserva una vena di invenzione melodica molto significativa. Il punto più basso, quello della quasi negazione della melodia e della dimensione armonica, si raggiunge intorno alla metà del secolo: negli anni cinquanta, negli anni della nuova musica, si può parlare davvero di una reale indifferenza nei confronti della dimensione melodica e, ovviamente, della dimensione armonica. Si tratta di un’indifferenza totale, un’indifferenza che non nasce dall’oggi al domani, ma che va a recuperare dei precedenti nella cultura della scuola di Vienna dove già si formava la concezione della musica atematica: la possibilità di costruire un componimento musicale privo di temi, di armonia, usando degli incisi o anche soltanto degli intervalli. Ne scaturisce un linguaggio musicale totalmente indifferente al concetto di tema, che diviene qualcosa di cui altri autori rispetto al lavoro originale possono appropriarsi. Tendenza molto importante, che ha anche cercato di egemonizzare la cultura musicale senza mai riuscire in maniera completa. Esistevano difatti alternative, altre ipotesi, ad esempio la cosiddetta melodia delle parole: la melodia implicita nel parlato, nella voce che parla, che è una linea non molto visibile, e tuttavia di grande risorse musicali. Comincia a manifestarsi in certi passi della scrittura di Mussorgsky, per poi aprirsi addirittura a enunciazioni teoriche oltre che pratiche nelle opere di un compositore come Leos Janacek, considerato da tutti gli storici della musica il codificatore della melodia delle parole. Fa una certa impressione trovar- la applicata molto bene anche da un compositore lontano da quest’area culturale: l’americano Steve Reich realizza un componimento, Different Trains, per quartetto d’archi con voce recitante registrata a parte, basandosi proprio sul presupposto della melodia delle parole, che viene tradotta in inglese da Reich e chiamata speech melody. Per quel che riguarda un avvicinamento ulteriore al nostro tempo, forse più che di una ripresa della melodia in sé e per sé, che sempre in nome di quella complementarità tra melodia e armonia non avrebbe molto senso, va segnalata una ripresa d’interesse per la dimensione armonica. Cosa che avviene, per esempio, in un compositore giovane come l’inglese George Benjamin. Non casualmente, forse, perché Benjamin è stato allievo di Messiaen, il quale è stato un grande teorico dell’armonia. Tuttavia non si tratta di una vera e propria causa-effetto, in quanto molti altri allievi di Messiaen hanno invece percorso strade diverse. In Benjamin c’è un ritorno a un tipo di armonia che suona alle nostre orecchie in modo relativamente familiare, come potrebbe essere, anche se si tratta di tutt’altra cultura, questo parziale recupero della dimensione armonica e melodica in compositori russi della generazione successiva a quella dei maestri della nostra avanguardia storica: tutti compositori per i quali la dimensione armonico-melodica rivela una certa importanza e un certo interesse. Tuttavia se il discorso ha da essere centrato sulla melodia, l’esempio più importante e originale, corroborato per altro da un vastissimo successo, è quello di Arvo Pärt, colui che reintroduce la melodia nella musica del nostro tempo e lo fa partendo da presupposti assolutamente originali. Il suo linguaggio nasce da una meditazione prolungata, una riflessione fondata sulla melodia stessa, sulla parola che si trasforma in musica. Ha passato anni leggendo i salmi o altre scritture sacre, cercando di immaginare quella che avrebbe potuto essere l’immediata eco musicale di queste parole. Lui stesso mi raccontò di aver riempito, lungo il periodo di questo strenuo lavoro, quantità e quantità di quaderni di esercizi melodici, melodie che scaturivano appunto dalle letture dei salmi. Dal rinchiudersi in questo meditare, in questo sprofondare in quelli che sono i recessi più intimi della parola, acusticamente parlando, nasce una scrittura in cui la melodia è figlia della parola stessa e ne galvanizza le virtualità sonore, musicali e canore, non senza coinvolgere nuovamente la dimensione armonica. Tutto ciò viene realizzato con una notevole originalità, quello che gli studiosi da qualche anno hanno codificato come stile «tintinnabuli»: un procedere per triadi che però non segue la meccanica tradizionale del concatenamento degli accordi, ma regole più libere e diverse. Tutto ciò lo dico con la massima trasparenza, cercando cioè di spogliarmi di tutte quelle che sono le velleità polemiche che pur si sviluppano intorno a queste tendenze. Caratteristico della musica del Novecento è un elevato tasso di faziosità. Ravviso non come un dato negativo, ma un bene per la musica, per la cultura, per le arti, il fatto che ci siano delle forti spinte polemiche, dei contrasti, delle fazioni; tutto questo dà in qualche modo forza e tensione speciale al dibattito culturale. Naturalmente occorre poi che, con il tempo, questi elementi di faziosità in qualche modo si allontanino. 