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«A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d`Italia

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«A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d`Italia
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
“Prometeo. Rivista trimestrale di scienze e storia”,
Anno 19, n. 75, Settembre 2001, pp. 26-33
L’italiano perenne e Andrea Camilleri
Nunzio La Fauci
Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da
considerare essenzialmente come un atto di politica culturalenazionale (nel senso che nazionale aveva in quel tempo e in
Dante)…
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Quaderno 29 (XXI).
1935. Note per una introduzione allo studio della grammatica
Era una notte che faceva spavento, veramente scantusa. Il non
ancora decino Gerd Hoffer, ad una truniata più scatasciante
delle altre, che fece trimoliare i vetri delle finestre, si
arrisbigliò con un salto, accorgendosi, nello stesso momento,
che irresistibilmente gli scappava.
È l’incipit del Birraio di Preston di Andrea Camilleri (Sellerio, Palermo 1995)
ed è un manifesto dell‘italiano d’oggi e un problema per chiunque se ne occupi,
soprattutto ma non solo dal punto di vista della lingua letteraria. Così decreta
lo
straordinario
successo
che
accompagna
in
questi
anni
ogni
opera
dello
scrittore siciliano. La sua capacità affabulatrice è certo una ragione del
successo.
tuttavia
Come
solo
per
ogni
perché
altro
in
fare
funzione
linguistico
d’una
forma.
tale
Questa
affabulazione
forma
è
una
esiste
forma
d’italiano.
Che
lingua
è
allora
l’italiano
d’oggi,
se
consente
a
Camilleri
di
apparecchiare il suo teatrino idiomatico con la complice cooperazione di frotte
di lettori? La risposta è semplice: ancora nel Duemila, l’italiano è una lingua
lieve. Del resto, da sempre lieve è l’aggettivo più appropriato per qualificare
la vicenda storica e culturale dell’italiano.
L’italiano sta anzitutto dove è cresciuto il compaginamento unitario di
una variegata fenomenicità italoromanza, alle cui ragioni presto si accennerà. A
partire da lì, esso sta dove l’hanno portato enti simbolici, impalpabili e
volatili, ambiguamente angelici e mercuriali (come le arti, la scienza, il
denaro) e sta dove l’ha portato un’inerme diaspora umana. Così, unica tra le
maggiori lingue europee di cultura, l’italiano si distribuisce nel mondo in modi
1
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
che devono poco al peso di un potere tradizionale e delle sue inevitabili,
macroscopiche violenze. Esso non ha viaggiato sui galeoni degli schiavisti e ha
viaggiato poco o nulla sulle cannoniere dell’imperialismo economico, come sulla
punta delle baionette e sui cingoli dei carri armati. Una circostanza che
potrebbe essere motivo di gloria per la cultura e per la nazione italiana.
Questa rivendicazione urta però con la necessaria consapevolezza delle
vicende
cruente,
pur
se
lontane,
che
si
accompagnarono
all’unificazione
linguistica e politica della Penisola per opera di Roma antica. Si tratta in tal
caso
di
abbracciare
una
prospettiva
che
trascende
storicamente
la
vicenda
dell’italiano, ma che (come accade di frequente con le lingue) non la trascende
diacronicamente. Quell’antica unificazione individua, come condizione nascosta,
il correlato fattuale della designazione non soltanto di italoromanzo (che è
nozione secondaria), ma a ben guardare di uno dei due concetti categoriali su
cui è costruito italoromanzo.
L’universo italoromanzo, l’«ytala silva» del De Vulgari Eloquentia non si
presenta così ricca di varietà e così multiforme per un difetto d’unificazione
politica. La storiografia linguistica moderna è stata influenzata in Italia da
un prolungato, enfatico clima risorgimentale e dall’idealismo storicista su cui
si è formata l’ideologia nazionale a cui si allude con l’epigrafe: per certi
versi, un’ideologia egemone ancora oggi. Per questa ragione, tale storiografia
si è soprattutto interessata più alla fenomenicità politico-sociale che alla
realtà della diacronia linguistica. Le ragioni di questo interesse sono certo
state civili, ma nel senso in cui questa qualificazione ha sempre avuto corso in
Italia: quello per cui il prevalere d’una parte, con qualsiasi mezzo, è ipso
facto un bene per l’intera comunità, che va guidata e indirizzata verso l’unità.
