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l`italia quaggiu - Isola Capo Rizzuto Blog

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l`italia quaggiu - Isola Capo Rizzuto Blog
Goffredo Buccini
L'ITALIA
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Maria Carmela Lanzetta
e le donne contro la 'ndrangheta
Editori
Laterza
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Indice
Premessa
IX
Uno
3
Due
13
Tre
21
Quattro
33
Cinque
41
Sei
53
Sette
63
Otto
73
Nove
83
i
Dieci
95
~
"
Undici
105
Dodici
117
Nota sulle fonti
125
•
VII
Premessa
C'è una parte d'Italia che siamo abituati a considerare perduta. Per il ritardo nei servizi e nelle infrastruttu re, per
il tasso di disoccupaz ione e di corruzione, per il degrado
ambientale, per le scarse speranze offerte ai giovani e, soprattutto, per la gigantesca questione criminale che nessun
governo e nessuna procura sembra in grado di risolvere.
ll cuore di questa porzione di territorio nazionale coincide in larga misura con i confini della Calabria; l' organizzazione delinquenziale che da quel territorio ha conquistato l'egemonia tra le mafie del mondo è la 'ndrangheta .
Tuttavia, questa realtà non è immutabile . Siamo indotti
a crederlo dal cinismo, dal pessimismo , dalla stanchezza:
ma sbagliamo.
Giorno dopo giorno le regole maschiliste e arcaiche
che tengono in piedi le 'ndrine vengono erose; altrettanto
quotidianam ente l'assenza di regole che mette in ginocchio
le pubbliche amministra zioni viene riempita. È un lavorìo
spesso silenzioso, discreto. Rivoluzionario.
Questa rivoluzione è tutta al femminile e ha due facce.
Nella società malavitosa, madri, mogli e sorelle, assuefatte al silenzio e all'obbedie nza, hanno incomincia to ad
alzare la testa, a dire 'no', per strappare i figli a un destino
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segnato da violenza, galera, morte. Le storie di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciala e di molte
altre 'pentite' che hanno deciso di mettersi dalla parte dello
Stato anche a costo della vita, sono al tempo stesso terribili
ed esemplari.
Nella società legale, una generazione di sindache, elette
sovente sull'onda del rinnovamento in Comuni sciolti per
mafia, sta cambiando il rapporto con i cittadini, introducendo trasparenza ed efficienza in macchine amministrative opache e inceppate. Donne venute dalle professioni,
spesso estranee alla politica, hanno deciso per passione
civile di resistere a intimidazioni e minacce, rendendo così un prezioso servizio al Paese.
Maria Carmela Lanzetta, primo cittadino di Monasterace, Locride, è stata il volto nuovo di una stagione che
potrebbe fare della Calabria non solo parte integrante
dell'Italia, ma simbolo del possibile riscatto italiano.
I;Italia quaggiù
Maria Cannela Lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta
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Uno
All'alba di quel Corpus Domini qualcuna portò il Vetril.
Qualeu n'altra le spugnette dei piatti afferrate in fretta e
al buio dal lavello di casa. Molte, straccetti e strofinacci,
intinti nelle bacinelle d'acqua e sapone.
E si misero in fila così, Rosalba e Caterina, Rosanna,
Maria Rita e Chiara, le donne di Monasterace, davanti alla
farmacia bruciata alle porte del paese, sulla statale 106, in
mezzo al fumo e alla cenere che ancora avvolgevano ciò che
il fuoco aveva risparmiato.
«Qua puliamo noi», le dissero.
«Ma io come vi ripago?», chiese Maria Carmela Lanzetta.
«Voi ci avete già ripagato, sindaco».
Ancora si sentiva il tanfo della benzina che quattro piedotti, senza nemmeno il timore di essere immortalati dalle
teleC'amere di sorveglianza, avevano versato dalla finestra
sul retro prima di buttare dentro un fiammifero e tirarsi
indietro per godersi l'effetto.
Con gli occhi arrossati dalla rabbia e il cuore in tumulto
per la paura, alle sei del mattino del26 giugno 2011, Maria
Carmela Lanzetta, primo cittadino di Monasterace- Locride dimenticata in fondo alla provincia povera d'Italia- capì
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infine di essere stata ridetta davvero. Non solo dalle urne:
il 15 maggio aveva rivinto le amministrative. Dalla solidarietà della sua gente. E soprattutto dalle donne, quelle in
fùa per aiutarla e le altre, che cinque anni prima l'avevano
incoraggiata a farsi avanti: «Dovete provarci voi, dottoressa,
vui 'ndaviti 'u fati 'u sindaco, dovete fare il sindaco».
Ci aveva provato: lei, la farmacista del paese, esperienza
politica zero. E la prima volta l'aveva spuntata di 549 voti,
che in un posto così piccolo vuol dire stravincere, dopo che
il consiglio comunale, sospettato di essere inquinato dal
clan Ruga, era stato sciolto dal prefetto di Reggio Calabria
ed era stato reintegrato da una sentenza del Tar: molti cittadini di Monasterace avevano davvero voglia di cambiare,
altri pensavano di poter controllare quella donnetta esile,
con gli occhi che diffondevano bagliori di timidezza.
«Il paese era stato così devastato dagli uomini che mandarono avanti le donne», mi racconta adesso Maria Carmela.
Ci aveva provato sul serio, appena insediata al primo
mandato, buttando fuori dall'ufficio tecnico i costruttori
che si sedevano alle scrivanie degli impiegati a pretendere
pratiche su ordinazione. «Uscite, qua non possono sedersi
i privati».
«Ma io voglio offrire un caffè al ragioniere!».
«E voi il caffè glielo andate a offrire al bar, dopo il lavoro».
Ci aveva provato, sì, difendendo le operaie delle serre
dei fiori, ridotte alla fame da padroncini che le lasciavano
senza stipendio. Ci aveva provato, introducendo banali
elementi di normalità- il pagamento dei tributi per tutti,
o il sostegno ai vigili contro gli abusi - in un paese dove
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ogni tassa è ancora l'imposizione d'uno Stato nemico e i
gabinetti abusivi spuntano pure sulla facciata del convento
del X secolo, vanto storico della collettività.
Quando i signori del paese avevano capito che ci stava
provando sul serio, avevano ordinato di bruciarle la farmacia di famiglia. Magari per ammorbidirla, magari per convincerla a lasciar perdere l'idea di ripresentarsi alle nuove
elezioni. Quella notte, al primo piano, nell'appartamento
proprio sopra la bottega in fiamme, dormivano in sei: lei,
suo marito Giovanni, i figli Gabriele e Matteo, la vecchia
madre Olga che la farmacia l'aveva fondata, la sorella Maria
Assunta; potevano ammazzare tutti, se Gabriele non fosse
stato insonne e non avesse sentito l'odore acre del fumo.
«Il 27, ventiquattro ore dopo, avevamo già riaperto.
Grazie anche a tutte quelle donne che, bottiglietta dopo
bottiglietta, scatola dopo scatola, hanno salvato il salvabile)), dice la Lanzetta.
Ci affacciamo dal balcone del salotto, da dove si domina
il piazzale di fronte: c'è un grande distributore di benzina,
un parcheggio, s'intravede il mare giù in fondo. Da quel
parcheggio, nove mesi dopo il primo attentato, le hanno
sparato: tre colpi contro la Panda con cui se ne andava in
giro come niente fosse, anche a sera tarda, per le strade
sgarrupate e scure della Locride, un colpo nella serranda
della farmacia. n secondo avvertimento, se possibile perfino più esplicito del primo. Come per il rogo, un video
mostra il colpevole incappucciato in una felpa da rapper,
ma non c'è nemmeno un sospettato in carne e ossa, in un
paese di tremilacinquecento anime dove tutti conoscono i
fatti di tutti.
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Allora, perfino Maria Carmela ha alzato la voce, costringendo l'Italia distratta a dedicare qualche giorno di
attenzione e di titoli di giornali se non a lei a questo borgo
sperduto nel blu cobalto dello Ionio e nel verde dei boschi
primordiali, a queste terre di cui non è mai importato nulla
a nessuno.
La prima domanda che mi si materializza davanti,
mentre percorro la statale 106 - lo strappo di asfalto che
costeggia il mare calabrese e collega i paesi della 'ndrangheta e della violenza fino all'hinterland reggino - è: cosa
diavolo cerca di difendere Maria Carmela Lanzetta? La
partita sembra persa da subito. Attraverso distese di cactus, campi riarsi e abbandonati, pini e ulivi, odore di spazzatura e odore di muschio, il giallo e ancora il blu del mare
lontano, che potrebbe essere l'oro di queste terre e invece
è soffocato tra oblio e cemento; passo colline, interi rioni
di palazzine mai finite (come a Rosarno, come a Bovalino,
come ovunque, nei paesi dell'illegalità), cemento e mattoni a secco lasciati lì, case tirate su a casaccio, l'una contro
l'altra, senza un centro che tenga unita la comunità, e mi
domando di nuovo: ne vale la pena?
Sui tornanti dentro la pineta, due cartelli turistici, marroni e bianchi, promettono molto: «Castello medievale X
e XI secolo», «Chiesa Matrice Esaltazione della Santa Croce, X e XI secolo». Ma a Monasterace Superiore, il borgo
dove sono rimasti solo pochi anziani e zero futuro, la chiesa
del X secolo è stata 'ristrutturata' con una spregiudicatezza
da palazzinari ubriachi {giallo brillante, «e dovevate vedere che mostruosità era prima», mormora Vincenzo, un
ragazzotto del posto); i soldi, oltre alla Cei, li hanno messi
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le vecchiette, venti-trenta euro al mese, che ancora versano
per raccogliere la cifra mancante all'ultima mano di pittura, che Dio solo sa come verrà alla fine. La torre accanto è
stretta tra due costruzioni abusive, un gabinetto edificato
in facciata come un tumore, tre parabole tv, un po' Aruba
e un po' Valona.
Due strade più in basso, il municipio lo si riconosce appena dalle bandiere: un cartello stropicciato e appeso con
lo scotch indica gli orari, serrande cadenti, vernice scrostata. «Non aprono mai un minuto prima, pure se c'è tanta
gente che aspetta», mugugnano quelli in fila: tre contadini,
un'operaia delle serre, una sindacalista, due creste punk.
Nel resto d'Italia fingiamo talvolta - quando succedono fatti gravi, stragi, sparatorie, grandi scandali - che ci
importi qualcosa di questa gente. Quando hanno sparato
a Maria Carmela Lanzetta, e lei ha dato per una manciata
di giorni le dimissioni da sindaco, sono scesi giù ministri,
poliziotti e prefetti, e s'è mosso Bersani, il segretario del
Partito democratico, cui la Lanzetta è iscritta. Quando però, a luglio, hanno bruciato la macchina di Clelia Raspa,
capogruppo della maggioranza che sostiene la sindaca in
consiglio comunale, l'attenzione dei media e dei politici
nazionali era già svanita, la notizia è rimasta confinata sui
giornali locali. La Lanzetta allora mi disse: «Ci hanno già
dimenticato». Aveva capito il meccanismo. Possiede un
intuito pre-politico che le suggerisce quale sia la mossa
giusta. Dimettendosi, ha costretto l'Italia a occuparsi di
questo buco di nulla circondato dalla 'ndrangheta. Ritirando le dimissioni, ha messo all'incasso una cambiale di
credibilità, ma la cambiale è scaduta in fretta.
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Ha 57 anni ma è una donna antica. Innamorata di
un'antichità in cui le pare che il bello e il giusto coincidessero. A Monasterace, dove il brutto e l'illegale certamente
coincidono, mi aspetta al museo del paese, che è un orribile scatolone di acciaio, cemento e vetro, troppo lontano
dall'abitato per servire come punto di aggregazione. Renato Nicolini lo vide e disse: «Bisogna tirarlo giù». Maria
Carmela ridacchia, «aveva ragione, è mostruoso», ammette. L'hanno costruito i suoi predecessori. «Non dovrebbe
neanche stare aperto, mancano gli ascensori e le strutture
per i disabili, andiamo avanti sotto la responsabilità mia e
del sovrintendente».
Indossa camicette anni Settanta, gonne jeans, sandali
bassi, porta collane di pietre dure e niente trucco: «Abbiamo allestito mostre per le donne, guardi questo fuso del
VII secolo a.C., a Kaulonia lavoravano il bronzo ... Delle
scoperte archeologiche attorno al cimitero di Monasterace
ero l'unica ad essere contenta, gli altri temevano che i loro
terreni venissero bloccati!».
Si capisce chiaramente che preferirebbe fare il sindaco
nell'antica Kaulonia. Ride ancora, tutta assorta dal suo museo: «Questo drago policromo del III secolo a.C., periodo
ellenistico, è la storia della mia vita: da bambini lo scavavamo con le mani, ora eccolo qua».
Sulle prime, non mi sembra preoccupata né spaventata.
Mi sbaglio, ovviamente. Lei lancia occhiate alla scorta, due
carabinieri di Roccella Ionica, discreti e in borghese, facce
da bravi figli. Sospira: «Paura di morire? Sì. Non vorrei
proprio morire. Mi piace il teatro, il cinema, l'acqua, nuotare, i libri, leggere. Mia suocera mi ha detto: 'ma quanto
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dura questa scorta?'. Io senza mio marito non ce l'avrei
fatta, non ce la farei».
L'archeologia, mi spiega, è la sua passione segreta perché ha studiato a Locri, e Locri non è solo 'ndrangheta:
sarebbe un immenso museo della Magna Grecia, se solo
ce lo ricordassimo.
Se fosse un personaggio del cinema, questa donna starebbe a metà strada tra I: onorevole Angelina e Chance il
giardiniere. Brandisce l'ovvio come un'arma, come solo gli
stolti o le persone dawero perbene sanno fare.
«È vero che lo Stato sociale è finito, come dice Anna Finocchiaro, solo che noi quaggiù non l'abbiamo mai avuto».
Sorride, anticipando la mia obiezione. «E non intendo coltivatori diretti e indennità di disoccupazione, quelle sono
truffe. Lo Stato sociale è: io lavoro e ho l'asilo, io lavoro e
ho il pediatra. n pediatra da noi è arrivato adesso, come le
carote, un segno del benessere».
Quando ha buttato fuori dalle scrivanie dell'ufficio tecnico i costruttori (alcuni dei quali in odore di malavita),
una delle sue consigliere più fedeli l 'ha ammonita: «Ma sei
matta, Maria Carmela?». Forse un po' matta lo è. Quando
ha deciso di alzare la voce e di raccontare all'Italia cos'è
Monasterace, certi suoi compaesani non gliel'hanno perdonata. Sono comparsi attacchi feroci su Facebook. Lei ha
tirato dritto. Allora è apparso anche un lenzuolo in paese,
un lenzuolo parlante: «Sindaco, ridacci la dignità», ci hanno scritto su, con lo spray. Traduzione: smetti di sparlare
di noialtri in pubblico.
Certi lenzuoli sporchi andrebbero lavati in famiglia,
pensano da sempre in molti, quaggiù, ed è la dannazione
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della Calabria. Ma Maria Carmela Lanzetta viene da una
famiglia particolare. «Mio padre votava Dc, ha smesso per
colpa di Andreotti». Nel senso? «Nel senso dell'indignazione. Cominciò a votare Pci, e io con lui. Era sempre indignato, mio padre Vincenzo, figlio di emigranti, medico
condotto a Bivongi. Andava a Reggio a portare le ricette
e tornava con !"Espresso' formato lenzuolo, quello delle
grandi inchieste. Da noi non arrivavano certi giornali».
L'indignazione è contagiosa, o ereditaria, chissà. Maria
Carmela Lanzetta ancora s'indigna tra il salotto e la scala
interna, quella che collega l'appartamento alla farmacia.
Mazzone, si chiama la farmacia. Il cognome di Olga, la
madre: donna tostissima, agiata famiglia di agricoltori, laureata a Bologna, 85 anni. «Non darla vinta a questi qua», le
ha detto dopo l'incendio. Olga ha aperto la prima bottega
nel1954 vicino alla stazione, dal1960 l'ha trasferita sulla
statale 106. Trent'anni fa ha resistito a varie richieste di
pizzo, non è facile farle abbassare la testa.
Giovanni, il marito di Maria Carmela, fa l'ingegnere
elettronico, insegna, dirige a Catanzaro la Cineteca della
Calabria. Come lei, è nato a Mammola, qualche decina
di chilometri da qui. Per sposarla, trentuno anni fa, l'ha
portata a Torcello, c'è poco romanticismo nei paraggi di
Monasterace. «Non avrei fatto il sindaco senza il sostegno
di mio marito. Ora Giovanni è molto preoccupato per me,
ma mi sta vicino, come sempre».
Tira ancora dritto, la sindaca. Metà farmacia è nuova di
zecca, appena rifatta. «Solo di medicinali abbiamo avuto
96 mila euro di danno». Tira fuori una bottiglietta di shampoo Vichy, ancora annerita da quella notte: «Questa me la
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tengo per ricordo, non l'ho voluta pulire né vendere. Certe
cose mi servono per non dimenticare».
«Mi viene in mente Rosalba che s'è lavata per tre giorni
di fila i prodotti per i piedi, i callifughi, manco tornava a
casa a mangiare per farlo. Le sue compagne si davano il
turno qua dentro, lei no, per tre giorni non è mai uscita».
È più che solidarietà. È un rito riparatorio: le donne possono cambiare questa terra dove le regole della 'ndrangheta
ne riducono la dignità a brandelli. Donne come quelle di
Monasterace. O come quelle delle famiglie mafiose, che si
risvegliano e saltano il fosso, passano dalla parte dello Stato,
denunciano padri e mariti per salvare i figli dalle faide e dalle
leggi della 'ndrangheta. Donne come Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciala, disposte a rischiare la
vita per la libertà. O ragazze dei licei, come quella studentessa di Bovalino che vive a Bologna e ferma Maria Carmela
per dirle: «Siamo insieme, tu sei anche il mio sindaco, vivo
lontana ma è bello sapere che giù c'è gente come te».
La Lanzetta diffida sanamente della retorica. «Sì, lo so
che mi vedono come un simbolo, ma la nostra gente non
campa di simboli, qua ci servono strade, scuole, ospedali, devi dare risposte, devi fare la differenziata, smaltire la
spazzatura, tutto questo bisogna farlo in un clima di delegittimazione continua».
Quando ha deciso di restare in carica dopo gli attentati
non ha fatto proclami roboanti, non ha chiesto in cambio
più protezione, ma soldi e interventi tecnici per la sua terra.
«Lo Stato a quel punto mi ha sostenuta, non solo a parole. Così sono rimasta. Anche per avere più carte da giocare
per la Locride».
11
Se il buonsenso delle donne va al potere o mette in discussione il potere maschilista su cui si reggono le 'ndrine,
i giorni dei mafiosi calabresi potrebbero essere davvero
contati. E da queste province dimenticate potrebbe salire
un segnale potente per tutti noi.
Due
Nd suo ufficio in municipio la porta ha un buco dall'intemo. È il segno d'un pugno che ha attraversato quasi da
parte a parte lo strato di truciolato. Maria Carmela ha lasciato tutto così, non ha fatto riparare nulla. E ha scritto
accanto al buco, a pennarello rosso: «llicordo 'ira funesta'
dottor Diego Origlia 22 settembre 2009».
Origlia, medico, era suo alleato, poi è diventato suo rivale, ha perso la corsa a sindaco contro di lei, è stato eletto
consigliere comunale, s'è dimesso quando le hanno sparato sostenendo che «non si può fare una seria e trasparente
opposizione».
«Quel giorno non ero stata, a suo parere, abbastanza
veloce a intetvenire con l'auto-spurgo a casa sua, allagata
dalla pioggia. È venuto qui, ha preso a pugni la porta, poi
è uscito in corridoio strillando 'Io ammazzo qualcuno!'.
L'ho denunciato, poi ho ritirato la denuncia».
Quando si dice comunicazione politica. Una denuncia
lascia il tempo che trova, l'archiviazione è più che certa in
un caso simile. Entrando nella stanza da sindaco di Maria Carmela Lanzetta sono invece costretto a interrogarmi
sull'energumeno che ha lasciato incisi nella porta i segni
del proprio passaggio.
13
Il clima, a Monasterace come in tanti altri paesi della
Locride, è questo. La violenza di cui la 'ndrangheta si nutre
contamina anche chi con la 'ndrangheta non c'entra nulla,
s'infiltra come un veleno nei rapporti, nelle parole, nei gesti quotidiani. Attanaglia il paesaggio.
Dalla finestra di Maria Carmela il mare, direbbe De
Gregari, è come uno schiaffo, una sberla di luce blu che
toglie il respiro. Le colline degradano dai boschi di querce
agli orti, nelle molte sfumature del verde.
«Mi commuovo ogni volta che m'affaccio», mi dice lei.
Poi i nostri occhi si posano sulle parabole che sembrano
funghi selvatici, sui mattoni sbrecciati delle case tirate su a
vanvera, con violenza, appunto.
Monasterace Marina è cresciuta a casaccio, come tutto
qui attorno. Fino agli anni Sessanta non c'era niente, solo le
case della marchesa Ester di Francia e le piccolissime catapecchie di chi lavorava per lei o per la famiglia Sansotta, che
aveva un fiorente commercio di legnami. Da cento anni c'era la stazione dei treni, la 106 era la strada borbonica, i ponti
li ha fatti Mussolini. n paese s'è allargato, male, attorno alla
ferrovia. n piano regolatore ha più di mezzo secolo, è ormai
superato, ma nessuno gli dava gran peso nemmeno prima.
Tra Monasterace Marina e Monasterace Superiore c'è
un po' di attrito: «La festa del santo di su non va bene al
santo di giù. L'abbiamo risolta assieme al parroco, festeggiando tutti e due: lavoriamo tutti per la stessa Monasterace, ci siamo detti». Una parola! Qui tutti sono contro tutti,
la disfida fra sant'Andrea Avellino e la Madonna di Porto
Salvo, coi rispettivi comitati, è una metafora di disunità
profonda. Il disordine urbanistico è disordine di anime.
14
«lo cerco di preservare, adesso. Ho detto che rinunciamo pure agli oneri di urbanizzazione pur di non costruire all'infinito, vorremmo la riqualificazione dell'esistente.
D'inverno a Monasterace Marina non c'è più nessuno e
a Monasterace Superiore restano quattrocento anziani: si
tratta di recuperare, non di costruire ancora. Ma è difficile
far capire questo discorso. Manca il colloquio, ho avuto
problemi, non riesco a incidere su questo. Potrei ordinare
abbattimenti di abusi. Piccoli abusi, anche. Le ordinanze
le ho fatte. Ma non abbiamo i soldi per eseguirle».
Come al solito, il brutto e l'illegale vanno a braccetto.
La torre delle mura, del XVI secolo, per dire, se ne sta
ingabbiata tra due garage costruiti nel2004.
«Non l'ho permesso io, è un peccato mortale, tutta una
storia di errori e di fatica, è una lotta impari. Però, vede,
non è giusto prendersela con la povera gente. I cittadini non
hanno mai avuto serie direttive urbanistiche da rispettare.
E certe cose si spiegano col bisogno e l'assenza di regole».
Di questo senso di perenne bisogno e di soperchieria si
nutre anche l'immaginario collettivo, tradotto nella commedia dell'arte con la maschera calabrese di Giangurgolo,
prepotente coi deboli, servile coi forti, sempre pronto a
risolvere le faccende con lo schioppo. Maschera maschilista, perfetta metafora del finto senso dell'onore esibito dai
maschi della 'ndrangheta.
«lo credo che qualcosa stia cambiando anche tra le donne di mafia. Padre Bregantini, vescovo Ji Locri dal '94 al
2007, e che adesso è a Campobasso, quando ci fu la strage
di Duisburg si appellò alle mamme e alle mogli di San Luca
per evitare spargimenti di sangue».
15
Ma qualcosa sta cambiando più in profondità. Non più
solo appelli di donne, comunque, integrate nel sistema mafioso. L'8 marzo 2012 il «Quotidiano della Calabria>> l'ha
dedicato a Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta
Cacciola: loro hanno rotto le regole mettendo in gioco la vita.
«Con questi tre nomi tutti dovranno fare i conti, da noi.
E qualche giorno fa ho ricevuto il gruppo Rita Atria, salito
qui da Palermo. Volevano parlanni, qualcosa si muove».
Nella biblioteca della sindaca, Foscolo e Gore Vidal,
Montale e Pavese con Fruttero e Lucentini, SolZenitsyn e
testi d'epoca della chiesa calabrese.
Lei mi offre un Caffè Guglielmo. «Vedrà che è buono>>,
mi rassicura. Segue una lunga tirata: «lo sono fautrice del
chilometro zero, tifo per i prodotti locali. E poi gli operai
della Guglielmo, dopo l'ultimo attentato del racket, hanno
cominciato a fare i turni anche di notte per sorvegliare e
difendere la loro fabbrica ... beva».
Bevo. E però mi viene il dubbio che esageri, che sia
calata un po' nella parte: in fondo manca poco alle elezioni
politiche, servono facce nuove. Forse è un dubbio ingeneroso. Lei sfodera il suo sguardo da bambina stupita: «lo
non mi sto preparando nessuna campagna elettorale. Se
qualcuno arrivasse a me, vorrebbe dire che sono proprio
alla frutta e non hanno più nessuno!».