53 Speciale Melodia Veniero Rizzardi Difficile occuparsi di un’istanza estetica in riferimento a una categoria sempre più problematica come quella di «musica contemporanea». I musicologi preferiscono di solito parlare in termini storici, e narrare di un passato pur recente di pratiche e linguaggi riferibili alle avanguardie, quando a queste era riconosciuto un ruolo propulsivo nel quadro di un generale progresso socioculturale, non ancora quello di comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche. Inoltre, finché è rimasto in vita il suo sottosistema produttivo collegato al sistema che chiamiamo «musica colta» (teatri, orchestre, radio, società di concerti, etichette discografiche) – della «musica contemporanea» si è potuto parlare in termini oggettivi, come ambito di pratiche musicali descrivibili in modo abbastanza chiaro. Ma ora anche la «nicchia» è ridotta al quasi niente. Mutando di necessità le condizioni produttive, i paradigmi creativi mutano di conseguenza e così il ruolo sociale dell’artista (il compositore). Per fare un esempio, il venir meno delle possibilità di disporre di organici tradizionali (orchestre, gruppi cameristici, solisti preparati e motivati – nonché tempi adeguati per studio e prove) e il parallelo svilupparsi di tecnologie di trattamento del suono sempre più potenti ed economicamente convenienti, ha di necessità indirizzato i compositori delle ultime generazioni verso una concezione del progetto compositivo che non solo incorpora naturalmente la tecnologia come parte del progetto stesso, ma che rimette in discussione il rapporto scrittura-realizzazione sonora, composizione-esecuzione. Non si spiegherebbero altrimenti i contatti e le attrazioni reciproche tra il mondo della composizione artigianale e quello della club culture, dei dj, un rapporto, a mio parere, fatto di convergenze oggettive come anche di interessanti incomprensioni... Non sto osservando tutto il panorama, sia chiaro, solo la parte che ritengo più interessante (anche per via del recupero di pratiche antiche e/o tradizionali e anche della possibilità di una nuova ri-socializzazione della creazione musicale). In questa produttiva confusione dove mi pare che il centro focale dell’invenzione sia la costruzione del suono – o comunque la decostruzione di elementi sonoramente connotati – e la scommessa potenzialmente più remunerativa quella di inventare articolazioni formali congruenti, ecco, si potrebbe ripensare in modo nuovo non già all’astrazione categoriale della melodia ma, in una prospettiva più ampia, alla sua matrice concreta, il canto. Valerio Sannicandro Quando oggigiorno penso a un qualsiasi parame54 tro, elemento o aspetto musicale nella prospettiva della composizione, non riesco a scinderlo da un contesto (musicale) di più ampio respiro. Qualunque elemento di riflessione o analisi io scelga si inquadra sempre in un’ottica più ampia. Cercherò di esprimere questa idea partendo da alcune citazioni musicali letterarie: in Kontakte di K. Stockhausen il «timbro» (suoni elettronici) proviene dal ritmo (vibrazioni semplici e complesse); nella composizione spettrale l’«armonia» è sia una conseguenza che il risultato di un timbro (analisi spettrale). Se ne deduce quanto segue: in un lavoro compositivo basato sul suono e i relativi parametri (non necessariamente finalizzati aprioristicamente a una resa estetica), anche la melodia dovrebbe essere plasmata a partire da un altro punto di partenza che non sia quello di mera «invenzione» melodica. Sono convinto della necessità di lavorare su un aspetto «generale», e sviluppandolo e sviscerandolo all’estremo, ottenerne un contesto compositivo strettamente collegato a questo punto di partenza. In questo caso l’obiettivo sarebbe una linea melodica con differenti «comportamenti» e qualità, un tentativo di generare una «forma» unica. Poiché la mia disposizione personale è quella di focalizzare l’attenzione sul significato dello spazio nella sua natura acustica e architettonica, risponderò perciò al problema con una domanda che