IVA e imposte indirette Frodi IVA e operazioni con l`estero
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IVA e imposte indirette Frodi IVA e operazioni con l`estero
IVA e imposte indirette Frodi IVA e operazioni con l’estero Marco Greggi Professore Associato Dipartimento di giurisprudenza, Università di Ferrara Presupposti e limiti per la tutela del contribuente in buona fede che effettua esportazioni o cessioni intracomunitarie 1. Considerazioni preliminari: la progressiva evoluzione delle frodi al sistema IVA Le cosiddette “Frodi IVA” in generale, e quelle “carosello” in particolare[1] , sono sotto l’attenzione sistematica della letteratura, e prima ancora dell’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria dei diversi Paesi membri dell’Unione europea (di seguito UE) oramai da molto più di un decennio[2]. Con un ragionevole grado di approssimazione, infatti, potrebbe essere sostenuto che le prime ipotesi frodatorie al sistema dell’imposta sul valore aggiunto (di seguito IVA) sono di fatto coeve all’attuazione del mercato comune in forza del Trattato di Maastricht, e all’abolizione delle barriere doganali interne fra Paesi membri dell’UE[3]. Il tema delle frodi tuttavia non è estraneo neanche agli Stati extra-UE, come ad esempio la Svizzera o la Repubblica di San Marino, con i quali l’interscambio commerciale italiano è particolarmente intenso e, con esso, anche il rischio di violazioni agli obblighi fiscali che ne derivano. In queste circostanze il rischio deriva essenzialmente dalla produzione di false lettere d’intento[4] da parte dell’esportatore (per poter beneficiare di un regime di non imponibilità speciale) ovvero scaturisce dall’impiego di società cosiddette “cartiere” (nell’ipotesi di operazioni commerciali intrattenute con imprenditori sammarinesi, nei confronti dei quali il regime IVA italiano si comporta in modo sostanzialmente analogo a quanto fa nei confronti di soggetti eurounitari)[5]. Dal punto di vista giuridico, poi, il concetto di “Frode IVA” è spesso utilizzato in modo descrittivo (o magari anche evocativo di comportamenti scorretti del contribuente e sovente penalmente rilevanti) quanto improprio[6]. Quella di “Frode IVA”, infatti, è una fattispecie scarsamente rigorosa dal punto di vista concettuale, che può includere molti comportamenti, e fare riferimento ad altrettanti diversi esiti, tutti caratterizzati da un pregiudizio per le ragioni Erariali: tutti raggiunti attraverso comportamenti del contribuente (o dei contribuenti coinvolti nel meccanismo applicativo dell’IVA) qualificati dal generare un particolare allarme sociale. Ecco che allora, con queste premesse e tentando una definizione, si ha frode quando il sistema IVA è alterato in modo tale da fare emergere in capo a un imprenditore un credito IVA che in realtà è insussistente: credito che poi a sua volta è utilizzato in compensazione attraverso l’esercizio del diritto di detrazione e, nelle ipotesi ancora più gravi, addirittura costituisce la base per una pretesa di rimborso da parte del contribuente fraudolento. In questo modo, con un ragionevole grado di approssimazione, si può provare a dare contenuto alla categoria delle “Frodi IVA” intendendo come tali quei comportamenti dei contribuenti che, attraverso l’utilizzo di documenti (fatture, lettere d’intento e così via) materialmente o ideologicamente falsi (o in alcuni casi solo contraffatti) sono orientati tutti ad alterare il meccanismo applicativo del tributo facendo emergere ragioni di credito del contribuente infedele, che in realtà sono in tutto o in parte inesistenti. Il corollario di questa definizione porta allora a concludere che il concetto di frode nel diritto tributario si avvicina a quello di inesistenza (totale o parziale) dell’operazione o del soggetto che la pone in essere: di qui la distinzione, oramai accolta tradizionalmente nella dottrina italiana e nella giurisprudenza, fra operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti[7]. 2. Le ipotesi di frode: dalle operazioni carosello all’inesistenza soggettiva Il modello di frode cosiddetto “carosello” è oramai conosciuto sia dalla prassi che dalla letteratura. Si realizza sfruttando la vulnerabilità del sistema IVA nelle ipotesi in cui la cessione di beni mobili avviene fra operatori economici senza l’applicazione in via di rivalsa del tributo. Si può trattare di cessioni intracomunitarie[8] ovvero di cessioni equiparate dalla legge a queste ultime (tali sono ad esempio le cessioni di beni nei confronti di operatori economici localizzati nella Repubblica di San Marino)[9] , di utilizzo improprio di depositi IVA [10] , e 39 40 così via. In tutti questi casi (e nell’ipotesi più semplice di frode, oramai di esclusivo interesse didattico), un operatore economico localizzato in un Paese che cede merce a un operatore economico residente altrove nell’UE, il quale a sua