Comments
Transcript
l`italia quaggiu - Isola Capo Rizzuto Blog
Goffredo Buccini L'ITALIA ' QUAGGIU Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta Editori Laterza ·e1S~l~q~ue1pu, ou~edwoJ ons I! Olepunu~p ~l~J\e l~d eS!JJn ~ elElnllOl 'O(eJOle!) e~1 e OU!J 'EJO!JJEJ "fUdJUOJ E!lEW e dJS~d Ell!dd~sn~!) ep ~!JJOl !P !JEll!W!J~ld !ll!~epll! d l ldd dJ!Pn!~ 'Ql!deJ A:n~)J e ·~s~ed {~P ~ow~~d uep !EP Elep:reu!W ~ epnuEl ~WOJ ellOJS OUOS 'OUJeso~ !P e:>epu~s '!pod!JJ.. eudqes!I3 ep =!di ~wo:> dllUOp dll(e !P errdnb UOJ E!)Jdllll!,S ~S~Jqe(EJ dJ!llEllS~!WWe ~JEU~l ElS~nb !P epUdJ!J\ e'} ·9ooc: JEP eUJ~J\o~ dl{J ou!~~dl IdP JunwoJ OfOJJ!d {dll l(l!{EWJOU d l(l!fl'!~d{ orelJOd!l dldJ\e !P op1ezze oros I! ldd !SO!JEW ~lelu~ne dnp Ol1qfiS eq dl{J '~JEl~lSeUOW !P e:>epu!S 'ennmq eldllileJ E!lEW !P epOlS er ~ !l{JJO Hg OSldi\EJllE ElElUOJJEJ EJEUOD eun "OU!~OS!lli d OSOll~WO OSldJ\~Un un, p dl{J!EJJe J{O~dJ dll"f 'OUlO!~ J~d OUJO~~ 'pu, ~mgu~ Jl!P !P dlld10S d ~sods ';;,!l~!J ;;> ppew dlfOW !P O!g~ElOJ 1! d el;;,q~ue1pu, !P ,dlpuJd, JIIdP duomdqp e1 OJlUdp '!S~Jqe{EJ ;;,uuop ;;>li~P EldJ\ewpd endu O!~~E!J\ OSOJpEJ un,p EJEUOJJ e1 ~ OJq!fll ·olOf ouopuods~J '«Ole~ed!J dl;;>Ae p 1(!9)) "!;;>{ ;;,p~~J '«~;;>Je~edp QllOd !J\ JWOJ)) ·~lpEW eun,p OSU;:)SUOnq fl J lJlp!JdWdS E[ UOJ ~UO~ZnllOJ ~ ;:)U!W!JJ OlEp!JS eq d e:>epU!S EPEJ ~,S dL{J ElS!JEWJEj elSJnb !P e~~noq eJpp ElS~l JL{J qp dl!{nd!J 'd[!qEAJes I! JflEJ\fES ldd :OJ\~SJJl~p ~ enbJe 'pJEU!J01lS UOJ 'dJEJ~lSEUOW ~p dUUop d{ EI!J li! OUOUdlli !S '~LfJSOJ ;;,IldP ~llO!JJ~d OJntmb ep OlEJ:>!dde O!PU~JU! un ep elepmq ennue1 E[dllileJ E!lEW ~p epeUUEJ erre !lUeAeQ ·dp!1J01 'EJ!UOJ JfelElS 'noc: !ll!lilOQ sndJOJ fdp eq(V Goffredo Buccini Utalia quaggiù Maria Carmela lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta ,_.lUt-liK""'It"8L6 NOSI -.ls~:v~-..,..~ -~"" (.fpaO ~ - .IJQ3S wpcwlwQS ~ . . . ~aJE>ns ·-""""" rnou---a-.1§:~ ·~ ~ ~~~ s•oz -v 9 ' LlOL 9IOL -=n • ' ' noc: vwc: ~wc: l S!fRJ!d ~IV "P ~ ~s;:! "BU!lll!:> ll'J ~~~v !UtlA.:I~'A o:>rew lp~ l~1J10Jt! .\q ~STJqnd Indice Premessa IX Uno 3 Due 13 Tre 21 Quattro 33 Cinque 41 Sei 53 Sette 63 Otto 73 Nove 83 i Dieci 95 ~ " Undici 105 Dodici 117 Nota sulle fonti 125 • VII Premessa C'è una parte d'Italia che siamo abituati a considerare perduta. Per il ritardo nei servizi e nelle infrastruttu re, per il tasso di disoccupaz ione e di corruzione, per il degrado ambientale, per le scarse speranze offerte ai giovani e, soprattutto, per la gigantesca questione criminale che nessun governo e nessuna procura sembra in grado di risolvere. ll cuore di questa porzione di territorio nazionale coincide in larga misura con i confini della Calabria; l' organizzazione delinquenziale che da quel territorio ha conquistato l'egemonia tra le mafie del mondo è la 'ndrangheta . Tuttavia, questa realtà non è immutabile . Siamo indotti a crederlo dal cinismo, dal pessimismo , dalla stanchezza: ma sbagliamo. Giorno dopo giorno le regole maschiliste e arcaiche che tengono in piedi le 'ndrine vengono erose; altrettanto quotidianam ente l'assenza di regole che mette in ginocchio le pubbliche amministra zioni viene riempita. È un lavorìo spesso silenzioso, discreto. Rivoluzionario. Questa rivoluzione è tutta al femminile e ha due facce. Nella società malavitosa, madri, mogli e sorelle, assuefatte al silenzio e all'obbedie nza, hanno incomincia to ad alzare la testa, a dire 'no', per strappare i figli a un destino lX segnato da violenza, galera, morte. Le storie di Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciala e di molte altre 'pentite' che hanno deciso di mettersi dalla parte dello Stato anche a costo della vita, sono al tempo stesso terribili ed esemplari. Nella società legale, una generazione di sindache, elette sovente sull'onda del rinnovamento in Comuni sciolti per mafia, sta cambiando il rapporto con i cittadini, introducendo trasparenza ed efficienza in macchine amministrative opache e inceppate. Donne venute dalle professioni, spesso estranee alla politica, hanno deciso per passione civile di resistere a intimidazioni e minacce, rendendo così un prezioso servizio al Paese. Maria Carmela Lanzetta, primo cittadino di Monasterace, Locride, è stata il volto nuovo di una stagione che potrebbe fare della Calabria non solo parte integrante dell'Italia, ma simbolo del possibile riscatto italiano. I;Italia quaggiù Maria Cannela Lanzetta e le donne contro la 'ndrangheta J l r l J ' J ; l ' i' ' '' Uno All'alba di quel Corpus Domini qualcuna portò il Vetril. Qualeu n'altra le spugnette dei piatti afferrate in fretta e al buio dal lavello di casa. Molte, straccetti e strofinacci, intinti nelle bacinelle d'acqua e sapone. E si misero in fila così, Rosalba e Caterina, Rosanna, Maria Rita e Chiara, le donne di Monasterace, davanti alla farmacia bruciata alle porte del paese, sulla statale 106, in mezzo al fumo e alla cenere che ancora avvolgevano ciò che il fuoco aveva risparmiato. «Qua puliamo noi», le dissero. «Ma io come vi ripago?», chiese Maria Carmela Lanzetta. «Voi ci avete già ripagato, sindaco». Ancora si sentiva il tanfo della benzina che quattro piedotti, senza nemmeno il timore di essere immortalati dalle teleC'amere di sorveglianza, avevano versato dalla finestra sul retro prima di buttare dentro un fiammifero e tirarsi indietro per godersi l'effetto. Con gli occhi arrossati dalla rabbia e il cuore in tumulto per la paura, alle sei del mattino del26 giugno 2011, Maria Carmela Lanzetta, primo cittadino di Monasterace- Locride dimenticata in fondo alla provincia povera d'Italia- capì 3 infine di essere stata ridetta davvero. Non solo dalle urne: il 15 maggio aveva rivinto le amministrative. Dalla solidarietà della sua gente. E soprattutto dalle donne, quelle in fùa per aiutarla e le altre, che cinque anni prima l'avevano incoraggiata a farsi avanti: «Dovete provarci voi, dottoressa, vui 'ndaviti 'u fati 'u sindaco, dovete fare il sindaco». Ci aveva provato: lei, la farmacista del paese, esperienza politica zero. E la prima volta l'aveva spuntata di 549 voti, che in un posto così piccolo vuol dire stravincere, dopo che il consiglio comunale, sospettato di essere inquinato dal clan Ruga, era stato sciolto dal prefetto di Reggio Calabria ed era stato reintegrato da una sentenza del Tar: molti cittadini di Monasterace avevano davvero voglia di cambiare, altri pensavano di poter controllare quella donnetta esile, con gli occhi che diffondevano bagliori di timidezza. «Il paese era stato così devastato dagli uomini che mandarono avanti le donne», mi racconta adesso Maria Carmela. Ci aveva provato sul serio, appena insediata al primo mandato, buttando fuori dall'ufficio tecnico i costruttori che si sedevano alle scrivanie degli impiegati a pretendere pratiche su ordinazione. «Uscite, qua non possono sedersi i privati». «Ma io voglio offrire un caffè al ragioniere!». «E voi il caffè glielo andate a offrire al bar, dopo il lavoro». Ci aveva provato, sì, difendendo le operaie delle serre dei fiori, ridotte alla fame da padroncini che le lasciavano senza stipendio. Ci aveva provato, introducendo banali elementi di normalità- il pagamento dei tributi per tutti, o il sostegno ai vigili contro gli abusi - in un paese dove 4 ogni tassa è ancora l'imposizione d'uno Stato nemico e i gabinetti abusivi spuntano pure sulla facciata del convento del X secolo, vanto storico della collettività. Quando i signori del paese avevano capito che ci stava provando sul serio, avevano ordinato di bruciarle la farmacia di famiglia. Magari per ammorbidirla, magari per convincerla a lasciar perdere l'idea di ripresentarsi alle nuove elezioni. Quella notte, al primo piano, nell'appartamento proprio sopra la bottega in fiamme, dormivano in sei: lei, suo marito Giovanni, i figli Gabriele e Matteo, la vecchia madre Olga che la farmacia l'aveva fondata, la sorella Maria Assunta; potevano ammazzare tutti, se Gabriele non fosse stato insonne e non avesse sentito l'odore acre del fumo. «Il 27, ventiquattro ore dopo, avevamo già riaperto. Grazie anche a tutte quelle donne che, bottiglietta dopo bottiglietta, scatola dopo scatola, hanno salvato il salvabile)), dice la Lanzetta. Ci affacciamo dal balcone del salotto, da dove si domina il piazzale di fronte: c'è un grande distributore di benzina, un parcheggio, s'intravede il mare giù in fondo. Da quel parcheggio, nove mesi dopo il primo attentato, le hanno sparato: tre colpi contro la Panda con cui se ne andava in giro come niente fosse, anche a sera tarda, per le strade sgarrupate e scure della Locride, un colpo nella serranda della farmacia. n secondo avvertimento, se possibile perfino più esplicito del primo. Come per il rogo, un video mostra il colpevole incappucciato in una felpa da rapper, ma non c'è nemmeno un sospettato in carne e ossa, in un paese di tremilacinquecento anime dove tutti conoscono i fatti di tutti. 5 Allora, perfino Maria Carmela ha alzato la voce, costringendo l'Italia distratta a dedicare qualche giorno di attenzione e di titoli di giornali se non a lei a questo borgo sperduto nel blu cobalto dello Ionio e nel verde dei boschi primordiali, a queste terre di cui non è mai importato nulla a nessuno. La prima domanda che mi si materializza davanti, mentre percorro la statale 106 - lo strappo di asfalto che costeggia il mare calabrese e collega i paesi della 'ndrangheta e della violenza fino all'hinterland reggino - è: cosa diavolo cerca di difendere Maria Carmela Lanzetta? La partita sembra persa da subito. Attraverso distese di cactus, campi riarsi e abbandonati, pini e ulivi, odore di spazzatura e odore di muschio, il giallo e ancora il blu del mare lontano, che potrebbe essere l'oro di queste terre e invece è soffocato tra oblio e cemento; passo colline, interi rioni di palazzine mai finite (come a Rosarno, come a Bovalino, come ovunque, nei paesi dell'illegalità), cemento e mattoni a secco lasciati lì, case tirate su a casaccio, l'una contro l'altra, senza un centro che tenga unita la comunità, e mi domando di nuovo: ne vale la pena? Sui tornanti dentro la pineta, due cartelli turistici, marroni e bianchi, promettono molto: «Castello medievale X e XI secolo», «Chiesa Matrice Esaltazione della Santa Croce, X e XI secolo». Ma a Monasterace Superiore, il borgo dove sono rimasti solo pochi anziani e zero futuro, la chiesa del X secolo è stata 'ristrutturata' con una spregiudicatezza da palazzinari ubriachi {giallo brillante, «e dovevate vedere che mostruosità era prima», mormora Vincenzo, un ragazzotto del posto); i soldi, oltre alla Cei, li hanno messi 6 le vecchiette, venti-trenta euro al mese, che ancora versano per raccogliere la cifra mancante all'ultima mano di pittura, che Dio solo sa come verrà alla fine. La torre accanto è stretta tra due costruzioni abusive, un gabinetto edificato in facciata come un tumore, tre parabole tv, un po' Aruba e un po' Valona. Due strade più in basso, il municipio lo si riconosce appena dalle bandiere: un cartello stropicciato e appeso con lo scotch indica gli orari, serrande cadenti, vernice scrostata. «Non aprono mai un minuto prima, pure se c'è tanta gente che aspetta», mugugnano quelli in fila: tre contadini, un'operaia delle serre, una sindacalista, due creste punk. Nel resto d'Italia fingiamo talvolta - quando succedono fatti gravi, stragi, sparatorie, grandi scandali - che ci importi qualcosa di questa gente. Quando hanno sparato a Maria Carmela Lanzetta, e lei ha dato per una manciata di giorni le dimissioni da sindaco, sono scesi giù ministri, poliziotti e prefetti, e s'è mosso Bersani, il segretario del Partito democratico, cui la Lanzetta è iscritta. Quando però, a luglio, hanno bruciato la macchina di Clelia Raspa, capogruppo della maggioranza che sostiene la sindaca in consiglio comunale, l'attenzione dei media e dei politici nazionali era già svanita, la notizia è rimasta confinata sui giornali locali. La Lanzetta allora mi disse: «Ci hanno già dimenticato». Aveva capito il meccanismo. Possiede un intuito pre-politico che le suggerisce quale sia la mossa giusta. Dimettendosi, ha costretto l'Italia a occuparsi di questo buco di nulla circondato dalla 'ndrangheta. Ritirando le dimissioni, ha messo all'incasso una cambiale di credibilità, ma la cambiale è scaduta in fretta. 7 Ha 57 anni ma è una donna antica. Innamorata di un'antichità in cui le pare che il bello e il giusto coincidessero. A Monasterace, dove il brutto e l'illegale certamente coincidono, mi aspetta al museo del paese, che è un orribile scatolone di acciaio, cemento e vetro, troppo lontano dall'abitato per servire come punto di aggregazione. Renato Nicolini lo vide e disse: «Bisogna tirarlo giù». Maria Carmela ridacchia, «aveva ragione, è mostruoso», ammette. L'hanno costruito i suoi predecessori. «Non dovrebbe neanche stare aperto, mancano gli ascensori e le strutture per i disabili, andiamo avanti sotto la responsabilità mia e del sovrintendente». Indossa camicette anni Settanta, gonne jeans, sandali bassi, porta collane di pietre dure e niente trucco: «Abbiamo allestito mostre per le donne, guardi questo fuso del VII secolo a.C., a Kaulonia lavoravano il bronzo ... Delle scoperte archeologiche attorno al cimitero di Monasterace ero l'unica ad essere contenta, gli altri temevano che i loro terreni venissero bloccati!». Si capisce chiaramente che preferirebbe fare il sindaco nell'antica Kaulonia. Ride ancora, tutta assorta dal suo museo: «Questo drago policromo del III secolo a.C., periodo ellenistico, è la storia della mia vita: da bambini lo scavavamo con le mani, ora eccolo qua». Sulle prime, non mi sembra preoccupata né spaventata. Mi sbaglio, ovviamente. Lei lancia occhiate alla scorta, due carabinieri di Roccella Ionica, discreti e in borghese, facce da bravi figli. Sospira: «Paura di morire? Sì. Non vorrei proprio morire. Mi piace il teatro, il cinema, l'acqua, nuotare, i libri, leggere. Mia suocera mi ha detto: 'ma quanto 8 dura questa scorta?'. Io senza mio marito non ce l'avrei fatta, non ce la farei». L'archeologia, mi spiega, è la sua passione segreta perché ha studiato a Locri, e Locri non è solo 'ndrangheta: sarebbe un immenso museo della Magna Grecia, se solo ce lo ricordassimo. Se fosse un personaggio del cinema, questa donna starebbe a metà strada tra I: onorevole Angelina e Chance il giardiniere. Brandisce l'ovvio come un'arma, come solo gli stolti o le persone dawero perbene sanno fare. «È vero che lo Stato sociale è finito, come dice Anna Finocchiaro, solo che noi quaggiù non l'abbiamo mai avuto». Sorride, anticipando la mia obiezione. «E non intendo coltivatori diretti e indennità di disoccupazione, quelle sono truffe. Lo Stato sociale è: io lavoro e ho l'asilo, io lavoro e ho il pediatra. n pediatra da noi è arrivato adesso, come le carote, un segno del benessere». Quando ha buttato fuori dalle scrivanie dell'ufficio tecnico i costruttori (alcuni dei quali in odore di malavita), una delle sue consigliere più fedeli l 'ha ammonita: «Ma sei matta, Maria Carmela?». Forse un po' matta lo è. Quando ha deciso di alzare la voce e di raccontare all'Italia cos'è Monasterace, certi suoi compaesani non gliel'hanno perdonata. Sono comparsi attacchi feroci su Facebook. Lei ha tirato dritto. Allora è apparso anche un lenzuolo in paese, un lenzuolo parlante: «Sindaco, ridacci la dignità», ci hanno scritto su, con lo spray. Traduzione: smetti di sparlare di noialtri in pubblico. Certi lenzuoli sporchi andrebbero lavati in famiglia, pensano da sempre in molti, quaggiù, ed è la dannazione 9 della Calabria. Ma Maria Carmela Lanzetta viene da una famiglia particolare. «Mio padre votava Dc, ha smesso per colpa di Andreotti». Nel senso? «Nel senso dell'indignazione. Cominciò a votare Pci, e io con lui. Era sempre indignato, mio padre Vincenzo, figlio di emigranti, medico condotto a Bivongi. Andava a Reggio a portare le ricette e tornava con !"Espresso' formato lenzuolo, quello delle grandi inchieste. Da noi non arrivavano certi giornali». L'indignazione è contagiosa, o ereditaria, chissà. Maria Carmela Lanzetta ancora s'indigna tra il salotto e la scala interna, quella che collega l'appartamento alla farmacia. Mazzone, si chiama la farmacia. Il cognome di Olga, la madre: donna tostissima, agiata famiglia di agricoltori, laureata a Bologna, 85 anni. «Non darla vinta a questi qua», le ha detto dopo l'incendio. Olga ha aperto la prima bottega nel1954 vicino alla stazione, dal1960 l'ha trasferita sulla statale 106. Trent'anni fa ha resistito a varie richieste di pizzo, non è facile farle abbassare la testa. Giovanni, il marito di Maria Carmela, fa l'ingegnere elettronico, insegna, dirige a Catanzaro la Cineteca della Calabria. Come lei, è nato a Mammola, qualche decina di chilometri da qui. Per sposarla, trentuno anni fa, l'ha portata a Torcello, c'è poco romanticismo nei paraggi di Monasterace. «Non avrei fatto il sindaco senza il sostegno di mio marito. Ora Giovanni è molto preoccupato per me, ma mi sta vicino, come sempre». Tira ancora dritto, la sindaca. Metà farmacia è nuova di zecca, appena rifatta. «Solo di medicinali abbiamo avuto 96 mila euro di danno». Tira fuori una bottiglietta di shampoo Vichy, ancora annerita da quella notte: «Questa me la 10 tengo per ricordo, non l'ho voluta pulire né vendere. Certe cose mi servono per non dimenticare». «Mi viene in mente Rosalba che s'è lavata per tre giorni di fila i prodotti per i piedi, i callifughi, manco tornava a casa a mangiare per farlo. Le sue compagne si davano il turno qua dentro, lei no, per tre giorni non è mai uscita». È più che solidarietà. È un rito riparatorio: le donne possono cambiare questa terra dove le regole della 'ndrangheta ne riducono la dignità a brandelli. Donne come quelle di Monasterace. O come quelle delle famiglie mafiose, che si risvegliano e saltano il fosso, passano dalla parte dello Stato, denunciano padri e mariti per salvare i figli dalle faide e dalle leggi della 'ndrangheta. Donne come Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciala, disposte a rischiare la vita per la libertà. O ragazze dei licei, come quella studentessa di Bovalino che vive a Bologna e ferma Maria Carmela per dirle: «Siamo insieme, tu sei anche il mio sindaco, vivo lontana ma è bello sapere che giù c'è gente come te». La Lanzetta diffida sanamente della retorica. «Sì, lo so che mi vedono come un simbolo, ma la nostra gente non campa di simboli, qua ci servono strade, scuole, ospedali, devi dare risposte, devi fare la differenziata, smaltire la spazzatura, tutto questo bisogna farlo in un clima di delegittimazione continua». Quando ha deciso di restare in carica dopo gli attentati non ha fatto proclami roboanti, non ha chiesto in cambio più protezione, ma soldi e interventi tecnici per la sua terra. «Lo Stato a quel punto mi ha sostenuta, non solo a parole. Così sono rimasta. Anche per avere più carte da giocare per la Locride». 11 Se il buonsenso delle donne va al potere o mette in discussione il potere maschilista su cui si reggono le 'ndrine, i giorni dei mafiosi calabresi potrebbero essere davvero contati. E da queste province dimenticate potrebbe salire un segnale potente per tutti noi. Due Nd suo ufficio in municipio la porta ha un buco dall'intemo. È il segno d'un pugno che ha attraversato quasi da parte a parte lo strato di truciolato. Maria Carmela ha lasciato tutto così, non ha fatto riparare nulla. E ha scritto accanto al buco, a pennarello rosso: «llicordo 'ira funesta' dottor Diego Origlia 22 settembre 2009». Origlia, medico, era suo alleato, poi è diventato suo rivale, ha perso la corsa a sindaco contro di lei, è stato eletto consigliere comunale, s'è dimesso quando le hanno sparato sostenendo che «non si può fare una seria e trasparente opposizione». «Quel giorno non ero stata, a suo parere, abbastanza veloce a intetvenire con l'auto-spurgo a casa sua, allagata dalla pioggia. È venuto qui, ha preso a pugni la porta, poi è uscito in corridoio strillando 'Io ammazzo qualcuno!'. L'ho denunciato, poi ho ritirato la denuncia». Quando si dice comunicazione politica. Una denuncia lascia il tempo che trova, l'archiviazione è più che certa in un caso simile. Entrando nella stanza da sindaco di Maria Carmela Lanzetta sono invece costretto a interrogarmi sull'energumeno che ha lasciato incisi nella porta i segni del proprio passaggio. 13 Il clima, a Monasterace come in tanti altri paesi della Locride, è questo. La violenza di cui la 'ndrangheta si nutre contamina anche chi con la 'ndrangheta non c'entra nulla, s'infiltra come un veleno nei rapporti, nelle parole, nei gesti quotidiani. Attanaglia il paesaggio. Dalla finestra di Maria Carmela il mare, direbbe De Gregari, è come uno schiaffo, una sberla di luce blu che toglie il respiro. Le colline degradano dai boschi di querce agli orti, nelle molte sfumature del verde. «Mi commuovo ogni volta che m'affaccio», mi dice lei. Poi i nostri occhi si posano sulle parabole che sembrano funghi selvatici, sui mattoni sbrecciati delle case tirate su a vanvera, con violenza, appunto. Monasterace Marina è cresciuta a casaccio, come tutto qui attorno. Fino agli anni Sessanta non c'era niente, solo le case della marchesa Ester di Francia e le piccolissime catapecchie di chi lavorava per lei o per la famiglia Sansotta, che aveva un fiorente commercio di legnami. Da cento anni c'era la stazione dei treni, la 106 era la strada borbonica, i ponti li ha fatti Mussolini. n paese s'è allargato, male, attorno alla ferrovia. n piano regolatore ha più di mezzo secolo, è ormai superato, ma nessuno gli dava gran peso nemmeno prima. Tra Monasterace Marina e Monasterace Superiore c'è un po' di attrito: «La festa del santo di su non va bene al santo di giù. L'abbiamo risolta assieme al parroco, festeggiando tutti e due: lavoriamo tutti per la stessa Monasterace, ci siamo detti». Una parola! Qui tutti sono contro tutti, la disfida fra sant'Andrea Avellino e la Madonna di Porto Salvo, coi rispettivi comitati, è una metafora di disunità profonda. Il disordine urbanistico è disordine di anime. 14 «lo cerco di preservare, adesso. Ho detto che rinunciamo pure agli oneri di urbanizzazione pur di non costruire all'infinito, vorremmo la riqualificazione dell'esistente. D'inverno a Monasterace Marina non c'è più nessuno e a Monasterace Superiore restano quattrocento anziani: si tratta di recuperare, non di costruire ancora. Ma è difficile far capire questo discorso. Manca il colloquio, ho avuto problemi, non riesco a incidere su questo. Potrei ordinare abbattimenti di abusi. Piccoli abusi, anche. Le ordinanze le ho fatte. Ma non abbiamo i soldi per eseguirle». Come al solito, il brutto e l'illegale vanno a braccetto. La torre delle mura, del XVI secolo, per dire, se ne sta ingabbiata tra due garage costruiti nel2004. «Non l'ho permesso io, è un peccato mortale, tutta una storia di errori e di fatica, è una lotta impari. Però, vede, non è giusto prendersela con la povera gente. I cittadini non hanno mai avuto serie direttive urbanistiche da rispettare. E certe cose si spiegano col bisogno e l'assenza di regole». Di questo senso di perenne bisogno e di soperchieria si nutre anche l'immaginario collettivo, tradotto nella commedia dell'arte con la maschera calabrese di Giangurgolo, prepotente coi deboli, servile coi forti, sempre pronto a risolvere le faccende con lo schioppo. Maschera maschilista, perfetta metafora del finto senso dell'onore esibito dai maschi della 'ndrangheta. «lo credo che qualcosa stia cambiando anche tra le donne di mafia. Padre Bregantini, vescovo Ji Locri dal '94 al 2007, e che adesso è a Campobasso, quando ci fu la strage di Duisburg si appellò alle mamme e alle mogli di San Luca per evitare spargimenti di sangue». 