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La storia di Bella
La storia di Bella Bella è una cittadina di origine remota, probabilmente edificata sulle rovine di Numistrone, l’antica città lucana distrutta nella battaglia combattuta nella zona fra Annibale e Marcello nell’anno 210 a.C. Come attestano numerosi reperti archeologici sin dall’epoca romana-lucana esistevano diversi casali o borghi sparsi nel territorio comunale. Quando in epoca medievale le ricorrenti e devastanti invasioni barbariche richiesero maggiori garanzie di difesa, e allorché la pratica, ormai europea, dell’incastellamento si diffuse, gli abitanti degli antichi casali eressero una torre ed altre torrette di vedetta e di difesa sulla cima della collina dove ora si erge Bella. Intorno a quella torre vennero costruite nuove case ed innalzate le mura cittadine, munite di porte che consentivano o vietavano l’accesso all’interno dell’abitato. Lo storico Giacomo Racioppi, nella sua Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, definisce questa antica città Osco-lucana con il nome di Abella. Secondo altri storici la cittadina dalla quale discende l’attuale Bella, doveva essere bella, dalla radice di «alba», quasi «abella», oppure da «aber», piccola città dei cinghiali. Un altro grande storico lucano, Giuseppe Gattini, in Dell’Armi dei popoli della Basilicata, descrive l’arma araldica del Comune di Bella: «D’azzurro ad una torre castellata di due pezzi d’argento, e sormontata nel mezzo dalla dea Bellona loricata, galeata ed armata al naturale». Aggiunge le sigle P.F.C. che potrebbero dire «Preadium Familiae Caracciolae», interpretate dallo storico Lacava «Prudentia Fidelitas et Castitas ». Lo storico Racioppi, invece, sostituisce alla parola del motto ‘Castitas’ ‘Clara’, ovvero ‘Concordia’. Lo stemma di Bella ci collega alla leggenda popolare che fa derivare il comune dalla città di Abella, a ricordo della coraggiosa fanciulla di nome Isabella che verso l’anno 1000 osò sfidare, armata di una croce, l’esercito normanno, che si apprestava all’invasione del paese. Avendo dimostrato tanto ardimento, Isabella ottenne la revoca del saccheggio e la nomina di capo della comunità. Il Racioppi non fa alcun cenno ad Isabella ma cita un ‘genio armato’ ovvero un guerriero, o Bellona, che si riferisce a ‘Bellum’, la guerra. Seguendo il corso dei secoli, Bella non ebbe vita facile, difatti, il territorio era diviso in sedici piccoli feudi e la popolazione era soggetta agli obblighi feudali del villanatico, come servi addetti ai lavori dei campi. Bella fu venduta nella seconda metà del XV secolo ai Caracciolo di Brienza, nel 1528 fu donata da Carlo V a Ferrante d’Alarcon, dal quale passò a diversi signori, tra cui Alvaro de Mendoza e i Carafa. Verso la metà del XVI secolo, stanca dei continui passaggi di proprietà, volle porsi alle dirette dipendenze del sovrano; l’annessione al regio demanio, tuttavia, durò poco: infatti nel 1564, fu acquistata da Agostino Rondone di Melfi, venendo poi rivenduta ai Caracciolo di Avellino, cui subentrarono i Caracciolo – Arcella e quelli della Torella, che ne conservarono il possesso fino all’abolizione dei diritti feudali, decretata nel 1806 da Bonaparte. Il periodo aureo per la Comunità di Bella va dalla seconda metà del XVI secolo fino al XVIII secolo. Motivata ed entusiasmata dal riscatto del 1560 dalla dipendenza feudale, la Comunità di Bella ideò e realizzò in questo periodo una serie straordinaria di pubbliche iniziative volte a consolidare quel particolare spirito di autonomia, individuale