In realtà chi le sta vicino la adora. La sera del primo attentato c'era un incontro coi volontari dell'Avis, poi era in
programma l'Infiorata, la festa floreale del paese. ll nuovo
parroco, Francesco Passerelli, l'ha chiamata e le ha detto:
«Devi venire lo stesso alla processione». C'erano anche i
ragazzi degli istituti di pena che la sindaca ospita ogni anno
16
a Monasterace. Alle due del pomeriggio, quelli dell'Infiorata le avevano fatto trovare tappeti di fiori davanti alla
farmacia ancora fumante.
Lei ha salutato e abbracciato tutti. Solo uno ha respinto
sull'uscio: Cesare De Leo, sindaco socialista dal 1975, per
quindici anni, con quattordici procedimenti penali e qua ttordici assoluzioni alle spalle, come racconta lui stesso. «Ho
dato la mano a tutti, pure a chi pensavo potesse essere tra i
responsabili morali dell'attentato. A lui no. Lo considero l'ispiratore di accuse che non meritavo: si è detto in campagna
elettorale che ho dato soldi per comprare i voti, che ad alcuni senzacasa ho assegnato l'appartamento del Comune, ma
ho il piacere che queste persone non hanno votato per me.
Mi hanno detto loro che non hanno votato per me. Questa è
una grande libertà, no? Nessuno mi può accusare di nulla».
Parlando dell'anziano notabile del paese, Maria Carmela perde per la prima volta l'aria vaga di chi passa per caso
nella giungla della politica, penso che possa essere scomodo averla contro, una che può perdonare l'incendio della
bottega ma non una diffamazione. De Leo, cui nulla può
essere addebitato degli attentati contro la sindaca, finisce
dunque nell'elenco degli irrecuperabili.
«lo ho dei princìpi, che sono il filo conduttore della mia
vita. E su quelli non mollo. N o n voglio derogare, non cerco
il consenso anzi ... Persone non ne ho indicate ai carabinieri, non sono scema ma non riesco a capire. Ho indicato
una serie di motivazioni possibili come sfondo degli attentati. Che possono venire o non venire da questo ambiente
terribile e invischiato. Sostengo i vigili che denunciano gli
abusi edilizi. Ho lottato per migliorare gli uffici comunali.
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Cercato di proteggere zone di territorio. Cercato di far pagare i tributi a tutti i cittadini ... senza peraltro nemmeno
riuscirei tanto bene, questo bisogna scriverlo. Ho cercato
di spiegare a chiunque: non vi sto facendo un favore, questo vi tocca. Alla fine che ho fatto di strano? Niente».
Vero, niente di strano. Pura normalità nel resto d'Italia,
che diventa però sfida involontaria al potere mafioso nella
Locride. Mi viene in mente Ambrosoli, la normalità dell'eroismo, l'idea che per servire lo Stato non dovrebbe essere
necessario mettere la propria vita in gioco.
«Potrebbero essere stati uno, nessuno o centomila. Non
credo a un grande vecchio o a complotti, vorrei conoscere
il contesto per capire in che società vivo e opero». Il contesto è attorno a lei, ma, come capita spesso, lei è troppo
immersa nel contesto per vederlo.
Dopo il primo attentato le hanno organizzato un consiglio comunale aperto nel campo di calcio vicino la chiesa.
«C'era tantissima gente e questo mi ha convinto a rimanere, c'era tutta Monasterace a darmi la mano». Tra quelli
che le stringevano la mano, c'era di sicuro anche chi ha
ordinato il rogo della farmacia, perché dopo nove mesi, e
dopo che lei non aveva mollato, 'loro' si sono rifatti sotto.
Era il 29 marzo 2012, la data del consiglio comunale
sulla questione delle operaie delle serre di Campo Marzo
costrette da mesi a lavorare senza paga.
«Ho voluto un consiglio comunale aperto, così che questo
problema emergesse in tutto il paese, volevo si sapesse che
non stavo facendo trattative di nessun genere. Vennero soltantole donne e i sindacati, c'era Mimma Pacifici della Cgil».
Alle dieci e cinquantacinque di quella sera le spararono
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contro la macchina parcheggiata sotto casa e contro laserranda della farmacia, ormai bersaglio fisso.
Siamo di nuovo sulla statale Ionica, la terribile 106. Lei
mostra il punto esatto col dito: «Sono venuti da lì, lo vede
dove c'è quella signora?, lo so dalle telecamere di vigilanza,
uno è arrivato lì e ha sparato». Era un incappucciato, un
ragazzo, si direbbe, dal passo agile e sicuro.
«Mia madre ha sentito i colpi. Mio figlio è rientrato alle undici e mezzo, poteva trovarcisi ... e allora ho detto:
adesso basta. Paura? Certo che ce l'ho, ma per i miei figli.
Io non devo sfidare nessuno, non devo accusare nessuno,
assolutamente nessuno. Cerco di fare il sindaco come so,
in condizioni difficilissime, con un Comune che era al dissesto e lo è ancora, noi non siamo in dissesto ufficiale ma
abbiamo un mare di debiti, non abbiamo mai cassa, non
riusciamo a pagare le fatture. Uno cerca di fare ciò che si
può per portare soldi al Comune, quindi tributi e finanziamenti. Nella prima amministrazione abbiamo avuto finanziamenti per più di cinque milioni di euro».
«La cosa più schifosa di questa vita è che tutti sanno
tutto. Da quando sono sotto scorta ho eliminato tutte le
cose personali, spesa, poste, camicie, io non voglio farle
con la scorta, le cose di ogni giorno, e quindi non le faccio
più. Mia sorella l 'ho mandata su e giù per un paio di scarpe
quattro volte, per fortuna c'è la famiglia. La scorta la chiamo solo per incarichi pubblici».
Squilla il telefono. È Elisabetta Tripodi, la sindaca di
Rosarno, ormai un'amica. Elisabetta e Maria Carmela condividono la vita sotto scorta. Si chiamano spesso al telefono, fianco a fianco ci si sente meno sole.
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Tre
«Maria Carmela ed io siamo due tontolone, politicamente.
Gli altri pensano che siamo spendibili. Ma siamo due tontolone», mi dice Elisabetta Tripodi.
La sindaca di Rosarno è una Lanzetta più concreta e
meno carismatica, anche nel fisico: meno sofferente, più
bilanciata, senza l'aria ascetica e surreale della collega di
Monasterace. Stessa militanza nel Pd, ha però una lunga
esperienza di segretario comunale che la blinda e la sostiene nel lavoro di primo cittadino di uno dei paesi a più alta
densità di 'ndrangheta della Calabria, ha una risata forte e
sorniona, un'ironia più tagliente e meno stralunata.
«Venga, la aspetto, il municipio sta vicino al cimitero: è
poetico, non può sbagliare», mi dice al telefono.
Rosarno è il vertice settentrionale di un'area, la Piana, dove s'affollano centosettantamila anime. E la Piana
è spettrale anche d'estate. Salendo da Roccella Ionica taglio in macchina verso nord i campi di pomodori, quelli
della rivolta degli immigrati e dei moti xenofobi guidati
dagli uomini d'onore, e m'infilo in un lungo tunnel male
illuminato e dall'asfalto sconnesso, sapendo che dopo sarà
peggio. Locride, piana di Rosarno e hinterland reggino so21
no tre pezzi di uno stesso puzzle che non combaciano mai,
inconciliabili come tutto, quaggiù.
L'entrata in città dall'autostrada è una stretta al cuore, fa venire in mente posti disastrati dell'Albania, come
Valona o Saranda, non c'è una casa regolare e finita, solo
spuntoni e mattoni a secco, niente numeri civici, nessun
modo per rintracciare nessuno, il biglietto da visita della
devastazione degli anni Ottanta, colpe dello scempio divise equamente tra democristiani e socialisti.
«Ma noi non siamo solo un paese di 'ndranghetisti», mi
ammonisce la Tripodi. Ha ragione.
Il feudo dei Pesce e dei Bellocco, appalti e narcotraffico
nella ragione sociale dei clan, è infatti anche la terra di un
eroe dell'antimafia come Peppe Valarioti e di un sindaco
coraggioso come Peppino Lavorato. Erano amici. Peppe
era un giovane professore di lettere appassionato di archeologia quando diventò segretario della sezione del P ci.
Peppino, più grande, era il suo padre politico.
Peppe era una testa calda, non guardava in faccia a nessuno. Erano anni difficili, i comunisti impedivano alla 'ndrangheta il controllo delle cooperative agricole e l'abuso del
territorio; i mafiosi tentarono di incendiare la sezione del
partito, distrussero le auto dei militanti. I manifesti elettorali venivano capovolti per sfregio: non strappati, capovolti,
a indicare più chiaramente la totale libertà d'intimidazione
che consentiva un'operazione del genere, lenta e faticosa.
Nel giorno dei funerali della madre di Giuseppe Pesce, il
Pci di Valarioti organizzò un comizio antimafia nella piazza
principale di Rosarno: e dunque si trovarono schierati da una
parte il boss Pesce e i suoi piccioni e dall'altra Peppe Valario22
ti e i suoi compagni. Molti rosarnesi percepirono la forza del
gesto di quel giovane segretario comunista, ne apprezzarono
in silenzio il coraggio e infine scelsero: a giugno del 1980 il
Pci vinse le elezioni, era tempo di cambiare. Ma la 'ndrangheta non poteva pennetterselo. E la notte della festa per la
vittoria, tra il lO e 1'11 giugno, attesero Valarioti che usciva
dal ristorante coi compagni e lo riempirono di piombo.
Gli imputati della cosca Pesce vennero tutti assolti. Nel
nome di Peppe, tuttavia, Lavorato riuscì a tenere aperta
contro tutto e tutti la sezione del partito e dieci anni dopo
fu eletto sindaco. Durante il suo mandato, Rosarno diventò il primo Comune d'Italia a costituirsi parte civile in un
processo contro la mafia - ottenendo il risarcimento dei
danni morali, materiali e di immagine provocati alla città
dai mafiosi- e fu tra i primi a impiegare per la cittadinanza
i beni sequestrati agli 'ndranghetisti.
Se non si conosce la storia di questi uomini, non si capisce quella di una donna come Elisabetta Tripodi e forse
delle donne di Calabria, che in questi anni stanno raccogliendo il testimone lasciato dai loro compagni più tenaci
e coraggiosi.
«È stata maggioranza economica, qui, la 'ndrangheta, e
forse lo è ancora. I Pesce e i Bellocco comandano sempre,
anche se negli anni Settanta e Ottanta questa era 'ndrangheta agricola, veniva dalle guardianie. Negli anni Ottanta
cominciano gli appalti, il movimento terra, poi i traffici di
droga».
Elisabetta si è insediata a fine dicembre 2010 nel palazzo ultramoderno che Lavorato volle scegliere, in una zona
obiettivamente inadatta, per precise ragioni ideologiche.
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La vecchia casa comunale, un bel palazzo razionalista, era
stato bruciato nel1984 con un incendio doloso. Lavorato
decise che quella nuova dovesse affacciarsi sul rione più
popolare della città, Case Nuove, dove abitano le famiglie
di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciala, due tra le
più famose pentite di 'ndrangheta di questi tempi recenti.
Dopo due scioglimenti per mafia e dopo due anni di commissariamento, è venuto il turno di questa dirigente solida e di
buonsenso. È stato possibile candidarla ed eleggerla perché
da due anni e mezzo grandi operazioni delle forze dell'ordine
hanno colpito a fondo la rete di relazioni delle cosche. Già
dopo il primo scioglimento del consiglio comunale, nel1993,
fu eletta una donna, Angela La Rosa. Ci sono momenti in cui
la società arcaica e maschilista si affida alle donne e va ... in
sonno. I paralleli con Maria Cannela Lanzetta sono evidenti.
«La mia candidatura è stata vista come elemento di discontinuità, chi aveva subìto lo scioglimento non poteva
ripresentarsi», racconta Elisabetta Tripodi. «lo ero tornata
da Pavia con marito e figli, è stata la mia scommessa più
difficile, il paese era molto peggiorato. Sollecitata da amici,
anche dal parroco, non volevo accettare... ». Alla fine ci ha
provato, con una maggioranza che va da Udc a Sei.
La Tripodi è anche più politica della Lanzetta, ma la formula per governare non cambia: «Sa, io ho fatto campagna
elettorale sulla normalità, le strade, i servizi, tutte le cose
che la gente non ha avuto. Molti ci sostengono».
Ha anche lei due figli, maschi, che non la vogliono sindaco: «l compagni hanno raccontato loro delle minacce
alle feste di compleanno prima che mi dessero la scorta».
Nella storia delle donne calabresi la violenza è sempre
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uno spartiacque tra un prima e un dopo. Lo è per le pentite
di mafia. Lo è stato per la Lanzetta. E così è per Elisabetta Tripodi, che ha provato la violenza di una lettera di
minaccia firmata da un mammasantissima già condannato
all'ergastolo, Rocco Pesce.
«113 giugno 2011 avevo sgomberato le case abusive dove stavano sua madre e suo fratello. Niente di speciale, ho
mandato i vigili e gli ho fatto un'ordinanza di sgombero:
andava fatto dal2003, nessuno s'era mosso. Loro non capivano. 'Ce l'ha con noi?', chiedevano. Tutti dicevano che
duravo al massimo sei mesi. Mi hanno sottovalutata ed è
stato il mio vantaggio. Pensavano che essendo donna fossi
più debole e non avrei resistito. Le istituzioni mi sono state
molto vicine».
«Con Maria Carmela ci siamo conosciute una settimana
prima dell'incendio della sua farmacia. Istituzionalmente,
a lei, non ha pensato nessuno all'inizio. La mia vicenda
invece è cominciata due mesi dopo, avevo i riflettori accesi
sul paese per la rivolta degli immigrati, ed è stata la mia fortuna. Sono sempre riuscita a creare da situazioni negative
situazioni positive».
Il25 agosto 20 l l le arrivano due paginette scritte a mano in una busta gialla, a mezzo raccomandata. La busta
-dettaglio non irrilevante- è protocollata dal Comune di
Rosarno.
La Procura distrettuale di Reggio Calabria stabilisce
subito «l'effettività delle minacce con cui l'articolazione
della 'ndrangheta denominata cosca Pesce tenta di esercitare la propria forza intimidatrice nei confronti delle Istituzioni Pubbliche, per cercare di riaffermare la capacità
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di controllo del 'suo territorio', specie in momenti in cui
questo risulta contrastato dalla decisa azione delle stesse
Istituzioni». In parole semplici, per i pm antimafia quelle
righe non contengono i vaneggiamenti d'un matto ma un
pericolo reale.
Rocco Pesce, il mittente, è figlio del capomafia di Rosarno Giuseppe, morto in carcere a Messina. È detto il
Pirata, perché ha l'occhio destro coperto da una benda
e soprattutto perché è sempre andato per le spicce anche
nelle situazioni più complicate. A Opera, nel Milanese, sta
scontando dal1984 la galera a vita per omicidio, mafia e
narcotraffico, c nonostante questo è finito nell'inchiesta
'Alllnside' chiusa dai carabinieri nel 2010, a dimostrare
che anche da una cella può esercitare il suo comando. I
passaggi fondamentali del lungo testo spedito alla Tripodi
andrebbero letti nelle scuole come esempio di lessico mafioso, ambiguo, allusivo, letale.
« ... sono con la presente per esprimere tutto il mio rammarico e disappunto in relazione al fatto che il Comune di
Rosarno si sia costituito parte civile nel procedimento nr.
4302/6-3565/7 a carico mio e della mia famiglia, dato che
da parte nostra non vi è stata alcuna azione penalizzante a
danno delle Istituzioni, dei commercianti o degli abitanti
nel Comune di Rosarno da lei rappresentato»;
« ... ritengo di non aver recato alcun disturbo al quotidiano cittadino e tantomeno inquinato l'aria che respirate»;
« ... la cosa che più mi ha sconcertato, dato la stima che
io e la mia famiglia abbiamo sempre manifestato nei suoi
confronti, soprattutto il giorno delle elezioni amministrative dove lei è stata eletta per la sua serietà e personalità che
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gode di ottima etica professionale, è stata la sua esternazione, poi pubblicata sul giornale 'Calabria Ora', manifestante giudizi affrettati sicuramente influenzati da pregiudizi
mediatici ... »;
« ... lei stessa a maggior ragione data la sua carica amministrativa nel Comune, sa benissimo che la nostra famiglia
è vittima di persecuzioni mediatiche per reati presunti e
giudizi espletati sulla base del libero convincimento»;
[la cosa che più mi ha sconcertato ... è stata ... ] «oltre al
sequestro e sgombero di beni immobili di prima residenza,
sempre nel Comune di Rosarno, e non per la loro dubbia
provenienza, ma in quanto considerati fabbricati non conformi alle normative urbanistiche o per mancanza di concessioni edilizie, quando lei sa benissimo sulla base delle
informazioni tecniche in materia di urbanistica che, statistiche alla mano, almeno il 50% dei fabbricati attualmente
esistenti post 1967 nel Comune di Rosarno sono abusivi
e a me non sembra che siano stati presi gli stessi provvedimenti nei loro confronti, non perché io lo desideri ma
solamente per sottolineare la persecuzione a noi riservata»;
«questo che le scrivo in modi ed enfasi del tutto confidenziale nasce per motivi che forse lei non sa in quanto
molto giovane, non tanto nel merito, ma nella mia franchezza nell'esporre in modo pratico, dato che io e la mia
famiglia eravamo soliti godere della reciproca compagnia
con i suoi più stretti famigliari, in occasione dei consueti aperitivi in Corso Garibaldi, dove a memoria ricordo
piacevoli e cordiali scambi costruttivi di opinioni, dove si
argomentava questioni interessanti della nostra città ... mi
viene in mente un detto senza alcuna allusione, che ogni
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persona ha i propri scheletri nell'armadio, e converrà con
me che l'estremo perbenismo è solo ipocrisia, e sono sicuro
che Ici è una persona molto intelligente per poter cadere
in simili bassezze»;
«vorrei che sappia che sono in galera da più di vent'anni
innocentemente, ma il problema non è solo questo, nel mio
stato detentivo la cosa che più mi disturba e mi fa soffrire
è di quello che vengo informato, e nello specifico l'amministrazione comunale ha tra le sue priorità il benessere
degli extracomunitari clandestini, anziché i problemi dei
miei familiari già sofferenti e comunque dei veri cittadini
di Rosarno ... forse consentendomi la provocazione perché
non godono di sovvenzioni della Comunità Europea a differenza dei clandestini?».
Queste righe spaventano e tentano di coinvolgere, mostrando insieme la faccia feroce e quella ammiccante della
mafia. ll messaggio è sempre lo stesso, quello che gli uomini
d'onore mandano ai servitori dello Stato prima di dar fiato
alle lupare: «potremmo essere amici, andar d'accordo, perché ti ostini a starmi contro?» Carlo Alberto Dalla Chiesa
spiegava che il vero mafioso, prima di ammazzarti, ti dice
frasi come «paternamente, fraternamente ti consiglio ... ».
«Questa lettera non era farina del suo sacco», mi dice
adesso la Tripodi, pratica. «Era piena di riferimenti tecnici». Qualcuno in città stava dietro al capomafia, qualcuno
che aveva - e ha - in gran fastidio il lavoro della sindaca.
«Lui s'è preso altri cinque anni di galera con l'abbreviato e l'hanno mandato al41 bis. Io ho avuto grandissimo
affetto, sostegno, la gente mi diceva 'Vai avanti, resisti' ... Io
vado avanti, sì, ma non mi sento coraggiosa. Sento il dovere
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di portare avanti una chance per il mio Paese, ho sempre
fatto la mia professione, la segretaria comunale, sempre al
servizio dello Stato».
«Dicono che ho la scorta, che faccio venire le tv per
fare carriera politica, il maschilismo politico è ovunque.
Ho fatto solo 7 mesi da sindaco libero, poi con la scorta la
mia vita è cambiata tantissimo. Però ho visto tante bambine affascinate dall'idea del sindaco-donna, che dicevano
alle mamme che bisogna votare una donna. Noi abbiamo
mandato in consiglio comunale tredici persone che non
avevano mai fatto politica e cinque donne. Ancora adesso
ho attorno questo sostegno femminile, sono appena stata
in frazione Bosco e c'erano le signore anziane che mi dicevano 'Resistete! Resistete!'».
Resistere è una parola, poi c'è la famiglia, la paura di
ogni giorno. Come la Lanzetta, anche Elisabetta Tripodi
ha alle spalle un marito capace di capire, sostenere, consigliare. Un compagno vero.
«Con Silvio, che fa l'insegnante, stiamo insieme da bambini. E non sarebbe stato possibile niente di tutto questo
senza di lui. Io vengo da una famiglia di donne, siamo tre
sorelle. Mia madre aveva avuto un esaurimento, e mi ha
detto: 'Mi darai il colpo finale'. Poi, miracolo, l'ha accettata, ha accettato la mia vita, questa scelta».
Ma al fondo delle scelte di questa primavera delle donne calabresi ci sono loro, i figli.
«Il mio piccolo, Emanuele, mi ha detto: 'Mamma, quando sono grande, ricordami di non fare il sindaco'. Eppure
io mi sono candidata per loro, per i miei figli. E in questo,
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sa?, c'è un filo che mi unisce ad alcune donne di questo
paese, donne il cui nome è finito sui giornali».
Già, le due ragazze di Case Nuove, il rione dove Peppi"
no Lavorato volle che si affacciasse la nuova sede municipale, un po' per dire «non abbiamo paura di voi», un po'
per lasciare aperta la porta della vita civile ai ragazzi e alle
ragazze delle famiglie d'onore. Giuseppina Pesce e Maria
Concetta Cacciola si sono infilate in quella porta, hanno
infranto codici secolari, sfidato le leggi arcaiche delle loro
famiglie e dei loro clan, hanno scelto lo Stato.
Elisabetta Tripodi ne parla con rispetto, quasi con commozione: «La Pesce viene arrestata nel2010, ha trentuno
anni. Non regge il carcere. Questi hanno visto solo carcere
e disgrazie, hanno un destino segnato. Sicché, quello che
fa, lo fa per sottrarre il figlio maschio a quel destino ... Tutte
noi facciamo qualcosa per i nostri figli, quaggiù: aspettando l'Italia, per cambiare il loro destino di italiani».
«Anche la Cacciala lo fa, fa quello che può. Sparisce a
maggio 2011. Lei sì, la conoscevo di vista. Ho scoperto che
sua figlia va al liceo di mio figlio. È morta due o tre giorni
prima che mi arrivasse la lettera di Rocco Pesce».
«Sì, io ci spero che la rivolta delle donne possa distruggere i clan. In Calabria è fortissimo il ruolo della donna e,
nei valori che si trasmettono ai figli, tutto passa attraverso
le mamme. Queste due donne sono cugine, si conoscevano,
sono andate a scuola insieme, l'una ha influenzato l'altra.
Certo la morte di Maria Concetta è un monito terribile per
le altre, hanno punito lei così per spaventare tutte queste
ragazze che si sposano bambine, con regole che non sono
più al passo coi tempi, rimangono vedove bianche coi malO
riti in carcere, loro chiedono il divorzio ma non è ammesso,
chi tradisce paga col sangue».
Scende la sera nel brutto palazzone accanto al cimitero. I ragazzi della scorta cominciano a innervosirsi, meglio
non muoversi troppo tardi. Fuori, lo stradone che porta al
cuore di Case Nuove, gli sguardi ostili.
«Questo è un posto dove contano gli sguardi, sì. E gli
ambienti, anche se ora il danaro mischia tutto. Solo sottraendo quanti più figli possibile di 'ndranghetisti, nella
'ndrangheta cambierà qualcosa».
Cercando a fatica una strada tra vicoli senza nome, nella
città dove si sono mischiati i destini di Valarioti e dei Pesce, degli operai comunisti e dei narcotrafficanti dei clan,
s'intuisce infine il senso di questa primavera di donne, che
è una primavera di mamme. Giovani mamme calabresi che
vogliono raccontare ai figli una storia mai raccontata prima.
Maria Concetta Cacciala scrisse alla propria madre:
«Scusami, mi avete dato tutto, però questa è una prigione.
Io ti ho lasciato i figli, voglio per loro una vita diversa». E
camminò da sola verso la morte.
Quattro
«Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare
questo mio gesto. Mamma, tu sei mamma e solo tu puoi
capire ... so il dolore che ti sto provocando ... non voglio
!asciarti senza dirti niente».
È un giorno di primavera, maggio 2011, quando Maria
Concetta Cacciala scrive su un foglio a quadretti e con la
mano tremante queste parole alla madre Anna. Sembra il
messaggio di una suicida. Ma «Cetta», 31 anni, tre figli
avuti da ragazzina, non sta andando a morire, non ancora.
Anzi, sogna di vivere una vita nuova, in questa che sembra
davvero la primavera delle donne di Calabria. Nelle orecchie, come immagina Elisabetta Tripodi, deve avere tanti
fitti conciliaboli con sua cugina Giuseppina Pesce, i consigli, le confessioni, gli incoraggiamenti: pochi mesi prima
di lei, Giusy è passata dall'altra parte, ha scelto lo Stato,
ha fatto arrestare madre e sorella, ha inguaiato il cugino
capoclan, Francesco Pesce 'U' Testuni'.