15 Ma qualcosa sta cambiando più in profondità. Non più solo appelli di donne, comunque, integrate nel sistema mafioso. L'8 marzo 2012 il «Quotidiano della Calabria>> l'ha dedicato a Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola: loro hanno rotto le regole mettendo in gioco la vita. «Con questi tre nomi tutti dovranno fare i conti, da noi. E qualche giorno fa ho ricevuto il gruppo Rita Atria, salito qui da Palermo. Volevano parlanni, qualcosa si muove». Nella biblioteca della sindaca, Foscolo e Gore Vidal, Montale e Pavese con Fruttero e Lucentini, SolZenitsyn e testi d'epoca della chiesa calabrese. Lei mi offre un Caffè Guglielmo. «Vedrà che è buono>>, mi rassicura. Segue una lunga tirata: «lo sono fautrice del chilometro zero, tifo per i prodotti locali. E poi gli operai della Guglielmo, dopo l'ultimo attentato del racket, hanno cominciato a fare i turni anche di notte per sorvegliare e difendere la loro fabbrica ... beva». Bevo. E però mi viene il dubbio che esageri, che sia calata un po' nella parte: in fondo manca poco alle elezioni politiche, servono facce nuove. Forse è un dubbio ingeneroso. Lei sfodera il suo sguardo da bambina stupita: «lo non mi sto preparando nessuna campagna elettorale. Se qualcuno arrivasse a me, vorrebbe dire che sono proprio alla frutta e non hanno più nessuno!». In realtà chi le sta vicino la adora. La sera del primo attentato c'era un incontro coi volontari dell'Avis, poi era in programma l'Infiorata, la festa floreale del paese. ll nuovo parroco, Francesco Passerelli, l'ha chiamata e le ha detto: «Devi venire lo stesso alla processione». C'erano anche i ragazzi degli istituti di pena che la sindaca ospita ogni anno 16 a Monasterace. Alle due del pomeriggio, quelli dell'Infiorata le avevano fatto trovare tappeti di fiori davanti alla farmacia ancora fumante. Lei ha salutato e abbracciato tutti. Solo uno ha respinto sull'uscio: Cesare De Leo, sindaco socialista dal 1975, per quindici anni, con quattordici procedimenti penali e qua ttordici assoluzioni alle spalle, come racconta lui stesso. «Ho dato la mano a tutti, pure a chi pensavo potesse essere tra i responsabili morali dell'attentato. A lui no. Lo considero l'ispiratore di accuse che non meritavo: si è detto in campagna elettorale che ho dato soldi per comprare i voti, che ad alcuni senzacasa ho assegnato l'appartamento del Comune, ma ho il piacere che queste persone non hanno votato per me. Mi hanno detto loro che non hanno votato per me. Questa è una grande libertà, no? Nessuno mi può accusare di nulla». Parlando dell'anziano notabile del paese, Maria Carmela perde per la prima volta l'aria vaga di chi passa per caso nella giungla della politica, penso che possa essere scomodo averla contro, una che può perdonare l'incendio della bottega ma non una diffamazione. De Leo, cui nulla può essere addebitato degli attentati contro la sindaca, finisce dunque nell'elenco degli irrecuperabili. «lo ho dei princìpi, che sono il filo conduttore della mia vita. E su quelli non mollo. N o n voglio derogare, non cerco il consenso anzi ... Persone non ne ho indicate ai carabinieri, non sono scema ma non riesco a capire. Ho indicato una serie di motivazioni possibili come sfondo degli attentati. Che possono venire o non venire da questo ambiente terribile e invischiato. Sostengo i vigili che denunciano gli abusi edilizi. Ho lottato per migliorare gli uffici comunali. 17 Cercato di proteggere zone di territorio. Cercato di far pagare i tributi a tutti i cittadini ... senza peraltro nemmeno riuscirei tanto bene, questo bisogna scriverlo. Ho cercato di spiegare a chiunque: non vi sto facendo un favore, questo vi tocca. Alla fine che ho fatto di strano? Niente». Vero, niente di strano. Pura normalità nel resto d'Italia, che diventa però sfida involontaria al potere mafioso nella Locride. Mi viene in mente Ambrosoli, la normalità dell'eroismo, l'idea che per servire lo Stato non dovrebbe essere necessario mettere la propria vita in gioco. «Potrebbero essere stati uno, nessuno o centomila. Non credo a un grande vecchio o a complotti, vorrei conoscere il contesto per capire in che società vivo e opero». Il contesto è attorno a lei, ma, come capita spesso, lei è troppo immersa nel contesto per vederlo. Dopo il primo attentato le hanno organizzato un consiglio comunale aperto nel campo di calcio vicino la chiesa. «C'era tantissima gente e questo mi ha convinto a rimanere, c'era tutta Monasterace a darmi la mano». Tra quelli che le stringevano la mano, c'era di sicuro anche chi ha ordinato il rogo della farmacia, perché dopo nove mesi, e dopo che lei non aveva mollato, 'loro' si sono rifatti sotto. Era il 29 marzo 2012, la data del consiglio comunale sulla questione delle operaie delle serre di Campo Marzo costrette da mesi a lavorare senza paga. «Ho voluto un consiglio comunale aperto, così che questo problema emergesse in tutto il paese, volevo si sapesse che non stavo facendo trattative di nessun genere. Vennero soltantole donne e i sindacati, c'era Mimma Pacifici della Cgil». Alle dieci e cinquantacinque di quella sera le spararono 18 contro la macchina parcheggiata sotto casa e contro laserranda della farmacia, ormai bersaglio fisso. Siamo di nuovo sulla statale Ionica, la terribile 106. Lei mostra il punto esatto col dito: «Sono venuti da lì, lo vede dove c'è quella signora?, lo so dalle telecamere di vigilanza, uno è arrivato lì e ha sparato». Era un incappucciato, un ragazzo, si direbbe, dal passo agile e sicuro. «Mia madre ha sentito i colpi. Mio figlio è rientrato alle undici e mezzo, poteva trovarcisi ... e allora ho detto: adesso basta. Paura? Certo che ce l'ho, ma per i miei figli. Io non devo sfidare nessuno, non devo accusare nessuno, assolutamente nessuno. Cerco di fare il sindaco come so, in condizioni difficilissime, con un Comune che era al dissesto e lo è ancora, noi non siamo in dissesto ufficiale ma abbiamo un mare di debiti, non abbiamo mai cassa, non riusciamo a pagare le fatture. Uno cerca di fare ciò che si può per portare soldi al Comune, quindi tributi e finanziamenti. Nella prima amministrazione abbiamo avuto finanziamenti per più di cinque milioni di euro». «La cosa più schifosa di questa vita è che tutti sanno tutto. Da quando sono sotto scorta ho eliminato tutte le cose personali, spesa, poste, camicie, io non voglio farle con la scorta, le cose di ogni giorno, e quindi non le faccio più. Mia sorella l 'ho mandata su e giù per un paio di scarpe quattro volte, per fortuna c'è la famiglia. La scorta la chiamo solo per incarichi pubblici». Squilla il telefono. È Elisabetta Tripodi, la sindaca di Rosarno, ormai un'amica. Elisabetta e Maria Carmela condividono la vita sotto scorta. Si chiamano spesso al telefono, fianco a fianco ci si sente meno sole. 19 Tre «Maria Carmela ed io siamo due tontolone, politicamente. Gli altri pensano che siamo spendibili. Ma siamo due tontolone», mi dice Elisabetta Tripodi. La sindaca di Rosarno è una Lanzetta più concreta e meno carismatica, anche nel fisico: meno sofferente, più bilanciata, senza l'aria ascetica e surreale della collega di Monasterace. Stessa militanza nel Pd, ha però una lunga esperienza di segretario comunale che la blinda e la sostiene nel lavoro di primo cittadino di uno dei paesi a più alta densità di 'ndrangheta della Calabria, ha una risata forte e sorniona, un'ironia più tagliente e meno stralunata. «Venga, la aspetto, il municipio sta vicino al cimitero: è poetico, non può sbagliare», mi dice al telefono. Rosarno è il vertice settentrionale di un'area, la Piana, dove s'affollano centosettantamila anime. E la Piana è spettrale anche d'estate. Salendo da Roccella Ionica taglio in macchina verso nord i campi di pomodori, quelli della rivolta degli immigrati e dei moti xenofobi guidati dagli uomini d'onore, e m'infilo in un lungo tunnel male illuminato e dall'asfalto sconnesso, sapendo che dopo sarà peggio. Locride, piana di Rosarno e hinterland reggino so21 no tre pezzi di uno stesso puzzle che non combaciano mai, inconciliabili come tutto, quaggiù. L'entrata in città dall'autostrada è una stretta al cuore, fa venire in mente posti disastrati dell'Albania, come Valona o Saranda, non c'è una casa regolare e finita, solo spuntoni e mattoni a secco, niente numeri civici, nessun modo per rintracciare nessuno, il biglietto da visita della devastazione degli anni Ottanta, colpe dello scempio divise equamente tra democristiani e socialisti. «Ma noi non siamo solo un paese di 'ndranghetisti», mi ammonisce la Tripodi. Ha ragione. Il feudo dei Pesce e dei Bellocco, appalti e narcotraffico nella ragione sociale dei clan, è infatti anche la terra di un eroe dell'antimafia come Peppe Valarioti e di un sindaco coraggioso come Peppino Lavorato. Erano amici. Peppe era un giovane professore di lettere appassionato di archeologia quando diventò segretario della sezione del P ci. Peppino, più grande, era il suo padre politico. Peppe era una testa calda, non guardava in faccia a nessuno. Erano anni difficili, i comunisti impedivano alla 'ndrangheta il controllo delle cooperative agricole e l'abuso del territorio; i mafiosi tentarono di incendiare la sezione del partito, distrussero le auto dei militanti. I manifesti elettorali venivano capovolti per sfregio: non strappati, capovolti, a indicare più chiaramente la totale libertà d'intimidazione che consentiva un'operazione del genere, lenta e faticosa. Nel giorno dei funerali della madre di Giuseppe Pesce, il Pci di Valarioti organizzò un comizio antimafia nella piazza principale di Rosarno: e dunque si trovarono schierati da una parte il boss Pesce e i suoi piccioni e dall'altra Peppe Valario22 ti e i suoi compagni. Molti rosarnesi percepirono la forza del gesto di quel giovane segretario comunista, ne apprezzarono in silenzio il coraggio e infine scelsero: a giugno del 1980 il Pci vinse le elezioni, era tempo di cambiare. Ma la 'ndrangheta non poteva pennetterselo. E la notte della festa per la vittoria, tra il lO e 1'11 giugno, attesero Valarioti che usciva dal ristorante coi compagni e lo riempirono di piombo. Gli imputati della cosca Pesce vennero tutti assolti. Nel nome di Peppe, tuttavia, Lavorato riuscì a tenere aperta contro tutto e tutti la sezione del partito e dieci anni dopo fu eletto sindaco. Durante il suo mandato, Rosarno diventò il primo Comune d'Italia a costituirsi parte civile in un processo contro la mafia - ottenendo il risarcimento dei danni morali, materiali e di immagine provocati alla città dai mafiosi- e fu tra i primi a impiegare per la cittadinanza i beni sequestrati agli 'ndranghetisti. Se non si conosce la storia di questi uomini, non si capisce quella di una donna come Elisabetta Tripodi e forse delle donne di Calabria, che in questi anni stanno raccogliendo il testimone lasciato dai loro compagni più tenaci e coraggiosi. «È stata maggioranza economica, qui, la 'ndrangheta, e forse lo è ancora. I Pesce e i Bellocco comandano sempre, anche se negli anni Settanta e Ottanta questa era 'ndrangheta agricola, veniva dalle guardianie. Negli anni Ottanta cominciano gli appalti, il movimento terra, poi i traffici di droga». Elisabetta si è insediata a fine dicembre 2010 nel palazzo ultramoderno che Lavorato volle scegliere, in una zona obiettivamente inadatta, per precise ragioni ideologiche. 23 La vecchia casa comunale, un bel palazzo razionalista, era stato bruciato nel1984 con un incendio doloso. Lavorato decise che quella nuova dovesse affacciarsi sul rione più popolare della città, Case Nuove, dove abitano le famiglie di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciala, due tra le più famose pentite di 'ndrangheta di questi tempi recenti. Dopo due scioglimenti per mafia e dopo due anni di commissariamento, è venuto il turno di questa dirigente solida e di buonsenso. È stato possibile candidarla ed eleggerla perché da due anni e mezzo grandi operazioni delle forze dell'ordine hanno colpito a fondo la rete di relazioni delle cosche. Già dopo il primo scioglimento del consiglio comunale, nel1993, fu eletta una donna, Angela La Rosa. Ci sono momenti in cui la società arcaica e maschilista si affida alle donne e va ... in sonno. I paralleli con Maria Cannela Lanzetta sono evidenti. «La mia candidatura è stata vista come elemento di discontinuità, chi aveva subìto lo scioglimento non poteva ripresentarsi», racconta Elisabetta Tripodi. «lo ero tornata da Pavia con marito e figli, è stata la mia scommessa più difficile, il paese era molto peggiorato. Sollecitata da amici, anche dal parroco, non volevo accettare... ». Alla fine ci ha provato, con una maggioranza che va da Udc a Sei. La Tripodi è anche più politica della Lanzetta, ma la formula per governare non cambia: «Sa, io ho fatto campagna elettorale sulla normalità, le strade, i servizi, tutte le cose che la gente non ha avuto. Molti ci sostengono». Ha anche lei due figli, maschi, che non la vogliono sindaco: «l compagni hanno raccontato loro delle minacce alle feste di compleanno prima che mi dessero la scorta». Nella storia delle donne calabresi la violenza è sempre 24 uno spartiacque tra un prima e un dopo. Lo è per le pentite di mafia. Lo è stato per la Lanzetta. E così è per Elisabetta Tripodi, che ha provato la violenza di una lettera di minaccia firmata da un mammasantissima già condannato all'ergastolo, Rocco Pesce. «113 giugno 2011 avevo sgomberato le case abusive dove stavano sua madre e suo fratello. Niente di speciale, ho mandato i vigili e gli ho fatto un'ordinanza di sgombero: andava fatto dal2003, nessuno s'era mosso. Loro non capivano. 'Ce l'ha con noi?', chiedevano. Tutti dicevano che duravo al massimo sei mesi. Mi hanno sottovalutata ed è stato il mio vantaggio. Pensavano che essendo donna fossi più debole e non avrei resistito. Le istituzioni mi sono state molto vicine». «Con Maria Carmela ci siamo conosciute una settimana prima dell'incendio della sua farmacia. Istituzionalmente, a lei, non ha pensato nessuno all'inizio. La mia vicenda invece è cominciata due mesi dopo, avevo i riflettori accesi sul paese per la rivolta degli immigrati, ed è stata la mia fortuna. Sono sempre riuscita a creare da situazioni negative situazioni positive». Il25 agosto 20 l l le arrivano due paginette scritte a mano in una busta gialla, a mezzo raccomandata. La busta -dettaglio non irrilevante- è protocollata dal Comune di Rosarno. La Procura distrettuale di Reggio Calabria stabilisce subito «l'effettività delle minacce con cui l'articolazione della 'ndrangheta denominata cosca Pesce tenta di esercitare la propria forza intimidatrice nei confronti delle Istituzioni Pubbliche, per cercare di riaffermare la capacità 25 di controllo del 'suo territorio', specie in momenti in cui questo risulta contrastato dalla decisa azione delle stesse Istituzioni». In parole semplici, per i pm antimafia quelle righe non contengono i vaneggiamenti d'un matto ma un pericolo reale. Rocco Pesce, il mittente, è figlio del capomafia di Rosarno Giuseppe, morto in carcere a Messina. È detto il Pirata, perché ha l'occhio destro coperto da una benda e soprattutto perché è sempre andato per le spicce anche nelle situazioni più complicate. A Opera, nel Milanese, sta scontando dal1984 la galera a vita per omicidio, mafia e narcotraffico, c nonostante questo è finito nell'inchiesta 'Alllnside' chiusa dai carabinieri nel 2010, a dimostrare che anche da una cella può esercitare il suo comando. I passaggi fondamentali del lungo testo spedito alla Tripodi andrebbero letti nelle scuole come esempio di lessico mafioso, ambiguo, allusivo, letale. « ... sono con la presente per esprimere tutto il mio rammarico e disappunto in relazione al fatto che il Comune di Rosarno si sia costituito parte civile nel procedimento nr. 4302/6-3565/7 a carico mio e della mia famiglia, dato che da parte nostra non vi è stata alcuna azione penalizzante a danno delle Istituzioni, dei commercianti o degli abitanti nel Comune di Rosarno da lei rappresentato»; « ... ritengo di non aver recato alcun disturbo al quotidiano cittadino e tantomeno inquinato l'aria che respirate»; « ... la cosa che più mi ha sconcertato, dato la stima che io e la mia famiglia abbiamo sempre manifestato nei suoi confronti, soprattutto il giorno delle elezioni amministrative dove lei è stata eletta per la sua serietà e personalità che 26 gode di ottima etica professionale, è stata la sua esternazione, poi pubblicata sul giornale 'Calabria Ora', manifestante giudizi affrettati sicuramente influenzati da pregiudizi mediatici ... »; « ... lei stessa a maggior ragione data la sua carica amministrativa nel Comune, sa benissimo che la nostra famiglia è vittima di persecuzioni mediatiche per reati presunti e giudizi espletati sulla base del libero convincimento»; [la cosa che più mi ha sconcertato ... è stata ... ] «oltre al sequestro e sgombero di beni immobili di prima residenza, sempre nel Comune di Rosarno, e non per la loro dubbia provenienza, ma in quanto considerati fabbricati non conformi alle normative urbanistiche o per mancanza di concessioni edilizie, quando lei sa benissimo sulla base delle informazioni tecniche in materia di urbanistica che, statistiche alla mano, almeno il 50% dei fabbricati attualmente esistenti post 1967 nel Comune di Rosarno sono abusivi e a me non sembra che siano stati presi gli stessi provvedimenti nei loro confronti, non perché io lo desideri ma solamente per sottolineare la persecuzione a noi riservata»; «questo che le scrivo in modi ed enfasi del tutto confidenziale nasce per motivi che forse lei non sa in quanto molto giovane, non tanto nel merito, ma nella mia franchezza nell'esporre in modo pratico, dato che io e la mia famiglia eravamo soliti godere della reciproca compagnia con i suoi più stretti famigliari, in occasione dei consueti aperitivi in Corso Garibaldi, dove a memoria ricordo piacevoli e cordiali scambi costruttivi di opinioni, dove si argomentava questioni interessanti della nostra città ... mi viene in mente un detto senza alcuna allusione, che ogni 27 persona ha i propri scheletri nell'armadio, e converrà con me che l'estremo perbenismo è solo ipocrisia, e sono sicuro che Ici è una persona molto intelligente per poter cadere in simili bassezze»; «vorrei che sappia che sono in galera da più di vent'anni innocentemente, ma il problema non è solo questo, nel mio stato detentivo la cosa che più mi disturba e mi fa soffrire è di quello che vengo informato, e nello specifico l'amministrazione comunale ha tra le sue priorità il benessere degli extracomunitari clandestini, anziché i problemi dei miei familiari già sofferenti e comunque dei veri cittadini di Rosarno ... forse consentendomi la provocazione perché non godono di sovvenzioni della Comunità Europea a differenza dei clandestini?». Queste righe spaventano e tentano di coinvolgere, mostrando insieme la faccia feroce e quella ammiccante della mafia. ll messaggio è sempre lo stesso, quello che gli uomini d'onore mandano ai servitori dello Stato prima di dar fiato alle lupare: «potremmo essere amici, andar d'accordo, perché ti ostini a starmi contro?» Carlo Alberto Dalla Chiesa spiegava che il vero mafioso, prima di ammazzarti, ti dice frasi come «paternamente, fraternamente ti consiglio ... ». «Questa lettera non era farina del suo sacco», mi dice adesso la Tripodi, pratica. «Era piena di riferimenti tecnici». Qualcuno in città stava dietro al capomafia, qualcuno che aveva - e ha - in gran fastidio il lavoro della sindaca. «Lui s'è preso altri cinque anni di galera con l'abbreviato e l'hanno mandato al41 bis. Io ho avuto grandissimo affetto, sostegno, la gente mi diceva 'Vai avanti, resisti' ... Io vado avanti, sì, ma non mi sento coraggiosa. Sento il dovere 28 di portare avanti una chance per il mio Paese, ho sempre fatto la mia professione, la segretaria comunale, sempre al servizio dello Stato». «Dicono che ho la scorta, che faccio venire le tv per fare carriera politica, il maschilismo politico è ovunque. Ho fatto solo 7 mesi da sindaco libero, poi con la scorta la mia vita è cambiata tantissimo. Però ho visto tante bambine affascinate dall'idea del sindaco-donna, che dicevano alle mamme che bisogna votare una donna. Noi abbiamo mandato in consiglio comunale tredici persone che non avevano mai fatto politica e cinque donne. Ancora adesso ho attorno questo sostegno femminile, sono appena stata in frazione Bosco e c'erano le signore anziane che mi dicevano 'Resistete! Resistete!'». Resistere è una parola, poi c'è la famiglia, la paura di ogni giorno. Come la Lanzetta, anche Elisabetta Tripodi ha alle spalle un marito capace di capire, sostenere, consigliare. Un compagno vero. «Con Silvio, che fa l'insegnante, stiamo insieme da bambini. E non sarebbe stato possibile niente di tutto questo senza di lui. Io vengo da una famiglia di donne, siamo tre sorelle. Mia madre aveva avuto un esaurimento, e mi ha detto: 'Mi darai il colpo finale'. Poi, miracolo, l'ha accettata, ha accettato la mia vita, questa scelta». Ma al fondo delle scelte di questa primavera delle donne calabresi ci sono loro, i figli. «Il mio piccolo, Emanuele, mi ha detto: 'Mamma, quando sono grande, ricordami di non fare il sindaco'. Eppure io mi sono candidata per loro, per i miei figli. E in questo, 29 sa?, c'è un filo che mi unisce ad alcune donne di questo paese, donne il cui nome è finito sui giornali». Già, le due ragazze di Case Nuove, il rione dove Peppi" no Lavorato volle che si affacciasse la nuova sede municipale, un po' per dire «non abbiamo paura di voi», un po' per lasciare aperta la porta della vita civile ai ragazzi e alle ragazze delle famiglie d'onore. Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola si sono infilate in quella porta, hanno infranto codici secolari, sfidato le leggi arcaiche delle loro famiglie e dei loro clan, hanno scelto lo Stato. Elisabetta Tripodi ne parla con rispetto, quasi con commozione: «La Pesce viene arrestata nel2010, ha trentuno anni. Non regge il carcere. Questi hanno visto solo carcere e disgrazie, hanno un destino segnato. Sicché, quello che fa, lo fa per sottrarre il figlio maschio a quel destino ... Tutte noi facciamo qualcosa per i nostri figli, quaggiù: aspettando l'Italia, per cambiare il loro destino di italiani». «Anche la Cacciala lo fa, fa quello che può. Sparisce a maggio 2011. Lei sì, la conoscevo di vista. Ho scoperto che sua figlia va al liceo di mio figlio. È morta due o tre giorni prima che mi arrivasse la lettera di Rocco Pesce». «Sì, io ci spero che la rivolta delle donne possa distruggere i clan. In Calabria è fortissimo il ruolo della donna e, nei valori che si trasmettono ai figli, tutto passa attraverso le mamme. Queste due donne sono cugine, si conoscevano, sono andate a scuola insieme, l'una ha influenzato l'altra. Certo la morte di Maria Concetta è un monito terribile per le altre, hanno punito lei così per spaventare tutte queste ragazze che si sposano bambine, con regole che non sono più al passo coi tempi, rimangono vedove bianche coi malO riti in carcere, loro chiedono il divorzio ma non è ammesso, chi tradisce paga col sangue». Scende la sera nel brutto palazzone accanto al cimitero. I ragazzi della scorta cominciano a innervosirsi, meglio non muoversi troppo tardi. Fuori, lo stradone che porta al cuore di Case Nuove, gli sguardi ostili. «Questo è un posto dove contano gli sguardi, sì. E gli ambienti, anche se ora il danaro mischia tutto. Solo sottraendo quanti più figli possibile di 'ndranghetisti, nella 'ndrangheta cambierà qualcosa». Cercando a fatica una strada tra vicoli senza nome, nella città dove si sono mischiati i destini di Valarioti e dei Pesce, degli operai comunisti e dei narcotrafficanti dei clan, s'intuisce infine il senso di questa primavera di donne, che è una primavera di mamme. Giovani mamme calabresi che vogliono raccontare ai figli una storia mai raccontata prima. Maria Concetta Cacciala scrisse alla propria madre: «Scusami, mi avete dato tutto, però questa è una prigione. Io ti ho lasciato i figli, voglio per loro una vita diversa». E camminò da sola verso la morte. Quattro «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto. Mamma, tu sei mamma e solo tu puoi capire ... so il dolore che ti sto provocando ... non voglio !asciarti senza dirti niente». È un giorno di primavera, maggio 2011, quando Maria Concetta Cacciala scrive su un foglio a quadretti e con la mano tremante queste parole alla madre Anna. Sembra il messaggio di una suicida. Ma «Cetta», 31 anni, tre figli avuti da ragazzina, non sta andando a morire, non ancora. Anzi, sogna di vivere una vita nuova, in questa che sembra davvero la primavera delle donne di Calabria. Nelle orecchie, come immagina Elisabetta Tripodi, deve avere tanti fitti conciliaboli con sua cugina Giuseppina Pesce, i consigli, le confessioni, gli incoraggiamenti: pochi mesi prima di lei, Giusy è passata dall'altra parte, ha scelto lo Stato, ha fatto arrestare madre e sorella, ha inguaiato il cugino capoclan, Francesco Pesce 'U' Testuni'. Adesso anche Cetta ha deciso di uscire dalla famiglia, dalle leggi dell'onorata società nella cui obbedienza è stata allevata senza deroghe possibili perché suo padre Michele è cognato di Gregorio Bellocco, e il binomio Pesce-Bellacco in Calabria vuoi dire potere, mafia, soldi, sangue. 33 Lo smarrimento e insieme la determinazione che dovevano riempire l'anima di Antigone nel resistere all'imperio di Creante, li vedi negli occhi delle due cugine, nelle foto che di loro ci sono rimaste. Ed è un'immagine su cui tutti dobbiamo riflettere. Quel giorno di maggio, dunque, Cetta è già sotto protezione da qualche tempo e questo, per una ragazza di Case Nuove, il rione più 'ndranghetista di Rosarno, è anche un po' come morire, così si spiega il tormentato addio alla madre. Case Nuove è uno spaccato rivelatore. Base dei clan storici, centrale dello spaccio di eroina e cocaina, ora pullula di furgoni con targa del Nord Italia (Bergamo su tutte) affollati da bulgari e rumeni, i raccoglitori dell'Est che i mafiosi hanno arruolato per sostituire gli africani, scacciati dopo gli scontri. Col tempo i braccianti dell'Est si sono portati le famiglie, le stamberghe sfitte e cadenti del rione vanno via a 200-250 euro in nero. La 'ndrangheta che - come racconta Peppino Lavorato - «ha allontanato dai paesi i commercianti che pagavano il prodotto a un prezzo remunerativo per rimanere sola acquirente ed imporre il proprio basso prezzo», ora accetta che la composizione sociale della zona muti rapidamente, attorno ai bunker dell'antica 'nobiltà' mafiosa, dove vivono, un po' complici e un po' prigioniere, le ragazze della nuova generazione, figlie e nipoti dei boss. Cresciute insieme, quasi coetanee, le cugine Cetta Cacciala e Giusy Pesce sono in fondo l'altra faccia della Lanzetta e della Tripodi. L'altra metà della mela. «Noi abbiamo avuto accanto fidanzati e mariti solidali, queste ragazze sono sempre state sole. Vorrebbero magari 34 liberarsi da mariti violenti e oppressivi, ma nelle storie di mafia non ci arrivi al divorzio, ti ammazzano prima», mi dice Maria Carmela Lanzetta. La sindaca di Monasterace ha intuito, assieme a Elisabetta Tripodi, che un ponte va costruito, e in fretta, tra le donne della borghesia calabrese e le donne della malasocietà, prima che questo spiraglio si chiuda, prima che la paura e le punizioni esemplari inflitte dai maschi dei clan tornino a serrare le bocche. Così ha incontrato Marisa, la sorella di Lea Garofalo, un'altra pentita che ha fatto tremare i parenti mafiosi ed è stata punita in modo esemplare, strappata alla figlia e sciolta nell'acido. «Deve assolutamente parlarle», mi dice, «capirà come si possa avere il destino segnato qui da noi». Anche Cetta Cacciola ha un destino segnato, sin da bambina. Ha appena tredici anni quando fa la fuitina, se ne scappa col rampollo di un'altra famiglia di rispetto, Salvatore Figliuzzi. Glielo impongono per marito. A quindici anni lei è già incinta di Alfonso, il primogenito. Presto diventa una vedova bianca, Salvatore è in carcere da otto anni quando Cetta s'innamora di un altro uomo e decide di cambiare strada. «Questa è una storia triste», scrive il gip che si occupa dell'indagine sulla sua fine, «perché si conclude con la morte di una giovane donna che aveva osato ribellarsi alle regole della famiglia, alle continue vessazioni, e aveva cercato la libertà, fisica e soprattutto morale, che le era sempre stata limitata e negli ultimi anni addirittura preclusa». Prigioniera in casa, questa deve essere stata la vita di Cetta fino alla decisione di scappare. 35 Con le sue dichiarazioni ai magistrati, tra aprile e luglio del2011, fa nascere l'inchiesta Califfo, undici ordini d'arresto: inguaia ulteriormente anche U' Testuni, Francesco Pesce, il boss emergente di cui, in quel periodo, sta parlando pure Giusy. Nella loro Rosarno sono tutti parenti e complici, ogni frase manda in galera un congiunto. Le confessioni delle due cugine convergono, si rafforzano a vicenda. E le loro storie si intrecciano in modo in apparenza inestricabile. Giusy descrive la successione al vertice del clan, l'ascesa di Francesco: «Ha dettagliatamente indicato attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa», scrivono i pm che chiedono dieci arresti sulla base delle sue dichiarazioni. Del resto a lei toccava il compito di riciclare i soldi; a differenza di Cetta la sua scelta matura in galera, per la sofferenza di non vedere più i propri figli. Giusy fa scoprire tre bunker, di cui uno nella casa di U' Testuni, e racconta i dettagli del calvario della prima donna coraggiosa di famiglia, Annunziata, svanita per «lupara bianca» nel1981 perché s'era innamorata di un carabiniere di Rosarno. Nessuno ne ha mai parlato, a parte il controverso pentito Pino Scriva nel 1983. È <da più dimenticata dei dimenticati», scrivono Danilo Chirico e Alessio Magro nel loro saggio sulle vittime delle cosche calabresi. La fece sparire sottoterra il fratello, Antonio, racconta Giusy. E aggiunge: «Finché sarà libero il mio, di fratello, io resterò condannata a morte, perché è lui che deve eseguire la sentenza per il mio tradimento». Già, l'infame codice 'ndranghetista impone in Calabria che i consanguinei lavino l'onta di un tradimento. Ma prima che la sentenza scatti, il clan tenta di ottenere la ri36 trattazione. Giusy e Cetta, in due località separate e sotto protezione, vengono sottoposte quasi nello stesso periodo allo stesso tormento. I figli sono il loro punto debole. «lo potrei cavarmela con qualche anno di carcere, ma nessuno libererebbe i miei figli da un destino già segnato», racconta Giusy Pesce nel primo interrogatorio. «Quando il mio bambino una volta ha detto che da grande gli sarebbe piaciuto fare il carabiniere, suo zio l'ha preso a botte, poi gli ha promesso che una pistola gliel'avrebbe regalata lui ... Dunque lo faccio per i miei figli. Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile e comunque gli metteranno al più presto una pistola in mano; le due figlie invece dovranno sposare uomini di 'ndrangheta, e saranno costrette a seguirli. Io voglio provare a costruire un futuro diverso per loro». «Ti affido i miei figli», scrive alla madre Cetta Cacciola, «ma di una cosa ti supplico. A loro devi dare una vita migliore di quella che ho avuto io ... dagli quello che non hai dato a me. Abbracciali come hai sempre fatto e parlagli di me». Poi, il riferimento amaro e timoroso ai maschi di famiglia, padre, fratello, marito, quasi una premonizione: «Non !asciarli a loro, non son degni di loro ... mamma addio e perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell'Onore che ha la famiglia. Per questo avete perso una figlia. Addio, ti vorrò sempre bene». n 18luglio 2011, nel mezzo dell'estate in cui si decide il destino delle due cugine di Rosarno, la figlia sedicenne scrive a Giusy: «Mi dispiace, ma ce l'ho con te, mamma, 37 sono arrabbiata per quello che stai facendo. Questa è la tua scelta e la rispetto, ma sappi che lo stai facendo per te, non per noi che ci fai solo del male». Dalla lettera trasuda puro veleno: «Avrei voluto stare con te perché ti amo e perché sei la mia mamma, però non ce la faccio ... Non sono d'accordo con te, perché stai sputando nel piatto dove hai mangiato, senza senso». La ragazzina scrive sotto dettatura, «sputare nel piatto dove hai mangiato» non è una frase sua, Giusy lo capisce bene. E, dopo una prima ritrattazione, tiene duro, torna a collaborare coi magistrati, anche se suocero e cognati premono, le offrono di pagare tutte le spese legali, di provvedere a tutte le sue necessità. È una trappola, probabilmente. Come quella in cui cadde Lea Garofalo. E in cui sta per cadere Cetta Cacciala. Giusy lo intuisce, ed è la sua fortuna: «Prima o poi sarei stata giustiziata, diciamo, per l'errore che ho fatto», racconta ai magistrati. E infine la figlia torna a scriverle, stavolta senza nessuno che le forzi la mano: «lo senza di te non ce la farò mai ... A me quello che pensa o dice la gente non m'importa, io penso con la mia testa e decido io. Nella lettera precedente ti avevo detto che non venivo, però non era una mia scelta>>. La figlia del boss Salvatore Pesce si salva così. Non vedremo più sue foto perché ha una nuova vita, una nuova identità, e i figli stanno con lei. Cetta non ha la stessa forza della cugina. E su di lei il trattamento è persino più pesante. Il padre Michele le fa ascoltare al telefono il pianto della sua bambina più piccola, sei anni appena: «Ma la senti tua figlia che sta facendo?». «Dille di stare tranquilla, papà, ti prego!». «Ma che tranquilla, Cetta, questa qua sta morendo!». 38 Quelle lacrime le stracciano l'anima, Maria Concetta Cacciala cede. Anche un'altra sua cugina, Rosa Ferraro, sta cominciando a collaborare, e al processo 'AH Inside' racconta che il padre, per vendicare la famiglia dal tradimento, ha deciso che sia suo fratello ad ucciderla. La grande fratellanza mafiosa dei Pesce e dei Bellocce non può permettersi di perdere altri componenti, soprattutto deve mandare un messaggio chiaro a chi volesse seguire la strada delle tre cugine 'rinnegate'. Ed è Cetta, certo la più debole, a farne le spese. Torna indietro e viene praticamente sequestrata in casa, pestata dal fratello Giuseppe fino a spezzarle le costole. Siamo a Ferragosto 2011 e il suo destino sta per compiersi. Su un nastro resta la sua voce malferma mentre registra la ritrattazione che la famiglia le chiede: «Mettevo sempre [in mezzo] mio padre e mio fratello, anche se non c'erano, solo per rabbia ... ora sono a casa mia e ho riacquistato la serenità». Peccato che resti incisa anche la voce di un'altra donna che, alle sue spalle, le suggerisce cosa dire: « ... e vorrei essere lasciata in pace nel futuro». Cetta ha rm ultimo sussulto, prova di nuovo a sfuggire al meccanismo che la sta stritolando. Chiama l'uomo di cui è segretamente iill1amorata: «.Mi sento in gabbia». Implora la madre di liberarla, ma quella le urla contro: «No, Cetta, no, assolutamente». Telefona infme ai carabinieri: «Mandate qualcuno voi, tipo come se uno mi arresta, tipo una cosa così». I militari sono pronti a intervenire, ma lei vacilla di nuovo, e ancora per la sua bambina: <Jvlia figlia sta male, aspetto due o tre giorni e vi richiamo». Non ce li ha, tre giorni. Qurantotto ore dopo, beve - o le fanno bere - mezza bottiglia di acido muriatico. Una morte orrenda e rituale, 39 perché il ricorso all'acido, che tutto cancella e distrugge, fa parte - come vedremo - della simbologia- usata dalla 'ndrangheta: il tradimento così va cancellato. La giovane vita di Cetta, i suoi sogni brevi e segreti: tutto viene corroso e spazzato via. Eccetto il piccolo seme di giustizia che il suo pentimento ha lasciato nella famiglia: padre, madre e fratello vengono arrestati. In queste terre le mamme cantano ai bimbi la Ninnananna du malandn'neddu: «Fatti grande l cresci presto l /igghiuzzu l l'onun· da /amigghia l manteniri l a t oi padn· l vendican'». Una nenia di morte già in culla, che vale un destino già scritto. Se i figli di Cetta avranno un futuro migliore lo dovranno al sacrificio di quella loro mamma così diversa. Cinque ll paradosso di Monasterace sta in poche centinaia di metri di marciapiede. Nel piazzale di fronte alla farmacia di Maria Carmela Lanzetta, sulla statale Ionica, staziona in permanenza- dal secondo attentato- una pattuglia di carabinieri o della polizia. Ai tavolini del bar accanto alla serranda della farmacia, ancora sforacchiata dai mafiosi, è invece ospite quasi fisso Cosimo Ruga. È uscito da lunghi anni di galera: secondo i faldoni giudiziari, guidava con suo fratello Andrea una 'ndrina egemone nella zona e specializzata in sequestri di persona; ora, passata la sessantina e chiusi i conti con i processi, se ne sta tranquillo a godersi gli amici ritrovati, arriva con la sua auto elettrica azzurra, siede a sorseggiare caffè, sfoglia pigramente un giornale, si guarda attorno incuriosito, forse infastidito, dalle facce forestiere come la mia. Suo fratello Andrea è morto a gennaio 2011: Ji infarto, sembrava, ma poi è emersa l'ipotesi che lo abbiano soffocato; suo nipote Giuseppe Cosimo, figlio di Andrea, è stato arrestato ad appena 28 anni per narcotraffico. li paradosso di Monasterace, che è poi un piccolo paradosso nazionale, sta in questa convivenza forzata, le divise dell'Arma e gli antichi destini del paese malavitoso, tutti raccolti sotto il portone di Maria Carmela Lanzetta. 41 «Qui la 'ndrangheta nemmeno esisteva», mi racconta lei sospirando. È stata importata da San Luca, feudo dei Nirta. I Nirta sono tra i pochi 'ndranghetisti cui è attribuita la dote di «Vangelo», scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in Fratelli di sangue: «Personaggi eccelsi, conoscitori dei diritti e dei doveri dell'onorata società con mansioni decisionali al massimo livello». Cosimo Ruga e Maria Carmela sono quasi coetanei. Monasterace è cambiata molto, la distanza tra il bene e il male s'è fatta più difficile da vedere, i contorni più sfumati. «Con la moglie ho sempre avuto un ottimo rapporto personale», mi dice la sindaca. «Lei ha sempre avuto tanti problemi, i figli da crescere da sola, una sorella malata, io l'ho sempre guardata da donna che doveva subire una condizione difficile. Come donna. Per il resto, io dico o di qua o di là. Con me in quanto sindaco questa gente non ha nemmeno modo di parlare, ci parlo solo da dietro il banco della farmacia, questa è la ricetta e questa la medicina. In Comune mai, un minuto dopo sarei andata dai carabinieri, lo sapevano». Non è difficile capire perché la sindaca Lanzetta sia diventata indigesta a tanta parte dei suoi concittadini. Allergica al perdonismo su cui è fondata buona parte della storia italica pubblica e privata, Maria Carmela è una cristiana anomala: «Mi piace l'impegno civile del cristiano, la solidarietà. Non accetto il perdono comunque sia. Io ti faccio un torto feroce e poi chiedo perdono ... facile pentirsi il giorno dopo, troppo facile. No, così si passa sopra a tutto, si accetta di tutto. Il riscatto viene dall'impegno 42 civile, dal rispetto della legge italiana e della Costituzione, su questo non ci sono santi. Chi ha sbagliato deve riscattarsi solo e soltanto con l'espiazione della pena, il che non significa andare per forza in galera, molte cose non sono penali ma stanno nei rapporti tra le persone, il chiedere scusa davvero significa un impegno quotidiano che ti porta a dimostrare, seriamente, che in quell'azione hai sbagliato: altrimenti ciascuno si piglia tutti gli sfizi e poi il giorno dopo si pente. Non si educano i giovani così». Lei, l'hanno educata diversamente, questo si capisce. In una famiglia piena di donne indipendenti e dal carattere forte, che girava tuttavia attorno a un uomo, coraggioso e poco incline ai compromessi: suo padre, morto nel 2007, medico condotto a Bivongi. «lo parlo di etica ed estetica», mi dice dunque Maria Carmela, un po' fuori parte, nel salotto di casa, sopra la farmacia, tra scaffali colmi di libri e carte da parati che cadono. Casa di famiglia. Dei genitori. «Casa grande, i miei ragazzi non hanno patito a stare qua, anzi, avere la nonna a disposizione è una cosa bellissrma». La prima donna di ferro qui è proprio la vecchia Olga, minuscola, segaligna, determinata. Quella che per prima le ha dato il coraggio di resistere agli attentati. Si affaccia, la matriarca che fondò la farmacia Mazzone nel1954, e mi dice: «Qua si sta benissimo», come a volermi convincere di una realtà che pure dovrebbe balzarmi agli occhi. Olga ha studiato fuori, cosa abbastanza rivoluzionaria per la sua generazione, la famiglia Mazzone era di larghe vedute: laurea in farmacia a Bologna, poi l'incontro con quel giovane 43 medico conterraneo che aveva finito gli studi a Modena: Vincenzo, il papà della sindaca Lanzetta. «l miei sono stati rigorosi, seri ... normali». A Mammola, il paese d'origine, comandavano le donne di casa. Tutte le domeniche una festa, «con tutte le mie zie femmine, la famiglia di mia madre, donne meravigliose, veramente. La sorella grande di mia madre aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri, era piccolina come me: non aveva potuto studiare ma si era impegnata nell'Azione cattolica, col marito badava al frantoio, al mulino, a tutte le cose di casa. Da mia zia Palmina c'era una bella casa grande, famiglia molto cattolica, uno zio sacerdote tra i commensali fissi. Zia era molto accogliente: da Monasterace le portavamo le arance, e il giorno dopo non ce n'erano più perché le regalava a tutto il paese». Allora c'erano poche famiglie borghesi. «Nemmeno noi lo eravamo, i miei erano figli di contadini, anche se nella famiglia di mia madre c'era già qualche medico, qualche avvocato». La professoressa delle medie, a Bivongi, le dava da fare le ricerche, «perché tu hai a casa l'enciclopedia». E già quello era un piccolo segno di promozione sociale, in una classe piena di figli di emigranti tornati dall'America coi sogni della giovinezza spiegazzati nella valigia. Vincenzo Lanzetta, il padre di Maria Carmela, era un indignato ante litteram, molto prima che l'indignazione fosse una scoperta letteraria di Roth e una moda mediatica ai tempi della crisi del capitalismo. «Era molto chiuso di carattere ma molto, molto per bene: la cosa che mi ha sempre colpito è un'onestà profondissima 44 e diciamo, sì, questa forma di indignazione per ogni fenomeno di corruzione. A volte si sentiva di grandi scandali italiani oppure di scandali calabresi, lui si indignava in una maniera esagerata, però non ha mai fatto politica. Era permanentemente arrabbiato, mio padre. Passò a votare dalla Dc al P ci. Ha votato Pci per la questione morale e per Berlinguer. Per il famosissimo discorso delle mani pulite, quello dell981». Nel mondo della piccola Maria Carmela, papà Vincenzo è un monumento difficile persino da contemplare. «È stato fondamentale per me, ma non gli potevo parlare, avevamo un rapporto conflittuale». Quel mondo si incrina quando Vincenzo ha un ictus; lei, appena quattordicenne, aspetta come sempre che passi a prenderla all'uscita di scuola, a Bivongi, dove lui fa il medico condotto. Quell'assenza sarà un tarlo che scava, anche se l'alleanza delle donne, siano zie, compagne di scuola o colleghe politiche diventerà presto una costante da quel momento. Liceo a Locri, si manifesta per il Vietnam. «E adesso mi viene da ridere, pensando che protestavamo per un posto così lontano e non per la nostra Calabria ... non che il Vietnam non fosse importante, ma insomma». Primo e unico discorso in pubblico, a quindici anni. «Ero con la mia amica Mariannina La Cava, figlia di Mario, lo scrittore. Facemmo una manifestazione chiedendo il salone e il palco dei domenicani e io feci un intervento contro le scuole cattoliche». Ride. «Eppure, ripeto, non potrei dire di non essere cattolica da quando è venuto il vescovo Bregantini nella Locride. Come si fa a non essere cristiani? Non è possibile». 