e collettivo, nonché a garantire migliori condizioni di vita per tutti, anticipando servizi e sussidi sociali di grande modernità per l’epoca. Fu l’Università, cioè l’Amministrazione comunale, elettiva e liberamente eletta, lo strumento che permise la realizzazione dei voleri del popolo e il conseguimento dei suoi fini sociali. Anche alla Chiesa spettò il merito del progressivo innalzamento culturale della comunità, ma essa partecipò anche al suo lungo processo di differenziazione in classi sociali. Nella prima metà del XVI secolo, un ˝ospedale˝ garantiva aiuto e assistenza agli ammalati e ai pellegrini di passaggio. L’Università, assunse delle misure per evitare ai bellesi le spese dei funerali, dell’esonero dal servizio di leva militare dei giovani del paese, di servizio pubblico di condotta medica per tutti i residenti. Nel XV secolo e per tutto il periodo del XVI e XVII, fiorirono a Bella ben 34 cappelle, istituzioni di diritto canonico, distinte in private, con esclusiva finalità religiosa, e pubbliche, che avevano il fine di svolgere compiti di ausilio economico nei momenti di difficoltà e di bisogno dei cittadini. Il 1799 a Bella “La storia feudale del Regno di Napoli si chiude con la tragedia del 1799” (Giustino Fortunato). In quel tempo le idee della Rivoluzione francese sulla riorganizzazione della società umana si erano già diffuse all’interno della borghesia bellese attraverso i suoi rampolli che studiavano a Napoli, centro diffusore di tali idee. Ma poi, a quelle si intrecciarono e infine si sostituirono particolari motivi personali i quali fuorviarono il tutto. Molto restò di quelle idee che a Bella divennero la base di quella particolare visione liberaleggiante della politica italiana, propria di quanti vissero da protagonisti il Risorgimento anche nel Sud d’Italia, in costante opposizione al governo borbonico. Fu, quindi, lotta di borghesia, audace e desiderosa di riscattarsi, e di popolo ancora abbrutito e avido di vendetta. Fu una strana guerra sociale, combattuta dalla plebe contro il “terzo stato” in nome del Re e della Fede sia in Basilicata che altrove. Le stragi più feroci furono compiute a Bella il 3 marzo, il 3, il 12 e il 26 maggio 1799 durante le quali furono commessi sacrilegi e saccheggi. Il bellese Gian Lorenzo Cardone, fu tra i più attivi della Rivoluzione partenopea del 1799. Cardone è tra le più caratteristiche figure della Basilicata, patriota e poeta tra i più attivi della Rivoluzione partenopea del 1799, fu anche un valente pittore della nostra terra. Nacque a Bella nel 1743. All’età di sedici anni fu notato dal feudatario dell’epoca, il giovanissimo principe Giuseppe III Caracciolo di Torella, in una delle tante visite che faceva al proprio feudo di Bella, per il suo vivo estro poetico e per la sveltezza e la precocità dell’ingegno, e lo condusse con sé a Napoli per avviarlo allo studio delle lettere e della pittura. Si conosce ben poco sia delle sue opere pittoriche che di quelle poetiche. Il Cardone si distinse soprattutto per i dipinti sacri, per i volti delle Madonne, per i ritratti, alcuni conservati presso le nobili famiglie di Bella, Muro Lucano, Buccino e per le tele di santi, conservate in detti comuni e anche ad Avigliano, Ruoti e in altri centri. La sua pittura è da paragonarsi alla scuola Umbro-Toscana per la sua religiosità nella rappresentazione delle figure sacre. A Napoli conobbe una giovane donna calabrese di nome Vincenza, che fu prima sua modella e poi sua governante, con la quale convisse molti anni. Per lungo tempo egli passò per calabrese