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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia

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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Antologia degli autori più
rappresentativi della psicologia
Contenuti
Gordon W. Allport e la
natura del pregiudizio
Jerome S. Bruner, la teoria Erik H. Erikson, i cicli vitali Sigmund Freud, la nascita Kurt Lewin, la teoria della
dell’istruzione e la cultura e la crisi d’identità
della psicoanalisi e il
personalità e la dinamica
dell’educazione
disagio della civiltà
di gruppo
Jean Piaget e lo sviluppo Lev S. Vygotskij, i processi
intellettivo nell’infanzia e cognitivi e l’origine del
nella fanciullezza
linguaggio
Obiettivi
• Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della psicologia.
• Entrare nel vivo delle nozioni e dei concetti teorizzati dai principali autori
della disciplina, attraverso la lettura di brani tratti dalle loro opere più
importanti.
Gordon Willard Allport e la
natura del pregiudizio
➜
Gordon Willard Allport
Nacque nel 1897 a Montezuma (Indiana) e
morì nel 1967, a Cambridge (Massachusetts).
In qualità di psicologo e docente all’Università di Harvard, egli ha compiuto studi sul
comportamento, sulla personalità e, soprat-
tutto, sui pregiudizi. Le sue opere principali sono: La personalità, un’interpretazione
psicologica (1937); L’individuo e la sua religione (1950); La natura del pregiudizio
(1954); Psicologia della personalità (1965).
❱❱ 1.Pensar male senza ragione
Forse la più sintetica definizione del pregiudizio è questa: “Il pensare male degli altri
senza una ragione sufficiente”. Questa breve definizione contiene i due elementi essenziali di tutte le altre: il riferirsi ad un giudizio infondato e il colorito affettivo.
È tuttavia una definizione troppo breve per essere del tutto esauriente.
In primo luogo, essa si riferisce soltanto al pregiudizio negativo. Si possono avere
dei pregiudizi verso qualcuno in favore di altri; si può pensare bene di loro senza
fondate ragioni.
La definizione proposta dal New English Dictionary tiene conto sia del pregiudizio
positivo sia di quello negativo: “Un sentimento, benevolo o malevolo, verso una
persona o cosa, antecedente all’esperienza oggettiva o senza tener conto di questa”.
Ma se è importante tenere presente che il pregiudizio può essere tanto favorevole che
sfavorevole, nondimeno è vero che il pregiudizio etnico è per lo più di carattere negativo […].
La frase “pensare male degli altri” è, ovviamente, un’espressione ellittica da intendersi come implicante sentimenti di disprezzo o disgusto, di paura o avversione, come
pure le varie forme di generica antipatia che spinge a parlare male della gente, a fare
delle discriminazioni o a comportarsi aggressivamente.
In modo analogo, dobbiamo chiarire l’espressione “senza una ragione sufficiente”.
Un giudizio è immotivato, quando non poggia su elementi di fatto.
Un umorista definì il pregiudizio come l’atto di “distruggere qualcosa che ancora non
si è costruito”.
Non è facile stabilire in che misura sia necessario un dato di fatto per giustificare un
giudizio.
Una persona che si nutra di pregiudizi asserirà, per lo meno, di avere ragioni sufficienti per avallare il suo punto di vista. Essa ci parlerà delle sue esperienze negative
a contatto con i profughi, cattolici od orientali. Ma, nella maggior parte dei casi, è
evidente che tali fatti sono insufficienti e di poco rilievo. Essa è vittima di un “processo autonomo selettivo” dei suoi ricordi, mescolati con dicerie venutegli all’orecchio
in seguito e generalizzate.
2
Gordon Willard Allport e la natura del pregiudizio
Non è possibile che uno conosca tutti i profughi, cattolici od orientali. Pertanto, ogni
giudizio negativo formulato su questi gruppi nella loro globalità, strettamente parlando, è un esempio di pensiero calunnioso privo di ragione sufficiente.
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
❱❱ 2.Generalizzazioni
La generalizzazione è forse la caratteristica più comune della mente umana. Da una
minima serie di fatti, noi tendiamo a compiere generalizzazioni su vasta scala. Un
ragazzo sviluppò l’idea che tutti i norvegesi fossero dei giganti perché rimase impressionato dalla gigantesca statura di Ymir, l’eroe della saga omonima, e per molti anni
l’idea di incontrare un norvegese gli incuteva paura. Ad un tale capitò di conoscere
tre inglesi personalmente, e continuò a dichiarare che tutta la razza inglese possedeva gli attributi che aveva osservato in quei tre. Esiste una base naturale per spiegare
questa tendenza.
La vita è troppo breve e le esigenze pratiche a cui dobbiamo far fronte sono tali da
non permetterci il lusso di riconoscere sempre pubblicamente la nostra ignoranza.
Noi siamo costretti a decidere per classi quali siano gli oggetti buoni e quali i cattivi.
Non possiamo valutare singolarmente ogni oggetto che esiste al mondo. Dobbiamo
accontentarci di classificazioni grezze, già pronte per l’uso.
Non ogni generalizzazione costituisce un pregiudizio. Alcune sono semplicemente
dei concetti errati, laddove noi organizziamo informazioni sbagliate.
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
❱❱ 3.La resistenza del pregiudizio
Se una persona è in grado di rivedere i suoi giudizi errati alla luce di nuove prove,
egli è immune dai pregiudizi.
“Un pensiero diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di
nuove conoscenze”. Un pregiudizio, a differenza di un semplice concetto erroneo,
resiste attivamente a qualsiasi prova della realtà.
Noi tendiamo a liberare forti cariche affettive allorché sentiamo che un nostro pregiudizio è minacciato dal pericolo di contraddizione. Pertanto, la differenza che separa un comune giudizio errato dal pregiudizio consiste nella possibilità offerta dal
primo di discutere e rettificare la nostra opinione senza resistenze emotive.
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
❱❱ 4.Le categorie
Per i nostri scopi è importante comprendere ciò che accade allorché i pregiudizi entrano in conflitto con l’evidenza. È sorprendente come in molte circostanze le categorie resistano tenacemente. Dopo di tutto, noi abbiamo strutturato le nostre genera
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
lizzazioni in modo che ci tornino utili. Perché variarle ad ogni nuovo evento che
avrebbe il potere di sconvolgere tutto il sistema?
Selettivamente ammettiamo nuove prove di fatto solo allorché esse non contrastano
con le categorie basate sulle credenze precedenti.
Uno scozzese parsimonioso ci soddisfa in quanto conferma il nostro giudizio al riguardo. È piacevole dire: “L’avevo detto”. Ma se noi incontriamo una prova di fatto
che contraddice i nostri preconcetti, è probabile che essa non sia tanto facilmente
accettata.
Una comune inclinazione mentale permette alla gente di conservare un pregiudizio
anche di fronte a molte prove che lo contraddicono. Si tratta della tendenza ad ammettere eccezioni […]. Qualora un fatto non possa adattarsi ad uno schema mentale
ne viene riconosciuta l’eccezione, ma lo schema mentale viene strenuamente difeso
affinché non corra il rischio di destrutturarsi.
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
❱❱ 5.Il pregiudizio etnico
Il pregiudizio razziale si manifesta nel rapporto con i singoli membri dei gruppi respinti. Ma nell’evitare un negro nostro vicino di casa o nel rispondere alla richiesta
di “Mr. Greenberg”, noi modelliamo la nostra azione accordandola ad una generalizzazione categoriale che investe tutto il gruppo.
Noi non badiamo quasi per nulla alle differenze individuali e trascuriamo il fatto
importante che il negro X, nostro vicino, non è il negro Y, che eviteremmo per ragioni valide e sufficienti; e che Mr. Greenberg, che può essere un gentiluomo, è diverso
da Mr. Bloom, di cui abbiamo ben ragione di dolerci. Questo processo è tanto comune che noi potremmo definire il pregiudizio nel modo seguente: atteggiamento di
rifiuto o di ostilità verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente in
quanto appartenente a quel gruppo, e che pertanto si presume in possesso di qualità
biasimevoli generalmente attribuite al gruppo medesimo […].
Il pregiudizio etnico è un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in
malafede. Può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata. Essa può essere
diretta a tutto il gruppo come tale, oppure ad un individuo in quanto membro di tale
gruppo. Il vero effetto del pregiudizio, così definito, è quello di porre il suo oggetto
in una condizione di svantaggio, immeritato sulla base del comportamento obiettivo.
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
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Gordon Willard Allport e la natura del pregiudizio
❱❱ 6.Italiani: meno artisti e più religiosi
Tabella 4
Artisti
Impulsivi
Passionali
Collerici
Amanti musica
Fantasiosi
Assai religiosi
Prendiamo il caso degli italiani. La tabella 4 dimostra la percentuale degli studenti che attribuì una determinata caratteristica a questo gruppo nazionale. La riduzione dei valori in quasi tutta la serie (tranne
che per la voce “molto religioso”) è dovuta al fatto che gli studenti (costretti ad
effettuare cinque scelte) disseminarono le
loro preferenze tra tutte le 84 caratteristi30
20
- 10
che assai più di quanto avvenne nel 1932.
21
33
+ 12
Nella prima prova, infatti, gli studenti
erano stati assai concordi sulle caratteristiche da attribuirsi agli italiani.
Gilbert commenta come segue: La figura dell’italiano artista e vivace, qualcosa di
misto tra il musicista geniale e l’allegro suonatore di organetto, è ancora valida; ma
si tratta di un’immagine assai sbiadita rispetto a quell’iniziale. Notevole è la riduzione dei tratti artistici – artista, amante della musica, fantasioso – come pure di quelli
relativi al temperamento – passionale, impulsivo, collerico.
L’incremento della religiosità è probabilmente dovuto all’interesse suscitato dai pellegrinaggi dei cattolici a Roma durante il giubileo del 1950. Questo fatto ci dimostra
la contingenza degli episodi e dei fatti che concorrono a formare le immagini mentali relativi ai gruppi etnici.
1932
53
44
37
35
32
1950
28
19
25
15
22
Differenza
- 25
- 25
- 12
- 20
- 10
Gordon Willard Allport, La natura del pregiudizio,
trad. M. Chiaranza, La Nuova Italia, Firenze 1973
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Jerome Seymour Bruner, la
teoria dell’istruzione e la cultura
dell’educazione
➜
Jerome Seymour Bruner
Nasce a New York nel 1915; è uno psicologo
che offre una significativa impronta alla psicologia cognitiva e alla psicologia educativa.
Nel 1952, egli organizza negli Stati Uniti
il Progetto cognizione che lo rende famoso
e lo fa conoscere anche in Europa.
Durante un viaggio in Europa conosce sia
l’opera Piaget sia quella Vygotskij. Ritornato, nel 1960, negli Stati Uniti, fonda il
Centro di studi cognitivi, aderendo pienamente alla psicologia cognitiva.
L’approfondimento della ricerca di Bruner,
rispecchiando il filone della psicologia
cognitiva, è contenuto soprattutto nei
seguenti scritti: Verso una teoria dell’istruzione (1966); La ricerca del significato
(1990); Il processo d’apprendimento nelle
due culture. Il processo educativo dopo
Dewey (1960); La cultura dell’educazione
(1996); La mente a più dimensioni
(1986).
❱❱ 1.I campi del sapere e la loro rappresentazione
Ogni idea, ogni problema o insieme di cognizioni, possono essere presentati in termini sufficientemente semplici da consentire ad ogni scolaro di comprenderli in una
forma riconoscibile.
La struttura di ogni campo del sapere può essere caratterizzata secondo tre criteri,
ciascuno dei quali influisce sulla capacità da parte del discente di dominare un determinato campo: il modo in cui viene rappresentata, la sua economia e la sua effettiva
efficacia. Modo, economia ed efficacia variano in relazione alle diverse età, al diverso “stile” dei discenti e alle diverse materie.
Ogni campo del conoscere (ovvero ogni problema all’interno di tale campo) può
essere rappresentato in tre modi:
1. Mediante azioni adatte al raggiungere un certo risultato (rappresentazione attiva).
2. Attraverso immagini, che riassumono, o grafici che, senza definire in maniera
completa un concetto, lo rappresentano (rappresentazione iconica).
3. Tramite proposizioni logiche, che derivano da un sistema simbolico (rappresentazione simbolica).
Jerome S. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione,
Armando, Roma 1995
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Jerome Seymour Bruner, la teoria dell’istruzione e la cultura dell’educazione
❱❱ 2.Gli “universali del linguaggio”
Per “Universali del linguaggio” s’intendono delle caratteristiche o proprietà dei linguaggi naturali, comuni a tutti i linguaggi […].
Per chiarire il concetto di “universale”, si può portare un esempio dalla lista di “universali” trovata da Greenberg nell’analisi di campioni linguistici e delle grammatiche
di trenta linguaggi storici dei più lontani gruppi linguistici (dal basco al finlandese,
dall’italiano allo swahili, al thai, maori, giapponese e così via).
In base a tale analisi, Greenberg elenca ben quarantacinque universali, che si riferiscono soprattutto all’ordine di morfemi e parole nelle frasi.
Per esempio, dei sei diversi ordini possibili di soggetto (s), verbo (v) e oggetto (o)
nelle frasi enunciative (svo, sov, vos, vso, osv, ovs) Greenberg ne riscontra nei trenta
linguaggi soltanto tre: svo, osv, ovs, e, quindi, enuncia il seguente universale: “Nelle
frasi dichiarative con soggetto nominale e oggetto, l’ordine dominante è quasi sempre
quello in cui il soggetto precede l’oggetto”.
Jerome S. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione,
Armando, Roma 1995
❱❱ 3.Il potere formativo della scoperta
Nella maggior parte dei casi la scoperta, sia che venga effettuata da uno scolaretto o
da uno scienziato, consiste in un riorientamento o in una trasformazione delle nozioni
possedute, in modo da consentire di spingersi al di là di esse, verso nuovi concetti. In
altre parole, scoprire significa trovare la struttura più adatta, il significato più profondo.
In secondo luogo, riflettiamo adesso sui vantaggi che il fanciullo trae dall’apprendere
attraverso le proprie scoperte. Quei vantaggi si rivelano sotto forma di maggiore potenzialità intellettuale, maggiore ricompensa psicologica, migliore tecnica dell’indagine e
affinamento dei processi mnemonici. Affinché il fanciullo sviluppi la propria potenzialità intellettuale, occorre che venga incoraggiato a scoprire rapporti e regolarità nell’ambiente che lo circonda. Per far ciò egli deve essere armato della sensazione che vi è
qualcosa da scoprire e che deve trovare da sé il modo di effettuare la scoperta […].
Appare chiaro come, man mano che l’apprendimento progredisce, esista un momento in cui è senz’altro consigliabile allontanarsi dalle ricompense estrinseche, quali ad
esempio una lode dell’insegnante, passando a ricompense intrinseche, come quelle
inerenti alla soluzione di un complesso problema per conto proprio.
Un altro dei motivi intrinseci dell’apprendere che la scuola deve cercare di mobilitare in misura maggiore di quanto abbia fatto finora, per rendere più efficiente l’insegnamento, è il desiderio di competenza.
Generalmente, per competenza s’intende una capacità già acquisita. Tuttavia la competenza può essere concepita anche in senso dinamico, quale aspirazione a conseguirla, e con riferimento all’energia impiegata per conseguirla.
La competenza intesa in questo secondo senso può essere considerata uno dei motivi
intrinseci dell’apprendere, dato che lo svolgimento del processo al quale ci si sottopone per conseguirla soddisfa un bisogno intimo: il desiderio di imparare a fronteggiare e dominare questo o quel settore dell’ambiente in cui viviamo.