coinvolge un più ampio campo di ricerca: la spazializzazione è sempre un parametro «esterno» in un lavoro musicale? Come è possibile partire da questo e attraverso le sue proprietà fisiche giungere a un insieme (melodia inclusa) che «converga» in una «coerenza musicale» più alta? Alcune delle possibili risposte e approcci al problema sono i risultati del lavoro (ancora in progress) al progetto «ius lucis» fatto assieme a Serge Lemouton (Ircam 2006-2007). Alessandro Solbiati Il mio rapporto con la musica è sempre stato di tipo creativo. A partire dai miei 10-11 anni, su un organo elettrico di quell’epoca, «componevo» minuti e minuti di musica mia, tonalissima naturalmente, sebbene all’epoca non conoscessi nemmeno il concetto di tonalità. Infatti, chissà perché, mentre da un lato non sapevo vivere senza andare tutti giorni all’organo, dall’altra mi rifiutavo di «studiare musica». Quando poi mi convinsero, durante il periodo di studi pianistici, verso i 17-18 anni, mi gettai a capofitto, con pochissime basi culturali, nell’ascolto della musica del XX secolo. Volevo essere «contemporaneo» e registravo, Radiocorriere alla mano, tutto ciò che la radio proponesse di recentemente scritto. Tra le tante cose che mi affascinarono subito, una invece mi colpì negativamente: mi sembrava che la musica definita «contemporanea» avesse perduto, o meglio Speciale Melodia non avesse mai trovato, un proprio modo di cantare. Seppur in modo molto naïf e poco cosciente, avevo la percezione che questo fosse un forte sintomo di crisi (intendo crisi nel senso etimologico di ripensamento, di fase di passaggio importante e ineludibile). Così decisi, lancia in resta, che il cuore del mio nascente comporre dovesse essere il ritrovamento, la re-invenzione di una dimensione melodica. Poiché sto parlando del mio 1976, va da sé che ignoravo che già da tre anni era mancato il grande Bruno Maderna, che in modo tanto affascinante aveva lavorato sul melos, nella straordinaria musica del suo ultimo periodo. E comunque non era stato l’unico. Conobbi Franco Donatoni. Malgrado egli sia rimasto sempre un punto di riferimento fondamentale per me, non posso dimenticare la faccia che fece quando, portandogli il mio primo lavoro un poco compiuto, i Sei piccoli pezzi per clarinetto e pianoforte, pubblicati nel 1978 da Suvini Zerboni, gli descrissi il sesto come una lunga melodia del clarinetto. Egli mi guardò e mi disse: «Ma, vuoi dire “sequenza”, vero!?». La stessa parola «melodia» era in qualche modo inaccettabile. Non posso qui ricostruire il tracciato del mio percorso compositivo e mostrare quanta importanza abbia in esso il lavoro e la riflessione per la ricostruzione di una sempre maggiore pregnanza melodica, perché richiederebbe pagine e pagine. Voglio però citare un mio contributo già esistente: nel dicembre 2002, il Teatro Comunale di Monfalcone, nella serie dei suoi «Quaderni di cultura contemporanea», ha pubblicato un numero da me scritto, intitolato Ah, lei fa il compositore? E che genere di musica scrive? – Quattro saggi su un’esperienza. Nel lungo capitolo dedicato a «che genere di musica scrivo», dopo aver parlato di parametri quali figura, memoria, forma, armonia e così via, vi è un’appendice intitolata significativamente La dimensione melodica, un particolare affetto. Il suo concetto base è la serena coscienza del fatto che ogni musica, di ogni tempo e luogo, ha avuto un proprio modo peculiare di «cantare». La musica europea a cavallo della seconda guerra mondiale si è trovata nella difficile situazione di dover sospendere ogni forma di cantabilità al fine di rompere un’equazione storicamente radicata fino ad essere involontaria, un’equazione ingiusta e comunque desueta, quella tra melodia e tematismo, e quindi tra melodia e tonalità. Si è avuta la percezione che l’unico melos possibile fosse di matrice tonale. Per «non essere tonali», quindi, bisognava «non essere melodici». Noi siamo figli, anzi nipoti o bisnipoti, di coloro che hanno dovuto compiere quel passo, inflessibile, doloroso e necessario. Abbiamo quindi tutte le possibilità, e fors’anche il dovere, di cercare nel procedere affascinante del pensiero musicale europeo, le modalità per un nuovo modo di «costruire melodia», di «cantare», nuovo sì, ma pieno di radici storiche, culturali e psico-fisiologiche, cioè nuovo ed antico insieme, come tutte le cose importanti. Javier Torres Maldonado Parlare di struttura melodica oggi pone più che mai il problema dell’inscindibilità degli elementi tecnico-costruttivi