Adesso anche Cetta ha deciso di uscire dalla famiglia,
dalle leggi dell'onorata società nella cui obbedienza è stata
allevata senza deroghe possibili perché suo padre Michele
è cognato di Gregorio Bellocco, e il binomio Pesce-Bellacco in Calabria vuoi dire potere, mafia, soldi, sangue.
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Lo smarrimento e insieme la determinazione che dovevano
riempire l'anima di Antigone nel resistere all'imperio di
Creante, li vedi negli occhi delle due cugine, nelle foto che
di loro ci sono rimaste.
Ed è un'immagine su cui tutti dobbiamo riflettere.
Quel giorno di maggio, dunque, Cetta è già sotto protezione da qualche tempo e questo, per una ragazza di Case
Nuove, il rione più 'ndranghetista di Rosarno, è anche un
po' come morire, così si spiega il tormentato addio alla
madre. Case Nuove è uno spaccato rivelatore. Base dei
clan storici, centrale dello spaccio di eroina e cocaina, ora
pullula di furgoni con targa del Nord Italia (Bergamo su
tutte) affollati da bulgari e rumeni, i raccoglitori dell'Est
che i mafiosi hanno arruolato per sostituire gli africani,
scacciati dopo gli scontri. Col tempo i braccianti dell'Est
si sono portati le famiglie, le stamberghe sfitte e cadenti del
rione vanno via a 200-250 euro in nero. La 'ndrangheta che
- come racconta Peppino Lavorato - «ha allontanato dai
paesi i commercianti che pagavano il prodotto a un prezzo
remunerativo per rimanere sola acquirente ed imporre il
proprio basso prezzo», ora accetta che la composizione
sociale della zona muti rapidamente, attorno ai bunker
dell'antica 'nobiltà' mafiosa, dove vivono, un po' complici
e un po' prigioniere, le ragazze della nuova generazione,
figlie e nipoti dei boss.
Cresciute insieme, quasi coetanee, le cugine Cetta Cacciala e Giusy Pesce sono in fondo l'altra faccia della Lanzetta e della Tripodi. L'altra metà della mela.
«Noi abbiamo avuto accanto fidanzati e mariti solidali,
queste ragazze sono sempre state sole. Vorrebbero magari
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liberarsi da mariti violenti e oppressivi, ma nelle storie di
mafia non ci arrivi al divorzio, ti ammazzano prima», mi
dice Maria Carmela Lanzetta.
La sindaca di Monasterace ha intuito, assieme a Elisabetta Tripodi, che un ponte va costruito, e in fretta, tra le
donne della borghesia calabrese e le donne della malasocietà, prima che questo spiraglio si chiuda, prima che la
paura e le punizioni esemplari inflitte dai maschi dei clan
tornino a serrare le bocche. Così ha incontrato Marisa, la
sorella di Lea Garofalo, un'altra pentita che ha fatto tremare i parenti mafiosi ed è stata punita in modo esemplare, strappata alla figlia e sciolta nell'acido. «Deve assolutamente parlarle», mi dice, «capirà come si possa avere il
destino segnato qui da noi».
Anche Cetta Cacciola ha un destino segnato, sin da
bambina.
Ha appena tredici anni quando fa la fuitina, se ne scappa
col rampollo di un'altra famiglia di rispetto, Salvatore Figliuzzi. Glielo impongono per marito. A quindici anni lei è
già incinta di Alfonso, il primogenito. Presto diventa una vedova bianca, Salvatore è in carcere da otto anni quando Cetta s'innamora di un altro uomo e decide di cambiare strada.
«Questa è una storia triste», scrive il gip che si occupa dell'indagine sulla sua fine, «perché si conclude con la
morte di una giovane donna che aveva osato ribellarsi alle
regole della famiglia, alle continue vessazioni, e aveva cercato la libertà, fisica e soprattutto morale, che le era sempre stata limitata e negli ultimi anni addirittura preclusa».
Prigioniera in casa, questa deve essere stata la vita di Cetta
fino alla decisione di scappare.
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Con le sue dichiarazioni ai magistrati, tra aprile e luglio
del2011, fa nascere l'inchiesta Califfo, undici ordini d'arresto: inguaia ulteriormente anche U' Testuni, Francesco
Pesce, il boss emergente di cui, in quel periodo, sta parlando pure Giusy. Nella loro Rosarno sono tutti parenti
e complici, ogni frase manda in galera un congiunto. Le
confessioni delle due cugine convergono, si rafforzano a
vicenda. E le loro storie si intrecciano in modo in apparenza inestricabile.
Giusy descrive la successione al vertice del clan, l'ascesa
di Francesco: «Ha dettagliatamente indicato attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa», scrivono i pm che
chiedono dieci arresti sulla base delle sue dichiarazioni. Del
resto a lei toccava il compito di riciclare i soldi; a differenza
di Cetta la sua scelta matura in galera, per la sofferenza di
non vedere più i propri figli. Giusy fa scoprire tre bunker,
di cui uno nella casa di U' Testuni, e racconta i dettagli
del calvario della prima donna coraggiosa di famiglia, Annunziata, svanita per «lupara bianca» nel1981 perché s'era
innamorata di un carabiniere di Rosarno. Nessuno ne ha
mai parlato, a parte il controverso pentito Pino Scriva nel
1983. È <da più dimenticata dei dimenticati», scrivono Danilo Chirico e Alessio Magro nel loro saggio sulle vittime
delle cosche calabresi. La fece sparire sottoterra il fratello,
Antonio, racconta Giusy. E aggiunge: «Finché sarà libero il
mio, di fratello, io resterò condannata a morte, perché è lui
che deve eseguire la sentenza per il mio tradimento».
Già, l'infame codice 'ndranghetista impone in Calabria
che i consanguinei lavino l'onta di un tradimento. Ma prima che la sentenza scatti, il clan tenta di ottenere la ri36
trattazione. Giusy e Cetta, in due località separate e sotto
protezione, vengono sottoposte quasi nello stesso periodo
allo stesso tormento.
I figli sono il loro punto debole.
«lo potrei cavarmela con qualche anno di carcere, ma
nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato»,
racconta Giusy Pesce nel primo interrogatorio. «Quando
il mio bambino una volta ha detto che da grande gli sarebbe piaciuto fare il carabiniere, suo zio l'ha preso a botte,
poi gli ha promesso che una pistola gliel'avrebbe regalata
lui ... Dunque lo faccio per i miei figli. Se io non cambio
strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino
potrebbe già essere in un carcere minorile e comunque gli
metteranno al più presto una pistola in mano; le due figlie
invece dovranno sposare uomini di 'ndrangheta, e saranno
costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro
diverso per loro».
«Ti affido i miei figli», scrive alla madre Cetta Cacciola, «ma di una cosa ti supplico. A loro devi dare una vita
migliore di quella che ho avuto io ... dagli quello che non
hai dato a me. Abbracciali come hai sempre fatto e parlagli
di me». Poi, il riferimento amaro e timoroso ai maschi di
famiglia, padre, fratello, marito, quasi una premonizione:
«Non !asciarli a loro, non son degni di loro ... mamma addio
e perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa
sarà la volontà dell'Onore che ha la famiglia. Per questo
avete perso una figlia. Addio, ti vorrò sempre bene».
n 18luglio 2011, nel mezzo dell'estate in cui si decide
il destino delle due cugine di Rosarno, la figlia sedicenne
scrive a Giusy: «Mi dispiace, ma ce l'ho con te, mamma,
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sono arrabbiata per quello che stai facendo. Questa è la
tua scelta e la rispetto, ma sappi che lo stai facendo per te,
non per noi che ci fai solo del male». Dalla lettera trasuda
puro veleno: «Avrei voluto stare con te perché ti amo e
perché sei la mia mamma, però non ce la faccio ... Non sono
d'accordo con te, perché stai sputando nel piatto dove hai
mangiato, senza senso».
La ragazzina scrive sotto dettatura, «sputare nel piatto
dove hai mangiato» non è una frase sua, Giusy lo capisce
bene. E, dopo una prima ritrattazione, tiene duro, torna a
collaborare coi magistrati, anche se suocero e cognati premono, le offrono di pagare tutte le spese legali, di provvedere a tutte le sue necessità. È una trappola, probabilmente.
Come quella in cui cadde Lea Garofalo. E in cui sta per
cadere Cetta Cacciala. Giusy lo intuisce, ed è la sua fortuna:
«Prima o poi sarei stata giustiziata, diciamo, per l'errore
che ho fatto», racconta ai magistrati. E infine la figlia torna
a scriverle, stavolta senza nessuno che le forzi la mano: «lo
senza di te non ce la farò mai ... A me quello che pensa o dice
la gente non m'importa, io penso con la mia testa e decido
io. Nella lettera precedente ti avevo detto che non venivo,
però non era una mia scelta>>. La figlia del boss Salvatore
Pesce si salva così. Non vedremo più sue foto perché ha
una nuova vita, una nuova identità, e i figli stanno con lei.
Cetta non ha la stessa forza della cugina. E su di lei il
trattamento è persino più pesante. Il padre Michele le fa
ascoltare al telefono il pianto della sua bambina più piccola, sei anni appena: «Ma la senti tua figlia che sta facendo?». «Dille di stare tranquilla, papà, ti prego!». «Ma che
tranquilla, Cetta, questa qua sta morendo!».
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Quelle lacrime le stracciano l'anima, Maria Concetta
Cacciala cede. Anche un'altra sua cugina, Rosa Ferraro,
sta cominciando a collaborare, e al processo 'AH Inside'
racconta che il padre, per vendicare la famiglia dal tradimento, ha deciso che sia suo fratello ad ucciderla. La grande fratellanza mafiosa dei Pesce e dei Bellocce non può
permettersi di perdere altri componenti, soprattutto deve
mandare un messaggio chiaro a chi volesse seguire la strada
delle tre cugine 'rinnegate'. Ed è Cetta, certo la più debole,
a farne le spese. Torna indietro e viene praticamente sequestrata in casa, pestata dal fratello Giuseppe fino a spezzarle
le costole. Siamo a Ferragosto 2011 e il suo destino sta per
compiersi. Su un nastro resta la sua voce malferma mentre
registra la ritrattazione che la famiglia le chiede: «Mettevo
sempre [in mezzo] mio padre e mio fratello, anche se non
c'erano, solo per rabbia ... ora sono a casa mia e ho riacquistato la serenità». Peccato che resti incisa anche la voce di
un'altra donna che, alle sue spalle, le suggerisce cosa dire:
« ... e vorrei essere lasciata in pace nel futuro».
Cetta ha rm ultimo sussulto, prova di nuovo a sfuggire
al meccanismo che la sta stritolando. Chiama l'uomo di cui
è segretamente iill1amorata: «.Mi sento in gabbia». Implora
la madre di liberarla, ma quella le urla contro: «No, Cetta,
no, assolutamente». Telefona infme ai carabinieri: «Mandate
qualcuno voi, tipo come se uno mi arresta, tipo una cosa così». I militari sono pronti a intervenire, ma lei vacilla di nuovo, e ancora per la sua bambina: <Jvlia figlia sta male, aspetto
due o tre giorni e vi richiamo». Non ce li ha, tre giorni.
Qurantotto ore dopo, beve - o le fanno bere - mezza
bottiglia di acido muriatico. Una morte orrenda e rituale,
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perché il ricorso all'acido, che tutto cancella e distrugge,
fa parte - come vedremo - della simbologia- usata dalla
'ndrangheta: il tradimento così va cancellato. La giovane
vita di Cetta, i suoi sogni brevi e segreti: tutto viene corroso
e spazzato via. Eccetto il piccolo seme di giustizia che il
suo pentimento ha lasciato nella famiglia: padre, madre e
fratello vengono arrestati.
In queste terre le mamme cantano ai bimbi la Ninnananna du malandn'neddu: «Fatti grande l cresci presto l /igghiuzzu l l'onun· da /amigghia l manteniri l a t oi padn· l vendican'». Una nenia di morte già in culla, che vale un destino già
scritto.
Se i figli di Cetta avranno un futuro migliore lo dovranno al sacrificio di quella loro mamma così diversa.
Cinque
ll paradosso di Monasterace sta in poche centinaia di metri
di marciapiede. Nel piazzale di fronte alla farmacia di Maria
Carmela Lanzetta, sulla statale Ionica, staziona in permanenza- dal secondo attentato- una pattuglia di carabinieri
o della polizia. Ai tavolini del bar accanto alla serranda della
farmacia, ancora sforacchiata dai mafiosi, è invece ospite
quasi fisso Cosimo Ruga. È uscito da lunghi anni di galera: secondo i faldoni giudiziari, guidava con suo fratello
Andrea una 'ndrina egemone nella zona e specializzata in
sequestri di persona; ora, passata la sessantina e chiusi i
conti con i processi, se ne sta tranquillo a godersi gli amici ritrovati, arriva con la sua auto elettrica azzurra, siede a
sorseggiare caffè, sfoglia pigramente un giornale, si guarda
attorno incuriosito, forse infastidito, dalle facce forestiere
come la mia. Suo fratello Andrea è morto a gennaio 2011: Ji
infarto, sembrava, ma poi è emersa l'ipotesi che lo abbiano
soffocato; suo nipote Giuseppe Cosimo, figlio di Andrea, è
stato arrestato ad appena 28 anni per narcotraffico.
li paradosso di Monasterace, che è poi un piccolo paradosso nazionale, sta in questa convivenza forzata, le divise
dell'Arma e gli antichi destini del paese malavitoso, tutti
raccolti sotto il portone di Maria Carmela Lanzetta.
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«Qui la 'ndrangheta nemmeno esisteva», mi racconta
lei sospirando.
È stata importata da San Luca, feudo dei Nirta. I Nirta sono tra i pochi 'ndranghetisti cui è attribuita la dote
di «Vangelo», scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso
in Fratelli di sangue: «Personaggi eccelsi, conoscitori dei
diritti e dei doveri dell'onorata società con mansioni decisionali al massimo livello».
Cosimo Ruga e Maria Carmela sono quasi coetanei.
Monasterace è cambiata molto, la distanza tra il bene e il
male s'è fatta più difficile da vedere, i contorni più sfumati.
«Con la moglie ho sempre avuto un ottimo rapporto
personale», mi dice la sindaca. «Lei ha sempre avuto tanti
problemi, i figli da crescere da sola, una sorella malata,
io l'ho sempre guardata da donna che doveva subire una
condizione difficile. Come donna. Per il resto, io dico o di
qua o di là. Con me in quanto sindaco questa gente non ha
nemmeno modo di parlare, ci parlo solo da dietro il banco
della farmacia, questa è la ricetta e questa la medicina. In
Comune mai, un minuto dopo sarei andata dai carabinieri,
lo sapevano».
Non è difficile capire perché la sindaca Lanzetta sia
diventata indigesta a tanta parte dei suoi concittadini. Allergica al perdonismo su cui è fondata buona parte della
storia italica pubblica e privata, Maria Carmela è una cristiana anomala: «Mi piace l'impegno civile del cristiano,
la solidarietà. Non accetto il perdono comunque sia. Io ti
faccio un torto feroce e poi chiedo perdono ... facile pentirsi il giorno dopo, troppo facile. No, così si passa sopra
a tutto, si accetta di tutto. Il riscatto viene dall'impegno
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civile, dal rispetto della legge italiana e della Costituzione,
su questo non ci sono santi. Chi ha sbagliato deve riscattarsi solo e soltanto con l'espiazione della pena, il che non
significa andare per forza in galera, molte cose non sono
penali ma stanno nei rapporti tra le persone, il chiedere
scusa davvero significa un impegno quotidiano che ti porta
a dimostrare, seriamente, che in quell'azione hai sbagliato:
altrimenti ciascuno si piglia tutti gli sfizi e poi il giorno
dopo si pente. Non si educano i giovani così».
Lei, l'hanno educata diversamente, questo si capisce. In
una famiglia piena di donne indipendenti e dal carattere
forte, che girava tuttavia attorno a un uomo, coraggioso e
poco incline ai compromessi: suo padre, morto nel 2007,
medico condotto a Bivongi.
«lo parlo di etica ed estetica», mi dice dunque Maria
Carmela, un po' fuori parte, nel salotto di casa, sopra la
farmacia, tra scaffali colmi di libri e carte da parati che
cadono. Casa di famiglia. Dei genitori.
«Casa grande, i miei ragazzi non hanno patito a stare
qua, anzi, avere la nonna a disposizione è una cosa bellissrma».
La prima donna di ferro qui è proprio la vecchia Olga,
minuscola, segaligna, determinata. Quella che per prima
le ha dato il coraggio di resistere agli attentati. Si affaccia,
la matriarca che fondò la farmacia Mazzone nel1954, e mi
dice: «Qua si sta benissimo», come a volermi convincere
di una realtà che pure dovrebbe balzarmi agli occhi. Olga
ha studiato fuori, cosa abbastanza rivoluzionaria per la sua
generazione, la famiglia Mazzone era di larghe vedute: laurea in farmacia a Bologna, poi l'incontro con quel giovane
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medico conterraneo che aveva finito gli studi a Modena:
Vincenzo, il papà della sindaca Lanzetta.
«l miei sono stati rigorosi, seri ... normali».
A Mammola, il paese d'origine, comandavano le donne
di casa. Tutte le domeniche una festa, «con tutte le mie zie
femmine, la famiglia di mia madre, donne meravigliose,
veramente. La sorella grande di mia madre aveva i capelli
biondi, gli occhi azzurri, era piccolina come me: non aveva
potuto studiare ma si era impegnata nell'Azione cattolica,
col marito badava al frantoio, al mulino, a tutte le cose di
casa. Da mia zia Palmina c'era una bella casa grande, famiglia molto cattolica, uno zio sacerdote tra i commensali
fissi. Zia era molto accogliente: da Monasterace le portavamo le arance, e il giorno dopo non ce n'erano più perché le
regalava a tutto il paese».
Allora c'erano poche famiglie borghesi.
«Nemmeno noi lo eravamo, i miei erano figli di contadini, anche se nella famiglia di mia madre c'era già qualche
medico, qualche avvocato».
La professoressa delle medie, a Bivongi, le dava da fare
le ricerche, «perché tu hai a casa l'enciclopedia». E già
quello era un piccolo segno di promozione sociale, in una
classe piena di figli di emigranti tornati dall'America coi
sogni della giovinezza spiegazzati nella valigia.
Vincenzo Lanzetta, il padre di Maria Carmela, era un
indignato ante litteram, molto prima che l'indignazione
fosse una scoperta letteraria di Roth e una moda mediatica
ai tempi della crisi del capitalismo.
«Era molto chiuso di carattere ma molto, molto per bene:
la cosa che mi ha sempre colpito è un'onestà profondissima
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e diciamo, sì, questa forma di indignazione per ogni fenomeno di corruzione. A volte si sentiva di grandi scandali italiani
oppure di scandali calabresi, lui si indignava in una maniera
esagerata, però non ha mai fatto politica. Era permanentemente arrabbiato, mio padre. Passò a votare dalla Dc al P ci.
Ha votato Pci per la questione morale e per Berlinguer. Per
il famosissimo discorso delle mani pulite, quello dell981».
Nel mondo della piccola Maria Carmela, papà Vincenzo è un monumento difficile persino da contemplare. «È
stato fondamentale per me, ma non gli potevo parlare, avevamo un rapporto conflittuale».
Quel mondo si incrina quando Vincenzo ha un ictus;
lei, appena quattordicenne, aspetta come sempre che passi
a prenderla all'uscita di scuola, a Bivongi, dove lui fa il medico condotto. Quell'assenza sarà un tarlo che scava, anche
se l'alleanza delle donne, siano zie, compagne di scuola o
colleghe politiche diventerà presto una costante da quel
momento.
Liceo a Locri, si manifesta per il Vietnam. «E adesso
mi viene da ridere, pensando che protestavamo per un
posto così lontano e non per la nostra Calabria ... non che
il Vietnam non fosse importante, ma insomma».
Primo e unico discorso in pubblico, a quindici anni.
«Ero con la mia amica Mariannina La Cava, figlia di
Mario, lo scrittore. Facemmo una manifestazione chiedendo il salone e il palco dei domenicani e io feci un intervento
contro le scuole cattoliche». Ride. «Eppure, ripeto, non
potrei dire di non essere cattolica da quando è venuto il
vescovo Bregantini nella Locride. Come si fa a non essere
cristiani? Non è possibile».
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Ma quella sua testa calda, tutta compressa dalla timidezza, è un detonatore naturale: «A quindici anni non vedi le
sfaccettature, sbagliavo. In alcune zone dove lo Stato manca può darsi che le scuole cattoliche sopperiscano bene. A
Pazzano- appena dodici chilometri da qui- c'è un'esperienza bellissima: le suore dedicano al ricamo e al lavoro
femminile molta della loro attenzione, e così tante donne
si sono avvicinate e hanno creato una cooperativa. Molte
adesso mi dicono: io che sono di Plati, di San Luca, come
facevo a studiare se non andavo in collegio? Era l'unica
possibilità di studiare per molte ragazze... E però mi incuriosiva una differenza: perché i nostri preti sono colti e le
suore no? Mi arrabbiavo tantissimo da ragazza. Poi a Bologna, dove sono andata a studiare Farmacia all'università,
c'erano le suore Mantellate nel convitto dove vivevo, quelle
erano colte. Mi chiedevo perché alle suore non venisse data la stessa possibilità di studiare storia, filosofia, teologia.
Le donne dovevano subire. Sempre. Se mi chiede cosa mi
interessa nella vita, rispondo: un buon caffè e lo studio».
Femminista? «No, non ne avevo bisogno. Sono già nata
da una mamma che aveva studiato, con una nonna che
mi diceva sempre studia, emancipati, per essere tranquilla
qualsiasi cosa accada. Le ho sempre appoggiate, ma non ho
avuto bisogno di fare le battaglie femministe».
Dopo lunghi anni al Nord, con Giovanni che insegna
nelle scuole della Lombardia e lei che si divide tra la casa
da sposina e la farmacia a Monasterace con mamma Olga,
ecco la decisione definitiva: si torna indietro.
«Era impossibile stare lontano dalla nostra terra».
Scelta difficile. Già Bologna l'aveva cambiata. «lo mi
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sento totalmente una persona del Sud, ma ci sono state
esperienze di lavoro e sindacali, di studio e di diritti civili
in quegli anni che solo al Centro-Nord venivano portate
avanti con ricchezza culturale». Al collegio delle Mantellate, Maria Carmela si sente libera come mai lo è stata, la
Bologna delle osterie di fuori porta la interessa pochissimo,
sgobba come una matta sui libri. Poi l'incontro con Giovanni, gli anni a Milano, persino un'esperienza teatrale,
alla Com una Baires: «Ma io guardavo e ascoltavo soltanto,
ero troppo timida per recitare».
La scelta di tornare la condivide con Giovanni, che è
uomo silenzioso ma granitico: «Non ha mai chinato la testa, è una bella persona». A Monasterace, s'inventano un
nuovo pezzo di vita.
Nei primi anni Novanta, i venti del cambiamento che
spazzano l'Italia sembrano sfiorare anche la Calabria. Con
un gruppo di donne, Maria Carmela crea l'associazione
'Antica Kaulon', «organizziamo concerti, la festa dei fiori
prodotti nelle serre. Avevo in testa il modello di Pescia in
Toscana e dicevo: se loro hanno creato un grande mercato
di fiori, che ci manca a noi per portare avanti un discorso
culturale legato al lavoro? Ci mancava tutto!», ride, leggera. «Però abbiamo fatto bellissime cose».
Cinque o sei donne: quello è il primo nucleo delle sostenitrici di Maria Carmela a Monasterace.
Con quel gruppo, nasce la Proloco. Pare una cosa banale, ma qui non lo è affatto.
«Ci sono state lotte incredibili, ricorsi al Tar. Ci dicevano: che volete, voi quattro femminucce?». Lentamente,
qualcosa va cambiando in municipio. Il regno di Cesare
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De Leo, sindaco socialista dal1975, sta crollando. La moglie del nuovo sindaco, Comito, è tra 'le femminucce' che
lavorano con la Lanzetta.
«Essendo 'quattro femminucce' abbiamo sgobbato come dannate per dimostrare che eravamo veramente un' associazione turistica e culturale e non un gruppo manovrato politicamente. Abbiamo avuto un successo strepitoso a
Monasterace e fuori. Abbiamo portato Elisabetta Pozzi a
fare la Medea di Christa Wolf in piazza, Mariano Rigillo a
fare Le Troiane, pure Michele Placido l'ultimo anno, Famela Villoresi ha fatto una Medea che ancora se la ricordano, nel campo di calcio della chiesa con circa 700 spettatori. Poi facevamo il Carnevale, il concerto di Natale, le
piccole sagre, perché non è che o si fa teatro o morte con la
puzza sotto il naso ... La mia gioia è stata quando abbiamo
avuto un articolo sulla rivista dell' Alitalia. Per i soldi un
po' ci aiutava il Comune e un po' me li andavo a cercare
in Regione: così ho combattuto anche la mia timidezza.