Osservando i bambini o i piccoli di varie specie animali, ci rendiamo conto, appunto,
che gran parte dei loro trastulli rappresentano, in sostanza, forme di auto-addestramento a fronteggiare l’ambiente […].
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Sebbene il desiderio di competenza possa non aver quale oggetto naturale gli apprendimenti scolastici, è tuttavia probabile che il grande eccesso di energia riscontrato nei
bambini che s’imbattono in una materia o in un argomento che a loro interessa abbia
una natura consimile.
Jerome S. Bruner, La sfida pedagogica americana,
Armando, Roma 1969
❱❱ 4.Insegnare
Come insegnare una data materia?
Se si tratta della geometria risponderemo prontamente che insegneremo al discente
quegli assiomi e teoremi che massimizzeranno la sua capacità di andare al di là
dell’informazione data in qualsiasi problema possa trovarsi di fronte.
In geometria, un problema è semplicemente un’enumerazione incompleta, che contiene elementi ignoti.
Diciamo: C’è una figura a tre lati: un lato misura x, l’altro y, l’angolo tra i due è di z
gradi, e il problema è trovare la lunghezza del terzo lato e l’ampiezza degli altri due
angoli, come pure l’area del triangolo.
Si deve, in breve, andare al di là dell’informazione data.
Intuitivamente, sappiamo che se la persona ha appreso il sistema di codificazione
formale, sarà in grado di affrontare la questione.
Jerome S. Bruner, Psicologia della conoscenza,
Armando, Roma 1976
❱❱ 5.Il potere culturale della deprivazione
Il concetto di deprivazione deve aver avuto una straordinaria presa sull’immaginazione degli americani; come ha osservato Harrington in quello stesso periodo, all’inizio degli anni Sessanta, gli americani “scoprivano” l’esistenza in mezzo a loro della
povertà […].
Ma, intenzionalmente o meno, la nuova deprivazione veniva giudicata a fronte di uno
standard di “cultura” che era implicitamente derivato da un’idealizzazione della cultura della classe media americana. In questa versione della vita familiare, l’educazione dei bambini consisteva nell’interazione armoniosa di una madre casalinga a
tempo pieno con il suo bambino ben nutrito, a cui venivano offerte ampie opportunità di prendere iniziative proprie.
Non essere all’altezza di questo modello idealizzato era “deprivazione culturale”.
Comparvero presto progetti che si proponevano di insegnare alle madri povere a
parlare di più e a giocare di più con i loro bambini, ad affidare loro compiti che richiedessero iniziativa autonoma e così via – in breve a adeguarsi nel comportamento
nei confronti dei figli al modello delle madri idealizzate della classe media. Furono
progetti che produssero qualche risultato reale. Poiché è vero, e non sorprende, che
l’educazione infantile condotta secondo lo stile della classe media produce bambini
simili a quelli della classe media.
Jerome S. Bruner, La cultura dell’educazione,
Feltrinelli, Milano 1997
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Jerome Seymour Bruner, la teoria dell’istruzione e la cultura dell’educazione
❱❱ 6.Il «sopravvento dell’oggetto»
Voi cominciate a scrivere una poesia. Ben presto essa, la poesia, comincia a sviluppare
delle richieste alle quali non potete sottrarvi: la metrica, le strofe, l’architettura simbolica. Sembra così che voi, creatori della poesia, la stiate servendo. Oppure, per fare un
altro esempio, state lavorando sulle proprietà note delle singole fibre nervose e sulla
loro sinossi e state elaborando un modello formale per rappresentare queste proprietà
ben presto il modello assume un ruolo di guida. Oppure, sempre nel campo della ricerca scientifica, siete insoddisfatti per un esperimento che si presenta difficile e complesso; e voi dite che esso, l’esperimento, abbisogna di un altro gruppo di controlli per
rinnovare la verifica e constatare la realtà degli effetti. È l’oggetto che prende il sopravvento: ed è proprio a questo punto che si entra in una seconda fase creativa.
Ho chiesto ad una dozzina di miei amici, fra le persone più creative e produttive ch’io
conosca, se avessero compreso questo mio problema del “sopravvento dell’oggetto”,
e se avessero mai riscontrato questo fenomeno nel loro lavoro. Quasi tutti mi risposero più o meno imbarazzati, confessandomi che di solito uno non si mette a pensare
a queste cose, anche perché sono strettamente soggettive: “Ciò avviene, quando sai
che sei in ballo, e, bene o male, la cosa stessa ti costringerà a finire. In un lavoro
lungo, questo sopravvento dell’oggetto può avere luogo parecchie volte”.
Vi è qualcosa di strano in questo fenomeno: l’uomo esteriorizza un oggetto, un prodotto dei suoi pensieri, e lo tratta come se fosse “al di fuori”.
Freud osservò, a proposito della proiezione, che gli uomini sono più capaci di avere
a che fare con stimoli esterni che con stimoli interni. Così avviene anche nel lavoro
creativo: grazie all’oggettivazione, il creatore sviluppa la propria essenza, la propria
autonomia, e nello stesso tempo la serve. L’impeto creativo, stando là, di fronte al
soggetto, può essere più facilmente affrontato e sistemato, ed è in questa sistemazione che emergono nuovi impulsi e nuovo materiale, prima inconsci ed inaccessibili.
Esiste anche un’altra possibilità. Osservando i bambini impegnati nell’apprendimento della matematica, sono stato colpito più d’una volta dall’economia che essi realizzano, quando raggiungono “buone rappresentazioni”. Nella teoria dei gruppi, ad
esempio, è molto difficile determinare concettualmente o astrattamente se un insieme
di trasformazioni costituisca un gruppo chiuso di modo che ogni possibile combinazione di quelle trasformazioni possa essere espressa da una sola di esse. Ecco allora
l’esigenza di una matrice, che “rappresenti” sulla carta o sulla lavagna tutte le combinazioni che possono venire in mente: in questo modo lo studente può guardare alla
struttura del gruppo come ad un tutto e procedere oltre, al fine di vedere se abbia
proprietà interessanti e isomorfismi familiari. La buona rappresentazione, allora,
costituisce un sollievo dalla passione intellettuale.
Jerome S. Bruner, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra,
Armando, Roma 1968
❱❱ 7.Condividere per conoscere
Al pari dell’adulto, il bambino viene visto come qualcuno che possiede delle “teorie”
più o meno coerenti non solo sul mondo, ma anche sulla sua stessa mente e sul modo
in cui funziona. Queste teorie ingenue diventano congruenti con quelle dei genitori
e degli insegnanti non attraverso l’imitazione, non attraverso la didattica, ma mediante il dialogo, la collaborazione e la negoziazione.
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
La conoscenza è qualcosa che viene condivisa con il discorso, all’interno di una comunità “testuale”.
Le verità non derivano da un’autorità, testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni,
argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello d’educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica, è più rivolto all’interpretazione e alla comprensione che al
raggiungimento di una conoscenza fattuale o di una prestazione specializzata. Questa
visione interattiva non è semplicemente “centrata sul bambino”, è caratterizzata anche
da un atteggiamento molto meno condiscendente verso la mente del bambino. Si
sforza di costruire uno scambio, un’intesa fra l’insegnante e il bambino: di trovare
nelle intuizioni del bambino le radici della conoscenza sistematica, come invitava a
fare Dewey.
Jerome S. Bruner, La cultura dell’educazione,
Feltrinelli, Milano 1997
❱❱ 8.Apprendimento e indirizzi di ricerca
Quattro recenti indirizzi di ricerca hanno arricchito la prospettiva sull’apprendimento e sull’insegnamento […]. La prima ha a che fare con il modo in cui i bambini
sviluppano la loro capacità di “leggere altre menti”, di arrivare a sapere cosa pensano
o sentono gli altri. Solitamente viene descritta come ricerca sull’intersoggettività.
L’intersoggettività ha inizio con il piacere che provano il neonato e la madre nelle
prime settimane di vita a stabilire un contatto con gli occhi, si trasforma presto l’attenzione che i due prestano insieme con oggetti comuni, e culmina nella prima fase
prescolare in cui fra la mente del bambino e quella di chi se ne prende cura si realizza un incontro grazie ai primi scambi di parole: una conquista che non finisce mai di
realizzarsi.
Il secondo filone di ricerca riguarda la comprensione da parte del bambino degli
“stati intenzionali” dell’altro: le sue convinzioni, le sue promesse, le sue intenzioni,
i suoi desideri, in breve le sue teorie della mente, definizione con cui spesso ci si riferisce a questa ricerca. È un programma d’indagine su come i bambini si formano
delle opinioni circa il modo in cui gli altri arrivano ad avere o ad abbandonare vari
stati mentali. Questo programma si occupa in modo particolare della selezione che
viene operata dal bambino fra le credenze e le opinioni altrui che giudica vere e giuste e quelle che ritiene false o sbagliate: nel corso di questo studio i ricercatori hanno
scoperto molti aspetti curiosi a proposito delle idee del bambino piccolo sulle “false
credenze”.
Il terzo filone è rappresentato dallo studio della metacognizione, vale a dire cosa
pensano i bambini dell’apprendere, del ricordare e del pensare e come la riflessione
sulle proprie operazioni cognitive influenza i procedimenti mentali di un individuo
[…].
Gli studi sull’apprendimento collaborativi e sulla risoluzione dei problemi costituiscono il quarto filone di ricerca, che si occupa del modo in cui i bambini esprimono
e correggono le proprie credenze nel dialogo.
Jerome S. Bruner, La cultura dell’educazione,
Feltrinelli, Milano 1997
10
Erik H. Erikson, i cicli vitali e la
crisi d’identità
➜
Erik H. Erikson
È nato nel 1902 in Germania. Si è in seguito
trasferito negli Stati Uniti d’America, dove è
diventato uno dei maggiori psicoanalisti.
Erikson ha inoltre insegnato nelle più impor-
tanti Università americane. Le sue opere
principali sono: Infanzia e società (1963);
Gioventù e crisi d’identità (1977); Il giovane
Lutero (1979). È morto in Inghilterra nel 1994.
❱❱ 1.Sviluppo psico-sociale
La concezione del ciclo della vita che abbiamo esposta esigerebbe, tuttavia, un trattamento sistematico. In guisa d’introduzione ad esso, io concluderò questo capitolo con
un diagramma. In tale diagramma, come già in quello delle zone e dei modi pregenitali, la diagonale rappresenta la successione normale delle acquisizioni psico-sociali
fatte via via che a ciascuno stadio un altro conflitto nucleare aggiunge una nuova
qualità ed una nuova prospettiva di forza all’Io. Inferiormente alla diagonale sono
indicati i precedenti di ognuna di queste soluzioni, che del resto sono tutte presenti fin
dall’inizio; superiormente alla diagonale sono indicati i derivati di queste acquisizioni
e le trasformazioni che esse subiscono nella personalità in maturazione e matura.
I presupposti alla base di questa rappresentazione grafica sono: 1) che la personalità
di un essere umano si sviluppa, in linea di massima, per tappe predeterminate, sulla
base della disposizione dell’individuo a lasciarsi guidare verso una socialità più ampia, a prenderne coscienza e ad interagire con essa; e 2) che la società tende, in linea
di massima, ad esser costituita in modo da accordarsi con le forme via via assunte da
questa disposizione all’interazione e cerca di favorire e conservare il loro ordine
normale di sviluppo. È in tal modo che viene “conservato mondo umano”. Tuttavia
un diagramma costituisce solo un sussidio del pensiero e non può aspirare ad essere
qualcosa a cui arroccarsi sia nella pratica dell’allevamento infantile, sia in psicoterapia o nella metodologia dello studio dell’infanzia.
Nel presentare gli stadi dello sviluppo psico-sociale sotto forma di una carta epigenetica […], noi abbiamo in animo un intento metodologico preciso e limitato: quello
cioè di facilitare un parallelo tra gli stadi individuati dapprima da Freud come sessuali e altre linee di sviluppo (fisico, intellettuale).
Siccome però è scontato che ogni carta traccia solo una di tali linee, non è giusto
accusare la nostra rappresentazione della linea dello sviluppo psico-sociale di voler
implicare delle generalizzazioni oscure a proposito di altri aspetti dello sviluppo o,
anzi, dell’esistenza. Se la carta, ad esempio, elenca una serie di conflitti o di crisi, ciò
non vuol dire che noi consideriamo ogni sviluppo come una serie di crisi: affermiamo
soltanto che lo sviluppo psico-sociale procede per passi critici, la “criticità” essendo
una caratteristica delle svolte e dei momenti in cui si è chiamati a decidere tra il progresso e la regressione, l’integrazione e l’attardamento.
11
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Può tornare utile a questo punto indicare come va letto uno schema epigenetico.
Le caselle della diagonale più marcate rappresentano sia una successione di stadi che
uno sviluppo graduale di parti componenti: in altre parole la carta schematizza il
progredire nel tempo di una differenziazione di parti. Ciò vuol dire: 1) che ogni elemento di forza psico-sociale discusso qui è in rapporto sistematico con tutti gli altri
e che tutti dipendono da un normale sviluppo, nell’ambito di una successione normale, di ciascun elemento; e 2) che ogni elemento esiste in qualche modo prima che
giunga il suo momento critico.
Se, ad esempio, io dico che una certa proporzione di fiducia e sfiducia fondamentali
favorevole alla prima costituisce il primo passo nell’adattamento psico-sociale, e che
un rapporto tra autonomia vergogna e dubbio favorevole alla prima, costituisce il
secondo passo, la parte del diagramma che corrisponde a quest’affermazione esprime
una serie di rapporti fondamentali esistenti tra i due stadi oltre che alcuni fatti fondamentali specifici di ciascuno di essi.
Ogni stadio raggiunge il massimo dell’intensità, la propria crisi ed una sistemazione
duratura in un determinato momento, ma tutti debbono esistere in una qualche forma
fin dall’inizio perché ogni arto è integrato a tutti gli altri.
VIII
MATURITÀ
Integrità
dell’io e disperazione
VII
ETÀ ADULTA
VI
GIOVENTÙ
V
POVERTÀ E
ADOLESCENZA
IV
LATENZA
III
LOCOMOTORIOGENITALE
II
MUSCOLAREANALE
I
ORALE SENSORIO
Intimità e
isolamento
Generatività e stagnazione
Identità e
dispersione
Industriosità e senso di
inferiorità
Spirito di
iniziativa e
senso colpa
Vergogna
dubbio e
autonomia
Fiducia fondamentale e
sfiducia
1
2
3
4
5
6
7
8
Del pari un bambino può mostrare fin dall’inizio qualcosa che assomiglia alla “autonomia” in un particolare modo di cercar di liberarsi con violenza allorché è tenuto
strettamente; tuttavia in condizioni normali è soltanto nel corso del secondo anno che
egli comincia a sperimentare nella sua pienezza l’opposizione critica tra l’essere una
creatura autonoma ed una dipendente; ed è soltanto allora che egli è pronto ad un
incontro decisivo con il suo ambiente che a sua volta si sente chiamato a convogliare
su di lui le idee che gli sono proprie sull’autonomia e la coercizione in forme che
contribuiranno in modo decisivo alla determinazione del carattere e della salute della sua personalità nell’ambito della sua cultura. È quest’incontro, insieme alla crisi
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Erik H. Erikson, i cicli vitali e la crisi d’identità
che ne risulta, che noi abbiamo cercato di descrivere per ogni stadio. Per quel che
riguarda il passaggio da uno stadio al successivo la diagonale stessa indica la successione ideale. Tuttavia essa lascia spazio anche per l’indicazione di eventuali varianti
rispetto al tempo ed all’intensità.