Questa
storiografia
ha
così
reso
molto
popolare
l’idea
del
difetto
d’unificazione politica. Questa idea era ed è funzionale ad un progetto di
nazione che si è realizzato nei suoi effetti pratici proprio mentre, in un lento
processo, dal Risorgimento ad oggi, una dopo l’altra le sue premesse concettuali
e ideologiche naufragavano in maniera lampante. È facilissimo ammettere che tale
difetto di unificazione sia esistito, ma sarebbe stato e sarebbe ancora il caso
di chiedersi, con Cattaneo, se non si trattasse d’una qualità più che d’una
mancanza, da cui si sarebbe potuto, e da sempre, trarre partito. Il difetto di
unificazione
circostanza
era
più
in
ogni
importante.
caso
soltanto
una
circostanza
Logicamente,
più
che
il
e
certo
frutto
d’un
non
la
difetto
d’unificazione politica (dir questo significa, a ben vedere, porre il carro
davanti
ai
buoi),
la
molteplicità
italoromanza
è
l’esito
d’un
processo
di
diversificazione linguistica che ha avuto modo di dispiegarsi molto largamente
perché è partito da un’unità molto antica, un’unità precoce e profonda, certo la
più antica, la più precoce e la più profonda dell’intera Romània.
In
altre
consentita
da
parole,
questo
la
molteplicità
retaggio
diacronico
2
italoromanza
di
profonda
fu
ed
è
ancora
unitarietà,
che
oggi
essa
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
custodisce e cela al suo interno. Per lenta deriva, una forma diacronica si è
realizzata, si è atteggiata, si è manifestata in innumerevoli fogge diverse.
Nella
concretezza
della
loro
vita
comunicativa,
ai
parlanti
d’Italia
si
è
offerta così facoltà di verificare giorno per giorno e per secoli e secoli
l’esistenza di articolazioni diverse d’una forma unitaria. Dal punto di vista
linguistico, ciascuna di tali articolazioni è stata, è ancora a pieno titolo
realizzazione ed interprete di quella forma celata, che appunto in ciascuna
continua ad esistere. Insomma, quest’unità diacronica è quanto soggiace alla
diversità italoromanza e, in larga misura, la spiega. In assenza o in presenza
solo
molto
debole
di
fattori
extra-linguistici
determinanti,
la
vicenda
culturale, civile e politica del prevalere di una varietà su tutte le altre come
varietà di riferimento ha potuto poi verificarsi storicamente proprio perché si
è innestata su quest’unità diacronica. In condizioni politiche e sociali di
frammentazione come quelle a cui si rivolgono i ben noti biasimi degli storici
(e dei linguisti che non sanno immaginare la loro disciplina se non in un ruolo
ancillare), a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente non dico di fare
l’italiano, ma anche solo di parlarne (pur se non necessariamente con tale
nome), se l’italiano non ci fosse già stato, almeno sotto la forma di una realtà
diacronica.
La
vicenda
storica
e
materiale
ha
un
senso
linguistico,
per
dirla
filosoficamente, solo in riferimento a tale forma unitaria, pronta a modellare
in uno spazio concettuale gli schemi indispensabili al fissarsi dell’egemonia di
una varietà specifica. Una varietà egemone però non ha mai esaurito né ancora
oggi esaurisce l’italiano, nei processi comunicativi giornalieri come nella
produzione letteraria. L’unità intrinseca dell’italiano è un dato metastorico,
ma la sua eventuale effettiva uniformazione fenomenica, se mai avverrà, dovrà
attendere ancora molto tempo. In effetti, la toscanità dell’italiano è in realtà
un puro accidente: un accidente necessitato da ragioni storiche e culturali, e
linguistiche solo nella misura in cui l’aspetto assunto da quell’accidente per
via diacronica (non certo storica) in un’epoca cruciale si è prestato facilmente
a dare albergo a quell’essenza unitaria profonda.
Non è facile accostarsi all’Italia linguistica scevri da pregiudizi e
senza provare un qualche sconcerto. Del resto, molti di quei pregiudizi sono
stati e vengono ancora propalati proprio dalla cultura italiana. Questa cultura
si è impelagata per secoli in una celeberrima, nominalistica questione della
lingua,
di
natura
talvolta
più
politica
o
personale
che
autenticamente
linguistica: una questione divenuta presto un luogo comune. Lo sconcerto (e
penso soprattutto agli studiosi stranieri) discende invece dalla percezione di
un permanente disordine linguistico di superficie, persistente ancora oggi pur
se sotto forme diverse da quelle passate.