Abbiamo dimostrato che si voleva fare di questo lembo
di Calabria un posto dove si poteva vivere bene avendo
interessi culturali come in ogni altro posto d 'Italia. Per me
è essenziale essere uguali. E abbiamo dimostrato eli non
essere politicizzati».
Usa questa parola come un insulto. Glielo faccio notare.
«Vede, qui le accuse sono sempre state feroci», mi dice.
Non capisco. «Qui c'era la sezione del Partito comunista che poi si è dileguata nel nulla. Quando si è creata nella
Locride la sezione dei Ds io ho aderito ... ma era una cosa
mia personale, che non ho mai replicato nella vita di fuo48
ri», mormora guardando oltre il balcone, verso il piazzale
dell'ultimo attentato.
«No, io non sono portata per il palcoscenico. Mi è toccato di fare il sindaco senza che lo scegliessi. Io avrei fa tto tanto volentieri l'assessore alla cultura. So che mi sta
toccando un ruolo di testimoniai, ma non credo di esserci
tagliata. Io faccio pure un sacco di errori e prendo un sacco
di botte. Sono consapevole di essere un pachino incosciente, so di non sapere, non riesco a programmarmi in questo
campo ... ».
Ancora una volta mi viene il dubbio che la sindaca di
Monasterace mi stia un po' prendendo in giro, che giochi a fare l'ingenua. Lei quasi s'arrabbia: «lo ho sempre
rispetto di tutti, per i nostri parlamentari ho il massimo
rispetto, poi quello che non mi piace lo critico: io non sono
assolutamente antipolitica. Anzi, mi sarebbe molto piaciuto avere alle spalle una bella scuola di partito. Posso mai
illudermi di fare il politico se non ho mai frequentato una
scuola di politica? No. Per questo sono come sono. Io non
ho la preparazione culturale e politica per poter fare altro
da quello che faccio. Ci gioco? No. Alice nel paese delle
meraviglie? No. Veramente io non ho la preparazione per
fare il deputato. La mia idea di deputato è altra. È la Biodi. Bersani. Violante. D' Alema, puoi non essere d'accordo
con lui, ma è molto fine. Veltroni mi è sempre piaciuto
moltissimo. Come sindaco di Roma è stato meraviglioso.
Anna Bonfriseo, senatrice del Pdl, di Verona, ci sta molto vicina, senza alcun tornaconto elettorale, non è certo
il suo collegio, questo. E nel governo ho un'ammirazione
particolare per la Cancellieri e la Fornero. Vede, io credo
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che l'Italia sia veramente una. Sono felice se a Milano o a
Torino le cose vanno bene. Quando si vota a Venezia me
la sento come se si votasse a Monasterace. Siamo noi, non
importa se è mille chilometri più in là».
La politica un po' la tira dentro per i piedi, insomma.
Con le donne, le 'sue' donne, che le ripetono tra il 2004
e il 2005 quella specie di litania in dialetto: «Signora, vui
'ndaviti 'u fati 'u sindaco».
Monasterace ha problemi enormi e irrisolti. Alle elezio~
ni de1200 l si era presentata una lista unica. «Sì, come nel
fascismo. Io votai scheda bianca, però votai, non sono una
ribelle, ci furono 600 schede bianche». Capolista della lista
unica era Giuseppe Bonazza, già vicesindaco con De Leo.
Molti vengono dal vecchio Partito socialista.
Le condizioni economiche del Comune sono precarie,
c'è da gestire il dissesto. Lo scioglimento per decreto prefettizio arriva ad aggravare lUla situazione già complicatissima. «Con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose in
paese si creò un'aria pesante. Nessuno li ha condannati,
non ci fu dibattito pubblico, solo silenzio, silenzio assoluto. La tomba. È ignavia più che paura, 'lascia che le cose
corrano', diciamo quL.».
Bonazza e i suoi vincono il ricorso al Tar, tornano in
sella con tante scuse, continuano ad amministrare fino al
2006. Ma ormai molti vogliono cambiare, per motivi non
tutti nobilissimi. Di sicuro, attorno alla Lanzetta il polo
delle donne s'ingrossa, coagula Wla parte importante di un
paese dove trasformismo e familismo hanno azzerato del
tutto le scelte politiche ideali. Ci sono famiglie che praticano il voto ... disgiunto. Marito e moglie votano ciascuno
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per un candidato, così da poter battere cassa in ogni caso
a urne chiuse.
do sono partita da un principio: a Monasterace ci sono
i partiti? No. E quindi con chi mi relaziono? Con nessuno.
E allora non ho fatto patti con nessuno. Mi hanno detto
'potevate scegliere meglio, se vi relazionavate con persone
che avevano fatto politica prima'. A De Leo ho chiuso il
telefono in faccia e gli ho fatto telefonare da mio marito.
Mi diceva che potevamo fare insieme 'la migliore delle liste'. Io feci rispondere da mio marito che non trattavo con
nessuno. Lui allora andò da un mio cugino avvocato, che
è una persona meravigliosa, e mi propose un incontro perché potessimo fare 'la migliore delle liste possibili'. Risposi
che no, non avevo nessun interesse. lo e lui ci siamo sempre
parlati del più e del meno. Personalmente io posso parlare
con tutti, politicamente non voglio parlare con nessuno».
La 'migliore delle liste possibili' rimase nel libro dei sogni di qualcuno. Come l'idea di poter controllare questa
strana farmacista la cui storia stava cambiando assieme alla
storia di tante donne come lei.
Sei
Volevano rapire Berlusconi. Quando era già il padrone di
Canale 5 ma non ancora uno degli uomini più potenti d'Italia. Per spiegare il peso dei Ruga, i mammasantissima della
'porta accanto' a quella di Maria Carmela Lanzetta, questo
raccontò tanti anni fa uno strano pentito, Franco Brunero.
·Chi era Brunero? Un rapinatore al servizio dei clan, poi
collaboratore di giustizia ben pagato dallo Stato, quindi di
nuovo colto a saccheggiare banche in provincia di Genova.
«Il piano era stato elaborato assieme alle cosche Musitana e Aquilino ... Era stata fissata pure la cifra del riscatto:
venti miliardi, non una lira in meno. Un grosso affare che
doveva impegnare praticamente tutti i quarantotto membri della banda e mobilitare tutte le varie succursali dell'Anonima sequestri nella zona ionica reggina».
Se la fonte può essere discutibile, il contesto è molto
verosimile. Erano quelli i tempi in cui i clan mafiosi, siciliani prima che calabresi, decisero di finanziarsi sul mercato dell'eroina coi quattrini dei riscatti estorti a facoltosi
imprenditori del Nord. Nel nostro caso la faccenda andò
diversamente, Berlusconi aveva ad Arcore un uomo capace di 'sconsigliare' mosse avventate contro di lui: Vittorio
Mangano. Polemiche politiche e fascicoli giudiziari hanno
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già raccontato quegli anni e quelle protezioni. E tuttavia la
potenza del clan Ruga, la cosca egemone Ji Monasterace,
si affaccia negli atti già allora. E non declina.
Nel2010 il procuratore Nicola Gratteri spiegava ai cronisti, arrestando il giovane Giuseppe Cosimo Ruga, erede
designato del clan: d carabinieri hanno chiuso il cerchio
su una potente cosca mafiosa i cui membri sono le propaggini familiari dei vecchi capi 'ndrangheta, come i fratelli
Andrea e Cosimo Ruga, che negli anni Settanta e Ottanta,
con le cosche di Gioiosa Ionica, furono implicati in alcuni
sequestri di persona, storie di appalti e controllo dei boschi
delle Serre catanzaresi».
Per contendersi questo genere di affari, qui si spara. E
non solo a scopo intimidatorio. Nella lista dei cadaveri di
rispetto, caduti tra agguati e ritorsioni, c'è anche quello di
Damiano Vallelunga, considerato il capo della famiglia che
comanda a Serra San Bruno: killer armati da chissà quale
mandante l'hanno freddato il27 settembre 2009, proprio
davanti al santuario di Riace, meno di dieci chilometri da
qui, nel bel mezzo della festa per i santi Cosimo e Damiano.
Che tutti vedessero.
L'elenco dei morti ammazzati è lungo e pesante quaggiù.
È complicato decifrare per intero il senso di questa mattanza che comincia addirittura nel 1977 con la 'faida dei
boschi' per il predominio del territorio nelle zone montane
dei comuni di Stilo, Guardavalle, Santa Caterina, Mongiana e Serra San Bruno, perché non tutti i morti ammazzati si
spiegano con gli affari in terra di Calabria; e perché codici
d'onore antichi come e più del Kanun albanese costringo54
no i figli a farsi carico del sangue versato dai padri, in una
catena che davvero solo la saggezza delle donne può spezzare, come intuì monsignor Bregantini nel suo appello alle
madri e alle mogli di San Luca dopo la strage di Duisburg.
Monasterace e la valle dello Stilare sono parte integrante
di quest'area violenta e intrisa di odi antichi.
Terra Ji delitti di mafia e di fughe precipitose. La mattina del6 maggio 2010, Giuseppe Cosimo Ruga se la squagliò per i campi quando i carabinieri gli bussarono alla porta. Per mettergli le manette, dovettero corrergli appresso
tra aranceti e uliveti.
Lo zio del giovanotto, Benito Vmcenzo Antonio Ruga,
secondo gli investigatori era ancora attivissimo negli appalti assegnati in paese, in cima a tutti quello del movimento
terra, fino all'operazione 'Village' che ha tagliato le unghie
al clan.
È anche storia vecchia, questa delle infiltrazioni in Comune, tanto che il 27 ottobre del 2003 il consiglio comunale di MoÌ-tasterace venne sciolto per diciotto mesi.
«Permeabilità ai condizionamenti della criminalità organizzata», scriveva il prefetto, chiedendo nuove elezioni.
La giunta, guidata dall'allora sindaco Giuseppe Bonazza
(che s'era fatto politicamente le ossa come vicesindaco di
Cesare De Leo) resistette, e sette mesi dopo ottenne dal
Tar del Lazio l'annullamento del provvedimento prefettizio.
Secondo i giudici romani non era provato «il reale collegamento degli amministratori» con i mafiosi e men che
meno lo erano «forme di condizionamento tanto pesanti
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da compromettere la libera determinazione degli organi
elettivi». «A tutto concedere», argomentavano i giudici, si
sarebbe potuto parlare di «casi di cattiva amministrazione,
indubbiamente deprecabili ma non dissimili da quelli che
per comune esperienza è dato riscontrare in larga parte
del territorio nazionale». Comunque «non è stata fornita alcuna prova di collegamento tra gli amministratori del
cennato Comune e gli appartenenti alle locali organizzazioni criminali». Già. Ai magistrati amministrativi romani
appare «obiettivamente insufficiente» che «il suocero del
vicesindaco sia fratello di un soggetto già arrestato [ma non
si sa neppure se condannato] per associazione mafiosa»;
che «la figlia del sindaco sia fidanzata con il rampollo [che
non sembra avere alcun precedente penale o di polizia] di
un individuo genericamente indicato come mafioso»; che
«il padre di un consigliere [comunque scarcerato dopo pochi giorni] sia stato arrestato per associazione a delinquere
di stampo mafioso»; che «due membri della giunta [i quali
per effetto della loro attività politica sono inevitabilmente
destinati a intrattenere una serie di rapporti umani particolarmente nutrita] abbiano avuto sporadici contatti con alcuni pregiudicati della zona». Bazzecole, si capisce. Come
i «reati bagatellari» che gravano «su un assessore e alcuni
consiglieri»; o come «gli abusi d'ufficio» di due dirigenti
comunali.
La sentenza, firmata dal giudice Luigi Tosti, può sconcertare ma va ovviamente rispettata come tutte le sentenze. Per effetto di essa torna in sella la giunta Bonazza,
che, sotto l'egida del suo ispiratore De Leo, continuerà a
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governare fino al2006, l'anno delle elezioni che portano
alla giunta Lanzetta.
«La gestione di quella donna è stata disastrosa», mi dice
De Leo, il settantenne padrino politico del paese che con
Maria Carmela voleva fare «la migliore delle liste possibili»
e ora veste i panni scomodi di suo unico nemico dichiarato.
Ci incontriamo sulla piscina di un albergo che affaccia
sulla statale Ionica, patio dai mattoni rossicci e sedie di
plastica- solito strappo di brutale bruttezza accanto a una
spiaggia che potrebbe essere una gemma caraibica- e lui
ha il viso deformato dall'ira, un'ira antica, a lungo covata.
Ha portato carte, fascicoli, foto, è impaziente di raccontarmi la sua verità.
«La mafia c'è, sì, Ma questi fatti gravissimi avvenuti
contro il sindaco Lanzetta non possono ascriversi ai vertici mafiosi perché il sindaco non ha fatto niente contro
la mafia. La mafia reagisce per gli appetiti sugli appalti, le
lottizzazioni, lei è stata semplicemente fallimentare. Quelli
che hanno fatto le azioni contro la Lanzetta li ritengo criminali senza cervello».
n piano del discorso si fa inclinato e scivoloso, guardo
in faccia il mio interlocutore, per quindici anni filati sindaco socialista del paese e negli anni successivi autentico
dominus delle amministrazioni pubbliche fino all'arrivo di
Maria Carmela. È un uomo scaltro, abile nel discorso stop
and go diffuso in un certo ambiente del Sud: ti dico una cosa per la quale potresti chiamare i carabinieri e un minuto
dopo una di segno contrario. Così, sterza subito: «L'episodio della farmacia è molto grave, quelli sono delinquenti
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L
che ricorrono ad atti criminali». Poi però non si trattiene:
«Ma, insomma, se vuoi mandare a casa qualcuno non fai
questi atti, così la rafforzi!». Mi viene da pensare al rimprovero di un papà verso i suoi pargoletti un po' irruenti. Lui
pare leggermi nel pensiero, ha una storiaccia da raccontare: «Senta, io ho avuto quattordici procedimenti penali, ma
ne sono sempre uscito indenne». Lo beccarono in un'intercettazione con un pezzo da novanta dei Ruga, vecchia
conoscenza, il paese è piccolo, si sa. Era ill994, c'erano in
ballo appalti, De Leo era ormai assessore provinciale. «Era
un mio coetaneo, quello, certo che lo conoscevo. Il gip ha
scritto che non c'era nessun elemento in base al quale io
avessi mai agevolato la cosca!». Prima dell'ordinanza del
gip, De Leo s'era fatto quattro mesi di galera per concorso
esterno in associazione mafiosa. E anche adesso non si dà
pace, se la piglia con il procuratore antimafia più esposto
della Calabria: «Il dottor Gratteri ha preso per oro colato
tutte le cose false che hanno scritto i carabinieri», dice.
È uno strano uomo, non manca di coraggio, un coraggio
un po' autolesionista, al limite dell'improntitudine. Non si
capisce perché mai i carabinieri avessero voluto rovinarlo.
Ma lui giura di essere «perseguitato dallo Stato italiano». Il
peggio del berlusconismo, il vittimismo antistatuale, pare
avere lasciato una morchia non eliminabile nei linguaggi e
nei modi. L'idea della persecuzione costruita da giudici e
carabinieri è un alibi di successo, in Italia. Fatto sta che i
giudici alla fine l'hanno assolto: De Leo è pulito e il complotto, se c'era, non si vede.
Lui, viceversa, sembra vedere Maria Carmela Lanzetta
come una specie di esito inconsapevole di questo complot58
immaginario. Se lei sta lì, in fondo, è per tutti i guai
giudiziari che sono capitati a lui e ai suoi amici della giunta
Bonazza. De Leo ha provato a farsela amica, la Lanzetta, magari con l'idea di controllarla. Ma chiunque parli
con Maria Carmela per più di mezz'ora capisce che è una
scheggia impazzita, un cane sciolto fuori dal sistema. L'idea
di controllarla non depone a favore dell'intuito politico del
vecchio sindaco. Fatto sta che lei gli ha sbattuto la porta
in faccia, non solo metaforicamente. E lui se l'è legata al
dito. N on sono cose che si fanno, in pubblico, a uno come
Cesare De Leo.
«È stata scorrettissima con me. E inoltre la accuso di
favorire interessi privati».
A questo punto De Leo mette sul tavolo le carte. C'è
pure un esposto alla procura di Locri, firmato con lui da
Diego Origlia, quello che sfondò con un pugno la porta dell'ufficio della Lanzetta minacciando di «ammazzare
qualcuno» perché non gli avevano mandato in fretta l'auto-spurgo nella casa allagata in un giorno di nubifragio.
La trasmissione ai pm è del29 maggio 2012. Giusto due
mesi dopo il secondo attentato a Maria Carmela, i colpi di
pistola contro la sua Panda e la saracinesca della farmacia. Ma la relazione, messa insieme da De Leo e dai suoi
sodali, è del 14 marzo, precede l'attentato di appena due
settimane. «Il Comune- scrivono De Leo e soci- è stato
ed è gestito dall'amministrazione Lanzetta in modo dilettantesco, poco responsabile e senza il rispetto delle regole,
come se si trattasse di un feudo privato del sindaco. Non
vi è atto dell'amministrazione che possa passare il vaglio
di legittimità. La malagestio è ampiamente documentata».
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Dall'appalto dei lampioni alla raccolta differenziata fino al recupero del centro storico, De Leo attacca su tutto,
sempre sostenendo in sostanza che la giunta di Maria Carmela avrebbe usato in modo disinvolto i soldi del Comnne
per rappezzare qua e là un paese che, a qualsiasi onesto
occhio di visitatore, appare più che mai bisognoso di un
rammendo. Ma è sulla piazza di Monasterace Marina, che
il vecchio politico del Psi lancia le accuse più dure.
Vale la pena di soffermarsi un momento sulla questione, perché è fortemente esemplificativa nel suo carico di
veleni. Quei veleni che, in un posto come questo, possono
agevolmente diventare letali.
Una piazza a pezzi, piazza Porto Salvo, in totale degrado, ha sempre raccontato la Lanzetta. E soprattutto
una piazza senza il suo senso di piazza, che è, ovviamente,
quello di raccogliere i cittadini, mescolarne abitudini e vicissitudini quotidiane, creare una quinta per il teatro della
vita associata.
In effetti, una delle sensazioni più forti che mi colpì
entrando a Monasterace fu il senso ostile delle case, tutte costruite l'una contro l'altra, come assemblate da un
architetto pazzo che avesse voluto seminare zizzania tra
la gente del posto. Lo dissi alla Lanzetta che ci rise su:
«Bravo, è proprio come lei la vede! Qui non c'è un centro». Lo pensa, la sindaca, e l'ha messo nero su bianco
quando ha deciso di porre mano alla vecchia piazza, orgoglio dell'antica amministrazione De Leo, che la costruì
sopraelevata di un paio di metri rispetto allivello del mare,
una specie di panettoncino a tagliare il paesaggio: «Monasterace Marina è un paese che si è formato prevalentemente
60
nel dopoguerra con l'apporto di cittadini provenienti dai
paesi dell'entroterra- Stilo, Pazzano, Bivongi- che hanno
avuto sempre difficoltà ad amalgamarsi per la mancanza
di un vero e qualificante luogo di aggregazione: la piazza
del paese. n nucleo urbanistico del paese, infatti, è sempre
stato di proprietà dei marchesi di Francia-Guiscardi che,
con i loro palazzi annessi non ristrutturati, hanno di fatto,
in un certo senso, bloccato lo sviluppo ordinato e consono
a un paese formato da famiglie che ricavano dall'economia turistica una grossa fetta del proprio bilancio». Di qui
l'idea di lavorare assieme ai privati «per la ricostruzione
urbanistica della cittadina jonica, famosa anche per il suo
sito archeologico».
E di qui, anche, le accuse di Cesare De Leo, secondo cui
l 'intera operazione servirebbe a favorire i privati concedendo loro nuove cubature. Affermazioni tutte da dimostrare,
ovviamente, che però sono diventate oggetto di manifesti
sui muri del paese e di feroci campagne su Facebook.
Resta da capire chi sia l'ispiratore di un'altra curiosa
iniziativa. Nei giorni in cui l'Italia, una volta tanto, si stava
mobilitando per la Lanzetta, e quaggiù stavano scendendo
il ministro Cancellieri e il segretario del Pd Bersani, c'era
chi se la prendeva con la stampa. Secondo un vecchio canone mafioso, per il quale i giornalisti sono tutti cornuti,
comunisti e tragediatori, anche i mali di Monasterace venivano addebitati all'informazione, colpevole di renderli noti al mondo, diffamando gente onorata. Sicché un nutrito
gruppo di giovanotti aveva pensato a una manifestazione,
a un clamoroso corteo contro la libera stampa, e qualcuno
aveva preparato anche le magliette: «Monasterace nel cuo61
re». il contrordine è arrivato all'ultimo momento, perché
alla fine anche in Calabria vale nn vecchio detto della mafia
siciliana: calatijuncu ca passa 'a china, 'calati giunco finché
non è passata la piena'. E quei giorni di primavera del2012
furono giorni di piena da queste parti.
;
l
J
'
Sette
«Nei paesi spesso non si muore di cose vere, si muore di
chiacchiere», mi dice la Lanzetta.
Stiamo affacciati tra i vasi di fiori del terrazzo che domina il parcheggio da dove hanno sparato, e lei senza volerlo mi fa venire in mente Falcone, la frase famosissima
consegnata a Marcelle Padovani: «Si muore generalmente
perché si è soli ... perché si è privi di sostegno. La mafia
colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere>>.
Perché le chiacchiere, certe chiacchiere, a questo servono: a farti terra bruciata intorno, e a lasciarti solo.
Quella di Maria Carmela Lanzetta comincia proprio
come una storia segnata dalla solitudine. Già dalla prima
lista, per le elezioni del 2006, quando un intero blocco di
potere, spazzato via dal prefetto e rimesso in sella dal Tar,
ha comunque difficoltà a mostrare la faccia agli elettori. E
dunque si cercano facce nuove.
«Sono partita con due, tre amici che avevo alla Proloco.
Poi ho chiesto a un ex vice del sindaco Comito di stare con
noi. Ex P ci anche lui, Nicolino Procopio. Gli ho chiesto di
fare il sindaco. lo gli avrei fatto da assessore alla cultura, da
vicesindaco, sarei stata in lista. Lui non ha voluto assoluta63
mente. Allora gli abbiamo chiesto almeno di entrare in lista
e scegliersi un ruolo. Niente. Ci ha accompagnato frno all'ultimo ma non è entrato in lista. Io sono partita dagli iscritti al
Pci di una volta, sono andata a scegliermi rutto il gruppo che
faceva parte dell'ultimo direttivo. Senza che fosse dichiarato
era una lista di sinistra. E ho preso una botta ... ».
Nei piccoli centri del Meridione, la distinzione tra destra e sinistra non ha sempre grande senso. Molte scelte
non sono politiche ma amicali, familiari, di clan, nate da
temporanea convergenza di interessi, o semplicemente
dettate da avversione, da rancore antico, come minuscole
faide senza spargimento di sangue. A Monasterace i professionisti progressisti non sembrano ansiosi di sostenere
il tentativo della piccola farmacista. Che prova a coinvolgere prudentemente anche un personaggio importante in
paese, che già abbiamo incontrato altre volte nella nostra
storia, Diego Origlia: sì, il medico che poi sfonderà a pugni
la porta della Lanzetta in municipio, quello che firmerà le
denunce contro di lei assieme a Cesare De Leo.
«Gli chiesi di fare il capolista, gli altri con lui sarebbero
entrati e con me no».
Lo strappo si consuma proprio qui, dove stiamo seduti
a parlare, nel salotto di casa Lanzetta, tra il gruppo del
medico e quello della farmacista.
«Diego, convinci queste persone a dire sì, tu sei il nostro
sindaco», azzarda lei quel giorno.
Giocando col telefonino lui alza le spalle: «Non ne ho
bisogno perché ho moltissimi voti, ho una grande famiglia». La maggioranza allora si schiera con la Lanzetta:
«Maria devi fare tu il capolista». E lei accetta.
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J
Origlia va con il suo avversario, Palmiro Spanò. Anche
lui di sinistra. Nel2006 il centrodestra non si presenta. Ma
attenzione ancora una volta a non dare troppo peso ai simboli, in terre dove il peso vero sta tutto da un'altra parte.
«C'era un gruppo di avvocati pronto a entrare tutto intero in una lista». Un blocco di pressione, una lobby? «Verso la fine questo gruppo mi disse: trattiamo se tu accetti ...
non ricordo quanti di loro dovevano entrare. Io dissi: manco mezzo, sceglie l'assemblea chi sì e chi no. Presumo avessero un gruppo di affari alle spalle ma non ne ho le prove».
Si vota, infine. «Ho vinto per 549 voti in più dell'altra
lista, col60%. Eravamo donne e uomini che non avevano
mai fatto politica attiva. Noi donne siamo state tutte elette,
io, Angela, Maria e Francesca. Quattro su undici. Spanò,
il mio avversario, mi ha accusato di avere preso i voti della
'ndrangheta. lo l 'ho querelato. La querela è stata archiviata
dal tribunale».
