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Lingua del Duecento e del Trecento

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Lingua del Duecento e del Trecento
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Duecento e Trecento, lingua del
Quando forse è seguito da che introduce un’interrogativa
retorica:
(31) forse che non ci conosciamo?
Tipica soluzione del linguaggio giornalistico moderno, per
esprimere dubbio o per indicare che una data notizia non è sicura o di fonte diretta, è l’uso del condizionale:
(32) il presidente del consiglio sarebbe indagato per
malversazione
(33) le elezioni regionali si concluderebbero con un
vantaggio della sinistra
La frequenza di tale uso, che si è diffuso anche nel linguaggio burocratico e nella lingua comune, ha dato luogo a una
frase fatta, anche questa tipica delle formule giornalistiche, per
indicare che quel che si dice non ha riscontri diretti: «il condizionale è d’obbligo».
Cristiana De Santis
Studi
Dardano, Maurizio & Trifone, Pietro (1997), La nuova grammatica
della lingua italiana, Bologna, Zanichelli.
Prandi, Michele (2006), Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET Università.
Schwarze, Christoph (2009), Grammatica della lingua italiana, a cura
di A. Colombo, Roma, Carocci (ed. orig. Grammatik der italienischen Sprache, Tübingen, Niemeyer, 1988).
Serianni, Luca (1988), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua
letteraria. Suoni, forme, costrutti, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Torino, UTET.
Duecento e Trecento, lingua del
1. Introduzione
Si assumono come riferimenti cronologici simbolici di questa
voce il 1211, anno del primo documento fiorentino conservato,
e il 1375, anno della morte di Boccaccio.
Il Duecento è il secolo nel quale il volgare si afferma pienamente nelle scritture; ma questo vale, nel Duecento e ancora
nel Trecento, per una pluralità di volgari, ai quali, soprattutto
nel Duecento, si affiancano nell’uso letterario anche il provenzale e il francese. Il fiorentino, che all’inizio è solo un volgare fra gli altri e non il più importante, si afferma tra il secondo Duecento e il Trecento come il volgare di maggiore
prestigio, che sarebbe poi diventato la base della lingua letteraria italiana, grazie anche a ➔ Dante, Francesco ➔ Petrarca
e Giovanni ➔ Boccaccio. Si assume qui, perciò, una prospettiva basata principalmente sul fiorentino e, con esso, sui volgari toscani, presentando alcuni aspetti esemplari della lingua
pratica e scientifica e di quella letteraria in prosa e in versi.
2. Le lingue dell’Italia medievale
In prospettiva storica, più che di lingua sarebbe corretto parlare di lingue del Duecento e del Trecento. Prima che si affermi, nel Cinquecento, una lingua letteraria nazionale, i diversi volgari (cioè «parlate popolari») che nel XIII secolo si
fanno ormai decisamente strada nelle scritture (Casapullo
1999) coprono infatti, se non tutti gli usi possibili, tutti quelli
per i quali si ritiene possibile usare il volgare invece del latino:
come lingue, dunque, non come dialetti (➔ volgari medievali).
Per es., in ambito giuridico si possono registrare testi normativi, come statuti di comuni o di confraternite, regolamenti, ordinanze ecc., redatti nei più diversi volgari italiani,
in originale o in traduzione dal latino (➔ volgarizzamenti,
lingua dei); e se si parla di lingua letteraria, tale è per es. il
veneziano del De regimine rectoris di Paolino Minorita (fra il
1313 e il 1315), come il messinese del Valerio Massimo volgarizzato da Accurso di Cremona (fra il 1321 e il 1337), allo
stesso titolo del fiorentino della Consolazione della filosofia di
Boezio volgarizzata da Alberto della Piagentina (fra il 1322 e
il 1332); un’opera enciclopedica latina come il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico può essere tradotta in
mantovano (ne è autore il notaio Vivaldo Belcalzer, fra il 1299
e il 1309).
Da un altro punto di vista, tutti i volgari sono, in un certo
senso, dialetti nei confronti del latino, che alle origini è l’unica
lingua della scrittura e della cultura, e cede parte delle sue funzioni alle lingue del parlato solo gradualmente, a seconda dei
generi del discorso: nella lingua pratica (in particolare quella
delle scritture commerciali), in quelle delle scritture giuridiche rivolte a coloro che non sanno il latino, della poesia, della
narrativa, delle cronache, della predicazione e delle scritture
morali ed edificanti, più lentamente nella lingua filosofica e
scientifica e, in questa, soprattutto nella divulgazione, e in volgarizzamenti più che in testi originali.
Volgare è il termine usato all’epoca per ognuna delle parlate italiane in opposizione al latino. Italiano si usa più tardi:
fino alla fine del Trecento, l’unica attestazione (loquela italiana), riferita al fiorentino, è di Fazio degli Uberti (fra il 1345
e il 1367). Volgare italico ha ugualmente una sola attestazione,
di Andrea da Grosseto (1268), anch’essa riferita al fiorentino.
Volgare latino chiamano Catenaccio Catenacci l’anagnino, fra
Duecento e Trecento; l’Anonimo Genovese la sua lingua,
prima del 1311; Boccaccio il fiorentino, intorno al 1340 (cfr.
TLIO, ad voces volgare e italiano).
Accanto ai volgari italiani sono correnti nell’uso letterario
il francese e il provenzale, volgari anch’essi, ma di prestigio, sostenuti da una letteratura che si è da tempo imposta come un
modello in Europa. Nel Nord almeno fino alla metà del Duecento la poesia lirica è provenzale, opera di trovatori d’Oltralpe
e di italiani settentrionali. La prosa francese, narrativa, morale
e didattica, ha lettori in tutta Italia fino oltre il Trecento,
come testimoniano i numerosi manoscritti conservati. In francese scrivono italiani come Brunetto Latini, Martino da Canal,
Filippo da Novara, Marco Polo (cioè, per lui, Rustichello da
Pisa, estensore del Milione in francoitaliano, lingua letteraria
mista che ebbe corso nel Nord fino al Quattrocento); molti traducono e rielaborano. Il francese (in misura minore il provenzale) incide anche sulla lingua parlata e sulle scritture pratiche (➔ francesismi); contano la presenza degli Angioini nel
Sud (i fiorentini, che avevano finanziato la spedizione di Carlo
d’Angiò, avevano ottenuto libertà di commercio nel Regno), le
fitte relazioni commerciali, che comportano frequenti viaggi e
l’insediamento di colonie di mercanti e operatori finanziari in
Francia e in Provenza (dove Avignone fu sede papale dal 1309
al 1377), il fatto che il francese è la lingua franca dei cristiani
in Oriente.