Ora,
il carattere
dell’italiano
consiste
proprio
in questa
molteplice
unità. Essa dà semplicemente ragione di un fatto importante, forse il più
3
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
importante in questa discussione: l’Italia non c‘era ancora e, al di là delle
ipotetiche stime quantitative sul numero dei suoi parlanti, l’italiano c’era già
qualitativamente, plurale come è sempre stato nelle sue realizzazioni. Essa
consente di comprendere perché è lecito fare una predizione di solo apparente
assurdità:
l’Italia
sopravviverebbe
a
potrebbe
lungo,
anche
ancora
smettere
in
di
futuro
esserci,
come
oggi,
ma
l’italiano
plurale
nelle
le
sue
realizzazioni, anche se forse oggi d’una mutata pluralità.
Di scorcio, con crude semplificazioni, si è così collocato concettualmente
ciò che questo Congresso della Società di Linguistica Italiana avrebbe forse
avuto il principale compito di definire, in modo certo più completo e articolato
di quanto non si sia potuto fare qui. E il succo è questo. Il linguista coglie
il valore autenticamente unitario della nazione italiana. Tale valore ha infatti
natura
squisitamente
linguistica.
Diversamente
nazioni europee, esso non è però una
NORMA
da
quel
che
accade
ad
altre
(cioè un istituto storico e sociale),
che si è imposta ed è divenuta politicamente lingua madre. Esso è al contrario
lo spirito lieve, l’eterea larva diacronica, il fantasma ora benigno ora maligno
d‘una
FORMA
linguistica nata già prima, incomparabilmente prima dell‘inizio di
una qualsivoglia storia nazionale: in breve,
UNA LINGUA NONNA.
Orbene, tra la fine del Ventesimo e l’inizio del Ventunesimo secolo, nel
dominio della lingua scritta e letteraria, non solo l’opera, ma anche la fortuna
di Andrea Camilleri sono un esempio di questa circostanza linguistica nazionale
e si spiegano in funzione di tale carattere dell’italiano, come molte altre
vicende del Paese. Per rendersene conto è tuttavia necessario comporre un veloce
quadro d’insieme di quel che ha finora fatto lo scrittore siciliano. Ne manca
ancora, e con ragione, un inquadramento critico che consenta una valutazione
linguistica. Se ne proporrà uno nelle poche pagine che seguono.
Dal
punto
di
vista
tematico,
Camilleri
ha
costruito
e
costruisce
un
autentico catalogo di luoghi comuni. Tale catalogo non conta siciliano che non
sia
comunicativamente
ambiguo
ed
allusivo;
vedova
che
non
sia
piacente
e
vogliosetta; piccolo aristocratico che non sia eccentrico fino alla stramberia;
giovane
amante
che
non
sia
ardimentoso
e
superdotato;
svedese
(e
l’esplicitazione del genere grammaticale sarebbe ridondante) che non sia di
liberi
costumi,
ma
d’animo
candido;
contadino
che
non
sia
diffidente
e
furbastro, ma in modo ingenuo e senza costrutto; prete che non ami la buona
tavola, gli agi della vita e che non sia donnaiolo; operaio che non sia vittima
di vessazioni e, al fondo, un buon uomo e un gran lavoratore. In tale catalogo
soprattutto non c`è vicenda che non sia un affare di sesso e di corna. Insomma,
una lista di figurine e situazioni tratte da un immaginario collettivo di natura
privata e di registro basso che attraversa le classi e la geografia italiana,
fisica, politica o ideologica.
Il catalogo contiene però idee ricevute più fresche e piccanti, di natura
pubblica e di registro presuntamente più alto. Sono i luoghi comuni su cui
4
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
Cinecittà costruiva alcuni decenni fa parte delle sue fortune più impegnate e su
cui le costruiscono oggi, mutati i tempi, la stampa e la televisione, insomma i
mezzi
dell’intrattenimento
di
massa
mascherato
da
informazione.
