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La storia di Bella

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La storia di Bella
La storia di Bella
Bella è una cittadina di origine remota, probabilmente edificata sulle rovine
di Numistrone, l’antica città lucana distrutta nella battaglia combattuta nella
zona fra Annibale e Marcello nell’anno 210 a.C. Come attestano numerosi
reperti archeologici sin dall’epoca romana-lucana esistevano diversi casali o
borghi sparsi nel territorio comunale.
Quando in epoca medievale le ricorrenti e devastanti invasioni barbariche
richiesero maggiori garanzie di difesa, e allorché la pratica, ormai europea,
dell’incastellamento si diffuse, gli abitanti degli antichi casali eressero una
torre ed altre torrette di vedetta e di difesa sulla cima della collina dove ora si
erge Bella. Intorno a quella torre vennero costruite nuove case ed innalzate le
mura cittadine, munite di porte che consentivano o vietavano l’accesso
all’interno dell’abitato.
Lo storico Giacomo Racioppi, nella sua Storia dei popoli della Lucania e della
Basilicata, definisce questa antica città Osco-lucana con il nome di Abella.
Secondo altri storici la cittadina dalla quale discende l’attuale Bella, doveva
essere bella, dalla radice di «alba», quasi «abella», oppure da «aber», piccola
città dei cinghiali.
Un altro grande storico lucano, Giuseppe Gattini, in Dell’Armi dei popoli della
Basilicata, descrive l’arma araldica del Comune di Bella: «D’azzurro ad una
torre castellata di due pezzi d’argento, e sormontata nel mezzo dalla dea
Bellona loricata, galeata ed armata al naturale». Aggiunge le sigle P.F.C. che
potrebbero dire «Preadium Familiae Caracciolae», interpretate dallo storico
Lacava «Prudentia Fidelitas et Castitas ». Lo storico Racioppi, invece,
sostituisce alla parola del motto ‘Castitas’ ‘Clara’, ovvero ‘Concordia’.
Lo stemma di Bella ci collega alla leggenda popolare che fa derivare il
comune dalla città di Abella, a ricordo della coraggiosa fanciulla di nome
Isabella che verso l’anno 1000 osò sfidare, armata di una croce, l’esercito
normanno, che si apprestava all’invasione del paese. Avendo dimostrato
tanto ardimento, Isabella ottenne la revoca del saccheggio e la nomina di capo
della comunità.
Il Racioppi non fa alcun cenno ad Isabella ma cita un ‘genio armato’ ovvero
un guerriero, o Bellona, che si riferisce a ‘Bellum’, la guerra.
Seguendo il corso dei secoli, Bella non ebbe vita facile, difatti, il territorio era
diviso in sedici piccoli feudi e la popolazione era soggetta agli obblighi
feudali del villanatico, come servi addetti ai lavori dei campi.
Bella fu venduta nella seconda metà del XV secolo ai Caracciolo di Brienza,
nel 1528 fu donata da Carlo V a Ferrante d’Alarcon, dal quale passò a diversi
signori, tra cui Alvaro de Mendoza e i Carafa.
Verso la metà del XVI secolo, stanca dei continui passaggi di proprietà, volle
porsi alle dirette dipendenze del sovrano; l’annessione al regio demanio,
tuttavia, durò poco: infatti nel 1564, fu acquistata da Agostino Rondone di
Melfi, venendo poi rivenduta ai Caracciolo di Avellino, cui subentrarono i
Caracciolo – Arcella e quelli della Torella, che ne conservarono il possesso
fino all’abolizione dei diritti feudali, decretata nel 1806 da Bonaparte.
Il periodo aureo per la Comunità di Bella va dalla seconda metà del XVI
secolo fino al XVIII secolo.
Motivata ed entusiasmata dal riscatto del 1560 dalla dipendenza feudale, la
Comunità di Bella ideò e realizzò in questo periodo una serie straordinaria di
pubbliche iniziative volte a consolidare quel particolare spirito di autonomia,
individuale e collettivo, nonché a garantire migliori condizioni di vita per
tutti, anticipando servizi e sussidi sociali di grande modernità per l’epoca. Fu
l’Università, cioè l’Amministrazione comunale, elettiva e liberamente eletta,
lo strumento che permise la realizzazione dei voleri del popolo e il
conseguimento dei suoi fini sociali.
Anche alla Chiesa spettò il merito del progressivo innalzamento culturale
della comunità, ma essa partecipò anche al suo lungo processo di
differenziazione in classi sociali.
Nella prima metà del XVI secolo, un ˝ospedale˝ garantiva aiuto e assistenza
agli ammalati e ai pellegrini di passaggio.