Un individuo, una cultura, possono indugiare eccessivamente sul momento della fiducia e procedere da I-1 attraverso I-2 a II-2, come del resto un passaggio accelerato
può muoversi da I-1 attraverso II-1 a II-2. Tuttavia si presume che ognuna di queste
accelerazioni o di questi ritardi relativi abbia un’influenza modificatrice su tutti gli
stadi ulteriori [...].
Un diagramma epigenetico traccia così un sistema di stadi in reciproca dipendenza;
e, anche se i singoli stadi siano stati studiati più o meno esaurientemente o denominati in modo più o meno appropriato, il diagramma invita ad approfondire il loro
studio avendone sempre in mente l’insieme. Il diagramma invita quindi a riflettere su
tutti i suoi riquadri vuoti: noi abbiamo assegnato alla fiducia fondamentale il riquadro
I-1 ed all’integrità il riquadro VIII-8, ma lasciamo aperto il problema relativo a ciò
che può esser avvenuto della fiducia in uno stadio dominato dal bisogno dell’integrità, cosí come abbiamo lasciato aperto il problema relativo all’aspetto che essa assume
nello stadio dominato dalla ricerca dell’autonomia (II-1).
Noi cerchiamo soltanto di porre l’accento sul fatto che la fiducia deve esser passata
attraverso uno sviluppo adeguato prima di divenir qualcosa di più in occasione di
quell’incontro critico nel quale lo spirito d’autonomia si sviluppa, e così via lungo la
verticale. Se nell’ultimo stadio (VIII-1) noi vogliamo attenderci che la fiducia si sia
sviluppata nella forma più matura della fede che una persona di una certa età può
riporre nel suo ambiente culturale e nel suo periodo storico, la carta permette di considerare non soltanto ciò che può essere un’età avanzata, ma anche che cosa debbano
essere stati gli stadi ad essa precedenti.
Tutto ciò è inteso a render chiaro che un diagramma epigenetico si limita a suggerire
al pensiero un quadro globale che lascia alle cure di ulteriori studi molteplici dettagli
metodologici e terminologici.
Erik H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982
❱❱ 2.L’importanza del riconoscimento sociale
Se l’esperienza è destinata a corroborare la parte sana del senso d’onnipotenza infantile, i metodi educativi debbono favorire non soltanto una sensualità ben sviluppata
e la graduale padronanza delle cose, ma offrire anche un tangibile riconoscimento
sociale come frutti di questo sviluppo e di questa padronanza.
Erik H. Erikson, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1974
❱❱ 3.Dall’infanzia alla giovinezza
Con il primo stabilirsi di un rapporto adeguato con il mondo degli strumenti e delle
capacità e con l’avvento della maturità sessuale, l’infanzia vera e propria ha fine e
inizia la giovinezza. Ma nell’epoca della pubertà e dell’adolescenza tutte le conquiste
degli stadi precedenti sono rimesse di nuovo in questione a causa dello sviluppo fisico che eguaglia in rapidità quello della prima infanzia ed a causa dell’assoluta novità costituita dalla maturità fisica dei genitali. I giovani, in pieno sviluppo ed in piena
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
rivoluzione fisiologica, si preoccupano ora soprattutto del rapporto tra ciò che gli
altri vedono in loro e ciò che essi sentono di essere e del problema di come collegare
le capacità precedentemente acquisite con gli ideali professionali del tempo. Nella
loro ricerca di una nuova continuità ed identità gli adolescenti debbono riaccendere
molte delle battaglie degli anni precedenti, anche a costo di attribuire il ruolo di nemici a persone che non vogliono loro altro che bene; inoltre essi sono sempre pronti
a scegliersi idoli o ideali che sanciscano e proteggano l’identità che si sono proposta.
L’integrazione che, sotto forma d’identità dell’Io, viene a questo punto realizzandosi,
è qualcosa di più che la somma delle identificazioni infantili. Essa corrisponde piuttosto all’acuita esperienza della capacità dell’Io ad integrare tali identificazioni con
le vicissitudini della libido, con le attitudini sviluppate sulla base di talenti innati e
con le possibilità offerte dai ruoli sociali. Il senso dell’identità dell’Io fa, dunque,
tutt’uno con l’aumentata fiducia che la propria identità e la propria continuità interiori trovino conferma nel giudizio degli altri, quale si esprime tangibilmente nella
promessa di una “carriera”.
Erik H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982
❱❱ 4.Gli innamoramenti dell’adolescenza
Per darsi un’unità gli adolescenti s’identificano temporaneamente in forma esasperata con gli eroi di gruppi e di masse fino a perdere del tutto, in apparenza, un’identità
propria. Questo fenomeno inaugura lo stadio degli “innamoramenti” che non sono né
esclusivamente né principalmente un fatto sessuale, eccetto che in omaggio ai costumi. L’amore degli adolescenti è in gran misura un tentativo di definire la propria
identità per mezzo della proiezione dell’immagine confusa del proprio Io su un’altra
persona, al fine di vederla così riflessa e progressivamente più chiara. È per questo
che per tanti giovani amare vuol dire conversare.
Nei giovani può anche riscontrarsi un pronunciato spirito di casta ed una crudele
tendenza ad escludere tutti coloro che sono “diversi” per colore di pelle o condizione
culturale, gusti e doti, e spesso anche per quei particolari del vestire e dell’atteggiarsi che sono stati temporaneamente assunti come elementi distintivi di chi fa parte di
un gruppo da chi ne è escluso. È importante comprendere quest’intolleranza, il che
non significa giustificarla o condividerla, come una forma di difesa contro un senso
di confusione nell’identità.
Gli adolescenti, infatti, non soltanto cercano di superare gran parte del loro disagio
per mezzo della formazione di bande e della stereotipizzazione di se stessi, dei propri
ideali e dei propri nemici; essi mettono anche perversamente alla prova gli uni la
capacità degli altri di conservarsi fedeli a tali stereotipizzazioni.
La disposizione a tali prove spiega anche il fascino che dottrine semplicistiche e
crudelmente totalitarie esercitano sulla mente dei giovani di quei paesi e di quelle
classi che hanno perso o sono in via di perdere le proprie identità di gruppo (feudale,
agricola, tribale, nazionale) e si trovano di fronte all’industrializzazione su scala
mondiale, all’emancipazione e all’ampliamento dei rapporti.
La mentalità adolescente è essenzialmente la mentalità dell’attesa, che è uno stadio
psico-sociale tra l’infanzia e l’età adulta, tra la moralità appresa dal bambino e l’etica che l’adulto deve sviluppare.
L’adolescente ha una mentalità ideologica, ed è proprio l’aspetto ideologico d’una
società a riuscir più chiaro all’adolescente che è disposto ad accettare appoggi e con14
Erik H. Erikson, i cicli vitali e la crisi d’identità
ferme da coetanei, rituali, credi e programmi capaci in pari tempo di definire ciò che
è male, inquietante e nemico.
Erik H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982
❱❱ 5.Il senso d’identità interiore
La fine dell’infanzia mi sembra la terza crisi, più strettamente politica dell’integrità.
I giovani debbono diventare ed essere completi per conto loro, e ciò durante uno
stadio di sviluppo caratterizzato da una serie di mutamenti nella crescita fisica, nella maturazione genitale e nella consapevolezza sociale. Io chiamo senso d’identità
interiore la completezza raggiunta in questo stadio. Il giovane, per percepire la completezza deve sentire una continuità progressiva tra ciò che egli è diventato durante
i lunghi anni dell’infanzia e ciò che promette di diventare in avvenire; tra ciò che
egli si convince di essere e ciò che gli sembra altri vedano in lui ed aspettino da lui.
Dal punto di vista individuale, l’identità abbraccia, ma trascende anche, la somma
di tutte le successive identificazioni di quei primi anni quando il bambino voleva
essere, o spesso era costretto a diventare, simile alle persone da cui dipendeva.
L’identità è un prodotto unico, che ora affronta una crisi risolvibile soltanto attraverso nuove identificazioni con coetanei o con figure-guida all’infuori della famiglia.
La ricerca di una nuova eppure attendibile identità forse può essere individuata soprattutto nel continuo sforzo dell’adolescente di definire, ridefinire se stesso e gli
altri in confronti spesso crudeli, mentre la ricerca di sicuri orientamenti compare nel
continuo tentativo di sperimentare le possibilità più nuove ed i valori più antichi.
Quando la risultante auto-definizione, per ragioni personali o collettive, diventa
troppo difficile, ne viene fuori un sensori confusione dei ruoli: il giovane contrappone le une alle altre, anziché sintetizzarle, le sue alternative sessuali, etniche, occupazionali, tipologiche e spesso è portato a decidere definitivamente e totalmente
per l’una o l’altra.
Erik H. Erikson, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1974
❱❱ 6.Il gioco infantile
Il gioco infantile pone un problema: chi non lavora non gioca. E quindi per tollerare
il gioco infantile l’adulto deve inventare delle teorie che mostrino o come il gioco
infantile sia in realtà un lavoro o che esso non conti.
La teoria più popolare e più facile è che il bambino è ancora nessuno e che ciò appunto si riflette nel non senso del suo gioco.
Gli studiosi hanno cercato di trovare altre spiegazioni ai capricci del gioco infantile
considerandoli come un’espressione del fatto che l’infanzia non è né qui né là. Secondo Spencer il gioco è l’utilizzazione di un’energia superflua negli individui giovani di certi mammiferi che non hanno bisogno di nutrirsi o di difendersi da soli
perché i loro genitori provvedono a ciò.
Tuttavia Spencer notò che ogni qual volta le circostanze permettono il gioco, questo
“simula” delle tendenze che sono particolarmente pronte a manifestarsi e i cui sentimenti corrispondenti sono particolarmente pronti a svegliarsi.
La psicoanalisi fin dai suoi inizi aggiunse a ciò la teoria “catartica” secondo la quale
il gioco svolge nell’essere in fase di sviluppo una funzione precisa in quanto gli per
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
mette di sfogare emozioni trascorse e di trovare una compensazione immaginaria a
frustrazioni passate.
Erik H. Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982
❱❱ 7.Conformismo e identità
Le civiltà più avanzate hanno trovato altri mezzi più spirituali di “confermare” un
adeguato piano di vita. Eppure, la gioventù ha sempre trovato il modo di riesumare
“iniziazioni” più primitive, formando gruppi, cricche, confraternite. In America, dove
la gioventù è generalmente immune dal tradizionalismo primitivo, dal paternalismo
punitivo e dalla standardizzazione imposta da misure governative, si è tuttavia sviluppata un’autostardardizzazione spontanea che rende assolutamente obbligatori per
gli “iniziati” continui cambiamenti, apparentemente insensati, di modi di vestire, di
gesticolare, di parlare. Si tratta per la maggior parte di atteggiamenti bonari, improntati ad una reciproca comprensione verso il genere di persone “diversamente orientate”, ma talvolta è crudele con i non conformisti e naturalmente non sicura per
nulla di quella tradizione d’individualismo che pretende di magnificare […]. La necessità di trovare, almeno temporaneamente, un marchio totale che definisce uno
standard oggigiorno è così sentita, che la gioventù preferisce talvolta essere niente
– assolutamente niente – piuttosto che rimanere un fastello contraddittorio di tanti
frammenti d’identità.
Erik H. Erikson, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1974
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Sigmund Freud, la nascita della
psicoanalisi e il disagio della
civiltà
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Sigmund Freud
Nacque a Freiberg, in Moravia, nel 1856,
e morì a Londra, nel 1939. La sua scuola
di pensiero è stata denominata psicoanalitica.
Freud è, perciò, considerato il padre della
psicoanalisi. Ha compiuto gli studi liceali
ed universitari a Vienna, dove si è trasferito all’età di quattro anni con tutta la
famiglia; dopo aver conseguito la laurea in
medicina, si è specializzato anche in neurologia.
Nel 1929, con la pubblicazione del libro Il
disagio della civiltà, il pensiero freudiano
ha subito una svolta. In esso è stato introdotta la categoria della nevrosi, come ri-
sultato del conflitto tra l’Io e la sessualità,
per far comprendere la civiltà contemporanea. Questa è costruita sul thanatos e
sulla rinuncia alle pulsioni.
Produce, pertanto, nell’individuo frustrazione e aggressività.
Le principali opere di Freud sono: L’interpretazione dei sogni (1900); Psicopatologia
della vita quotidiana (1901); Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); Storia del movimento psicoanalitico (1914); Al di là del
principio del piacere (1920); Psicologia
delle masse e analisi dell’Io (1921); Introduzione alla psicoanalisi (1927); Il disagio
della civiltà (1929).
❱❱ 1.La teoria della rimozione
Abbiamo di recente ricevuto, come uno degli ultimi arricchimenti della psicoanalisi,
l’incitamento a mettere in primo piano nell’analisi il conflitto attuale e le circostanze
della malattia.
Bene, questo è precisamente quanto Breuer e io abbiamo fatto con il metodo catartico all’inizio dei nostri lavori. Volgevamo l’attenzione del malato sulla scena
traumatica in cui il sintomo si era originato; cercavamo di intuire in essa il conflitto psichico liberandone poi l’effetto represso. Arrivavamo così a riconoscere il
processo, tipico nei processi psichici della nevrosi, da me denominato poi regressione.
L’associazione del malato risaliva dalla scena da chiarire ad esperienze anteriori,
portando l’analisi, la cui funzione era quella di rettificare il presente, ad interessarsi
al passato […].
La prima divergenza tra Breuer e me si presentò riguardo al profondo meccanismo
psichico dell’isteria. Egli preferiva ancora una teoria, per così dire, fisiologica.
Io mi ero posto in una prospettiva meno scientifica, intuendo dappertutto tendenze
e disposizioni affini a quelle della vita quotidiana e vedendo la stessa scissione psichica come esito di un processo che, allora, denominai “difesa” e, in seguito, “rimozione”.
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Quando, poi, io propugnai sempre più decisamente la rilevanza della sessualità tra le
cause della nevrosi, egli fu il primo a manifestarmi quella reazione di indignato rifiuto che doveva in seguito divenirmi familiare, ma anche allora non avevo riconosciuto ancora un mio incontrastabile destino.
Il fatto del transfert in senso amoroso e ostile, di carattere grossolanamente sessuale,
che si manifesta nel corso di ogni trattamento di nevrosi, pur non desiderato o provocato da nessuna delle due parti, mi è sempre sembrato la conferma più irrefutabile
che le forze motrici della nevrosi dipendono dalla vita sessuale […].
Sottolineo, tra gli altri elementi, che in virtù del mio lavoro si aggiunsero al procedimento catartico, trasformandolo nella psicoanalisi, la teoria della rimozione e della
resistenza, l’introduzione della sessualità infantile, l’interpretazione e l’impiego dei
sogni per la conoscenza dell’inconscio.
La teoria della rimozione è ora il sostegno su cui si basa l’edificio della psicoanalisi,
il suo elemento fondamentale, tanto che essa non è che l’espressione teorica di un
esperimento ripetibile a proprio piacere, purché si effettui, senza ricorrere all’ipnosi:
l’analisi di un nevrotico.
Allora si percepisce una resistenza che avversa il lavoro psicoanalitico e avanza il
pretesto di un’amnesia per renderlo infruttuoso.