volta cede la merce a una società “cartiera” residente nel Paese del primo cedente che a sua volta rivende la merce stessa al primo soggetto. Ovviamente tutti i passaggi in questione sono rappresentati dal punto di vista cartolare mediante emissione di regolare fattura, e sono tracciati nei modelli riepilogativi INTRASTAT (ove necessario) dando parvenza di effettività all’intera operazione[11]. Indipendentemente dalla variante del caso concreto, il tema centrale ricorrente consiste nella valutazione della legittimità dell’esercizio del diritto di detrazione da parte del primo imprenditore, che lamenta l’ignoranza dello status di “cartiera” della società che quegli stessi beni gli ha venduto. L’applicazione apodittica dei principi eurounitari in materia d’imposta sul valore aggiunto imporrebbe in ogni caso una risposta in senso affermativo. Il diritto alla detrazione dell’imposta addebitata in via di rivalsa non può trovare limitazione alcuna pena la perdita di neutralità del tributo: così ha sempre insegnato la Corte di giustizia[12]. È però vero che argomentando in questo modo s’espone il sistema IVA a inaccettabili perdite di gettito: il diritto alla detrazione non può trovare salvaguardia in casi nei quali la rivalsa non ha effettivamente avuto luogo e in condizioni nella quali, quindi, l’acquirente non ha effettivamente sopportato l’onere del tributo. Quello che era dunque nato come un principio indiscutibile nell’applicazione dell’IVA eurounitaria (articolo 203 della Direttiva di rifusione n. 2006/112/CE), quasi un a priori nell’attuazione del tributo, diviene alla fine un diritto relativizzato al ricorrere di ulteriori condizioni[13]. In verità accade che la società “cartiera” residente, acquirente intracomunitaria e cedente alla prima venditrice, omette il versamento dell’IVA addebitata (cartolarmente) in via di rivalsa in totale pregiudizio per l’erario, posta la sua assoluta incapienza (nella prassi si tratta di società esistenti solo virtualmente, e senza alcun patrimonio aggredibile da parte dell’Erario). Contemporaneamente, la società acquirente italiana esercita regolarmente il diritto di detrazione per l’imposta così come addebitata in fattura dalla cartiera, abbattendo il proprio debito IVA nei confronti dell’erario: spessissimo, naturalmente, si tratta di un’IVA che non è mai stata subita effettivamente in via di rivalsa. Insomma, dall’asimmetria applicativa del tributo sul valore aggiunto (per la quale un soggetto deve versare l’imposta all’Erario, così come un altro esercita un diritto di detrazione per la stessa imposta, almeno in linea tendenziale), unitamente alla non imponibilità delle cessioni intracomunitarie, deriva la possibilità per il contribuente fraudolento di precostituirsi ragioni di credito nei confronti dello Stato, che vede così comprimersi il gettito IVA e al contempo si trova nella impossibilità di rivalersi nei confronti della cosiddetta “cartiera”. Le operazioni “carosello” come sopra riassunte conoscono poi nella prassi applicativa infinite varianti fra loro anche sensibilmente diverse, in ragione del fatto che la cessione di beni sia assolutamente simulata, o che lo sia solo in parte, o ancora che la movimentazione di merce abbia effettivamente luogo (ipotesi oltremodo infrequente) ma che la società “cartiera” ometta il versamento del tributo, o ancora che fra la prima società e la cartiera si inseriscano una o più società “interposte” (buffer, per usare la terminologia inglese altrettanto soventemente impiegata in questi casi). Da un problema di sostanza (la debenza o meno del credito IVA nei confronti dell’Erario per un importo pari a quello del tributo esposto in fattura) ci si sposta un poco alla volta a un problema di procedura (se il cessionario fosse a conoscenza della natura fraudolenta dell’operazione, come sia avvenuto l’addebito, e così via) ed in ultima analisi al tema della prova, su cui la giurisprudenza si è soffermata con maggiore attenzione negli ultimi anni[14] , se non addirittura negli ultimi mesi[15]. Proprio nel tentativo di trovare un accettabile punto di equilibrio fra tutela della buona fede del terzo acquirente e interesse fiscale dell’Erario alla salvaguardia del gettito d’imposta e dell’efficienza dell’azione amministrativa la giurisprudenza più recente ha introdotto la categoria dell’“inesistenza soggettiva” nell’ambito delle fattispecie riconducibili alle frodi IVA. Si avrebbe un’operazione “soggettivamente inesistente” (recte: un’operazione posta in essere da un soggetto inesistente) quando l’operazione in sé e per sé ha effettivamente luogo, ma la fattura risulta essere emessa da un soggetto diverso rispetto a quello che l’ha concretamente realizzata. Si può trattare della merce acquistata da un soggetto “alfa” (che magari l’ha venduta, o a sua volta acquisita, in modo irregolare) che viene accompagnata da una fattura che ne