L’Università, assunse delle misure per evitare ai bellesi le spese dei funerali,
dell’esonero dal servizio di leva militare dei giovani del paese, di servizio
pubblico di condotta medica per tutti i residenti.
Nel XV secolo e per tutto il periodo del XVI e XVII, fiorirono a Bella ben 34
cappelle, istituzioni di diritto canonico, distinte in private, con esclusiva
finalità religiosa, e pubbliche, che avevano il fine di svolgere compiti di
ausilio economico nei momenti di difficoltà e di bisogno dei cittadini.
Il 1799 a Bella
“La storia feudale del Regno di Napoli si chiude con la tragedia del 1799”
(Giustino Fortunato). In quel tempo le idee della Rivoluzione francese sulla
riorganizzazione della società umana si erano già diffuse all’interno della
borghesia bellese attraverso i suoi rampolli che studiavano a Napoli, centro
diffusore di tali idee. Ma poi, a quelle si intrecciarono e infine si sostituirono
particolari motivi personali i quali fuorviarono il tutto. Molto restò di quelle
idee che a Bella divennero la base di quella particolare visione liberaleggiante
della politica italiana, propria di quanti vissero da protagonisti il
Risorgimento anche nel Sud d’Italia, in costante opposizione al governo
borbonico.
Fu, quindi, lotta di borghesia, audace e desiderosa di riscattarsi, e di popolo
ancora abbrutito e avido di vendetta. Fu una strana guerra sociale,
combattuta dalla plebe contro il “terzo stato” in nome del Re e della Fede sia
in Basilicata che altrove.
Le stragi più feroci furono compiute a Bella il 3 marzo, il 3, il 12 e il 26 maggio
1799 durante le quali furono commessi sacrilegi e saccheggi.
Il bellese Gian Lorenzo Cardone, fu tra i più attivi della Rivoluzione
partenopea del 1799.
Cardone è tra le più caratteristiche figure della Basilicata, patriota e poeta tra
i più attivi della Rivoluzione partenopea del 1799, fu anche un valente pittore
della nostra terra.
Nacque a Bella nel 1743.
All’età di sedici anni fu notato dal feudatario dell’epoca, il giovanissimo
principe Giuseppe III Caracciolo di Torella, in una delle tante visite che
faceva al proprio feudo di Bella, per il suo vivo estro poetico e per la
sveltezza e la precocità dell’ingegno, e lo condusse con sé a Napoli per
avviarlo allo studio delle lettere e della pittura.
Si conosce ben poco sia delle sue opere pittoriche che di quelle poetiche. Il
Cardone si distinse soprattutto per i dipinti sacri, per i volti delle Madonne,
per i ritratti, alcuni conservati presso le nobili famiglie di Bella, Muro Lucano,
Buccino e per le tele di santi, conservate in detti comuni e anche ad Avigliano,
Ruoti e in altri centri.
La sua pittura è da paragonarsi alla scuola Umbro-Toscana per la sua
religiosità nella rappresentazione delle figure sacre.
A Napoli conobbe una giovane donna calabrese di nome Vincenza, che fu
prima sua modella e poi sua governante, con la quale convisse molti anni.
Per lungo tempo egli passò per calabrese di Bagnara e come tale designato in
diversi scritti. Fu, poi, il bellese Pietro Matone a far nascere una polemica
sulle origini bellesi del Cardone, documentate successivamente da Giustino
Fortunato nei suoi studi su I Napoletani del 1799, pubblicati per la prima volta
nel 1884 a Firenze e raccolti nel volume Scritti Vari, pubblicato a Trani nel
1900. Lo stesso Matone attribuisce a Cardone la composizione del Te Deum
de’ Calabresi.
Il Te Deum è stato scritto in due momenti, la prima parte nel 1787, composta
da 9 strofe, la seconda, l’aggiunta, nel 1800, ha 23 strofe.
Vi è qualche discordanza sulla data di elaborazione del Te Deum, che viene
indicata verso il 1787, mentre dovrebbe essere, a parere di alcuni, il 1797,
perché il Cardone scontò tre anni di esilio (1800-1803) anche per il Te Deum.
Difatti, crollata la Repubblica Partenopea e ritornato il Borbone sul Regno di
Napoli, molti liberali furono arrestati, e tra questi il principe Giuseppe III
Caracciolo e il Cardone, esiliati a Marsiglia. Durante l’esilio, compose la
seconda parte del Te Deum.