45 Ma quella sua testa calda, tutta compressa dalla timidezza, è un detonatore naturale: «A quindici anni non vedi le sfaccettature, sbagliavo. In alcune zone dove lo Stato manca può darsi che le scuole cattoliche sopperiscano bene. A Pazzano- appena dodici chilometri da qui- c'è un'esperienza bellissima: le suore dedicano al ricamo e al lavoro femminile molta della loro attenzione, e così tante donne si sono avvicinate e hanno creato una cooperativa. Molte adesso mi dicono: io che sono di Plati, di San Luca, come facevo a studiare se non andavo in collegio? Era l'unica possibilità di studiare per molte ragazze... E però mi incuriosiva una differenza: perché i nostri preti sono colti e le suore no? Mi arrabbiavo tantissimo da ragazza. Poi a Bologna, dove sono andata a studiare Farmacia all'università, c'erano le suore Mantellate nel convitto dove vivevo, quelle erano colte. Mi chiedevo perché alle suore non venisse data la stessa possibilità di studiare storia, filosofia, teologia. Le donne dovevano subire. Sempre. Se mi chiede cosa mi interessa nella vita, rispondo: un buon caffè e lo studio». Femminista? «No, non ne avevo bisogno. Sono già nata da una mamma che aveva studiato, con una nonna che mi diceva sempre studia, emancipati, per essere tranquilla qualsiasi cosa accada. Le ho sempre appoggiate, ma non ho avuto bisogno di fare le battaglie femministe». Dopo lunghi anni al Nord, con Giovanni che insegna nelle scuole della Lombardia e lei che si divide tra la casa da sposina e la farmacia a Monasterace con mamma Olga, ecco la decisione definitiva: si torna indietro. «Era impossibile stare lontano dalla nostra terra». Scelta difficile. Già Bologna l'aveva cambiata. «lo mi 46 sento totalmente una persona del Sud, ma ci sono state esperienze di lavoro e sindacali, di studio e di diritti civili in quegli anni che solo al Centro-Nord venivano portate avanti con ricchezza culturale». Al collegio delle Mantellate, Maria Carmela si sente libera come mai lo è stata, la Bologna delle osterie di fuori porta la interessa pochissimo, sgobba come una matta sui libri. Poi l'incontro con Giovanni, gli anni a Milano, persino un'esperienza teatrale, alla Com una Baires: «Ma io guardavo e ascoltavo soltanto, ero troppo timida per recitare». La scelta di tornare la condivide con Giovanni, che è uomo silenzioso ma granitico: «Non ha mai chinato la testa, è una bella persona». A Monasterace, s'inventano un nuovo pezzo di vita. Nei primi anni Novanta, i venti del cambiamento che spazzano l'Italia sembrano sfiorare anche la Calabria. Con un gruppo di donne, Maria Carmela crea l'associazione 'Antica Kaulon', «organizziamo concerti, la festa dei fiori prodotti nelle serre. Avevo in testa il modello di Pescia in Toscana e dicevo: se loro hanno creato un grande mercato di fiori, che ci manca a noi per portare avanti un discorso culturale legato al lavoro? Ci mancava tutto!», ride, leggera. «Però abbiamo fatto bellissime cose». Cinque o sei donne: quello è il primo nucleo delle sostenitrici di Maria Carmela a Monasterace. Con quel gruppo, nasce la Proloco. Pare una cosa banale, ma qui non lo è affatto. «Ci sono state lotte incredibili, ricorsi al Tar. Ci dicevano: che volete, voi quattro femminucce?». Lentamente, qualcosa va cambiando in municipio. Il regno di Cesare 47 De Leo, sindaco socialista dal1975, sta crollando. La moglie del nuovo sindaco, Comito, è tra 'le femminucce' che lavorano con la Lanzetta. «Essendo 'quattro femminucce' abbiamo sgobbato come dannate per dimostrare che eravamo veramente un' associazione turistica e culturale e non un gruppo manovrato politicamente. Abbiamo avuto un successo strepitoso a Monasterace e fuori. Abbiamo portato Elisabetta Pozzi a fare la Medea di Christa Wolf in piazza, Mariano Rigillo a fare Le Troiane, pure Michele Placido l'ultimo anno, Famela Villoresi ha fatto una Medea che ancora se la ricordano, nel campo di calcio della chiesa con circa 700 spettatori. Poi facevamo il Carnevale, il concerto di Natale, le piccole sagre, perché non è che o si fa teatro o morte con la puzza sotto il naso ... La mia gioia è stata quando abbiamo avuto un articolo sulla rivista dell' Alitalia. Per i soldi un po' ci aiutava il Comune e un po' me li andavo a cercare in Regione: così ho combattuto anche la mia timidezza. Abbiamo dimostrato che si voleva fare di questo lembo di Calabria un posto dove si poteva vivere bene avendo interessi culturali come in ogni altro posto d 'Italia. Per me è essenziale essere uguali. E abbiamo dimostrato eli non essere politicizzati». Usa questa parola come un insulto. Glielo faccio notare. «Vede, qui le accuse sono sempre state feroci», mi dice. Non capisco. «Qui c'era la sezione del Partito comunista che poi si è dileguata nel nulla. Quando si è creata nella Locride la sezione dei Ds io ho aderito ... ma era una cosa mia personale, che non ho mai replicato nella vita di fuo48 ri», mormora guardando oltre il balcone, verso il piazzale dell'ultimo attentato. «No, io non sono portata per il palcoscenico. Mi è toccato di fare il sindaco senza che lo scegliessi. Io avrei fa tto tanto volentieri l'assessore alla cultura. So che mi sta toccando un ruolo di testimoniai, ma non credo di esserci tagliata. Io faccio pure un sacco di errori e prendo un sacco di botte. Sono consapevole di essere un pachino incosciente, so di non sapere, non riesco a programmarmi in questo campo ... ». Ancora una volta mi viene il dubbio che la sindaca di Monasterace mi stia un po' prendendo in giro, che giochi a fare l'ingenua. Lei quasi s'arrabbia: «lo ho sempre rispetto di tutti, per i nostri parlamentari ho il massimo rispetto, poi quello che non mi piace lo critico: io non sono assolutamente antipolitica. Anzi, mi sarebbe molto piaciuto avere alle spalle una bella scuola di partito. Posso mai illudermi di fare il politico se non ho mai frequentato una scuola di politica? No. Per questo sono come sono. Io non ho la preparazione culturale e politica per poter fare altro da quello che faccio. Ci gioco? No. Alice nel paese delle meraviglie? No. Veramente io non ho la preparazione per fare il deputato. La mia idea di deputato è altra. È la Biodi. Bersani. Violante. D' Alema, puoi non essere d'accordo con lui, ma è molto fine. Veltroni mi è sempre piaciuto moltissimo. Come sindaco di Roma è stato meraviglioso. Anna Bonfriseo, senatrice del Pdl, di Verona, ci sta molto vicina, senza alcun tornaconto elettorale, non è certo il suo collegio, questo. E nel governo ho un'ammirazione particolare per la Cancellieri e la Fornero. Vede, io credo 49 che l'Italia sia veramente una. Sono felice se a Milano o a Torino le cose vanno bene. Quando si vota a Venezia me la sento come se si votasse a Monasterace. Siamo noi, non importa se è mille chilometri più in là». La politica un po' la tira dentro per i piedi, insomma. Con le donne, le 'sue' donne, che le ripetono tra il 2004 e il 2005 quella specie di litania in dialetto: «Signora, vui 'ndaviti 'u fati 'u sindaco». Monasterace ha problemi enormi e irrisolti. Alle elezio~ ni de1200 l si era presentata una lista unica. «Sì, come nel fascismo. Io votai scheda bianca, però votai, non sono una ribelle, ci furono 600 schede bianche». Capolista della lista unica era Giuseppe Bonazza, già vicesindaco con De Leo. Molti vengono dal vecchio Partito socialista. Le condizioni economiche del Comune sono precarie, c'è da gestire il dissesto. Lo scioglimento per decreto prefettizio arriva ad aggravare lUla situazione già complicatissima. «Con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose in paese si creò un'aria pesante. Nessuno li ha condannati, non ci fu dibattito pubblico, solo silenzio, silenzio assoluto. La tomba. È ignavia più che paura, 'lascia che le cose corrano', diciamo quL.». Bonazza e i suoi vincono il ricorso al Tar, tornano in sella con tante scuse, continuano ad amministrare fino al 2006. Ma ormai molti vogliono cambiare, per motivi non tutti nobilissimi. Di sicuro, attorno alla Lanzetta il polo delle donne s'ingrossa, coagula Wla parte importante di un paese dove trasformismo e familismo hanno azzerato del tutto le scelte politiche ideali. Ci sono famiglie che praticano il voto ... disgiunto. Marito e moglie votano ciascuno 50 per un candidato, così da poter battere cassa in ogni caso a urne chiuse. do sono partita da un principio: a Monasterace ci sono i partiti? No. E quindi con chi mi relaziono? Con nessuno. E allora non ho fatto patti con nessuno. Mi hanno detto 'potevate scegliere meglio, se vi relazionavate con persone che avevano fatto politica prima'. A De Leo ho chiuso il telefono in faccia e gli ho fatto telefonare da mio marito. Mi diceva che potevamo fare insieme 'la migliore delle liste'. Io feci rispondere da mio marito che non trattavo con nessuno. Lui allora andò da un mio cugino avvocato, che è una persona meravigliosa, e mi propose un incontro perché potessimo fare 'la migliore delle liste possibili'. Risposi che no, non avevo nessun interesse. lo e lui ci siamo sempre parlati del più e del meno. Personalmente io posso parlare con tutti, politicamente non voglio parlare con nessuno». La 'migliore delle liste possibili' rimase nel libro dei sogni di qualcuno. Come l'idea di poter controllare questa strana farmacista la cui storia stava cambiando assieme alla storia di tante donne come lei. Sei Volevano rapire Berlusconi. Quando era già il padrone di Canale 5 ma non ancora uno degli uomini più potenti d'Italia. Per spiegare il peso dei Ruga, i mammasantissima della 'porta accanto' a quella di Maria Carmela Lanzetta, questo raccontò tanti anni fa uno strano pentito, Franco Brunero. ·Chi era Brunero? Un rapinatore al servizio dei clan, poi collaboratore di giustizia ben pagato dallo Stato, quindi di nuovo colto a saccheggiare banche in provincia di Genova. «Il piano era stato elaborato assieme alle cosche Musitana e Aquilino ... Era stata fissata pure la cifra del riscatto: venti miliardi, non una lira in meno. Un grosso affare che doveva impegnare praticamente tutti i quarantotto membri della banda e mobilitare tutte le varie succursali dell'Anonima sequestri nella zona ionica reggina». Se la fonte può essere discutibile, il contesto è molto verosimile. Erano quelli i tempi in cui i clan mafiosi, siciliani prima che calabresi, decisero di finanziarsi sul mercato dell'eroina coi quattrini dei riscatti estorti a facoltosi imprenditori del Nord. Nel nostro caso la faccenda andò diversamente, Berlusconi aveva ad Arcore un uomo capace di 'sconsigliare' mosse avventate contro di lui: Vittorio Mangano. Polemiche politiche e fascicoli giudiziari hanno 53 già raccontato quegli anni e quelle protezioni. E tuttavia la potenza del clan Ruga, la cosca egemone Ji Monasterace, si affaccia negli atti già allora. E non declina. Nel2010 il procuratore Nicola Gratteri spiegava ai cronisti, arrestando il giovane Giuseppe Cosimo Ruga, erede designato del clan: d carabinieri hanno chiuso il cerchio su una potente cosca mafiosa i cui membri sono le propaggini familiari dei vecchi capi 'ndrangheta, come i fratelli Andrea e Cosimo Ruga, che negli anni Settanta e Ottanta, con le cosche di Gioiosa Ionica, furono implicati in alcuni sequestri di persona, storie di appalti e controllo dei boschi delle Serre catanzaresi». Per contendersi questo genere di affari, qui si spara. E non solo a scopo intimidatorio. Nella lista dei cadaveri di rispetto, caduti tra agguati e ritorsioni, c'è anche quello di Damiano Vallelunga, considerato il capo della famiglia che comanda a Serra San Bruno: killer armati da chissà quale mandante l'hanno freddato il27 settembre 2009, proprio davanti al santuario di Riace, meno di dieci chilometri da qui, nel bel mezzo della festa per i santi Cosimo e Damiano. Che tutti vedessero. L'elenco dei morti ammazzati è lungo e pesante quaggiù. È complicato decifrare per intero il senso di questa mattanza che comincia addirittura nel 1977 con la 'faida dei boschi' per il predominio del territorio nelle zone montane dei comuni di Stilo, Guardavalle, Santa Caterina, Mongiana e Serra San Bruno, perché non tutti i morti ammazzati si spiegano con gli affari in terra di Calabria; e perché codici d'onore antichi come e più del Kanun albanese costringo54 no i figli a farsi carico del sangue versato dai padri, in una catena che davvero solo la saggezza delle donne può spezzare, come intuì monsignor Bregantini nel suo appello alle madri e alle mogli di San Luca dopo la strage di Duisburg. Monasterace e la valle dello Stilare sono parte integrante di quest'area violenta e intrisa di odi antichi. Terra Ji delitti di mafia e di fughe precipitose. La mattina del6 maggio 2010, Giuseppe Cosimo Ruga se la squagliò per i campi quando i carabinieri gli bussarono alla porta. Per mettergli le manette, dovettero corrergli appresso tra aranceti e uliveti. Lo zio del giovanotto, Benito Vmcenzo Antonio Ruga, secondo gli investigatori era ancora attivissimo negli appalti assegnati in paese, in cima a tutti quello del movimento terra, fino all'operazione 'Village' che ha tagliato le unghie al clan. È anche storia vecchia, questa delle infiltrazioni in Comune, tanto che il 27 ottobre del 2003 il consiglio comunale di MoÌ-tasterace venne sciolto per diciotto mesi. «Permeabilità ai condizionamenti della criminalità organizzata», scriveva il prefetto, chiedendo nuove elezioni. La giunta, guidata dall'allora sindaco Giuseppe Bonazza (che s'era fatto politicamente le ossa come vicesindaco di Cesare De Leo) resistette, e sette mesi dopo ottenne dal Tar del Lazio l'annullamento del provvedimento prefettizio. Secondo i giudici romani non era provato «il reale collegamento degli amministratori» con i mafiosi e men che meno lo erano «forme di condizionamento tanto pesanti 55 da compromettere la libera determinazione degli organi elettivi». «A tutto concedere», argomentavano i giudici, si sarebbe potuto parlare di «casi di cattiva amministrazione, indubbiamente deprecabili ma non dissimili da quelli che per comune esperienza è dato riscontrare in larga parte del territorio nazionale». Comunque «non è stata fornita alcuna prova di collegamento tra gli amministratori del cennato Comune e gli appartenenti alle locali organizzazioni criminali». Già. Ai magistrati amministrativi romani appare «obiettivamente insufficiente» che «il suocero del vicesindaco sia fratello di un soggetto già arrestato [ma non si sa neppure se condannato] per associazione mafiosa»; che «la figlia del sindaco sia fidanzata con il rampollo [che non sembra avere alcun precedente penale o di polizia] di un individuo genericamente indicato come mafioso»; che «il padre di un consigliere [comunque scarcerato dopo pochi giorni] sia stato arrestato per associazione a delinquere di stampo mafioso»; che «due membri della giunta [i quali per effetto della loro attività politica sono inevitabilmente destinati a intrattenere una serie di rapporti umani particolarmente nutrita] abbiano avuto sporadici contatti con alcuni pregiudicati della zona». Bazzecole, si capisce. Come i «reati bagatellari» che gravano «su un assessore e alcuni consiglieri»; o come «gli abusi d'ufficio» di due dirigenti comunali. La sentenza, firmata dal giudice Luigi Tosti, può sconcertare ma va ovviamente rispettata come tutte le sentenze. Per effetto di essa torna in sella la giunta Bonazza, che, sotto l'egida del suo ispiratore De Leo, continuerà a 56 governare fino al2006, l'anno delle elezioni che portano alla giunta Lanzetta. «La gestione di quella donna è stata disastrosa», mi dice De Leo, il settantenne padrino politico del paese che con Maria Carmela voleva fare «la migliore delle liste possibili» e ora veste i panni scomodi di suo unico nemico dichiarato. Ci incontriamo sulla piscina di un albergo che affaccia sulla statale Ionica, patio dai mattoni rossicci e sedie di plastica- solito strappo di brutale bruttezza accanto a una spiaggia che potrebbe essere una gemma caraibica- e lui ha il viso deformato dall'ira, un'ira antica, a lungo covata. Ha portato carte, fascicoli, foto, è impaziente di raccontarmi la sua verità. «La mafia c'è, sì, Ma questi fatti gravissimi avvenuti contro il sindaco Lanzetta non possono ascriversi ai vertici mafiosi perché il sindaco non ha fatto niente contro la mafia. La mafia reagisce per gli appetiti sugli appalti, le lottizzazioni, lei è stata semplicemente fallimentare. Quelli che hanno fatto le azioni contro la Lanzetta li ritengo criminali senza cervello». n piano del discorso si fa inclinato e scivoloso, guardo in faccia il mio interlocutore, per quindici anni filati sindaco socialista del paese e negli anni successivi autentico dominus delle amministrazioni pubbliche fino all'arrivo di Maria Carmela. È un uomo scaltro, abile nel discorso stop and go diffuso in un certo ambiente del Sud: ti dico una cosa per la quale potresti chiamare i carabinieri e un minuto dopo una di segno contrario. Così, sterza subito: «L'episodio della farmacia è molto grave, quelli sono delinquenti 57 r L che ricorrono ad atti criminali». Poi però non si trattiene: «Ma, insomma, se vuoi mandare a casa qualcuno non fai questi atti, così la rafforzi!». Mi viene da pensare al rimprovero di un papà verso i suoi pargoletti un po' irruenti. Lui pare leggermi nel pensiero, ha una storiaccia da raccontare: «Senta, io ho avuto quattordici procedimenti penali, ma ne sono sempre uscito indenne». Lo beccarono in un'intercettazione con un pezzo da novanta dei Ruga, vecchia conoscenza, il paese è piccolo, si sa. Era ill994, c'erano in ballo appalti, De Leo era ormai assessore provinciale. «Era un mio coetaneo, quello, certo che lo conoscevo. Il gip ha scritto che non c'era nessun elemento in base al quale io avessi mai agevolato la cosca!». Prima dell'ordinanza del gip, De Leo s'era fatto quattro mesi di galera per concorso esterno in associazione mafiosa. E anche adesso non si dà pace, se la piglia con il procuratore antimafia più esposto della Calabria: «Il dottor Gratteri ha preso per oro colato tutte le cose false che hanno scritto i carabinieri», dice. È uno strano uomo, non manca di coraggio, un coraggio un po' autolesionista, al limite dell'improntitudine. Non si capisce perché mai i carabinieri avessero voluto rovinarlo. Ma lui giura di essere «perseguitato dallo Stato italiano». Il peggio del berlusconismo, il vittimismo antistatuale, pare avere lasciato una morchia non eliminabile nei linguaggi e nei modi. L'idea della persecuzione costruita da giudici e carabinieri è un alibi di successo, in Italia. Fatto sta che i giudici alla fine l'hanno assolto: De Leo è pulito e il complotto, se c'era, non si vede. Lui, viceversa, sembra vedere Maria Carmela Lanzetta come una specie di esito inconsapevole di questo complot58 immaginario. Se lei sta lì, in fondo, è per tutti i guai giudiziari che sono capitati a lui e ai suoi amici della giunta Bonazza. De Leo ha provato a farsela amica, la Lanzetta, magari con l'idea di controllarla. Ma chiunque parli con Maria Carmela per più di mezz'ora capisce che è una scheggia impazzita, un cane sciolto fuori dal sistema. L'idea di controllarla non depone a favore dell'intuito politico del vecchio sindaco. Fatto sta che lei gli ha sbattuto la porta in faccia, non solo metaforicamente. E lui se l'è legata al dito. N on sono cose che si fanno, in pubblico, a uno come Cesare De Leo. «È stata scorrettissima con me. E inoltre la accuso di favorire interessi privati». A questo punto De Leo mette sul tavolo le carte. C'è pure un esposto alla procura di Locri, firmato con lui da Diego Origlia, quello che sfondò con un pugno la porta dell'ufficio della Lanzetta minacciando di «ammazzare qualcuno» perché non gli avevano mandato in fretta l'auto-spurgo nella casa allagata in un giorno di nubifragio. La trasmissione ai pm è del29 maggio 2012. Giusto due mesi dopo il secondo attentato a Maria Carmela, i colpi di pistola contro la sua Panda e la saracinesca della farmacia. Ma la relazione, messa insieme da De Leo e dai suoi sodali, è del 14 marzo, precede l'attentato di appena due settimane. «Il Comune- scrivono De Leo e soci- è stato ed è gestito dall'amministrazione Lanzetta in modo dilettantesco, poco responsabile e senza il rispetto delle regole, come se si trattasse di un feudo privato del sindaco. Non vi è atto dell'amministrazione che possa passare il vaglio di legittimità. La malagestio è ampiamente documentata». to 59 Dall'appalto dei lampioni alla raccolta differenziata fino al recupero del centro storico, De Leo attacca su tutto, sempre sostenendo in sostanza che la giunta di Maria Carmela avrebbe usato in modo disinvolto i soldi del Comnne per rappezzare qua e là un paese che, a qualsiasi onesto occhio di visitatore, appare più che mai bisognoso di un rammendo. Ma è sulla piazza di Monasterace Marina, che il vecchio politico del Psi lancia le accuse più dure. Vale la pena di soffermarsi un momento sulla questione, perché è fortemente esemplificativa nel suo carico di veleni. Quei veleni che, in un posto come questo, possono agevolmente diventare letali. Una piazza a pezzi, piazza Porto Salvo, in totale degrado, ha sempre raccontato la Lanzetta. E soprattutto una piazza senza il suo senso di piazza, che è, ovviamente, quello di raccogliere i cittadini, mescolarne abitudini e vicissitudini quotidiane, creare una quinta per il teatro della vita associata. In effetti, una delle sensazioni più forti che mi colpì entrando a Monasterace fu il senso ostile delle case, tutte costruite l'una contro l'altra, come assemblate da un architetto pazzo che avesse voluto seminare zizzania tra la gente del posto. Lo dissi alla Lanzetta che ci rise su: «Bravo, è proprio come lei la vede! Qui non c'è un centro». Lo pensa, la sindaca, e l'ha messo nero su bianco quando ha deciso di porre mano alla vecchia piazza, orgoglio dell'antica amministrazione De Leo, che la costruì sopraelevata di un paio di metri rispetto allivello del mare, una specie di panettoncino a tagliare il paesaggio: «Monasterace Marina è un paese che si è formato prevalentemente 60 nel dopoguerra con l'apporto di cittadini provenienti dai paesi dell'entroterra- Stilo, Pazzano, Bivongi- che hanno avuto sempre difficoltà ad amalgamarsi per la mancanza di un vero e qualificante luogo di aggregazione: la piazza del paese. n nucleo urbanistico del paese, infatti, è sempre stato di proprietà dei marchesi di Francia-Guiscardi che, con i loro palazzi annessi non ristrutturati, hanno di fatto, in un certo senso, bloccato lo sviluppo ordinato e consono a un paese formato da famiglie che ricavano dall'economia turistica una grossa fetta del proprio bilancio». Di qui l'idea di lavorare assieme ai privati «per la ricostruzione urbanistica della cittadina jonica, famosa anche per il suo sito archeologico». E di qui, anche, le accuse di Cesare De Leo, secondo cui l 'intera operazione servirebbe a favorire i privati concedendo loro nuove cubature. Affermazioni tutte da dimostrare, ovviamente, che però sono diventate oggetto di manifesti sui muri del paese e di feroci campagne su Facebook. Resta da capire chi sia l'ispiratore di un'altra curiosa iniziativa. Nei giorni in cui l'Italia, una volta tanto, si stava mobilitando per la Lanzetta, e quaggiù stavano scendendo il ministro Cancellieri e il segretario del Pd Bersani, c'era chi se la prendeva con la stampa. Secondo un vecchio canone mafioso, per il quale i giornalisti sono tutti cornuti, comunisti e tragediatori, anche i mali di Monasterace venivano addebitati all'informazione, colpevole di renderli noti al mondo, diffamando gente onorata. Sicché un nutrito gruppo di giovanotti aveva pensato a una manifestazione, a un clamoroso corteo contro la libera stampa, e qualcuno aveva preparato anche le magliette: «Monasterace nel cuo61 re». il contrordine è arrivato all'ultimo momento, perché alla fine anche in Calabria vale nn vecchio detto della mafia siciliana: calatijuncu ca passa 'a china, 'calati giunco finché non è passata la piena'. E quei giorni di primavera del2012 furono giorni di piena da queste parti. ; l J ' Sette «Nei paesi spesso non si muore di cose vere, si muore di chiacchiere», mi dice la Lanzetta. Stiamo affacciati tra i vasi di fiori del terrazzo che domina il parcheggio da dove hanno sparato, e lei senza volerlo mi fa venire in mente Falcone, la frase famosissima consegnata a Marcelle Padovani: «Si muore generalmente perché si è soli ... perché si è privi di sostegno. La mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere>>. Perché le chiacchiere, certe chiacchiere, a questo servono: a farti terra bruciata intorno, e a lasciarti solo. Quella di Maria Carmela Lanzetta comincia proprio come una storia segnata dalla solitudine. Già dalla prima lista, per le elezioni del 2006, quando un intero blocco di potere, spazzato via dal prefetto e rimesso in sella dal Tar, ha comunque difficoltà a mostrare la faccia agli elettori. E dunque si cercano facce nuove. «Sono partita con due, tre amici che avevo alla Proloco. Poi ho chiesto a un ex vice del sindaco Comito di stare con noi. Ex P ci anche lui, Nicolino Procopio. Gli ho chiesto di fare il sindaco. lo gli avrei fatto da assessore alla cultura, da vicesindaco, sarei stata in lista. Lui non ha voluto assoluta63 mente. Allora gli abbiamo chiesto almeno di entrare in lista e scegliersi un ruolo. Niente. Ci ha accompagnato frno all'ultimo ma non è entrato in lista. Io sono partita dagli iscritti al Pci di una volta, sono andata a scegliermi rutto il gruppo che faceva parte dell'ultimo direttivo. Senza che fosse dichiarato era una lista di sinistra. E ho preso una botta ... ». Nei piccoli centri del Meridione, la distinzione tra destra e sinistra non ha sempre grande senso. Molte scelte non sono politiche ma amicali, familiari, di clan, nate da temporanea convergenza di interessi, o semplicemente dettate da avversione, da rancore antico, come minuscole faide senza spargimento di sangue. A Monasterace i professionisti progressisti non sembrano ansiosi di sostenere il tentativo della piccola farmacista. Che prova a coinvolgere prudentemente anche un personaggio importante in paese, che già abbiamo incontrato altre volte nella nostra storia, Diego Origlia: sì, il medico che poi sfonderà a pugni la porta della Lanzetta in municipio, quello che firmerà le denunce contro di lei assieme a Cesare De Leo. «Gli chiesi di fare il capolista, gli altri con lui sarebbero entrati e con me no». Lo strappo si consuma proprio qui, dove stiamo seduti a parlare, nel salotto di casa Lanzetta, tra il gruppo del medico e quello della farmacista. «Diego, convinci queste persone a dire sì, tu sei il nostro sindaco», azzarda lei quel giorno. Giocando col telefonino lui alza le spalle: «Non ne ho bisogno perché ho moltissimi voti, ho una grande famiglia». La maggioranza allora si schiera con la Lanzetta: «Maria devi fare tu il capolista». E lei accetta. 