L’impiego dell’ipnosi necessariamente copre tale resistenza; perciò la storia della vera
e propria psicoanalisi inizia solo con l’innovazione tecnica dell’abbandono dell’ipnosi.
Sigmund Freud, Storia del movimento psicoanalitico,
Newton-Compton, Roma 1971
❱❱ 2.Il padre della psicoanalisi
La psicoanalisi è una mia creazione; per dieci anni sono stato l’unica persona che se ne
è occupata, e tutto il disappunto che questo nuovo fenomeno ha suscitato nei contemporanei si è riversato sotto forma di critica sul mio capo. Mi ritengo dunque autorizzato a sostenere che ancora oggi, pur non essendo da tempo l’unico psicoanalista, nessuno meglio di me può sapere che cos’è la psicoanalisi, in che cosa essa si differenzi da
altri modi di indagare la vita psichica, e che cosa con il suo nome si debba intendere
rispetto a quello che sarebbe meglio indicare con una diversa denominazione […].
La dottrina psicoanalitica è un tentativo di rendere comprensibili due fatti sperimentali, che si manifestano in maniera sorprendente ed inattesa nel tentativo di riportare
alle loro fonti, nell’ambito storico della sua vita, i sintomi morbosi di un nevrotico:
il fatto del transfert e quella della resistenza.
Ogni genere d’indagine che ammetta questi due dati di fatto e che li prenda come
punto di partenza del proprio lavoro, può essere denominato psicoanalisi, anche se
arriva a risultati diversi dai miei.
Una conquista, solo temporalmente posteriore, fu la rivelazione della sessualità infantile, della quale non si faceva cenno nei primi anni dell’indagine psicoanalitica,
che avanzava ancora tastoni.
In un primo momento si comprese solo che si doveva riferire l’effetto di impressioni
attuali a cose passate. Però, “il ricercatore scopre sempre più di quanto non si attenda”.
Egli fu ricacciato sempre più indietro in questo passato e sperò infine di potersi arrestare alla pubertà, l’epoca del tradizionale risveglio degli istinti sessuali.
Inutilmente, perché le tracce riportavano ancora più indietro, all’infanzia e ai suoi
primi anni […].
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Sigmund Freud, la nascita della psicoanalisi e il disagio della civiltà
Riguardo all’interpretazione dei sogni, poche parole mi sono sufficienti. Essa mi
apparve come primo risultato dell’innovazione tecnica dopo che, dando ascolto ad
un vago presentimento, avevo deciso di sostituire l’ipnosi con le associazioni libere.
Sigmund Freud, Storia del movimento psicoanalitico,
Newton-Compton, Roma 1971
❱❱ 3.Tra conscio e inconscio
La divisione della vita psichica cosciente e psichica incosciente costituisce la premessa fondamentale della psicoanalisi, senza la quale essa sarebbe incapace di comprendere i processi psicologici, tanto frequenti quanto gravi della vita psichica, per ricondurli nel quadro della scienza […].
La maggior parte delle persone che hanno una cultura filosofica sono assolutamente
incapaci di comprendere che un fatto psichico può non essere cosciente e respingono
questa idea come assurda o contraddicente la semplice e sana logica […].
Essere cosciente è anzitutto un’espressione puramente descrittiva che si riferisce alla
percezione più immediata e più certa. Ma l’esperienza ci dice che un elemento psichico, per esempio, una rappresentazione, non è mai cosciente in senso duraturo.
Ciò che caratterizza gli elementi psichici è piuttosto la rapida sparizione del loro stato
cosciente. Una rappresentazione cosciente in un dato momento, non lo è più nel momento successivo ma, in certe condizioni facili a realizzarsi, può diventarlo di nuovo.
Nell’intervallo noi ignoriamo ciò che essa sia: possiamo dire che è latente, cioè che
essa è suscettibile in ogni momento di divenir cosciente […].
Così noi diciamo che i fatti psichici latenti, cioè incoscienti nel senso descrittivo,
ma non dinamico della parola, sono dei fatti precoscienti e riserviamo la parola incoscienti ai fatti psichici rimossi, cioè dinamicamente incoscienti. Abbiamo così tre
parole, cosciente, precosciente e incosciente il cui significato non è più puramente
descrittivo.
Sigmund Freud, Storia del movimento psicoanalitico,
Newton Compton, Roma 1971
❱❱ 4.Il movimento psicoanalitico
Nel 1902 un gruppo di giovani medici mi si schierò intorno con l’intenzione di imparare a praticare e a diffondere la psicoanalisi […].
Il gruppo si ampliò ben presto, modificando più volte, nel corso degli anni seguenti,
la propria composizione […].
Dal 1907 la situazione, contrariamente ad ogni aspettativa, si modificò, e ciò accadde
d’improvviso. Si venne a sapere che la psicoanalisi aveva silenziosamente destato
interessi e trovato amici […].
Su proposta di Carl Gustav Jung […] fu organizzato nella primavera del 1908 un
primo convegno a Salisburgo, che raccolse gli amici della psicoanalisi da Vienna,
Zurigo ed altri luoghi […].
La fase di oscurità era terminata e la psicoanalisi divenne ovunque oggetto di crescente interesse […].
Devo ora ricordare due movimenti di defezione nella cerchia degli aderenti alla psicoanalisi: il primo tra la fondazione dell’associazione nel 1910 ed il congresso di
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Weimar nel 1911; il secondo, iniziato dopo questo congresso, si manifestò nel 1913
a Monaco.
Il pensiero fondamentale del sistema di Adler afferma, com’è risaputo, che l’aspirazione all’autoaffermazione dell’individuo, la sua “volontà di potenza” è ciò che, come
“protesta maschile”, si manifesta in maniera preponderante nel modo di vivere, nella
conformazione del carattere e della nevrosi […].
Tutte le innovazioni di Jung alla psicoanalisi dipendono dal proposito di togliere di
mezzo quanto c’è di ripugnante nei complessi della famiglia per non doverlo ritrovare nella religione e nell’etica.
La libido sessuale è stata sostituita da un concetto astratto che possiamo dire misterioso e incomprensibile allo stesso modo per i saggi come per gli sciocchi […].
Mantenere questo sistema vuole dire lasciare completamente la tecnica e l’osservazione della psicoanalisi.
Sigmund Freud, Storia del movimento psicoanalitico,
Newton Compton, Roma 1971
❱❱ 5.Società e nevrosi
La società non avrà fretta di riconoscerci un’autorità. Essa è destinata ad opporci resistenza perché noi abbiamo un atteggiamento critico nei suoi confronti: noi le dimostriamo che essa stessa svolge un’importante funzione nella causazione delle nevrosi.
Nello stesso modo in cui ci rendiamo nemico il singolo scoprendo ciò che in lui è rimosso, così anche la società non può rispondere con cortese accoglienza alla spregiudicata messa a nudo delle sue insufficienze e dei danni che essa stessa produce; poiché
provochiamo il crollo delle illusioni, ci si rimprovera di mettere in pericolo gli ideali. Sigmund Freud, Opere vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino 2001
❱❱ 6.La libido
È evidente [...] che c’è poco da guadagnare accentuando, secondo il modo di procedere di Jung, l’unità originaria di tutte le pulsioni e chiamando “libido” l’energia che
in tutte si manifesta. Dal momento che non c’è artificio che riesca ad eliminare la
funzione sessuale dalla vita psichica, ci vediamo costretti a parlare di libido sessuale
e di libido asessuale.
Il nome libido va pertanto impiegato per designare esclusivamente le forze pulsionali della vita sessuale, come finora abbiamo fatto.
Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi,
Bollati Boringhieri, Torino 1978
❱❱ 7.Io ed Es
Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi
metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli
altri, ma sottovalutino i veri valori della vita. Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio generale di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo
umano e della vita della psiche.
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Sigmund Freud, la nascita della psicoanalisi e il disagio della civiltà
Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione, benché la
loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranee agli
scopi e agli ideali della massa. Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo
una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto.
Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono. Uno di questi
uomini eccezionali, per lettera, si definisce mio amico. Gli avevo mandato il mio
piccolo scritto che tratta della religione alla stregua di un’illusione, ed egli mi rispose di concordare in pieno con il mio giudizio sulla religione, ma di dolersi che non
avessi giustamente apprezzato la fonte autentica della religiosità. Essa consisterebbe
in un particolare sentimento che, quanto a lui, non lo abbandonerebbe mai, che troverebbe attestato da molti altri e che supporrebbe presente in milioni di uomini, ossia
in un sentimento che vorrebbe chiamare senso della “eternità”, un senso come di
qualcosa d’illimitato, di sconfinato, per così dire di “oceanico”.
Tale sentimento sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non
comporterebbe alcuna garanzia d’immortalità personale, ma sarebbe la fonte di
quell’energia religiosa che viene captata, immessa in particolari canali, e indubbiamente anche esaurita, dalle varie chiese e sistemi religiosi. Soltanto sulla base di
questo sentimento oceanico potremmo chiamarci religiosi, anche rifiutando ogni fede
e ogni illusione.
Le opinioni espresse dal mio stimato amico, che personalmente ha esaltato una volta
in una poesia la magia delle illusioni, mi hanno causato non lievi difficoltà. Per quel
che mi riguarda, non riesco a scoprire in me questo sentimento “oceanico”.
Non è facile trattare scientificamente i sentimenti. Si può tentare di descriverne gli
indizi fisiologici. Dove ciò non è possibile – e temo che anche il sentimento oceanico
eluda una caratterizzazione siffatta – non resta da far altro che attenersi al contenuto
rappresentativo che più immediatamente risulta associato al sentimento. Se ho ben
compreso il mio amico, egli allude a ciò che un drammaturgo originale e piuttosto
bizzarro offre al suo eroe come consolazione nella prospettiva della morte volontaria:
“Fuori di questo mondo non possiamo cadere”.
Si tratta dunque di un sentimento d’indissolubile legame, d’immedesimazione con la
totalità del mondo esterno. Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere di un’intuizione intellettuale, non certo priva di una sua risonanza emotiva, ma tale comunque
da non dover risultare assente neanche da altri atti di pensiero di analoga portata. Per
quanto riguarda la mia persona non potrei convincermi della natura primaria di un
tale sentimento. Non per questo mi è però lecito negarne la presenza effettiva in altre
persone.
Occorre soltanto chiedersi se venga correttamente interpretato e se debba essere riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi. Non ho nulla da proporre
che possa contribuire in modo decisivo alla soluzione di questo problema.
L’idea che l’uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo
circostante attraverso un sentimento immediato e fin dall’inizio orientato in tale direzione, appare così strana e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di
tale sentimento. Possiamo quindi disporre della seguente linea di pensiero: Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo
Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto ad ogni altra cosa. Che tale appa
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
renza sia fallace, che invece l’Io abbia verso l’interno, senza alcuna delimitazione
netta, la propria continuazione in un’entità psichica inconscia, che noi designiamo
come Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo per la prima
volta appreso dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es. Ma verso l’esterno almeno l’Io sembra mantenere
linee di demarcazione chiare e nette.
Sigmund Freud, Disagio della civiltà,
Bollati Boringhieri, Torino 1971
❱❱ 8.Il bambino e il rocchetto
Il bambino non mi sembrava affatto precoce dal punto di vista intellettivo. Ad un anno
e mezzo non pronunciava che poche parole comprensibili; emetteva, inoltre, alcuni
suoni, il cui significato era compreso perfettamente dai suoi.
I suoi rapporti con i genitori e l’unica domestica erano ottimi, e tutti lodavano il suo
buon carattere. Di notte, egli non disturbava i genitori, obbediva scrupolosamente
agli ordini di non toccare certe cose o di non entrare in certe stanze, e, soprattutto,
non piangeva mai, quando la madre lo lasciava, anche per qualche ora. Da notare che
il bambino era molto attaccato alla madre, che non solo lo aveva nutrito al seno, ma
lo aveva accudito e allevato senza ricorrere ad estranei.
Questo bravo ragazzino aveva, però, la fastidiosa abitudine di arraffare qualsiasi
piccolo oggetto che gli capitava a tiro e di scaraventarlo in qualche angolo, sotto il
letto, e così via, per cui c’era da impazzire a ritrovarlo e rimetterlo a posto. Nel far
questo egli emetteva a voce spiegata, con espressione d’interesse e soddisfazione, un
lungo “o-o-o-o”. D’accordo con la madre, ero del parere che non si trattasse di una
semplice interiezione, ma stesse a significare la parola “fort” [“via”].
Alla fine mi resi conto che si trattava di un gioco e che il bambino usava i suoi giocattoli solo per farli “scomparire”.
Un bel giorno mi capitò di fare un’osservazione che confermò la mia ipotesi.
Il bambino aveva un rocchetto di legno con un pezzo di spago arrotolato: ebbene, mai
gli venne in mente di trascinarselo dietro per il pavimento, di usarlo, ad esempio,
come un carrettino. Quel che invece gli piaceva fare era tenere in mano lo spago e
scagliare con consumata precisione il rocchetto dietro la spalliera a tendina del suo
letto, di modo che l’aggeggio sparisse; contemporaneamente egli emetteva il suo
caratteristico “o-o-o-o”. Quindi ritirava il rocchetto dal nascondiglio e salutava la sua
riapparizione con un festoso “da!” [“eccolo”]. Questo, dunque, era l’intero gioco:
scomparsa e ritorno. Anche se di solito si poteva osservare solo la prima parte del
gioco, di per sé instancabilmente ripetuta, non v’è dubbio che era la seconda parte
quella che procurava il maggior piacere.
E l’interpretazione del gioco scaturì allora naturale. Esso era in relazione con l’elevato grado culturale raggiunto dal bambino – la rinuncia alle pulsioni che egli aveva
dovuto sopportare nel consentire alla madre di allontanarsi senza protestare.
Il bambino si compensava, per così dire, dell’assenza materna, riproducendo, con gli
oggetti che gli capitavano a tiro, la scena della scomparsa e della riapparizione.
Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere,
Bruno Mondatori, Varese 1988
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Sigmund Freud, la nascita della psicoanalisi e il disagio della civiltà
❱❱ 9.La sessualità infantile
L’istinto sessuale del bambino si rivela altamente composito e consente lo smembramento in molte componenti, che provengono da varie fonti […].
La fonte principale del piacere sessuale infantile è l’idonea eccitazione di determinate zone del corpo particolarmente eccitabili […].
I punti rilevanti per il raggiungimento del piacere sessuale li chiamiamo zone erogene.
Il poppare o succhiare estasiato dei bambini molto piccoli è un buon esempio di
soddisfacimento autoerotico […].
Un altro soddisfacimento sessuale di questo periodo è l’attività masturbatoria dei genitali, che conserva tanta importanza per la vita successiva e che non viene mai del
tutto superata da molti individui. Accanto a queste attività autoerotiche, nel bambino
si manifestano molto precocemente quelle componenti istintuali di piacere ovvero,
come ci piace dire, della libido, che presuppongono come oggetto una persona estranea.
Sigmund Freud, Psicoanalisi. Esposizioni divulgative,
Bollati Boringhieri, Torino 1963
23
Kurt Lewin, la teoria della
personalità e la dinamica di
gruppo
➜
Kurt Lewin
Nacque a Mobilino (Posnania), nel 1980, e
morì a Newton (Massachusetts), nel 1947.
Studiò nelle università di Friburgo, di Monaco e di Berlino.
Nel 1934 si trasferì negli Stati Uniti ed insegnò psicologia sociale all’università di Iowa.
Assunse, poi, presso il Massachusetts Institute of Technology, la direzione di un centro di ricerca sulla dinamica di gruppo.