Già la prima amministrazione ha vita durissima. Lei litiga con i suoi assessori, ritira le deleghe. La chiamano 'ducetto', la timida farmacista s'è trasformata in una despota,
pare. «Ma non è così. Ero alla prima esperienza, faticavo
da morire, loro erano in giro in paese a parlare con tutto e
tutti, io come facevo a resistere? lo non ho famiglia di qui,
siamo di Mammola, non ho nessuno che mi può difendere
nella discussione al bar».
E le chiacchiere cominciano a scavare sotto i suoi piedi ... «Maria ha un carattere pessimo, Maria manda e comanda».
Lei adesso un po' si giustifica: «Volevo che andasse tutto
nel migliore dei modi, io lavoro moltissimo e pretendevo che
,
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si impegnassero moltissimo anche loro. Un giorno ho tolto la
delega a tutti gli assessori e mi sono fatta nel2008la processione della Madonna di Porto Salvo con i sei assessori tutti
dietro, senza delega. Poi ho cominciato a parlare con ognuno
di loro verbalizzando i punti che ci dicevamo e sono stati tutti
più o meno agnellini. Tra luglio e agosto ho ridato deleghe».
Non è finita. In tre se ne vanno. La fiducia è rotta. «Di
alcuni non mi piacevano le frequentazioni». Di certo lei
non piace a loro. Alcuni si avvicinano a un consigliere socialista della Regione che poi finirà in manette per legami
con la 'ndrangheta.
«lo non derogo e non scendo a patti».
In consiglio comW1ale Maria Carmela chiede ai tre transfughi: «Dimettetevi. Io cado. E ci contiamo». I tre si dimettono. A due di loro avevano bruciato le macchine nei
primi due anni di amministrazione, la cosa può non essere
irrilevante nella scelta di mollare la sindaca.
«lo li avevo difesi con tutte le mie forze, come adesso
non sarei più capace di fare. Avevo cercato nelle cooperative sociali un fondo di solidarietà perché fossero risarciti
dei danni».
Sembra che alla rottura con i tre debba seguire davvero
il 'rompete le righe'. Ma in soccorso della Lanzetta arrivano
altri tre consiglieri: un postcomunista dei Ds, un comunista
di &fondazione e un verde. ll verde ha una macchiolina
non irrilevante: si chiama Piero Ruga, è cugino dei padrini. «Ma è perbenissimo, non c'entra con loro», giura lieve
Maria Carmela. «Anzi, è terrorizzato. Mi ripeteva sempre
'stai attenta, Maria, lo dico per il tuo bene, che ti credi di
fare?'. Alla fine ha avuto ragione lui».
66
E dawero in questo passaggio, in questa frase sospesa
tra l'ingenuità, la premonizione e l'awertimento, si può vedere in trasparenza tutta l'ambiguità di un contesto, tutta
la difficoltà di governare un gruppo sociale dove, risalendo
di qualche generazione, ciascuno ha rapporti di sangue o
di amicizia con ciascun altro.
«Loro sono entrati senza condizioni, altrimenti non li
avrei accettati, ma politicamente ho sbagliato. Mio marito
diceva: butta giù tutto, rifacciamo la lista e vinciamo le elezioni dopo sei mesi di commissariamento. Io ho detto: in
questo momento dobbiamo concretizzare. Avevo in ballo
dei finanziamenti con la Regione, se mollavo perdevamo i
finanziamenti. Pioveva, c'erano strade dissestate, il mare
che avanzava, lavori pubblici da mandare in porto, non mi
sono sentita di pensare a un utile politico. Però una parte
del paese ha visto male che io resistessi. Pensavano che
fossi scesa a patti con Cesare De Leo. Non me l'hanno mai
perdonata».
Troppi equivoci, troppo grigio anche attorno allo sfavillante sogno di trasparenza vagheggiato da Maria Carmela.
Le elezioni del 2011 sono molto diverse dalle precedenti.
Maria Carmela affitta un locale sulla statale 106, poco lontano dalla sua farmacia, per il comitato elettorale.
Corrono tre liste. La sua, 'Indipendenza e libertà', molto
rivolta alle donne, che sono ormai il suo bacino elettorale.
La seconda, animata dai tre transfughi, col sostegno dell'ex
sindaco Comito e con Diego Origlia come capolista. La
terza, direttamente guidata da Cesare De Leo.
«A marzo mi aveva mandato una mai!, proponendo lui
sindaco e io vicesindaco, io l'ho ringraziato, 'può costruirsi
67
tutte le liste che vuole, ci confronteremo'. Mi sono arrivate
molte sollecitazioni, ho sempre rifiutato. E forse mi sono
rovinata. Fossi stata brava avrei accettato una discussione
aperta per non frammentare il paese, la guerra continua
non fa bene a nessuno, invece io sono sempre con l'accetta
in mano, o di qua o di là».
Stavolta va diversamente anche alle urne, niente più
consensi clamorosi, la Lanzetta vince con 53 voti di scarto. Con lei, quattro le donne: «Clelia, Tonina, Carmen e
Angela».
Molte famiglie distribuiscono il voto, come di consueto
quaggiù: per poter chiedere favori a urne chiuse, chiunque
abbia vinto.
La fermano in piazza, un paesano le dice: «Sapete che
vi ho votato, signora? Ma voi non siete venuta a chiedermi
voto».
«lo non sono andata da nessuno».
«'Mbè, fa lo stesso. Mia moglie ha votato suo zio nella
lista di De Leo e io ho votato a voi».
In questo clima di politica ridotta a poltiglia, si collocano gli attentati, due in nove mesi. E dopo gli attentati va
anche peggio in paese.
Non è davvero tutto primavera. Ci sono funzionarie
pubbliche come Consolata Leto, la direttrice scolastica,
che sceglie di non invitare la Lanzetta alla recita di fine anno dell'asilo, perché i bambini «si spaventano della scorta»
(la scorta è composta da due discretissimi carabinieri della
compagnia di Roccella, rigorosamente in borghese, con le
armi ben nascoste e le facce più da studenti universitari
che da militari).
68
Lei, la sindaca, non si fa abbattere. Respira a fondo.
«A volte sono stanca, a volte la lotta è impari», mi dice.
Ma poi, per restare in carica, quando l'Italia si accorge del
caso Monasterace, chiede allo Stato cose precise. Batte su
tre punti.
Prima di tutto, un rinforzo all'ufficio tributi. «il mio
primo segretario diceva 'ho il sindaco che vuole la luna nel
pozzo', che poi è un bel libro di Amendola. Era un comunista doc, il mio primo segretario, e dopo tre mesi ha sbagliato di un giorno la convocazione del consiglio comunale,
ha fatto 121 giorni anziché 120, la minoranza l'ha rilevato.
Era espertissimo. Io, senza esperienza, l'avevo scelto per
quello. Tutti dicono che non poteva sbagliare per quanto
era esperto. Poteva essere un modo per tirarsene fuori. Ma
bastava dirmi di no, bastava dirmi vado via. Non lo so.
Comunque noi non possiamo pagarlo l'aiuto per l'ufficio
tributi. La prefettura lo deve pagare se mi vuole aiutare.
Noi non possiamo fare un bando per assumere, il nostro
bilancio e la pianta organica non ce lo consentono».
Poi, una bella manciata di nuove regole. «Ho chiesto
di indicarmi dove potessi trovare le somme disponibili per
scrivere le regole del territorio. Noi per la legalità del posto dobbiamo approvare i piani territoriali: il piano strutturale associato (con altri comuni vicini), per il quale noi
siamo a due terzi del lavoro con i comuni di Guardavalle
e Santa Caterina. Poi andrebbe fatto il piano comunale, il
piano regolatore nuovo non c'è, c'è quello del1982. E non
c'è perché non ho i soldi, queste cose si fanno coi soldi.
Poi serve il piano di spiaggia. E poi un piano per il centro
storico. Oggi come assicuro la legalità a questo territorio?
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Servono i soldi. Devi fare un bando pubblico, selezionare
gli architetti, i geologi che possono scriverti le regole del
territorio. Ho trovato persone che farebbero tutto solo a
rimborso spese. Per un piano di spiaggia, novemila euro.
Per il centro storico, cinquemila. Per il piano strutturale
associato quarantamila. lo non ho detto che me lo debbono regalare. Solo, nell'ambito dei ministeri, trovare come
e dove e quando presentare un piano per reperire questo
finanziamento. Mi sta per arrivare, ci conto».
La Lanzetta prende fiato, dopo questa tirata che il pragmatismo dei vari De Leo di paese definirebbe 'dilettantesca'. La sua forza, in un mondo in cui la politica è diventata
prima una professione e poi un mestieraccio, sta proprio
nel dilettantismo. Questa sindaca simbolo delle donne calabresi non ha paura di sembrare nai:f.
«<o ho chiesto aiuto non solo per Monasterace. Ma ci
sono territori che hanno necessità, se vogliamo parlare di
legalità in Italia. Ci sarà un fondo sicurezza particolare
cui accedere per le amministrazioni in crisi. Che si possono chiamare Scampia, Taranto, Vittoria, in Sicilia. Io non
sono così stupida da pensare che posso avere questo gratuitamente. Ho avuto contatti col Formez a Roma, con la
Funzione pubblica e la prefettura di Reggio e il ministero
degli Interni per trovare la strada con cui arrivare a queste
cifre. E avremo salvato un territorio. E l'esempio di questo
territorio sarà sovrapponibile ad altri».
Infine, e presto, geometri, ragionieri. Gesualdo Bufalino diceva che Cosa Nostra verrà sconfitta da un esercito di
maestri elementari. In fondo Maria Carmela Lanzetta non
va molto lontano da quest'idea: «Serve un supporto per
70
l'ufficio tecnico. Quello serve, servono cose tecniche. A
questo territorio serve definire le regole. Adesso il controllo militare c'è. Adesso che m'hanno sparato». Ride. Poi si
fa seria: «Vede, se perdiamo a Monasterace, perdiamo tutti
assieme. Perdete anche voi, l'Italia è una sola».
Negli occhi, ancora la prima stagione, quando le speranze erano di gran lunga maggiori delle delusioni e delle
amarezze.
«Le serate al Magna Grecia Teatro, il ritrovarci a chiacchierare vicino alle rovine, tutti insieme fino a notte. Le
presentazioni dei libri, Susanna Tamaro, Chiara Gamberale, la serata del cuore con Umberto Ambrosoli. I cent'anni della decana del paese, Caterina Gara. Ho ballato in
piazza la tarantella insieme all'elettricista del Comune, io
non ho mai ballato, eppure a Monasterace Superiore abbiamo ballato con le donne che ti fanno ruota, momenti
allegri davvero. I ragazzi mi volevano parlare e io li ricevevo nella piazza Celestino Placanica, sulle scalette. Stavamo
recuperando alcune case, bisognava scegliere se pietre o
intonaco, con l'architetto abbiamo deciso una riunione
pubblica. Così abbiamo preso le sedie dal bar e abbiamo
stabilito tutti insieme ciò che s'aveva da fare, la soluzione
fu una casa intonacata e l'altra no, ma perché l'architetto
ci diceva che quelle pietre consentivano di fare questo e
altre no. Adesso mi sento intristita da questa rottura di
equilibrio da cui vengono gli attentati. Io non ho i nomi
da fare. Tanti mi dicevano 'non devi avere paura di nulla'
e io andavo sempre su e giù con 'sta Panda (su cui hanno
sparato). Poi si è rotto tutto. Nell'ultimo anno sono stata
sottoposta a cattiverie, non vado più in un sacco di posti,
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c'è un bar dove non vado più a Monasterace Superiore. Le
critiche scendono sul privato».
E qui le vengono le lacrime agli occhi, non ha la tempra
del politico navigato, Maria Carmela.
«La campagna elettorale è stata feroce, non mi è passata
(ne fa una questione personale). Io non c'entro niente con
la politica, è vero, serve tempo. Lo so che non è personale,
io devo superare questa cosa, la stavo superando, poi mi
hanno sparato, e gli spari sono veri, è un altro passo indietro. La gente si aspettava che io facevo il giustiziere della
notte, poi quando lo fai nessuno ti appoggia... Il prefetto
di Palermo mi ha detto: 'Cerchi di stare attenta, signora, è
bello ciò che fa ma stia attenta'. Io sono contenta che sia
venuto Bersani qui, ma non per i quattro colpi di pistola
a me, avrei gradito che fosse venuto per una motivazione
politica. Lo ringrazio, ma a me quei colpi di pistola pesano.
Anche quando mi ha invitato Passino alla Biennale della
Democrazia a Torino, dissi che le motivazioni per cui mi
invitavano non erano di mio gradimento. Poi, non puoi
non tenere conto degli sforzi che sta facendo lo Stato in
Calabria. Quando il procuratore Gratteri dice che 'ognuno
deve andare fino in fondo', a quel punto non te la senti di
dire scusate tanto, io non ci sono più ... E allora vado avanti.
Con una paura? Sì, una. Che tutta questa attenzione passi».
E che la luce si spenga di nuovo, su Monaserace e dintorni.
Otto
«Ci dà un passaggio per Siderno, dottoressa?».
Fuori dal palazzo di Giustizia, Katy Capitò guardò
quelle tre ragazzine di liceo, venute ad assistere al processo 'Primavera', contro 'ndranghetisti di rango della cosca
Cordì-Condello.
Forse le aveva già viste, forse no, a quell'età si somigliano tutte: e lei di ragazzine ne incontrava tante in quei
mesi tra il1999 e il2000, perché stava lavorando parecchio
sulle scuole, parlava agli studenti per sensibilizzarne le coscienze. Una vecchia fissazione: provare a battere i mafiosi
tagliando l'erba sotto i loro piedi, ecco cosa bisognava fare,
spiegando ai loro figli e ai loro nipoti che stare dalla parte
dello Stato è molto meglio, è persino meno faticoso.
Comunque non costituivano certo un pericolo, quelle
tre, anche per una donna magistrato costretta, come lei, a
girare sotto scorta per via di quel processone pesante come
un macigno e delicato come un vaso di cristallo.
In macchina, le ragazzine la presero larga. Poi una si
fece coraggio: «Che cosa bisogna fare per essere come voi,
dottoressa?».
«Come me, come?».
«Giudice».
73
«<l concorso in magistratura».
«E ci sono limiti? Preclusioni?».
«Non capisco. Quali limiti? Che p reclusioni?».
«Eh, io purtroppo ho dei parenti. .. pregiudicati. Uomini d'onore sono, i miei parenti. Ma io vorrei essere come
voi, non come loro».
«Ragazze, io non faccio niente di speciale, solo il mio
dovere. Quello è il segreto: fare il proprio dovere».
Il ghiaccio era rotto, le ragazze cominciarono a chiacchierare liberamente mentre i campi riarsi della Locride sfùavano muti come sempre fuori dal finestrino della macchina.
Si fece allora avanti la più piccolina: «E ... se uno muore
per droga ma questa droga gliel'hanno data?». Suo zio era
stato ammazzato con un'overdose tagliata. Lei discendeva
da un clan che comandava a Gioiosa Marina, nobiltà mafiosa.
Le altre tenevano gli occhi bassi, mentre lei raccontava. «Veniamo a trovarvi, dottoressa», promisero tutte e tre
scendendo infine dalla macchina.
Non le rivide mai più.
Eppure, molti anni dopo, Katy Capitò ricorda ancora
quelle ragazzine: come un segno, forse come un'opportunità non colta.
È una donna robusta, forte, che comunica solidità per
ciò che dice e per come lo dice. Stiamo parlando sotto il
patio del suo giardino a Riace, mentre i suoi figli le giocano attorno. Maria Carmela Lanzetta è con noi. Katy fa
in qualche modo parte del grande network femminile che
la sindaca di Monasterace sta provando a costruire: se le
donne non salveranno il mondo come ci piace sognare,
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potrebbero fare almeno qualcosa di molto utile per questi paesini di poche migliaia di anime vendute al diavolo
'ndranghetista. Ora Katy è gip a Locri, un tribunale da
cui tutti scappano e dove nessuno vuole andare a lavorare:
«Non è più dura perché sei donna, una fa il magistrato e
basta. Donna o uomo non conta».
Conta, e molto, il genere, per sfuggire alle leggi dei clan.
Se sei donna, è molto più complicato. «Quando penso a
quelle ragazze mi domando: in capo a dieci anni, crescendo
in un ambiente criminale, quale spinta avranno avuto? Mi
rattrista e mi rattristava che le loro possibilità di crescere
fossero davvero minime. Noi abbiamo avuto persone vere
accanto, che ci hanno amato e sostenuto».
Passa da pessimista, la giudice Capitò, nelle infinite discussioni serali con Maria Carmela Lanzetta e con le altre
donne di quaggiù impegnate a cambiare le cose, ciascuna
nella sua quota parte di mondo e di lavoro.
«No, io non sono d'accordo con questa storia del risveglio ... della 'primavera' delle donne calabresi! Secondo
me, anzi, le donne hanno assunto un ruolo dirigenziale nelle cosche, fanno supplenza dei loro uomini, magari arrestati o ammazzati. Certo, c'è chi prova a uscire. Ma chi prova
a uscire paga moltissimo. Non è facile fare una scelta del
genere. Ricordo, a Catanzaro, Rosetta Cerminara: era del
Lametino, all'inizio ebbe l'appoggio dello Stato, emigrò in
un luogo protetto. Poi lo Stato la mollò. Sicché il rischio è
che chi si espone non riesca poi a ottenere tutela a tempo
indeterminato. Senza identità, senza famiglia, senza rapporti di natura economica, è molto difficile per le donne».
75
Alla fine siamo ciò che mangiamo, pare dire, pragmatica, la giudice.
«lo posso mantenere i miei figli e il coraggio mi viene. Lo Stato deve promettere alle donne che escono dalla 'ndrangheta di fare questo. Molte altrimenti cedono e
tornano indietro per i figli. Noi dobbiamo risolvere una
questione culturale ma forse, prima ancora, una questione
economica. La questione economica è la grande arma di ricatto a cui cedono. E spesso il figlio ce l'hai contro. Infamiglia sentono discorsi di illegalità quotidiana. È l'abitudine.
Crescono con odio radicato verso lo Stato. Avere portato la
scuola a livelli così bassi è disastroso. In queste condizioni
si cerca solo la sopravvivenza. Se questa 'primavera' non
diventa culturale non va da nessuna parte. La 'ndrangheta
ha una politica matrimoniale precisa. Il vincolo di sangue
è peculiare, se parli tradisci il padre, il fratello, il cognato,
lo zio. Perciò io sono cauta a parlare di primavera delle
donne, perché ricordo bene quando le donne si incatenavano davanti al tribunale di Locri perché si celebrava il
processo Aspromonte, era il1995-96, e volevano il trasferimento del processo. Ricordo bene quando si presentavano
in massa in udienza tutte vestite di nero. Quando ripenso a
tutte queste cose mi sembra difficile vedere la primavera.
E comunque, chi vuole uscire da quel mondo di violenza deve avere, deve sapere di avere, un aiuto economico
consistente», mi dice Katy, con ciò anticipando un nodo
fondamentale che ritroveremo parlando di Lea Garofalo
e di altre pentite.
Tornando al municipio di Monasterace con Maria Carmela e i carabinieri della scorta, incontriamo due donne
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che la battaglia della dignità e del lavoro la combattono
ogni giorno, con premesse ed esiti molto differenti. Anche
loro, parte integrante della 'rete Lanzetta'.
La prima è Pina Taverniti, una delle operaie delle serre
che la sindaca ha preso sotto tutela.
«Siamo trentotto lavoratrici e due lavoratori, là nelle
serre. E dal2011 non prendiamo lo stipendio».
Il cortocircuito delle serre di Monasterace è un caso non
certo unico ma indubbiamente affascinante per i giuslavoristi. Per mesi e mesi le donne di quaggiù hanno continuato a sgobbare duro senza percepire alcunché, solo per
non perdere la speranza di un compenso. In terra di mafia,
dove la mancanza di occupazione si traduce in occasioni
di ricatto, i sindacati sono svaniti, i politici professionali
anche. La Lanzetta si è schierata al fianco delle operaie, da
sola: era per loro il consiglio comunale straordinario indetto la sera del secondo attentato, quello dei colpi di pistola
contro macchina e farmacia. Il legame tra queste donne e
la sindaca si coglie nei gesti, negli sguardi.
Pina Taverniti quasi si stringe a Maria Carmela mentre
sussurra: «Prima eravamo un centinaio, all'inizio 350. Abbiamo resistito in poche. Adesso rivedo i soldi ... Mi danno
piccoli acconti di 80 euro al mese. Loro, i padroni, dicono
che hanno problemi, che dove prendono la merce non sono pagati, invece pagano gli altri debitori regolarmente.
Abbiamo iniziato questa lotta insieme al sindaco, due anni
fa ci siamo riunite nella sala del consiglio comunale, sapevamo che l'azienda era fortemente in crisi ma loro ci negavano informazioni. Ci siamo rifiutate di andare a lavorare e
per la prima volta sono riapparsi i sindacati accanto a noi,
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il sindaco ci appoggiava. Abbiamo fatto quindici giorni di
sciopero bianco. Ci hanno pagato, alla fine. No, non tutto.
Gennaio 2012 e fine maggio: in due rate».
Maria Teresa N esci era invece una donna borghese, perfettamente a suo agio nei meccanismi convulsi della nostra
società: faceva la promotrice finanziaria. Poi, qualcosa le è
cambiato dentro. Seduta al tavolo di lavoro, che la Lanzetta ci ha prestato nel suo ufficio prima di sparire risucchiata
dai guai quotidiani dell'amministrazione cittadina, mi dice:
«Penso che la provvidenza possa fare moltissimo contro la
'ndrangheta». Ha fondato la cooperativa 'Felici da matti'
con cinque donne come lei, spinte dalla fede. «Siamo un
movimento ecclesiale, crediamo nel rinnovamento, nello
Spirito Santo». La base del loro gruppo di preghiera è a
Roccella Ionica, da dove vengono anche i carabinieri della
scorta di Maria Carmela Lanzetta.
Maria Teresa sorride spesso. Più spesso della media
quaggiù. «All'inizio noi eravamo in sei, tra i 30 e i 70 anni, e abbiamo messo su un laboratorio alternativo. Farse
saremo incoscienti ma il peso della 'ndrangheta io non lo
avverto addosso. Mai. Il punto è, cosa vuoi dalla vita. Io
volevo creare posti di lavoro. Devi essere credibile».
Il detonatore del progetto è stato, ancora una volta,
monsignor Bregantini, che molto di buono pare aver seminato in terra di Calabria prima di passare alla diocesi di
Campobasso: portare il sociale nel lavoro, questo è sempre
stato l'insegnamento del vescovo. «Così, noi abbiamo pensato che le preghiere dovevano diventare opere». Le opere
portano via da sole terra alla 'ndrangheta, sottraggono le
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donne alla solitudine in cui vuole confinarle la legge delle
famiglie mafiose.
«Siamo una cooperativa sociale di tipo B, cioè una vera
e propria impresa: facciamo raccolta di abiti usati, siamo
estesi nell'area del precariato, tutto senza una lira di finanziamento pubblico. La fede dà il coraggio di cambiare
mentalità e modo di vivere, mi creda».
La fede, sì. E qualche incontro speciale. Il pensiero di
Maria Teresa corre subito a Rosy Canale, che ormai è un
nome, è andata pure in tv a raccontare i suoi guai, attenendone soprattutto critiche e rimproveri: cerca notorietà,
hanno detto in molti.
«Sì, ci siamo viste una volta e so cosa ha cercato di fare
a San Luca. Rosy ha detto no, è stata picchiata, ha avuto il
coraggio di rialzarsi. Ha ripreso l'attività di ricamo, quando l'ho incontrata pensava di aprire un negozio a Roma e
di vendere prodotti calabresi».
A San Luca, il fortino dei Nirta e degli Strangio, dei Pelle e dei Vottati, sono stato un paio di volte, per il «Corriere
della Sera». L'ultima, quando la squadra di calcio locale
decise di scendere in campo con il lutto al braccio per la
morte del capomafia Antonio Pelle, detto 'N toni Gambazza. Storia esemplare.
Garnbazza, che col suo prestigio aveva provato a fermare il sangue e l'odio sfociati nella strage di Duisburg, era
passato a miglior vita il4 novembre 2009. A San Luca volevano funerali solenni, la questura costrinse invece i clan a
esequie quasi invisibili, all'alba. n giorno dopo, domenica
8, alla partita contro il Bianco, i ragazzi del pallone scesero
con la fascia nera al braccio in memoria del padrino. L'ar79
bitro- mica scemo- fece finta di niente. «Prima o poi se
non mi danno l'oratorio, lo chiedo alla 'ndrangheta, ma
non scriverlo», mi disse allora don Pino Strangio, ridendo,
nella canonica della parrocchia che guidava da ventinove
anni filati. Don Pino, quando non curava le anime, faceva
anche il presidente del San Luca Calcio.
Questo era il clima e questo era il posto dove Rosy Canale andò a infilarsi in barba ai codici degli uomini d'onore.
Era proprietaria di un ristorante e di una discoteca a
Reggio Calabria, e i mafiosi volevano usare i suoi locali
come base per lo spaccio. «Dovevo chiudere un occhio»,
disse Rosy a un cronista del «Guardian», parlando poi al
telefono dal suo rifugio segreto negli Stati Uniti. «Se l'avessi fatto, sarei senza dubbio ancora a Reggio Calabria, alla
guida di una Ferrari».