L’inno, in particolare l’aggiunta, è una serrata invettiva politico-sociale contro
il potere costituito e i suoi fiancheggiatori e in maggior misura contro «la
divinità perché convivente e alleata dei potenti, gli oppressori. E’ la rivolta di
un plebeo che ha creduto nella bontà, la Provvidenza, la giustizia e le mille
cose predicate in chiesa, e poi scopre che quanti violano la legge divina
trionfano, mentre gli altri – i poveri di spirito e di ogni altra cosa- devono
contentarsi della promessa che sarà loro il regno dei cieli». (Zappone)
L’inno ha un carattere di parodia e di satira politica ed era cantato in coro dai
patrioti, perché è una protesta, una satira contro la tirannide feroce dei
Borboni.
Oltre ad avere un grande valore di documento politico, ne ha anche uno del
tutto letterario, quello cioè di essere stato tra i primi tentativi meridionali di
poesia dialettale di natura politica e civile.
Il Te Deum è scritto in un dialetto che risente dell’influsso dei dialetti del Sud
Italia, in particolare del calabrese, siciliano, pugliese, bellese (lucano).
Le notizie sul Te Deum sarebbero state scarse o nulle se un medico sannita,
Diomede Marinelli, non l’avesse trascritto annotando che era stato musicato
da Paisiello.
L’inno è stato scoperto e pubblicato nel 1868 da Camillo Minieri Riccio,
oggetto di attenzione di studiosi quali Settembrini, Croce, Fortunato. La
prima traduzione in lingua italiana venne eseguita da Franco Novello nel
1960.
Gian Lorenzo Cardone morì a Bella il 20 gennaio 1813.
Gian Lorenzo Cardone
Te Deum
Parte prima (1787)
1
Granni Deu, a tia laudamu,
Ed a Tia nni cunfissamu.
Tu crijasti da lu nenti
Cieli, stiddi e firmamenti,
Terri, mari, pisci, auceddi,
Uomu fortu e donni beddi;
E pi Tua summa crimenza,
Tu nni dài la pruvidenza.
Coro ad alta voce
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
Coro a bassa voce
Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti?
Pi parte di j nnanti, eu vau arreti!
2
Tutti l’Angiuli bijati,
Chirubini, Sirafini,
Cieli, Terri, e Putistati,
Granni Deu, Ti fannu nnchini;
Cu lu suonu e cu lu cantu,
Allargannu li cunnutti,
Strilla’gnunu: «Santu, Santu,
Santu Deu di Sabautti»
3
Chiddu Deu nni fa vidiri
Tante cosi da sturdiri,
Nui vidimu ca stu Deu
T'ngrannisci nu prebeu;
Chi nu teni nu paliccu,
Pi sti Deu, divienti riccu.
Picuzzieddi, a nui strillamu:
«Viva Deu, lu Deu d’Abramu!»
4
Per esempiu: nu scrivanu,
Senz’aviri na cammisi,
T’àuza capu, chianu chianu,
Nfi ca zicca li turnisi;
Ti manteni na calissa,
Vesti buonu, e ba a la fissa:
Cianculèja, stu fariseu...
Uh miraculi di Deu!
5
Nui vidimu sti smazzati,
Di diviersi naziuni,
Di li donni titulati
Far li beddi e li stadduni;
E chi stava a li caluri,
E n’affrittu zabbadeu
Sta cu l’aria di signuri...
Uh grannizzi di stu Deu!
6
Na Scrufazza furasteri
Veni scàuza ed alla nura;
Nu signori cavaleri
Ciuccio ciuccio s'annamira,
La manteni cu li cocchiu.
Si fa fùtteri da tutti...
Viva Deu di Sabautti!
7
Na picazza da triatru,
Nu castruni puzzolenti,
N'ausuraru finu latru,
E li piè curi cuntienti,
Curtiggiani fàuzi cani,
Soiunieddi, palummieddi,
Fannu così! Uh figghiu meu,
C'ài da diri? Evviva Deu!
8
Nu tratturi Deu 'grannisci, Cu nu ruòtolo di pisci
E di carni e vermicieddi
Fa trimila piattieddi;
Cu na picca di farini,
Zippulicieddi fini fini
Ti ni stampa a miliuni...
Uh di Deu miraculuni!
9
Chi si merita na funi,
Fierru, focu, lampu e truonu,
Tu 'ngrannisci e tu pirduni,
Granni Deu, picchi si buonu!
Pò tant’uomini nnurati,
Ca Tu stissi l'ài crijati,
Li mantieni affritti e strutti...
Viva Deu di Sabautti!
Coro ad alta voce
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
Coro a bassa voce
Ca si chistu è di Deu l’autu decreti
Dicimu: «Santu, Santu»… e ghiamu arreti!