Le opere principali di Lewin sono: Teoria
dinamica della personalità (1935); Principi
di psicologia topologica (1936).
❱❱ 1.Il bambino e l’ambiente
L’analisi dei fattori ambientali deve partire da una considerazione della situazione
complessiva. Una tale analisi presuppone dunque, come suo più importante compito,
un’adeguata comprensione e presentazione in termini dinamici della situazione psicologica totale.
La teoria di Loeb identifica l’ambiente biologico con l’ambiente fisico: i fattori dinamici dell’ambiente consistono nella luce (di lunghezza d’onda e d’intensità specifiche),
nella gravità ed in altri fattori della stessa natura. Altri, in particolare von Uexkull,
hanno invece dimostrato che l’ambiente biologico deve essere caratterizzato in modo
del tutto diverso, e cioè come un complesso costituito da alimenti, da nemici, da
mezzi di difesa, e così via. La stessa situazione fisica deve così essere descritta, per
differenti specie di animali, come un modo specificamente differente sia in senso
fenomenico che in senso funzionale [“Merk-und Wirkwelt”]. Anche in psicologia
infantile il medesimo ambiente fisico deve essere caratterizzato in modo del tutto
diverso in rapporto all’età, al carattere individuale, alla condizione momentanea del
bambino. Lo “spazio di vita” del bambino è estremamente ristretto ed indifferenziato. Ciò vale sia per lo spazio percettivo che per quello dell’azione. Con la graduale
estensione e la differenziazione dello spazio di vita del bambino, un ambiente più
largo e fatti fondamentalmente diversi acquistano esistenza psicologica. Ciò vale
anche per quanto riguarda i fattori dinamici. Il bambino apprende in misura sempre
maggiore a controllare l’ambiente; nel frattempo e questo non è meno importante
diviene psicologicamente dipendente di una sempre più vasta cerchia di eventi che
hanno luogo nell’ambiente. Quando, per esempio, viene rotta una bambola ad alcuni
passi di distanza da un bambino di pochi anni, quest’ultimo resta indifferente, mentre
lo stesso atto, nel caso di un bambino di tre anni, suscita un intervento assai energico.
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
24
Kurt Lewin, la teoria della personalità e la dinamica di gruppo
❱❱ 2.La situazione psicologica
Per situazione psicologica si può intendere o la situazione generale di vita o, più
specificatamente, la situazione momentanea.
Una donna lavora ad un telaio in uno stabilimento grandissimo e rumoroso ed occupa il penultimo posto dell’ottava fila. Ella sta per fermare la macchina per vedere
cos’è accaduto. Manca poco all’ora di pranzo. Durante la mattina non è andata molto avanti con il lavoro ed è contrariata.
Questi sono i pochi dati della situazione momentanea di questa donna. Sulla sua situazione di vita si può dire quanto segue.
È sposata da tre anni. Per un anno e mezzo il marito è stato disoccupato. Il suo bambino di due anni è stato gravemente malato, ma ora sembra sia un poco migliorato.
Ella e suo marito hanno più volte litigato specialmente negli ultimi tempi. I litigi si
sono fatti frequenti. L’ultimo si è verificato proprio questa mattina. I genitori del
marito le hanno consigliato di inviare da loro in campagna il bambino. La donna è
indecisa sul da farsi.
È ovvio come siano strettamente unite la situazione di vita e la situazione momentanea. In questo caso, la situazione di vita può costituire lo sfondo piuttosto lontano
della situazione momentanea.
Oppure può essere anche che la donna stesse pensando al suo bambino mentre lavorava, e in questo modo la situazione di vita è spesso divenuta parte della situazione
momentanea.
Essa influenzava lo stato d’animo della persona e per conseguenza le reazioni nell’ambito della situazione momentanea.
Kurt Lewin, Principi di psicologia topologica,
Editrice O.S., Firenze 1961
❱❱ 3.Lo “spazio di vita” del bambino
Il progressivo estendersi dell’ambito spazio-temporale del bambino al di là della
camera e della cerchia della famiglia, significa dunque, non solo una presa di possesso intellettuale di relazioni più vaste, ma soprattutto una moltiplicazione degli oggetti e degli eventi ambientali dai quali il bambino dipende psicologicamente in modo
immediato.
Il fatto di venire semplicemente a conoscenza di qualcosa (per esempio della geografia di un paese straniero, della situazione economica e politica, o anche dei fatti che
riguardano direttamente la propria famiglia) non comporta necessariamente un mutamento profondo dello spazio di vita del bambino. D’altra parte, fatti “ambientali”
psicologicamente critici, quali l’amicizia o l’inimicizia di una certa persona adulta,
possono avere un significato fondamentale per lo “spazio di vita” del bambino, senza
che vi sia da parte sua una loro chiara valutazione intellettuale.
Per lo studio dei problemi dinamici dobbiamo partire dall’ambiente psicologicamente reale del bambino. In senso “obbiettivo”, l’esistenza di un rapporto sociale è condizione necessaria perché un bambino non ancora capace di soddisfare da sé i suoi
bisogni biologicamente importanti possa restare in vita. Questo è di solito un rapporto sociale con la madre, rapporto nel quale i bisogni del neonato hanno funzionalmente la supremazia. Ma i fatti sociali molto presto acquistano un’importanza predominante come costituenti essenziali anche dell’ambiente psico-biologico.
25
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Ciò non significa, naturalmente, che quando il bambino di tre mesi reagisce in modo
specifico alla voce umana, e ad un sorriso amichevole, la relazione con certi individui
sia già divenuta un elemento costitutivo stabile dell’ambiente psicologico del bambino. L’età alla quale questo si verifica dipende essenzialmente dalle doti del singolo
bambino e dalle sue esperienze.
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
❱❱ 4.L’importanza del contesto
Il clima sociale in cui il bambino vive è tanto importante per il suo sviluppo quanto
l’aria che respira; il gruppo a cui appartiene è il terreno sul quale poggia. La sua sicurezza e la sua insicurezza dipenderanno in grandissima misura dai suoi rapporti con
il gruppo e dal suo status in esso. Non deve meravigliare che il gruppo a cui la persona appartiene e la cultura in cui vive ne determinino a tale punto il comportamento
e il carattere: essi stabiliscono, infatti, di quanto spazio di movimento libero l’individuo può usufruire e quanto lontano nel futuro può guardare con una certa chiarezza.
In altre parole, condizionato in larga misura il suo stile di vita personale, nonché la
direzione e l’efficacia dei suoi programmi.
Kurt Lewin, I conflitti sociali. Saggi di dinamica di gruppo,
Franco Angeli, Milano 1972
❱❱ 5.I fattori sociali
Il fatto che certe attività (per esempio, quella del maneggiare certi giocattoli) sono
permesse, mentre altre sono proibite (per esempio gettar via le cose, o toccare certi
oggetti che appartengono agli adulti) comincia molto presto, certamente prima dell’età
di due anni, ad avere un importante ruolo dinamico nella struttura dell’ambiente
psicologico. Fatti sociali come l’amicizia con un altro bambino, la dipendenza da un
adulto e così via devono essere anche considerati, da un punto di vista dinamico, come
non meno reali dei fatti fisici. Certo, nella descrizione dell’ambiente psicologico del
bambino, non si possono prendere, come base, le forze e le relazioni sociali di carattere nettamente obbiettivo che vengono enumerate dal sociologo o dal giurista.
Si deve, piuttosto, descrivere i fatti sociali per il modo come essi influiscono sull’individuo
particolare che si sta considerando. I fattori sociali obbiettivi non hanno in verità una relazione più chiara e definita con l’individuo psicologico di quanto ne abbiano i fattori fisici.
Il medesimo oggetto fisico può avere tipi d’esistenza psicologica del tutto diversi per
differenti bambini, o per lo stesso bambino in differenti situazioni. Un cubo di legno
può essere in un caso un proiettile, in un altro caso un elemento da costruzione, in un
terzo una locomotiva. Che cosa esso sia, in ogni dato momento, dipende dalla situazione complessiva e dalla condizione momentanea del bambino considerato.
Considerazioni simili valgono anche per i fattori sociali. A questo riguardo diviene
chiaro un fatto d’importanza psicologica fondamentale, cioè l’esistenza di relazioni
dirette fra lo stato momentaneo dell’individuo e la struttura del suo ambiente psicologico. Che l’ambiente psicologico, anche quando resta obbiettivamente lo stesso,
dipenda non soltanto dal carattere individuale e dal grado di sviluppo del bambino
considerato, ma anche dalla sua condizione momentanea, risulta chiaro non appena
si considera la relazione fra ambiente e bisogni.
26
Kurt Lewin, la teoria della personalità e la dinamica di gruppo
Oltre all’ambiente quasi-fisico e quasi-sociale, anche un compito mentale o una fantasia devono talvolta, da un punto di vista dinamico, essere caratterizzati come ambiente. Certe attività (per esempio, un gioco) possono avere il carattere di una regione, all’interno o all’esterno della quale il bambino può muoversi. Così pure può
avere questo stesso carattere un problema matematico.
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
❱❱ 6.La fantasia
La descrizione dell’ambiente del bambino sarebbe incompleta senza l’inclusione
dell’intero mondo della fantasia, che è così importante per il comportamento del
bambino e così intimamente connesso con i suoi ideali e con i suoi obbiettivi lontani.
Nell’ambiente vi sono, come abbiamo visto, molti oggetti ed eventi di natura quasifisica e quasi-sociale, come stanze, corridoi, tavoli, sedie, un letto, un cappello, un
coltello, una forchetta; oggetti che possono cadere o rovesciarsi, possono entrare in
movimento e mantenersi in tale stato; vi sono cani, amici, adulti, vicini di casa, qualcuno che si arrabbia e qualcuno che è sempre severo e sgradevole. Vi sono luoghi
dove si è al sicuro dalla pioggia, ve ne sono altri dove si sta al sicuro dagli adulti, ed
altri ancora dove non si può andare sempre. Tutte queste cose e tutti questi eventi
sono definiti, per il bambino, in parte dal loro aspetto, e in parte e soprattutto dalle
loro proprietà funzionali (lo Wirkwelt nel senso di von Uexkull).
Le scale sono qualcosa che si può (o non si può) salire o scendere, o qualcosa su cui
il giorno prima ci si è arrampicati per la prima volta.
Un elemento costitutivo psicologicamente essenziale degli oggetti dell’ambiente è,
infatti, anche la loro storia, così come il bambino l’ha sperimentata.
Con tutto questo, tuttavia, certe proprietà critiche dell’ambiente psicologico restano
ancora escluse dalla descrizione. Gli oggetti, per il bambino, non sono neutri, ma
hanno un effetto psicologico immediato sul suo comportamento. Molte cose inducono
il bambino a mangiare, molte altre ad arrampicarsi, ad afferrare, ad eseguire delle
manipolazioni, a succhiare; altre ancora provocano la sua collera e così via. Questi
fatti ambientali “imperativi” che noi designeremo con il termine di “valenze” […]
determinano la direzione del comportamento. Soprattutto da un punto di vista dinamico, le valenze, la loro specie (il loro segno), la loro forza e la loro distribuzione, devono essere considerate tra le più importanti proprietà dell’ambiente.
La valenza di un oggetto deriva di solito dal fatto che l’oggetto costituisce un mezzo
per il soddisfacimento di un bisogno, o è indirettamente in rapporto con il soddisfacimento di un bisogno.
Il segno e l’intensità della valenza di un oggetto o di un evento dipendono perciò
direttamente dallo stato dei bisogni di un certo individuo ad un momento dato; la
valenza degli oggetti e dell’ambiente e i bisogni dell’individuo sono, cioè, correlativi. (Per quanto riguarda le valenze indotte. Anche nel caso in cui l’ambiente resta
obbiettivamente lo stesso, il segno e l’intensità della valenza sono completamente
diversi per un bambino sano o per un malato).
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
27
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
❱❱ 7.La valenza degli oggetti
La correlazione fra valenza ed ambiente porta ad un mutamento fondamentale in
quest’ultimo, in funzione di un mutamento dei bisogni conseguente ad un aumento
dell’età. Gli oggetti che possiedono delle valenze sono diversi nel caso del lattante,
del bambino di uno o due anni, di quello da giardino d’infanzia, o del ragazzo pubere.
Le valenze cambiano anche in funzione dello stato momentaneo dei bisogni. Quando
il bisogno di nutrimento, o quello di giocare con una bambola o quello di leggere una
fiaba, presentano quei caratteri di particolare intensità che sono implicati in termini
come “fame” o “insoddisfazione”, un poco di cibo, una bambola o un libro di fiabe
attraggono il bambino, hanno cioè una valenza positiva; per contro, quando questi
sogni sono in una fase o in uno stato di soddisfacimento, questi oggetti sono indifferenti al bambino; e, in uno stadio d’iper-soddisfacimento, essi divengono sgradevoli
per lui, acquistano cioè una valenza negativa.
Poiché l’ambiente psicologico, specialmente nel caso del bambino, non è identico
all’ambiente fisico o a quello sociale, non si può, nello studiare le forze dell’ambiente,
partire da una considerazione delle forze fisiche, come fa, ad esempio, Loeb in biologia.
Se noi cominciamo col partire dall’ambiente psico-biologico e dedichiamo la dovuta
attenzione alla sua dipendenza dalla reale condizione del momento in cui si trova l’individuo considerato, possiamo senz’altro giungere a scoprire dei principi universalmente
validi per quanto riguarda gli effetti dinamici dell’ambiente. È senza dubbio necessario
tenere sempre presente la struttura totale della situazione esistente ad un momento dato.
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
❱❱ 8.Le forze che influenzano il comportamento
Le forze psicologiche ambientali possono essere definite empiricamente e funzionalmente, con esclusione di ogni problema metafisico, attraverso una descrizione del
loro effetto sul comportamento del bambino. Esse sono applicabili sia alla situazione
momentanea che all’ambiente permanente del bambino.
Riassumendo: per comprendere o prevedere il comportamento psicologico (C) si deve
determinare, per ogni tipo di evento psicologico (azioni, emozione, espressioni, e così
via), la situazione complessiva del momento, e cioè la struttura e lo stato della persona (P) e dell’ambiente psicologico (A) al momento dato. C = f (PA). Ogni fatto che
ha psico-biologicamente esistenza deve trovar posto in questo campo, e soltanto
fatti che trovano un tale posto hanno effetti dinamici (sono cause di eventi).
L’ambiente, per tutto quanto riguarda le sue proprietà (direzioni, distanze e così via)
deve essere definito, non già fisicamente, ma psico-biologicamente, cioè in base alla
sua struttura quasi-fisica, quasi-sociale e quasi-mentale. È possibile rappresentare la
struttura dinamica della persona e dell’ambiente per mezzo di concetti matematici.
La coordinazione tra la rappresentazione matematica ed il suo significato psico-dinamico deve essere molto stretta e non deve ammettere eccezioni.
Descriveremo dapprima le forse di campo psicologiche ed il loro modo di operare,
senza considerazione del problema se l’oggetto, in ogni caso particolare, ha acquistato la sua valenza in seguito all’esperienza passata o in qualche altro modo.
Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità,
Giunti-Barbera, Firenze 1965
28
Jean Piaget e lo sviluppo
intellettivo nell’infanzia e nella
fanciullezza
➜
Jean Piaget
Nacque a Neuchâtel, in Svizzera, nel 1896,
e morì a Ginevra, nel 1980. Egli, dopo un
giovanile interesse per il pensiero filosofico, si rivolse agli studi d’epistemologia
genetica.