rappresenta il prezzo realmente pagato, e magari anche l’IVA effettivamente addebitata in via di rivalsa, ma emessa da un altro soggetto “beta”. La prassi poi ha registrato tentativi di ricondurre ad operazioni soggettivamente inesistenti anche nel caso di fatture recanti una partita IVA erronea ovvero anche di soggetti che effettuano operazioni indicando una partita IVA cessata[16]. Novità fiscali / n.1 / gennaio 2015 3. La responsabilizzazione del soggetto cessionario: il tema della buona fede ovvero della esigibilità secondo buona fede Sia che si tratti di operazioni soggettivamente inesistenti, sia che si tratti invece di operazioni che sono tali solo dal punto di vista oggettivo, il problema della buona fede e della sua verifica resta il dato ineludibile che caratterizza tutte le ipotesi di contenzioso sin qui censite. Da un lato l’Amministrazione finanziaria tradizionalmente è orientata nel ritenere che a fronte di contesti fraudolenti che vedono l’operatività di “cartiere” l’imprenditore che da queste acquista merci “non possa non sapere” della frode, e che quindi sia superfluo dimostrare il suo concorso nell’operazione fraudolenta se non addirittura la sua progettazione. Dall’altro lato vi è la posizione del contribuente, e di buona parte della dottrina, secondo la quale alla luce dell’insegnamento civilistico la buona fede è sempre presunta e spetta dunque all’Amministrazione finanziaria la prova della consapevolezza della frode: cioè della partecipazione al disegno criminoso. Si tratta di un onere che ben può essere assolto anche attraverso l’utilizzo di presunzioni, purché caratterizzate da una particolare gravità, precisione e concordanza. e non soggettivo, facendo riferimento la prima a un’adesione del contribuente a quella che potrebbe essere definita come la “best practice”, mentre la seconda (buona fede in senso soggettivo) si esaurirebbe nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto. Si tratta di concetti che l’attuale diritto tributario italiano mutua da quello civile, e che poi adegua alle proprie specifiche esigenze[18]. Uscendo dalla teoria e spostandosi sotto un profilo maggiormente operativo, potrebbe allora essere sostenuto che un imprenditore è considerato in buona fede (e conserva dunque il diritto di detrazione per l’IVA addebitatagli da una società che si rivela poi essere una “cartiera”) non quando ignora di ledere la pretesa erariale (buona fede in senso soggettivo), ma quando ha conformato i suoi rapporti commerciali con la società (rivelatasi poi essere) fittizia alla diligenza esigibile: ha verificato sommariamente la sussistenza della sua società controparte, ha svolto i controlli normalmente effettuati nei rapporti commerciali, dimostra che magari la sua controparte commerciale aveva intrattenuto con lui in passato solidi ed effettivi rapporti commerciali prima di cominciare a omettere versamenti del tributo e così via (buona fede in senso oggettivo). La giurisprudenza, soprattutto italiana, che si è venuta consolidando nel corso degli ultimi anni ha fornito risposte oscillanti, in ragione molto spesso delle specificità del caso concreto portato all’attenzione della magistratura tributaria. In linea approssimativa, tuttavia, ha ritenuto che l’onere della prova ricadesse in capo all’Amministrazione finanziaria nel caso di operazioni “oggettivamente inesistenti”, e quindi di frodi che riguardassero l’effettività dell’operazione realizzata e rappresentata in fattura, mentre per contro fosse ammissibile una sorta di “ribaltamento dell’onere della prova”, e che quindi dovesse essere il contribuente cessionario della merce a dimostrare la sua estraneità al disegno criminoso, delle ipotesi d’inesistenza cosiddetta “soggettiva”[17]. Ben lungi dal risolvere la questione, l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato ha invero spostato solamente i termini della questione. Una volta cioè che si è reso il diritto di detrazione da assoluto a relativo, e che lo si è correlato ad una situazione soggettiva del contribuente, la buona fede (di talché può detrarre l’IVA solo chi non sa che chi gli vende la merce è in realtà una cartiera o un soggetto che in ogni caso non ha intenzione di versare l’IVA all’Erario in un contesto frodatorio), per il contribuente si è trattato (e si tratta ancora oggi) di verificare a che condizioni la sua buona fede possa essere accertata e quindi sia fatto salvo da una pretesa impositiva erariale e dalla conseguente applicazione di sanzioni. La situazione attuale vede sia la prassi amministrativa che la giurisprudenza impegnate nel codificare dunque parametri in base ai quali la buona fede possa essere accertata. L’ordinamento accoglie una nozione di buona fede in senso oggettivo Ecco che allora l’attuale giurisprudenza[19] utilizza il concetto di esigibilità secondo buona fede[20], anch’esso mutuato dall’esperienza civilistica, nel tentativo di fissare un livello di attenzione che può essere richiesto all’operatore economico quando intrattiene rapporti commerciali. Così come non si può chiedere a un imprenditore di svolgere un’attività istruttoria eccessivamente penetrante nei confronti della sua controparte commerciale al fine di verificarne i corretti adempimenti fiscali (d’altronde non avrebbe neppure gli strumenti giuridici per farlo) dall’altro lato non è credibile chi pretende di detrarre un’IVA di rilevante ammontare esposta su fattura emessa da una società mai conosciuta prima, ignota sul mercato, e con la quale tutta la transazione commerciale sia avvenuta mediante canali di commercio elettronico (ad esempio, sul web). 