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LE FRODI COMMERCIALI Le frodi commerciali sono dei
LE FRODI COMMERCIALI Le frodi commerciali sono dei comportamenti illeciti che alterano le informazioni sulle caratteristiche dei prodotti alimentari. Sono particolarmente le frodi sanitarie che richiamano l’attenzione per i loro riflessi sulla salute umana; le frodi commerciali, riguardando gli interessi economici dei consumatori, non hanno la stessa attenzione. Esse si manifestano in particolare attraverso l’applicazione delle regole di etichettatura, di presentazione e di pubblicità dei prodotti e attraverso la fornitura di messaggi ingannevoli. Recentemente, con l’adozione del regolamento (CE) n. 1924/06 in tema di messaggi pubblicitari, sia di tipo nutrizionale che di tipo salutistico, la confusione esistente sul mercato comunitario è aumentata ed è in continuo sviluppo; è un continuo rincorrersi a trovare slogans che possano attirare l’attenzione del consumatore, dimenticando che il regolamento è stato adottato per porre ordine e un freno all’uso esasperato di certi claims, che talvolta non trovano alcuna giustificazione. Sono anche presenti numerosi altri claims di tipo diverso, cioè di tipo merceologico, perché generalmente riguardano aspetti connessi con la qualità dei prodotti. L’intervento è, quindi, finalizzato ad evidenziare in particolare le frodi che più comunemente vengono commesse in violazione dell’articolo 2 del decreto legislativo 109/92 e successive modifiche, del regolamento (CE) n. 1924//96 nonché ad altre norme connesse. In questa situazione caotica si inserisce il problema della legislazione comunitaria agricola, che non sempre è coerente con la politica di protezione del consumatore, essendo più direttamente finalizzata alla protezione degli interessi dei produttori agricoli, consentendo ad alcuni Paesi di fare ciò che è vietato in altri e, quel che è peggio, senza fornire le necessarie informazioni ai consumatori. Mi riferisco in particolare – ritengo utile dirlo anche se non è una novità - ai prodotti vitivinicoli e alle bevande alcoliche. Dopo oltre 25 anni dall’entrata in vigore delle regole comunitarie in materia di etichettatura e con l’impegno della Commissione europea di adottare entro 5 anni norme relative alle modalità di indicazione degli ingredienti di queste bevande, siamo ancora in alto mare sia con la nuova OCM dei vini sia col regolamento (CE) n. 110/08 sia con la nuova proposta di regolamentazione in materia di etichettatura dei prodotti alimentari. Tutto rinviato. A quando ? Non si sa. I sistemi di controllo nazionali non vengono adattati a queste situazioni. Il primo caso che sollevo, quindi, riguarda lo zuccheraggio dei vini; l’impiego dello zucchero nella vinificazione è ammesso in alcuni Stati membri ed in altri no: il vino così prodotto ha diritto di circolazione in tutta l’Unione europea, mentre in Italia chi utilizza lo zucchero in vinificazione commette frode. Il venditore nazionale, generalmente, è ritenuto corresponsabile col produttore se vende vini prodotti in Italia con l’impiego di zucchero, non lo è se vende vini prodotti nella Repubblica Federale di Germania o in Austria, perché vende prodotti regolamentati e legalmente ottenuti e commercializzati in altri Stati membri. Le frodi commerciali consistono nell’alterazione delle caratteristiche dei prodotti alimentari al solo scopo di ricavarne un illecito profitto ai danni del consumatore. Quelle più ricorrenti e interessanti al tema sono essenzialmente: a) l’adulterazione, che consiste nella variazione non dichiarata della composizione di un prodotto attraverso la sostituzione di un ingrediente nobile con un altro meno costoso (impiego di uova in polvere invece che di uova fresche o impiego della margarina in luogo del burro per la produzione di panettoni). L’adulterazione generalmente non crea danni alla salute ma serve solo a far guadagnare di più ai soggetti che le commettono; L’adulterazione può aversi anche nel caso di sottrazione di un componente nobile di un prodotto, a meno che non sia consentito da una norma che ne detti anche le modalità di vendita (latte scremato o parzialmente scremato). b) la sofisticazione consiste nell’alterazione delle caratteristiche di un prodotto, per raggiungere finalità non consentite: aggiungere un conservante per aumentare la durabilità del prodotto o aggiungere un colorante allo scopo di farlo apparire come contenente una determinata sostanza che non c’è o c’è in