Piaget, attraverso tali ricerche, si avvicinò
alla psicologia generale e dell’età evolutiva.
Era un convinto razionalista e come tale
contestò l’associazionismo psicologico ed
il comportamentismo. Sosteneva, infatti,
che l’attività cognitiva era una struttura
complessa e non poteva, pertanto, essere
ridotta ad elementari leggi fisiche e biologiche.
Insegnò nelle Università svizzere di Neuchâtel, di Losanna e di Ginevra. Passò, in
seguito, alla Sorbona di Parigi. È stato
anche direttore del Bureau international
d’éducation e membro dell’Unesco.
Il pensiero di Piaget ha, in ogni modo,
raggiunto il suo punto più alto con la teoria dell’epistemologia genetica, la quale “si
occupa della formazione e del significato
della conoscenza e dei mezzi attraverso i
quali la mente umana passa da un livello
di conoscenza inferiore ad uno giudicato
superiore”. Le sue opere principali sono: La
formazione del simbolo nel bambino (1946);
Psicologia dell’intelligenza (1947); Introduzione all’epistemologia genetica (1950);
Problemi di psicologia genetica (1963); Lo
sviluppo mentale del bambino (1964); Logica e conoscenza scientifica (1967); Biologia e conoscenza (1967); Lo strutturalismo
(1968); L’equilibrio delle strutture conoscitive (1975); Il comportamento, motore
dell’evoluzione (1976); Le scienze dell’uomo
(1983).
❱❱ 1.Pensiero e linguaggio
Se si paragona un bambino di due o tre anni con espressioni verbali elementari ad uno
di otto o dieci mesi, le cui sole forme d’intelligenza sono ancora di natura senso-motoria, cioè con i soli strumenti della percezione e del movimento, sembra a prima vista
evidente che il linguaggio ha profondamente modificato questa iniziale intelligenza
pratica, aggiungendo ad essa il pensiero. È così che, in virtù del linguaggio, il bambino è in grado di evocare situazioni non attuali e di liberarsi dalle frontiere dello spazio
a lui prossimo e del tempo presente, cioè dai limiti del campo percettivo, mentre l’intelligenza senso-motoria è quasi interamente confinata all’interno di queste frontiere.
In secondo luogo, in virtù del linguaggio, gli oggetti e gli eventi non sono più soltanto raggiunti nell’immediatezza percettiva, ma inseriti in una cornice concettuale e
razionale che arricchisce enormemente la conoscenza che il bambino ha di essi. Si è
tentati quindi di confrontare semplicemente il bambino com’è prima e dopo l’acquisizione del linguaggio, e di concludere, con Watson e tanti altri, che il linguaggio è
l’origine del pensiero.
29
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Se esaminiamo però più da vicino le trasformazioni dell’intelligenza che si verificano al momento dell’acquisizione del linguaggio ci si accorge che questo non è l’unico responsabile di quelle. Le due novità essenziali che abbiamo ricordato possono
venir considerate l’una come l’inizio della rappresentazione, l’altra come l’inizio
della schematizzazione rappresentativa (concetti, e così via), in opposizione alla
schematizzazione senso-motoria, basata sulle azioni stesse o sulle forme percettive.
Vi sono però, oltre al linguaggio, altre fonti suscettibili di spiegare alcune rappresentazioni ed una certa schematizzazione rappresentativa.
Il linguaggio è necessariamente interindividuale, e costituito da un sistema di segni
(= significanti “arbitrari” o convenzionali). Ma, accanto al linguaggio, il bambino,
che è meno socializzato di quanto sarà verso i sette – otto anni, e soprattutto meno
dell’adulto, ha bisogno di un altro sistema di significanti, più individuali e più “motivati”: sono i simboli, le cui forme più comuni nel bambino piccolo si trovano nel
gioco simbolico o gioco d’immaginazione.
Il gioco simbolico appare circa contemporaneamente al linguaggio, ma indipendentemente da esso, e svolge una funzione notevole nel pensiero dei bambini piccoli,
soprattutto come fonte di rappresentazioni individuali (contemporaneamente cognitive ed affettive) e di schematizzazione rappresentativa parimenti individuale. Per
esempio: la prima forma di gioco simbolico che ho osservato in uno dei miei bambini consisteva nel far finta di dormire: un mattino, ben sveglio e seduto sul letto di sua
madre, il bambino vede un angolo del lenzuolo che gli ricorda l’angolo del suo cuscino (dobbiamo dire che per addormentarsi il bambino teneva sempre con una mano
l’angolo del suo cuscino e si metteva in bocca il pollice di questa mano); prende allora l’angolo del lenzuolo, chiude la mano ben stretta, mette il pollice in bocca,
chiude gli occhi, e sempre seduto, fa un largo sorriso. Abbiamo in questo caso l’esempio di una rappresentazione indipendente dal linguaggio, ma riferita ad un simbolo
ludico, consistente in gesti appropriati che imitano quelli che di solito accompagnano
una determinata azione.
L’azione così rappresentata non ha nulla di presente o di attuale, e si riferisce ad un
contesto o ad una situazione semplicemente evocati, cosa che è appunto il carattere
distintivo della “rappresentazione”.
Il gioco simbolico non è l’unica forma di simbolismo individuale. Possiamo citarne
un’altra che ha inizio anch’essa nella stessa epoca e svolge un ruolo altrettanto importante nella genesi della rappresentazione: è l’“imitazione differita”, o imitazione
che si verifica per la prima volta in assenza del modello corrispondente.
Una delle mie bambine, per esempio, si era sorpresa nel vedere un suo piccolo amico
fare i capricci, gridare e pestare i piedi. In sua presenza non aveva reagito, ma dopo
che se ne fu andato, aveva imitato la scena, ma senza collera alcuna da parte sua.
In terzo luogo, possiamo anche classificare tra i simboli individuali, ogni forma d’immaginazione mentale.
Come attualmente sappiamo, l’immagine non è né un elemento del pensiero stesso
né una continuazione diretta della percezione: è un simbolo dell’oggetto, che non si
manifesta ancora al livello dell’intelligenza senso-motoria (in tal caso la soluzione di
molti problemi pratici sarebbe assai più facile).
L’immagine può venir concepita come un’imitazione interiore del suono corrispondente, e l’immagine visiva è il prodotto di un’imitazione dell’oggetto e della persona,
sia con il corpo intero, sia con i movimenti degli occhi quando si tratta di una forma
di piccole dimensioni.
30
Jean Piaget e lo sviluppo intellettivo nell’infanzia e nella fanciullezza
I tre tipi di simboli individuali che abbiamo ora citato (si potrebbe aggiungervi i
simboli onirici, ma sarebbe un discorso troppo lungo) sono derivati dell’imitazione.
Questa imitazione è quindi uno dei possibili punti di passaggio fra le condotte senso
motorie e le condotte rappresentative, ed essa è naturalmente indipendente dal linguaggio, nonostante serva precisamente alla sua acquisizione.
Possiamo quindi ammettere che esiste una funzione simbolica più ampia di quanto
non sia il linguaggio, e che ingloba, oltre al sistema dei segni verbali, quello dei
simboli in senso stretto. Possiamo dire allora che l’origine del pensiero è da ricercarsi nella funzione simbolica. Ma in modo altrettanto legittimo si può sostenere che la
funzione simbolica stessa si spiega con la formazione delle rappresentazioni.
La caratteristica peculiare della funzione simbolica consiste, infatti, in una differenziazione tra i significanti (segni e simboli) e significati (oggetti o eventi, entrambi schematici o
concettualizzati), Nella sfera senso-motoria esistono già sistemi di significazione, perché
ogni percezione e ogni adattamento cognitivo coesistono nel conferire significazioni
(forme, scopi o mezzi e così). Ma l’unico significante noto alle condotte senso motorie è
l’indice (in contrasto con i segni e i simboli) o il segnale (condotte condizionate).
L’indice e il segnale sono significanti relativamente indifferenziati dai loro significati: sono, infatti, soltanto parti o aspetti del significato come la parte al tutto o i mezzi
allo scopo, e non come un segno o un simbolo che permette di evocare con il pensiero un oggetto o un evento anche assenti.
La costituzione della funzione simbolica consiste invece nel differenziare i significanti dai significati di modo che i primi possano permettere di evocare la rappresentazione dei secondi. Chiedersi se è la funzione simbolica che dà origine al pensiero
o il pensiero che permette la formazione della funzione simbolica è problema inutile,
come chiedersi se è il fiume che disegna le sponde o le sponde che determinano il
percorso del fiume.
Poiché però il linguaggio è una forma particolare della funzione simbolica, e poiché
il simbolo individuale è certamente più semplice del segno collettivo, è permesso
concludere che il pensiero precede il linguaggio, e che quest’ultimo si limita a trasformarlo profondamente, aiutandolo a raggiungere nuove forme d’equilibrio con una
schematizzazione più avanzata, ed un’astrazione più mobile.
Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino,
Einaudi, Torino 1970
❱❱ 2.Le operazioni logiche del bambino
Non è però il linguaggio l’unica fonte di alcune forme particolari del pensiero, quale
pensiero logico? Si conoscono, infatti, le tesi di molti logici (circolo di Vienna, empirismo logico anglosassone e così via) sulla natura linguistica della logica, concepita come sintassi e semantica generali.
Ma, anche in questo caso, la psicologia genetica permette di riportare alle giuste
proporzioni alcune tesi che chi considera soltanto il pensiero adulto è indotto a generalizzare.
Il primo insegnamento tratto dalle ricerche sulla formazione delle operazioni logiche
nel bambino è che queste non vengono costituite in blocco, bensì elaborate in due
tappe successive.
Le operazioni proposizionali (logica delle proposizioni) con le loro particolari strutture globali, che sono quelle del reticolo e di un gruppo di quattro trasformazioni
31
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
(identità, inversione, reciprocità e correlatività), appaiono, infatti, soltanto verso gli
undici – dodici anni e si organizzano sistematicamente soltanto fra i dodici e i quindici. Invece già verso i sette – otto anni vediamo proposizioni come tali, ma sugli
oggetti stessi, le loro classi e relazioni, e organizzati solo in occasione di manipolazioni reali o immaginate di questi oggetti. Questo primo gruppo di operazioni, che
noi chiameremo “operazioni concrete”, consiste soltanto in operazioni sommative e
moltiplicative di classi e relazioni: classificazioni, seriazioni, corrispondenze e così
via. Tali operazioni però non ricoprono tutta la logica delle classi e delle relazioni,
bensì costituiscono soltanto alcune strutture elementari di “raggruppamenti” consistenti in semireticoli e gruppi imperfetti.
Il problema delle relazioni fra il linguaggio e il pensiero può allora venir posto, a
proposito di tali operazioni concrete, nei termini seguenti: è il linguaggio l’unica
fonte delle classificazioni, delle seriazioni, e così via, che caratterizzano la forma di
pensiero legata a tali operazioni, o, al contrario, queste ultime sono relativamente
indipendenti dal linguaggio? Ecco un esempio molto semplice: tutti gli Uccelli (=
classe A) sono degli Animali (= classe, ma tutti gli Animali non sono Uccelli, perché
esistono degli Animali non-Uccelli (classe A’).
Il problema è allora sapere se le operazioni A + A’ = B, e A = B – A’ provengono esclusivamente dal linguaggio – che permette di raggruppare gli oggetti in classi A, A’, B
– o se queste operazioni hanno radici più profonde che non il linguaggio. Possiamo
porre un analogo problema a proposito delle seriazioni A < B < C < … e così via.
Lo studio dello sviluppo delle operazioni nel bambino permette di trarre una constatazione molto istruttiva: che le operazioni che consentono di riunire (+) o di dividere – classi
o relazioni, prima di essere operazioni del pensiero sono azioni propriamente dette. Prima
di essere in grado di riunire o dividere classi relativamente generali e relativamente astratte, come le classi degli Uccelli o degli Animali, il bambino sarà capace, infatti, di classificare in un medesimo campo percettivo un insieme di oggetti riuniti o divisi per mezzo
di manipolazioni prima che per mezzo della parola. Allo stesso modo, prima di essere in
grado di ordinare in serie oggetti evocati con la sola parola (per esempio nel test Burt:
“Edith è più chiara di Susanna e più scura di Lilì, qual è la più scura delle tre?”), il bambino non riesce a costruire la serie se non sotto forma di configurazioni nello spazio, come
quella dei bastoncini di lunghezza crescente e così via.
Le operazioni +, –, e così via, sono quindi coordinamenti fra azioni prima ancora di
poter essere trasposte in una forma verbale; non è quindi il linguaggio la causa della
loro formazione: il linguaggio estende indefinitamente il loro potere, e conferisce loro
una mobilità ed un’universalità che senza di esso, certamente, non avrebbero, ma non
è all’origine di tali coordinamenti.
Ci stiamo attualmente dedicando, con collaborazione con B. Inhelder e Affolter, ad
alcune ricerche per determinare che cosa resti dei meccanismi peculiari alle operazioni concrete nel pensiero dei sordomuti, e sembra che le operazioni fondamentali
inerenti alla classificazione e alla seriazione siano largamente più rappresentate in
questi casi di quanto non si ammetta in genere.
Senza dubbio sarebbe possibile rispondere che il sordomuto possiede un linguaggio
di gesti, e che il bambino piccolo, che costruisce con azioni le classificazioni e le
seriazioni, ha d’altra parte acquisito un linguaggio parlato che può trasformare anche
le stesse manipolazioni.
Basta allora risalire all’intelligenza senso-motoria anteriore all’acquisizione del linguaggio, per trovare negli ordinamenti pratici elementari l’equivalente funzionale delle
32
Jean Piaget e lo sviluppo intellettivo nell’infanzia e nella fanciullezza
operazioni di riunione e divisone. Quando, durante il secondo anno, un bambino alza la
coperta sotto la quale è stato appena nascosto un orologio e, invece di trovare subito
l’orologio, trova un berretto o un cappello (che vi era stato nascosto senza che lui lo
sapesse e sotto il quale è stato fatto scivolare l’orologio), solleva allora immediatamente il berretto, aspettandosi di trovare l’orologio; afferra, quindi, sul piano dell’azione, una
specie di transitività delle relazioni; transitività che sul piano delle parole, potremmo
esprimere come segue: “l’orologio era sotto il cappello, il cappello sotto la coperta,
l’orologio è allora sotto la coperta”. Questa transitività sul piano delle azioni costituisce
l’equivalente funzionale di quello che sarà, sul piano rappresentativo, la transitività
delle relazioni seriali o degli inglobamenti topologici e persino delle inclusioni di classi.
Il linguaggio senza dubbio darà a queste ultime strutture un’universalità e mobilità
ben diverse da quelle manifestate nei coordinamenti senso motori, ma non si potrebbe capire donde provengano le operazioni costitutive degli inglobamenti rappresentativi se esse non affondassero le radici addirittura nei coordinamenti senso-motori
stessi; un gran numero di esempi analoghi a quello appena citato dimostra che tali
coordinamenti implicano sul piano delle azioni delle specie di riunioni e divisioni
paragonabili, dal punto di vista funzionale, alle future operazioni del pensiero.
Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino,
Einaudi, Torino 1970
❱❱ 3.Processi di socializzazione
L’adulto è nello stesso tempo superiore al bambino e vicinissimo a lui. Egli domina ogni
cosa, ma insieme penetra nell’intimità di ogni desiderio e di ogni pensiero. Così il bambino oscilla, nei suoi confronti, tra la domanda o la preghiera e il soliloquio con sentimento
di comunicazione. Talora – come nell’ultimo caso – reagisce di fronte ad un alter ego ingrandito e onnipresente. Tutto quello che il bambino fa è condiviso con la madre senza che
alcuna frontiera separi, dal suo punto di vista, il suo proprio io da questo io superiore. In
questo caso il linguaggio egocentrico supera con l’adulto quello che è con gli altri bambini. Talora invece – come nel primo caso – il bambino si rivolge ai genitori come a volontà
onnipotenti o ad intelligenze superiori. Allora il pensiero del bambino distingue l’io e
l’altro, e così si socializza: ma in tal modo s’instaura un rapporto da inferiore a superiore
e l’autorità spirituale dell’adulto preme con tutto il suo peso sul pensiero del bambino.
Il compagno, d’altra parte, è simile all’io del bambino e nel frattempo molto diverso.
Simile, perché è suo uguale in potenza e sapere; molto diverso tuttavia perché, proprio
per essere situato allo stesso livello, non entra, come un adulto premuroso, nell’intimità dei desideri o nella prospettiva del suo proprio pensiero. Così il bambino si socializza nei confronti dei suoi coetanei in modo del tutto diverso che nei confronti
dell’adulto. Egli oscilla, così, tra due poli, di cui uno è il monologo – individuale o
collettivo – e l’altro è la discussione e lo scambio vero e proprio. Ecco perché il bambino si socializza di più, o perlomeno diversamente, con i suoi coetanei che con
l’adulto soltanto; mentre la superiorità dell’adulto impedisce la discussione o la cooperazione, il compagno crea l’occasione a tali condotte sociali che determinano la vera
socializzazione dell’intelligenza. Al contrario mentre l’uguaglianza dei compagni
impedisce la domanda o l’interrogazione, l’adulto è a disposizione per rispondere.
Esistono dunque due processi distinti di socializzazione. Dal punto di vista del pensiero l’uno è tuttavia più importante dell’altro. Di mano in mano che il bambino
cresce, il suo rispetto per la superiorità dell’adulto diminuisce, o almeno muta carat
33
Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
tere. L’adulto cessa di rappresentare la verità indiscussa, e anzi indiscutibile, e l’interrogazione si muta in discussione. È allora che l’insieme degli atteggiamenti di
socializzazione, preparati dagli scambi fra i coetanei, prende il sopravvento sugli
atteggiamenti di sottomissione intellettuale e costituiscono il tal modo lo strumento
fondamentale di cui l’individuo si servirà sempre di più e per tutta la vita.
Ora se veramente il processo di socializzazione varia a seconda che si tratti di rapporti con l’adulto o rapporti tra bambini, è evidente che gli indici statistici e in particolare la percentuale del linguaggio socializzato varieranno non solo in funzione del
bambino ma anche e in larga misura dell’adulto. Se l’adulto s’impone la regola fondamentale di limitare i suoi interventi al minimo indispensabile, il bambino oscilla
nei suoi confronti tra il soliloquio e l’interrogazione, insieme con, fra i due, una piccola proporzione d’informazione adattata o di discussione embrionale. Ma, se l’adulto interviene continuamente, dipenderà da lui ridurre a proporzioni adeguate il soliloquio del bambino e sviluppare il dialogo.
Le discussioni che ne seguiranno saranno fondamentali dal punto di vista del numero; ma, come qualità potranno esse paragonarsi alle discussioni spontanee di cui il
bambino sente lui stesso il bisogno? S’innestano qui tutti i problemi dell’educazione
“attiva” e dell’educazione a base d’autorità.
Affronteremo questo punto per far intendere come siano agevolmente compatibili
risultati così diversi come quelli della Leuzinger e quelli di Katz. Nel loro lavoro
intitolato Gesprache mit Kindern gli autori ci descrivono l’esempio di due bambini
privi d’egocentrismo verbale tra loro e soprattutto con i loro genitori.
Le 154 conversazioni riportate, infatti, sono esempi di dialogo adattato. Questi fatti
però non possono essere assunti come fatti generali. Ripetiamo: è difficile giudicare
il fatto che questi bambini non prestino alcun monologo collettivo tra loro mancando
i dati statistici e le note integrali delle frasi successive dette durante alcuni giorni.
Le nostre due bambine, unite come lo sono due sorelle e capaci di collaborazione e
anche di vera discussione, hanno al contrario oscillato a lungo tra il monologo a due
e il dialogo vero e proprio, prima che il secondo avesse il sopravvento sul primo. A
noi sembra difficile che un po’ di tali reazioni non si trovino in tutti i bambini.
Quanto alle interessanti conversazioni con i genitori riportate dai Katz, è impossibile
non rilevare, leggendole, gli opposti atteggiamenti adottati dagli adulti riguardo a
Hans Leuzinger e a Teodoro e Giulio Katz. Senza dilungarci a caratterizzare la differenza delle pedagogie rivelata da queste conversazioni, constatiamo che la maggior
parte degli scambi citati dai Katz sono diretti dall’adulto stesso. Un gran numero di
tali dialoghi sono esami di coscienza o confessioni spirituali, durante i quali si chiede
al bambino, a sera, se è stato buono, se ha disobbedito, e così via.
I bambini sono talmente abituati a questo schema di conversazione imposto che talvolta reclamano essi stessi di venire interrogati sulle loro mancanze: “Frag mich, ob
ich ungezogen war” (Domandami se sono stato maleducato).
Inoltre quando i bambini pongono dei problemi puramente intellettuali, vi è la tendenza a risponder loro senz’altro anziché indurli a cercare da sé le soluzioni, o discutere con loro su di un piano d’uguaglianza.
In poche parole, se noi distinguiamo, come abbiamo altrove tentato, il rispetto unilaterale e il mutuo rispetto, si può dire che queste conversazioni sono impregnate del
primo tipo di rispetto, tanto dal punto di vista intellettuale che da quello morale.
Jean Piaget, Il linguaggio e il pensiero del fanciullo,
Editrice Universitaria, Firenze 1955
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Jean Piaget e lo sviluppo intellettivo nell’infanzia e nella fanciullezza
❱❱ 4.Sviluppo psichico e crescita organica
Lo sviluppo psichico, che comincia con la nascita e termina con l’età adulta, è paragonabile alla crescita organica: come questa ultima, consiste essenzialmente in un
cammino verso l’equilibrio. Infatti, così come il corpo è in evoluzione sino ad un
livello relativamente stabile, caratterizzato dal compimento della crescita e la maturità degli organi, analogamente possiamo concepire la vita mentale come evolventesi in direzione di una forma d’equilibrio finale rappresentata dalla mente adulta. Lo
sviluppo è quindi, in un certo senso, un progressivo equilibrarsi, un passaggio continuo da uno stato di minor equilibrio ad uno d’equilibrio superiore: per quanto riguarda l’intelligenza, è facile contrapporre l’instabilità e l’incoerenza relative delle idee
infantili alla sistematizzazione della ragione adulta; nella sfera della vita affettiva, si
è spesso notato come l’equilibrio dei sentimenti si accresca con l’età; i rapporti sociali infine obbediscono alla stessa legge di stabilizzazione graduale.
Dobbiamo tuttavia sottolineare sin dall’inizio una differenza essenziale fra la vita del
corpo e quella della psiche, se vogliamo rispettare il dinamismo inerente alla realtà
psichica: la forma finale d’equilibrio raggiunta dalla crescita organica è più statica di
quella verso cui tende lo sviluppo mentale, e soprattutto più instabile, tanto che, non
appena si compie l’evoluzione ascendente, ha automaticamente inizio un’evoluzione
regressiva che porta alla vecchiaia. Esistono alcune funzioni psichiche, strettamente
dipendenti dallo stato degli organi, che seguono una curva analoga: l’acutezza visiva,
ad esempio, raggiunge un punto massimo verso la fine dell’infanzia, per diminuire in
seguito, e molte relazioni percettive sono rette dalla stessa legge. Le funzioni superiori dell’intelligenza e dell’affettività tendono al contrario verso un “equilibrio
mobile”, tanto più stabile, quanto più è mobile, di modo che, per le menti sane, la fine
della crescita non segna affatto l’inizio della decadenza, bensì apre la via ad un progresso spirituale che nulla ha di contraddittorio con l’equilibrio interno.
È in termini d’equilibrio, quindi, che cercheremo di descrivere l’evoluzione del bambino e dell’adolescente. Da questo punto di vista lo sviluppo mentale è una costruzione continua, paragonabile a quella di un vasto edificio che ad ogni aggiunta divenga
più solido, o piuttosto alla messa a punto di un delicato meccanismo, le cui fasi graduali di montaggio portino ad un’elasticità e mobilità degli elementi tanto maggiore,
quanto più stabile divenga il loro equilibrio. A questo punto, dobbiamo però introdurre un’importante distinzione fra due aspetti complementari di questo processo di costituzione dell’equilibrio: è opportuno scindere sin dall’inizio le strutture variabili, che
definiscono le forme o stati successivi dell’equilibrio, ed un certo funzionamento costante, che permette il passaggio da uno stato qualsiasi al livello successivo.
Effettivamente, quando si paragona il fanciullo all’adulto si è talvolta colpiti dall’identità delle reazioni – si parla allora di “piccola personalità”, per dire che il bambino sa
bene quello che desidera ed agisce, come noi, in funzione d’interessi precisi; talvolta
si scopre invece una quantità di differenze – nel gioco, per esempio, o nel modo di
ragionare, e si dice allora che “il bambino non è un piccolo adulto”. Volta a volta, le
due impressioni sono esatte: da un punto di vista funzionale, cioè considerando i
moventi della condotta e del pensiero, esistono funzionamenti costanti, comuni a
tutte le età: ad ogni livello l’azione suppone sempre un interesse che la provochi, si
tratti di un bisogno fisiologico, affettivo o intellettuale (in quest’ultimo caso il bisogno
si presenta sotto forma di un interrogativo o problema); ad ogni livello, l’intelligenza
cerca di comprendere o di spiegare e così via. Ma se le funzioni dell’interesse della
spiegazione e così via sono dunque comuni a tutti gli stadi, cioè “invarianti” in quan
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
to funzioni, è altrettanto vero che gli “interessi” (contrapposti all’“interesse”) variano
considerevolmente da un livello mentale all’altro, e le spiegazioni particolari (contrapposte alla funzioni dello spiegare) sono forme molto diverse a seconda del grado
di sviluppo intellettuale. Accanto alle funzioni costanti si devono quindi distinguere
le strutture variabili: ed è precisamente l’analisi di queste strutture progressive, o
forme successive, d’equilibrio, che permette di determinare le differenze od opposizioni da un livello all’altro della condotta, dai comportamenti elementari del neonato
sino all’adolescenza.
Le strutture variabili saranno dunque le forme d’organizzazione dell’attività mentale,
considerata nel suo duplice aspetto motorio e intellettuale da un lato, e affettivo
dall’altro, e nelle sue dimensioni individuale e sociale (interindividuale). Per maggiore chiarezza distingueremo sei stadi o periodi di sviluppo che indicano l’apparizione di queste strutture costruite in successione:
1) Lo stadio dei riflessi o meccanismi ereditari, delle prime tendenze istintive (alimentari) e delle prime emozioni.
2) Lo stadio delle prime abitudini motorie e delle prime percezioni organizzate, così
come dei primi sentimenti differenziati.
3) Lo stadio dell’intelligenza senso-motoria o pratica (anteriore al linguaggio), delle
organizzazioni affettive elementari e delle prime fissazioni esterne dell’affettività.
Questi tre primi stadi costituiscono insieme il periodo della prima infanzia (sino
a circa un anno e mezzo-due anni, cioè prima degli sviluppi del linguaggio e del
pensiero propriamente detto).
4) Lo stadio dell’intelligenza intuitiva, dei sentimenti interindividuali spontanei, e
dei rapporti sociali di subordinazione all’adulto (dai due ai sette anni), o seconda
fase dell’infanzia propriamente detta).
5) Lo stadio delle operazioni intellettuali concrete (inizio della logica) e dei sentimenti morali e sociali di cooperazione (dai sette agli undici-dodici anni).
6) Lo stadio delle operazioni intellettuali astratte, della formazione della personalità
e dell’inserimento affettivo ed intellettuale nel mondo degli adulti (adolescenti).
Ognuno di questi stadi è caratterizzato dunque dall’apparizione di strutture originali,
la cui costruzione lo distingue dagli stadi anteriori. I caratteri essenziali di queste
successive costruzioni persistono nel corso degli stadi anteriori, come sottostrutture
sulle quali vengono edificandosi i nuovi caratteri: ne consegue che nell’adulto ogni
stadio precedente corrisponde ad un livello più o meno elementare o elevato della
gerarchia delle condotte. Ma ad ogni stadio corrispondono anche caratteri contingenti e secondari, che vengono modificati dallo sviluppo ulteriore in funzione dei bisogni
di una migliore organizzazione. Ogni stadio costituisce dunque, attraverso le strutture che lo definiscono, una forma specifica d’equilibrio, e l’evoluzione mentale si realizza nella direzione di un equilibrarsi sempre più avanzato.
Possiamo allora definire quali sono i meccanismi funzionali comuni ad ogni stadio.
In modo del tutto generale possiamo dire (non solo confrontando ogni stadio al successivo, ma ogni condotta all’interno di un qualsiasi stadio alla condotta successiva)
che ogni azione – cioè ogni movimento, ogni pensiero od ogni sentimento – risponde
ad un bisogno.
Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino,
Einaudi, Torino 1967
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Jean Piaget e lo sviluppo intellettivo nell’infanzia e nella fanciullezza
❱❱ 5.Il diritto all’educazione
L’evoluzione interna dell’individuo fornisce soltanto un numero più o meno grande,
a seconda delle attitudini di ciascuno, di abbozzi suscettibili di essere sviluppati, distrutti o lasciati ad uno stadio incompleto. Ma non sono che degli abbozzi, e soltanto
le interazioni sociali e educative li trasformeranno in condotte efficaci oppure li distruggeranno per sempre.
Il diritto all’educazione è dunque, né più né meno, il diritto dell’individuo a svilupparsi normalmente, in funzione delle possibilità di cui dispone, e l’obbligo, per la
società, di trasformare queste possibilità in realizzazioni effettive e utili.
Jean Piaget, Dove va l’educazione?, Armando, Roma 2000
❱❱ 6.Meccanismi d’equilibrio
Il bambino, come l’adulto, non esegue alcuna azione, esterna o anche totalmente
interiore, se non è spinto da un movente, e tale movente si presenta sempre sotto
forma di un bisogno (un bisogno elementare, un interesse, un interrogativo e così via).
Ma, come ha ben dimostrato Claparède, un bisogno è sempre la manifestazione di
uno squilibrio: si ha bisogno quando qualche cosa al di fuori di noi o dentro di noi,
nella nostra struttura fisica o mentale, si è modificato, e quando si tratta di riadattare
la condotta in funzione di questo cambiamento.
La fame o la stanchezza, per esempio, determineranno la ricerca del nutrimento o
del riposo; l’incontro con un oggetto esterno provocherà il bisogno di giocare, la
sua utilizzazione a fini pratici o susciterà un interrogativo, un problema teorico;
una parola altrui ecciterà il bisogno di imitare, di simpatizzare, oppure susciterà
la riserva o l’opposizione, poiché entra in conflitto con una nostra qualsiasi tendenza.
Inversamente, l’azione si conclude, quando si fa soddisfazione dei bisogni, cioè
quando si è ristabilito l’equilibrio tra il fatto nuovo che ha provocato il bisogno, e la
nostra organizzazione mentale quale si presentava anteriormente ad esso.