4. Segue: la ricerca di benchmarks attendibili I parametri in base ai quali un imprenditore possa essere considerato all’oscuro della frode e che quindi possa per questo conservare il diritto alla detrazione dell’imposta addebitatagli non sono mai stati individuati dal legislatore, né verosimilmente lo saranno in un futuro prossimo. 41 42 Novità fiscali / n.1 / gennaio 2015 È allora destinato a permanere quel livello d’incertezza così criticato in letteratura[21] che mette in difficoltà l’operatore economico che eserciti il diritto di detrazione per l’IVA addebitatagli in fattura. Il rischio è sempre quello di vedersi negata ex post la detrazione dell’imposta da parte dell’Ufficio sulla base dell’assunto che chi ha emesso fattura nei suoi confronti non ha versato il tributo all’Erario in quanto società “fittizia” o che, ancora, l’operazione in questione (e per la quale l’addebito ha avuto luogo) fosse in realtà inesistente (non abbia cioè mai avuto luogo). Se si aggiunge a questo il fatto che l’onere della prova (circa l’effettività dell’operazione) spesso è spostato in capo al contribuente, si arriva spesso a un cortocircuito che rasenta la diabolicità dell’onere stesso: quello ad esempio di dover dimostrare la prestazione di un servizio avvenuta anni prima, e del quale magari non vi sono tracce se non una documentazione spesso disconosciuta dall’Amministrazione finanziaria stessa. Consapevole della delicatezza della situazione e della necessità di individuare un equo contemperamento fra le diverse esigenze, l’Amministrazione finanziaria italiana ha individuato una serie di parametri che possono fornire argomenti in merito all’effettività dell’operazione o, se si preferisce, del fatto che il contribuente abbia fatto tutto quello che gli si poteva legittimamente chiedere per essere ragionevolmente certo del fatto che la sua controparte commerciale fosse un effettivo imprenditore e non un soggetto fittizio[22]. Il primo, oramai incontestato elemento che emerge dall’analisi giurisprudenziale in merito è quello che riguarda la soglia di diligenza esigibile. prevista e magari anche le clausole previste nel contratto di trasporto conformi allo standard internazionale Incoterms[23]. Per quel che riguarda la prova dell’effettiva consegna della merce la prassi ministeriale, dapprima arroccata su posizioni ispirate a una sostanziale intransigenza, pretendeva la conservazione e la predisposizione di documentazione conforme alle clausole previste dalla CMR[24] applicabile al caso di specie. Solo in un momento successivo, e del tutto opportunamente, ha ammesso la possibilità di dimostrare con ogni mezzo l’effettività del trasporto, ivi inclusa documentazione non perfettamente conforme agli standards internazionali purché idonea a confermare l’effettività dell’operazione economica dalla quale è scaturito l’addebito dell’IVA in via di rivalsa. Insomma, la situazione attuale non permette ancora di individuare un protocollo di comportamento che possa mettere al sicuro l’acquirente da possibili contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana, tenuto anche conto del fatto che la diversità delle situazioni poste all’attenzione dell’Ufficio e della giurisprudenza è tale che l’utilizzo di clausole generali come quelle della buona fede e della diligenza e correttezza pare essere l’unico adeguato a bilanciare le diverse esigenze sopra riassunte. 5. Il caso delle operazioni con l’estero: le esportazioni, le false lettere d’intento Indubbiamente nel caso dei Paesi extra-UE che hanno rapporti commerciali con l’Italia (e con la sola esclusione della Repubblica di San Marino per i motivi che si sono detti sopra) le questioni inerenti le frodi IVA innescate a seguito di caroselli sono di minore importanza. L’operatività degli uffici doganali di fatto impedisce (o riduce sensibilmente) la possibilità di architettare frodi utilizzando quello schema. Dall’altro lato però le cessioni all’esportazione (immaginando ad esempio un rapporto commerciale fra un’impresa italiana che cede merce a una società svizzera) si rivelano vulnerabili ad altre tipologie di frodi, come ad esempio quelle correlate alle false