di Bagnara e come tale designato in diversi scritti. Fu, poi, il bellese Pietro Matone a far nascere una polemica sulle origini bellesi del Cardone, documentate successivamente da Giustino Fortunato nei suoi studi su I Napoletani del 1799, pubblicati per la prima volta nel 1884 a Firenze e raccolti nel volume Scritti Vari, pubblicato a Trani nel 1900. Lo stesso Matone attribuisce a Cardone la composizione del Te Deum de’ Calabresi. Il Te Deum è stato scritto in due momenti, la prima parte nel 1787, composta da 9 strofe, la seconda, l’aggiunta, nel 1800, ha 23 strofe. Vi è qualche discordanza sulla data di elaborazione del Te Deum, che viene indicata verso il 1787, mentre dovrebbe essere, a parere di alcuni, il 1797, perché il Cardone scontò tre anni di esilio (1800-1803) anche per il Te Deum. Difatti, crollata la Repubblica Partenopea e ritornato il Borbone sul Regno di Napoli, molti liberali furono arrestati, e tra questi il principe Giuseppe III Caracciolo e il Cardone, esiliati a Marsiglia. Durante l’esilio, compose la seconda parte del Te Deum. L’inno, in particolare l’aggiunta, è una serrata invettiva politico-sociale contro il potere costituito e i suoi fiancheggiatori e in maggior misura contro «la divinità perché convivente e alleata dei potenti, gli oppressori. E’ la rivolta di un plebeo che ha creduto nella bontà, la Provvidenza, la giustizia e le mille cose predicate in chiesa, e poi scopre che quanti violano la legge divina trionfano, mentre gli altri – i poveri di spirito e di ogni altra cosa- devono contentarsi della promessa che sarà loro il regno dei cieli». (Zappone) L’inno ha un carattere di parodia e di satira politica ed era cantato in coro dai patrioti, perché è una protesta, una satira contro la tirannide feroce dei Borboni. Oltre ad avere un grande valore di documento politico, ne ha anche uno del tutto letterario, quello cioè di essere stato tra i primi tentativi meridionali di poesia dialettale di natura politica e civile. Il Te Deum è scritto in un dialetto che risente dell’influsso dei dialetti del Sud Italia, in particolare del calabrese, siciliano, pugliese, bellese (lucano). Le notizie sul Te Deum sarebbero state scarse o nulle se un medico sannita, Diomede Marinelli, non l’avesse trascritto annotando che era stato musicato da Paisiello. L’inno è stato scoperto e pubblicato nel 1868 da Camillo Minieri Riccio, oggetto di attenzione di studiosi quali Settembrini, Croce, Fortunato. La prima traduzione in lingua italiana venne eseguita da Franco Novello nel 1960. Gian Lorenzo Cardone morì a Bella il 20 gennaio 1813. Gian Lorenzo Cardone Te Deum Parte prima (1787) 1 Granni Deu, a tia laudamu, Ed a Tia nni cunfissamu. Tu crijasti da lu nenti Cieli, stiddi e firmamenti, Terri, mari, pisci, auceddi, Uomu fortu e donni beddi; E pi Tua summa crimenza, Tu nni dài la pruvidenza. Coro ad alta voce Laudamu, laudamu Lu Deu d’Abramu! Coro a bassa voce Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti? Pi parte di j nnanti, eu vau arreti! 2 Tutti l’Angiuli bijati, Chirubini, Sirafini, Cieli, Terri, e Putistati, Granni Deu, Ti fannu nnchini; Cu lu suonu e cu lu cantu, Allargannu li cunnutti, Strilla’gnunu: «Santu, Santu, Santu Deu di Sabautti» 3 Chiddu Deu nni fa vidiri Tante cosi da sturdiri, Nui vidimu ca stu Deu T'ngrannisci nu prebeu; Chi nu teni nu paliccu, Pi sti Deu, divienti riccu. Picuzzieddi, a nui strillamu: «Viva Deu, lu Deu d’Abramu!» 