quantità minima. L’aggiunta di additivi nella preparazione di prodotti alimentari è consentita, ma occorre rispettare le condizioni prescritte (casi e dosi di impiego) e le esigenze tecnologiche. A tal fine vorrei richiamare l’attenzione su un fenomeno che va diffondendosi e che occorre tenere sotto controllo. Si tratta dell’impiego in prodotti carnei cotti di sostanze vegetali contenenti naturalmente nitrati e nitriti. Poiché, in applicazione di una specifica direttiva comunitaria, il Ministero della salute si appresta a vietare l’impiego dei nitrati in questi prodotti, questi conservanti vengono sostituiti con sostanze vegetali che contengono nitrati e nitriti. Ci troviamo di fronte a comportamenti che non risolvono il problema. Vanno, quindi, trovate altre strade. Perché si ricorre a queste sostanze? Perché, non essendo considerate ingredienti, non vengono dichiarate in etichetta e si ritiene che sia lecito commercializzare il prodotto con riferimento all’assenza di conservanti o di conservanti aggiunti. Nella realtà nitrati e nitriti sono presenti e, anche se utilizzati attraverso l’aggiunta di sostanze vegetali, sono pur sempre conservanti aggiunti. c) la contraffazione consiste nell’uso illecito di nomi e marchi di prodotti noti su prodotti sconosciuti o di qualità inferiori (questo è il grande dramma italiano, i cui nomi sono utilizzati anche in altri Paesi per prodotti locali che nulla hanno a che vedere con i prodotti italiani), ma anche nell’uso di segni distintivi ingannevoli che richiamano l’origine italiana. La contraffazione, che riguarda tutti i Paesi, non va considerata solo allo scopo di proteggere i produttori onesti ma soprattutto allo scopo di proteggere il consumatore, che riceve doppio danno dall’acquisto di prodotti contraffatti: acquisto di un prodotto non originale e a prezzo maggiorato. La protezione del consumatore dalla contraffazione si può risolvere solo con il coinvolgimento delle competenti autorità nazionali, a protezione dei propri consumatori. Le ipotesi più ricorrenti di frodi commerciali si realizzano a) attraverso dichiarazioni false, ambigue relative alla caratteristiche dei prodotti. raffigurazione in etichetta di uova intere fresche, mentre il prodotto è stato preparato con ovoprodotti in polvere oppure indicazione in codice del nome del produttore; b) attraverso dichiarazioni che esaltano la natura e le caratteristiche dei prodotti. Recentemente l’Antitrust è intervenuta per il Patè di fegato d’anatra, la cui presenza era solo dell’8%, considerandola ingannevole; c) attraverso la modifica di indicazioni obbligatorie: modifica della durabilità di un prodotto; d) attraverso la mancata indicazione di menzioni obbligatorie: additivi utilizzati e non indicati; e) attraverso la presentazione dei prodotti con forme, abbigliamento, posizionamento sugli scaffali che fanno riferimento ai prodotti di qualità ( aranciata e succo di arancia uno a fianco dell’altro, un prodotto da forno fatto con margarina e avente la forma e l’abbigliamento del panettone). Le ipotesi quindi di frodi commerciali possono essere numerose e di diverso profilo: basta saperle individuare. L’etichetta, poi, oltre che a fornire le prescritte informazioni sulle caratteristiche dei prodotti alimentari, serve anche come veicolo promozionale di cui i produttori possono avvalersi per pubblicizzare, valorizzare o presentare al meglio i propri prodotti, e distinguerli da quelli della concorrenza. Le aziende interessate sono, pertanto, libere di poter menzionare indicazioni volontarie, di riportare claims nutrizionali, salutistici e di qualità, purchè compatibili con i principi sanciti dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 109/92, nel quale sono enunciati gli elementi e le condizioni da osservare per evitare di realizzare una etichettatura o una pubblicità ingannevoli, e dal regolamento (CE) 1924/96 che elenca le condizioni da osservare per realizzare detti messaggi. In pratica, oltre alle indicazioni obbligatorie, sono consentite altre diciture, purchè non ingannevoli e non vietate ai sensi delle citate norme o con esse incompatibili. In altri termini il messaggio che viene fornito al consumatore, oltre ad essere veritiero, deve essere tale da distinguere il prodotto dagli analoghi prodotti per garantire trasparenza sul mercato. La messa in evidenza di caratteristiche rientranti nella naturale composizione del prodotto o prescritti dalla norma ad esso applicabile è un divieto che si configura come