3. Lingua pratica e specialistica
3.1 Lingua dei testi giuridici e normativi
Nell’ambito giuridico e amministrativo l’uso del volgare ha lo
scopo di rendere accessibili i contenuti di atti privati (come i
testamenti e i contratti di vendita) e pubblici (come gli statuti
e i regolamenti) a coloro che non sanno il latino da parte di scriventi, principalmente notai, che per loro formazione ne hanno
una sufficiente padronanza.
Dell’uso dei notai di leggere o spiegare in volgare alle parti
gli atti scritti in latino si ha un’interessante testimonianza anteriore alla metà del Duecento nel Liber formularum di Ranieri
del Lago di Perugia, che contiene formule volgari, in viterbese,
pronte per l’uso, nelle quali sono da adattare per l’occasione
nomi, luoghi, prezzi (➔ notai e lingua).
Per quanto riguarda i testi normativi, è testimone molto antico (1219) di un uso certo più diffuso il Breve di Montieri, minuta in volgare dello statuto della compagnia del comune elaborata per preparare la versione ufficiale in latino. Inverso è il
caso del Costituto (cioè statuto) del comune di Siena, del quale
resta solo la versione in volgare scritta nel 1309-1310 dal notaio Ranieri Gangalandi, in base alla norma che esso sia tenuto
disponibile al pubblico «acciò che le povare persone et l’altre
persone che non sanno gramatica [il latino], et li altri, e’ quali
vorranno, possano esso vedere et copia inde trare et avere a
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lloro volontà». Numerosi sono per questa stessa ragione gli statuti volgarizzati. Si ritiene invece scritto direttamente in volgare il pisano Breve di Villa di Chiesa (la sarda Iglesias), importante centro dell’estrazione dell’argento, passato dai pisani
agli Aragonesi negli anni precedenti la redazione conservata (di
poco prima del 1327).
La lingua dei testi normativi è ricca di modi espressivi e
di lessico tratti dal latino giuridico medievale. Dagli originali
latini da cui traducono i volgarizzamenti, o dai modelli latini
cui s’ispirano i testi scritti direttamente in volgare, deriva la
tendenza a esplicitare ogni prescrizione senza sottintesi né
ambiguità, che nell’aspetto linguistico si traduce in un’alta
frequenza di espressioni reduplicate o moltiplicate per scrupolo di esattezza: «sieno tenuti di ricevere e non possino rinuntiare», «di tutte e ciaschuna inobedienzia, frode, ingannamenti, macchinagioni e altre qualunque retà [«reità, azione
condannabile»] le quali ne la detta arte overo per la detta arte
o ne le cose de la detta arte o per quelle cose fossono commesse o si facessono ...» (Statuto dell’Arte degli oliandoli di Firenze, 1310-1313). Sono da notare inoltre espressioni concernenti le procedure, per es. il voto con palline (pallotte,
ballotte, pallottole, pallattele), oppure fave, nere e bianche, da
introdurre in appositi contenitori (per es. bossoli del sì e del no,
Statuto dell’Università ed Arte della lana di Siena, 1298), col
fondo coperto di feltro per non distinguere in quale cada la
pallina (bossogle feltrate, Statuto del Comune e del Popolo di
Perugia, 1342), per votare a bossoli e a pallattole (Statuto
dell’Arte degli oliandoli), a bossoli e pallottole (Statuto dei Disciplinati di San Giovanni di Pomarance, 1348), con li bussoli
e ballotte (Statuto dei mercanti drappieri di Vicenza, 1348).
D’altra parte, l’esigenza di descrivere la realtà che si
vuole normare fa entrare nella lingua scritta una grande
quantità di lessico d’uso comune: per es. in una norma del
Costituto senese del Gangalandi si vieta di coltivare, lungo
una via extraurbana, cavoli, porri, cipolle, alli [«agli»], scalogne, lattughe, spinaci, petorselli [«prezzemolo»], cerfolli [«cerfoglio»], borragine, bietole, zucche, cedruoli [«cetrioli»], coccomeri, melloni overo poponi (vol. 2° : 121).
3.2 Lingua dell’uso nelle scritture mercantili
Diversamente dalle scritture giuridiche, quelle mercantili (libri di conti, lettere commerciali, memorie) sono prodotte da
scriventi che ignorano il latino, e questa è un’effettiva novità
nell’ambito delle scritture volgari. È nell’ambiente dei mercanti
che il volgare ha una prima collocazione scolastica (➔ mercanti
e lingua): mentre nell’insegnamento tradizionale si impara a
leggere e scrivere in latino (e ciò influisce in misura notevole
sulla lingua di coloro che scrivono in volgare), solo nelle scuole
in cui i mercanti imparano a far di conto l’insegnamento è in
volgare. Sono, queste, le scuole d’abaco (o abbaco), delle quali
per Firenze parla il cronista Giovanni Villani, descrivendo lo
stato della città intorno al 1338, distinguendole da quelle di
gramatica e loica (prima parte del corso regolare di studi in latino); con una testimonianza tarda per la storia del volgare, ma
significativa, perché il livello dell’alfabetizzazione a Firenze e
in Toscana, con particolare riguardo al volgare, tra fine Duecento e prima metà del Trecento, è eccezionale per i tempi
(Poggi Salani 1992: 406-411; Manni 2003: 25-31; ➔ analfabetismo e alfabetizzazione).