Così,
nell’universo di Camilleri non c’è vicenda della vita pubblica che non abbia
contorno
di
criminali.
gravi
Non
illeciti,
c’è
intellettualmente
alto
di
compromessi
rappresentante
ripugnante
e
in
del
ogni
con
poteri
potere
che
caso
occulti
non
sia
reazionario.
e
spesso
corrotto
Non
c’è
o
però
istituzione pubblica in cui non si annidi qualche uomo di retto sentire, dal
cuore segretamente incline al progresso e che saprebbe mettere facilmente le
cose a posto, sempre che potesse e non fosse rimosso, allontanato, eliminato al
momento giusto. Non c’è poi investigatore che non sia autoironicamente burbero e
insieme tollerante (anche con le proprie debolezze), devoto però alla giustizia
sostanziale (talvolta ben oltre la forma imposta dalla legge) e in eterno
contrasto col potere (corrotto) che tuttavia rappresenta.
Insomma, dal punto di vista tematico, si tratta di una mistura strapaesana
(vigatese, opportunamente) di presunto basso (e privato) e di sedicente alto (e
pubblico):
commedia
all’italiana
e
cinematografia
engagée.
Temi
tipici
del
quotidiano la Repubblica (la sedicente prospettiva alta, culturalmente attuale e
post-moderna) combinati con quelli del settimanale Cronaca vera (la prospettiva
bassa, culturalmente dislocata, perché appena trascorsa e pre-moderna).
La
combinazione
localizzazione-luogo
viene
comune
inscenata
per
in
eccellenza
Sicilia.
e
del
Si
prototipo,
tratta
non
della
soltanto
geografico, dell’Italia. La Sicilia è sì un’isola e, sin dall’antichità latina,
mai più d’una provincia, ma proprio per questo e non paradossalmente essa è la
regione-prototipo
pratica
al
d’uno
massimo
dei
grado
tratti
infatti
caratterizzanti
il
gioco
ad
dell’italianità.
essere
italiani,
ma
Vi
si
a
non
riconoscersi superficialmente e soprattutto a non voler essere riconosciuti come
tali. Anche, direi soprattutto su base linguistica questo gioco è praticato
sotto fogge e in quantità diverse in ogni regione, provincia, città, contrada
italiana.
Ciascuna
di
queste
si
rappresenta
sempre
come
particolare
e
inassimilabile al resto che pure la circonda. A sostegno, la rivendicazione
d’immaginarie alterità storico-culturali. Nella maggioranza dei casi si tratta
di sfoglie sottili, se non di pure apparenze. Un analista spassionato, se non si
lascia irretire nel gioco, ha così un modo sicuro di riconoscere un italiano
autentico: è colui che anzitutto proclama d’essere altro (milanese, toscano,
pugliese, napoletano e così via), esprimendo il proclama in una qualsiasi delle
molteplici varianti, miscugli o eredi, standard o sub-standard, delle varietà
che il De Vulgari Eloquentia assegna «Ytalis, qui sì dicunt».
Per
definizione,
un
luogo
comune
non
è
in
grado
di
caratterizzare
univocamente chi lo porta: di sesso e di corna, di combutte tra poteri leciti e
illeciti e di Sicilia sono in grado di parlare in tanti. Il catalogo dei luoghi
comuni tematici di Camilleri non è quindi appropriato a caratterizzare l’opera
5
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
dello
scrittore.
Infatti,
la
sua
caratterizzazione
non
è
tematica,
ma
funzionale. Per dirla con semplicità, ciò che caratterizza Camilleri è appunto
il fatto che non c’è opera di Camilleri in cui Camilleri non ci sia, non ci sia
in altre parole una riconoscibilissima voce narrante, tanto più riconoscibile
quanto più, in certe occasioni, camuffata buffamente e in modo caricaturale. Per
definire
tale
voce
narrante
la
soluzione
migliore
è
quella
di
adoperare
appropriatamente una parola-chiave dello stesso Camilleri: «tragediatore» (se ne
veda la definizione in Il gioco della mosca, Sellerio, Palermo 1997, pp. 82-3).
La funzione unificante dell’opera dello scrittore empedoclino è la funzione
tragediatore. Leggere Camilleri dal punto di vista linguistico come da quello
letterario
significa
porsi
in
tale
prospettiva
funzionale:
non
in
quella
dell’enunciato, ma in quella dell’enunciazione.
Ogni
ricorre
è
storia
dell’universo
proiettata
a
partire
narrativo
dalla
voce
di
Camilleri,
narrante
e
ogni
passa
voce
che
vi
attraverso
il
tragediatore. Costui è sempre identico a se stesso. Semmai, nella serie di
Montalbano,
per
comprensibili
ragioni
commerciali,
tende
verso
la
semplificazione e la standardizzazione, ma non è detto che fuori da quella serie
e nel futuro il vettore non possa rovesciarsi.