64 J Origlia va con il suo avversario, Palmiro Spanò. Anche lui di sinistra. Nel2006 il centrodestra non si presenta. Ma attenzione ancora una volta a non dare troppo peso ai simboli, in terre dove il peso vero sta tutto da un'altra parte. «C'era un gruppo di avvocati pronto a entrare tutto intero in una lista». Un blocco di pressione, una lobby? «Verso la fine questo gruppo mi disse: trattiamo se tu accetti ... non ricordo quanti di loro dovevano entrare. Io dissi: manco mezzo, sceglie l'assemblea chi sì e chi no. Presumo avessero un gruppo di affari alle spalle ma non ne ho le prove». Si vota, infine. «Ho vinto per 549 voti in più dell'altra lista, col60%. Eravamo donne e uomini che non avevano mai fatto politica attiva. Noi donne siamo state tutte elette, io, Angela, Maria e Francesca. Quattro su undici. Spanò, il mio avversario, mi ha accusato di avere preso i voti della 'ndrangheta. lo l 'ho querelato. La querela è stata archiviata dal tribunale». Già la prima amministrazione ha vita durissima. Lei litiga con i suoi assessori, ritira le deleghe. La chiamano 'ducetto', la timida farmacista s'è trasformata in una despota, pare. «Ma non è così. Ero alla prima esperienza, faticavo da morire, loro erano in giro in paese a parlare con tutto e tutti, io come facevo a resistere? lo non ho famiglia di qui, siamo di Mammola, non ho nessuno che mi può difendere nella discussione al bar». E le chiacchiere cominciano a scavare sotto i suoi piedi ... «Maria ha un carattere pessimo, Maria manda e comanda». Lei adesso un po' si giustifica: «Volevo che andasse tutto nel migliore dei modi, io lavoro moltissimo e pretendevo che , 65 si impegnassero moltissimo anche loro. Un giorno ho tolto la delega a tutti gli assessori e mi sono fatta nel2008la processione della Madonna di Porto Salvo con i sei assessori tutti dietro, senza delega. Poi ho cominciato a parlare con ognuno di loro verbalizzando i punti che ci dicevamo e sono stati tutti più o meno agnellini. Tra luglio e agosto ho ridato deleghe». Non è finita. In tre se ne vanno. La fiducia è rotta. «Di alcuni non mi piacevano le frequentazioni». Di certo lei non piace a loro. Alcuni si avvicinano a un consigliere socialista della Regione che poi finirà in manette per legami con la 'ndrangheta. «lo non derogo e non scendo a patti». In consiglio comW1ale Maria Carmela chiede ai tre transfughi: «Dimettetevi. Io cado. E ci contiamo». I tre si dimettono. A due di loro avevano bruciato le macchine nei primi due anni di amministrazione, la cosa può non essere irrilevante nella scelta di mollare la sindaca. «lo li avevo difesi con tutte le mie forze, come adesso non sarei più capace di fare. Avevo cercato nelle cooperative sociali un fondo di solidarietà perché fossero risarciti dei danni». Sembra che alla rottura con i tre debba seguire davvero il 'rompete le righe'. Ma in soccorso della Lanzetta arrivano altri tre consiglieri: un postcomunista dei Ds, un comunista di &fondazione e un verde. ll verde ha una macchiolina non irrilevante: si chiama Piero Ruga, è cugino dei padrini. «Ma è perbenissimo, non c'entra con loro», giura lieve Maria Carmela. «Anzi, è terrorizzato. Mi ripeteva sempre 'stai attenta, Maria, lo dico per il tuo bene, che ti credi di fare?'. Alla fine ha avuto ragione lui». 66 E dawero in questo passaggio, in questa frase sospesa tra l'ingenuità, la premonizione e l'awertimento, si può vedere in trasparenza tutta l'ambiguità di un contesto, tutta la difficoltà di governare un gruppo sociale dove, risalendo di qualche generazione, ciascuno ha rapporti di sangue o di amicizia con ciascun altro. «Loro sono entrati senza condizioni, altrimenti non li avrei accettati, ma politicamente ho sbagliato. Mio marito diceva: butta giù tutto, rifacciamo la lista e vinciamo le elezioni dopo sei mesi di commissariamento. Io ho detto: in questo momento dobbiamo concretizzare. Avevo in ballo dei finanziamenti con la Regione, se mollavo perdevamo i finanziamenti. Pioveva, c'erano strade dissestate, il mare che avanzava, lavori pubblici da mandare in porto, non mi sono sentita di pensare a un utile politico. Però una parte del paese ha visto male che io resistessi. Pensavano che fossi scesa a patti con Cesare De Leo. Non me l'hanno mai perdonata». Troppi equivoci, troppo grigio anche attorno allo sfavillante sogno di trasparenza vagheggiato da Maria Carmela. Le elezioni del 2011 sono molto diverse dalle precedenti. Maria Carmela affitta un locale sulla statale 106, poco lontano dalla sua farmacia, per il comitato elettorale. Corrono tre liste. La sua, 'Indipendenza e libertà', molto rivolta alle donne, che sono ormai il suo bacino elettorale. La seconda, animata dai tre transfughi, col sostegno dell'ex sindaco Comito e con Diego Origlia come capolista. La terza, direttamente guidata da Cesare De Leo. «A marzo mi aveva mandato una mai!, proponendo lui sindaco e io vicesindaco, io l'ho ringraziato, 'può costruirsi 67 tutte le liste che vuole, ci confronteremo'. Mi sono arrivate molte sollecitazioni, ho sempre rifiutato. E forse mi sono rovinata. Fossi stata brava avrei accettato una discussione aperta per non frammentare il paese, la guerra continua non fa bene a nessuno, invece io sono sempre con l'accetta in mano, o di qua o di là». Stavolta va diversamente anche alle urne, niente più consensi clamorosi, la Lanzetta vince con 53 voti di scarto. Con lei, quattro le donne: «Clelia, Tonina, Carmen e Angela». Molte famiglie distribuiscono il voto, come di consueto quaggiù: per poter chiedere favori a urne chiuse, chiunque abbia vinto. La fermano in piazza, un paesano le dice: «Sapete che vi ho votato, signora? Ma voi non siete venuta a chiedermi voto». «lo non sono andata da nessuno». «'Mbè, fa lo stesso. Mia moglie ha votato suo zio nella lista di De Leo e io ho votato a voi». In questo clima di politica ridotta a poltiglia, si collocano gli attentati, due in nove mesi. E dopo gli attentati va anche peggio in paese. Non è davvero tutto primavera. Ci sono funzionarie pubbliche come Consolata Leto, la direttrice scolastica, che sceglie di non invitare la Lanzetta alla recita di fine anno dell'asilo, perché i bambini «si spaventano della scorta» (la scorta è composta da due discretissimi carabinieri della compagnia di Roccella, rigorosamente in borghese, con le armi ben nascoste e le facce più da studenti universitari che da militari). 68 Lei, la sindaca, non si fa abbattere. Respira a fondo. «A volte sono stanca, a volte la lotta è impari», mi dice. Ma poi, per restare in carica, quando l'Italia si accorge del caso Monasterace, chiede allo Stato cose precise. Batte su tre punti. Prima di tutto, un rinforzo all'ufficio tributi. «il mio primo segretario diceva 'ho il sindaco che vuole la luna nel pozzo', che poi è un bel libro di Amendola. Era un comunista doc, il mio primo segretario, e dopo tre mesi ha sbagliato di un giorno la convocazione del consiglio comunale, ha fatto 121 giorni anziché 120, la minoranza l'ha rilevato. Era espertissimo. Io, senza esperienza, l'avevo scelto per quello. Tutti dicono che non poteva sbagliare per quanto era esperto. Poteva essere un modo per tirarsene fuori. Ma bastava dirmi di no, bastava dirmi vado via. Non lo so. Comunque noi non possiamo pagarlo l'aiuto per l'ufficio tributi. La prefettura lo deve pagare se mi vuole aiutare. Noi non possiamo fare un bando per assumere, il nostro bilancio e la pianta organica non ce lo consentono». Poi, una bella manciata di nuove regole. «Ho chiesto di indicarmi dove potessi trovare le somme disponibili per scrivere le regole del territorio. Noi per la legalità del posto dobbiamo approvare i piani territoriali: il piano strutturale associato (con altri comuni vicini), per il quale noi siamo a due terzi del lavoro con i comuni di Guardavalle e Santa Caterina. Poi andrebbe fatto il piano comunale, il piano regolatore nuovo non c'è, c'è quello del1982. E non c'è perché non ho i soldi, queste cose si fanno coi soldi. Poi serve il piano di spiaggia. E poi un piano per il centro storico. Oggi come assicuro la legalità a questo territorio? 69 Servono i soldi. Devi fare un bando pubblico, selezionare gli architetti, i geologi che possono scriverti le regole del territorio. Ho trovato persone che farebbero tutto solo a rimborso spese. Per un piano di spiaggia, novemila euro. Per il centro storico, cinquemila. Per il piano strutturale associato quarantamila. lo non ho detto che me lo debbono regalare. Solo, nell'ambito dei ministeri, trovare come e dove e quando presentare un piano per reperire questo finanziamento. Mi sta per arrivare, ci conto». La Lanzetta prende fiato, dopo questa tirata che il pragmatismo dei vari De Leo di paese definirebbe 'dilettantesca'. La sua forza, in un mondo in cui la politica è diventata prima una professione e poi un mestieraccio, sta proprio nel dilettantismo. Questa sindaca simbolo delle donne calabresi non ha paura di sembrare nai:f. «<o ho chiesto aiuto non solo per Monasterace. Ma ci sono territori che hanno necessità, se vogliamo parlare di legalità in Italia. Ci sarà un fondo sicurezza particolare cui accedere per le amministrazioni in crisi. Che si possono chiamare Scampia, Taranto, Vittoria, in Sicilia. Io non sono così stupida da pensare che posso avere questo gratuitamente. Ho avuto contatti col Formez a Roma, con la Funzione pubblica e la prefettura di Reggio e il ministero degli Interni per trovare la strada con cui arrivare a queste cifre. E avremo salvato un territorio. E l'esempio di questo territorio sarà sovrapponibile ad altri». Infine, e presto, geometri, ragionieri. Gesualdo Bufalino diceva che Cosa Nostra verrà sconfitta da un esercito di maestri elementari. In fondo Maria Carmela Lanzetta non va molto lontano da quest'idea: «Serve un supporto per 70 l'ufficio tecnico. Quello serve, servono cose tecniche. A questo territorio serve definire le regole. Adesso il controllo militare c'è. Adesso che m'hanno sparato». Ride. Poi si fa seria: «Vede, se perdiamo a Monasterace, perdiamo tutti assieme. Perdete anche voi, l'Italia è una sola». Negli occhi, ancora la prima stagione, quando le speranze erano di gran lunga maggiori delle delusioni e delle amarezze. «Le serate al Magna Grecia Teatro, il ritrovarci a chiacchierare vicino alle rovine, tutti insieme fino a notte. Le presentazioni dei libri, Susanna Tamaro, Chiara Gamberale, la serata del cuore con Umberto Ambrosoli. I cent'anni della decana del paese, Caterina Gara. Ho ballato in piazza la tarantella insieme all'elettricista del Comune, io non ho mai ballato, eppure a Monasterace Superiore abbiamo ballato con le donne che ti fanno ruota, momenti allegri davvero. I ragazzi mi volevano parlare e io li ricevevo nella piazza Celestino Placanica, sulle scalette. Stavamo recuperando alcune case, bisognava scegliere se pietre o intonaco, con l'architetto abbiamo deciso una riunione pubblica. Così abbiamo preso le sedie dal bar e abbiamo stabilito tutti insieme ciò che s'aveva da fare, la soluzione fu una casa intonacata e l'altra no, ma perché l'architetto ci diceva che quelle pietre consentivano di fare questo e altre no. Adesso mi sento intristita da questa rottura di equilibrio da cui vengono gli attentati. Io non ho i nomi da fare. Tanti mi dicevano 'non devi avere paura di nulla' e io andavo sempre su e giù con 'sta Panda (su cui hanno sparato). Poi si è rotto tutto. Nell'ultimo anno sono stata sottoposta a cattiverie, non vado più in un sacco di posti, 71 c'è un bar dove non vado più a Monasterace Superiore. Le critiche scendono sul privato». E qui le vengono le lacrime agli occhi, non ha la tempra del politico navigato, Maria Carmela. «La campagna elettorale è stata feroce, non mi è passata (ne fa una questione personale). Io non c'entro niente con la politica, è vero, serve tempo. Lo so che non è personale, io devo superare questa cosa, la stavo superando, poi mi hanno sparato, e gli spari sono veri, è un altro passo indietro. La gente si aspettava che io facevo il giustiziere della notte, poi quando lo fai nessuno ti appoggia... Il prefetto di Palermo mi ha detto: 'Cerchi di stare attenta, signora, è bello ciò che fa ma stia attenta'. Io sono contenta che sia venuto Bersani qui, ma non per i quattro colpi di pistola a me, avrei gradito che fosse venuto per una motivazione politica. Lo ringrazio, ma a me quei colpi di pistola pesano. Anche quando mi ha invitato Passino alla Biennale della Democrazia a Torino, dissi che le motivazioni per cui mi invitavano non erano di mio gradimento. Poi, non puoi non tenere conto degli sforzi che sta facendo lo Stato in Calabria. Quando il procuratore Gratteri dice che 'ognuno deve andare fino in fondo', a quel punto non te la senti di dire scusate tanto, io non ci sono più ... E allora vado avanti. Con una paura? Sì, una. Che tutta questa attenzione passi». E che la luce si spenga di nuovo, su Monaserace e dintorni. Otto «Ci dà un passaggio per Siderno, dottoressa?». Fuori dal palazzo di Giustizia, Katy Capitò guardò quelle tre ragazzine di liceo, venute ad assistere al processo 'Primavera', contro 'ndranghetisti di rango della cosca Cordì-Condello. Forse le aveva già viste, forse no, a quell'età si somigliano tutte: e lei di ragazzine ne incontrava tante in quei mesi tra il1999 e il2000, perché stava lavorando parecchio sulle scuole, parlava agli studenti per sensibilizzarne le coscienze. Una vecchia fissazione: provare a battere i mafiosi tagliando l'erba sotto i loro piedi, ecco cosa bisognava fare, spiegando ai loro figli e ai loro nipoti che stare dalla parte dello Stato è molto meglio, è persino meno faticoso. Comunque non costituivano certo un pericolo, quelle tre, anche per una donna magistrato costretta, come lei, a girare sotto scorta per via di quel processone pesante come un macigno e delicato come un vaso di cristallo. In macchina, le ragazzine la presero larga. Poi una si fece coraggio: «Che cosa bisogna fare per essere come voi, dottoressa?». «Come me, come?». «Giudice». 73 «<l concorso in magistratura». «E ci sono limiti? Preclusioni?». «Non capisco. Quali limiti? Che p reclusioni?». «Eh, io purtroppo ho dei parenti. .. pregiudicati. Uomini d'onore sono, i miei parenti. Ma io vorrei essere come voi, non come loro». «Ragazze, io non faccio niente di speciale, solo il mio dovere. Quello è il segreto: fare il proprio dovere». Il ghiaccio era rotto, le ragazze cominciarono a chiacchierare liberamente mentre i campi riarsi della Locride sfùavano muti come sempre fuori dal finestrino della macchina. Si fece allora avanti la più piccolina: «E ... se uno muore per droga ma questa droga gliel'hanno data?». Suo zio era stato ammazzato con un'overdose tagliata. Lei discendeva da un clan che comandava a Gioiosa Marina, nobiltà mafiosa. Le altre tenevano gli occhi bassi, mentre lei raccontava. «Veniamo a trovarvi, dottoressa», promisero tutte e tre scendendo infine dalla macchina. Non le rivide mai più. Eppure, molti anni dopo, Katy Capitò ricorda ancora quelle ragazzine: come un segno, forse come un'opportunità non colta. È una donna robusta, forte, che comunica solidità per ciò che dice e per come lo dice. Stiamo parlando sotto il patio del suo giardino a Riace, mentre i suoi figli le giocano attorno. Maria Carmela Lanzetta è con noi. Katy fa in qualche modo parte del grande network femminile che la sindaca di Monasterace sta provando a costruire: se le donne non salveranno il mondo come ci piace sognare, 74 potrebbero fare almeno qualcosa di molto utile per questi paesini di poche migliaia di anime vendute al diavolo 'ndranghetista. Ora Katy è gip a Locri, un tribunale da cui tutti scappano e dove nessuno vuole andare a lavorare: «Non è più dura perché sei donna, una fa il magistrato e basta. Donna o uomo non conta». Conta, e molto, il genere, per sfuggire alle leggi dei clan. Se sei donna, è molto più complicato. «Quando penso a quelle ragazze mi domando: in capo a dieci anni, crescendo in un ambiente criminale, quale spinta avranno avuto? Mi rattrista e mi rattristava che le loro possibilità di crescere fossero davvero minime. Noi abbiamo avuto persone vere accanto, che ci hanno amato e sostenuto». Passa da pessimista, la giudice Capitò, nelle infinite discussioni serali con Maria Carmela Lanzetta e con le altre donne di quaggiù impegnate a cambiare le cose, ciascuna nella sua quota parte di mondo e di lavoro. «No, io non sono d'accordo con questa storia del risveglio ... della 'primavera' delle donne calabresi! Secondo me, anzi, le donne hanno assunto un ruolo dirigenziale nelle cosche, fanno supplenza dei loro uomini, magari arrestati o ammazzati. Certo, c'è chi prova a uscire. Ma chi prova a uscire paga moltissimo. Non è facile fare una scelta del genere. Ricordo, a Catanzaro, Rosetta Cerminara: era del Lametino, all'inizio ebbe l'appoggio dello Stato, emigrò in un luogo protetto. Poi lo Stato la mollò. Sicché il rischio è che chi si espone non riesca poi a ottenere tutela a tempo indeterminato. Senza identità, senza famiglia, senza rapporti di natura economica, è molto difficile per le donne». 75 Alla fine siamo ciò che mangiamo, pare dire, pragmatica, la giudice. «lo posso mantenere i miei figli e il coraggio mi viene. Lo Stato deve promettere alle donne che escono dalla 'ndrangheta di fare questo. Molte altrimenti cedono e tornano indietro per i figli. Noi dobbiamo risolvere una questione culturale ma forse, prima ancora, una questione economica. La questione economica è la grande arma di ricatto a cui cedono. E spesso il figlio ce l'hai contro. Infamiglia sentono discorsi di illegalità quotidiana. È l'abitudine. Crescono con odio radicato verso lo Stato. Avere portato la scuola a livelli così bassi è disastroso. In queste condizioni si cerca solo la sopravvivenza. Se questa 'primavera' non diventa culturale non va da nessuna parte. La 'ndrangheta ha una politica matrimoniale precisa. Il vincolo di sangue è peculiare, se parli tradisci il padre, il fratello, il cognato, lo zio. Perciò io sono cauta a parlare di primavera delle donne, perché ricordo bene quando le donne si incatenavano davanti al tribunale di Locri perché si celebrava il processo Aspromonte, era il1995-96, e volevano il trasferimento del processo. Ricordo bene quando si presentavano in massa in udienza tutte vestite di nero. Quando ripenso a tutte queste cose mi sembra difficile vedere la primavera. E comunque, chi vuole uscire da quel mondo di violenza deve avere, deve sapere di avere, un aiuto economico consistente», mi dice Katy, con ciò anticipando un nodo fondamentale che ritroveremo parlando di Lea Garofalo e di altre pentite. Tornando al municipio di Monasterace con Maria Carmela e i carabinieri della scorta, incontriamo due donne 76 che la battaglia della dignità e del lavoro la combattono ogni giorno, con premesse ed esiti molto differenti. Anche loro, parte integrante della 'rete Lanzetta'. La prima è Pina Taverniti, una delle operaie delle serre che la sindaca ha preso sotto tutela. «Siamo trentotto lavoratrici e due lavoratori, là nelle serre. E dal2011 non prendiamo lo stipendio». Il cortocircuito delle serre di Monasterace è un caso non certo unico ma indubbiamente affascinante per i giuslavoristi. Per mesi e mesi le donne di quaggiù hanno continuato a sgobbare duro senza percepire alcunché, solo per non perdere la speranza di un compenso. In terra di mafia, dove la mancanza di occupazione si traduce in occasioni di ricatto, i sindacati sono svaniti, i politici professionali anche. La Lanzetta si è schierata al fianco delle operaie, da sola: era per loro il consiglio comunale straordinario indetto la sera del secondo attentato, quello dei colpi di pistola contro macchina e farmacia. Il legame tra queste donne e la sindaca si coglie nei gesti, negli sguardi. Pina Taverniti quasi si stringe a Maria Carmela mentre sussurra: «Prima eravamo un centinaio, all'inizio 350. Abbiamo resistito in poche. Adesso rivedo i soldi ... Mi danno piccoli acconti di 80 euro al mese. Loro, i padroni, dicono che hanno problemi, che dove prendono la merce non sono pagati, invece pagano gli altri debitori regolarmente. Abbiamo iniziato questa lotta insieme al sindaco, due anni fa ci siamo riunite nella sala del consiglio comunale, sapevamo che l'azienda era fortemente in crisi ma loro ci negavano informazioni. Ci siamo rifiutate di andare a lavorare e per la prima volta sono riapparsi i sindacati accanto a noi, 77 il sindaco ci appoggiava. Abbiamo fatto quindici giorni di sciopero bianco. Ci hanno pagato, alla fine. No, non tutto. Gennaio 2012 e fine maggio: in due rate». Maria Teresa N esci era invece una donna borghese, perfettamente a suo agio nei meccanismi convulsi della nostra società: faceva la promotrice finanziaria. Poi, qualcosa le è cambiato dentro. Seduta al tavolo di lavoro, che la Lanzetta ci ha prestato nel suo ufficio prima di sparire risucchiata dai guai quotidiani dell'amministrazione cittadina, mi dice: «Penso che la provvidenza possa fare moltissimo contro la 'ndrangheta». Ha fondato la cooperativa 'Felici da matti' con cinque donne come lei, spinte dalla fede. «Siamo un movimento ecclesiale, crediamo nel rinnovamento, nello Spirito Santo». La base del loro gruppo di preghiera è a Roccella Ionica, da dove vengono anche i carabinieri della scorta di Maria Carmela Lanzetta. Maria Teresa sorride spesso. Più spesso della media quaggiù. «All'inizio noi eravamo in sei, tra i 30 e i 70 anni, e abbiamo messo su un laboratorio alternativo. Farse saremo incoscienti ma il peso della 'ndrangheta io non lo avverto addosso. Mai. Il punto è, cosa vuoi dalla vita. Io volevo creare posti di lavoro. Devi essere credibile». Il detonatore del progetto è stato, ancora una volta, monsignor Bregantini, che molto di buono pare aver seminato in terra di Calabria prima di passare alla diocesi di Campobasso: portare il sociale nel lavoro, questo è sempre stato l'insegnamento del vescovo. «Così, noi abbiamo pensato che le preghiere dovevano diventare opere». Le opere portano via da sole terra alla 'ndrangheta, sottraggono le 78 donne alla solitudine in cui vuole confinarle la legge delle famiglie mafiose. «Siamo una cooperativa sociale di tipo B, cioè una vera e propria impresa: facciamo raccolta di abiti usati, siamo estesi nell'area del precariato, tutto senza una lira di finanziamento pubblico. La fede dà il coraggio di cambiare mentalità e modo di vivere, mi creda». La fede, sì. E qualche incontro speciale. Il pensiero di Maria Teresa corre subito a Rosy Canale, che ormai è un nome, è andata pure in tv a raccontare i suoi guai, attenendone soprattutto critiche e rimproveri: cerca notorietà, hanno detto in molti. «Sì, ci siamo viste una volta e so cosa ha cercato di fare a San Luca. Rosy ha detto no, è stata picchiata, ha avuto il coraggio di rialzarsi. Ha ripreso l'attività di ricamo, quando l'ho incontrata pensava di aprire un negozio a Roma e di vendere prodotti calabresi». A San Luca, il fortino dei Nirta e degli Strangio, dei Pelle e dei Vottati, sono stato un paio di volte, per il «Corriere della Sera». L'ultima, quando la squadra di calcio locale decise di scendere in campo con il lutto al braccio per la morte del capomafia Antonio Pelle, detto 'N toni Gambazza. Storia esemplare. Garnbazza, che col suo prestigio aveva provato a fermare il sangue e l'odio sfociati nella strage