Le lettere dei mercanti documentano un uso vivace e già sicuro della prosa volgare non letteraria per tempi in cui quella
letteraria è ancora scarsamente praticata (il primo testo fiorentino significativo è la Rettorica di Brunetto Latini, intorno
al 1261); mentre si conservano pochi testi letterari in prosa anteriori agli ultimi decenni del Duecento perché pochi se ne
scrivevano, lo scarso numero di lettere conservate per lo stesso
periodo è da attribuirsi ad accidenti di conservazione. Citando
come es. un brano da una lettera del senese Andrea de’ Tolomei da Troyes ai soci di Siena, del 1265, si può notare, accanto
al lessico tecnico (sopra guagi, finanza, finare), una sintassi
semplice, ma non incerta. Nella catena di frasi coordinate (e
trova’vi, e rasionai, e dise, sì li rilasai), la subordinazione entra
in una misura non remota dal parlato, con frasi relative (qued
eli ... ne dieno dare, que ci dovieno dare) e discorso indiretto (dise
que no cie i poteva ora dare):
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E al partire dela deta fiera di Sant’Aiuolo sì andai a Parisi, e trova’vi l’abate di Gianvale, e rasionai cho· lui del
fato dele dugiento sesanta e cinque l. pari. [«lire parigine»] qued eli e -l suo chonvento ne dieno [«ci devono»]
dare, e dise que no cie i poteva ora dare; sì li li rilasai
[«glielo concessi»] chon trenta altre l. di pari. que ci dovieno [«dovevano»] dare sopra guagi [«in garanzia»] per
la rasione [«sul conto»] di Parisi, e miservi agievole
chosto, e dovene [«ne dobbiamo»] esare paghati per lo
tenpo di Provino [«della fiera di Provins»] di magio
que viene presente, sì chome vo divisarò [«spiegherò»]
per altra letera, e credo que ne saremo bene paghati e
finemente
Questo tipo di lingua che si basa essenzialmente su un
parlato rielaborato in una struttura ordinata, senza cercare
nella sintassi effetti stilistici, si ritrova per tutto il Trecento
nella scrittura dei libri di ricordanze, nei quali si annotano memorie e fatti notevoli (come nascite e morti in famiglia) e si registrano acquisti, vendite e affari patrimoniali in genere. Si vedano per es. le Ricordanze di Matteo di Niccolò Corsini, scritte
fra il 1362 e il 1375:
Questo libro è di Matteo di Nicholò Chorsini, nel quale
io Matteo deto scriverò ogni mia chosa propia e altri
miei fatti propi e mie terre e chase. MCCCLXJ dì IJ
di febraio [= 2 febbraio 1362]. Ricordanza che io Matteo figliolo che fu di Nicholò de’ Chorsini del popolo
di San Filice in Piaza, mi partì di Firenze per andare a
Londra inn Ighiltera a dì XXIJ d’aprile anno
MCCCXLIIIJ e giunsi lae dì J di giugno, puosemi a a
stare a la muneta cho Lotto Stracabendi e con Giorgio
di Cherchino.
3.3 Lingua scientifica e lessico specialistico
Il primo testo scientifico originale è La composizione del mondo
colle sue cascioni di Restoro d’Arezzo (in aretino, terminata nel
1282), una vasta opera costruita a partire da numerosi testi
arabi in versione latina, parzialmente citati, dei quali sono anche frequentemente immessi nel testo passi tradotti di varia
ampiezza (Altieri Biagi 1984: 900-909), con un procedimento
non remoto da quello usato da Brunetto Latini nel Tresor
francese.
La scrittura di Restoro (analizzata da Altieri Biagi 1984) ha
come base i tratti comuni alla prosa contemporanea, come
l’uso continuo del polisindeto (frasi collegate in lunghe catene
con e) e la ripetitività degli schemi sintattici; vi si riconoscono
come caratteristiche le forme oppositive («tale [cosa] dea
[«deve»] èssare grossissima e tale a quello respecto sutilissima,
e tale longa e tale corta, e tale dea córrare giù e tale sù»: 118),
sequenziali (in lunghe enumerazioni che tendono a esplicitare
ogni fattispecie delle nozioni esposte) e argomentative (che riconducono i fenomeni a principi generali: «li fiumi non deano
[«devono»] correre tutti in una parte, emperciò che ’l mondo dea
[«deve»] lavorare e fare operazione per oposito [...], e altra guisa
sarea [«sarebbe»] menore operazione»: 119). Rilevante è l’immissione «nelle strutture ancora gracili dell’italiano» di «una notevole quota di lessico astratto» (Serianni 1993: 451-452).
La prosa scientifica del Duecento e del Trecento è per le
opere principali in volgarizzamenti, fra i quali si citano le traduzioni toscane del Tresor (del tardo Duecento), la Santà del
corpo (da Aldobrandino da Siena, 1310) e la Sfera (dal Sacrobosco, 1313-1314) di Zucchero Bencivenni, e la Metaura
d’Aristotile (metà del Trecento). Queste opere, come già Restoro, mettono in circolazione una considerevole quantità di
lessico specialistico, per es. la Santà di Zucchero: assiduazione «assuefazione» («l’assiduazione d’esse [alle lenticchie],
ciò è molto usarle»), disturare («i mochi [leguminose] [...] disturano le vie del polmone e del feghato»), «flebotomare, ciò è
sengniare» («salassare»; la glossa è sul francese saignier), apostema «ascesso, pustola». Non si deve dimenticare che il lessico
specialistico può circolare anche in opere d’altra natura: per es.
apostema è già in Bonvesin e in Iacopone, come vite è usato per
la prima volta nel Convivio di Dante. Soprattutto per il lessico
medico (che s’intreccia strettamente col lessico botanico) vanno
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anche ricordate opere ‘minori’, come per es. il Bestiario tratto
dal Tesoro volgarizzato e rifatto nel ms. Laur. Plut. XLII, 22
(primo quarto del Trecento) con aggiunte non solo di capitoli,
ma di numerose informazioni sull’uso dei diversi animali in ricette mediche (o anche in pozioni magiche), per es.:
La polvare dela donnola, insalata, data a bere vale contra lo morbo caduco. Lo suo sangue sì ène apertivo de’
porri [«ne provoca la rottura, la maturazione»]; et vale
molto contra la podraga [«podagra»], se tue lo mescolerai con aceto.
4. Prosa del Duecento
4.1 Narratori e cronisti del Duecento
Prossima per molti aspetti alla lingua delle scritture dei mercanti è quella dei primi testi narrativi in prosa, novelle, racconti
brevi esemplari e anche cronache.
Ne sono caratteristiche una certa solidarietà con il parlato,
la brevità dei periodi, la prevalenza della coordinazione, non
solo in termini puramente sintattici, ma con la tendenza ad appiattire nel periodo «dati circostanziali divergenti e irriducibili
l’uno all’altro». L’analisi è di Serianni (1993: 461), che cita
come esempio, dai Fiori di filosafi, «Stazio fue gran poeta e fue
di Francia e fece due grandi libri», dove l’origine di Stazio e i
due libri scritti sono sullo stesso piano dell’informazione essenziale, che deve conferire autorità a una sua sentenza citata
di seguito («fue gran poeta»).