L’invenzione o (come Camilleri ama sostenere) il ritrovamento dentro se
medesimo di tale voce narrante è la sua massima trovata e una delle maggiori nel
panorama linguistico-letterario italiano degli ultimi anni, da questo punto di
vista
particolarmente
depresso.
Niente
di
più
lontano
da
Sciascia
o
da
Pirandello e dalle loro attitudini, per altro molto diverse, ma tendenti verso
il sopire, nei confronti della funzione voce narrante.
Camilleri ha onestamente indicato a più riprese questo carattere della sua
opera. Con un tocco di snobismo, si è mostrato quasi meravigliato del fatto che
una funzione del genere determini oggi e d’improvviso il successo di pubblico
che essa ha determinato. Del resto, una simile funzione ha proprio il pregio di
pervadere per intero lo scritto, più di quanto potrebbe fare anche il più
convincente e penetrante personaggio. In sostanza, si può stare certi che ogni
volta che Andrea Camilleri prenderà la penna per raccontare una storia, il
tragediatore
sarà
l’autentico,
soggiacente
protagonista
di
quella
storia,
presente dalla prima all’ultima pagina.
Una funzione manifesta si manifesta in una forma. La funzione tragediatore
si manifesta nella forma di una lingua. Ecco la testimonianza diretta dello
scrittore:
Dopo tanti anni passati come regista di teatro, televisione,
radio, a contare storie d‘altri con parole d‘altri, mi venne
irresistibile gana di contare una storia mia con parole mie…
La storia la congegnai abbastanza rapidamente, ma il problema
nacque quando misi mano alla penna. Mi feci presto persuaso,
dopo qualche tentativo di scrittura, che le parole che
adoperavo non mi appartenevano interamente. Me ne servivo,
6
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
questo sì, ma erano le stesse che trovavo pronte per redigere
una domanda in carta bollata o un biglietto d‘auguri. Quando
cercavo una frase o una parola che più si avvicinava a quello
che avevo in mente di scrivere immediatamente invece la
trovavo nel mio dialetto o meglio nel “parlato” quotidiano di
casa mia. Che fare? A parte che tra il parlare e lo scrivere
ci corre una gran bella differenza, fu con forte riluttanza
che scrissi qualche pagina in un misto di dialetto e lingua.
Riluttanza perché non mi pareva cosa che un linguaggio d‘uso
privato, familiare, potesse avere valenza extra moenia. Prima
di stracciarle, lessi ad alta voce quelle pagine ed ebbi una
sorta d‘illuminazione: funzionavano, le parole scorrevano
senza grossi intoppi in un loro alveo naturale. Allora rimisi
mano a quelle pagine e le riscrissi in italiano, cercando di
riguadagnare quel livello di espressività prima raggiunto.
Non solo non funzionò, ma feci una sconcertante scoperta e
cioè che le frasi e le parole da me scelte in sostituzione di
quelle dialettali appartenevano a un vocabolario, più che
desueto, obsoleto, oramai rifiutato non solo dalla lingua di
tutti i giorni, ma anche da quella colta, alta (“Mani avanti”
in Il corso delle cose, Sellerio, Palermo 1998, pp. 141-2).
C’è una prima avvertenza. Il passaggio sembra referenziale, cronachistico,
ma è finzione. La funzione tragediatore vi è pienamente all’opera. E scrittore
all’apparenza di specchiata lealtà con il suo lettore, Camilleri lo mette sùbito
in guardia: «…mi venne irresistibile gana… non mi pareva cosa…».
L‘autore non fa di professione il linguista, ma a differenza di molti suoi
colleghi è un parlante-scrivente adeguatamente (auto)cosciente. La lingua che dà
forma
alla
«dialetto»,
funzione
ma
il
cruciale
«parlato
della
sua
quotidiano
di
scrittura,
casa
sua»,
dice
«un
bene,
non
linguaggio
è
il
d‘uso
privato, familiare» e quel che ne viene fuori è «un misto di dialetto e lingua».