Mangiare o dormire, giocare o raggiungere i propri scopi, rispondere ad un interrogativo o risolvere un problema, riuscire in una buona imitazione, stabilire un legame
affettivo, mantenere il proprio punto di vista, sono altrettante soddisfazioni che, negli
esempi precedenti, porranno termine alla condotta specifica suscitata dal bisogno. Si
potrebbe così dire che ad ogni istante l’azione viene squilibrata dalle trasformazioni
che si manifestano nel mondo, esterno od interno, e ogni nuova condotta consiste non
soltanto nel ristabilire l’equilibrio, ma anche nel tendere verso un equilibrio più stabile di quello dello stato anteriore a questa perturbazione.
L’azione umana consiste appunto in questo continuo e perpetuo meccanismo di riadattamento o riequilibrio, e proprio per tale ragione nelle prime fasi di costruzione le
strutture mentali successive, determinate dallo sviluppo, possono venir considerate
come altrettante forme d’equilibrio, ognuna delle quali è un progresso rispetto alle
precedenti. Occorre però comprendere anche che questo meccanismo funzionale, per
quanto generale sia, non spiega il contenuto o la struttura dei diversi bisogni, poiché
ognuno di essi è relativo all’organizzazione del livello considerato; la vista di uno
stesso oggetto, per esempio, provocherà domande molto diverse in un bambino piccolo, ancora incapace di classificazione, e in un grande, con idee più ampie e sistematiche.
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Gli interessi di un bambino dipendono quindi in ogni momento dall’insieme delle
nozioni acquisite e delle disposizioni affettive, in quanto tendono a completarle nella direzione di un migliore equilibrio.
Prima di esaminare in modo particolareggiato lo sviluppo, occorre precisare la forma
generale dei bisogni e degli interessi comuni a tutte le età. Possiamo dire, a questo
proposito, che ogni bisogno tende 1) ad incorporare le cose e le persone all’attività
propria del soggetto, quindi ad “assimilare” il mondo esterno alle strutture già costruite, e 2) a riadattare queste in funzione della trasformazioni subite, quindi “accomodarle” agli oggetti esterni. Da questo punto di vista, tutta la vita mentale, come del resto la
stessa vita organica, tende ad assimilare progressivamente l’ambiente circostante, realizzando quest’incorporazione per mezzo di strutture, od organi psichici, il cui raggio
d’azione diviene sempre più ampio: la percezione e i movimenti elementari (prensione
e così via) permettono dapprima il possesso degli oggetti vicini e nel loro stato presente, più tardi la memoria e l’intelligenza pratica permettono sia di ricostituire il loro
stato immediatamente anteriore, sia di anticipare le loro trasformazioni imminenti; il
pensiero intuitivo rafforza poi questi due poteri; l’intelligenza logica, prima nella forma
delle operazioni concrete, poi della deduzione astratta, compie quest’evoluzione, rendendo il soggetto padrone degli avvenimenti più lontani nello spazio e nel tempo.
In ognuno di questi livelli la mente assolve, quindi, la medesima funzione, che è
quella d’incorporare a sé l’universo, ma la struttura di tale assimilazione varia, variano cioè le forme successive d’incorporazione, dalla percezione e dal movimento sino
alle operazioni superiori.
Così, assimilando gli oggetti, l’azione ed il pensiero sono costretti ad aggiustarsi ad
essi, cioè a ridimensionarsi in seguito ad ogni variazione esterna.
Possiamo chiamare “adattamento” l’equilibrio di assimilazioni ed accomodamenti; questa
è la forma generale dell’equilibrio psichico; lo sviluppo mentale consisterebbe quindi
nella sua progressiva organizzazione, in un adattamento sempre più preciso alla realtà.
Studieremo ora concretamente le tappe di quest’adattamento.
Jean Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino,
Einaudi, Torino 1967
❱❱ 7.L’apprendimento costruttivo
Si è a lungo considerato il bambino come protagonista passivo di un processo d’apprendimento limitato a “registrare” ciò che nel mondo dell’esteriorità già organizzata è inscritto in anticipo, e soprattutto ciò che l’adulto gli insegna.
Ebbene, due grandi lezioni ci vengono da una migliore conoscenza del bambino: l’universo non è, in realtà, organizzato che alla condizione di avere reinventato poco a poco
tale organizzazione, strutturando gli oggetti, lo spazio, il tempo e la causalità e costituendoli in complesso logico; mai nulla si apprende dai maestri se non ricostruendo, allo
stesso modo, il loro pensiero: senza quest’organica appropriazione, esso non potrebbe mai
fissarsi nell’intelligenza e nemmeno nella memoria (cosa che si constata direttamente).
In una parola, la psicologia del bambino c’insegna che lo sviluppo è una costruzione
reale, al di là di innatismo ed empirismo, e che non si risolve in un’accumulazione
additiva di acquisizioni isolate, ma è una costruzione di strutture.
Jean Piaget, Le scienze dell’uomo,
Laterza, Roma-Bari 1983
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Lev S. Vygotskij, i processi
cognitivi e l’origine del linguaggio
➜
Lev S. Vygotskij
Nacque a Gomel, in Russia, nel 1896, e morì
a Mosca, nel 1934.
Si laureò all’Università di Mosca e s’interessò di psicologia e di psicopatologia
dell’educazione e dello sviluppo.
È stato il fondatore della scuola storicoculturale sovietica.
Il pensiero di Vygotskij, giacché divergeva
dall’impostazione di Pavlov, venne ostacolato dal comunismo staliniano e fu ripreso
soltanto, dopo la morte di Stalin, negli anni
Cinquanta del Novecento.
Ha studiato soprattutto i processi cognitivi e l’origine del linguaggio.
Per quanto concerne i processi cognitivi,
Vygotskij ha, al contrario di Piaget, sostenu-
to che nel bambino la funzione interpsichica
si sviluppa prima di quella intrapsichica.
Il linguaggio, anche se è strutturato su
potenzialità innate, ha, perciò, origine, per
Vygotskij, dall’interazione individuo-ambiente.
Esso si trasforma, poi, in linguaggio “interno” e contribuisce, in tal modo, alla
strutturazione del pensiero.
Il linguaggio è, dunque, da un lato, strumento di comunicazione e, dall’altro, regolatore di comportamenti.
Le sue opere principali sono: Pensiero e
linguaggio (postuma, 1934); Immaginazione e creatività nell’età infantile (1972); Il
processo cognitivo (postuma, 1980).
❱❱ 1.Dal pensiero alla parola
Il pensiero non coincide in maniera immediata con la sua espressione verbale.
Il pensiero non consiste di singole parole come il linguaggio.
Se io desidero esprimere il pensiero che oggi ho visto un ragazzo con una camicia
blu che correva scalzo per la strada, io non vedo prima il ragazzo, poi la camicia, poi
il suo colore blu, poi i piedi scalzi e poi l’azione del correre; io vedo tutte queste cose
insieme, collegate in un unico atto del pensiero, ma le esprimo mediante il linguaggio
differenziandole in singole parole.
Il pensiero rappresenta una totalità notevolmente maggiore e per estensione e per
comprensione di una singola parola.
Spesso un oratore impiega diversi minuti per sviluppare un unico pensiero appunto
perché questo è contenuto nella sua mente come un tutto globale e unitario e non si
costituisce un po’ per volta per singole unità, come si costituisce invece il linguaggio.
Quello che nel pensiero è contenuto simultaneamente, sul piano del linguaggio si
esplica in ordine di successione.
Il pensiero potrebbe essere paragonato ad una nuvola che rovescia giù un acquazzone di parole.
Il passaggio dal pensiero al linguaggio è un processo molto complesso che presuppone un frazionamento del pensiero e una reintegrazione ed espressione in più parole.
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
Proprio a causa di questa divergenza del pensiero del pensiero sia rispetto alle parole
sia rispetto ai significati delle parole nelle quali esso esprime, il percorso dalla parola al pensiero passa attraverso il significato.
Dietro le nostre parole c’è sempre un pensiero latente, una sorta di sottofondo.
Lev S. Vygotskij, Linguaggio e pensiero,
Giunti-Barbera, Firenze 1976
❱❱ 2.Segni e significati
Il pensiero è mediato, non soltanto esteriormente, dai segni, ma anche interiormente,
dai significati. In effetti, una comunicazione immediata delle coscienze è impossibile sia fisicamente che psicologicamente.
La mediazione del pensiero avviene dapprima interiormente attraverso i significati,
poi attraverso le parole. È per questo che il pensiero non è mai l’immediato equivalente del significato della parola; il significato è l’elemento che media il pensiero nel
suo cammino verso l’espressione verbale: il percorso dal pensiero alla parola è dunque indiretto e mediato dall’interno.
Lev S. Vygotskij, Linguaggio e pensiero,
Giunti-Barbera, Firenze 1976
❱❱ 3.Concetti spontanei e concetti scientifici
Quantunque i concetti spontanei e quelli scientifici si sviluppino in direzioni inverse,
i due processi sono strettamente collegati.
Lo sviluppo di un concetto spontaneo deve aver raggiunto un certo livello perché il
bambino sia in grado di assorbire un concetto scientifico ad esso corrispondente.
Per esempio, i concetti storici incominciano a svilupparsi solo quando il concetto quotidiano che il bambino si fa del passato, è sufficientemente differenziato – quando la
sua propria vita e la vita di quelli che lo circondano possono venire adattate allo schema
generalizzante “passato e presente”, di carattere elementare; i suoi concetti geografici
e sociologici devono svilupparsi partendo dal semplice schema “qui e altrove”.
Nell’aprirsi la sua lenta strada verso l’alto, il concetto quotidiano prepara la via al
concetto scientifico ed allo sviluppo di questo ultimo verso il basso. Esso crea una
serie di strutture necessarie a quell’evoluzione degli aspetti più primitivi e più elementari di un concetto, che dà al concetto corpo e vitalità.
I concetti scientifici provvedono a loro volta le strutture per lo sviluppo dei concetti
spontanei del bambino verso la consapevolezza e l’uso deliberato. I concetti scientifici si sviluppano verso il basso grazie ai concetti spontanei; i concetti spontanei si
sviluppano verso l’alto grazie ai concetti scientifici.
Lev S. Vygotskij, Linguaggio e pensiero,
Giunti-Barbera, Firenze 1976
❱❱ 4.L’attività creativa dell’uomo
Non è difficile rilevare nel comportamento dell’uomo, oltre un’attività riproduttiva,
anche un secondo tipo di attività, quella combinatrice o creativa […].
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Lev S. Vygotskij, i processi cognitivi e l’origine del linguaggio
Il cervello non è soltanto un organo che conserva e riproduce la nostra antecedente
esperienza: è anche un organo che combina, che rielabora creativamente e, dagli elementi dell’esperienza antecedente, forma delle nuove situazioni e un nuovo comportamento. Se l’attività umana si limitasse a riprodurre ciò che è vecchio, l’uomo sarebbe un essere rivolto unicamente al passato, capace di adattarsi al futuro, solo se questo
fosse una riproduzione del passato.
L’attività creativa è, quindi, quella che rende l’uomo un essere rivolto al futuro, capace di dar forma a quest’ultimo e di mutare il proprio presente.
A quest’attività creativa, fondata sulle facoltà combinatorie del nostro cervello, la
psicologia dà il nome d’immaginazione o fantasia. Solitamente, quando si parla
d’immaginazione o di fantasia, si pensa a quel che s’intende scientificamente con
questi termini. Si chiama così, volgarmente, tutto ciò che è irreale, che non s’accorda
con la realtà delle cose e che, perciò, non può avere alcun serio valore pratico.
La verità che l’immaginazione, in quanto fondamento d’ogni attività creativa, si
manifesta in tutti – senza eccezione – gli aspetti della vita culturale, rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e tecnica.
In questo senso, tutto ciò che ci circonda e che è stato creato dall’uomo, tutto il mondo della cultura, è per intero, rispetto a quello della natura, un prodotto dell’immaginazione umana e della creatività che su questa si fonda.
Lev S. Vygotskij, Immaginazione e creatività nell’età infantile,
Editori Riuniti, Roma 1972
❱❱ 5.Generalizzazione e comunicazione
La funzione primaria del linguaggio è la comunicazione, il rapporto sociale. Quando
il linguaggio venne studiato attraverso l’analisi degli elementi, anche questa funzione fu superata dalla funzione intellettuale del linguaggio.
Entrambe vennero studiate come se fossero funzioni separate, anche se parallele,
senza prestare attenzione al loro rapporto strutturale e di sviluppo […].
Solo in questo modo è possibile la comunicazione, perché l’esperienza individuale
risiede nella propria coscienza ed è, a rigor di termini, non comunicabile.
Per diventare comunicabile deve essere inclusa in una certa categoria che, per tacita
convenzione, la società umana considera come una unità. Così, una vera comunicazione umana presuppone un atteggiamento generalizzante che costituisce uno stadio
avanzato nello sviluppo dei significati della parola.
Le forme più elevate dei rapporti umani sono possibili solo perché il pensiero dell’uomo
riflette realtà concettualizzate. Questa è la ragione per cui certi pensieri non possono
essere comunicati ai bambini, anche se essi hanno familiarità con le parole necessarie.
Può ancora mancare il concetto sufficientemente generalizzato che solo assicura una
completa comprensione […].
La concezione del significato della parola come unità sia del pensiero generalizzante
che dei rapporti sociali, ha un valore incalcolabile per lo studio del pensiero e del
linguaggio. Essa permette vere analisi genetico-causali, studi sistematici dei rapporti tra lo sviluppo della capacità di pensare del bambino ed il suo sviluppo sociale.
L’interrelazione di generalizzazione e comunicazione può considerarsi come un punto focale secondario del nostro studio.
Lev S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio,
Giunti-Barbèra, Firenze 1966
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Antologia degli autori più rappresentativi della psicologia
❱❱ 6.Intelletto e affettività
Consideriamo il rapporto tra intelletto ed affettività.
La loro separazione come materia di studio è la maggiore debolezza della psicologia
tradizionale, poiché essa fa apparire il processo del pensiero come un flusso autonomo di “pensieri pensanti se stessi”, separati dalla pienezza della vita, dagli interessi
e dai bisogni personali, dalle inclinazioni e dagli impulsi di colui che pensa. Tale
pensiero separato deve essere considerato o come un epifenomeno insignificante,
incapace di cambiare alcuna cosa nella vita o nella condotta di una persona, o come
una specie di forza primordiale che esercita un’influenza sulla vita personale in modo
inspiegabile e misterioso.
Non esiste soluzione al problema della causa e dell’origine dei nostri pensieri, poiché
l’analisi deterministica richiederebbe una chiarificazione delle forze motrici che dirigono il pensiero in questo o in quel canale. Nello stesso modo, la vecchia maniera
di accostarsi al problema preclude ogni studio fecondo del processo opposto, l’influenza del pensiero sulla vita affettiva e sulla volizione.
L’analisi per unità indica il modo di risolvere questi problemi d’importanza vitale.
Dimostra l’esistenza di un sistema dinamico del significato nel quale si uniscono
l’affettivo e l’intellettuale.
Dimostra che ogni idea comporta un mutamento nell’atteggiamento affettivo verso
la parte di realtà cui si riferisce.
Ci permette, inoltre, di tracciare il percorso che va dai bisogni e dagli impulsi di una
persona fino alla direzione specifica presa dai suoi pensieri, ed il percorso inverso,
dai pensieri al suo comportamento ed alla sua attività.
Lev S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio,
Giunti-Barbera, Firenze 1966
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