di Duisburg, era passato a miglior vita il4 novembre 2009. A San Luca volevano funerali solenni, la questura costrinse invece i clan a esequie quasi invisibili, all'alba. n giorno dopo, domenica 8, alla partita contro il Bianco, i ragazzi del pallone scesero con la fascia nera al braccio in memoria del padrino. L'ar79 bitro- mica scemo- fece finta di niente. «Prima o poi se non mi danno l'oratorio, lo chiedo alla 'ndrangheta, ma non scriverlo», mi disse allora don Pino Strangio, ridendo, nella canonica della parrocchia che guidava da ventinove anni filati. Don Pino, quando non curava le anime, faceva anche il presidente del San Luca Calcio. Questo era il clima e questo era il posto dove Rosy Canale andò a infilarsi in barba ai codici degli uomini d'onore. Era proprietaria di un ristorante e di una discoteca a Reggio Calabria, e i mafiosi volevano usare i suoi locali come base per lo spaccio. «Dovevo chiudere un occhio», disse Rosy a un cronista del «Guardian», parlando poi al telefono dal suo rifugio segreto negli Stati Uniti. «Se l'avessi fatto, sarei senza dubbio ancora a Reggio Calabria, alla guida di una Ferrari». Rifiutò. E gli uomini d'onore decisero di punirla. Le spaccarono la faccia, le fecero cadere i denti picchiando1a sulla bocca col calcio d'una pistola. «Mi hanno rotto la clavicola, diverse costole e una gamba. Sono stata otto mesi prima di lasciare l'ospedale. I medici hanno dovuto ricostruire la mia bocca e per molto tempo ho dovuto essere alimentata attraverso un tubo. Sono scesa a trentanove chili di peso», raccontò allora. Dopo essere stata dimessa, iniziò tre anni di riabilitazione. <<.Avevo bisogno di imparare a parlare di nuovo perché la mia lingua era stata danneggiata ... Ancora oggi, non riesco a correre, anche se posso camminare. E la mia mano destra era così gravemente ferita che non riesco più a suonare il piano. Questo è il prezzo che ho pagato per essere una persona onesta», aggiunse, attraendo l'attenzione della stam80 pa estera. Non tutti, dalle sue parti, le credettero. C'è chi, tra gli investigatori, dubita tuttora di questa ricostruzione, spesso in Calabria esiste una doppia verità e comunque le vittime più rispettate, quaggiù, sono quelle che subiscono in silenzio, non quelle che si mettono a strillare in conferenza stampa. Per i suoi quarant'anni, le recapitarono una testa di coniglio mozzata. Andò in depressione. Sparì. Fino alla strage di Duisburg, 15 agosto 2007. La metà dei morti era di San Luca, il massacro trasferiva in terra tedesca la terribile faida che da decenni insanguina il paese calabrese. Monsignor Bregantini non fu l'unico a lanciare un appello in quell'occasione. Se il vescovo invocò le mamme e le mogli di San Luca per evitare altre stragi, il prefetto si rivolse agli imprenditori di buona volontà: lanciò un concorso di idee per un progetto di svolta, perché la speranza entrasse anche nel fortino dei mafiosi. Tra gli imprenditori di buona volontà, rispuntò Rosy Canale. La nuova vita di San Luca sarebbe stata anche la sua nuova vita. n progetto prevedeva tre fasi: una scuola materna, un'impresa di donne, la fondazione di un centro femminile. L'idea di Rosy era semplice ed efficace: salvare insieme i bambini e le mamme, sottrarre ai mafiosi le famiglie. Stavolta, non servì la violenza a fermare la giovane imprenditrice calabrese. Bastò la pigra lentezza della burocrazia, l'indifferenza dello Stato. A corto di fondi, il centro femminile non vide neanche la luce. L'impresa di donne, quella di cui parla Maria Teresa Nesci, visse sulla spinta di una dozzina di ricamatrici volontarie e sulle risorse di 81 Rosy, che bussò a tutte le porte, chiedendo invano trentamila euro di finanziamento. «Ho scritto a tutti. Tutti sanno quello che faccio e quello che sono», ha detto ai cronisti. «Nessuno mi ha risposto». Alla fme anche la scuola ha chiuso. Nemmeno uno dei politici che ogni giorno si riempiono la bocca parlando di lotta alla mafia ha trovato modo di sostenere l'iniziativa di San Luca (trentamila euro non sono più di due stipendi mensili da senatore). Rosy ha scritto un libro. È ancora minacciata dalla 'ndrangheta, dicono. Sua figlia, diciottenne, non può uscire di casa, la polizia le ha consigliato di lasciare il liceo che frequentava. Nove Lea sognava un mondo alla rovescia. Dove una donna potesse studiare senza essere derisa o punita. Dove il suo uomo non la picchiasse e non la umiliasse ogni giorno. Dove una famiglia non dovesse considerare la morte violenta di un padre o di un fratello come un fatto ineluttabile. «Lea è sempre stata molto vivace e molto ribelle, si ribellava a mamma, alla maestra di scuola, ai compagni ... e aveva buoni motivi. Poi di questo suo carattere le è rimasto che se non le stava bene una cosa non si stava zitta. E zitta non è stata». Marisa Garofalo sospira, la frase le si incrina in gola: «lo non sono così», mi dice, «sono remissiva, subisco e sto zitta». È la sorella di otto anni maggiore. Mentre mi parla, si fa largo in sottofondo la vocina del più piccolo dei suoi tre figli, che gioca in corridoio. Ha avuto una vita normale, Marisa. «Sono casalinga, mio marito lavora con l'azienda forestale, è una persona perbene». E quel 'perbene' marca la distanza tra una fortuna e una disgrazia. Lea no, non ce l'aveva un marito 'perbene'. Era rimasta imprigionata nei codici dell'onore. E quando ha deciso di «non starsi zitta», e ha svelato ai magistrati affari e omicidi di famiglia, l'hanno rapita per ordine del suo uomo a due 83 passi da corso Sempione, nel cuore di una Milano ormai colonizzata dai mafiosi calabresi, l'hanno torturata e ammazzata, poi sciolta nell'acido, s'era detto, smaltita come un fango inquinante in una discarica vicino Monza. Indagini più recenti hanno scoperto in un campo della Brianza i suoi monili, una collana, qualche anello: l'ultima ipotesi è che il cadavere sia stato bruciato, ma fa differenza solo rispetto alla piena credibilità del pentito che ha raccontato le sue ultime ore, decenza vorrebbe che nessuno provasse a inficiare gli esiti del processo. Lea Garofalo e sua figlia Denise, che ha trovato a diciott'anni il coraggio di deporre in Corte d'assise facendo condannare il proprio padre all'ergastolo per quel delitto, sono diventate due eroine da tragedia greca calate in questa timida primavera delle donne calabresi. «Noi abbiamo avuto cinque morti, a casa», dice Marisa. E li enumera con normalità, come fossero stati colpiti dall'influenza di stagione, mentre la voce del suo bambino cresce di tono e a tratti si appropria della nostra conversazione. «Mio padre, mio zio, mio fratello Floriano, mio cugino e poi Lea ... ». Morti ammazzati, s'intende. Floriano era il maggiore, classe 1964, quello che aveva ereditato dal padre il bastone del comando. Se Lea è finita così male, la colpa in fondo è proprio sua e di quello scettro che faceva gola a tanti, come vedremo tra breve. Per adesso ricordiamo quanto sia importante per gli 'ndranghetisti la politica matrimoniale, un po' come nelle case regnanti d'Europa al tempo delle monarchie assolute. «Siamo di Pagliarelle, duemila abitanti, frazione di Pe84 tilia Policastro, provincia di Crotone», mi racconta Marisa. «Qua d conosciamo tutti». Ma tutti si fanno gli affari propri, s'intende. «Siamo cresciuti coi nonni quando è morto papà. Papà l'hanno ucciso alla vigilia di Capodanno 1975, si chiamava Antonio, aveva 27 anni. Lui e mia mamma Santina erano ancora così giovani, a diciassette anni avevano fatto la 'fuitina'. Lea era piccolissima quando lo uccisero, non s'è capito bene perché, allora non si parlava di 'ndrangheta, di droga, non aveva mai avuto precedenti>>. Per alcuni rapporti dei carabinieri, in realtà, Antonio era già un uomo di rispetto. «Al paese dicono c'entrasse il fatto che nostro zio Giulio Garofalo stava in carcere per omicidio, l'hanno diminato prima che mio zio uscisse. Poi hanno ammazzato anche zio Giulio nel 1982. Mai presi. Mai preso nessuno. Nemmeno gli assassini di mio fratello Floriano, che verrà ucciso trent'anni dopo papà, 1'8 giugno 2005». Nessuno sa nulla, nessuno vede nulla mentre imperversa e miete vittime su entrambi i fronti la faida GarofaloMirabelli, di cui Lea parlerà poi ai magistrati. Marisa ha un ricordo vivido e drammatico di quel primo morto in famiglia, del padre caduto in una guerra misteriosa e allora incomprensibile: «lo avevo otto anni quando hanno assassinato mio padre, siamo cresciuti nel terrore, mia mamma non voleva dormire da sola a casa e mio zio veniva a dormire da noi, per anni. Poi mia madre s'è messa a lavorare a scuola e noi siamo cresciuti dai nonni. Ricordo, sì, quella notte, le urla, la neve c'era, le gridate, non riesco a dimenticare il sangue di mio padre nella neve così bianca. Papà era andato a fare gli auguri di Capodanno alla sorella 85 in una palazzina, in questa palazzina è stato ucciso, poi l'hanno portato fuori, l'hanno messo in macchina ma non c'è stato niente da fare, noi bambini siamo andati dietro alla mamma, potevano essere le due di notte, era passato appena il Capodanno dell975». Nella voce di Marisa si sente l'affanno di quelle ore, si intuiscono i gesti concitati, le imprecazioni, le promesse di vendetta, poi la vita agra che segue sempre a certe notti decisive e terribili. «Mio fratello ha fatto scuola fino alla terza media, io ho preso il diploma magistrale. Mia madre cercava di nascondere la verità a Lea, però poi crescendo si sanno le cose, vai alla ricerca di quello che è successo. Lea battagliava, crescere in una famiglia con questi problemi ti può influenzare. Lea ha sentito molto, molto la mancanza di papà, chiedeva sempre com'era, se ci faceva regali, se ci portava in giro. Papà lavorava in un cantiere vicino Crotone, sulla Sila. Faceva l'operaio. Io mi ricordo la sua risata forte. Sorrideva tanto, papà. Anche Lea aveva la risata di papà, la stessa, l'aveva presa da lui e non lo sapeva, io non gliel'ho mai detto, adesso mi spiace non averlo fatto ... ». Prima di diventare una donna che manda in crisi il sistema di omertà della 'ndrangheta, Lea è una bambina solare, intelligente, con un possibile futuro molto diverso davanti a sé. Ma il futuro non è quasi mai nella disponibilità dei bambini, in Calabria meno che mai. «Lea ha fatto solo la terza media, mamma non ha voluto che proseguisse gli studi. La voleva punire perché le maestre la chiamavano sempre per l'indisciplina, ma a scuola era bravissima, leggeva tanto, voleva il diploma. Sognava 86 di laurearsi. Leggeva una marea di libri, Peppino Impastato, Falcone e Borsellino, la storia d'Italia, la Montessori ... quando è andata sotto protezione si è liberata e ha cominciato a leggere tantissimo. S'era fatta una cultura. Da bambina guardava Candy Candy e Hetdi, poi a 15 anni si è innamorata di questo ragazzo Carlo Cosco, che aveva quattro anni più di lei». È l'incontro decisivo. Carlo sarà l'uomo della sua vita e della sua morte. «Mia madre non era d'accordo, Co sco non le piaceva anche se non era implicato, erano una famiglia con quattro maschi e nessuno di loro lavorava. Le a stava con un'amica quando ha conosciuto Cosco. Passeggiava sul corso, si sono fermati a parlare. Mia madre l'ha anche picchiata per via di questo ragazzo. Un bel giorno se ne sono scappati, era il1990, lei aveva 16 anni, hanno fatto la fuitina pure loro. Sono andati in Sila. Vicino da noi c'è il villaggio Trepidò, c'è il lago Ampolline, sono andati là per un po' ... Quando è tornata, mia madre non l'ha accettata e Lea stava a casa di lui. Anche mio fratello l'aveva presa male, sulle prime. Più avanti mio fratello è stato in galera per omicidio, ma dopo tre anni di carcere è stato assolto e risarcito». Floriano Garofalo è la chiave. È diventato un mammasantissima. E il giovane Cosco, pochi talenti ma molta ambizione, vuole una parentela importante per scalare le gerarchie. «Mia madre ha lasciato tornare Lea, che era incinta di Denise. S'è ammorbidita. Lea è stata a casa da mamma e dopo che è nata Denise se n'è andata a Milano con Carlo, lui non lavorava ... Loro, i Cosco, avevano occupato abu87 sivamente a Milano via Montello 6, lui stava là con altri due fratelli. Le prometteva sempre che avrebbe trovato un lavoro, che poteva stare tranquilla. Lei ci sperava sempre. Diceva: io non ho avuto un padre, voglio un padre per mia figlia, voglio che Denise possa essere educata con idee più legali, che non viva in una famiglia di 'ndranghetisti». La realtà, in viale Montello 6, è molto diversa dalle speranze di Lea. Lo stabile negli anni Novanta si guadagna il nome di 'palazzo dei calabresi': le cosche di Petilia Policastro lo occupano e ne fanno una base di spaccio. Qui Vito - uno dei fratelli di Cosco - si rifugerà dopo la strage di Rozzano. Carlo Casco sarebbe un balordo da due soldi se non stesse con Lea, se non ne usasse il peso derivato da Floriano. «Se Carlo e suo fratello avevano uno spazio nella vendita di stupefacenti lo dovevano al fatto che Carlo era convivente mio», metterà più tardi Lea a verbale. Ma Carlo sente addosso il peso di questa dipendenza, è un frustrato, diventa crudele. Picchia Lea con regolarità. «La trattava come una schiava», sostiene Marisa. Tra ill994 e ill995 il 'palazzo dei calabresi' è un campo di battaglia tra gruppi di narcotrafficanti. Cade Antonio Comberiati, che s'era proclamato 'reggente' del palazzo e nel cortile viene freddato il 17 maggio 1995. Anche quest'omicidio resta senza colpevoli, ma Lea farà mettere a verbale la sua versione, accusando il suo compagno, Carlo Casco, e il fratello di questi, Peppe detto 'Smith': «Stavo dormendo, ero a casa con la bambina e sento sparare, mi sono affacciata fuori dalla finestra e vedo il corpo di Antonio Comberiati disteso a terra». Passano venti minuti. «Poi arriva mio cognato a casa mia, era ab88 bastanza agitato e mi dice 'minchia, non voleva morire, sembrava che aveva il diavolo in corpo'. lo gli chiesi: 'Ma è morto?'. E lui: 'Sì, sì'. Poi è venuto il mio convivente e io gli chiedo: 'tu dov'eri?'. 'Ero al Panino', che era un bar lì vicino, dice lui ... Ma lui non era al Panino, perché erano lì, uno controllava il portone, l'altro ha sparato, sono usciti, hanno buttato l'arma, hanno fatto il giro del piazzale e poi si sono ritrovati al Panino. Questi sono i fatti ... Comunque a sparare è stato Smith». Con questo verbale, Lea firmerà la propria condanna a morte. Negli ultimi mesi del1995 Carlo Cosca viene arrestato per droga. Racconta Marisa: «Mia sorella cominciò a fare i colloqui a San Vittore, e un giorno lui la picchiò davanti alla guardia, durante un colloquio. Sempre la picchiava, qualsiasi cosa non andava bene. Lei allora diceva: 's'è messo con me per avere l'amicizia con nostro fratello Floriano, solo per quello'. Nostro fratello col passare del tempo era diventato importante. Casco era suo amico, dietro mio fratello è cresciuto pure lui, Lea diceva che Cosca amava il potere. Dalla lite durante il colloquio fino agli inizi del 1997 lei decise di non vederlo più, ruppe e non andò più ai colloqui, non portò più Denise: non si erano sposati perché lei diceva che Casco non era l'uomo della sua vita». Cosca comincia a vivere Lea come fonte di umiliazione. I compagni lo deridono. Forse la decisione di eliminarla nasce allora, ancora prima del pentimento di Lea. Che ormai aveva preso la sua strada senza ritorno. «Lea andò a Bergamo, ospite delle Orsoline tramite don Nicola Zambrano che era del nostro paese. Poi si è trovata 89 un lavoro in pizzeria e una casa a Bergamo, era ill998, è rimasta a Bergamo fino al2002, Cosco stava ancora dentro». Lea voleva la sua vita, la sua libertà: «Io l'ho lasciato, non voglio sapcrne più nulla», ripeteva a Marisa. Ma era più facile a dirsi .. «Dove andava la seguivano i problemi. A Bergamo le bruciarono la macchina e il motorino, al paese la seconda macchina. Lei allora mi disse: 'Adesso li sistemo io, li denuncio e mi riprendo la mia libertà'. Parlò dell'omicidio di viale Montello nel1995 e di altre cose che ho Ietto sui giornali, raccontò di Cosco e anche di nostro fratello Floriano, nel luglio 2002 entrò nel programma di protezione, a luglio stava qua in ferie e una notte si vide saltare la macchina per aria, chiamò i carabinieri e da allora non tornò più. Non la vidi più. I carabinieri mi dissero: sta bene. Mi fecero parlare con lei. Lei mi disse: 'Sto bene, non preoccupatevi, non sopportavo più questa situazione, non posso dirti dove sono'». Da quel momento Lea, con la piccola Denise, diventa un fantasma. Un'ombra che grava sui Cosco e sui Garofalo. «Dopo un po' di tempo, un po' di anni, si cominciò a sapere nel paese che lei stava collaborando. Non doveva uscire, questa notizia. Lea disse: 'Se questa storia s'è saputa è perché c'è qualche corrotto che parla'. Del pentimento di Lea solo io sapevo, in famiglia ... Nel2007 una notte ci siamo incontrate ad Ancona, in una caserma dei carabinieri, era marzo. Venne con la bambina, vidi che non stava bene, era magrissima, aveva enormi problemi economici, era chiusa in casa, non lavorava, si deprimeva. È stata in tanti posti, a Udine, a Campobasso, a Perugia, a Firenze. Ad 90 aprile 2009 è uscita dal programma di protezione, diceva che non sopportava più quella situazione: 'Sto facendo la vita peggio di un criminale, io devo avere paura di loro'». Qui la vicenda di Lea Garofalo diventa esemplare. Dopo lo strappo, il coraggio di cambiare vita, la speranza di averla cambiata davvero, ecco lo sconforto, quel sentimento terribile di abbandono che coglie tante collaboratrici di giustizia alle prese con problemi assolutamente peculiari rispetto a quelli degli uomini: donne che si portano dietro i bambini, per i quali avevano scelto di fare il grande salto; e nel nome dei quali tornano indietro, dopo essersi accorte di non paterne garantire la sopravvivenza. Marisa racconta ancora: «Era a Campobasso in quel periodo. Mi chiamò: 'Venite a prendermi, da sola ho paura a venire'. È stata a casa una settimana durante le vacanze di Pasqua, nel frattempo Denise aveva quasi 18 anni, era il 2009, e si incontrò col padre. Gli raccontò dei problemi della madre sotto protezione, lui si offrì di venire a Campobasso a trovarle un appartamento, Denise disse alla madre che il padre voleva sostenerle. Si erano convinte di creare con lui un rapporto di amicizia che poi alla fine si rivelò tutto falso. Mia sorella non è mai entrata in questa casa, dormiva in macchina, nell'appartamento c'era Carlo Cosco». Come una stella risucchiata in un buco nero, Lea s'avvicina ormai in fretta all'esito finale della sua storia. «A fine aprile mia sorella e mia nipote decisero di andare a Roma per il l o maggio. Tornarono la mattina del5 e tentarono di sequestrarle a Campobasso. Un finto tecnico andò da loro, Massimo Sabatino, mandato da Carlo Cosco. Lea reagì come una furia, era una pronta, non si metteva 91 paura, aveva fatto un corso di autodifesa, intervenne anche Denise, Sabatino scappò perché aveva l'ordine di non taccarla. Lea fece denuncia contro Carlo Cosco». Ma non accade nulla. «Lea mi chiamò: 'Vogliono rimettermi nel programma di protezione, tu che dici?'. 'Devi decidere tu'. 'Ma Denise non vuole tornare con me nel programma di protezione e io senza Denise non vado da nessuna parte'. Così tornò a Petilia, al paese, in appartamentino di 50 metri quadrati, camera e bagno». Passa un'estate di attesa, Lea non può sapere che le stanno preparando una nuova trappola, o si illude che la trappola non scatti, che quella figlia avuta insieme spinga il suo uomo a pietà. «Chiamai il 22 novembre 2009 sul cellulare di mia nipote, mi rispose Renata, moglie del fratello di Cosco. Dissi: 'Come mai hai il telefono di Denise?'. 'È qua da me', 'E mia sorella?'. 'Non so dov'è'. Chiamai mia sorella e mi rispose. 'Torna a casa, lì è pericoloso', le dissi. 'Finché sto con Denise non corro pericoli, domani o dopodomani torniamo'». Marisa e Lea si sentono ancora in quei due giorni. Marisa chiama la sorella alle otto di sera di martedì 24 novembre 2009. «Lea mi aveva chiamato alle sei e mezzo di pomeriggio e non ero riuscita a parlarle. Dopo le otto e mezza mi chiamò mia nipote Denise: 'Hai sentito mamma?', mi chiese». Era già troppo tardi. «il padre separò la madre dalla figlia. Avevano organizzato le cose in modo che Denise andasse a salutare gli zii. Lea a quel punto rimase sola all'Arco della Pace». 92 Sono gli ultimi istanti, una telecamera di sorveglianza filma questa donna sola, abbandonata da tutti, che va incontro alla morte. «Lea viene presa da queste persone su un furgone, persone mandate da Carlo Cosco. Massimo Sabatino, in carcere, fa una confidenza a un amico e dice che Lea è stata prelevata da Curcio Rosario, Venturino Carmine e lui stesso per consegnarla a Cosco e da lì dice che non sa più nulla. Mia sorella venne torturata per sapere ciò che aveva detto ai magistrati. Poi, quelli hanno avuto gli ergastoli». Con voce adesso straordinariamente ferma, Marisa mi ripete sei nomi: «Carlo Cosco, Vito Cosco, Giuseppe Cosco, Carmine Venturino, Rosario Curcio, Massimo Sabarino. Tutti ergastoli. E speriamo siano confermati per sempre». Si fa sera. Il figlio più piccolo è ormai vinto dal sonno. La storia di sua zia Lea, che forse un giorno gli racconteranno, è ormai finita. «lo ricordo di mia sorella la voglia di vivere, di fare le cose. Era molto generosa. Un giorno fece la spesa a una famiglia con tre bambini, ed era il periodo che non aveva un soldo per tirare avanti. Io le dissi: 'Tu stai come loro, e pure peggio. Sei matta?'. 'Vaglielo a spiegare tu a un bambino di due anni che non ha latte e biscotti', mi rispose. Voglio che la memoria di Lea resti viva». Dieci La primavera calabrese passa per i pentimenti delle donne di 'ndrangheta, per il coraggio di madri come Lea Garofalo. Ma anche per la resistenza delle donne dello Stato, per la loro ricerca di una politica 'normale'. Se il potere mafioso verrà sovvertito e rivoluzionato, sarà per l'unione di queste due forze: perché le donne di 'ndrangheta devono sapere, vedere che un'altra via è possibile, e le donne delle istituzioni devono capire che il loro sforzo non dispiega i suoi effetti soltanto negli uffici amministrativi e nella società emersa, ma funziona da esempio, da propellente, per tante ragazze cresciute nell'undenvorld mafioso. Dunque, mentre a Roma si discute sul da farsi, a Sagunto hanno cominciato a fare squadra le sindache. «Siamo amiche ormai. E poi il nostro è un messaggio alle donne, di qualsiasi generazione. E genere. Lavorando seriamente si può essere eletti, si può fare questa cosa bellissima, il sindaco, e dare testimonianza di buona pratica amministrativa. Si puÒ», mi dice Maria Carmela Lanzetta. Si può, sì, quando si crede in qualcosa, infischiandosene di apparire ingenue, di sembrare le 'quattro femminucce' con cui la propaganda maschilista, spesso coincidente quaggiù con quella mafiosa, tenta di ridicolizzarti e banalizzarti. 