lettere d’intento oppure ancora all’utilizzo improprio dei depositi, come ancora recentemente la giurisprudenza ha osservato[25]. In altri termini nel quadro dei rapporti commerciali altro è il grande imprenditore strutturato e con uffici interni dedicati all’acquisto e alle vendite, altro è l’imprenditore di modeste dimensioni (magari unipersonale). All’uno è esigibile una soglia di attenzione molto maggiore rispetto al secondo: su questo la Suprema Corte di Cassazione si è espressa in passato in modo inequivocabile e creando un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (e che fa riferimento a una necessaria analisi quantitativa della struttura societaria). Ecco allora assumere rilievo in questo senso le modalità di pagamento, gli strumenti utilizzati, i rapporti commerciali pregressi, la localizzazione del fornitore, la tipologia di consegne Si tratta di due sistemi frodatori fra loro profondamente diversi che sfruttano diverse vulnerabilità del meccanismo IVA, quando il tributo in questione trova applicazione (o meglio, dovrebbe trovare attuazione) nei confronti di operazioni commerciali correlate all’import-export. Nel caso delle cosiddette “false lettere di intento” la frode si sostanzia nella simulazione di una qualificazione soggettiva (quella di esportatore abituale) per poter effettuare acquisti di beni senza addebito dell’imposta. I beni così acquistati, invece di essere poi trasportati all’estero vengono più spesso ceduti sul mercato interno in modo del tutto irregolare. Sono situazioni nelle quali le verifiche degli uffici spesso hanno interessato la figura del cosiddetto “primo cedente” sul territorio dello Stato (vale a dire l’imprenditore che cede in regime Novità fiscali / n.1 / gennaio 2015 di non imponibilità IVA beni a chi si dichiara di essere esportatore abituale) che nella prassi si rivela per essere l’unico solvibile e proprietario di beni aggredibili. Il caso in questione, pur con le specificità che riguardano i rapporti con Paesi esteri, non diverge molto né dai modelli frodatori visti prima né dai temi che pone all’attenzione del giudice. Anche qui la soluzione del caso concreto, infatti, va trovata bilanciando le esigenze di affidamento del primo cedente e l’interesse erariale alla percezione del tributo[26]. Indubbiamente l’emissione di una lettera d’intento determina un affidamento qualificato nei confronti di chi la riceve in merito alla destinazione delle merci vendute. Si tratta però di verificare se l’emissione del documento in questione sia correlata da altri elementi oggettivi, e facenti parte del contesto dell’operazione, che permettano di confermarne la verosimiglianza[27]. In assenza di un contesto, per così dire, adeguato, la giurisprudenza non si sente affatto vincolata al contenuto della lettera stessa. In altri termini, la conservazione di una lettera d’intento del proprio cliente non mette al sicuro il destinatario della stessa da una possibile verifica dell’erario e dall’applicazione, nel caso in questione, del paradigma del “non poteva non sapere” con le conseguenze che da esso derivano. Come indicato in nota precedente, il sistema è destinato a mutare progressivamente nel corso del 2015, non appena la novella dell’articolo 20 del D.Lgs. n. 175/2014 (cosiddetto “Decreto semplificazioni”) avrà trovato piena attuazione, obbligando l’esportatore a trasmettere direttamente all’Agenzia delle Entrate la lettera d’intenti emessa. 6. Le cosiddette “triangolazioni” e la prova della chiusura dell’operazione triangolare Recentemente la Cassazione italiana si è pronunciata[28] su ipotesi di “triangolazione” comunitaria che rivestono profili importanti anche nell’ambito dei rapporti con Paesi terzi. Più in particolare l’attenzione è stata attirata sull’onere della prova esigibile in capo al soggetto venditore italiano che cede merce a terzi in regime di non imponibilità IVA (perché ad esempio trattasi di cessione intracomuntaria o di cessione all’esportazione) nel quadro di operazioni cosiddette “triangolari” [29]. La triangolazione comunitaria propria ha luogo quando la merce viene venduta da un operatore economico in un Paese ad un altro in un secondo Paese il quale la rivende poi subito ad un altro ancora localizzato in un terzo Paese dell’UE. A fronte di queste due cessioni tuttavia la merce è consegnata direttamente dal primo (venditore) al terzo (ultimo acquirente). Anche se nel caso di specie non tutti i requisiti della cessione intracomunitaria vengono rispettati[30], ugualmente il legislatore italiano, in modo conforme a quello comunitario, prevede l’applicazione del regime di non imponibilità[31]. È un vantaggio indubbiamente rilevante, e teso a facilitare, dal punto di vista operativo, l’attività degli imprenditori che strutturalmente operano in un contesto transnazionale. Si tratta però al tempo stesso anche di una situazione (triangolare, appunto) sulla