della musica stessa. L’interdipendenza delle diverse dimensioni della nostra «arte del tempo» ci obbliga a considerare, all’interno di un’architettura musicale, che una struttura melodica spesso è concepita tenendo conto di dimensioni non solo orizzontali ma anche temporali, spaziali, timbriche e verticali. Innumerevoli sono gli esempi di opere di compositori contemporanei in cui l’interdipendenza degli elementi musicali è, volutamente, quasi inscindibile. Persino quando, al momento di lavorare a un nuovo brano, il compositore non può sapere quale sarà il risultato preciso di un’operazione perché in quel momento lavora applicando parametri diversi a interi processi indipendenti, egli lo fa considerando il risultato percettivo globale dell’evento sonoro. Un chiaro esempio di questa maniera di agire lo troviamo in alcuni lavori di Ligeti, come il primo movimento del Concerto per pianoforte, in cui le altezze melodiche con le quali inizia lo strumento solista sembra siano state derivate indipendentemente dall’ostinato ritmico – o «tema paradigmatico» – che le percorre, come se avendo due cassetti, in uno di essi Ligeti avesse messo le ripetizioni del tema paradigmatico in sequenza mentre nell’altro avesse depositato una grande sequenza di altezze; il risultato quindi è dato dalla combinazione del numero esatto di valori ritmici presi dal primo di essi applicato a un numero esattamente corrispondente di altezze prese dal secondo, tecnica che ricorda poi quella dell’hoquetus. Una delle caratteristiche più significative che differenziano le musiche del nostro tempo da quelle del passato è la complessità dei diversi livelli di costruzione; in questo senso è importante considerare i diversi strati in cui le microstrutture melodiche penetrano nella forma musicale: a parte alcune delle mie opere in cui ciò avviene, come quella che è eseguita in questa edizione della Biennale di Venezia, Esferal – in cui il materiale melodico percorre diversi strati di velocità di scorrimento temporale, spesso sovrapposti –, penso a un modello interessantissimo che è quello di Bhatki di Jonathan Harvey, in cui all’ascolto l’intera composizione rivela la centralità di uno spettro che è spesso melodia ma anche luminosità verticale, timbro, e che in un certo senso dà forma all’intera composizione. Non potendo esaurire in nessun modo l’argomento in poche parole, un ultimo spazio obbligato devo dedicarlo all’adozione nella musica d’oggi di tecniche di strutturazione melodica derivanti da musiche extraeuropee o di origine popolare. L’aspetto più interessante che si può cogliere nel lavoro di diversi compositori in questo senso risiede nel livello di riconoscibilità che queste tecniche offrono all’ascolto; tale aspetto permette di ripensare gli equilibri tra ripetizione, variabilità e struttura formale. 55 Speciale Melodia Paolo Troncon Se dovessimo collocare la domanda all’interno di un’ipotetica storia del pensiero estetico-compositivo della melodia, non credo sarebbe del tutto corretto identificare e descrivere il suo «travagliato» processo evolutivo nelle prassi compositive del XX secolo come un «progressivo ripensamento». Si potrebbe forse dire che nel corso degli anni (e in occidente, a differenza che in altre culture, grazie soprattutto a stimoli di natura intellettuale) sono avvenuti progressivi «svelamenti» (di ciò che c’era, ma non appariva) delle intrinseche possibilità e dinamicità che la componente melodica può avere nel contesto compositivo. I risultati hanno influenzato sia le prassi creative dei compositori sia il modo in cui la stessa melodia è stata riconsiderata quale veicolo di comunicazione di stati emotivi soggettivi. Per questo motivo risulta difficile assumere il concetto di struttura melodica come punto fermo per pensare al problema compositivo generale, analizzare cioè quale possa essere il suo contributo nell’ambito del comporre odierno. Pensare alla struttura melodica è infatti esso stesso un problema ancora irrisolto nell’ambito del pensiero estetico-compositivo contemporaneo, perché la concettualizzazione rimanda a questioni aperte o non ancora bene assimilate. E a questo stato ha contribuito, nel bene e nel male, forse anche l’accelerato sviluppo dell’analisi musicale in Italia, fenomeno di rilievo solo da una quindicina d’anni. Credo utile allora fare una riflessione sul passato prima di tentare una risposta alla domanda titolo di questo contributo. Negli ambienti della cosidetta sperimentazione è accaduto a mio parere un