frode. Il primo comma dell’articolo 2 del decreto n. 109/92 enuncia il principio secondo cui l’etichetta deve essere realizzata in modo tale da non trarre in errore il consumatore sulle caratteristiche dei prodotti alimentari: la natura, la identità, la qualità, la composizione, la quantità, la durabilità, l’origine o la provenienza, il modo di fabbricazione o di ottenimento. Tale articolo pone l’accento anche sui divieti di attribuire ai prodotti alimentari a) proprietà atte a prevenire, curare o guarire una malattia umana, accennare a tali proprietà, fatte salve le disposizioni comunitarie relative alle acque minerali naturali ed ai prodotti alimentari destinati ad un’alimentazione particolare; b) proprietà o effetti non posseduti o di caratteristiche particolari possedute da tutti i prodotti analoghi. Il primo è un divieto assoluto, in quanto gli alimenti non sono farmaci e quindi non hanno quelle specifiche proprietà, per cui è vietato anche fare un semplice accenno a queste proprietà, salvo nel caso di prodotti per i quali la competente autorità sanitaria o specifiche norme comunitarie abbiano consentito l’uso di determinate diciture al riguardo. Sulla terminologia usata dal decreto n. 109/92 e dalla stessa direttiva comunitaria occorre essere precisi ed evitare di essere più restrittivi della norma stessa, che - è utile ripetere - vieta solo le diciture che vantano “proprietà atte a prevenire, curare o guarire malattie”. Non sono da ritenersi tali le diciture che vantano, per qualche prodotto, proprietà atte ad apportare un sollievo o un benessere alla salute dell’uomo, senza alcun riferimento ad effetti di prevenzione, cura o guarigione. Anche il regolamento sui claims, infatti, vieta indicazioni che facciano riferimento a benefici generali e non specifici di una sostanza nutritiva o di un alimento per la buona salute complessiva ed il benessere. Il secondo divieto mira in particolare ad assicurare la correttezza delle operazioni commerciali, oltre che tutelare il consumatore, e riguarda due fattispecie: a) proprietà o effetti non posseduti (esempio: aiuta l’intestino, aiuta la digestione), mentre i prodotti sono di ordinario consumo, che non posseggono tali proprietà. b) caratteristiche particolari possedute da tutti i prodotti analoghi. L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ha ritenuto in più occasioni che, in presenza di caratteristiche effettivamente possedute dal prodotto e tali da differenziarlo effettivamente dai prodotti analoghi, il messaggio non può essere vietato, in quanto non ingannevole, soprattutto se rigorosamente dimostrato. Questo è il caso più diffuso, soprattutto per quanto riguarda i messaggi relativi all’assenza di additivi o di taluni nutrienti, quali grassi e zuccheri, o al loro ridotto contenuto, la cui indicazione è tale da influenzare particolarmente le scelte dei consumatori. Si configura, quindi, come violazione della norma, l’uso di diciture quali “senza coloranti”, “senza conservanti”, “senza grassi”, “senza zucchero aggiunto”, nell’etichettatura di prodotti, nella cui preparazione dette sostanze sono vietate o non richieste. Nell’etichettatura dei pomodori pelati, ad esempio, è vietato riportare la dicitura “senza coloranti”, perché in tale prodotto non è consentito usare i coloranti. Tale dicitura, anche se veritiera, in quanto in effetti non sono utilizzati coloranti, suonerebbe come una denuncia di uso di coloranti nello stesso prodotto fabbricato da altre imprese. Qualora, tuttavia, la normativa vigente consenta l’impiego di tali sostanze e le imprese interessate non le utilizzano, il riferimento alla loro assenza è ammesso: su una mortadella prodotta senza l’impiego di polifosfati (additivi consentiti), le imprese che non li usano possono riportare un riferimento all’assenza con la dicitura “senza polifosfati aggiunti” o una dicitura simile. I principi previsti nell’articolo 2 del decreto n. 109/92 vanno valutati con molta prudenza e molto buon senso, se veramente si vogliono garantire gli interessi dei consumatori senza creare allarmismi, e, caso per caso, in relazione ai singoli prodotti e alle singole situazioni rilevate e tenendo conto delle conoscenze del consumatore medio: non vanno generalizzati. Porto un esempio: I succhi di frutta sono ottenuti esclusivamente da frutta, sono 100% derivati dalla frutta. Generalmente sono limpidi, ma il consumatore italiano considera succo di frutta il cosiddetto succo e polpa di frutta, che è un prodotto che