Parte Seconda (1800)
1
Nta li Tui librazzi santi
Scrittu sta senza misteriu,
Ca di tutti li furfanti
Pirirà lu disideriu.
Ura l'impii e li tiranni
Fanno saccu, strazii e danni;
Fannu strazii di nnucenti...
Viva Deu unniputenti!
Coro ad alta voce
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
Coro a bassa voce
Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti?
Pi parte di j nnanti, eu vau arreti!
2
Ci sta scrittu, che taluri
Tu pazzii supra la terra;
E pi fàrici favuri,
Nni dài pesti, fami e guerri;
Tu curriggi, abbatti e schianti
Chidd'amici a Tia chiù cari.
Ma li Tui judìcii santi
Nun si ponnu scrutinari!
3
Tu fai dire a li saccenti,
C'a stu munnu nun c'é mali.
Tuttu è buonu?! E mancu è nenti
Guidubaldu e Speziali?
Mancu è nenti Monzù Actuni,
Lu si Fabiu picuruni,
La mugghiera, Sua Eminenza?
Viva Deu, summa sapienza!
4
Tu dicisti a li briccuni
D’accurciarli l’esistenza;
Pò cangiannu ‘ntenziuni,
Tu l’aspietti a pinitenza.
Ma Tu vuoi che chidda troia
Mò si penti - alla vicchizza?
Granni Deu, nci vò lu boia Cu nu fierru e na capizza!
5
San Matteu nnà dittu e scrittu:
«Si tu stai scàuzu ed affrittu,
Nun circari a Deu mai nenti
Pi lu tàffiu e bestimenti;
Ma di Deu li regni immenzi
Circa apprimu, e appriesso avrai
(Quannu manco ti lu penzi)
Chissi così, che non ài».
6
Viva sempri stu scritturi,
Ca da nui dui abbrazzatu!
Ma mò stamu a li caluri,
Peju di primu e senza jatu;
Pò na tigri, 'n furma umana,
Quantu circa - vià da Deu...
Pirsudìmuci: è puttana;
La pruteggi San Matteu!
7
Tu si l'ottimu Pasturi,
Ca li piecuri sai tutti;
Li fai pàsciri, e prucuri
Ca lu lupu nu l'agghiutti:
Mircinariu mai nun fusti;
E vulènvuti addurmiri,
Da li santi vecchi e giusti
La facivi custodiri.
8
Pi Ti fa n'ura di suonnu,
Tu di Padua a Santo Tuonnu
Disti 'n guardia chidda greggi,
Ca dicivi di pruteggi:
Stu bardascciu a li dirupi
Nni minai, mmucca a li lupi!
Mò nun vidi - mò nun sienti?!
Vuoi durmiri eternamenti?!
9
Tu prumitti, ca nni dài
Tanta nivi quantu lana.
Ma na scrufa ni spugghiai,
Si pascìu di carni umana:
Spugghiai banchi, chiesi e chiostri;
Nun trattai che fùrii e mostri;
Spira tuòssicu e minnitta...
Né li scagghi na saitta?!
10
Lu maritu picuruni
Nun circ'àutru ca l'Astruni,
Lu Fusaru, Carditieddu,
Buonu tàffiu e lu vurdieddu:
Tira fumu pi lu nasu,
E lu tira adasu adasu,
Nfi ca l'uocchi sulamenti
Nni lassa - scuri e chiangenti!
11
Tu ca l’uomini facisti
Tali e quali comm’ a Tia,
E ca dopu Ti pentisti
D’avì fattu sta ginia;
Pò crijasti li Niruni,
Li tiranni a miliuni.
Ed a chisti T'assummigghi?!
Che biddizzi! Che consigghi!
12
Da Daviedi sulamenti
Tu dicisti, granni Deu:ù
«Ai truvatu nu viventi
Cumi vò lu cori meu».
Chistu, pò, fici pi sborrii
Umicìdii e pruditorii.
Tu chist'ìmpiu pirdunasti...
E li sudditi 'mpistasti!
13
A nu birbu, ch'è filici,
Quannu è muortu pò li dici:
«Tu li beni ài ricevutu
Mmita tua, mò si pirdutu».
14
Nu prufeta Tu lu manni
A truvà li miritrici
Pi fa figghi; e pò cumanni
A nui uomini n'filici
Di fuì nfi li pinzieri:
Ca nni vonnu li migghieri
Pi chiavari, ca nc'è lu nfernu...
Uh di Deu judiciu eternu!
15
Quannu Adamu e la mugghiera
Chiddu pumu ànnu agghiuttutu,
La justizia Tua sivera
Tutti l’uomini ha futtutu;
E ‘ntra tanti miliuni,
C'ai ridenti, tu pirduni
Chiddi picchi vattiati,
Cunfissati…Uh che pietati!