95 Il partito in comune, il P d, sembra entrarci davvero poco, perché gli schieramenti giù in Calabria di rado ricalca· no opzioni politiche chiare, spesso seguono logiche familistiche o affaristiche. Nel nostro caso, tra le sìndache che stanno animando il risveglio della regione più dimenticata d'Italia, c'è un patto di genere, la voglia di non mollare, il bisogno di non sentirsi sole. La Lanzetta mi racconta delle sue colleghe, Elisabetta Tripodi, sindaca di Rosarno; Annamaria Cardamone, sindaca di Decollatura, e Carolina Girasole, sindaca di Isola Capo Rizzuto. Un po' fa loro da chioccia perché è la più matura, la più mamma. Un po' fa da testimoniai, perché con la sua storia ha acceso una luce sulle storie di ciascuna, sulle paure, sugli slanci. «Elisabetta è bravissima, preparata e determinata, condividiamo esperienze comuni, di vita e di formazione personale. In più lei ha la sua esperienza di segretario comunale che le è stata molto preziosa nel lavoro di sindaco, un po' la invidio per questo. Anche Annamaria ha lavorato a lungo negli uffici pubblici, queste sono cose importanti per la preparazione. In Carolina vedo sofferenze simili a quelle che patisco io. Isola Capo Rizzuto è un paese molto difficile, lei però non molla. Non abbiamo nessun motivo personale per fare il sindaco con tutte le rinunce che l'incarico comporta qui da noi». La sindaca di Monasterace mi ricorda, scrupolosamente bipartisan, «altre colleghe più giovani, di cui si parla poco: Rosita Femia, 29 anni, sindaco di Canolo, e Marisa Romeo, già rieletta a Ferruzzano, entrambe del P d, e Anna Brosio di Parghelia, Pdl: anche Anna ha dovuto resistere a vari 96 tentativi di intimidazione. Altre come loro verranno, se resistiamo smetteremo di essere sole». Che il cambiamento non piaccia a tutti in terra di Locride è ovvio. Domenica 21 ottobre «La Riviera», un giornaletto locale attento al dialogo con i politici e gli amministratori, ha dedicato alle sindache un corsivo d'apertura con toni che mettono i brividi: «A Decollatura il13 ottobre splende il sole dell'unità nella legalità tra Nord e Sud. Dal paese di Michele Pane le tre donne beate dell'antimafia - Catramane, Lanzetta, Tripodi - mandano un effluviale saluto, materializzato in un mazzo di girasoli, a Ilda Boecassini, 'per la sua attività di contrasto alla mafia'. Siamo sicuri che la Rossa ricambierà con l'invio di tre corone funebri - siamo ormai vicini alle urne -le uniche abilitate a propiziare un posto in Parlamento». Premessa la difesa della più totale libertà di espressione e di pensiero, pare difficile non capire come, in una terra che è, sì, dd poeta Michele Pane, ma anche di clan feroci che hanno scritto la storia criminale dell'ultimo mezzo secolo, questo pensiero danzi, ahneno involontariamente, sull'abisso dell'avvertimento mafioso. Lo scherno per le «donne beate dell'antimafia» (ciascuna delle quali è costretta a vivere sotto scorta per non essere accoppata dai picciotti), la beffarda alterazione dd cognome della Cardamene in Catramane, il disprezzo per 'la Rossa' Boccassini, il pm più odiato dai mafiosi dopo la morte di Giovanni Falcone, anima della più clamorosa operazione contro la 'ndrangheta al Nord ('Infinito'), il riferimento ai girasoli che, in omaggio alla sindaca di Isola Capo Rizzuto, hanno preso il posto delle mimose («non mimose ma girasoli» è 97 lo slogan del movimento femminile nato attorno alle sindache): tutto sembra concorrere nel formare un messaggio preciso. Che appare perfino esplicito nella sua conclusione sulle «tre corone funebri». «Ci siamo dette che dobbia mo diffondere il testo in tutta Italia. Quest e frasi sono l'epilogo di un anno di attacchi continui e ossessionanti», mi dice la Lanzetta. Quand o parlo con Annamaria Cardamone scopro toni più lievi: «Conosco l'estensore dell'articolo, e, per come lo conosco, non è un mafioso. È un professionista, un professore che scrive libri, uno che lavora anche molto sui beni culturali. Diciamo che non ama molto le donne, non vedo altra spiegazione ... c'è un senso di sofferenza in questo momento e di ... insofferenza per noi». La sindaca di Decollatura coglie il mio stupore: «Però anche chi risponde in un certo modo a determinate situazioni finisce per... fare mafia. Per denigrarci qui, sostengono questa storia delle candidature, dicono che vogliamo fare carriera politica. Lei deve capire che il sistema prima di noi era fatto in un certo modo. lo ho detto chiaramente, in pubblico, che aspetto questa corona funebre per vedere chi me la manda, certo non me la manda la Boccassini. Io non voglio piangere, non voglio far vedere che ho paura». Nemmeno Carolina Girasole è una che si piange addosso, pure alle prese con problemi pesanti. «Un pesce pulito in un mare molto inquinato», mi dice un collega di Croton e con lunga esperienza di mafia. n problema di partenza di Carolina è una parentela. Acquisita. La sorella di suo marito ha sposato Francesco Arena. Lo zio di Francesco è Nicola Arena, 75 anni, ritenuto il padrin o storico della zona. 98 «.Mio cognato è distante da quella parte di famiglia, è un professionista, incensurato», mi spiega la sindaca. Che è andata di persona, con don Ciotti e l'associazione Libera, a prendere possesso, a nome della collettività, delle terre degli Arena, già confiscate, ma che nessun amministratore comunale aveva mai osato rivendicare. Ripercussioni in ambito familiare? «Nessuna. Che mio cognato si chiami Arena o in altro modo non cambia niente per me». Quarantotto anni, due figlie, biologa di professione con nessuna esperienza politica, anche la Girasole ha subìto attentati e pressioni. Ad aprile 2008 diventa sindaco in questo paesane di sedicimila anime della provincia crotonese che esce da tre anni di commissariamento, con istituzioni che, più che sciolte, se la sono data letteralmente a gambe. «Fino a quando possiamo far finta di non vedere?», si chiede con il marito Franco, un altro marito supporter, fondamentale, come per la Lanzetta e per la Tripodi. Lo slogan della campagna elettorale con una lista P d-Arcobaleno e liberi professionisti di buona volontà, è presto inventato: «È qui che vogliamo vivere». Vince l'entusiasmo. E scatta la reazione. In capo a pochi mesi, bruciano la macchina del responsabile dell'urbanistica, quella del vicesindaco e, infine, quella del padre della sindaca. Provano a incendiare il portone del municipio. Ma, in sostanza, non succede niente. Il grande circuito dei media nazionali a malapena si accorge di ciò che sta accadendo a Isola Capo Rizzuto. La Calabria è lontana, sembra una terra perduta. E lo Stato non si rende conto del lavoro duro, pieno eli rischi di varia natura, che certi sindaci svolgono in posti dove la maggio99 ranza dei cittadini usufruiva dei servizi - acqua potabile, raccolta rifiuti- senza pagare le tasse e alcuni uffici pubblici avevano semplicemente smesso di emettere le bollette. Questa dei tributi è una questione centrale nel braccio di ferro tra lo Stato italiano e le cosche. Perché dietro il rifiuto di pagare non c'è soltanto l'idea, purtroppo molto meridionale, che ciò che è pubblico sia dovuto. C'è anche la negazione d'un riconoscimento, un atteggiamento che affonda le radici nella melma dell'Italia postunitaria corriva col brigantaggio e che produce i suoi terribili risultati un secolo e mezzo dopo. «Beh, credo che un po' dei miei problemi derivino da un modo diverso di intendere l'amministrazione pubblica», mi dice Carolina Girasole con una buona dose di understatement. «Basta poco, sa? Anche solo trattare gli argomenti senza nascondersi dietro giri di parole». Non è solo un giro di parole quello che porta la sindaca ad aver a che fare con i primi 37 ettari di terra confiscati agli Arena. Per molti anni, la gestione dei beni tolti ai mafiosi era rimasta silente, nessuna amministrazione s'era fatta avanti, chissà se soltanto per disattenzione. «Noi per la prima volta siamo andati lì a raccogliere i finocchi, a mietere il grano>>: ci sono belle foto di Carolina con don Ciotti; e c'è tanto sole nei campi degli Arena, un caldo sole di maggio. Peccato che quel giorno non si trovi una trebbiatrice, chissà come mai, tutte le macchine paiono svanite d'incanto. «Tutti avevano paura», spiegherà ai cronisti Antonio Tata, responsabile locale dell'associazione di don Ciotti. «Ma il raccolto l'abbiamo salvato lo stesso». «Libera ha velocizzato un processo che pensavo impos100 sibile», mi dice la Girasole, anche lei impegnata nell' associazione. Le Misericordie di don Scordia contendono a don Ciotti la gestione delle terre. E forse lo scontro vero, benché invisibile, si consuma qui tra due sacerdoti, tra due idee di impegno. La sindaca è comunque attenta che tutto questo slancio non sembri una pura carrellata di immagini buona per i fotografi. «Abbiamo cinque progetti per amministrare i beni confiscati, progetti esecutivi, coi lavori già partiti». La cooperativa, la casa della musica, l'orto botanico, la scuola materna e una struttura per le vacanze dei ragazzi disabili non sono chiacchiere. A ottobre 2012 è arrivato anche un finanziamento per ristrutturare una villa costruita sulla terra degli Arena: ci faranno un ostello e una sala congressi. Un ulteriore schiaffo ai mammasantissima. Come per la Lanzetta, la reazione ha due piani, naturalmente non ascrivibili entrambi in modo automatico alle cosche. Però è indubbio che dove non arrivano gli incendi e i colpi di pistola può arrivare il discredito. <<Sono stata attaccata violententemente da un blog, che tutti i giorni scrive contro di me. Dicono che voglio fare la lotta alla 'ndrangheta ma che la 'ndrangheta ha votato per me; che mio suocero costruì una casa abusiva nel 1975; che il mio bisnonno era un mafioso e fu deportato da Siderno. Mio cognato si chiede perché ogni giorno debba essere insultato assieme ai figli. La strategia è la macchina del fango: e il fango non è più la 'ndrangheta ma sono io, che parlo di 'ndrangheta e parlandone diffamo il paese. Io li ho anche denunciati ma la loro viene considerata critica 101 politica. Non voglio fare l'eroina e non voglio fare la lotta contro nessuno. Pensano che crolli? Ma non crollerò». «Non mettere tutte le sindache sullo stesso vagone», mi ammonisce un magistrato di primo piano. La voce sul voto 'ndranghetìsta è la più insidiosa, perché se ne trova traccia perfino a Roma, sussurrata a mezza bocca nei corridoi del PJ, il partito di Carolina. La linea del blog in questione è comunque un classico del genere. Si prendono, ad esempio, sei vittime della mafia, per ricordare le quali sono stati piantati sei alberelli dalla sindaca e dal prefetto; si sostiene che i sei alberelli dopo qualche mese sono ormai secchi e abbandonati; ci si scandalizza e si invoca che le vittime della mafia vengano «lasciate riposare in pace» dai professionisti d eli' antimafia: cioè dimenticate, senza che se ne parli più. L'attacco contro iniziative come quelle di don Ciotti è costante: «l'antimafia solo a parole», si dice, come se il potere delle parole, la circolazione del libero pensiero, non fossero il nemico principale di picciotti e coppole storte. La Girasole pensa che dietro il blog ci sia «proprio la 'ndrangheta; non un singolo, ma persone delle quali ho toccato gli interessi». Mi dice un amico parlamentare, da anni impegnato nel" la lotta alle cosche: «Sai, in Calabria ogni cosa è uguale al suo rovesci_o». L'ho già sentito, l'ho già imparato in questo viaggio. La frase, del resto, asseconda in pieno la tendenza di pensiero secondo cui le mafie avrebbero ormai infiltrato l'antimafia, conseguendo l'ultimo definitivo successo: confondere il male col bene in un'unica melassa grigia, dove al coraggioso che resiste viene strappato anche l'estremo scudo: il diritto a un nome pulito. Penso che dobbiamo 102 batterci contro questo grigio e distinguere. E credo che il metro per distinguere chi è mafioso e chi no stia negli atti concreti, ben visibili soprattutto nell'amministrazione della cosa pubblica. Riconsegnare alla collettività le terre di un boss vale ben di più dell'eventuale chiacchiera d'un collaboratore di giustizia. «Nei momenti difficili mi sento con Maria Carmela e le altre», mi dice Carolina Girasole al nostro secondo colloquio, davanti alla Provincia di Roma, dove ha portato un dossier a un convegno sulle intimidazioni subìte dagli amministratori. «Quando una di noi è abbattuta, le altre le stanno accanto. Vede, ciascuna è arrivata a questo punto solo per aver cercato di amministrare bene. E ognuna s'è trovata a doversi difendere dagli attacchi, non politici ma personali. Siccome siamo donne, pensano sia più facile convincerci ad abbandonare. Ma nessuno c'è riuscito, finora, con le intimidazioni, perché la democrazia non si lascia prevaricare. Ora va meglio, molto meglio. I beni confiscati ai mafiosi hanno rappresentato molto per la nostra gente, molti hanno cominciato a capire, non vedono più il paese occupato dalla 'ndrangheta. Ma noi lavoriamo soprattutto sui servizi ai cittadini. Sì, le donne possono cambiare questa storia. Ma non da sole. Insieme agli uomini. Noi calabresi, tutti insieme, possiamo farlo». Annamaria Cardamone è convinta di essere la meno esposta nel movimento delle sindache: «Qui non c'è una famiglia egemone, c'è solo illegalità diffusa, procurata dagli eccessi del potere amministrativo precedente», mi dice con la stessa voce pacata con cui ridimensiona gli attacchi sui si ti e sui blog. «Certo che mi difendo ogni giorno da de103 nigrazioni e lettere anonime, ma la giunta mi viene dietro, io non mi sento sola. E rispondo giuridicamente, se serve». Annamaria viene dalla sinistra democristiana, è una prova che l'antica intuizione veltroniana poteva funzionare, riformismo e legalità in nn'alleanza con la parte migliore del cattolicesimo italiano, quello dell'impegno civile. «Quando è nato il Pd sono entrata subito». Anche da lei, a Decollatura come a Monasterace o a Isola Capo Rizzuto, la mancanza di consuetudine con le regole genera mostri: «Abbiamo rotto prassi di illegalità, riorganizzato l'ufficio tecnico». Per dodici anni il predecessore della Cardamene ha fatto il bello e il cattivo tempo in paese e in municipio. Poi il clima è cambiato. Le donne ci hanno messo lo zampino. «Sì, c'è una nuova stagione per le donne calabresi. Molte vogliono ribellarsi, molte vengono da famiglie mafiose e dicono basta. Ho solo paura che siano lasciate sole». A metà dello scorso ottobre, la Cardamene ha ospitato le colleghe a Decollatura: «Volevo che potessero parlare con tranquillità, invece abbiamo avuto molti attacchi. Ma se siamo tante donne insieme, dimezziamo il peso di queste paure, raccontandocele tra noi». Nessun cedimento? «Certo che sì. A novembre del 2011 volevo lasciare, quando le lettere anonime hanno coinvolto la mia famiglia». Non ha mollato, nemmeno lei. «Penso che vogliano farmi fare atti illegali in municipio». Una pausa. Poi: «Beh, io non li accontenterò mai. Non sarò il sindaco di tutti». Undici Mentre il clan del suo compagno Carlo Cosco progettava come eliminarla, Lea Garofalo finì a dormire in macchina, assieme alla figlioletta Denise. Le mancavano i soldi per la spesa, viveva quasi da clochard, aveva problemi col programma di protezione, «fece persino ricorso al Tar» ha raccontato la sorella Marisa. Maria Concetta Cacciala venne di fatto riconsegnata ai suoi carnefici: non essendo accusata di alcun reato, il suo status era paradossalmente più debole rispetto a quelle delle vere 'pentite' di mafia; provò invano a scappare, rifugiandosi dai carabinieri, con la scusa di dover discutere il sequestro del motorino del figlio quattordicenne. Era una morta che cammina, tutti lo sapevano ma nessuno fu in grado di intervenire. Rosa Perrero, teste del processo 'All lnside', si ritrovò nell'inverosimile situazione di essere strangolata economicamente ma intestataria a sua insaputa di un supermercato, uno dei molti di una catena nazionale che il clan Pesce avrebbe, secondo i giudici, affidato a prestanome. In famiglia era stata decretata la sua condanna. Tita Buccafusca, morta come Cetta Cacciala bevendo acido muriatico, si presentò col figlio piccolo in braccio 105 alla caserma dei carabinieri di Limbadi e dai carabinieri fu condotta fin dentro gli uffici della Direzione distrettuale antimafia: era la moglie di Pantaleone Mancuso, 'Luni Scarpuni', considerato dai rapporti investigativi un astro nascente della cosca egemone nel Vibonese. Voleva parlare, collaborare con la giustizia. In quelle stesse ore, i familiari avrebbero bussato alla caserma di Limbadi avvisando che la donna era un po' toccata e che la sua eventuale volontà di 'pentirsi' non sarebbe stata altro che frutto di gravi problemi psichici. Furono creduti? Pare davvero improbabile. Sta di fatto che, la sera, Tita tornò a casa, la collaborazione con l'antimafia si interruppe e lei, qualche settimana più tardi, bevve l'acido muriatico. Pochi giorni prima, suo marito 'Luni', non privo di improntitudine, aveva inviato un esposto in procura denunciando praticamente lo Stato per quelle ore di assenza della moglie: «La signora Buccafusca è gravemente ammalata ... si è reso necessario al suo rientro un ricovero presso la psichiatria di Polistena». Viene in mente la storia di Leonardo Vitale, il primo pentito della mafia siciliana, spedito velocemente in manicomio dopo le sue rivelazioni. Perché c'è un tempo per ogni cosa. Le donne di Calabria scommettono la propria vita sull'idea che quel tempo sia arrivato: ma che sia così o non lo sia, non dipende soltanto da loro. <<l /immani 'ndannu stanno adu /oculari u /anno a cazzetta chistu onè postu per idi!», scrive la giornalista Imma Divino in Giulia a pugni stretti, un amaro romanzo di denuncia rimasto nel circuito delle edizioni locali: «le femmine devono stare davanti al 106 focolare a far la calza», sembra la legge eterna dei maschi, mafiosi e non mafiosi, nella terra delle 'ndrine. Sicché queste sono anche storie di donne allo sbando. Donne senza tutela, che hanno rotto i patti con l'universo maschile da cui erano circondate. «Le donne batteranno la mafia», ha ripetuto don Ciotti. Ma lo Stato dovrebbe fare di più, questi racconti di dolore ne sono la dimostrazione. «La 'ndrangheta ha un punto debole: le donne delle famiglie che vogliono una vita diversa per i loro figli», ha spiegato, dopo la morte di Cetta Cacciola, Laura Garavini, del Pd, Commissione Antimafia, autrice di un'interrogazione parlamentare con Walter Veltroni. «La scelta di queste donne è veramente eversiva rispetto al contesto», mi dice Caterina Malavenda, che ha lasciato la Calabria a vent'anni per diventare una delle più famose penaliste milanesi. «Ed è persino più difficile che per una donna siciliana. Una calabrese è parte attiva d eli' economia della famiglia, esercita la supplenza quando i maschi sono fuori gioco per un motivo o per l'altro. Quando si ribella alla famiglia, si ribella dunque a se stessa, è come un pesce che esce dall'acquario. Sia che lo faccia come pentita, rompendo le regole della cosca, sia che lo faccia come donna comune, ribellandosi magari a una prassi politica o amministrativa, il suo gesto è dirompente». «Potrebbe essere una svolta epocale, sì. A patto di dare a queste collaboratrici di giustizia una adeguata protezione», insiste la Garavini. Quello è il punto. La strategia mafiosa per soffocare la primavera del107 le donne calabresi è duplice, perché la 'ndrangheta deve fronteggiare, come abbiamo visto, due tipi di pericoli. n primo è, diciamo, endogeno: figli, sorelle, mogli nate e cresciute dentro ai clan, che fanno saltare il tavolo delle regole. Per esorcizzare questo pericolo, gli uomini del disonore usano la minaccia della morte fisica e quella della morte economica. Per le loro donne che tradiscono c'è quasi sempre l'acido muriatico, con il terribile contenuto simbolico ad esso collegato (colpa e colpevole devono bruciare perché si giunga alla purificazione). Ma prima d'arrivare alla morte fisica la donna dei clan che cerca di liberarsi viene condotta alla fame e alla disperazione, per i suoi figli si apre un orizzonte di miseria e di ostracismo, a meno che la traditrice non torni sui suoi passi, non faccia rientro nella cerchia del clan dove, nove volte su dieci, la attende appunto la pena capitale. «Le storie di Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca hanno un denominatore comune: il prezzo altissimo che persone del tutto innocenti devono pagare, penso pure ai figli delle tre donne, solo per essere vissute in un ambiente intriso di violenza e di illegalità», ha sintetizzato a beneficio dei cronisti calabresi il procuratore Giuseppe Pignatone. Il secondo pericolo per i mafiosi è esogeno. Viene dali'esterno, dalla società borghese, 'perbene', dove è cresciuta (nonostante tutto anche qui), una generazione di amministratrici e militanti politiche indipendenti, forti e decise a cambiare la loro terra anziché scappare altrove per garantirsi un futuro migliore. Sono donne che quasi sempre hanno vissuto il Sessantotto o il Settantasette, hanno respirato 108 il profumo della contestazione alle strutture autoritarie della società arcaica di quaggiù. Donne che hanno avuto dalla loro parte famiglie accudenti, ceto professionale e benestante, da cui sono state mandate a studiare fuori, spesso al Nord. E che sono tornate, portando il meglio di quanto avevano appreso all'interno dell'anomalia calabrese. Contro questo pericolo estremo - perché la buona amministrazione vale a dimostrare che non c'è motivo strutturale o antropologico di anomalia, e che lo Stato è davvero la scelta migliore per i cittadini- i mafiosi combattono con le intimidazioni, con gli incendi delle macchine e i colpi di pistola contro gli usci di casa. Non solo. In qualche modo, tentano di combattere anche una battaglia che mi verrebbe da definire culturale se non provassi ribrezzo nell'associare un'idea di cultura ai picciotti dalla coppola storta. Eppure credo che sia necessario guardare senza filtri ideologici a questo aspetto della questione. Perché l'egemonia, per così dire, culturale dei mafiosi viene spesso perseguita o avallata da persone che mafiose non sono: da politici, avvocati, medici, amministratori, perfino giornalisti, portatori di un grumo di interessi e di convinzioni, di pregiudizi e di credenze che, oggettivamente, li rendono alleati dei clan. Ancora una volta il caso di Monasterace può essere esemplare. Incontro di nuovo Maria Carmela Lanzetta a Roma. È venuta a chiedere un intervento del ministero dello Sviluppo in favore delle operaie delle serre, le 'sue' operaie: «Perché questa storia non può essere dimenticata, troppo facile rimuovere il problema non parlandone più». 