di frutta ha mediamente il 50%. A questo punto ci si chiede se può essere consentito l’uso, nell’etichettatura di un succo, della dicitura “100% frutta”. A mio avviso sì, perché in questo caso non si vuole attribuire al prodotto una specifica caratteristica che è comune a tutti gli analoghi prodotti, ma solo richiamare l’attenzione del consumatore sulla natura del prodotto per aiutarlo a fare scelte oculate. Alcuni prodotti, provenienti da altri paesi, in Italia vengono solo confezionati, a volte in zone tipiche, a volte sottoposti a talune operazioni che non sono tali da incidere sulla loro natura e sulla loro identità ed etichettati come prodotti confezionati in zona. Il consumatore li acquista nella convinzione che si tratta di prodotti tipici della zona, ottenuti con materia prima locale, mentre ciò può non essere affatto vero. L’errore più comune che viene commesso al riguardo consiste nell’uso del termine “prodotto”, quando la attività è limitata al confezionamento in preimballaggi destinati al consumatore. Nel caso, ad esempio, di un concentrato di pomodoro importato dalla Cina in contenitori asettici e confezionato in Italia in contenitori destinati alla vendita al dettaglio, la ditta interessata non può utilizzare la dicitura “prodotto e confezionato da….” ma può solo indicare “confezionato da…” - sede e stabilimento di…”, anche nel caso di prodotto destinato ad altri Paesi. In materia di indicazioni volontarie riveste una particolare importanza, ai fini di una corretta informazione dei consumatori, il regolamento (CE) n. 1924/06, in vigore dal 19 gennaio 2007 ed in applicazione dal 1 luglio 2007. I claims salutistici, per poter essere utilizzati, devono essere inseriti in un elenco comunitario, devono avere una fondatezza scientifica, basati cioè su dati scientifici generalmente accettati; la sostanza cui si riferisce il claim è contenuta nel prodotto finito in quantità significativa, se determinata con norma, oppure in quantità tale da produrre l’effetto nutrizionale e fisiologico indicato. In ogni caso le indicazioni in parola sono consentite, come recita il paragrafo 2 dell’articolo 5 del citato regolamento, solo se ci si aspetta che il consumatore medio comprenda gli effetti benefici secondo la formulazione dell’indicazione. Per quanto riguarda i claims nutrizionali il regolamento comunitario riporta in un allegato tutti quelli consentiti, le condizioni di uso e ne subordina l’uso anche ai profili nutrizionali quando saranno stabiliti. Claims nutrizionali diversi da quelli elencati nell’allegato non possono essere utilizzati. La lista non è chiusa, nel senso che è pur sempre possibile aggiungerne altri, secondo la procedura prevista dallo stesso regolamento. Altri claims di diversa natura sono utilizzati a fini commerciali sia in Italia che negli altri Paesi UE allo scopo di esaltare talune caratteristiche dei prodotti alimentari diverse da quelle nutrizionali e da quelle salutistiche, che, comunque, fanno presa sui consumatori: sono claims che fanno riferimento alla qualità dei prodotti alimentari e sono, quindi, di tipo non benefico. Il loro uso non appropriato e quando non ne ricorrono le condizioni è da considerarsi una frode commerciale. Si ritiene, pertanto, utile richiamare alcuni di questi claims tra i più usati al riguardo: a) Extra, Super e simili. Per alcuni prodotti alimentari l’uso del termine Extra è disciplinato da norme specifiche ad essi applicabili e sottoposto a particolari condizioni. Nel settore delle conserve alimentari di origine vegetale è disciplinata la produzione di pomodori pelati extra e di concentrati di pomodoro extra (Decreto del Presidente della Repubblica n. 428/75), di confetture extra e di gelatine di frutta extra (decreto legislativo n. 50/04). Nei casi citati risulta evidente che l’uso del termine “extra” è subordinato al rispetto delle condizioni stabilite nella specifica normativa. Negli altri casi le affermazioni di superiorità o di eccezionalità del prodotto rispetto agli analoghi prodotti della concorrenza devono non solo essere precisate nel loro contenuto ma trovare anche rispondenza nella realtà, per essere ritenute lecite; altrimenti risultano una forma di concorrenza sleale e di ingannevolezza per il consumatore. La denominazione di vendita “cioccolato” può essere completata con diciture quali extra o aggettivi che facciano riferimento a criteri di qualità, ma a condizione che il prodotto abbia un più elevato tenore di sostanza secca totale di cacao