16
Chiami Tu populu eletto
Chiddu Ebreu, ca pi dispettu
T’à nijatu e cumprumissu,
Truggidatu e crucifissu...
Nui cridimu, a tiempu nuostri,
Ca l'eletti sò li mostri,
Na scrufazza, va nn' accidi,
Lazzaruni e Santafidi!
17
L'uomu stupidi e murtali,
A lu senzi littirali
Di la Bibbia, si sturdisce;
Li mistèrii nun capisce:
Nu sa chidda prufizia,
Ca pridìci lu Missia
Da Palummu 'nginittatu;
Da na Virgini figghiatu!
18
Resta l'uomu chiù confusu
(Mo pirò li bardasciuni)
A lu canticu famusu
Di lu saviu Salamuni.
Ddà si parla di biddizzi,
D'uocchi, labbri, pietti e zizzi;
Ddà si dici: «cori meu!»
Ma chi parla? Parla Deu!
19
Deu cu l'arma sta faciennu
Du discurzu affituusu,
Mentri pò li sta mittiennu
Nu ditiddu a lu pirtusu:
Nta la panza idda tremai, Chistu Deu pò la purtai,
Sula sula, a lu ciddaru;
S'infurcaru, e s'abbrazzaru!
20
Eu vi parlu di li senzi
Littirali; ma li mmenzi
Spusituri, gran dutturi,
Patri Santi, li sissanta Quattru senzi ànnu scifratu;
Nè la cosa è chiù confusa:
Deu, di l'arma è nnammuratu;
Deu la vasa, e si la spusa!
21
Di stu Deu lu Figghiuolu
Si spusai - a stuolo a stuolo
Chiesi, santi e virgineddi,
Nta catuoi e nta li ceddi:
Iddu sulu ànnui d'amari,
Robbi e sanctu ànnu a lassari;
E' hilusi, ed è sdignusi
Pi nu menti... Uh Deu crimenti!
22
Picuzzieddi, ca sintiti
Di stu Deu l'opri 'nfiniti,
Via! Faciti atti d'amuri,
Di spiranza e di duluri:
Prupunìti a nun piccari,
A vulirvi cunfissari;
Pirdunati a chidd'arpia, E diciti appriessu a mia:
23
«Nui cridimu firmamenti
Ca sit’uni e siti trii;
Tutti trii unniputenti,
Unu, Deu nun già tri Dii».
Diciarannu li marmotti,
Ch’è nu juocu a bussolotti...
Nui pirò strillamu tutti:
«Viva Deu di Sabautti!»
Coro ad alta voce
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
Coro a bassa voce
E lu Figghiu di Deu, Peppi e Maria,
Li Santi e li Prufeti… E accussì sia!
TRADUZIONE ITALIANA
Il Te Deum dei calabresi
Parte prima
(1787)
I.
Grande Dio, Te lodiamo,
ed a Te ci confessiamo.
Tu creasti dal niente
Cieli, stelle e firmamenti,
Terre, mari, pesci, uccelli,
Uomo forte e donne belle;
E per Tua somma clemenza,
Tu ci dai la Provvidenza.
Coro ad alta voce
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
Coro a bassa voce
Oh chi esalta i Santi e i Profeti?
Invece di andare avanti, io vado indietro!
II.
Tutti gli Angeli beati,
Cherubini, Serafini,
Cieli, Terra e Potestà,
Grande Dio, Ti fanno inchini;
Con il suono e con il canto?
Allargando i condotti della gola (a piena voce),
Grida ognuno: <<Santo, Santo,
<<Santo Dio di Sabaoth!>>
III.
Quello Dio ci fai vedere
Tante cose da stupire.
Noi vediamo che questo Dio
Ti rende grande il plebeo;
Chi non ha (un soldo) uno stuzzicadenti,
Per questo Dio diventa ricco.
Chierichetti avanti, gridiamo:
<<Viva Dio, il Dio di Abramo!>>
IV.
Per esempio: uno scrivano,
che non ha nemmeno la camicia,
alza il capo, piano piano,
Finché arriva al denaro;
Si permette un calesse,
veste bene, e va (alla festa) ai bagordi, (con donne):
Va cianciando, questo fariseo…
Oh miracolo di Dio!
V.
Noi vediamo questi fuoriusciti, (in senso dispregiativo, rifiuti)
Di diverse nazioni,
Con donne titolate
Fare i belli e gli stalloni;
E colui che stava (esposto) alla calura,
E un affitto zebedeo
Star con l’aria di signori…
Oh grandezze di questo Dio!