Rifiutò. E gli uomini d'onore decisero di punirla. Le
spaccarono la faccia, le fecero cadere i denti picchiando1a
sulla bocca col calcio d'una pistola.
«Mi hanno rotto la clavicola, diverse costole e una
gamba. Sono stata otto mesi prima di lasciare l'ospedale.
I medici hanno dovuto ricostruire la mia bocca e per molto tempo ho dovuto essere alimentata attraverso un tubo.
Sono scesa a trentanove chili di peso», raccontò allora.
Dopo essere stata dimessa, iniziò tre anni di riabilitazione.
<<.Avevo bisogno di imparare a parlare di nuovo perché la
mia lingua era stata danneggiata ... Ancora oggi, non riesco
a correre, anche se posso camminare. E la mia mano destra
era così gravemente ferita che non riesco più a suonare il
piano. Questo è il prezzo che ho pagato per essere una persona onesta», aggiunse, attraendo l'attenzione della stam80
pa estera. Non tutti, dalle sue parti, le credettero. C'è chi,
tra gli investigatori, dubita tuttora di questa ricostruzione,
spesso in Calabria esiste una doppia verità e comunque le
vittime più rispettate, quaggiù, sono quelle che subiscono
in silenzio, non quelle che si mettono a strillare in conferenza stampa.
Per i suoi quarant'anni, le recapitarono una testa di coniglio mozzata. Andò in depressione. Sparì. Fino alla strage di Duisburg, 15 agosto 2007. La metà dei morti era di
San Luca, il massacro trasferiva in terra tedesca la terribile
faida che da decenni insanguina il paese calabrese. Monsignor Bregantini non fu l'unico a lanciare un appello in
quell'occasione. Se il vescovo invocò le mamme e le mogli
di San Luca per evitare altre stragi, il prefetto si rivolse
agli imprenditori di buona volontà: lanciò un concorso di
idee per un progetto di svolta, perché la speranza entrasse
anche nel fortino dei mafiosi. Tra gli imprenditori di buona
volontà, rispuntò Rosy Canale.
La nuova vita di San Luca sarebbe stata anche la sua
nuova vita.
n progetto prevedeva tre fasi: una scuola materna,
un'impresa di donne, la fondazione di un centro femminile. L'idea di Rosy era semplice ed efficace: salvare insieme
i bambini e le mamme, sottrarre ai mafiosi le famiglie.
Stavolta, non servì la violenza a fermare la giovane imprenditrice calabrese. Bastò la pigra lentezza della burocrazia, l'indifferenza dello Stato. A corto di fondi, il centro
femminile non vide neanche la luce. L'impresa di donne,
quella di cui parla Maria Teresa Nesci, visse sulla spinta
di una dozzina di ricamatrici volontarie e sulle risorse di
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Rosy, che bussò a tutte le porte, chiedendo invano trentamila euro di finanziamento. «Ho scritto a tutti. Tutti sanno
quello che faccio e quello che sono», ha detto ai cronisti.
«Nessuno mi ha risposto».
Alla fme anche la scuola ha chiuso. Nemmeno uno dei
politici che ogni giorno si riempiono la bocca parlando di
lotta alla mafia ha trovato modo di sostenere l'iniziativa di
San Luca (trentamila euro non sono più di due stipendi
mensili da senatore). Rosy ha scritto un libro. È ancora
minacciata dalla 'ndrangheta, dicono. Sua figlia, diciottenne, non può uscire di casa, la polizia le ha consigliato di
lasciare il liceo che frequentava.
Nove
Lea sognava un mondo alla rovescia. Dove una donna potesse studiare senza essere derisa o punita. Dove il suo uomo non la picchiasse e non la umiliasse ogni giorno. Dove
una famiglia non dovesse considerare la morte violenta di
un padre o di un fratello come un fatto ineluttabile.
«Lea è sempre stata molto vivace e molto ribelle, si ribellava a mamma, alla maestra di scuola, ai compagni ... e
aveva buoni motivi. Poi di questo suo carattere le è rimasto
che se non le stava bene una cosa non si stava zitta. E zitta
non è stata».
Marisa Garofalo sospira, la frase le si incrina in gola:
«lo non sono così», mi dice, «sono remissiva, subisco e sto
zitta». È la sorella di otto anni maggiore. Mentre mi parla,
si fa largo in sottofondo la vocina del più piccolo dei suoi
tre figli, che gioca in corridoio. Ha avuto una vita normale,
Marisa. «Sono casalinga, mio marito lavora con l'azienda
forestale, è una persona perbene». E quel 'perbene' marca
la distanza tra una fortuna e una disgrazia.
Lea no, non ce l'aveva un marito 'perbene'. Era rimasta
imprigionata nei codici dell'onore. E quando ha deciso di
«non starsi zitta», e ha svelato ai magistrati affari e omicidi
di famiglia, l'hanno rapita per ordine del suo uomo a due
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passi da corso Sempione, nel cuore di una Milano ormai
colonizzata dai mafiosi calabresi, l'hanno torturata e ammazzata, poi sciolta nell'acido, s'era detto, smaltita come
un fango inquinante in una discarica vicino Monza. Indagini più recenti hanno scoperto in un campo della Brianza
i suoi monili, una collana, qualche anello: l'ultima ipotesi
è che il cadavere sia stato bruciato, ma fa differenza solo
rispetto alla piena credibilità del pentito che ha raccontato
le sue ultime ore, decenza vorrebbe che nessuno provasse
a inficiare gli esiti del processo.
Lea Garofalo e sua figlia Denise, che ha trovato a diciott'anni il coraggio di deporre in Corte d'assise facendo
condannare il proprio padre all'ergastolo per quel delitto,
sono diventate due eroine da tragedia greca calate in questa timida primavera delle donne calabresi.
«Noi abbiamo avuto cinque morti, a casa», dice Marisa. E li enumera con normalità, come fossero stati colpiti
dall'influenza di stagione, mentre la voce del suo bambino
cresce di tono e a tratti si appropria della nostra conversazione. «Mio padre, mio zio, mio fratello Floriano, mio
cugino e poi Lea ... ».
Morti ammazzati, s'intende. Floriano era il maggiore,
classe 1964, quello che aveva ereditato dal padre il bastone
del comando. Se Lea è finita così male, la colpa in fondo
è proprio sua e di quello scettro che faceva gola a tanti,
come vedremo tra breve. Per adesso ricordiamo quanto sia
importante per gli 'ndranghetisti la politica matrimoniale,
un po' come nelle case regnanti d'Europa al tempo delle
monarchie assolute.
«Siamo di Pagliarelle, duemila abitanti, frazione di Pe84
tilia Policastro, provincia di Crotone», mi racconta Marisa. «Qua d conosciamo tutti». Ma tutti si fanno gli affari
propri, s'intende.
«Siamo cresciuti coi nonni quando è morto papà. Papà
l'hanno ucciso alla vigilia di Capodanno 1975, si chiamava
Antonio, aveva 27 anni. Lui e mia mamma Santina erano
ancora così giovani, a diciassette anni avevano fatto la 'fuitina'. Lea era piccolissima quando lo uccisero, non s'è capito
bene perché, allora non si parlava di 'ndrangheta, di droga,
non aveva mai avuto precedenti>>. Per alcuni rapporti dei
carabinieri, in realtà, Antonio era già un uomo di rispetto.
«Al paese dicono c'entrasse il fatto che nostro zio Giulio
Garofalo stava in carcere per omicidio, l'hanno diminato
prima che mio zio uscisse. Poi hanno ammazzato anche zio
Giulio nel 1982. Mai presi. Mai preso nessuno. Nemmeno gli assassini di mio fratello Floriano, che verrà ucciso
trent'anni dopo papà, 1'8 giugno 2005».
Nessuno sa nulla, nessuno vede nulla mentre imperversa e miete vittime su entrambi i fronti la faida GarofaloMirabelli, di cui Lea parlerà poi ai magistrati.
Marisa ha un ricordo vivido e drammatico di quel primo
morto in famiglia, del padre caduto in una guerra misteriosa e allora incomprensibile: «lo avevo otto anni quando
hanno assassinato mio padre, siamo cresciuti nel terrore,
mia mamma non voleva dormire da sola a casa e mio zio
veniva a dormire da noi, per anni. Poi mia madre s'è messa
a lavorare a scuola e noi siamo cresciuti dai nonni. Ricordo,
sì, quella notte, le urla, la neve c'era, le gridate, non riesco a
dimenticare il sangue di mio padre nella neve così bianca.
Papà era andato a fare gli auguri di Capodanno alla sorella
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in una palazzina, in questa palazzina è stato ucciso, poi
l'hanno portato fuori, l'hanno messo in macchina ma non
c'è stato niente da fare, noi bambini siamo andati dietro
alla mamma, potevano essere le due di notte, era passato
appena il Capodanno dell975».
Nella voce di Marisa si sente l'affanno di quelle ore, si
intuiscono i gesti concitati, le imprecazioni, le promesse
di vendetta, poi la vita agra che segue sempre a certe notti
decisive e terribili.
«Mio fratello ha fatto scuola fino alla terza media, io ho
preso il diploma magistrale. Mia madre cercava di nascondere la verità a Lea, però poi crescendo si sanno le cose,
vai alla ricerca di quello che è successo. Lea battagliava,
crescere in una famiglia con questi problemi ti può influenzare. Lea ha sentito molto, molto la mancanza di papà,
chiedeva sempre com'era, se ci faceva regali, se ci portava
in giro. Papà lavorava in un cantiere vicino Crotone, sulla Sila. Faceva l'operaio. Io mi ricordo la sua risata forte.
Sorrideva tanto, papà. Anche Lea aveva la risata di papà, la
stessa, l'aveva presa da lui e non lo sapeva, io non gliel'ho
mai detto, adesso mi spiace non averlo fatto ... ».
Prima di diventare una donna che manda in crisi il sistema di omertà della 'ndrangheta, Lea è una bambina solare,
intelligente, con un possibile futuro molto diverso davanti
a sé. Ma il futuro non è quasi mai nella disponibilità dei
bambini, in Calabria meno che mai.
«Lea ha fatto solo la terza media, mamma non ha voluto
che proseguisse gli studi. La voleva punire perché le maestre la chiamavano sempre per l'indisciplina, ma a scuola
era bravissima, leggeva tanto, voleva il diploma. Sognava
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di laurearsi. Leggeva una marea di libri, Peppino Impastato, Falcone e Borsellino, la storia d'Italia, la Montessori ... quando è andata sotto protezione si è liberata e ha
cominciato a leggere tantissimo. S'era fatta una cultura.
Da bambina guardava Candy Candy e Hetdi, poi a 15 anni
si è innamorata di questo ragazzo Carlo Cosco, che aveva
quattro anni più di lei».
È l'incontro decisivo. Carlo sarà l'uomo della sua vita e
della sua morte.
«Mia madre non era d'accordo, Co sco non le piaceva
anche se non era implicato, erano una famiglia con quattro
maschi e nessuno di loro lavorava. Le a stava con un'amica
quando ha conosciuto Cosco. Passeggiava sul corso, si sono fermati a parlare. Mia madre l'ha anche picchiata per via
di questo ragazzo. Un bel giorno se ne sono scappati, era
il1990, lei aveva 16 anni, hanno fatto la fuitina pure loro.
Sono andati in Sila. Vicino da noi c'è il villaggio Trepidò,
c'è il lago Ampolline, sono andati là per un po' ... Quando
è tornata, mia madre non l'ha accettata e Lea stava a casa di
lui. Anche mio fratello l'aveva presa male, sulle prime. Più
avanti mio fratello è stato in galera per omicidio, ma dopo
tre anni di carcere è stato assolto e risarcito».
Floriano Garofalo è la chiave. È diventato un mammasantissima. E il giovane Cosco, pochi talenti ma molta
ambizione, vuole una parentela importante per scalare le
gerarchie.
«Mia madre ha lasciato tornare Lea, che era incinta di
Denise. S'è ammorbidita. Lea è stata a casa da mamma e
dopo che è nata Denise se n'è andata a Milano con Carlo,
lui non lavorava ... Loro, i Cosco, avevano occupato abu87
sivamente a Milano via Montello 6, lui stava là con altri
due fratelli. Le prometteva sempre che avrebbe trovato un
lavoro, che poteva stare tranquilla. Lei ci sperava sempre.
Diceva: io non ho avuto un padre, voglio un padre per mia
figlia, voglio che Denise possa essere educata con idee più
legali, che non viva in una famiglia di 'ndranghetisti».
La realtà, in viale Montello 6, è molto diversa dalle speranze di Lea. Lo stabile negli anni Novanta si guadagna
il nome di 'palazzo dei calabresi': le cosche di Petilia Policastro lo occupano e ne fanno una base di spaccio. Qui
Vito - uno dei fratelli di Cosco - si rifugerà dopo la strage
di Rozzano. Carlo Casco sarebbe un balordo da due soldi
se non stesse con Lea, se non ne usasse il peso derivato da
Floriano. «Se Carlo e suo fratello avevano uno spazio nella
vendita di stupefacenti lo dovevano al fatto che Carlo era
convivente mio», metterà più tardi Lea a verbale.
Ma Carlo sente addosso il peso di questa dipendenza,
è un frustrato, diventa crudele. Picchia Lea con regolarità.
«La trattava come una schiava», sostiene Marisa.
Tra ill994 e ill995 il 'palazzo dei calabresi' è un campo di battaglia tra gruppi di narcotrafficanti. Cade Antonio Comberiati, che s'era proclamato 'reggente' del
palazzo e nel cortile viene freddato il 17 maggio 1995.
Anche quest'omicidio resta senza colpevoli, ma Lea farà
mettere a verbale la sua versione, accusando il suo compagno, Carlo Casco, e il fratello di questi, Peppe detto
'Smith': «Stavo dormendo, ero a casa con la bambina e
sento sparare, mi sono affacciata fuori dalla finestra e vedo
il corpo di Antonio Comberiati disteso a terra». Passano
venti minuti. «Poi arriva mio cognato a casa mia, era ab88
bastanza agitato e mi dice 'minchia, non voleva morire,
sembrava che aveva il diavolo in corpo'. lo gli chiesi: 'Ma
è morto?'. E lui: 'Sì, sì'. Poi è venuto il mio convivente e io
gli chiedo: 'tu dov'eri?'. 'Ero al Panino', che era un bar lì
vicino, dice lui ... Ma lui non era al Panino, perché erano lì,
uno controllava il portone, l'altro ha sparato, sono usciti,
hanno buttato l'arma, hanno fatto il giro del piazzale e poi
si sono ritrovati al Panino. Questi sono i fatti ... Comunque
a sparare è stato Smith».
Con questo verbale, Lea firmerà la propria condanna
a morte.
Negli ultimi mesi del1995 Carlo Cosca viene arrestato
per droga. Racconta Marisa: «Mia sorella cominciò a fare
i colloqui a San Vittore, e un giorno lui la picchiò davanti
alla guardia, durante un colloquio. Sempre la picchiava,
qualsiasi cosa non andava bene. Lei allora diceva: 's'è messo con me per avere l'amicizia con nostro fratello Floriano, solo per quello'. Nostro fratello col passare del tempo
era diventato importante. Casco era suo amico, dietro mio
fratello è cresciuto pure lui, Lea diceva che Cosca amava
il potere. Dalla lite durante il colloquio fino agli inizi del
1997 lei decise di non vederlo più, ruppe e non andò più ai
colloqui, non portò più Denise: non si erano sposati perché
lei diceva che Casco non era l'uomo della sua vita».
Cosca comincia a vivere Lea come fonte di umiliazione.
I compagni lo deridono. Forse la decisione di eliminarla
nasce allora, ancora prima del pentimento di Lea. Che ormai aveva preso la sua strada senza ritorno.
«Lea andò a Bergamo, ospite delle Orsoline tramite don
Nicola Zambrano che era del nostro paese. Poi si è trovata
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un lavoro in pizzeria e una casa a Bergamo, era ill998, è rimasta a Bergamo fino al2002, Cosco stava ancora dentro».
Lea voleva la sua vita, la sua libertà: «Io l'ho lasciato,
non voglio sapcrne più nulla», ripeteva a Marisa. Ma era
più facile a dirsi ..
«Dove andava la seguivano i problemi. A Bergamo le
bruciarono la macchina e il motorino, al paese la seconda
macchina. Lei allora mi disse: 'Adesso li sistemo io, li denuncio e mi riprendo la mia libertà'. Parlò dell'omicidio
di viale Montello nel1995 e di altre cose che ho Ietto sui
giornali, raccontò di Cosco e anche di nostro fratello Floriano, nel luglio 2002 entrò nel programma di protezione,
a luglio stava qua in ferie e una notte si vide saltare la macchina per aria, chiamò i carabinieri e da allora non tornò
più. Non la vidi più. I carabinieri mi dissero: sta bene. Mi
fecero parlare con lei. Lei mi disse: 'Sto bene, non preoccupatevi, non sopportavo più questa situazione, non posso
dirti dove sono'».
Da quel momento Lea, con la piccola Denise, diventa
un fantasma. Un'ombra che grava sui Cosco e sui Garofalo.
«Dopo un po' di tempo, un po' di anni, si cominciò a
sapere nel paese che lei stava collaborando. Non doveva
uscire, questa notizia. Lea disse: 'Se questa storia s'è saputa
è perché c'è qualche corrotto che parla'. Del pentimento di
Lea solo io sapevo, in famiglia ... Nel2007 una notte ci siamo incontrate ad Ancona, in una caserma dei carabinieri,
era marzo. Venne con la bambina, vidi che non stava bene, era magrissima, aveva enormi problemi economici, era
chiusa in casa, non lavorava, si deprimeva. È stata in tanti
posti, a Udine, a Campobasso, a Perugia, a Firenze. Ad
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aprile 2009 è uscita dal programma di protezione, diceva
che non sopportava più quella situazione: 'Sto facendo la
vita peggio di un criminale, io devo avere paura di loro'».
Qui la vicenda di Lea Garofalo diventa esemplare. Dopo lo strappo, il coraggio di cambiare vita, la speranza di
averla cambiata davvero, ecco lo sconforto, quel sentimento terribile di abbandono che coglie tante collaboratrici di
giustizia alle prese con problemi assolutamente peculiari
rispetto a quelli degli uomini: donne che si portano dietro
i bambini, per i quali avevano scelto di fare il grande salto;
e nel nome dei quali tornano indietro, dopo essersi accorte
di non paterne garantire la sopravvivenza.
Marisa racconta ancora: «Era a Campobasso in quel periodo. Mi chiamò: 'Venite a prendermi, da sola ho paura a
venire'. È stata a casa una settimana durante le vacanze di
Pasqua, nel frattempo Denise aveva quasi 18 anni, era il
2009, e si incontrò col padre. Gli raccontò dei problemi della madre sotto protezione, lui si offrì di venire a Campobasso a trovarle un appartamento, Denise disse alla madre che
il padre voleva sostenerle. Si erano convinte di creare con
lui un rapporto di amicizia che poi alla fine si rivelò tutto
falso. Mia sorella non è mai entrata in questa casa, dormiva
in macchina, nell'appartamento c'era Carlo Cosco».
Come una stella risucchiata in un buco nero, Lea s'avvicina ormai in fretta all'esito finale della sua storia.
«A fine aprile mia sorella e mia nipote decisero di andare a Roma per il l o maggio. Tornarono la mattina del5 e
tentarono di sequestrarle a Campobasso. Un finto tecnico
andò da loro, Massimo Sabatino, mandato da Carlo Cosco.
Lea reagì come una furia, era una pronta, non si metteva
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paura, aveva fatto un corso di autodifesa, intervenne anche
Denise, Sabatino scappò perché aveva l'ordine di non taccarla. Lea fece denuncia contro Carlo Cosco».
Ma non accade nulla.
«Lea mi chiamò: 'Vogliono rimettermi nel programma
di protezione, tu che dici?'. 'Devi decidere tu'. 'Ma Denise
non vuole tornare con me nel programma di protezione e
io senza Denise non vado da nessuna parte'. Così tornò a
Petilia, al paese, in appartamentino di 50 metri quadrati,
camera e bagno».
Passa un'estate di attesa, Lea non può sapere che le
stanno preparando una nuova trappola, o si illude che la
trappola non scatti, che quella figlia avuta insieme spinga
il suo uomo a pietà.
«Chiamai il 22 novembre 2009 sul cellulare di mia nipote, mi rispose Renata, moglie del fratello di Cosco. Dissi:
'Come mai hai il telefono di Denise?'. 'È qua da me', 'E mia
sorella?'. 'Non so dov'è'. Chiamai mia sorella e mi rispose.
'Torna a casa, lì è pericoloso', le dissi. 'Finché sto con Denise non corro pericoli, domani o dopodomani torniamo'».
Marisa e Lea si sentono ancora in quei due giorni. Marisa chiama la sorella alle otto di sera di martedì 24 novembre 2009.
«Lea mi aveva chiamato alle sei e mezzo di pomeriggio e
non ero riuscita a parlarle. Dopo le otto e mezza mi chiamò
mia nipote Denise: 'Hai sentito mamma?', mi chiese».
Era già troppo tardi.
«il padre separò la madre dalla figlia. Avevano organizzato le cose in modo che Denise andasse a salutare gli zii.
Lea a quel punto rimase sola all'Arco della Pace».
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Sono gli ultimi istanti, una telecamera di sorveglianza
filma questa donna sola, abbandonata da tutti, che va incontro alla morte.
«Lea viene presa da queste persone su un furgone,
persone mandate da Carlo Cosco. Massimo Sabatino, in
carcere, fa una confidenza a un amico e dice che Lea è
stata prelevata da Curcio Rosario, Venturino Carmine e lui
stesso per consegnarla a Cosco e da lì dice che non sa più
nulla. Mia sorella venne torturata per sapere ciò che aveva
detto ai magistrati. Poi, quelli hanno avuto gli ergastoli».
Con voce adesso straordinariamente ferma, Marisa
mi ripete sei nomi: «Carlo Cosco, Vito Cosco, Giuseppe
Cosco, Carmine Venturino, Rosario Curcio, Massimo Sabarino. Tutti ergastoli. E speriamo siano confermati per
sempre».
Si fa sera. Il figlio più piccolo è ormai vinto dal sonno.
La storia di sua zia Lea, che forse un giorno gli racconteranno, è ormai finita.
«lo ricordo di mia sorella la voglia di vivere, di fare le
cose. Era molto generosa. Un giorno fece la spesa a una famiglia con tre bambini, ed era il periodo che non aveva un
soldo per tirare avanti. Io le dissi: 'Tu stai come loro, e pure
peggio. Sei matta?'. 'Vaglielo a spiegare tu a un bambino
di due anni che non ha latte e biscotti', mi rispose. Voglio
che la memoria di Lea resti viva».
Dieci
La primavera calabrese passa per i pentimenti delle donne
di 'ndrangheta, per il coraggio di madri come Lea Garofalo. Ma anche per la resistenza delle donne dello Stato, per
la loro ricerca di una politica 'normale'. Se il potere mafioso verrà sovvertito e rivoluzionato, sarà per l'unione di
queste due forze: perché le donne di 'ndrangheta devono
sapere, vedere che un'altra via è possibile, e le donne delle
istituzioni devono capire che il loro sforzo non dispiega i
suoi effetti soltanto negli uffici amministrativi e nella società emersa, ma funziona da esempio, da propellente, per
tante ragazze cresciute nell'undenvorld mafioso.
Dunque, mentre a Roma si discute sul da farsi, a Sagunto hanno cominciato a fare squadra le sindache.
«Siamo amiche ormai. E poi il nostro è un messaggio
alle donne, di qualsiasi generazione. E genere. Lavorando
seriamente si può essere eletti, si può fare questa cosa bellissima, il sindaco, e dare testimonianza di buona pratica
amministrativa. Si puÒ», mi dice Maria Carmela Lanzetta.
Si può, sì, quando si crede in qualcosa, infischiandosene
di apparire ingenue, di sembrare le 'quattro femminucce'
con cui la propaganda maschilista, spesso coincidente quaggiù con quella mafiosa, tenta di ridicolizzarti e banalizzarti.
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Il partito in comune, il P d, sembra entrarci davvero poco, perché gli schieramenti giù in Calabria di rado ricalca·
no opzioni politiche chiare, spesso seguono logiche familistiche o affaristiche. Nel nostro caso, tra le sìndache che
stanno animando il risveglio della regione più dimenticata
d'Italia, c'è un patto di genere, la voglia di non mollare, il
bisogno di non sentirsi sole.
La Lanzetta mi racconta delle sue colleghe, Elisabetta
Tripodi, sindaca di Rosarno; Annamaria Cardamone, sindaca di Decollatura, e Carolina Girasole, sindaca di Isola
Capo Rizzuto. Un po' fa loro da chioccia perché è la più
matura, la più mamma. Un po' fa da testimoniai, perché
con la sua storia ha acceso una luce sulle storie di ciascuna,
sulle paure, sugli slanci.