Nel Novellino la brevità dei periodi, frequentemente concatenati con e, o con onde per marcare la consequenzialità,
spesso anche senza congiunzione (in asindeto), è caratteristica
di uno stile orientato a comunicare fatti ed enunciare commenti
e ‘sentenze’ in modo diretto: «A uno re nacque uno figliuolo. Li
savi strologi providdero [...]. Onde lo re fece guardare» (Il Novellino 2001: 193). I nessi causali e circostanziali sono espressi
frequentemente col gerundio, anche a catena: «Stando lo re Allexandro alla città di Giadre [...], uno nobile cavaliere era fuggito di pregione. Essendo poveramente ad arnese, misesi ad andare ad Allexandro che·lli donasse [...]. Andando questo
cavaliere per lo camino ...» (ivi, 173); l’accumulo di gerundi, che
«è tipico dell’italiano antico ed è frutto di una scarsa vocazione
all’esplicitazione dei rapporti subordinativi», riappare ancora
nelle novelle del Sacchetti (Serianni 1993: 460). Uno stile diretto non dissimile, con una concatenazione fondamentalmente
giustappositiva, si ritrova nella Cronica fiorentina, per es.:
Elgl’è vero ke questo Federigo secondo fue huomo mirabile [...]: elli conobbe ed ebbe in sé tutte le grandi
bontadi [...]. Quando elli fue allo ’ncoronare [...] donde
li Pisani ne portarono grande invidia [...]. Onde i Fiorentini conbattero co lloro
È una prosa che appare estranea alla lezione dei modelli latini, che comincia ad agire dagli stessi decenni con i volgarizzamenti (da Albertano da Brescia, tradotto almeno tre volte: da
Andrea da Grosseto nel 1268, da Soffredi del Grazia intorno al
1275 e da un anonimo di lingua pisana nel 1287-88; da Egidio
Romano, tradotto in senese nel 1288; da Orosio e da Vegezio,
tradotti da Bono Giamboni a una data non determinabile, ante
1292). Ciò non vuol dire che nel Novellino manchi la capacità di
usare la subordinazione con chiarezza, costruendo un discorso
ugualmente breve e diretto, come in «Vallerio Maximo i·llibro
sexto innarra che Calensino, rettore d’una cittade, fece una legie che chi andasse a moglie altrui dovesse perdere li occhi» (Il
Novellino 2001: 196), dove si arriva al terzo grado; o come in
«Beato Paulino vescovo di Luccha fue tanto misericordioso che,
chiedendogli una povera femina [...] e beato Paulino rispose ...»
(ivi, 197), dove l’episodio è introdotto con una consecutiva (qui,
con una figura sintattica detta ➔ paraipotassi, la subordinata introdotta da che è ripresa, dopo l’ulteriore subordinata introdotta
dal gerundio, con una congiunzione coordinante).
4.2 Prosa e retorica
Nel contesto della civiltà comunale, l’uso della lingua è un
aspetto centrale della vita civile e politica; strumento fonda-
mentale è la retorica, arte del discorso persuasivo, che da oggetto di studio teorico nella scuola latina diventa un tema d’attualità in volgare; «sintomatica [è] l’insistenza sull’arte della parola» nei Fiori di filosafi (Tartaro 1984: 630). In accordo con la
tradizione mediolatina e le esigenze della politica e dell’amministrazione, la retorica comprende ora anche l’epistolografia.
Formule volgari di discorsi e lettere sono già scritte intorno al
1243 da Guido Faba nei Parlamenta et epistulae, in «un bolognese illustre, fortemente latinizzato» (Serianni 1993: 457). Va
ricordato che a Bologna i fiorentini studiavano e insegnavano.
Fa un decisivo passo avanti la Rettorica di Brunetto Latini
(circa 1261), volgarizzamento commentato del De inventione,
incompiuto perché interrotto dopo 17 capitoli per rielaborare
lo stesso materiale nel più vasto progetto del Tresor, in francese, ma per lo stesso pubblico: mercanti italiani in Francia e
funzionari della politica comunale in Italia. L’«arte del retore», di chi fa discorsi persuasivi, è presentata come parte essenziale dell’«arte del rettore», di chi governa, nel contesto
della riflessione politica dell’Italia comunale; di qui rettorica
(non attestato prima), non retorica (Artifoni 1986). Brunetto
trapianta in volgare la retorica latina non solo con il volgarizzamento del De inventione, ma anche con quello di tre orazioni
di Cicerone, con i quali propone esempi di discorso in volgare
in stile elevato; per es. (inizio della Pro Ligario):
Ben nuovo malificio e unque mai non udito ha proposto quel mio parente Teverone dinanzi da te, Iulio Cesare, dicendo che Quinto Ligario fue in Africa contro
a te e contro al tuo onore; e, non ch’altri, ma G. Pansa,
uomo di gran savere, fidandosi forse della dimestichezza ch’elli ha con teco, l’ha ardito a confessare
Esempio di epistolografia nutrita dell’eredità retorica latina
medievale sono le lettere in prosa di Guittone, raccolte minimizzando le occasioni e gli scopi pratici in funzione del valore
esemplare da attribuire ai contenuti morali e all’esibita elaborazione stilistica.
5. Lingua poetica
5.1 Siciliani e toscani
A parte una canzone e tre frammenti in siciliano, nella copia
cinquecentesca di Giovanni Maria Barbieri da una fonte perduta, e una canzone trascritta in adattamento settentrionale nel
1234 o 1235, i testi della ➔ Scuola poetica siciliana si leggono solo inclusi nelle tre grandi antologie manoscritte (canzonieri) della poesia toscana del Duecento (Vat. lat. 3793,
Laur. Redi 9, Banco Rari 217 della Biblioteca nazionale di Firenze), in lingua toscanizzata.
È perciò non di rado difficile distinguere, soprattutto per
gli anonimi, fra poeti in siciliano toscanizzati e imitatori che
scrivevano in toscano, e soprattutto la lingua dei siciliani non
è conoscibile organicamente, ma se ne devono indagare le caratteristiche analizzando la forma toscanizzata; ulteriore problema è che non si dispone di testi siciliani contemporanei da
usare per confronto. Si può però almeno dire che quello dei
poeti doveva essere non un ‘siciliano puro’, bensì una lingua
elaborata per la poesia, composita, ricca di provenzalismi e di
latinismi, e che doveva ricorrere a forme alternative, come per
es. amuri, propriamente siciliano, da rimare con valuri, ma anche amòri da rimare con còri (Brugnolo 1995: 279-286).