VI.
Una donnaccia forestiera
Arriva scalza e nuda;
Un signor cavaliere
Ciuco – ciuco s’innamora,
La mantiene con i cocchi.
Ella, poi, fino a dentro gli occhi
Si fa fottere da tutti…
Viva Dio di Sabaoth!
VII.
Una cantante da teatro,
Un castrone puzzolente,
Un usuraio fino ladro,
E i cornuti contenti,
Cortigiani falsi cani,
Spioncelli, giovincelle,
Fanno certe cose! Uh figlio mio,
Che devo dire? Evviva Dio!
VIII.
Un trattore Dio ingrandisce,
Che, con un rotolo di pesci
E di carne e vermicelli
Fa tremila piatticelli:
Con un poco di farina,
zeppole fine fine
Te ne sforna a milioni…
Oh miracolone di Dio!
IX.
Chi meriterebbe di essere impiccato,
o di essere colpito da ferro, fuoco, fulmine e tuono,
Tu ingrandisci e Tu perdoni,
Grande Dio, perché dei buono!
Poi tanti uomini onorati,
che Tu stesso hai creato.
Li mantieni afflitti e distrutti…
Viva Dio Di Sabaoth!
Coro ad alta voce:
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
Coro a bassa voce:
Perché se è questo di Dio l’alto decreto,
Diciamo: <<santo, Santo>>…, e andiamo indietro!
Parte seconda
(1800)
I.
Nei tuoi libroni santi
Scritto c’è senza mistero,
Che di tutti i furfanti
Perirà il desiderio.
Ora gli empi ed i tiranni
Fanno sacco, strazio e danni;
fanno strazio d’innocenti…
Viva Dio Onnipotente!
Coro ad alta voce
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
Coro a bassa voce
Oh chi innalza i Santi e i Profeti?
Invece di andare avanti, io vado indietro!
II.
C’è scritto, che talora
Tu folleggi sulla Terra;
E per farci favori,
Ci mandi peste, fame e guerra:
Tu correggi, abbatti e schianti
Quegli amici a Te più cari.
Ma i tuoi santi giudizi
Non si possono giudicare!
III.
Tu fai dire ai sapienti,
Che a questo mondo, (non ci sono cattivi) non c’è male.
Tutto è buono? E non è niente
Guidobaldo e Speziale,
La Regina, Monsignor Actuni,
Il signor Fabio pecorone?
Manco è niente sua Eminenza?
Viva Dio, somma sapienza!
IV.
Tu dicesti che ai bricconi
Bisogna accorciare l’esistenza;
Poi cambiando opinione,
Tu l’aspetti penitenza.
Ma tu vuoi che quella (troia) prostituta
Or si penta – alla vecchiaia?
Grande Dio, ci vuole il boia –
Con un ferro e una cavezza! (arnesi di tortura)
V.
San Matteo ci ha detto e scritto:
<<Se tu stai scalzo ed afflitto,
<<Non chiedere a Dio mai niente
<<Per il cibo e vestimenti;
<<Ma di Dio i regni immensi
<<Cerca prima, e poi avrai
<<(Quando meno te lo pensi)
<<Quelle cose, che non hai>>.
(cattive persone dell’epoca)
VI.
Viva sempre questo scrittore,
Che da noi fu (abbracciato) ascoltato!
Ma or siamo alla calura,
Peggio di prima e senza fiato;
Poi una tigre, in veste umana,
Quando chiede – ottiene da Dio…
Persuadiamoci: è puttana;
La protegge S. Matteo!
VII.
Tu sei l’ottimo pastore ,
Che conosci tutte le pecore;
Le pasci e ti interessi
Che il lupo non le divori:
Mercenario mai sei stato;
E volendoti addormentare,
Dai santi vecchi giusti
Le facevi custodire.
VIII.
Poi per farti un’ora di sonno,
A S. Antonio di Padova
Desti in guardia quel gregge,
Che dicevi di proteggere:
Quel bastardo ai burroni
Ci portò, in bocca ai lupi!
Adesso non vedi – adesso non senti?!
Vuoi dormire eternamente?!
IX.
Tu prometti, che ci dài
Tanta neve quanta lana.
Ma una scrofa ci spogliò, (mala femmina)
Si nutrì di carne umana:
Spogliò banche, chiese e chiostri;
Non trattò che con furie e mostri;
Spira veleno e vendetta…
Non le scagli una saetta?!
X.