quale è facile innestare comportamenti frodatori contando poi sul fatto di trasferire la possibilità su un altro soggetto. La prassi testimonia in questo senso di operazioni di triangolazione che non si sono poi “chiuse” all’estero, ma a fronte delle quali la merce è stata poi ceduta sul mercato interno di uno dei primi due Paesi (o magari anche del terzo)[32]. Proprio per garantire la tracciabilità della merce anche in queste situazioni (e con essa di facilitare l’attribuzione di responsabilità e la conseguente applicazione di sanzioni) il legislatore italiano aveva imposto che il trasporto della merce dovesse avvenire a cura del primo cedente. In questo caso, a fronte di una mancata effettiva consegna o di una scomparsa dei beni presso una società acquirente rivelatasi poi cartiera, sarebbe stato più agevole per l’Erario il recupero dell’imposta in capo appunto a chi non solo aveva dato l’avvio alla triangolazione dal punto di vista cartolare, ma anche a chi aveva poi l’onere e la responsabilità di dare attuazione agli impegni contrattuali. Almeno questa era stata, tradizionalmente, l’interpretazione dominante da parte della giurisprudenza, orientata così a un’applicazione delle norme in chiave di maggior tutela per l’interesse dell’Erario. A maggior ragione va dunque segnalato l’apparente revirement che la Corte ha recentemente manifestato e in base al quale fa venire meno l’obbligo di consegna da parte del primo venditore. Si tratta in estrema sintesi della conferma della possibilità di applicare clausole di consegna “ex works” nel quadro di una triangolazione comunitaria, coniugando il regime di responsabilità (attenuato) civilistico previsto per il venditore, con la garanzia di poter disapplicare l’IVA in via di rivalsa. Come ogni variazione dell’orientamento giurisprudenziale su questi temi, anche la più recente giurisprudenza di Cassazione è destinata a impattare in modo importante su quel bilanciamento delicato di cui si è dato conto in materia di frodi IVA, soprattutto per quel che riguarda l’applicazione delle presunzioni e del “non poteva non sapere”. Ora per l’operatore economico primo cedente sarà più semplice sostenere la propria ignoranza (anche in via presuntiva) del meccanismo frodatorio addossando ogni responsabilità al suo committente (se non addirittura al terzo acquirente) una 43 44 Novità fiscali / n.1 / gennaio 2015 volta che ha messo a disposizione del vettore la merce ceduta presso i propri locali aziendali. 7. I rimedi alle frodi nell’ambito di una reazione “multilivello” Il tema delle frodi nell’applicazione dell’IVA, stante la sua natura cruciale per l’interesse dell’Erario, non poteva essere consegnato esclusivamente a interventi dell’autorità amministrativa, della prassi e della giurisprudenza. Sia in ambito eurounitario che da parte del legislatore italiano si sono avuti interventi nel corso degli anni orientati tutti a circoscrivere le ipotesi per poter porre in essere frodi: dal sistema carosello in avanti. cosiddette “anomale” (ad esempio ad un prezzo sensibilmente inferiore a quello di mercato). Insomma il legislatore ha delineato una nuova forma di responsabilità solidale paritetica nell’ottica di una maggior tutela dell’interesse alla percezione del tributo. Non si tratta però di una riedizione in chiave positiva dell’orientamento giurisprudenziale riportato alle pagine precedenti. Là l’Amministrazione finanziaria disconosceva il diritto di detrazione in capo al soggetto cessionario qualora il soggetto cedente non avesse provveduto al versamento del tributo, e qualora ricorresse il fondato sospetto di una frode IVA e della consapevolezza di questa da parte del cessionario. Qui invece da un lato il diritto alla detrazione è fatto salvo ma, in fin dei conti, neutralizzato dall’obbligo di (ulteriore) versamento del tributo da parte dell’operatore economico stesso che quel diritto rivendica. Evidente e tangibile è il disallineamento risolto all’ortodossa applicazione dell’IVA, che da sempre ha tenuto cedente e cessionario su piani profondamente distinti, anche dal punto di vista concettuale, arrivando a chiarire il primo soggetto passivo in senso giuridico e il secondo ugualmente tale, ma solo dal punto di vista economico; così come d’altro canto è evidente l’attenzione che deve essere mantenuta per quel che riguarda la salvaguardia del principio di proporzionalità nell’applicazione dell’IVA[37]. In un certo senso, potrebbe essere sostenuto, le contestazioni riguardanti l’inesistenza soggettiva delle operazioni sono solo le punte più avanzate di questa operazione di contrasto: più evolute ma anche indubbiamente più pericolose, poiché rischiano magari di responsabilizzare soggetti che davvero erano all’oscuro dell’operazione criminale. Dal punto di vista puramente interno l’Italia ha progressivamente implementato condizioni per l’applicazione