«Elisabetta è bravissima, preparata e determinata, condividiamo esperienze comuni, di vita e di formazione personale. In più lei ha la sua esperienza di segretario comunale che le è stata molto preziosa nel lavoro di sindaco, un
po' la invidio per questo. Anche Annamaria ha lavorato
a lungo negli uffici pubblici, queste sono cose importanti
per la preparazione. In Carolina vedo sofferenze simili a
quelle che patisco io. Isola Capo Rizzuto è un paese molto
difficile, lei però non molla. Non abbiamo nessun motivo
personale per fare il sindaco con tutte le rinunce che l'incarico comporta qui da noi».
La sindaca di Monasterace mi ricorda, scrupolosamente
bipartisan, «altre colleghe più giovani, di cui si parla poco:
Rosita Femia, 29 anni, sindaco di Canolo, e Marisa Romeo,
già rieletta a Ferruzzano, entrambe del P d, e Anna Brosio
di Parghelia, Pdl: anche Anna ha dovuto resistere a vari
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tentativi di intimidazione. Altre come loro verranno, se resistiamo smetteremo di essere sole».
Che il cambiamento non piaccia a tutti in terra di Locride è ovvio. Domenica 21 ottobre «La Riviera», un giornaletto locale attento al dialogo con i politici e gli amministratori, ha dedicato alle sindache un corsivo d'apertura
con toni che mettono i brividi: «A Decollatura il13 ottobre
splende il sole dell'unità nella legalità tra Nord e Sud. Dal
paese di Michele Pane le tre donne beate dell'antimafia
- Catramane, Lanzetta, Tripodi - mandano un effluviale
saluto, materializzato in un mazzo di girasoli, a Ilda Boecassini, 'per la sua attività di contrasto alla mafia'. Siamo
sicuri che la Rossa ricambierà con l'invio di tre corone funebri - siamo ormai vicini alle urne -le uniche abilitate a
propiziare un posto in Parlamento».
Premessa la difesa della più totale libertà di espressione
e di pensiero, pare difficile non capire come, in una terra
che è, sì, dd poeta Michele Pane, ma anche di clan feroci che hanno scritto la storia criminale dell'ultimo mezzo
secolo, questo pensiero danzi, ahneno involontariamente,
sull'abisso dell'avvertimento mafioso. Lo scherno per le
«donne beate dell'antimafia» (ciascuna delle quali è costretta a vivere sotto scorta per non essere accoppata dai
picciotti), la beffarda alterazione dd cognome della Cardamene in Catramane, il disprezzo per 'la Rossa' Boccassini,
il pm più odiato dai mafiosi dopo la morte di Giovanni
Falcone, anima della più clamorosa operazione contro la
'ndrangheta al Nord ('Infinito'), il riferimento ai girasoli
che, in omaggio alla sindaca di Isola Capo Rizzuto, hanno
preso il posto delle mimose («non mimose ma girasoli» è
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lo slogan del movimento femminile nato attorno alle sindache): tutto sembra concorrere nel formare un messaggio
preciso. Che appare perfino esplicito nella sua conclusione
sulle «tre corone funebri».
«Ci siamo dette che dobbia mo diffondere il testo in tutta Italia. Quest e frasi sono l'epilogo di un anno di attacchi
continui e ossessionanti», mi dice la Lanzetta.
Quand o parlo con Annamaria Cardamone scopro toni
più lievi: «Conosco l'estensore dell'articolo, e, per come lo
conosco, non è un mafioso. È un professionista, un professore che scrive libri, uno che lavora anche molto sui beni
culturali. Diciamo che non ama molto le donne, non vedo
altra spiegazione ... c'è un senso di sofferenza in questo momento e di ... insofferenza per noi».
La sindaca di Decollatura coglie il mio stupore: «Però
anche chi risponde in un certo modo a determinate situazioni finisce per... fare mafia. Per denigrarci qui, sostengono questa storia delle candidature, dicono che vogliamo
fare carriera politica. Lei deve capire che il sistema prima
di noi era fatto in un certo modo. lo ho detto chiaramente,
in pubblico, che aspetto questa corona funebre per vedere
chi me la manda, certo non me la manda la Boccassini. Io
non voglio piangere, non voglio far vedere che ho paura».
Nemmeno Carolina Girasole è una che si piange addosso, pure alle prese con problemi pesanti. «Un pesce pulito
in un mare molto inquinato», mi dice un collega di Croton e
con lunga esperienza di mafia. n problema di partenza di
Carolina è una parentela. Acquisita. La sorella di suo marito
ha sposato Francesco Arena. Lo zio di Francesco è Nicola
Arena, 75 anni, ritenuto il padrin o storico della zona.
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«.Mio cognato è distante da quella parte di famiglia, è
un professionista, incensurato», mi spiega la sindaca. Che
è andata di persona, con don Ciotti e l'associazione Libera,
a prendere possesso, a nome della collettività, delle terre
degli Arena, già confiscate, ma che nessun amministratore
comunale aveva mai osato rivendicare.
Ripercussioni in ambito familiare? «Nessuna. Che mio
cognato si chiami Arena o in altro modo non cambia niente
per me».
Quarantotto anni, due figlie, biologa di professione con
nessuna esperienza politica, anche la Girasole ha subìto attentati e pressioni. Ad aprile 2008 diventa sindaco in questo
paesane di sedicimila anime della provincia crotonese che
esce da tre anni di commissariamento, con istituzioni che,
più che sciolte, se la sono data letteralmente a gambe.
«Fino a quando possiamo far finta di non vedere?», si
chiede con il marito Franco, un altro marito supporter, fondamentale, come per la Lanzetta e per la Tripodi. Lo slogan della campagna elettorale con una lista P d-Arcobaleno
e liberi professionisti di buona volontà, è presto inventato:
«È qui che vogliamo vivere». Vince l'entusiasmo. E scatta
la reazione. In capo a pochi mesi, bruciano la macchina
del responsabile dell'urbanistica, quella del vicesindaco e,
infine, quella del padre della sindaca. Provano a incendiare il portone del municipio. Ma, in sostanza, non succede
niente. Il grande circuito dei media nazionali a malapena
si accorge di ciò che sta accadendo a Isola Capo Rizzuto.
La Calabria è lontana, sembra una terra perduta. E lo Stato
non si rende conto del lavoro duro, pieno eli rischi di varia
natura, che certi sindaci svolgono in posti dove la maggio99
ranza dei cittadini usufruiva dei servizi - acqua potabile,
raccolta rifiuti- senza pagare le tasse e alcuni uffici pubblici avevano semplicemente smesso di emettere le bollette.
Questa dei tributi è una questione centrale nel braccio
di ferro tra lo Stato italiano e le cosche. Perché dietro il
rifiuto di pagare non c'è soltanto l'idea, purtroppo molto
meridionale, che ciò che è pubblico sia dovuto. C'è anche
la negazione d'un riconoscimento, un atteggiamento che
affonda le radici nella melma dell'Italia postunitaria corriva col brigantaggio e che produce i suoi terribili risultati
un secolo e mezzo dopo.
«Beh, credo che un po' dei miei problemi derivino da
un modo diverso di intendere l'amministrazione pubblica», mi dice Carolina Girasole con una buona dose di
understatement. «Basta poco, sa? Anche solo trattare gli
argomenti senza nascondersi dietro giri di parole».
Non è solo un giro di parole quello che porta la sindaca
ad aver a che fare con i primi 37 ettari di terra confiscati agli Arena. Per molti anni, la gestione dei beni tolti ai
mafiosi era rimasta silente, nessuna amministrazione s'era
fatta avanti, chissà se soltanto per disattenzione.
«Noi per la prima volta siamo andati lì a raccogliere i
finocchi, a mietere il grano>>: ci sono belle foto di Carolina
con don Ciotti; e c'è tanto sole nei campi degli Arena, un
caldo sole di maggio. Peccato che quel giorno non si trovi
una trebbiatrice, chissà come mai, tutte le macchine paiono svanite d'incanto. «Tutti avevano paura», spiegherà ai
cronisti Antonio Tata, responsabile locale dell'associazione
di don Ciotti. «Ma il raccolto l'abbiamo salvato lo stesso».
«Libera ha velocizzato un processo che pensavo impos100
sibile», mi dice la Girasole, anche lei impegnata nell' associazione. Le Misericordie di don Scordia contendono a
don Ciotti la gestione delle terre. E forse lo scontro vero,
benché invisibile, si consuma qui tra due sacerdoti, tra due
idee di impegno.
La sindaca è comunque attenta che tutto questo slancio non sembri una pura carrellata di immagini buona per
i fotografi. «Abbiamo cinque progetti per amministrare i
beni confiscati, progetti esecutivi, coi lavori già partiti». La
cooperativa, la casa della musica, l'orto botanico, la scuola
materna e una struttura per le vacanze dei ragazzi disabili non sono chiacchiere. A ottobre 2012 è arrivato anche
un finanziamento per ristrutturare una villa costruita sulla
terra degli Arena: ci faranno un ostello e una sala congressi. Un ulteriore schiaffo ai mammasantissima. Come per
la Lanzetta, la reazione ha due piani, naturalmente non
ascrivibili entrambi in modo automatico alle cosche. Però
è indubbio che dove non arrivano gli incendi e i colpi di
pistola può arrivare il discredito.
<<Sono stata attaccata violententemente da un blog, che
tutti i giorni scrive contro di me. Dicono che voglio fare la
lotta alla 'ndrangheta ma che la 'ndrangheta ha votato per
me; che mio suocero costruì una casa abusiva nel 1975;
che il mio bisnonno era un mafioso e fu deportato da Siderno. Mio cognato si chiede perché ogni giorno debba
essere insultato assieme ai figli. La strategia è la macchina
del fango: e il fango non è più la 'ndrangheta ma sono io,
che parlo di 'ndrangheta e parlandone diffamo il paese. Io
li ho anche denunciati ma la loro viene considerata critica
101
politica. Non voglio fare l'eroina e non voglio fare la lotta
contro nessuno. Pensano che crolli? Ma non crollerò».
«Non mettere tutte le sindache sullo stesso vagone», mi
ammonisce un magistrato di primo piano. La voce sul voto
'ndranghetìsta è la più insidiosa, perché se ne trova traccia
perfino a Roma, sussurrata a mezza bocca nei corridoi del
PJ, il partito di Carolina.
La linea del blog in questione è comunque un classico
del genere. Si prendono, ad esempio, sei vittime della mafia, per ricordare le quali sono stati piantati sei alberelli
dalla sindaca e dal prefetto; si sostiene che i sei alberelli
dopo qualche mese sono ormai secchi e abbandonati; ci si
scandalizza e si invoca che le vittime della mafia vengano
«lasciate riposare in pace» dai professionisti d eli' antimafia:
cioè dimenticate, senza che se ne parli più. L'attacco contro
iniziative come quelle di don Ciotti è costante: «l'antimafia solo a parole», si dice, come se il potere delle parole,
la circolazione del libero pensiero, non fossero il nemico
principale di picciotti e coppole storte. La Girasole pensa
che dietro il blog ci sia «proprio la 'ndrangheta; non un
singolo, ma persone delle quali ho toccato gli interessi».
Mi dice un amico parlamentare, da anni impegnato nel"
la lotta alle cosche: «Sai, in Calabria ogni cosa è uguale al
suo rovesci_o». L'ho già sentito, l'ho già imparato in questo
viaggio. La frase, del resto, asseconda in pieno la tendenza
di pensiero secondo cui le mafie avrebbero ormai infiltrato
l'antimafia, conseguendo l'ultimo definitivo successo: confondere il male col bene in un'unica melassa grigia, dove
al coraggioso che resiste viene strappato anche l'estremo
scudo: il diritto a un nome pulito. Penso che dobbiamo
102
batterci contro questo grigio e distinguere. E credo che
il metro per distinguere chi è mafioso e chi no stia negli
atti concreti, ben visibili soprattutto nell'amministrazione
della cosa pubblica. Riconsegnare alla collettività le terre
di un boss vale ben di più dell'eventuale chiacchiera d'un
collaboratore di giustizia.
«Nei momenti difficili mi sento con Maria Carmela e
le altre», mi dice Carolina Girasole al nostro secondo colloquio, davanti alla Provincia di Roma, dove ha portato
un dossier a un convegno sulle intimidazioni subìte dagli
amministratori. «Quando una di noi è abbattuta, le altre
le stanno accanto. Vede, ciascuna è arrivata a questo punto solo per aver cercato di amministrare bene. E ognuna
s'è trovata a doversi difendere dagli attacchi, non politici
ma personali. Siccome siamo donne, pensano sia più facile
convincerci ad abbandonare. Ma nessuno c'è riuscito, finora, con le intimidazioni, perché la democrazia non si lascia
prevaricare. Ora va meglio, molto meglio. I beni confiscati
ai mafiosi hanno rappresentato molto per la nostra gente,
molti hanno cominciato a capire, non vedono più il paese
occupato dalla 'ndrangheta. Ma noi lavoriamo soprattutto
sui servizi ai cittadini. Sì, le donne possono cambiare questa
storia. Ma non da sole. Insieme agli uomini. Noi calabresi,
tutti insieme, possiamo farlo».
Annamaria Cardamone è convinta di essere la meno
esposta nel movimento delle sindache: «Qui non c'è una
famiglia egemone, c'è solo illegalità diffusa, procurata dagli eccessi del potere amministrativo precedente», mi dice
con la stessa voce pacata con cui ridimensiona gli attacchi
sui si ti e sui blog. «Certo che mi difendo ogni giorno da de103
nigrazioni e lettere anonime, ma la giunta mi viene dietro,
io non mi sento sola. E rispondo giuridicamente, se serve».
Annamaria viene dalla sinistra democristiana, è una
prova che l'antica intuizione veltroniana poteva funzionare, riformismo e legalità in nn'alleanza con la parte migliore del cattolicesimo italiano, quello dell'impegno civile.
«Quando è nato il Pd sono entrata subito». Anche da
lei, a Decollatura come a Monasterace o a Isola Capo Rizzuto, la mancanza di consuetudine con le regole genera
mostri: «Abbiamo rotto prassi di illegalità, riorganizzato
l'ufficio tecnico». Per dodici anni il predecessore della
Cardamene ha fatto il bello e il cattivo tempo in paese e
in municipio. Poi il clima è cambiato. Le donne ci hanno
messo lo zampino.
«Sì, c'è una nuova stagione per le donne calabresi. Molte vogliono ribellarsi, molte vengono da famiglie mafiose
e dicono basta. Ho solo paura che siano lasciate sole». A
metà dello scorso ottobre, la Cardamene ha ospitato le
colleghe a Decollatura: «Volevo che potessero parlare con
tranquillità, invece abbiamo avuto molti attacchi. Ma se
siamo tante donne insieme, dimezziamo il peso di queste
paure, raccontandocele tra noi».
Nessun cedimento? «Certo che sì. A novembre del
2011 volevo lasciare, quando le lettere anonime hanno
coinvolto la mia famiglia». Non ha mollato, nemmeno lei.
«Penso che vogliano farmi fare atti illegali in municipio».
Una pausa. Poi: «Beh, io non li accontenterò mai. Non sarò
il sindaco di tutti».
Undici
Mentre il clan del suo compagno Carlo Cosco progettava
come eliminarla, Lea Garofalo finì a dormire in macchina, assieme alla figlioletta Denise. Le mancavano i soldi
per la spesa, viveva quasi da clochard, aveva problemi col
programma di protezione, «fece persino ricorso al Tar» ha
raccontato la sorella Marisa.
Maria Concetta Cacciala venne di fatto riconsegnata
ai suoi carnefici: non essendo accusata di alcun reato, il
suo status era paradossalmente più debole rispetto a quelle
delle vere 'pentite' di mafia; provò invano a scappare, rifugiandosi dai carabinieri, con la scusa di dover discutere il
sequestro del motorino del figlio quattordicenne. Era una
morta che cammina, tutti lo sapevano ma nessuno fu in
grado di intervenire.
Rosa Perrero, teste del processo 'All lnside', si ritrovò
nell'inverosimile situazione di essere strangolata economicamente ma intestataria a sua insaputa di un supermercato,
uno dei molti di una catena nazionale che il clan Pesce
avrebbe, secondo i giudici, affidato a prestanome. In famiglia era stata decretata la sua condanna.
Tita Buccafusca, morta come Cetta Cacciala bevendo
acido muriatico, si presentò col figlio piccolo in braccio
105
alla caserma dei carabinieri di Limbadi e dai carabinieri
fu condotta fin dentro gli uffici della Direzione distrettuale antimafia: era la moglie di Pantaleone Mancuso, 'Luni
Scarpuni', considerato dai rapporti investigativi un astro
nascente della cosca egemone nel Vibonese. Voleva parlare,
collaborare con la giustizia. In quelle stesse ore, i familiari
avrebbero bussato alla caserma di Limbadi avvisando che
la donna era un po' toccata e che la sua eventuale volontà
di 'pentirsi' non sarebbe stata altro che frutto di gravi problemi psichici. Furono creduti? Pare davvero improbabile.
Sta di fatto che, la sera, Tita tornò a casa, la collaborazione
con l'antimafia si interruppe e lei, qualche settimana più
tardi, bevve l'acido muriatico. Pochi giorni prima, suo marito 'Luni', non privo di improntitudine, aveva inviato un
esposto in procura denunciando praticamente lo Stato per
quelle ore di assenza della moglie: «La signora Buccafusca
è gravemente ammalata ... si è reso necessario al suo rientro
un ricovero presso la psichiatria di Polistena». Viene in
mente la storia di Leonardo Vitale, il primo pentito della
mafia siciliana, spedito velocemente in manicomio dopo le
sue rivelazioni.
Perché c'è un tempo per ogni cosa.
Le donne di Calabria scommettono la propria vita
sull'idea che quel tempo sia arrivato: ma che sia così o non
lo sia, non dipende soltanto da loro. <<l /immani 'ndannu
stanno adu /oculari u /anno a cazzetta chistu onè postu per
idi!», scrive la giornalista Imma Divino in Giulia a pugni
stretti, un amaro romanzo di denuncia rimasto nel circuito
delle edizioni locali: «le femmine devono stare davanti al
106
focolare a far la calza», sembra la legge eterna dei maschi,
mafiosi e non mafiosi, nella terra delle 'ndrine.
Sicché queste sono anche storie di donne allo sbando.
Donne senza tutela, che hanno rotto i patti con l'universo
maschile da cui erano circondate.
«Le donne batteranno la mafia», ha ripetuto don Ciotti.
Ma lo Stato dovrebbe fare di più, questi racconti di dolore
ne sono la dimostrazione. «La 'ndrangheta ha un punto
debole: le donne delle famiglie che vogliono una vita diversa per i loro figli», ha spiegato, dopo la morte di Cetta
Cacciola, Laura Garavini, del Pd, Commissione Antimafia, autrice di un'interrogazione parlamentare con Walter
Veltroni.
«La scelta di queste donne è veramente eversiva rispetto
al contesto», mi dice Caterina Malavenda, che ha lasciato
la Calabria a vent'anni per diventare una delle più famose
penaliste milanesi. «Ed è persino più difficile che per una
donna siciliana. Una calabrese è parte attiva d eli' economia
della famiglia, esercita la supplenza quando i maschi sono
fuori gioco per un motivo o per l'altro. Quando si ribella
alla famiglia, si ribella dunque a se stessa, è come un pesce
che esce dall'acquario. Sia che lo faccia come pentita, rompendo le regole della cosca, sia che lo faccia come donna
comune, ribellandosi magari a una prassi politica o amministrativa, il suo gesto è dirompente».
«Potrebbe essere una svolta epocale, sì. A patto di dare
a queste collaboratrici di giustizia una adeguata protezione», insiste la Garavini.
Quello è il punto.
La strategia mafiosa per soffocare la primavera del107
le donne calabresi è duplice, perché la 'ndrangheta deve
fronteggiare, come abbiamo visto, due tipi di pericoli.
n primo è, diciamo, endogeno: figli, sorelle, mogli nate e cresciute dentro ai clan, che fanno saltare il tavolo
delle regole. Per esorcizzare questo pericolo, gli uomini
del disonore usano la minaccia della morte fisica e quella
della morte economica. Per le loro donne che tradiscono
c'è quasi sempre l'acido muriatico, con il terribile contenuto simbolico ad esso collegato (colpa e colpevole devono bruciare perché si giunga alla purificazione). Ma prima
d'arrivare alla morte fisica la donna dei clan che cerca di
liberarsi viene condotta alla fame e alla disperazione, per i
suoi figli si apre un orizzonte di miseria e di ostracismo, a
meno che la traditrice non torni sui suoi passi, non faccia
rientro nella cerchia del clan dove, nove volte su dieci, la
attende appunto la pena capitale.
«Le storie di Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca hanno un denominatore comune: il
prezzo altissimo che persone del tutto innocenti devono
pagare, penso pure ai figli delle tre donne, solo per essere
vissute in un ambiente intriso di violenza e di illegalità», ha
sintetizzato a beneficio dei cronisti calabresi il procuratore
Giuseppe Pignatone.
Il secondo pericolo per i mafiosi è esogeno. Viene dali'esterno, dalla società borghese, 'perbene', dove è cresciuta
(nonostante tutto anche qui), una generazione di amministratrici e militanti politiche indipendenti, forti e decise a
cambiare la loro terra anziché scappare altrove per garantirsi un futuro migliore. Sono donne che quasi sempre hanno vissuto il Sessantotto o il Settantasette, hanno respirato
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il profumo della contestazione alle strutture autoritarie
della società arcaica di quaggiù. Donne che hanno avuto
dalla loro parte famiglie accudenti, ceto professionale e benestante, da cui sono state mandate a studiare fuori, spesso
al Nord. E che sono tornate, portando il meglio di quanto
avevano appreso all'interno dell'anomalia calabrese.
Contro questo pericolo estremo - perché la buona amministrazione vale a dimostrare che non c'è motivo strutturale o antropologico di anomalia, e che lo Stato è davvero
la scelta migliore per i cittadini- i mafiosi combattono con
le intimidazioni, con gli incendi delle macchine e i colpi di
pistola contro gli usci di casa.
Non solo. In qualche modo, tentano di combattere anche una battaglia che mi verrebbe da definire culturale se
non provassi ribrezzo nell'associare un'idea di cultura ai
picciotti dalla coppola storta. Eppure credo che sia necessario guardare senza filtri ideologici a questo aspetto della
questione. Perché l'egemonia, per così dire, culturale dei
mafiosi viene spesso perseguita o avallata da persone che
mafiose non sono: da politici, avvocati, medici, amministratori, perfino giornalisti, portatori di un grumo di interessi e di convinzioni, di pregiudizi e di credenze che,
oggettivamente, li rendono alleati dei clan.
Ancora una volta il caso di Monasterace può essere
esemplare.
Incontro di nuovo Maria Carmela Lanzetta a Roma. È
venuta a chiedere un intervento del ministero dello Sviluppo in favore delle operaie delle serre, le 'sue' operaie:
«Perché questa storia non può essere dimenticata, troppo
facile rimuovere il problema non parlandone più».
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«Se resto in carica io? Bah, resto in carica ... alla giornata», mi dice. È dura, molto dura. La calunnia è un venticello lieve ma costante. «Vengono a riportarmi solo giudizi
negativi della gente, e io ci sto male». Facebook è un calvario quotidiano. Le sigle si sprecano sul social network,
e dietro ciascuna di esse può nascondersi chiunque. I post
sono del seguente tenore: «bisognerebbe ammazzarla», «se
vengo a Monasterace quel sindaco li bisognerebbe stuprarla
e metter/e un rospo nella bocca» ...
«lo faccio denuncia ma non succede mai niente».
L'ultima lettera anonima è quasi rassicurante rispetto al
delirio di minacce web: «Ti consigliamo di lasciare, ormai è
finita per te, abbiamo registrato le tue male/atte».
«lo li chiamo 'i consigli per gli acquisti'». Ride, e per
un momento è di nuovo lei. Ma si fa sangue amaro, non è
paura, è rabbia. L'impopolarità tra i suoi concittadini pare
essere per lei un fardello ben maggiore dell'incendio alla
farmacia o dei colpi di pistola contro la Panda.
Si difende, certo, dalle accuse di De Leo e degli altri
consiglieri d'opposizione, «tutte sballate»: i muri su cui
poggiava la vecchia piazza andavano rifatti, c'è una questione di legalità, per quei muri di cemento armato devi
passare dal genio civile e del passaggio non c'era traccia,
c'era anche un problema col demanio, soldi da pagare, non
si può proseguire su una strada di irregolarità. Sembrano
affermazioni di senso comune, ma nella Locride il senso
comune non è sempre stato il principio guida dell'amministrazione pubblica.
«Non ho favorito proprio nessuno, ho degli architetti
che mi hanno consigliato: ora passando sulla strada si vede
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il mare, quando abbiamo abbassato quella piazza orrenda
abbiamo pensato alla gente, non certo a qualche privato
che abita lì. Può anche non piacere la mia scelta, l'architettura è molto opinabile e io sono disposta a rivedere tutte le
mie decisioni, purché si lascino da parte accuse infondate.
Io vengo denunciata su tutto ormai».