4 Per esempiu: nu scrivanu, Senz’aviri na cammisi, T’àuza capu, chianu chianu, Nfi ca zicca li turnisi; Ti manteni na calissa, Vesti buonu, e ba a la fissa: Cianculèja, stu fariseu... Uh miraculi di Deu! 5 Nui vidimu sti smazzati, Di diviersi naziuni, Di li donni titulati Far li beddi e li stadduni; E chi stava a li caluri, E n’affrittu zabbadeu Sta cu l’aria di signuri... Uh grannizzi di stu Deu! 6 Na Scrufazza furasteri Veni scàuza ed alla nura; Nu signori cavaleri Ciuccio ciuccio s'annamira, La manteni cu li cocchiu. Si fa fùtteri da tutti... Viva Deu di Sabautti! 7 Na picazza da triatru, Nu castruni puzzolenti, N'ausuraru finu latru, E li piè curi cuntienti, Curtiggiani fàuzi cani, Soiunieddi, palummieddi, Fannu così! Uh figghiu meu, C'ài da diri? Evviva Deu! 8 Nu tratturi Deu 'grannisci, Cu nu ruòtolo di pisci E di carni e vermicieddi Fa trimila piattieddi; Cu na picca di farini, Zippulicieddi fini fini Ti ni stampa a miliuni... Uh di Deu miraculuni! 9 Chi si merita na funi, Fierru, focu, lampu e truonu, Tu 'ngrannisci e tu pirduni, Granni Deu, picchi si buonu! Pò tant’uomini nnurati, Ca Tu stissi l'ài crijati, Li mantieni affritti e strutti... Viva Deu di Sabautti! Coro ad alta voce Laudamu, laudamu Lu Deu d’Abramu! Coro a bassa voce Ca si chistu è di Deu l’autu decreti Dicimu: «Santu, Santu»… e ghiamu arreti! Parte Seconda (1800) 1 Nta li Tui librazzi santi Scrittu sta senza misteriu, Ca di tutti li furfanti Pirirà lu disideriu. Ura l'impii e li tiranni Fanno saccu, strazii e danni; Fannu strazii di nnucenti... Viva Deu unniputenti! Coro ad alta voce Laudamu, laudamu Lu Deu d’Abramu! Coro a bassa voce Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti? Pi parte di j nnanti, eu vau arreti! 2 Ci sta scrittu, che taluri Tu pazzii supra la terra; E pi fàrici favuri, Nni dài pesti, fami e guerri; Tu curriggi, abbatti e schianti Chidd'amici a Tia chiù cari. Ma li Tui judìcii santi Nun si ponnu scrutinari! 3 Tu fai dire a li saccenti, C'a stu munnu nun c'é mali. Tuttu è buonu?! E mancu è nenti Guidubaldu e Speziali? Mancu è nenti Monzù Actuni, Lu si Fabiu picuruni, La mugghiera, Sua Eminenza? Viva Deu, summa sapienza! 4 Tu dicisti a li briccuni D’accurciarli l’esistenza; Pò cangiannu ‘ntenziuni, Tu l’aspietti a pinitenza. Ma Tu vuoi che chidda troia Mò si penti - alla vicchizza? Granni Deu, nci vò lu boia Cu nu fierru e na capizza! 5 San Matteu nnà dittu e scrittu: «Si tu stai scàuzu ed affrittu, Nun circari a Deu mai nenti Pi lu tàffiu e bestimenti; Ma di Deu li regni immenzi Circa apprimu, e appriesso avrai (Quannu manco ti lu penzi) Chissi così, che non ài». 6 Viva sempri stu scritturi, Ca da nui dui abbrazzatu! Ma mò stamu a li caluri, Peju di primu e senza jatu; Pò na tigri, 'n furma umana, Quantu circa - vià da Deu... Pirsudìmuci: è puttana; La pruteggi San Matteu! 7 Tu si l'ottimu Pasturi, Ca li piecuri sai tutti; Li fai pàsciri, e prucuri Ca lu lupu nu l'agghiutti: Mircinariu mai nun fusti; E vulènvuti addurmiri, Da li santi vecchi e giusti La facivi custodiri. 8 Pi Ti fa n'ura di suonnu, Tu di Padua a Santo Tuonnu Disti 'n guardia chidda greggi, Ca dicivi di pruteggi: Stu bardascciu a li dirupi Nni minai, mmucca a li lupi! Mò nun vidi - mò nun sienti?! Vuoi durmiri eternamenti?! 9 Tu prumitti, ca nni dài Tanta nivi quantu lana. Ma na scrufa ni spugghiai, Si pascìu di carni umana: Spugghiai banchi, chiesi e chiostri; Nun trattai che fùrii e mostri; Spira tuòssicu e minnitta... Né li scagghi na saitta?! 10 Lu maritu picuruni Nun circ'àutru ca l'Astruni, Lu Fusaru, Carditieddu, Buonu tàffiu e lu vurdieddu: Tira fumu pi lu nasu, E lu tira adasu adasu, Nfi ca l'uocchi sulamenti Nni lassa - scuri e chiangenti! 