dell’inversione contabile[33] , ha pianificato un regime di screening più attento delle partite IVA [34] , si è mossa d’intesa con il soft law in merito della Commissione europea[35] e del nuovo quadro progressivamente delineato in merito alla collaborazione amministrativa[36]. Allo stesso modo gli organi comunitari si sono dimostrati attenti in modo particolare alle frodi IVA, anche perché andavano e vanno ancora a oggi a erodere in modo significativo quella che è una risorsa partecipata dell’UE: il gettito IVA appunto. Ma a parte tutto questo si può ragionevolmente sostenere che il profilo più importante della reazione ordinamentale domestica al pericolo delle frodi è stata l’introduzione dell’articolo 60-bis nel tessuto del D.P.R. n. 633/1972. Si tratta di una norma dall’importante ricaduta operativa perché seppure implementata con lo scopo dichiarato di scoraggiare le frodi, di fatto stravolge il sistema applicativo dell’imposta e il regime di responsabilità dei soggetti coinvolti nel prelievo. In estrema sintesi esso permette all’Amministrazione finanziaria di rivolgere la sua pretesa esattiva anche nei confronti del cessionario della merce qualora il cedente abbia omesso il versamento e la vendita stessa sia avvenuta in condizioni 8. Considerazioni conclusive per i rapporti fra Italia e Svizzera Il tema delle frodi all’applicazione dell’IVA tocca inevitabilmente anche i rapporti Italia – Svizzera, per quanto la non appartenenza della Repubblica elvetica all’UE e la sopravvivenza degli oneri di compliance doganale scongiurino i rischi maggiori. Il forte interscambio commerciale ha tuttavia in passato sollevato questioni di applicazione dell’imposta a formule contrattuali complesse, simili alle cosiddette “triangolazioni comunitarie” che hanno poi portato a risposte analoghe da parte dell’Amministrazione italiana. Se, ad esempio, è impossibile per una società svizzera attivare una triangolazione propriamente detta fra Italia e Germania (acquistando merce da un soggetto italiano, rivendendola ad uno tedesco e ordinando la consegna diretta dall’Italia alla Germania), dall’altro lato è possibile per essa ricondursi ad una situazione analoga mediante, ad esempio, la nomina di un rappresentante fiscale nel territorio del Paese (o di un qualsiasi altro dell’UE) e poi di fatto innescare attraverso il rappresentante una operazione triangolare. Allo stesso risultato si può arrivare anche attraverso l’impiego di una stabile organizzazione in Italia (come tale dotata di numero di identificazione IVA) dell’operatore economico elvetico nel territorio dello Stato. Di qui l’importanza di conoscere i presupposti e i limiti della responsabilità per le frodi IVA magari perpetrata da un partner commerciale infedele e dopo che ha tenuto all’oscuro l’operatore economico stesso. Novità fiscali / n.1 / gennaio 2015 La buona fede, un tempo presunta alla luce dell’insegnamento codicistico del Diritto civile, al giorno d’oggi viene progressivamente pregiudicata e messa in dubbio sotto le spinte di una battaglia che non conosce sosta e dalla quale dipende anche, in misura non trascurabile, la salute del bilancio statale. Elenco delle fonti fotografiche: http://www.sicurauto.it/upload/news_/11081/img/5420-lagenzia-delle-entrate-e-attiva-nel-contrasto-alle-cosidette-frodi-carosello-perevadere-liva-sulla-auto-dimportazione.jpg [15.01.2015] http://www.iusnetwork.com/wp-content/uploads/2014/06/IVA-01- Spetta allora al diligente imprenditore, già in fase di pianificazione dell’operazione commerciale, di tenere una condotta conforme a quei benchmarks tratteggiati in precedenza per quel che riguarda l’individuazione della sua controparte, la conduzione delle trattative, non da ultimo, la conservazione di un’adeguata documentazione che gli permetta agevolmente di essere tenuto indenne da ogni ulteriore pretesa del fisco italiano, a qualsiasi titolo avanzata. 400x372.jpg [15.01.2015] http://www.economiaepolitica.it/wp-content/uploads/fiscaler375_17set08. jpg [15.01.2015] http://cdn.fiscoetributi.com/wp-content/uploads/2009/04/evasori-fisco.jpg [15.01.2015] http://www.esternalizzati.it/wp-content/uploads/2013/12/pioggia-disoldi.jpg [15.01.2015] [1] Tesauro Francesco, Appunti sulle frodi carosello, Giur. it., 2011, pagina 1213. [2] Per una ricostruzione della letteratura in merito si veda Greggi Marco, Presupposto soggettivo e inesistenza nel sistema d’imposta sul valore aggiunto, Padova 2013 (citato: Presupposto soggettivo). [3] Giovanardi Andrea, Le frodi iva. Profili ricostruttivi, Milano 2013, pagina 36 e seguenti. [4] In materia è però intervenuto il recente Decreto Legislativo (di seguito D.Lgs.) n. 175/2014 che ha introdotto, all’articolo 20, un nuovo meccanismo di comunicazione anticipata (all’Agenzia delle Entrate) delle lettere d’intento dell’esportatore, finalizzato a ridurre in modo significativo i rischi frodatori. [5] Greggi