Il marito pecorone (cornuto)
Non cerca altro che l’Astrone
Il Fusaro, il Carditello,
Cibo buono e bordello:
Caccia il fumo per il naso,
E lo aspira adagio adagio,
Finché gli occhi solamente
Non ci lascia – bui e piangenti!
XI.
Tu che gli uomini hai fatto
Tali e quali a Te,
E che dopo Ti pentisti
D’aver fatto questa genia;
Poi creasti i Neroni,
I tiranni a milioni.
E a questi assomigli?
Che bellezze, che consigli!
XII.
Di David solamente
Tu dichiarasti, grande Dio:
<<Ho trovato un vivente (un uomo)
<<Come vuole il mio cuore>>.
Questo, poi, fece per follia
Omicidi e tradimenti.
Tu questo empio perdonasti..
E i sudditi impestati! (inquinato)
XIII.
Ad un birbone, che è infelice,
Quando è morto poi gli dici:
<<Tu i beni hai ricevuto
<<Nella tua vita, or sei perduto>>
Quando poi un uomo onorato
Campa afflitto e rovinato,
Tu lo premi nell’altra vita…
Oh di Dio bontà infinita!
XIV.
Un profeta Tu lo mandi
a trovar le meretrici
Per far figli; e poi comandi
a noi uomini infelici
(qualità di vino)
Di fuggir persino il pensarci: (nei pensieri)
Chè ci vogliono le mogli
Per far l’amore, chè c’è l’inferno..
Oh di Dio giudizio eterno!
XV.
Quando Adamo (ed Eva) e la moglie
Quella mela hanno inghiottito,
La giustizia Tua severa
Tutti gli uomini ha fottuto;
E entro tanti milioni,
Che hai redento, Tu perdoni
A quei pochi battezzati
Confessati… Oh che pietà!
XVI.
Chiami Tu popolo eletto
Quello Ebreo, che per dispetto
Ti ha negato e compromesso,
Trucidato e crocifisso…
Noi crediamo, ai tempi nostri,
Che gli eletti sono i mostri,
Una scrofazza, che ci uccide,
Lazzaroni e Sanfedisti!
XVII.
L’uomo stupido e mortale,
A seguire il senso letterale
Della Bibbia, (se ne frega), si stordisce;
I misteri non capisce:
Né sa quella profezia,
Che predice il Messia
Da un colombo (dallo spirito) generato;
Da una Vergine partorita!
XVIII.
Resta l’uomo più confuso
(Ma però solo i cretini)
Al cantico famoso
Del Savio Salomone.
Là si (dove) parla di bellezza,
Di occhi, labbra, petti e seni;
Là si dice, <<cuore mio>>
Ma chi parla? Parla Dio!
XIX.
Dio con l’anima sta facendo
Un discorso affettuoso,
Mentre poi le sta mettendo
Un ditino nel buchetto:
Quella freme nella pancia. –
Questo Dio poi la portò,
Sola sola, a un angolino (sotto il noce);
S’infuocarono, e s’abbracciarono!
XX.
Io vi parlo del senso
Letterale; ma gli immensi
Espositori, gran dottori,
Padri santi, i sessanta –
quattro sensi decifrarono;
Né la cosa è più confusa:
Dio, dell’anima è innamorato;
Dio la bacia, e se la sposa!
XXI.
Di questo Dio il Figliolo
Si sposò – a stuoli a stuoli
Chiese, santi e verginelle,
Nelle cantine e nelle celle:
Lui solo devono amare,
Roba e parenti (sangue) devono lasciare;
E’ geloso, ed è collerico (sdegnato)
Per un niente… Oh Dio clemente!
XXII.
Chierichetti, che sentite
Di questo Dio le opere infinite,
Via! Fate atti d’amore,
Di speranza e di dolore:
Proponete di non peccare,
Di volervi confessare;
Perdonate a quell’arpia, E dite insieme a me:
XXIII.
<<Noi crediamo fermamente,
<<Che siete uno e trino; (tre)
<<Tutti e tre onnipotenti,
<<Un sol Dio, non già tre Dii>>.
Diranno i marmocchi,
Che è un gioco a bussolotti…
Noi però strilliamo tutti:
<<Viva Dio di Sabaoth>>
Coro ad alta voce:
Lodiamo, lodiamo,
Il Dio d’Abramo!
Coro a bassa voce
E il figlio di Dio, Giuseppe e Maria,
I Santi e i Profeti… e così sia!
La borghesia bellese del 1848 ereditò e maturò le idee rivoluzionarie del 1799,
elevandole dalla visione limitata del Regno di Napoli a quella molto più
ampia dell’unità nazionale.