È una strategia? Quali sono i confini tra i sacrosanti
diritti dell'opposizione, controllo e denuncia, e un martellamento con il solo obiettivo di liberarsi della sindaca
scomoda? «Il mascariamento», mi dice qualche carabiniere
che conosce da molti anni uomini e cose laggiù, «è un brutto modo di fare politica, ma è molto praticato. Si cerca di
farti passare per un poco di buono, ti si isola, poi il giorno
che ti succede qualcosa di brutto la reazione della gente è:
'Visto? Chissà cos'altro aveva combinato' ... ».
«Sono stata al Viminale a parlare dei nostri problemi.
Ho detto chiaramente che non posso più assicurare la legalità a Monasterace se negli uffici più importanti non ci sono
le giuste figure professionali ... Ho bisogno di un ufficio
tecnico stabile, ora ho un'architetta bravissima che può venire solo due giorni a settimana, mi basterebbe lei a tempo
pieno, invece anche lei andrà via. Per non farle perdere una
giornata a Reggio capita che vada io al posto suo in alcuni
uffici ... ci arrangiamo, ma così non va».
Non parla a casaccio la Lanzetta quando cita l'ufficio
tecnico e la legalità da assicurare. Perché proprio dall'ufficio tecnico è venuto finora il più grosso problema di legalità della sua amministrazione.
È il 2009, c'è l'alluvione a Monasterace, c'è Bertolaso
alla protezione civile, è il tempo in cui arrivano messaggi
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chiari «date la 'somma urgenza', date, fate!». Fare, e fare in
fretta saltando tutti i controlli, è il mantra che dal governo
centrale si dirama in periferia.
In quella periferia, nell'ufficio tecnico di Monasterace
siede dai primi anni Novanta il dirigente Vito Micelotta.
Con «procedura di somma urgenza» l'ufficio affida circa
quarantamila euro dei lavori del movimento terra (la gran
parte delle opere) a una ditta riconducibile- secondo l'accusa - ai vertici del clan Ruga.
«Me ne sono accorta quando ormai il lavoro ~ra stato
affidato, sono pronta ad assumermi le mie colpe e l'ho detto anche ai carabinieri», mi racconta Maria Carmela in una
pausa del suo tour inesauribile per uffici romani a perorare
le cause del suo paese e a cercare di raggranellare soldi.
Quella dei soldi è la buccia di banana su cui rischia
di scivolare l'amministrazione della sindaca-farmacista.
Ma c'è poco da fare: il capitolo dawero imbarazzante, per
questa donna che rischia la pelle contro le cosche e che i carabinieri di scorta non perdono di vista un attimo, mentre
chiacchieriamo seduti alla 'Caffettiera' di piazza di Pietra,
è quell'affidamento in «somma urgenza». La Direzione distrettuale antimafia ha acquisito i fascicoli.
Curiosamente, l'opposizione, capitanata da Cesare De
Leo, ha denunciato tutto l'operato della sindaca eccetto
quella vicenda. Quando incontro De Leo una sera di giugno 2012 in un albergo di Riace, lui non me ne fa nemmeno
parola, eppure di parole contro Maria Carmela Lanzetta
non è certo avaro. Un momento di disattenzione, cui forse
non è del tutto estranea la circostanza che Micelotta, coinvolto e poi prosciolto nei primi anni Novanta nelle due
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inchieste 'Stilaro', ha una solida posizione al Comune fin
dai tempi in cui De Leo faceva il bello e il cattivo tempo in
paese. Sembra anche qui di trovarsi in una notte in cui tutti
i gatti sono grigi. Sembra. Ma, come capita per molte cose
in Calabria, siamo davanti a un'illusione ottica.
Una fonte qualificata dei carabinieri mi racconta che in
realtà la Lanzetta ha ingaggiato una lotta quasi personale
con l'inamovibile dirigente e che il clima in Comune si era
fatto incandescente per questo.
A dicembre del 2010 la questione deflagra in tutto il
suo potenziale. Micelotta viene arrestato dalla Dia assieme a Benito Ruga e a un altro imprenditore. In ballo ci
sono anche i lavori alla nuova caserma dei vigili del fuoco.
Micelotta otterrà gli arresti domiciliari, la sua vicenda giudiziaria- come quelle dei suoi co-indagati- non s'è ancora conclusa. Dunque le cautele del caso e la presunzione
d'innocenza sono d'obbligo. Che tuttavia il responsabile
dell'ufficio tecnico di Monasterace fosse chiacchierato,
magari da malalingue invidiose della sua fortuna, non pare
un punto controverso.
«Non mi piaceva, d'accordo. Ma nemmeno potevo fare processi sommari a nessuno», mi dice la Lanzetta. Nei
suoi sei anni di amministrazione, sei ingegneri sono passati all'ufficio tecnico e andati via come lampi. Ogni volta,
Micelotta tornava in sella. «<n Comune mi dicevano tutti:
in fondo è buono, prendilo per il verso giusto. Da noi è
sempre mancata l'adeguata professionalità». Alla fine la
sindaca ha ottenuto la sospensione del dirigente e il suo
trasferimento ad altro ufficio. In sostanza Micelotta atten113
de, stipendiato per non far nulla, di conoscere il proprio
destino processuale.
«Guardi, di tutte le accuse che mi rivolge De Leo potrebbero persino essercene ... di fondate, per errori miei,
inevitabili», si accalora la sindaca. «Se non ho il giusto supporto, come faccio a mandare avanti la baracca? Se una
licenza edilizia è giusta o sbagliata posso presumerlo, ma
non sono un tecnico, e siccome il Comune è povero non
posso permettermi di indire un concorso ... al Viminale sono andata a chiedere una deroga. Può succedere che le
condizioni diventino così difficili che io sia costretta a dimettermi. Non per le minacce, per il problema di legalità
di cui le sto parlando».
«Continuo a lavorare più di prima, ho appena avuto
516 mila euro di finanziamento per il centro storico. È la
prima volta che riusciamo a mettere un piede dentro il castello di Monasterace Superiore, che è dei privati, ma in
stato di semiabbandono ... Molti altri finanziamenti vanno
a rilento proprio perché abbiamo la dirigente dell'ufficio
tecnico solo due volte a settimana da noi. Grazie ali' Arma
dei carabinieri ho avuto la possibilità di entrare nel progetto di Formez 'Etica' per i Comuni in difficoltà e stiamo
cercando di mandare avanti il piano di spiaggia».
«Non è che io senta una gran bell'aria attorno a me. Il
Comune è sempre più povero. Abbiamo avuto fondi, ma
ancora non ne beneficiano i cittadini. Dobbiamo mettere
lampadine, chiudere le buche nelle strade, ancora non parte la differenziata. Sa, tra me e il Comune di Monasterace
a volte c'è... incompatibilità di carattere. Dicono che faccio
la svagata, beh, io sono un po' così. La scorta poi limita i
114
miei movimenti. Qualche tempo fa è morta la mamma di
una mia amica e io mi vergognavo ad andare al funerale.
Così per tanti io sono quella che sta con la scorta, quella che
non riesce a far funzionare il paese. È la cosa che mi pesa di
più, mi creda», dice, prima di ripartire per un nuovo giro
di palazzi romani, stavolta al ministero dell'Istruzione, per
organizzare con due presidi, due professoresse calabresi come lei, una nuova stagione di eventi culturali a costo zero.
Si sente addosso il peso di ritardi che la precedono di
molto, chiede tantissimo a se stessa. «Ma da un paio d'anni
sono uscita dal guscio. Con un decimo di Fiorito, risano il
Comune di Monasterace». Chiede molto anche ai suoi assessori. «Li ho riuniti e ho detto: così non ce la faccio più».
Ha cominciato a dare a ciascuno i compiti a casa, come una
maestra puntigliosa. Con lo stesso puntiglio, mi elenca i
risultati che, nonostante tutto, ha ottenuto: « ... le nuove
fognature, l'arrivo del gas, la messa in sicurezza sismica
delle scuole, le scoperte archeologiche». Prende fiato, mi
lancia un'occhiata: «E la caserma dei vigili del fuoco, sì».
Quella finita nell'inchiesta su Micelotta? «Eh, ce n'è solo
una. Adesso è bell'e pronta. E mi mandano anche i pomplen verm.
Non capisco. «Sì, finora avevamo solo i volontari, adesso ne arrivano diciassette professionali, un comandante e
sedici pompieri». È orgogliosa. «E da Belluno, fin quaggiù,
anche l'autobotte».
Vera.
Dodici
Il sogno, quaggiù, è un piano di spiaggia, «fondamentale
per proteggere, utilizzare al meglio e sviluppare una delle
parti di Monasterace più preziose, amate e frequentate dai
cittadini», leggo nel documento messo a punto con ostinato ottimismo da Maria Carmela Lanzetta: un primo passo
verso le regole partendo da un bene condiviso, da un ri-
ferimento comprensibile, l'arenile dove tutti hanno corso
almeno qualche volta da bambini. Lei ci tiene molto.
La realtà è l'emergenza dei rifiuti, come a N apoli o a
Palermo, anche se in un territorio molto più circoscritto
e dunque con effetti, potenzialmente, perfino più vistosi.
<<Avviso ai cittadini: l'ufficio del commissario delegato[. .. ]
ha comunicato che, a seguito di alcune discariche chiuse
o in emergenza ambientale, non sarà possibile smaltire i
rifiuti con regolarità. Invitiamo pertanto i cittadini a gestire
con equilibrio lo smaltimento dei rifiuti casalinghi, al fine
di evitare, il più possibile, di realizzare discariche a cielo
aperto nel territorio del Comune», ammonisce un altro
documento dell'amministrazione, data 5 novembre 2012.
Nell'estate del2011, quando i meccanismi ordinari sono saltati e si è bloccata la discarica di Siderno nella quale
sversa Monasterace, i compaesani le tiravano la spazzatura
contro la porta del municipio, in paese hanno contato una
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cinquantina di roghi di cassonetti. «La più brutta estate
della mia vita», ricorda adesso la Lanzetta sgranando gli
occhi a sottolineare il concetto.
Il sogno è un'Italia attenta alle sue periferie più lontane
e meno prospere, quella che è scesa qui, in favore di telecamere, il12 aprile del2012, dopo il secondo attentato alla
sindaca - Anna Maria Cancellieri in testa e Commissione
Antimafia al seguito- promettendo che, no, la guardia non
sarebbe stata abbassata, che le luci non si sarebbero spente.
La realtà è il rogo del l o luglio, nemmeno tre mesi dopo. Quel giorno, poco prima dell'alba, i soliti ignoti danno
fuoco alla Mito di Clelia Raspa, medico della Asp di Locri,
conosciutissima nella valle dello Stilare per il suo lavoro
duro e prezioso tra le famiglie meno agiate, ma soprattutto
capogruppo della maggioranza che in consiglio comunale
sostiene la Lanzetta. Il messaggio è piuttosto chiaro, eppure stavolta non si muove nessuno.
La notizia resta relegata- con l'eccezione dell'«Unità»- sulle cronache dei giornali locali e nei resoconti delle emittenti della zona, non si vede nemmeno l'ombra di
un politico nazionale.
Già avevano provato a spaventare le donne che lavorano con Maria Carmela. Il5 agosto 2011 avevano disegnato
una bara sul muro di fronte al portone dell'assessore Angelina Belluzzi: sulla bara, le iniziali delle sue due figlie.
E quella di Clelia Raspa non è la prima e non sarà l'ultima automobile di un amministratore locale bruciata da
queste parti. 'Legautonomie Calabria', ricorda la Lanzetta,
nel suo rapporto più recente, rilevava 103 intimidazioni nel
2011, circa mille in dieci anni. È accaduto, tra gli ultimi, ai
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sindaci di Santo Stefano d'Aspromonte, San Giovanni di
Gerace, San Giovanni in Fiore. E non è, ovviamente, una
questione di genere, le intimidazioni non sono più odiose
solo perché a farne le spese sono le donne sindaco. Tuttavia
appare almeno un'occasione perduta questo calo di tensione su una zona dove le donne, dopo tanti silenzi, hanno
deciso di far sentire la loro voce.
«Da allora a oggi ancora non sappiamo nulla, qui non si
sa mai nulla ... », mi dice la Lanzetta sospirando. «Clelia si è
molto chiusa, poi è tornata in Comune, questa è una cosa
pesante». Tra le due c'è antica amicizia. «Vengo a lavorare
per te, a occuparmi delle lampadine e delle buche», ha
sempre detto la consigliera. «Va bene, ti farò assessore alle
piccole cose», ha sempre sorriso la sindaca.
In realtà è stata subito pensata per la Raspa la delega al
Personale, un impegno duro e anche una risposta esplicita
a chi credeva di interrompere il nuovo corso fin troppo
facilmente.
Più che dalle minacce l'amministrazione Lanzetta è assediata, sullo scorcio di fine 2012, dal disastro economico. In
cassa non ci sono nemmeno i soldi per le cose più semplici.
«Per pagare il demanio ho usato la mia indennità fino
a dicembre, settemila e cinquecento euro, e per l'illuminazione di N atale l'indennità degli assessori», ridacchia Maria
Carmela con l'aria di aver combinato un altro disastro. Per
poche migliaia di euro si balla sul filo della contestazione,
dell'atto illegittimo, dell'irregolarità anche a fin di bene,
perché nulla è come dovrebbe essere: «Non riusciamo a
chiudere mai niente, non sono mai riuscita a completare le
cose per le quali mi sono spesa». Per questo la caserma dei
vigili del fuoco deve sembrarle un riscatto speciale.
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La vita di tutti i giorni resta molto difficile. Per le donne
ma anche per i ragazzi: le regole arcaiche della comunità
'ndranghetista, tracimare nel maschilismo diffuso della società legale, hanno costruito una gabbia nella quale i più
giovani non riescono ad adattarsi.
La sindaca mi parla dei suoi figli sfiorando con amore i
loro libri di università, il computer, i dvd ammonticchiati
su un tavolo nella sala grande della casa sulla statale Ionica. È il nostro ultimo incontro. Lei è ossessionata dal
riequilibrio dei conti: «Non farò artifici contabili, se non
si raggiungerà, ce ne andremo».
Mandati via dai ragionieri dopo aver resistito ai mafiosi.
Sale la stanchezza. I figli, e le paure per loro, ne costituiscono buona parte.
«La prima volta che mi hanno eletta i miei ragazzi erano
favorevoli a questo incarico. Gabriele si esprime poco, come se la faccenda non lo riguardasse, ma io lo so che non
è vero, parla di rado ma ogni volta che parla ti entusiasma.
Sembra timido, con la testa altrove, ma quando parla ...
purtroppo parla poco. Matteo è più aperto, ha più amici,
fa più vita sociale, scrive molto, fin dalle elementari gira
col taccuino: andavamo sulla spiaggia, vedeva gli uccelli e
scriveva degli uccelli, ha pubblicato un libro di racconti, ha
girato nel suo liceo un piccolo film. L'ultimo che ha fatto
è Anna Teresa e le resistenti, questo è bello sul serio, parla
di Teresa Gullace Talotta di Cittanova, incinta del sesto
figlio e uccisa nell944 a Roma in viale Giulio Cesare: è la
figura che ha ispirato Rossellini nella scena della Magnani
in Roma città aperta».
«Adesso i ragazzi sono stanchi, stufi, 'come possiamo an120
dare avanti altri anni con tutte 'ste porcherie su Facebook,
assediati, non ne vale la pena', dice Matteo. Gabriele dice
solo 'non pensare a me, fai come vuoi mamma' ... ».
I ragazzi scappano, quando possono. Tanti. Troppi.
Gli studenti cercano e sognano di andare lontano dai
loro paesi, anche se la crisi sta rivalutando giocoforza il
ruolo delle università regionali: molte famiglie non possono più permettersi di mandare i figli a studiare a Roma o al
N ord, molte li iscrivono finalmente negli atenei calabresi.
Molti ragazzi non possono più stare fuori da soli, non ce la
fanno a vivere, così tanti di loro viaggiano e basta, la loro
quotidianità sta tutta tra le aule delle lezioni e i treni.
«< giovani studiano, poi si laureano e vanno via appena possono, in quantità enorme, ogni tanto me li ricordo
quando li vedo l'estate e ripassano qua per le vacanze, ormai uomini fatti», sospira Maria Carmela. «Dove stai?, gli
chiedo. E loro: a Bologna, Torino, in Veneto. Molti vanno
via perché non possono trovare lavoro ma starebbero volentieri qui, magari hanno anche la casa, perché si costruisce per tre, per quattro. Moltissime famiglie fanno sacrifici
enormi per far studiare i figli. Ma poi i ragazzi non tornano,
è una perdita terribile per il nostro territorio, allevi i figli, li
educhi e li mandi a essere utili a Milano, Genova ... ».
«Chi va via da qui sa che non può tornare più se non
nell'età della pensione, perché non se lo può permettere,
parlo di medici, ingegneri, laureati in economia, questo ci
impoverisce ulteriormente. Immagini lei una scuola coi genitori laureati e diplomati che crescano i loro bambini qui!
Pensi che scuola più attiva e viva avremmo».
121
Basterebbe questo, che sembra poco. Invece i figli
quaggiù sono il cruccio, il tarlo quotidiano.
Figli che non tornano indietro. Figli che non hanno futuro, e nel nome dei quali le penti te di mafia decidono di
passare dall'altra parte della barricata. Figli che non hanno
di che mangiare, come quelli delle operaie delle serre che
non lavorano più («sto vigilando sui nuovi assetti proprietari, devo vederci chiaro», mi dice la Lanzetta).
Figli in bilico.
«l nostri figli sono costretti a uno sforzo di comprensione», mi dice Carolina Girasole, la sindaca di Isola Capo
Rizzuto. «La vita familiare di chi fa un lavoro come me e
Maria Carmela viene sconvolta. Le mie figlie hanno visto
la madre sparire, ricomparire in tv, sempre in giro, sempre
sotto attacco».
Figli che non capiscono.
Figli che capiscono anche troppo in fretta e pagano
prezzi smisurati. Denise ha visto svanire nel nulla sua madre Lea Garofalo, è stata testimone d'accusa contro suo
padre Carlo Cosco al processo per l'omicidio di Lea; ha
spedito all'ergastolo il papà e i suoi complici.
«Denise è una donna forte: parlo di donna anche se ha
solo diciannove anni, perché per l'esperienza che ha avuto
è diventata una donna. Ognuna di noi farebbe volentieri
dei sacrifici per sostenerla, per darle un futuro normale»,
mi dice la Lanzetta.
Ora la figlia di Lea Garofalo vive sotto protezione,
un'ombra con una nuova identità, prova a studiare, dovrebbe laurearsi. Al processo, protetta da un paravento
come si usa con i testimoni di giustizia, ha detto con voce
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chiara: «Avevo capito, ma a mio padre e agli zii non l'ho fatto capire, sono stata un anno con loro, ho giocato con i loro
figli, pur sapendo che avevano ucciso mia madre». Prima
di fare il passo definitivo, ha scritto un sms ai parenti, con
le abbreviazioni che solo una diciannovenne può usare anche in una comunicazione così drammatica e conclusiva:
«Lo so k x la vs mentalità sto sbagliando, ma voglio avere
la possibilità di fare una vita diversa».
Figli che scelgono.
Dopo l'ennesima intimidazione, a luglio 2011, l'amministrazione di Isola Capo Rizzuto ha deciso una marcia di
solidarietà per la Girasole. «Volevamo coinvolgere i vecchi,
i bambini, le mamme, per gridare: noi non ci dimettiamo»,
ha raccontato Carolina. «Era il mio compleanno. Mentre
stavo uscendo dal palazzo comunale ho visto un gruppo di
donne venirmi incontro. Tra loro, anche la mia Federica.
Mi ha baciato e mi ha regalato un sorriso speciale, che solo
noi due abbiamo capito. Significava che lei era con me. È
stato il compleanno più bello della mia vita».
Può darsi che i mafiosi riusciranno di nuovo a fare ciò
che fanno meglio, a parte ammazzare: intorbidire le acque.
Può darsi, quindi, che ci troveremo presto a domandarci
chi siano i buoni e chi i cattivi, e alla fine lasceremo perdere, «perché tanto sono tutti uguali», abbandonando le
speranze di questa stagione e facendo ai cattivi proprio il
regalo che si aspettano. Ma non è detto che vada così. Un
giorno, tra qualche anno, in una strada qualsiasi della Calabria, Denise e Federica potrebbero incontrarsi, parlarsi,
e perfino capirsi. Se verrà quel giorno, la 'ndrangheta sarà
finita.
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Nota sulle fonti
Capitoli 1 e 2
Interviste dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012.
Capitolo 3
Intervista dell'autore con Elisabetta Tripodi, Rosarno, giugno
2012.
Caso Valarioti: «Stopndrangheta.it» c Il caso Valarioti di Danilo
Chirico e Alessio Magro, Round Robin editore, Roma 2010.
Lettera del boss Rocco Pesce: «ReggioTv.It», 5.9.2011, ordinanza del gip Domenico Santoro.
Capitolo 4
Michele Cacciola, Rosalba Lazzaro e Giuseppe Cacciala, padre,
madre e fratello di Maria Concetta Cacciala: ordinanza cautelare del gip Fulvio Accurso, febbraio 2012.
Verbali di Giuseppina Pesce: <<Corriere della Sera», 24.11.2010,
di Giovanni Bianconi.
Peppino Lavorato: «Linkiesta», 5.9.2011, di Antonello Mangano.
Lettera di Maria Concetta Cacciala alla madre: «Visto», 15 .9.2011.
125
Lettera della figlia di Giuseppina Pesce: <<Corriere della Sera»,
10.10.2011, di Giovanni Bianconi.
Verbali di Giuseppina Pesce: thtdem.
Seconda lettera della figlia di Giuseppina Pesce: tbtdem.
Dialoghi Maria Concetta Cacciala familiari: «Corriere della Sera», 10.2.2012, di Giovanni Bianconi.
Ritrattazione di Maria Concetta Cacciala: ibidem.
Lettera di Maria Concetta Cacciala alla madre: «La Stampa»,
10.2.2012, di Guido Ruotolo.
Dimenticati. Le vittime della 'ndrangheta di Danilo Chirico e
Alessio Magro, Castelvecchi, Roma 2010.
Capitolo 5
Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012.
Sui Nirta e San Luca: Fratelli di sangue di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Mondadori, Milano 20102.
Capitolo 6
Intervista dell'autore con Cesare De Leo, Riace, giugno 2012.
Lettera di Maria Carmela Lanzetta alla Dirigenza Lavori Pubblici Regione Calabria su recupero piazza Porto Salvo, 9.3.2009.
Annullamento del decreto di scioglimento del consiglio comunale di Monasterace, Tar Lazio, 13.5.2004, presidente Tosti,
estensore De Bemardi.
Esposto denrmcia contro Maria Carmela Lanzetta di Cesare De
Leo, Nicola Gara, Diego Origlia e Nicola Procopio, 29.5 .2012,
alla Procura della Repubblica di Locri.
La 'ndrangheta voleva rapire Berlusconi: «la Repubblica»,
12.8.1984, di Pantaleone Sergi.
126
'Ndrangheta a Monasterace: Operazione Sicurezza, nuova Cosenza.com, Crimeblog.it, di Renato Marino, e New.dt, 7.5.2010.
Capitolo 7
Interviste dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012, e Roma, ottobre 2012.
Capitolo 8
Intervista dell'autore con Katy Capitò, Riace, giugno 2012.
Intervista dell'autore con Maria Teresa N esci, Monasterace, giugno 2012.
Intervista dell'autore con Pina Tavemiti, Monasterace, giugno
2012.
Rosy Canale: «Corriere della Sera.it», 23.4.2012, di Micol Sarfatti.
Rosy Canale: «Vanity Fait», 16.10.2012, di Tamara Ferrari.
La mia 'ndrangheta di Rosy Canale e Emanuela Zuccalà, Edizioni Paoline, Milano 2012.
Capitolo 9
Intervista dell'autore con Marisa Garofalo, sorella di Lea Garofalo, 10.7.2012.
Verbali di Lea Garofalo sul delitto Comberiati: «Corriere della
Sera», 19.10.2010, di Michele Focarete e Gianni Santucci.
Marisa Garofalo: <<Vanity Fair», 2.3.2011, di Tamara Ferrari.
Capitolo lO
Intervista dell'autore con Anna Maria Cardamone, settembre
2012.
127
Interviste dell'autore con Carolina Girasole, settembre e dicembre 2012.
Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, ottobre 2012.
Caso Cacciala e trattamento 'penti te': interrogazione parlamentare di Laura Garavini, Partito democratico, 1.9.2011.
Capitolo 11
Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, novembre 2012.
Vito Micelotta: ordinanza di custodia cautelare del gip Silvana
Grasso, dicembre 2012.
Tita Buccafusca: «Corriere della Calabria», 6.6 e 14.8.2011, di
Lucio Musolino.
Laura Garavini: «l'Unità», 27.8.2011, di Gianluca Ursini.
Rosa Ferraro: «l'Unità», 28.11.2011, di Gianluca Ursini.
Laura Garavini: «l'Unità», 10.2.2012, di Gianluca Ursini.
Capitolo 12
Intervista dell'autore con Carolina Girasole, settembre 2012.
Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, novembre 2012.
Denise Casco: «Corriere della Sera», 19.10.2010, di Michele Focarete e Gianni Santucci.
Carolina Girasole: «Elle», 1.2.2011, di Luisa Simonetto.
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