La Toscana subentra come centro della poesia lirica intorno alla metà del Duecento, in concomitanza con il declino
della casa imperiale sveva, intorno a cui operavano i poeti siciliani, e con l’ascesa dei comuni toscani. È un’area culturale
che include anche Bologna, ed è un segno dell’attrazione già
esercitata dal toscano il fatto che Guinizelli lo abbia scelto (si
può ammettere, però, che i canzonieri toscani abbiano trascritto i suoi testi in una forma più toscana degli originali).
La lingua poetica dei toscani è costruita sull’esempio di
quella dei siciliani, come si vede in tratti fonetici, morfologici
e lessicali. Nella fonetica, è sintomatica la cosiddetta rima siciliana, di e chiusa con i e di o chiusa con u: poiché in siciliano
usu rima con amurusu, ma con la toscanizzazione l’uno diventa
uso, l’altro amoroso, in toscano viene considerata legittima la
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rima di uso con -oso, non solo nei testi siciliani toscanizzati (uso
in rima con amoroso in Giacomo da Lentini), ma anche in testi scritti in toscano (uso in una serie di rime in -oso in Bondie
Dietaiuti, fiorentino). Per la morfologia, si può portare a esempio il condizionale derivato dal piuccheperfetto latino, per es.
sembrara, che si trova in Giacomo da Lentini e poi nei fiorentini Carnino Ghiberti e Torrigiano. Per il lessico, si può citare
abento «pace, tranquillità dopo una pena», frequente fra i siciliani e poi anche fra i toscani, per es. in Rinuccino e in Chiaro
Davanzati. Dai siciliani i toscani ricevono anche numerosi
gallicismi, per es. adastare «stimolare» o anche «affrettare, affrettarsi», che si trova in Guido delle Colonne, e in Toscana per
la prima volta in Bonagiunta.
L’impronta linguistica siciliana si vede anche nella poesia
non lirica, per es. nel Tesoretto di Brunetto Latini (uso in rima
con grazioso) e, in altro stile, in un poemetto giullaresco fiorentino, il Detto del gatto lupesco:
Quello k’io sono, ben mi si pare.
Io sono uno gatto lupesco
ke a catuno vo dando un esco,
ki non mi dice veritate [«che cerco di adescare ciascuno
per vedere se mente»].
Però saper voglio ove andate,
e voglio sapere onde sete [«siete»]
e di qual parte venite
Il Gatto lupesco è esempio di uno stile di lingua prossimo
al parlato, in testi di ascendenza letteraria francese (primo es.
il Ritmo laurenziano, del secolo prima); il Tesoretto condivide
con parte dei poeti toscani (per es. Bonagiunta) una lingua letteraria relativamente poco complessa, che ha per modelli i siciliani e tramite questi i provenzali; altri toscani rileggono autonomamente i provenzali, e procedono verso una nuova
sostenutezza retorica che in alcuni sembra fondarsi piuttosto
sulla dimestichezza con il latino.
La vicenda della poesia religiosa delle laude corre separata
nei modi di diffusione e nella tradizione manoscritta, ma con
incroci significativi: tra gli autori più antichi si ricordano
Guittone d’Arezzo e Iacopone da Todi, l’autore maggiore in
un insieme per lo più di anonimi, che utilizza anche spunti
della poesia profana. La lingua ha come base un parlato fortemente popolare anche in autori di sicura competenza stilistica,
come lo stesso Iacopone. Poiché il movimento (che cresce nel
secondo Duecento, e ha un notevole sviluppo nel Trecento) ha
le radici più forti in Umbria, tracce di umbro sono presenti anche nelle laude diffuse nelle altre regioni.
5.2 Guittoniani e stilnovisti
Nel De vulgari eloquentia (II, vi, 7) Dante suggerisce di prendere ad esempio da un lato i maggiori poeti provenzali e italiani, dall’altro poeti e prosatori latini, e ne trae lo spunto per
censurare Guittone; ma proprio costui è l’esempio di un poeta
che guarda da un lato ai siciliani e ai provenzali, dall’altro alla
lezione stilistica dei latini. Per es. nella canzone che apre la raccolta delle sue rime d’amore, cominciando: «Se de voi, donna
gente, / m’ha preso amor, no è già meraviglia», cita insieme la
canzone più importante di Giacomo da Lentini, il maggiore dei
siciliani: «Madonna, dir vo voglio / como l’amor m’à priso», e
Bernart de Ventadorn, trovatore emblematico del discorso
amoroso: «No·m meravilh si s’amors me te pres» [«non mi
meraviglio se l’amore per lei mi tiene prigioniero»]; mentre
l’impronta d’uno stile alto e latineggiante perseguito da Guittone si può vedere per es. nella sua prova più alta, la canzone
in cui deplora la sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti
(1260), Ahi lasso, or è stagion de doler tanto.
Quando tende allo stile elevato, la lingua poetica dei toscani, Guittone in testa, è però il più delle volte più artificiosa
che complessa, e non riesce a nascondere i segni di una faticosa
elaborazione sulla carta. Sebbene Dante indichi come iniziatore di una nuova poesia Guido Guinizelli, la vera rivoluzione linguistica è quella di Cavalcanti, subito affiancato da
Dante stesso. Come si può vedere persino nella prova più
guittoniana, la canzone filosofica Donna me prega, un vero
concentratissimo trattato sulla natura d’amore scritto con vincoli metrici molto complessi, è una lingua aristocratica e raf406
finatissima, il cui artificio punta a manifestare il massimo
della naturalezza e della necessità di dire così e non altrimenti
(«poesia dettata da Amore», dirà Dante della propria), come si
vede in certi inizi di cui nessuno prima di Cavalcanti è stato capace: «Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira», «L’anima mia
vilment’è sbigotita», «Tu m’hai sì piena di dolor la mente». È
partendo da questa nuova lingua che Dante elabora lo stile
complesso delle canzoni posteriori alla Vita nuova.
Di orientamento opposto a quella degli stilnovisti, nella
Toscana degli stessi decenni, è la lingua dei cosiddetti comicorealistici che, anche a non intendere la loro poesia come un
semplice controcanto dello stile illustre (quale per lo più non
è), di realistico e popolare hanno certamente il linguaggio:
Ne la stia mi par esser col leone
quando a Lutier son presso ad un migliaio [«a distanza
di un miglio»],
ch’e’ pute più che ’nfermo uom di pregione
o che nessun carname o che carnaio (Rustico Filippi)
La rottura rappresentata dallo «Stil nuovo», come Dante
chiama il nuovo movimento poetico, è tale da rendere vecchia
e superata la lingua dei precedenti toscani, che infatti furono
assai scarsamente ‘ripubblicati’ nei codici posteriori ai tre canzonieri antichi. Però la realtà è più complessa: gli stessi tre canzonieri escludono quasi totalmente le novità degli stilnovisti,
forse esprimendo il gusto di un ambiente attardato; e i poeti del
Trecento rielaborano i modi dello Stil nuovo, ma continuano
a ricorrere come modello anche alla lingua dei toscani guittoniani.
