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gino e il pupazzo di neve - Storie di scuola, scuola di storie

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gino e il pupazzo di neve - Storie di scuola, scuola di storie
GINO E IL PUPAZZO DI NEVE
In città da anni non nevicava. Durante l’inverno, dominava le strade, affollate di passanti e automobili, solo
un vento gelido e sferzante.
Era vicino il Natale, quando cominciarono a cadere piccoli e sparuti fiocchi di neve che, turbinando nell’aria,
si depositarono a terra, coprendo di bianco palazzi, strade e piazze.
La neve improvvisa chiuse l’abitato in una morsa di gelo, e le vie, rese impraticabili, rimasero quasi vuote. Il
silenzio sovrastava ogni cosa.
All’improvviso si udì il cric-crac-cric del ghiaccio. Erano i bambini del quartiere che, giocando a rincorrersi,
facevano un gran chiasso e, calpestando le pozzanghere gelate ai lati dei marciapiedi, si lanciavano soffici
palle di neve.
Uno di loro propose gli altri, che accolsero l’idea con entusiasmo, di costruire un pupazzo di neve. Il bianco
che cadeva dal cielo, in uno splendore di luccichii, posato sulle strade cittadine invase dal traffico, perdeva il
suo candore.
Così, ben presto, il pupazzo di neve prese il colore grigiastro del fumo.
Come era strano! Sembrava un bimbo paffuto appena uscito dalla canna del camino.
Nonostante avesse il naso di un bell’arancio carota, il cappello a falda larga di paglia, la sciarpa di lana
azzurra, due ravanelli rossi per occhi, una scopa con le setole quasi nuove, sembrava proprio triste.
Un bimbo, volendo conoscere il motivo della sua malinconia, aspettò che tutti i suoi amici andassero via e
parlò da solo con il pupazzo, presentandosi:
“Mi presento” disse accennando un piccolo inchino. “Caro omino di neve, mi chiamo Gino e abito in questa
contrada da sempre. Mio padre è tranviere e mia madre operaia in una fabbrica di periferia. Ma parliamo di
te. Vorrei sapere perché hai un’espressione così corrucciata. Non sei forse contento di essere tra i bimbi del
quartiere?”
E il pupazzo:
“Che cosa pensi? Tu e i tuoi amici siete molto simpatici, e mi rallegrate con i girotondi e le baruffe.
Purtroppo, le vostre risate, che pure sono così scanzonate, non possono guarirmi dalla strana malattia che mi
affligge”.
Il bimbo stupito:
“Strana? E’ forse contagiosa? Mia madre mi esorta ogni giorno a guardarmi dalle cose e dalle persone che
possono nascondere microbi e batteri”.
“Ma che cosa dici?” interruppe il pupazzo. “Non sono forse fatto di neve? Non sai che la neve purifica l’aria
da ogni germe, che sotto la sua coltre il seme di grano costruisce una culla di radici, e che i suoi cristalli,
sciolti al sole della primavera, alimentano le sorgenti montane?”
“Nessuno mi ha parlato di questo cose” rispose, intimorito da tanta saggezza, il bambino. E continuò:
“Stamani il babbo si è svegliato di buon’ora come al solito e, scoprendo dai vetri la città immersa nel manto
nevoso, ha chiesto alla mamma, che gli porgeva una tazza di caffè caldo, se c’erano in casa le catene per le
ruote dell’auto, perché di lì a poco doveva recarsi al lavoro. Ha chiesto anche se il notiziario del mattino
avesse comunicato qualcosa a proposito della viabilità cittadina, e ha concluso dicendo stizzito: “La neve di
città è una neve dispettosa. Scende di notte per creare disagi di giorno. Non vedo l’ora che venga buttata via
dalle macchine spazzaneve, affinché sia possibile riaprire il traffico”. La mamma, invece di rispondere alle
richieste di papà, mi ha seppellito dentro sciarpe, cappelli, guanti e cappotti di alpaca, dicendo: “Chissà se
troveremo la sua scuola aperta?. Così imbacuccato, non riuscivo nemmeno a camminare, ma avvertivo una
strana agitazione. Ero giunto alla conclusione che stava accadendo qualcosa di misterioso o quanto meno di
insolito e…”
Il pupazzo, interrompendo il bambino:
“Il fatto è che alcuni uomini, a forza di vivere tra l'acqua che uccide e l'aria irrespirabile, considerano i
fenomeni naturali come nemici che stravolgono gli orari, le faccende e persino il tempo libero”. E cambiando
discorso: “A proposito di tempo libero, vuoi giocare con me?”
“Dove andiamo?” chiese il bambino. E continuò: “In città non c’è posto per tipi come noi”:
Il pupazzo lo rassicurò, dicendo che lui non era un pupazzo qualunque, perché un pupazzo grigio come lui
non si era mai visto, e quindi aveva dei poteri magici.
“Girami il naso” gli sussurrò “e ti porterò nel mio paese”
Il bimbo fiducioso girò la grossa carota come la chiave nella serratura, e subito si trovò in uno spiazzo di
campagna coperto di neve.
“Che bello!” gridò Gino. “Potrò correre liberamente senza paura che qualche auto sbandi pericolosamente”.
E continuò: “Guarda, amico: tra la neve ci sono delle piccole impronte di passero. Seguiamole. Chissà dove
conducono?”
E il pupazzo:
“Vieni, seguiamole insieme”.