Il 10 febbraio del 1848, giorno in cui Ferdinando II concesse la Costituzione, i
Bellesi celebrarono l’avvenimento non all’ombra della bandiera bianca dei
Borboni, ma di quella tricolore italiana.
Quando nel 1860 Garibaldi si portò nel Sud d’Italia per unirlo in un solo
regno al resto della penisola, tutti si mostrarono pronti a fare del loro meglio
per quella causa, che sentivano propria.
Bella fu tra i primi paesi designato a sede di un Sotto Comitato, di cui
facevano parte Pietro La Cava e Giacinto Albini. Il 18 agosto di quell’anno i
Bellesi risposero all’appello con una forte schiera di giovani, che uniti agli
altri della Provincia, proclamarono a Potenza il Governo provvisorio,
innalzando la bandiera italiana al grido di “Viva Vittorio Emanuele!”.
Con l’annessione del Sud all’Italia iniziò uno stato di tensione sociale che
angustiò la popolazione per un lungo quinquennio.
Il brigantaggio ha origini antiche, tutte riconducibili alla povertà diffusa, al
frantumarsi dell’organizzazione statale e all’incertezza del nuovo governo
unitario.
Briganti furono disertori di eserciti e renitenti della nuova leva, funzionari
allontanati dal lavoro e nostalgici di poteri perduti, autonomisti politici e
reazionari, uomini segnati da ingiustizie e soprusi. In un primo momento il
gruppo dei briganti si organizzò come un vero e proprio esercito ma, quando
si suddivisero in “comitive” predominò lo spirito effettivo brigantesco della
violenza, della brutalità, delle ruberie ad oltranza.
Nell’aprile del 1861 Bella resistette coraggiosamente alle bande di Borjes,
generale spagnolo inviato dal re Francesco II di Borbone per riconquistare il
perduto Regno delle Due Sicilie dopo l'unità d'Italia e poi alleatosi con i
briganti, e a quelle di Crocco.
Il 22 novembre 1861 la città di Bella fu attaccata da ambo le parti da circa 700
briganti. I difensori della parte meridionale del paese, avvertendo la gravità
della situazione, si ritirarono nel Castello. Il giorno seguente Crocco ordinò di
consegnare il castello, minacciando di incendiare l’intero paese se non
avessero ubbidito. In queste giornate Bella fu completamente saccheggiata e
buona parte incendiata e vennero barbaramente uccise ben 11 persone. Le
azioni brigantesche nella zona, però, non terminarono, infatti, la tragedia del
brigantaggio desolò il territorio per cinque lunghi anni, dal 1861 al 1865,
lasciando le popolazioni provate e impoverite.
La miseria fu la prima causa dell’emigrazione, nella sua più che decennale
durata, questa sottrasse al paese, e per sempre, migliaia di cittadini, intere
famiglie, centinaia di giovani attivi e intraprendenti. Nei soli anni che vanno
al 1896 al 1900, i bellesi emigrati furono 760. I danni, di conseguenza, sia di
ordine lavorativo che produttivo, furono incalcolabili. Ma anche quei primi
emigrati non ebbero vita facile, costretti molto spesso a svolgere lavori molto
umili e a vivere in condizioni precarie che spesso portavano alla contrazioni
di malattie mortali, quali la malaria.
Ma anche il nuovo secolo iniziò male. Nel giugno del 1910 un terremoto di
forte intensità danneggiò l’intero paese. La Prima guerra mondiale fu un
altro colpo negativo per la resa agricola e produttiva e, quindi, per l’intera
economia della comunità bellese. La crisi economica mondiale del 1929 – 32
registrò nella vita dei Bellesi le difficoltà di sempre, ma con la conquista
dell’Etiopia, cui parteciparono diversi bellesi, si registrò una ripresa
economica. Ma la vera rivoluzione economica avvenne subito dopo la
Seconda guerra mondiale, grazie ad una legge agraria nazionale che portò
all’esproprio dei terreni rurali e alla loro distribuzione ai coloni della zona,
dapprima in assegnazione, poi in proprietà.
Il 23 novembre 1980 alle 19:35 per sessanta interminabili secondi il paese fu
scosso da un tragico e disastroso terremoto con epicentro tra la Campania e la
Basilicata. Quando la nube di polvere si diradò, furono visibili i crolli e le
lesioni gravissime ai muri; le abitazioni furono completamente abbandonate,
le chiese si presentarono fortemente danneggiate. Anche il castello, che dagli
anni Venti era stato trasformato in edificio scolastico e divenuto sede delle
Suore Salesiane, cui era stato affidata la cura di un asilo infantile urbano, fu
investito dal sisma. Tutte le strutture di copertura e i solai crollarono e
subirono danni ingenti.
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