fraintendimento: si è supposto che particolari funzioni strutturali della melodia ritenute più consone ai linguaggi «contemporanei» (a ben vedere più che altro per ragioni di stile) potessero in qualche modo diventare il paradigma migliore, se non unico, per possibili sviluppi compositivi successivi. Qualche esempio. Nel campo intervallare: l’esaltazione della funzione puramente diastematica (salti, cambi di registro, ecc.) a discapito di quella «semantica» (il «valore» espressivo dei singoli intervalli). Nel campo ritmico: l’anestetizazzione della componente pulsiva-muscolare (con l’abuso di raggruppamenti irrazionali, con l’ordinamento delle sequenze degli accenti avulsi da contesti percettivi, ecc.). Nel campo sintattico-fraseologico: la negazione della tradizionale strutturazione dialetticoretorica che ha fatto emergere le componenti forse più «naturali» della melodia quali silhoutte, contorni, compressioni, dilatazioni, apici, ecc. Un altro fraintendimento è avvenuto sul concetto di «opera originale», parole culto della composizione sperimentale, che ha portato a negare molte funzioni della melodia solo perché ritenute «tradizionali». Molta musica del Novecento si è basata sulla semplice categoria logica del «negativo», si è cioè evoluta (ha definito il «nuovo») soprattutto attraverso la negazione di assunti grammaticali, sintattici, espressivi, formali. Ma l’equazione, un po’ necrofila, tra «originalita» e «novità» 56 da una parte e «negatività» dall’altra, ha contribuito ad asfissiare varie componenti vitali della musica (e quindi della melodia) che invece non hanno mai smesso di mostrare la loro vitalità. Il lavoro svolto da molti compositori e intellettuali del Novecento è stato fertile e fondamentale nello svelare ed esaltare componenti che precedenti modi di concepire l’apparato melodico trattenevano nascoste. L’errore è stato forse quello di pensare che l’essenza di questo svelamento fosse un fatto totalmente nuovo, che potesse rappresentare una rottura con il passato e quindi un nuovo inizio fondante. Così non è stato: evidentemente la ricerca e la sperimentazione hanno portato anche a qualche travisamento, perché la «melodia» — pronosticata finita come componente del linguaggio musicale contemporaneo – non è morta affatto, anzi nell’era della globalizzazione (questo sì fattore veramente nuovo e «contemporaneo»!) sta vivendo molto floridamente e in tutti i generi musicali. Ma davvero poi i processi compositivi sulla melodia usati nella musica contemporanea sono così diversi da quelli impiegati dai compositori del passato? Al di là degli stili tecnico-compositivi e di quelli linguistici adottati, e tralasciando fattori quantitativi, dal punto di vista dei processi cognitivi io credo, ma anche l’analisi lo ha dimostrato, che le manipolazioni compositive sulla melodia operate da Bach o da Beethoven nelle loro opere siano sullo stesso livello di complessità di quelle fatte da Boulez o da Stockhausen. Si potrebbe dire, pensando al senso cognitivo, che la ricerca della «coerenza» linguistica (principio basilare e molto ricercato nella composizione musicale) abbia spesso portato i compositori dello scorso secolo a operare scelte tecniche orientate verso il controllo della sfera razionale-intellettuale piuttosto che di quella delle relazioni sensoriali. La «musica dell’emisfero sinistro» ha quindi battuto quella del destro, almeno secondo molti dei compositori eletti quali più rappresentativi della modernità dal pensiero musicologico dominante. Non a caso molti compositori ancora oggi sentono la necessità di spiegare prima dell’esecuzione delle loro opere i processi compositivi adottati, per «introdurre» gli ascoltatori alla fruizione delle loro composizioni, come se la ragione, il «senso» della musica potesse risiedere nelle intenzioni intellettuali degli autori e le parole potessero giustificare ciò che l’orecchio magari rifiuta. Io credo che nel mondo di oggi, molto diverso solo da quello di quindici anni fa, molte posizioni estetiche del secondo Novecento abbiano del tutto perso la loro «attualità» a causa della loro forte contraddizione con la «contemporaneità», e che le nuove generazioni di compositori abbiano gli strumenti e la possibilità di ri‑pensare in modo nuovo alla funzione della melodia nel tessuto compositivo. Come? Innanzitutto con un’opera di pulizia concettuale rispetto a tare ideologiche oramai datate e alla cattiva o incompleta definizione dei parametri musicali che concorrono alla concettualizzazione