Giunsero così al limitare del campo e salirono una collina dove, posate come slitte innevate, le nubi li
attendevano. Il pupazzo invitò Gino ad accomodarsi sulle nubi come su cuscini di bambagia, ma lo pregò di
stringersi forte alla sua scopa.
Il bimbo, stringendo con le mani il manico di legno della scopa, si alzò da terra con il suo fedele amico.
Più si saliva in alto, più le cose che, fino a pochi minuti prima, costituivano il mondo, diventavano piccole e
diafane.
Gino osservò:
“Guarda come è piccola la mia casa. Il giardino sembra un balcone. La scuola, il municipio, e persino la
chiesa, sembrano tante piccole scatole di fiammiferi. Il vigile che mi guida ad attraversare la strada,
fermando il traffico con una mano, ora è un puntino nero tra le luci dei fari e dei lampioni”.
Il pupazzo ascoltava Gino con compiacenza, quando all’improvviso urlò:
“Reggiti forte, perché adesso andremo a Biancolandia”.
I due sorvolarono pianure estese, montagne altissime, fiumi torrenziali, stormi di oche migratrici. Finalmente
la nube-slitta atterrò in mezzo a delle case fatte con mattoni di ghiaccio.
“Vedi” spiegò il pupazzo “questo è Biancolandia, ovvero il paese degli omini di neve”:
Veramente dappertutto si vedevano pupazzi di tutte le dimensioni e di tutte le età parlare e giocare per le
strade, affacciarsi alle finestre e salutare i passanti.
Seduto davanti al portone, un pupazzo fumava una lunga pipa e ascoltava una schiera di passeri cinguettare
felici accanto a una fontana gelata.
Più in là un gruppo di giovani pupazzi, in una piazza lastricata di ghiaccio, ballavano goffamente mentre
suonavano il tamburo e l’armonica a bocca.
“Che persone allegre sono i tuoi paesani!” commentò divertito Gino.
E il pupazzo di neve:
“Quello che tu dici è verità, perché gli abitanti di Biancolandia sono sempre in vena di scherzi. Qui anche il
sindaco, che è un pupazzo di neve, come pure il maresciallo, la maestra, il dottore e il parroco, quando si
incontrano per le strade del paese con i cittadini, prima di parlare si salutano scivolando insieme sul ghiaccio
e giocando a palle di neve. Per questo noi siamo chiamati pupazzi, perché non siamo persone serie come voi
che abitate in palazzi di cemento. Da noi basta un tiepido ma insistente raggio di sole o una pioggerellina
tenue a mettere in pericolo la stabilità delle case. Comunque vadano i fatti, noi non ci perdiamo d’animo,
perché ci diamo una mano a vicenda per riparare le crepe dei mattoni con la calce di brina. Devi sapere”
continuò con aria seria “che il nostro paese è affiancato da un fiume le cui acque stregate da Fata Gelina sono
ferme e bianche. Sotto quella pellicola immobile scorre cristallina e pura l’acqua che ogni primavera fa
sentire il suo mormorio festoso”.
Aveva appena pronunciato quest’ultime parole che il pupazzo interruppe la narrazione per chiedere:
“Gino, non vedi in me qualcosa di diverso?”
E Gino:
“Mi sembra che tu abbia tutto al proprio posto!” ed elencò: “…la sciarpa, il cappello, la scopa e persino il
grosso naso”.
“Ma no!” rispose il pupazzo. “Guardami meglio!”
“E’ vero, che distratto!” commentò il bambino. “Non avevo fatto caso al tuo abito che da grigio è diventato
candido. Sembra una falda bianca poggiata su una vetta ancora più bianca”. E riflettendo: “Come è possibile
ciò?”
“Vedi” disse il pupazzo “A volte può succedere che il luogo dove abitiamo colori i nostri pensieri e i nostri
desideri a suo piacimento; ma se si è capaci di guardare bene dentro di noi ognuno può diventare un colore
che riflette l’arcobaleno. La mia veste era grigia come le mille ciminiere della tua città, ma il mio cuore era
bianco, così bianco che pian piano ha trasformato tutto ciò che lo circondava. Ora che sono guarito da quella
malattia, che mi rendeva infelice e triste, posso finalmente restare per sempre nel mio paese di ghiaccio. Ma
è giunta l’ora di salutarci…”
Comprendendo che il pupazzo di neve voleva congedarsi dal lui, Gino lo implorò di restare, dicendo:
“Non lasciarmi, ti prego; torna con me in città”.
E il pupazzo:
“Gino, sei proprio un bravo bambino, ma ora che sono guarito non posso più tornare nella tua città. Ti prego:
gira di nuovo il mio naso”.
Gino, corrucciato, a voce bassa, mentre gli girava il naso:
“Non tornerai più, mai più, nemmeno per il prossimo inverno?”
Il pupazzo allora lasciò cadere la scopa a terra e accarezzò il viso del bambino che quasi piangeva, dicendo:
”Forse un giorno, quando i pupazzi di neve delle vostre città non saranno più bigi, ma tornati bianchi,
giocheranno con i bimbi del mondo. Quel giorno porterò con me dei doni preziosi: una goccia d’acqua del
fiume della valle di Biancolandia e una nube-slitta per tutti i bimbi che hanno voglia di avventura. Ciao, ciao,
Gino”.
E il pupazzo sparì nella nebbia serale.
Gino si ritrovò solo sulla strada che portava a casa, ma con il cuore pieno di sogni.
Autrice: Assunta Maria Oddi
Sede di servizio: scuola “A. Vivenza” – Avezzano (AQ)
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