5.3 Il Trecento
La Commedia di Dante, divulgata in forma completa dopo il
1321, ma già circolante nelle prime due cantiche qualche anno
prima, si impone come il principale modello stilistico e linguistico della poesia del Trecento, lirica e non lirica (Petrarca
avrebbe agito in modo consistente come modello della lingua
poetica solo più tardi). La divulgazione della Commedia sostiene l’ascesa del toscano come lingua della poesia in Italia settentrionale e prima di tutto in Veneto, dove già dai primi decenni del Trecento i poeti toscani recenti (Dante lirico, gli
stilnovisti, i comico-realistici) godono di grande favore: lo dimostra la compilazione di importanti raccolte manoscritte. Se
si considerano i manoscritti conservati, quelli prodotti in Veneto sono anzi più antichi delle prime raccolte toscane dedicate
agli stessi poeti. È importante anche la presenza nelle corti del
nord di poeti toscani, come Fazio degli Uberti, fiorentino
nato e vissuto fuori di Firenze per l’esilio della famiglia, attivo
a Verona, Milano, Bologna e Mantova fra il 1335 circa e il 1367
in un’ampia gamma di generi (rime politiche, morali, amorose)
e di forme metriche (canzoni, sonetti, terze rime, una frottola),
e autore di un poema didascalico in terza rima chiaramente debitore di Dante (il poeta percorre i tre continenti, e li descrive, guidato dall’antico geografo Solino).
Nella Summa artis rithimici vulgaris dictaminis («Trattato
dell’arte della poesia volgare»), del 1332, il primo trattato di
metrica italiana, il padovano Antonio da Tempo dedica un capitoletto alla domanda «perché scriviamo in toscano»: questo
infatti, vi si legge, è più adatto delle altre lingue all’uso letterario, è più diffuso ed è comprensibile a un pubblico più vasto («lingua Tusca magis apta est ad literam sive literaturam
quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis»).
Quella dei poeti settentrionali è una lingua fondamentalmente toscana, che subisce in misura variabile l’interazione con
la lingua d’origine degli autori. Nei testi dello stesso Antonio
da Tempo, inseriti nella Summa come esempi delle forme metriche trattate, si possono notare per es. zoglia «gioia» e noglia
«noia» in rima con ricoglia «raccolga»: come il veneto e lombardo foia si toscanizza in foglia, così zoia e noia si toscanizzano
indebitamente in zoglia e noglia. Queste due rimangono parole
tipiche del toscano settentrionale; per es. si ritrovano in rima
con doglia in Francesco di Vannozzo, per citare un autore importante della rimeria tosco-settentrionale del secondo Trecento. Da un autore contemporaneo di Antonio da Tempo,
Giovanni Quirini (morto nel 1333), uno dei primi ammiratori
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Duecento e Trecento, lingua del
noti di Dante nel Veneto, si può esemplificare un tratto endemico, la confusione fra consonanti doppie e semplici (che si oppongono fonologicamente in toscano, non nelle varietà del
nord), che si può verificare in rima, per es. topo in rima con intoppo nel sonetto 30, 1-3:
Io so che tu legesti ne l’Esopo,
e te ricordi ben, como la rana
volea somerger sotto l’aqua el topo,
passando l’un cum l’altro la fimana [«fiumana», forma
del veneto continentale],
e com’el sopraiunse [«e come sopraggiunse»] la polliana
[«poiana»],
che tolse lor intrambi nel suo intoppo
L’autore mostra d’aver letto l’Inferno già nel 1317, data di
questo sonetto; cfr. Inf. XXIII, 4-6:
Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo
Questo dell’adesione alla lingua dei poeti toscani, con la
conservazione di varie caratteristiche della lingua locale, è un
tratto comune ad altre aree poetiche del Trecento; è il caso dei
poeti perugini attivi fra il 1320 e il 1350, i cui testi sono raccolti nel ms. Vat. Barb. lat. 4036 (cfr. Brugnolo 2001: 243-244;
Soletti 1993: 623); fra tali caratteristiche sono i tipici plurali
maschili in -e, per es. in Neri Moscoli sonette «sonetti» e gli entellette «intelletti» in rima con somette «sottomette» e mette.
Per quanto riguarda la Toscana, in particolare Firenze
(dove si continua a fare poesia nel solco degli stilnovisti, del
Dante lirico, dei comico-realistici), l’aspetto più interessante
dal punto di vista linguistico (a parte l’opera di Boccaccio) è
forse il linguaggio ‘di consumo’ dell’abile Antonio Pucci, rimatore fecondo in vari generi, dalla poesia morale d’attualità
(«Novello sermintese lagrimando, / per tutto ’l mondo può gir
[«andare»] sospirando / e senpre tutta gente ammestrando / di
Firenza», per l’inondazione dell’Arno del 1333) al rifacimento
in terza rima della cronaca di Giovanni Villani nel Centiloquio
(l’ultimo capitolo, in realtà il 91, è del 1373), a numerosi cantari (poemetti narrativi in ottava rima). Di un linguaggio poetico altrettanto corrente sono esempio i numerosi cantari anonimi, dalla versificazione spesso trascurata (almeno nelle copie
che li conservano); per es. il Bel Gherardino:
Nella città di Roma anticamente
aveva [«c’era»] una colonna ’n Campidoglio,
che v’era scritto ogni uomo prode e valente,
saggio e cortese, come leggere soglio [«solevo»];
sicché, tornando brieve a convenente [«a proposito»],
d’un franco cavaliere contar vi voglio ...
6. Prosa del Trecento
I maggiori prosatori del Trecento, oltre Boccaccio, figurano
tutti nella tavola degli autori del Vocabolario degli Accademici
della Crusca del 1612, che sui trecentisti fonda la sua scelta linguistica, aggiungendo una ristretta lista di «Autori moderni citati in difetto degli antichi, o per qualch’altra occorrenza».
Fra i testi più rilevanti la Nuova Cronica di Giovanni Villani,
con le continuazioni di Matteo e Filippo, le prediche di Giordano da Pisa, le opere di Domenico Cavalca, lo Specchio della
vera penitenza di Iacopo Passavanti, le novelle di Franco Sacchetti.