A ridosso dei primi successi di Camilleri, qualcuno ha tirato in ballo Gadda:
opinione di non stupefacente grossolanità. La «funzione Gadda» e la sua forma e
la forma linguistica della funzione tragediatore di Camilleri sono in realtà
agli antipodi: da quale lessico familiare potrebbero mai originare non dico la
Cognizione, ma anche il Pasticciaccio? La ricerca di due complicità opposte con
il lettore, e soprattutto con lettori diversi. Individui lontani, da tenere, se
possibile, ancora più a distanza, per il solitario ingegnere lombardo. Un gruppo
di famiglia, figli e nipoti attorno al tavolo del tinello, amici accomodati
sulle poltrone d’un circolo paesano di notabili, per il regista e patriarca
siciliano. Eppure:
Ero a questo punto, quando tornai ad imbattermi nel gaddiano
Pasticciaccio: credo, malgrado qualche critico abbia scritto
il contrario, di non dover nulla a Gadda, la sua scrittura
muove da assai più lontano, ha sottili motivazioni e persegue
fini assai più ampi dei miei. Molto devo invece al suo
esempio: mi rese libero da dubbi ed esitazioni. E così, a 42
anni, il primo aprile… 1967 cominciai a scrivere il mio primo
romanzo (ib.).
7
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
Ma passando attraverso la funzione tragediatore, la parola di Camilleri,
parlante (auto)cosciente, si colora naturalmente di un certo grado di finzione,
di “un fare come se”. Questa coloritura dà gusto alla scrittura e alla lettura,
il gusto della letteratura. Ma il lettore avvertito ha da leggervi dietro una
verità, se dispone di strumenti nemmeno poi troppo sottili.
E allora, è vero che l’italiano d’«una domanda in carta bollata o [d‘]un
biglietto
d‘auguri»
sarebbe
stato
inadeguato
come
forma
della
funzione
tragediatore di cui Camilleri era a caccia in quei suoi lontani esordi privati.
Ma non è certamente vero che (tutte) le espressioni italiane che sostituirono
per
prova
quelle
dialettali
abbiano
potuto
allora
apparire
allo
scrittore
obsolete e rifiutate dai registri quotidiani e cólti dell’italiano. Sarebbe
questo forse il caso di «mi venne… voglia» per il camilleriano «mi venne… gana»?
di «non mi pareva possibile» per il camilleriano «non mi pareva cosa»? Si noti
che l’unica spia di una lingua connotata come forma della funzione tragediatore
nella prima pagina del Corso delle cose si trova in «mentre da levante carriche
nuvole
d’acqua
collina».
arrancavano
Della
forma
di
verso
il
paese
quell’aggettivo
appena
si
visibile
potrà
dir
ai
tutto,
piedi
ma
della
non
che
l’aggettivo standard non possa sostituirlo perché obsoleto. Sostituzione che si
farebbe
inoltre
al
modico
prezzo
d’una
riduzione
dell’espressionismo
di
un
parallelismo fonico (carriche… arrancavano), in un brano dal lirismo forse già
troppo acceso. E la seconda spia, al primo rigo della seconda pagina, sta in «Il
terzo uomo, un contadino, non aveva isato gli occhi», dove ancora una volta
sarebbe
arduo
sostenere
che
«alzare
gli
occhi»
sia
una
forma
abbandonata
dall’italiano comune. Per chiudere definitivamente la questione: nella scrittura
camilleriana taliare e spiare corrispondono a e sostituiscono sistematicamente
guardare e domandare. Si tratta di verbi italiani appartenenti ad un vocabolario
desueto, obsoleto, rifiutato? In realtà, il tragediatore sta già lavorando, e
quel che Camilleri scrive è da leggersi come drammatizzazione del suo processo
creativo. Lo si è già visto, non c’è drammatizzazione per Camilleri che non
attinga al luogo comune. Il luogo comune in questione, il massimo dei luoghi
comuni
camilleriani
sta
inscritto
nella
forma
che
prende
la
funzione
tragediatore. Si tratta d’un argomento che nell’Italia strapaesana ricorre a
condire invariabilmente discussioni d’ogni natura e genere: la presunta maggiore
espressività d’un lessico e d’una espressione dialettale qualsivoglia rispetto
al lessico e all’espressione dell’italiano.