11 Tu ca l’uomini facisti Tali e quali comm’ a Tia, E ca dopu Ti pentisti D’avì fattu sta ginia; Pò crijasti li Niruni, Li tiranni a miliuni. Ed a chisti T'assummigghi?! Che biddizzi! Che consigghi! 12 Da Daviedi sulamenti Tu dicisti, granni Deu:ù «Ai truvatu nu viventi Cumi vò lu cori meu». Chistu, pò, fici pi sborrii Umicìdii e pruditorii. Tu chist'ìmpiu pirdunasti... E li sudditi 'mpistasti! 13 A nu birbu, ch'è filici, Quannu è muortu pò li dici: «Tu li beni ài ricevutu Mmita tua, mò si pirdutu». 14 Nu prufeta Tu lu manni A truvà li miritrici Pi fa figghi; e pò cumanni A nui uomini n'filici Di fuì nfi li pinzieri: Ca nni vonnu li migghieri Pi chiavari, ca nc'è lu nfernu... Uh di Deu judiciu eternu! 15 Quannu Adamu e la mugghiera Chiddu pumu ànnu agghiuttutu, La justizia Tua sivera Tutti l’uomini ha futtutu; E ‘ntra tanti miliuni, C'ai ridenti, tu pirduni Chiddi picchi vattiati, Cunfissati…Uh che pietati! 16 Chiami Tu populu eletto Chiddu Ebreu, ca pi dispettu T’à nijatu e cumprumissu, Truggidatu e crucifissu... Nui cridimu, a tiempu nuostri, Ca l'eletti sò li mostri, Na scrufazza, va nn' accidi, Lazzaruni e Santafidi! 17 L'uomu stupidi e murtali, A lu senzi littirali Di la Bibbia, si sturdisce; Li mistèrii nun capisce: Nu sa chidda prufizia, Ca pridìci lu Missia Da Palummu 'nginittatu; Da na Virgini figghiatu! 18 Resta l'uomu chiù confusu (Mo pirò li bardasciuni) A lu canticu famusu Di lu saviu Salamuni. Ddà si parla di biddizzi, D'uocchi, labbri, pietti e zizzi; Ddà si dici: «cori meu!» Ma chi parla? Parla Deu! 19 Deu cu l'arma sta faciennu Du discurzu affituusu, Mentri pò li sta mittiennu Nu ditiddu a lu pirtusu: Nta la panza idda tremai, Chistu Deu pò la purtai, Sula sula, a lu ciddaru; S'infurcaru, e s'abbrazzaru! 20 Eu vi parlu di li senzi Littirali; ma li mmenzi Spusituri, gran dutturi, Patri Santi, li sissanta Quattru senzi ànnu scifratu; Nè la cosa è chiù confusa: Deu, di l'arma è nnammuratu; Deu la vasa, e si la spusa! 21 Di stu Deu lu Figghiuolu Si spusai - a stuolo a stuolo Chiesi, santi e virgineddi, Nta catuoi e nta li ceddi: Iddu sulu ànnui d'amari, Robbi e sanctu ànnu a lassari; E' hilusi, ed è sdignusi Pi nu menti... Uh Deu crimenti! 22 Picuzzieddi, ca sintiti Di stu Deu l'opri 'nfiniti, Via! Faciti atti d'amuri, Di spiranza e di duluri: Prupunìti a nun piccari, A vulirvi cunfissari; Pirdunati a chidd'arpia, E diciti appriessu a mia: 23 «Nui cridimu firmamenti Ca sit’uni e siti trii; Tutti trii unniputenti, Unu, Deu nun già tri Dii». Diciarannu li marmotti, Ch’è nu juocu a bussolotti... Nui pirò strillamu tutti: «Viva Deu di Sabautti!» Coro ad alta voce Laudamu, laudamu Lu Deu d’Abramu! Coro a bassa voce E lu Figghiu di Deu, Peppi e Maria, Li Santi e li Prufeti… E accussì sia! TRADUZIONE ITALIANA Il Te Deum dei calabresi Parte prima (1787) I. Grande Dio, Te lodiamo, ed a Te ci confessiamo. Tu creasti dal niente Cieli, stelle e firmamenti, Terre, mari, pesci, uccelli, Uomo forte e donne belle; E per Tua somma clemenza, Tu ci dai la Provvidenza. Coro ad alta voce Lodiamo, lodiamo Il Dio di Abramo! Coro a bassa voce Oh chi esalta i Santi e i Profeti? Invece di andare avanti, io vado indietro! II. Tutti gli Angeli beati, Cherubini, Serafini, Cieli, Terra e Potestà, Grande Dio, Ti fanno inchini; Con il suono e con il canto? Allargando i condotti della gola (a piena voce), Grida ognuno: <<Santo, Santo, <<Santo Dio di Sabaoth!>> III. Quello Dio ci fai vedere Tante cose da stupire. Noi vediamo che questo Dio Ti rende grande il plebeo; Chi non ha (un soldo) uno stuzzicadenti, Per questo Dio diventa ricco. Chierichetti avanti, gridiamo: <<Viva Dio, il Dio di Abramo!