È citato anche un bizzarro volgarizzamento dal Defensor
pacis di Marsilio da Padova (databile 1363), probabilmente da
una precedente traduzione francese, in una prosa assolutamente sconclusionata (il traduttore non capiva il testo francese,
e forse nemmeno il traduttore francese capiva il testo latino),
accolto perché fiorentino e trecentesco; per es. alla voce travalente (glossato «molto valente», senza altra attestazione) gli
accademici ritagliano la frase «O Luigi travalente, e tranobile
[«nobilissimo»] Imperador de’ Romani» da un periodo amplissimo e ingarbugliato, anche se meno incomprensibile di altri. Più rilevante è il posto dato ai commenti danteschi, il co-
siddetto Ottimo commento (oggi attribuito ad Andrea Lancia)
e quello di Francesco da Buti. Quello dei commenti alla Commedia, in latino e in volgare, è nel Trecento un nuovo genere,
non ovvio nella cultura del tempo (è stata commentata la canzone Donna me prega di Cavalcanti, e Dante si autocommenta
nel Convivio, la cui diffusione fu però più tarda). Un esempio
di prosa da commento si può vedere dall’Ottimo:
Così l’animo mio ec. Molto commenda qui sè che ha passato tale selva, ed è vivo. Come ebbi ec. Segue suo
poema, e cominciò a salire verso il colle. Ed ecco quasi
ec. Qui descrive l’Autore tre impedimenti, che se li oppuosono, quando salìa allo alto inluminato di sapienza;
li quali figura in tre animali, cioè Lonza (che è Pantera),
Lupa, e Lione
L’influenza esercitata dal Vocabolario, che restò per secoli
il punto di riferimento anche di chi lo avversava, e la tendenza
della lingua letteraria italiana alla conservazione hanno mantenuto alla «prosa media» del Trecento il valore di un modello
fino al pieno Ottocento (Serianni 1993: 464-466). Se si prende
ad es. lo Specchio di vera penitenza del Passavanti (intorno al
1355), si può constatare come fino a tempi non lontanissimi il
suo periodare articolato e anche complesso, ma ordinato e
perspicuo, potesse dare un’impressione di modernità, che nasceva in realtà dalla conservatività della lingua letteraria (dal
Trattato della superbia):
Se si prende la superbia nel primo modo, certa cosa è
che ’l peccato del primo uomo, che fu principio e cagione d’ogni peccato, fu superbia; avvegna che più altri peccati concorressono conseguentemente a quello
peccato: ma la superbia, che non è altro, come detto è
di sopra, se none uno appetito disordinato della propia
escellenzia, fu il primo peccato dell’uomo; al quale
pruova san Tommaso, nella Somma, sottilmente e
chiaramente, che fu impossibile ch’andassi innanzi altro peccato, soppognendo lo stato della innocenzia e
della originale giustizia nella quale l’uomo era creato
Un passo narrativo della Nuova Cronica di Giovanni Villani (morto nel 1348), l’unico autore citato per nome nell’introduzione del Vocabolario degli Accademici accanto a Dante,
Petrarca e Boccaccio, può mostrare una sintassi molto meno
‘moderna’.
Nelli anni di Cristo 1333 [...], essendo la città di Firenze in grande potenzia, e in felice e buono stato [...],
piacque a Dio [...] il quale volle mandare sopra la nostra città onde quello dì de la Tusanti [«Tutti i santi»]
cominciòe a piovere diversamente [«straordinariamente»] in Firenze ed intorno al paese e ne l’alpi e
montagne, e così seguì al continuo 4 dì e 4 notti, crescendo la piova isformatamente [«smisuratamente»] e
oltre a modo usato, che pareano aperte le cataratte del
cielo, e con la detta pioggia continuando grandi e
spessi e spaventevoli tuoni e baleni, e caggendo folgori
assai; onde tutta gente vivea in grande paura, sonando
al continuo per la città tutte le campane delle chiese,
infino che non alzòe l’acqua; e in ciascuna casa bacini
o paiuoli, con grandi strida gridandosi a Dio: «Misericordia, misericordia!» per le genti ch’erano in pericolo, fuggendo le genti di casa in casa e di tetto in
tetto, faccendo ponti da casa a casa, ond’era sì grande
il romore e ’l tumulto, ch’apena si potea udire il suono
del tuono
Si noteranno: l’uso insistito del gerundio; le costruzioni
«piacque a Dio [...] il quale volle» («piacque a Dio di volere»),
con la dichiarativa introdotta dal pronome relativo; «mandare
sopra la nostra città onde [...] cominciòe a piovere» («ordinare
contro la nostra città in modo tale che cominciò a piovere, ordinare che cominciasse a piovere»), pur non chiaro nell’edizione, che pone punto e virgola dopo «città»; la frase nominale
«e in ciascuna casa bacini o paiuoli», che regge la successiva descrizione della fuga disordinata degli abitanti, espressa con gerundi circostanziali e, infine, con una consecutiva (e anche
un’espressione ancora oggi colloquiale, «che pareano aperte le
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due punti
cataratte del cielo»). È una lingua che risente del parlato, con
un periodare più libero, ma meno perspicuo di quello proprio
di chi volgarizza o ha per modello il latino. Su questa linea è
la lingua delle novelle del Sacchetti, spesso colloquiale e per
certi aspetti, si potrebbe già dire, quasi ‘vernacolare’.
Pietro G. Beltrami
(1) Rido, rido, e mi fermo perché diventavo matto.
Qualcuno dalla stoppia mi aveva risposto ridendo, ma
non era Gisella: era un verso da bestia, che sembrava
una vecchia, una voce da battere i denti (Cesare Pavese,
Paesi tuoi, in Tutti i romanzi, Torino, Einaudi, 2000,
p. 41)
Fonti
e quella denominata segmentatrice, usata per le citazioni e gli
esempi oppure per introdurre un ➔ discorso diretto, impiego
in cui il segno è generalmente seguito da virgolette o trattini
(Serianni 1988: 76):
Studi
(2) Una donna molto anziana dice: «Quando ti ho visto in
televisione, ho capito che eri il figlio di Duilio. Da
ragazzi andavamo a tirare sassi contro quelli di Grizzo,
io li portavo e lui li tirava». Anche in guerra, si sa, alle
donne è affidato un compito ausiliario e subalterno
(Claudio Magris, Microcosmi, Milano, Garzanti, 20014,
p. 43)
I testi sono citati dalle banche dati testuali annesse al Tesoro della
Lingua Italiana delle Origini = TLIO (v. oltre), tranne Il Novellino 2001, a cura di A. Conte, Roma, Salerno.