rispetto al prodotto standard. b) Puro è un termine generalmente utilizzato non a fini igienici o di qualità, ma come avverbio in luogo di solamente o solo o esclusivamente. Ne sono esempi: - Salame puro suino, Mortadella puro suino, intendendo che non sono state utilizzate parti di altre specie animali; - Puro formaggio di pecora, intendendo che nella preparazione del formaggio è stato utilizzato solo latte di pecora con esclusione di qualsiasi altro tipo di latte. - Puro cioccolato, intendendo che nella produzione del cioccolato (non nella preparazione del ripieno) non sono stati utilizzati grassi vegetali diversi dal burro di cacao. Particolare attenzione va rivolta, nel caso delle carni, al concetto di carne riferita ai muscoli scheletrici. Pertanto abbiamo le due presentazioni seguenti: Salame puro suino, che identifica un salame preparato solo con parti di suino dove altre specie animali non sono presenti. Salame pura carne suina, che identifica invece muscolare scheletrica. un salame preparato con carne c) Fresco. Il termine “fresco” potrebbe essere utilizzato per identificare prodotti lavorati da poco tempo (pane caldo) o prodotti da distinguere da quelli di media e lunga conservazione (pasticceria fresca). Tale termine è stato definito, per le paste alimentari fresche di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 187/01, prendendo a riferimento come unici parametri, per il prodotto preconfezionato, l’umidità e l’attività dell’acqua libera. La pasta conforme a detti parametri è denominata “pasta fresca”, anche se utilizzata come ingrediente nella preparazione di un prodotto trasformato, quale un prodotto di gastronomia surgelato. Nella legge n. 169/89 concernente la commercializzazione del latte alimentare sono state previste le denominazioni di vendita “latte fresco pastorizzato” e “latte fresco pastorizzato di alta qualità”, il cui uso è subordinato al rispetto dei parametri prescritti anche dal decreto ministeriale 14 gennaio 2005 (Linee per la stesura del manuale aziendale), Anche nel decreto legislativo n. 531/92, come nel regolamento (CE) n. 853/04 viene data la definizione di prodotti della pesca freschi ai prodotti della pesca che non hanno subito alcun trattamento diverso dalla refrigerazione. V’è infine la categoria dei formaggi freschi a pasta filata, che sono prodotti non sottoposti ad alcun trattamento di conservazione, da consumare entro pochi giorni e per i quali vige l’obbligo del preconfezionamento all’origine. Altri due casi che comportano l’obbligo dell’indicazione di “fresco” sono le uova di categoria A nonchè le carni avicole in conformità alle prescrizioni stabilite nei relativi regolamenti comunitari. Al di fuori dei casi suddetti, l’uso del termine “fresco” potrebbe rientrare tra i divieti previsti dall’articolo 2 del decreto n. 109/92. Sul banco di vendita di frutta e verdure, ad esempio, la dicitura “spinaci freschi” potrebbe suonare come affermazione che gli spinaci venduti da altri alle stesse condizioni non sono freschi. d) Tipo, Gusto e simili. L’uso di questi termini nella etichettatura dei prodotti alimentari è vietato, quando viene fatto riferimento a prodotti ai quali è stata riconosciuta la denominazione di origine controllata o l’indicazione geografica protetta o a prodotti simili che hanno una particolare rinomanza e godono di protezione legale. L’articolo 13 del regolamento (CEE) n. 510/2006 del 20 marzo 2006 tutela le denominazioni registrate contro ogni forma di imitazione, di usurpazione o evocazione e fa particolare riferimento alle espressioni suscettibili di indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti o “nella misura in cui l’uso della denominazione consenta di sfruttare la reputazione della denominazione protetta”. La denominazione di vendita Mortadella tipo Bologna è vietata: o è Mortadella Bologna IGP o è Mortadella. In entrambi i casi la parola “tipo”è da considerarsi vietata. Anche per i prodotti alimentari la cui denominazione di vendita riporta un riferimento geografico non protetto, rispondente ad un uso consolidato o alla tecnologia di produzione, per cui il consumatore non saprebbe identificare il prodotto con un nome diverso, l’uso della parola “tipo” trae in errore il consumatore; lascia intendere, infatti, che possono essere immessi sul mercato due prodotti, quello originale e quello di imitazione. Invece si tratta di un unico prodotto, venduto con quel nome, ovunque fabbricato. Possono essere esempi: l’insalata russa, la