Marco, Fattispecie di evasione e detraibilità dell’imposta nel regime IVA degli scambi fra Italia e Repubblica di San Marino, in: Riv. dir. fin. sc. fin., 2002, II, pagina 33. [6] Giovanardi Andrea, op. cit., pagina 13. [7] Greggi Marco, Presupposto soggettivo, pagina 36. [8] Articolo 41 Decreto Legge (di seguito D.L.) n. 331/1993. [9] Articolo 71, comma 3 del Decreto del Presidente della Repubblica (di seguito D.P.R.) n. 633/1972. [10] Articolo 50-bis D.L. n. 331/1993. [11] Per i dettagli si rimanda diffusamente a Giovanardi Andrea, op. cit., pagine 24-25 e in particolare la nota 43. [12] Sia concesso il rinvio a Greggi Marco, Il principio di inerenza nel sistema di imposta sul valore aggiunto: profili nazionali e comunitari, Pisa 2012, passim, ove ampi richiami giurisprudenziali al case law della Corte di giustizia. [13] Ex multis si veda la sentenza della Corte di giustizia C-407/04 Teleos plc del 27 settembre 2007. [14] Cass. 15741 del 19 settembre 2012. [15] Cass. 14404 del 25 giugno 2014; in questo senso già Cass. 10414 del 15 maggio 2011. [16] Per quel che riguarda le conseguenze derivanti dall’erronea esposizione in fattura del numero d’identificazione IVA del cessionario si veda la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 143 del 18 settembre 2012 (Sez. 36). [17] Il discrimine è particolarmente evidente in sentenze come ad esempio Cass. 15741/12 citata in precedenza. [18] Ad esempio l’articolo 1375 del Codice civile applica il principio di buona fede (oggettivo) all’esecuzione del contratto. [19] Cass. 6229 e 6400 entrambe del 13 marzo 2013 che però apparentemente raggiungono esiti fra loro discordanti. [20] Marello Enrico, Frodi iva e buona fede del soggetto passivo, in: Giur. it., 2011, pagina 1214. [21] Miccinesi Marco, Le frodi carosello nell’IVA, in: Riv. dir. trib., 2011, I, pagina 1089. [22] Ris. min. n. 345/E del 28 novembre 2007 e Ris. min. n. 477/E del 15 dicembre 2008. [23] Greggi Marco, Presupposto soggettivo, pagina 21, nota 70. Questi ed altri aspetti sono poi valorizzati dalla giurisprudenza di Cassazione; si distingue ad esempio la rilevanza delle anomalie nel fatturato dei fornitori (Cass. 1242 del 22 gennaio 2014; Cass. 1565 del 27 gennaio 2014); l’assenza di una struttura aziendale adeguata (Cass. 2198 del 31 gennaio 2014); pagamenti parziali a copertura del solo debito IVA (Cass. 25142 dell’8 novembre 2013); la presenza di un amministratore delegato privo di adeguate capacità tecniche e professionali (Cass. 9108 del 6 giugno 2012). [24] Convention des Marchandises par Route (CMR). Si tratta nella prassi di una lettera di vettura conforme alla regolamentazione che per prima è stata stabilita a livello internazionale con la Convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956 (la conformità allo schema della CMR della documentazione conservata era postulata dalla prima delle due Risoluzioni ministeriali citate in nota 22). [25] Cass. 12262 del 19 maggio 2010, ad esempio. Si tratta però di un orientamento giurisprudenziale poi in parte smentito dalla più recente pronuncia della Corte di giustizia C-272/13 del 17 luglio 2014 Equoland. [26] In questo senso Cass. 23610 dell’11 novembre 2011. [27] Proprio nell’ultimo precedente citato, osserva la Suprema Corte che “la consapevolezza da parte del soggetto che opera una cessione di beni della falsità della «dichiarazione d’intenti» emessa, ex Articolo 1, comma primo, lett. c) del d.l. 29 dicembre 1983, n. 74, […] da persona dichiaratasi esportatore abituale, sulla cui scorta l’operazione non viene assoggettata ad imposta, comporta la non sussumibilità di quest’ultima nella fattispecie legale delineata dall’articolo 8 d.P.R. n. 633 del 1972 per mancanza originaria dell’elemento che caratterizza quel modello legale”. [28] Cass. 14405 del 25 giugno 2014. [29] La triangolazione IVA non ha una disciplina unitaria nel quadro del sistema d’imposta sul valore aggiunto, ma è regolamentata in un tessuto normativo frammentato recato dal D.L. n. 331/1993. Richiami, talora impliciti, alla cessione triangolare sono contenuti rispettivamente agli articoli 38, comma 7; 40, comma 2; 44, comma 2, lettera a; 46, comma 2 del già ricordato D.L. [30] In particolare per quanto riguarda la materiale consegna dei beni dal primo cedente al suo acquirente si rimanda a Ris. min. n. 176/E del 10 agosto 1996. [31] Si veda in merito già la Circolare n. 35/E del 13 febbraio 1997. [32] Un caso prossimo a quanto qui esposto può essere ravvisato in Cass. 5972 del 14 marzo 2014. [33] Articolo 17, comma 5 e seguenti D.P.R. n. 633/1972. [34] Articolo 35, comma 15-bis D.P.R. n. 633/1972. [35] Si veda ad esempio la Comunicazione della Commissione UE COM(2012) 722 final del 6 dicembre 2012. [36] Regolamenti CE 2003/1798 e 2010/940. [37] Sentenza della Corte di giustizia C-384/04 dell’11 maggio 2006, Federation of Technological Industries. 45