In realtà la lingua di Camilleri è un costrutto letterario, un artificio
formale
lessicale
(e
e,
come
qua
potrebbe
e
là,
essere
sintattica
diversamente?).
dall’italiano
Essa
prende
regionale
ispirazione
della
borghesia
siciliana, quale esso si atteggia nel parlato in area agrigentina, secondo
l’esplicita testimonianza dello scrittore. Ma fissa tale italiano regionale in
una forma dello scritto e lo miscela con stilemi tipici di una lingua alta e
letteraria. Si veda, per esempio, l’ampio sfruttamento espressivo della funzione
8
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
sintattica attributiva all’interno del sintagma nominale, con collocazioni e usi
particolari. Già nella prima pagina del Birraio di Preston si osservano, per
esempio: «non si trattava di cure ma di kantiana educazione della volontà»,
«infilata
la
mano
inquisitoria»,
«al
subito
immancabile
vagnaticcio»,
«per
evitare la matutina punizione paterna», «quel notturno viaggio» e poco più
avanti
«rare
parole»,
«debole
luce»,
«teutonica
precisione
e
dovizia
scientifica», «patita esperienza», «devastante russare».
Altro
esempio
è
l’anteposizione
al
predicato
dell‘avverbio
temporale
negativo mai con conseguente ellissi della negazione (due casi nelle prime due
pagine della stessa opera): «da quell‘orecchio mai aveva voluto sentirci», «un
fenomeno che avanti mai aveva visto».
Importantissima in questo senso, poi, è l’assenza di determinanti, che
produce un’aura di accurata indefinitezza: si tratta di un carattere tipico
della lingua della poesia, più ancora che di quella della prosa: «fu nottata
stramma», «con adeguato miracolo» etc.
Dei famigerati elementi dialettali, non è in realtà necessario fare qui
un’analisi dettagliata e se ne lascerà il piacere agli eruditi. Basterà una
caratterizzazione d’insieme.
L’aspetto complessivo più rilevante è che gli elementi lessicali siciliani
sono trattati nel rigoroso rispetto della morfologia italiana, così da avere
morfemi lessicali siciliani e morfemi funzionali italiani: scantusa e truniata,
scappatina, arrisbigliò non pongono problemi. Ma l’effetto emerge immediatamente
con scatasciante, che dovrebbe essere scatascianti, con trimoliare, che dovrebbe
essere trimuliari, picciliddro era lento d‘incascio (si osservi che lento di
incascio ha un senso secondo, gergale: si dice di chi rivela con leggerezza cose
e vicende di cui è a conoscenza e che non andrebbero propalate), stascione,
muffoletto, scrafaglio, sparluccicavano, nìvuro etc. Regolare
l’uso
di
magari
per anche (nel Camilleri prima del successo, era macari).
Sfuggono a questa tipologia, ma non la modificano, anzi, per contrasto ne
fanno la sottolineatura, le espressioni fisse, trasferite pari pari dal dialetto
alla lingua: es. in un vìdiri e svìdiri, tutto quel virivirì.
L‘effetto comico e di straniamento, come appunto in quella comunicazione
intrafamiliare e extra-familiare tra pari, risiede proprio in questo contrasto
tra elementi lessicalmente siciliani e morfologicamente italiani (almeno per
forma, se non proprio per funzione). Tale effetto non sarebbe attingibile se non
si presupponesse una competenza italiana di sfondo, quella che sa maneggiare con
cura la morfologia. Gli effetti tradizionali sono l’abbassamento comico di ciò
che
è
socialmente
letteraria
italiana
connotato
perenne,
come
e
al
elevato,
tempo
appunto
stesso
la
forma
della
l’ammiccamento.
La
lingua
forma
dell’opera di Camilleri sembra voler dire: “e chi è siciliano, mi capisce”. Essa
pare
tendere
verso
un’esclusione,
ma
tra
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glosse
e
trasparenze
lancia
un
Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
inclusivo messaggio di ambigua complicità a ogni lettore: “anche tu sei (o
diventerai) siciliano e mi capisci”.
L’uso abbastanza largo del passato remoto combina ottimamente i due tratti
di una prosa di impianto alto e letterario (il passato remoto tende ad uscire
dall‘uso odierno, tranne in aree linguistiche tra cui si conta principalmente la
siciliana) e d’una patina dialettale, che deborda in questo caso dal lessico
alla sintassi.
Un elemento macroscopico, infine, salda infrangibilmente la forma della
prosa
camilleriana
e
la
funzione
tragediatore.
In
non
poche
opere
dello
scrittore infatti compaiono personaggi non siciliani: stranieri o italiani di
altre
regioni.
personaggi
non
Potrebbe
si
parere
esprimono,
un
tratto
come
la
di
realismo
maggioranza
il
di
fatto
che
quelli
tali
siciliani
nell‘italiano mescolato con il siciliano che è tipico della voce narrante. Per
questi
personaggi
extra-siciliani
si
ricorre
a
forme
di
scrittura
che
riproducono le loro varietà.