della struttura melodica. Manca a tutt’oggi, per esempio, nel linguaggio comune – e anche in quello tecnico (al di fuori degli ambienti specialistici) – un vocabolario sufficientemente ampio per poter esprimere e comunicare molti aspetti significativi del «funzionare» melodico. Credo inoltre che la ricerca possa avvaler- Speciale Melodia si dello sviluppo delle nuove tecnologie, non tanto per l’utilizzo di strumenti musicali nuovi, quanto e soprattutto per analizzare le profonde trasformazioni che tali tecnologie stanno portando nei costumi culturali del mondo in cui viviamo. In questo senso credo allora che la «melodia» possa ancora essere testimone della contemporaneità, che possa tradurre le tensioni soggettive e intellettuali dell’artista di oggi e che possa quindi essere un valido soggetto nel rinnovamento del linguaggio musicale. Fabio Vacchi Mi rifiuto di rilasciare dichiarazioni su questo tema. Forse questo può avere un qualche significato... Giovanni Verrando A priori nessun elemento puo’ essere considerato estraneo al linguaggio musicale odierno. Semmai, per giustificare in modo convincente le scelte linguistiche appaiono decisivi l’atto della contestualizzazione e la dimostrazione di una consapevolezza. Nel caso della melodia, ad esempio, sono molte le questioni alle quali un autore deve dare risposta: è interessante la gerarchia degli elementi musicali che la struttura melodica può portare con sé? Oppure possiamo sviluppare il concetto di melodia in una struttura priva di gerarchie? Ci sono ragioni extra-musicali che ne giustificano l’uso? Le risposte a queste ed altre domande dimostrano consapevolezza, e senza di essa non c’è efficacia. Nell’epoca della personalizzazione dei linguaggi, la consapevolezza tecnico-storica è, per l’autore, condizione di pari importanza alla forza dell’immaginario. L’Ircam a convegno sul concetto di melodia S i è da poco concluso il convegno internazionale dedicato alla melodia e alla funzione melodica come oggetto d’analisi, tenutosi all’Ircam di Parigi (17-18 ottobre) e coorganizzato dalla SFAM (Societé Française d’Analyse Musicale) e dall’Ircam. I vari interventi (più di una ventina) hanno offerto un panorama estremamente vasto su un concetto, quello di melodia, le cui ramificazioni teoriche, analitiche e compositive costituiscono un attivo campo di studi nella ricerca musicologica contemporanea. Studiosi provenienti da orizzonti differenti, dall’etnomusicologia alla filosofia della musica, passando per la composizione, la matematica, l’informatica, l’epistemologia hanno accettato la sfida dell’interdisciplinarità, contribuendo a offrire un’immagine estremamente complessa della riflessione contemporanea sulla melodia. Due avvenimenti maggiori hanno accompagnato le varie presentazioni. All’occasione della pubblicazione in francese delle Regole della musica (éditions Delatour), gli autori (Mario Baroni, Rossana Dalmonte e Carlo Jacoboni) hanno discusso alcuni aspetti del loro comune interesse per la ricerca sull’analisi melodica, in particolare nei suoi aspetti computazionali. Partendo dal concetto generale di grammatica musicale quale sistema ordinato di regole, gli autori hanno ritracciato il percorso teorico che ha condotto all’elaborazione di un modello informatico per le arie di cantata di Giovanni Legrenzi. L’interesse di un approccio computazionale al problema della melodia è innanzitutto quello di verificare il legame fra regole analitiche e regole compositive e confrontare quindi i risultati ottenuti con l’esperienza percettiva dell’ascoltatore. La presentazione teorica della ricerca condotta dagli studiosi italiani è stata quindi accompagnata da vari momenti musicali, nei quali le arie prodotte dal computer venivano interpretate al pianoforte e alla voce, di volta in volta accompagnate dalla versione originale di Legrenzi. Un secondo momento musicale ha accompagnato i lavori del convegno. La pianista Thérèse Malengreau ha proposto, al termine della prima giornata, un Concert-Analyse sul genere dell’arabesco quale «ossessione della linea pura e ideale, del movimento immobile, dell’ornamento vegetale». E benché la questione del legame fra arabesco e melodia resti, come d’altra parte la maggior parte delle questioni del convegno, senza risposta, queste due giornate di studio hanno sicuramente offerto un punto di partenza per un rinnovato interesse per il concetto di melodia e le sue molteplici ramificazioni nei vari campi della ricerca musicologica contemporanea. (m.a.) 57