Altieri Biagi, Maria Luisa (1984), Forme della comunicazione scientifica, in Asor Rosa 1982-1987, vol. 3º/2 (Le forme del testo. La
prosa), pp. 891-947.
Artifoni, Enrico (1986), I podestà professionali e la fondazione retorica
della politica comunale, «Quaderni storici» 21, 63, pp. 687-719.
Asor Rosa, Alberto (dir.) (1982-1987), Letteratura italiana, Torino,
Einaudi, 15 voll.
Brugnolo, Furio (1995), La scuola poetica siciliana, in Malato 19952004, vol. 1º (Dalle origini a Dante), pp. 265-337.
Brugnolo, Furio (2001), La poesia del Trecento, in Malato 1995-2004,
vol. 10º (La tradizione dei testi), pp. 223-270.
Bruni, Francesco (a cura di) (1989-2004), Storia della lingua italiana,
Bologna, il Mulino.
Casapullo, Rosa (1999), Il Medioevo, in Bruni 1989-2004.
Malato, Enrico (dir.) (1995-2004), Storia della letteratura italiana,
Roma, Salerno, 14 voll.
Manni, Paola (2003), Il Trecento toscano. La lingua di Dante, Petrarca,
Boccaccio, in Bruni 1989-2004.
Poggi Salani, Teresa (1992), La Toscana, in L’italiano nelle regioni.
Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino,
UTET, pp. 402-461.
Serianni, Luca (1993), La prosa, in Serianni & Trifone 1993-1994,
vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 451-577.
Serianni, Luca & Trifone, Pietro (a cura di) (1993-1994), Storia della
lingua italiana, Torino, Einaudi, 3 voll.
Soletti, Elisabetta (1993), Dal Petrarca al Seicento, in Serianni & Trifone 1993-1994, vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 611-678.
Tartaro, Achille (1984), La prosa narrativa antica, in Asor Rosa 19821987, vol. 3º/2 (Le forme del testo. La prosa), pp. 623-713.
TLIO = Opera del Vocabolario Italiano, Tesoro della Lingua Italiana
delle Origini, www.vocabolario.org./www.ovi.cnr.it (agli stessi indirizzi le banche dati testuali Corpus OVI dell’Italiano antico e
Corpus TLIO aggiuntivo).
Quando enumera singoli dettagli e particolari o introduce
gli elementi di un insieme, il segno esercita una funzione definita descrittiva (Serianni 2003: 53):
(3) Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si
aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai
lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre
fra i cenci (Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino,
Einaudi, 199436, p. 212)
Tra gli usi testuali si segnala l’introduzione di nessi logicoargomentativi, che legano il contenuto che segue a quello che
precede (Lala 2004: 144). La più tipica relazione introdotta dai
due punti è quella causale, che può essere di tipo progressivo
se procede dalla causa all’effetto:
(4) La questione era ferma a questo punto morto, quando
Maria Corti è [...] fa sapere non già di avere in mano
elementi probanti, ma di essere [...] la testimone
oculare e auricolare di una consegna di Montale alla
Cima di foglietti multicolori, cartoline e fodere di
buste, recanti versi scritti a penna e a matita: un
tutt’altro dono da quello che Montale fece a lei stessa
per il Fondo manoscritti di Pavia (Dante Isella, in
«Corriere della sera» 5 settembre 1997)
oppure di tipo regressivo se procede dall’effetto alla causa
(Mortara Garavelli 2003: 103):
due punti
1. Natura
I due punti introducono una pausa intermedia tra il punto e la
virgola e vengono usati per ottenere diverse funzioni sintattiche e testuali, come quelle dichiarativa, presentativa e argomentativa, o per introdurre il discorso diretto.
̂
Un segno costituito da due punti verticali ‹:›, detto dikōlon,
è attestato fin dal IV secolo a.C. in testimoni greci, dove è usato
per indicare l’inizio di un paragrafo o il cambio di interlocutore
(Geymonat 2008: 45). In epoca moderna il segno compare nei
trattati di grammatica e ortografia con varie denominazioni:
«due punti» (L. Dolce, L. Salviati), «coma» (P.F. Giambullari,
O. Lombardelli), «punto doppio», «punto addoppiato» (O. Lombardelli), «duepunti», «geminopunto», «bipuncta» (J. Vittori da
Spello) (Maraschio 2008: 124-125). Gli usi attuali sono attestati
a partire dal XVII secolo, benché i teorici del tempo, fedeli alla
tradizione, si limitino a indicare i valori di natura prosodica
(Marazzini 2008: 154).
2. Funzioni
Il segno dei due punti opera sia sul piano sintattico sia su
quello testuale. Tra le funzioni sintattiche si segnalano quella
cosiddetta presentativa, usata per introdurre nel testo una
persona o un oggetto (Mortara Garavelli 2003: 99; Tonani
2008: 29):
408
(5) Infatti, se fosse vero che la ricchezza rende felici, allora
chiunque fosse ricco sarebbe anche felice. Ma questo
non accade: esistono persone ricche che non sono felici
(così pure persone felici ma non ricche) (Giovanni
Boniolo & Paolo Vidali, Strumenti per ragionare,
Milano, Mondadori, 2002, p. 5)
I due punti possono essere usati anche per ottenere particolari effetti di senso, di carattere soprattutto pragmatico e stilistico, come nei casi in cui intervengono in unità coese dando
luogo a «frammentazioni sintattiche» (Ferrari 2003: 61-64 e
Lala 2008: 198):
(6) Il corpo, allora, come costellazione di microtraumi [...],
cui segue la scrittura-cucitura di una seconda pelle
cicatriziale percorsa da infinite, doloranti commessure:
da attonita Catwoman di provincia (Andrea
Cortellessa, Elisa Biagini, l’orlo del corpo, in Id., La
fisica del senso, Roma, Fazi, 2006, p. 562)
La successione dei due punti all’interno dello stesso periodo
è in genere sconsigliata, per quanto al riguardo non vi siano restrizioni rigide e non manchino esempi autorevoli, tanto nella
scrittura letteraria (così, per es., in Carlo Emilio ➔ Gadda)
quanto in quella funzionale (Mortara Garavelli 2003: 103).
Luca Cignetti
Studi
Ferrari, Angela (2003), Le ragioni del testo. Aspetti morfosintattici e interpuntivi nell’italiano contemporaneo, Firenze, Accademia della
Crusca.
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