109 «Se resto in carica io? Bah, resto in carica ... alla giornata», mi dice. È dura, molto dura. La calunnia è un venticello lieve ma costante. «Vengono a riportarmi solo giudizi negativi della gente, e io ci sto male». Facebook è un calvario quotidiano. Le sigle si sprecano sul social network, e dietro ciascuna di esse può nascondersi chiunque. I post sono del seguente tenore: «bisognerebbe ammazzarla», «se vengo a Monasterace quel sindaco li bisognerebbe stuprarla e metter/e un rospo nella bocca» ... «lo faccio denuncia ma non succede mai niente». L'ultima lettera anonima è quasi rassicurante rispetto al delirio di minacce web: «Ti consigliamo di lasciare, ormai è finita per te, abbiamo registrato le tue male/atte». «lo li chiamo 'i consigli per gli acquisti'». Ride, e per un momento è di nuovo lei. Ma si fa sangue amaro, non è paura, è rabbia. L'impopolarità tra i suoi concittadini pare essere per lei un fardello ben maggiore dell'incendio alla farmacia o dei colpi di pistola contro la Panda. Si difende, certo, dalle accuse di De Leo e degli altri consiglieri d'opposizione, «tutte sballate»: i muri su cui poggiava la vecchia piazza andavano rifatti, c'è una questione di legalità, per quei muri di cemento armato devi passare dal genio civile e del passaggio non c'era traccia, c'era anche un problema col demanio, soldi da pagare, non si può proseguire su una strada di irregolarità. Sembrano affermazioni di senso comune, ma nella Locride il senso comune non è sempre stato il principio guida dell'amministrazione pubblica. «Non ho favorito proprio nessuno, ho degli architetti che mi hanno consigliato: ora passando sulla strada si vede 110 il mare, quando abbiamo abbassato quella piazza orrenda abbiamo pensato alla gente, non certo a qualche privato che abita lì. Può anche non piacere la mia scelta, l'architettura è molto opinabile e io sono disposta a rivedere tutte le mie decisioni, purché si lascino da parte accuse infondate. Io vengo denunciata su tutto ormai». È una strategia? Quali sono i confini tra i sacrosanti diritti dell'opposizione, controllo e denuncia, e un martellamento con il solo obiettivo di liberarsi della sindaca scomoda? «Il mascariamento», mi dice qualche carabiniere che conosce da molti anni uomini e cose laggiù, «è un brutto modo di fare politica, ma è molto praticato. Si cerca di farti passare per un poco di buono, ti si isola, poi il giorno che ti succede qualcosa di brutto la reazione della gente è: 'Visto? Chissà cos'altro aveva combinato' ... ». «Sono stata al Viminale a parlare dei nostri problemi. Ho detto chiaramente che non posso più assicurare la legalità a Monasterace se negli uffici più importanti non ci sono le giuste figure professionali ... Ho bisogno di un ufficio tecnico stabile, ora ho un'architetta bravissima che può venire solo due giorni a settimana, mi basterebbe lei a tempo pieno, invece anche lei andrà via. Per non farle perdere una giornata a Reggio capita che vada io al posto suo in alcuni uffici ... ci arrangiamo, ma così non va». Non parla a casaccio la Lanzetta quando cita l'ufficio tecnico e la legalità da assicurare. Perché proprio dall'ufficio tecnico è venuto finora il più grosso problema di legalità della sua amministrazione. È il 2009, c'è l'alluvione a Monasterace, c'è Bertolaso alla protezione civile, è il tempo in cui arrivano messaggi 111 chiari «date la 'somma urgenza', date, fate!». Fare, e fare in fretta saltando tutti i controlli, è il mantra che dal governo centrale si dirama in periferia. In quella periferia, nell'ufficio tecnico di Monasterace siede dai primi anni Novanta il dirigente Vito Micelotta. Con «procedura di somma urgenza» l'ufficio affida circa quarantamila euro dei lavori del movimento terra (la gran parte delle opere) a una ditta riconducibile- secondo l'accusa - ai vertici del clan Ruga. «Me ne sono accorta quando ormai il lavoro ~ra stato affidato, sono pronta ad assumermi le mie colpe e l'ho detto anche ai carabinieri», mi racconta Maria Carmela in una pausa del suo tour inesauribile per uffici romani a perorare le cause del suo paese e a cercare di raggranellare soldi. Quella dei soldi è la buccia di banana su cui rischia di scivolare l'amministrazione della sindaca-farmacista. Ma c'è poco da fare: il capitolo dawero imbarazzante, per questa donna che rischia la pelle contro le cosche e che i carabinieri di scorta non perdono di vista un attimo, mentre chiacchieriamo seduti alla 'Caffettiera' di piazza di Pietra, è quell'affidamento in «somma urgenza». La Direzione distrettuale antimafia ha acquisito i fascicoli. Curiosamente, l'opposizione, capitanata da Cesare De Leo, ha denunciato tutto l'operato della sindaca eccetto quella vicenda. Quando incontro De Leo una sera di giugno 2012 in un albergo di Riace, lui non me ne fa nemmeno parola, eppure di parole contro Maria Carmela Lanzetta non è certo avaro. Un momento di disattenzione, cui forse non è del tutto estranea la circostanza che Micelotta, coinvolto e poi prosciolto nei primi anni Novanta nelle due 112 inchieste 'Stilaro', ha una solida posizione al Comune fin dai tempi in cui De Leo faceva il bello e il cattivo tempo in paese. Sembra anche qui di trovarsi in una notte in cui tutti i gatti sono grigi. Sembra. Ma, come capita per molte cose in Calabria, siamo davanti a un'illusione ottica. Una fonte qualificata dei carabinieri mi racconta che in realtà la Lanzetta ha ingaggiato una lotta quasi personale con l'inamovibile dirigente e che il clima in Comune si era fatto incandescente per questo. A dicembre del 2010 la questione deflagra in tutto il suo potenziale. Micelotta viene arrestato dalla Dia assieme a Benito Ruga e a un altro imprenditore. In ballo ci sono anche i lavori alla nuova caserma dei vigili del fuoco. Micelotta otterrà gli arresti domiciliari, la sua vicenda giudiziaria- come quelle dei suoi co-indagati- non s'è ancora conclusa. Dunque le cautele del caso e la presunzione d'innocenza sono d'obbligo. Che tuttavia il responsabile dell'ufficio tecnico di Monasterace fosse chiacchierato, magari da malalingue invidiose della sua fortuna, non pare un punto controverso. «Non mi piaceva, d'accordo. Ma nemmeno potevo fare processi sommari a nessuno», mi dice la Lanzetta. Nei suoi sei anni di amministrazione, sei ingegneri sono passati all'ufficio tecnico e andati via come lampi. Ogni volta, Micelotta tornava in sella. «<n Comune mi dicevano tutti: in fondo è buono, prendilo per il verso giusto. Da noi è sempre mancata l'adeguata professionalità». Alla fine la sindaca ha ottenuto la sospensione del dirigente e il suo trasferimento ad altro ufficio. In sostanza Micelotta atten113 de, stipendiato per non far nulla, di conoscere il proprio destino processuale. «Guardi, di tutte le accuse che mi rivolge De Leo potrebbero persino essercene ... di fondate, per errori miei, inevitabili», si accalora la sindaca. «Se non ho il giusto supporto, come faccio a mandare avanti la baracca? Se una licenza edilizia è giusta o sbagliata posso presumerlo, ma non sono un tecnico, e siccome il Comune è povero non posso permettermi di indire un concorso ... al Viminale sono andata a chiedere una deroga. Può succedere che le condizioni diventino così difficili che io sia costretta a dimettermi. Non per le minacce, per il problema di legalità di cui le sto parlando». «Continuo a lavorare più di prima, ho appena avuto 516 mila euro di finanziamento per il centro storico. È la prima volta che riusciamo a mettere un piede dentro il castello di Monasterace Superiore, che è dei privati, ma in stato di semiabbandono ... Molti altri finanziamenti vanno a rilento proprio perché abbiamo la dirigente dell'ufficio tecnico solo due volte a settimana da noi. Grazie ali' Arma dei carabinieri ho avuto la possibilità di entrare nel progetto di Formez 'Etica' per i Comuni in difficoltà e stiamo cercando di mandare avanti il piano di spiaggia». «Non è che io senta una gran bell'aria attorno a me. Il Comune è sempre più povero. Abbiamo avuto fondi, ma ancora non ne beneficiano i cittadini. Dobbiamo mettere lampadine, chiudere le buche nelle strade, ancora non parte la differenziata. Sa, tra me e il Comune di Monasterace a volte c'è... incompatibilità di carattere. Dicono che faccio la svagata, beh, io sono un po' così. La scorta poi limita i 114 miei movimenti. Qualche tempo fa è morta la mamma di una mia amica e io mi vergognavo ad andare al funerale. Così per tanti io sono quella che sta con la scorta, quella che non riesce a far funzionare il paese. È la cosa che mi pesa di più, mi creda», dice, prima di ripartire per un nuovo giro di palazzi romani, stavolta al ministero dell'Istruzione, per organizzare con due presidi, due professoresse calabresi come lei, una nuova stagione di eventi culturali a costo zero. Si sente addosso il peso di ritardi che la precedono di molto, chiede tantissimo a se stessa. «Ma da un paio d'anni sono uscita dal guscio. Con un decimo di Fiorito, risano il Comune di Monasterace». Chiede molto anche ai suoi assessori. «Li ho riuniti e ho detto: così non ce la faccio più». Ha cominciato a dare a ciascuno i compiti a casa, come una maestra puntigliosa. Con lo stesso puntiglio, mi elenca i risultati che, nonostante tutto, ha ottenuto: « ... le nuove fognature, l'arrivo del gas, la messa in sicurezza sismica delle scuole, le scoperte archeologiche». Prende fiato, mi lancia un'occhiata: «E la caserma dei vigili del fuoco, sì». Quella finita nell'inchiesta su Micelotta? «Eh, ce n'è solo una. Adesso è bell'e pronta. E mi mandano anche i pomplen verm. Non capisco. «Sì, finora avevamo solo i volontari, adesso ne arrivano diciassette professionali, un comandante e sedici pompieri». È orgogliosa. «E da Belluno, fin quaggiù, anche l'autobotte». Vera. Dodici Il sogno, quaggiù, è un piano di spiaggia, «fondamentale per proteggere, utilizzare al meglio e sviluppare una delle parti di Monasterace più preziose, amate e frequentate dai cittadini», leggo nel documento messo a punto con ostinato ottimismo da Maria Carmela Lanzetta: un primo passo verso le regole partendo da un bene condiviso, da un ri- ferimento comprensibile, l'arenile dove tutti hanno corso almeno qualche volta da bambini. Lei ci tiene molto. La realtà è l'emergenza dei rifiuti, come a N apoli o a Palermo, anche se in un territorio molto più circoscritto e dunque con effetti, potenzialmente, perfino più vistosi. <<Avviso ai cittadini: l'ufficio del commissario delegato[. .. ] ha comunicato che, a seguito di alcune discariche chiuse o in emergenza ambientale, non sarà possibile smaltire i rifiuti con regolarità. Invitiamo pertanto i cittadini a gestire con equilibrio lo smaltimento dei rifiuti casalinghi, al fine di evitare, il più possibile, di realizzare discariche a cielo aperto nel territorio del Comune», ammonisce un altro documento dell'amministrazione, data 5 novembre 2012. Nell'estate del2011, quando i meccanismi ordinari sono saltati e si è bloccata la discarica di Siderno nella quale sversa Monasterace, i compaesani le tiravano la spazzatura contro la porta del municipio, in paese hanno contato una 117 cinquantina di roghi di cassonetti. «La più brutta estate della mia vita», ricorda adesso la Lanzetta sgranando gli occhi a sottolineare il concetto. Il sogno è un'Italia attenta alle sue periferie più lontane e meno prospere, quella che è scesa qui, in favore di telecamere, il12 aprile del2012, dopo il secondo attentato alla sindaca - Anna Maria Cancellieri in testa e Commissione Antimafia al seguito- promettendo che, no, la guardia non sarebbe stata abbassata, che le luci non si sarebbero spente. La realtà è il rogo del l o luglio, nemmeno tre mesi dopo. Quel giorno, poco prima dell'alba, i soliti ignoti danno fuoco alla Mito di Clelia Raspa, medico della Asp di Locri, conosciutissima nella valle dello Stilare per il suo lavoro duro e prezioso tra le famiglie meno agiate, ma soprattutto capogruppo della maggioranza che in consiglio comunale sostiene la Lanzetta. Il messaggio è piuttosto chiaro, eppure stavolta non si muove nessuno. La notizia resta relegata- con l'eccezione dell'«Unità»- sulle cronache dei giornali locali e nei resoconti delle emittenti della zona, non si vede nemmeno l'ombra di un politico nazionale. Già avevano provato a spaventare le donne che lavorano con Maria Carmela. Il5 agosto 2011 avevano disegnato una bara sul muro di fronte al portone dell'assessore Angelina Belluzzi: sulla bara, le iniziali delle sue due figlie. E quella di Clelia Raspa non è la prima e non sarà l'ultima automobile di un amministratore locale bruciata da queste parti. 'Legautonomie Calabria', ricorda la Lanzetta, nel suo rapporto più recente, rilevava 103 intimidazioni nel 2011, circa mille in dieci anni. È accaduto, tra gli ultimi, ai 118 sindaci di Santo Stefano d'Aspromonte, San Giovanni di Gerace, San Giovanni in Fiore. E non è, ovviamente, una questione di genere, le intimidazioni non sono più odiose solo perché a farne le spese sono le donne sindaco. Tuttavia appare almeno un'occasione perduta questo calo di tensione su una zona dove le donne, dopo tanti silenzi, hanno deciso di far sentire la loro voce. «Da allora a oggi ancora non sappiamo nulla, qui non si sa mai nulla ... », mi dice la Lanzetta sospirando. «Clelia si è molto chiusa, poi è tornata in Comune, questa è una cosa pesante». Tra le due c'è antica amicizia. «Vengo a lavorare per te, a occuparmi delle lampadine e delle buche», ha sempre detto la consigliera. «Va bene, ti farò assessore alle piccole cose», ha sempre sorriso la sindaca. In realtà è stata subito pensata per la Raspa la delega al Personale, un impegno duro e anche una risposta esplicita a chi credeva di interrompere il nuovo corso fin troppo facilmente. Più che dalle minacce l'amministrazione Lanzetta è assediata, sullo scorcio di fine 2012, dal disastro economico. In cassa non ci sono nemmeno i soldi per le cose più semplici. «Per pagare il demanio ho usato la mia indennità fino a dicembre, settemila e cinquecento euro, e per l'illuminazione di N atale l'indennità degli assessori», ridacchia Maria Carmela con l'aria di aver combinato un altro disastro. Per poche migliaia di euro si balla sul filo della contestazione, dell'atto illegittimo, dell'irregolarità anche a fin di bene, perché nulla è come dovrebbe essere: «Non riusciamo a chiudere mai niente, non sono mai riuscita a completare le cose per le quali mi sono spesa». Per questo la caserma dei vigili del fuoco deve sembrarle un riscatto speciale. 119 La vita di tutti i giorni resta molto difficile. Per le donne ma anche per i ragazzi: le regole arcaiche della comunità 'ndranghetista, tracimare nel maschilismo diffuso della società legale, hanno costruito una gabbia nella quale i più giovani non riescono ad adattarsi. La sindaca mi parla dei suoi figli sfiorando con amore i loro libri di università, il computer, i dvd ammonticchiati su un tavolo nella sala grande della casa sulla statale Ionica. È il nostro ultimo incontro. Lei è ossessionata dal riequilibrio dei conti: «Non farò artifici contabili, se non si raggiungerà, ce ne andremo». Mandati via dai ragionieri dopo aver resistito ai mafiosi. Sale la stanchezza. I figli, e le paure per loro, ne costituiscono buona parte. «La prima volta che mi hanno eletta i miei ragazzi erano favorevoli a questo incarico. Gabriele si esprime poco, come se la faccenda non lo riguardasse, ma io lo so che non è vero, parla di rado ma ogni volta che parla ti entusiasma. Sembra timido, con la testa altrove, ma quando parla ... purtroppo parla poco. Matteo è più aperto, ha più amici, fa più vita sociale, scrive molto, fin dalle elementari gira col taccuino: andavamo sulla spiaggia, vedeva gli uccelli e scriveva degli uccelli, ha pubblicato un libro di racconti, ha girato nel suo liceo un piccolo film. L'ultimo che ha fatto è Anna Teresa e le resistenti, questo è bello sul serio, parla di Teresa Gullace Talotta di Cittanova, incinta del sesto figlio e uccisa nell944 a Roma in viale Giulio Cesare: è la figura che ha ispirato Rossellini nella scena della Magnani in Roma città aperta». «Adesso i ragazzi sono stanchi, stufi, 'come possiamo an120 dare avanti altri anni con tutte 'ste porcherie su Facebook, assediati, non ne vale la pena', dice Matteo. Gabriele dice solo 'non pensare a me, fai come vuoi mamma' ... ». I ragazzi scappano, quando possono. Tanti. Troppi. Gli studenti cercano e sognano di andare lontano dai loro paesi, anche se la crisi sta rivalutando giocoforza il ruolo delle università regionali: molte famiglie non possono più permettersi di mandare i figli a studiare a Roma o al N ord, molte li iscrivono finalmente negli atenei calabresi. Molti ragazzi non possono più stare fuori da soli, non ce la fanno a vivere, così tanti di loro viaggiano e basta, la loro quotidianità sta tutta tra le aule delle lezioni e i treni. «< giovani studiano, poi si laureano e vanno via appena possono, in quantità enorme, ogni tanto me li ricordo quando li vedo l'estate e ripassano qua per le vacanze, ormai uomini fatti», sospira Maria Carmela. «Dove stai?, gli chiedo. E loro: a Bologna, Torino, in Veneto. Molti vanno via perché non possono trovare lavoro ma starebbero volentieri qui, magari hanno anche la casa, perché si costruisce per tre, per quattro. Moltissime famiglie fanno sacrifici enormi per far studiare i figli. Ma poi i ragazzi non tornano, è una perdita terribile per il nostro territorio, allevi i figli, li educhi e li mandi a essere utili a Milano, Genova ... ». «Chi va via da qui sa che non può tornare più se non nell'età della pensione, perché non se lo può permettere, parlo di medici, ingegneri, laureati in economia, questo ci impoverisce ulteriormente. Immagini lei una scuola coi genitori laureati e diplomati che crescano i loro bambini qui! Pensi che scuola più attiva e viva avremmo». 121 Basterebbe questo, che sembra poco. Invece i figli quaggiù sono il cruccio, il tarlo quotidiano. Figli che non tornano indietro. Figli che non hanno futuro, e nel nome dei quali le penti te di mafia decidono di passare dall'altra parte della barricata. Figli che non hanno di che mangiare, come quelli delle operaie delle serre che non lavorano più («sto vigilando sui nuovi assetti proprietari, devo vederci chiaro», mi dice la Lanzetta). Figli in bilico. «l nostri figli sono costretti a uno sforzo di comprensione», mi dice Carolina Girasole, la sindaca di Isola Capo Rizzuto. «La vita familiare di chi fa un lavoro come me e Maria Carmela viene sconvolta. Le mie figlie hanno visto la madre sparire, ricomparire in tv, sempre in giro, sempre sotto attacco». Figli che non capiscono. Figli che capiscono anche troppo in fretta e pagano prezzi smisurati. Denise ha visto svanire nel nulla sua madre Lea Garofalo, è stata testimone d'accusa contro suo padre Carlo Cosco al processo per l'omicidio di Lea; ha spedito all'ergastolo il papà e i suoi complici. «Denise è una donna forte: parlo di donna anche se ha solo diciannove anni, perché per l'esperienza che ha avuto è diventata una donna. Ognuna di noi farebbe volentieri dei sacrifici per sostenerla, per darle un futuro normale», mi dice la Lanzetta. Ora la figlia di Lea Garofalo vive sotto protezione, un'ombra con una nuova identità, prova a studiare, dovrebbe laurearsi. Al processo, protetta da un paravento come si usa con i testimoni di giustizia, ha detto con voce 122 chiara: «Avevo capito, ma a mio padre e agli zii non l'ho fatto capire, sono stata un anno con loro, ho giocato con i loro figli, pur sapendo che avevano ucciso mia madre». Prima di fare il passo definitivo, ha scritto un sms ai parenti, con le abbreviazioni che solo una diciannovenne può usare anche in una comunicazione così drammatica e conclusiva: «Lo so k x la vs mentalità sto sbagliando, ma voglio avere la possibilità di fare una vita diversa». Figli che scelgono. Dopo l'ennesima intimidazione, a luglio 2011, l'amministrazione di Isola Capo Rizzuto ha deciso una marcia di solidarietà per la Girasole. «Volevamo coinvolgere i vecchi, i bambini, le mamme, per gridare: noi non ci dimettiamo», ha raccontato Carolina. «Era il mio compleanno. Mentre stavo uscendo dal palazzo comunale ho visto un gruppo di donne venirmi incontro. Tra loro, anche la mia Federica. Mi ha baciato e mi ha regalato un sorriso speciale, che solo noi due abbiamo capito. Significava che lei era con me. È stato il compleanno più bello della mia vita». Può darsi che i mafiosi riusciranno di nuovo a fare ciò che fanno meglio, a parte ammazzare: intorbidire le acque. Può darsi, quindi, che ci troveremo presto a domandarci chi siano i buoni e chi i cattivi, e alla fine lasceremo perdere, «perché tanto sono tutti uguali», abbandonando le speranze di questa stagione e facendo ai cattivi proprio il regalo che si aspettano. Ma non è detto che vada così. Un giorno, tra qualche anno, in una strada qualsiasi della Calabria, Denise e Federica potrebbero incontrarsi, parlarsi, e perfino capirsi. Se verrà quel giorno, la 'ndrangheta sarà finita. 123 Nota sulle fonti Capitoli 1 e 2 Interviste dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012. Capitolo 3 Intervista dell'autore con Elisabetta Tripodi, Rosarno, giugno 2012. Caso Valarioti: «Stopndrangheta.it» c Il caso Valarioti di Danilo Chirico e Alessio Magro, Round Robin editore, Roma 2010. Lettera del boss Rocco Pesce: «ReggioTv.It», 5.9.2011, ordinanza del gip Domenico Santoro. Capitolo 4 Michele Cacciola, Rosalba Lazzaro e Giuseppe Cacciala, padre, madre e fratello di Maria Concetta Cacciala: ordinanza cautelare del gip Fulvio Accurso, febbraio 2012. Verbali di Giuseppina Pesce: <<Corriere della Sera», 24.11.2010, di Giovanni Bianconi. Peppino Lavorato: «Linkiesta», 5.9.2011, di Antonello Mangano. Lettera di Maria Concetta Cacciala alla madre: «Visto», 15 .9.2011. 125 Lettera della figlia di Giuseppina Pesce: <<Corriere della Sera», 10.10.2011, di Giovanni Bianconi. Verbali di Giuseppina Pesce: thtdem. Seconda lettera della figlia di Giuseppina Pesce: tbtdem. Dialoghi Maria Concetta Cacciala familiari: «Corriere della Sera», 10.2.2012, di Giovanni Bianconi. Ritrattazione di Maria Concetta Cacciala: ibidem. Lettera di Maria Concetta Cacciala alla madre: «La Stampa», 10.2.2012, di Guido Ruotolo. Dimenticati. Le vittime della 'ndrangheta di Danilo Chirico e Alessio Magro, Castelvecchi, Roma 2010. Capitolo 5 Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012. Sui Nirta e San Luca: Fratelli di sangue di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Mondadori, Milano 20102. Capitolo 6 Intervista dell'autore con Cesare De Leo, Riace, giugno 2012. Lettera di Maria Carmela Lanzetta alla Dirigenza Lavori Pubblici Regione Calabria su recupero piazza Porto Salvo, 9.3.2009. Annullamento del decreto di scioglimento del consiglio comunale di Monasterace, Tar Lazio, 13.5.2004, presidente Tosti, estensore De Bemardi. Esposto denrmcia contro Maria Carmela Lanzetta di Cesare De Leo, Nicola Gara, Diego Origlia e Nicola Procopio, 29.5 .2012, alla Procura della Repubblica di Locri. La 'ndrangheta voleva rapire Berlusconi: «la Repubblica», 12.8.1984, di Pantaleone Sergi. 126 'Ndrangheta a Monasterace: Operazione Sicurezza, nuova Cosenza.com, Crimeblog.it, di Renato Marino, e New.dt, 7.5.2010. Capitolo 7 Interviste dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Monasterace, giugno 2012, e Roma, ottobre 2012. Capitolo 8 Intervista dell'autore con Katy Capitò, Riace, giugno 2012. Intervista dell'autore con Maria Teresa N esci, Monasterace, giugno 2012. Intervista dell'autore con Pina Tavemiti, Monasterace, giugno 2012. Rosy Canale: «Corriere della Sera.it», 23.4.2012, di Micol Sarfatti. Rosy Canale: «Vanity Fait», 16.10.2012, di Tamara Ferrari. La mia 'ndrangheta di Rosy Canale e Emanuela Zuccalà, Edizioni Paoline, Milano 2012. Capitolo 9 Intervista dell'autore con Marisa Garofalo, sorella di Lea Garofalo, 10.7.2012. Verbali di Lea Garofalo sul delitto Comberiati: «Corriere della Sera», 19.10.2010, di Michele Focarete e Gianni Santucci. Marisa Garofalo: <<Vanity Fair», 2.3.2011, di Tamara Ferrari. Capitolo lO Intervista dell'autore con Anna Maria Cardamone, settembre 2012. 127 Interviste dell'autore con Carolina Girasole, settembre e dicembre 2012. Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, ottobre 2012. Caso Cacciala e trattamento 'penti te': interrogazione parlamentare di Laura Garavini, Partito democratico, 1.9.2011. Capitolo 11 Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, novembre 2012. Vito Micelotta: ordinanza di custodia cautelare del gip Silvana Grasso, dicembre 2012. Tita Buccafusca: «Corriere della Calabria», 6.6 e 14.8.2011, di Lucio Musolino. Laura Garavini: «l'Unità», 27.8.2011, di Gianluca Ursini. Rosa Ferraro: «l'Unità», 28.11.2011, di Gianluca Ursini. Laura Garavini: «l'Unità», 10.2.2012, di Gianluca Ursini. Capitolo 12 Intervista dell'autore con Carolina Girasole, settembre 2012. Intervista dell'autore con Maria Carmela Lanzetta, Roma, novembre 2012. Denise Casco: «Corriere della Sera», 19.10.2010, di Michele Focarete e Gianni Santucci. Carolina Girasole: «Elle», 1.2.2011, di Luisa Simonetto. l l