Ora è stato osservato (talvolta non proprio con appropriatezza) che queste
rappresentazioni
non
sono
buone
rappresentazioni
delle
diverse
varietà
adoperate. Lo sarebbero tanto meno, se confrontate con quelle del siciliano, per
definizione ottime. E se ne è fatto un rilievo allo scrittore.
Chi ha fatto questo rilievo semplicemente non capisce che con Camilleri
non si tratta in ogni caso d’una rappresentazione realistica. Ciò che viene reso
è infatti sempre il modo in cui la voce narrante o, come si è detto, il
tragediatore
personaggi.
riflette
In
narrativamente
Camilleri,
si
il
potrebbe
diverso
dire
non
atteggiarsi
troppo
linguistico
dei
paradossalmente,
i
personaggi non parlano mai. Chi parla è il tragediatore ed egli parla come sa
che parlano e come vuole che parlino i personaggi. Quando costoro sono siciliani
e per qualche ragione narrativa devono esprimersi in una varietà più prossima al
dialetto siciliano, la voce narrante, dichiarata siciliana in quanto funzione
narrativa, è atta a riprodurre appropriatamente tale prossimità. Dove questa
condizione
fa
difetto,
e
per
esigenze
narrative
parla
per
esempio
un
dialettofono non siciliano o uno straniero, ciò che sortisce è il modo con cui
il tragediatore raffigura tale espressione.
In apertura del Birraio di Preston, il dialogo tra il giovane Gerd Hoffer
e suo padre e poi i modi cui viene rappresentata la parlata di quest‘ultimo sono
in proposito esemplari: si tratta dell’approssimata mimesi di un accento tedesco
come un italiano lo riprodurrebbe per iscritto quando volesse raffigurare un
tedesco
che
parlasse
italiano:
«”Sissignore,
vater,
fa
alba
di
mattino
a
Vigàta”. “Fai subito in kamera tua!” Ordinò l’ingegnere…» (Birraio, p. 11). Un
altro autentico luogo comune, anche grafico, come si può notare: un luogo comune
perfettamente appropriato, trovandosi sotto la penna del tragediatore.
Insomma, la voce narrante-tragediatore è la voce che ci parla attraverso i
libri di Camilleri. Essa ha un impianto letterario tradizionale, l‘impianto
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Nunzio La Fauci, L’italiano perenne e Andrea Camilleri
delle lingua italiana letteraria perenne, l‘unica che il lettore italiano ancora
percepisce come tale. Variata con un lessico dialettale di facile accesso, reso
contestualmente sempre o molto spesso trasparente e trattato morfologicamente
come
se
fosse
italiano
(non
solo
per
ottenere
un
effetto
comico
e
di
straniamento), proprio come tipica realizzazione d’una lingua nonna, questa
lingua fornisce al lettore il piacere della diversità nell’identità e quindi un
viaggio a ritroso verso le proprie radici linguistiche. Tale viaggio a ritroso è
spesso non solo virtuale: tutti gli italiani hanno alle spalle una varietà
locale, moltissimi una varietà locale meridionale: quella in cui si esprimevano
i
genitori
e
caratterizzante
i
genitori
degli
dei
italiani
genitori.
dal
punto
Questo
di
vista
è
del
resto
linguistico:
il
tratto
abituati
da
sempre a vedere atteggiarsi la loro lingua secondo diverse articolazioni. Donde,
il piacere di sentirsi diversi e al tempo stesso eguali. In breve: di sentirsi
in
grado
di
comprendere
l’altro
e
di
decidere
se
esser
tolleranti
o
intolleranti, scegliendo però nella maggioranza dei casi la prima soluzione.
L’Italia linguistica del Duemila custodisce ancora gelosamente questo piacere e,
metamorfosate,
le
ragioni
che
lo
rendono
possibile.
L’opera
di
Camilleri,
semplicemente, ne trae profitto e le rivela. Si tratta, è vero, ancora del
piacere di un luogo comune linguistico, ma nobile stavolta (o almeno così ci
vien fatto di giudicarlo, in quanto linguisti): certo il più nobile e il più
civile dei luoghi comuni (siano essi tematici o formali) con cui, come un nonno
affabulatore, Camilleri costruisce le sue favole in una lingua nonna.
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