cotoletta milanese, il salame ungherese, il salame Milano, ed altri. E’ errato etichettare il “salame ungherese” come “salame tipo ungherese”, perché non prodotto in Ungheria. Detta denominazione di vendita, infatti, identifica un prodotto di salumeria che risponde ad una determinata tecnologia produttiva, ovunque fabbricato e) Garanzia e garantito. Detti termini, ai sensi del codice del consumo (parte relativa alla pubblicità ingannevole), sono ammessi a condizione che siano accompagnati dalla precisazione del contenuto e delle modalità della garanzia da chiunque offerta. Detti termini, anche se consentiti o richiesti da Amministrazioni pubbliche, rispondono alle stesse esigenze: possono essere indicati in etichetta se, insieme alla dichiarazione di garanzia, viene indicato anche in che cosa consiste la garanzia stessa. f) Selezione e selezionato. Anche l’uso di questi termini non è vietato. Devono solo essere precisati nel loro contenuto. Il codice del consumo richiede, infatti, che ne venga precisato in etichetta il significato: in che cosa consiste la selezione effettuata, altrimenti la dicitura risulta vaga. g) Genuino. L’articolo 516 del codice penale vieta la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine. La legge n. 283/62 enuncia il concetto di genuinità, senza tuttavia fornire particolari elementi. Per prodotto genuino, comunque, si intende quello ottenuto in conformità alle norme ad esso applicabili, partendo dalla qualità delle materie prime fino all’ottenimento del prodotto pronto per il consumo. Il termine “genuino”, quindi, in tale situazione, non può figurare nell’etichettatura, nella presentazione e nella pubblicità dei prodotti alimentari ai sensi dell’articolo 2 del decreto n. 109/92, perché tutti i prodotti alimentari destinati al consumatore sono per definizione genuini. La enunciazione di tale termine, pur veritiero, suonerebbe come denuncia di “non genuinità” degli analoghi prodotti della concorrenza. h) alta qualità: Il riferimento all’“ alta qualità”, attualmente, è consentito solo per “il latte fresco pastorizzato di alta qualità”, nel rispetto dei parametri previsti dalla legge n. 169/89, e per “il prosciutto cotto di qualità o di alta qualità” rispondente ai parametri prescritti dal decreto ministeriale 21 settembre 2005 relativo alla produzione ed alla vendita di taluni prodotti di salumeria. In altre ipotesi sono termini da non utilizzare, in quanto necessiterebbero di elementi di confronto con altri prodotti; sono comunque messaggi che hanno solo lo scopo di confondere il consumatore sulle caratteristiche del prodotto. i) Lavorato a mano e simili oppure produzione artigianale. Con l’uso di dette diciture si vorrebbe attribuire ai prodotti artigianali un requisito di qualità; nella realtà i riferimenti alla produzione artigianale non costituiscono una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore. Essi possono essere usati quando le fasi principali del processo produttivo sono effettuate manualmente. A tal fine occorre anche evitare di creare confusione tra le caratteristiche del processo produttivo e le caratteristiche merceologiche del prodotto finito, che non sempre coincidono. Anche le raffigurazioni di macchinari o metodi antichi, ormai non più in uso nella produzione, sono da considerarsi in contrasto con l’articolo 2 del decreto n. 109/92, quando le lavorazioni avvengono, nelle fasi principali, con strumenti ed attrezzature moderne, conformi ai vigenti canoni igienico-sanitari. Conclusione L’esposizione di talune situazioni che costituiscono frodi commerciali è stata fatta, allo scopo di richiamare l’attenzione delle autorità di vigilanza, perché i controlli siano particolarmente diretti e finalizzati, pur tenendo conto dei limiti esistenti, in quanto in taluni casi, in realtà, mancano le sanzioni per assicurare il rispetto degli adempimenti in materia. L’obbligo del preconfezionamento dei formaggi freschi a pasta filata, ad esempio, non è sanzionato. L’auspicio poi che la nuova regolamentazione comunitaria in materia di etichettatura riesca ad apportare quella chiarezza che tutti si aspettano dalle istituzioni comunitarie a protezione degli interessi dei consumatori ma in particolare per mettere nelle mani degli organi di vigilanza uno strumento di facile applicazione che non sia fonte di continui dubbi ed incertezze. Giuseppe De Giovanni Bibliografia essenziale: G. De Giovanni: Le etichette dei prodotti alimentari Edizione de Il Sole 24 Ore di Bologna