>> IV. Per esempio: uno scrivano, che non ha nemmeno la camicia, alza il capo, piano piano, Finché arriva al denaro; Si permette un calesse, veste bene, e va (alla festa) ai bagordi, (con donne): Va cianciando, questo fariseo… Oh miracolo di Dio! V. Noi vediamo questi fuoriusciti, (in senso dispregiativo, rifiuti) Di diverse nazioni, Con donne titolate Fare i belli e gli stalloni; E colui che stava (esposto) alla calura, E un affitto zebedeo Star con l’aria di signori… Oh grandezze di questo Dio! VI. Una donnaccia forestiera Arriva scalza e nuda; Un signor cavaliere Ciuco – ciuco s’innamora, La mantiene con i cocchi. Ella, poi, fino a dentro gli occhi Si fa fottere da tutti… Viva Dio di Sabaoth! VII. Una cantante da teatro, Un castrone puzzolente, Un usuraio fino ladro, E i cornuti contenti, Cortigiani falsi cani, Spioncelli, giovincelle, Fanno certe cose! Uh figlio mio, Che devo dire? Evviva Dio! VIII. Un trattore Dio ingrandisce, Che, con un rotolo di pesci E di carne e vermicelli Fa tremila piatticelli: Con un poco di farina, zeppole fine fine Te ne sforna a milioni… Oh miracolone di Dio! IX. Chi meriterebbe di essere impiccato, o di essere colpito da ferro, fuoco, fulmine e tuono, Tu ingrandisci e Tu perdoni, Grande Dio, perché dei buono! Poi tanti uomini onorati, che Tu stesso hai creato. Li mantieni afflitti e distrutti… Viva Dio Di Sabaoth! Coro ad alta voce: Lodiamo, lodiamo Il Dio di Abramo! Coro a bassa voce: Perché se è questo di Dio l’alto decreto, Diciamo: <<santo, Santo>>…, e andiamo indietro! Parte seconda (1800) I. Nei tuoi libroni santi Scritto c’è senza mistero, Che di tutti i furfanti Perirà il desiderio. Ora gli empi ed i tiranni Fanno sacco, strazio e danni; fanno strazio d’innocenti… Viva Dio Onnipotente! Coro ad alta voce Lodiamo, lodiamo Il Dio di Abramo! Coro a bassa voce Oh chi innalza i Santi e i Profeti? Invece di andare avanti, io vado indietro! II. C’è scritto, che talora Tu folleggi sulla Terra; E per farci favori, Ci mandi peste, fame e guerra: Tu correggi, abbatti e schianti Quegli amici a Te più cari. Ma i tuoi santi giudizi Non si possono giudicare! III. Tu fai dire ai sapienti, Che a questo mondo, (non ci sono cattivi) non c’è male. Tutto è buono? E non è niente Guidobaldo e Speziale, La Regina, Monsignor Actuni, Il signor Fabio pecorone? Manco è niente sua Eminenza? Viva Dio, somma sapienza! IV. Tu dicesti che ai bricconi Bisogna accorciare l’esistenza; Poi cambiando opinione, Tu l’aspetti penitenza. Ma tu vuoi che quella (troia) prostituta Or si penta – alla vecchiaia? Grande Dio, ci vuole il boia – Con un ferro e una cavezza! (arnesi di tortura) V. San Matteo ci ha detto e scritto: <<Se tu stai scalzo ed afflitto, <<Non chiedere a Dio mai niente <<Per il cibo e vestimenti; <<Ma di Dio i regni immensi <<Cerca prima, e poi avrai <<(Quando meno te lo pensi) <<Quelle cose, che non hai>>. (cattive persone dell’epoca) VI. Viva sempre questo scrittore, Che da noi fu (abbracciato) ascoltato! Ma or siamo alla calura, Peggio di prima e senza fiato; Poi una tigre, in veste umana, Quando chiede – ottiene da Dio… Persuadiamoci: è puttana; La protegge S. Matteo! VII. Tu sei l’ottimo pastore , Che conosci tutte le pecore; Le pasci e ti interessi Che il lupo non le divori: Mercenario mai sei stato; E volendoti addormentare, Dai santi vecchi giusti Le facevi custodire. VIII. Poi per farti un’ora di sonno, A S. Antonio di Padova Desti in guardia quel gregge, Che dicevi di proteggere: Quel bastardo ai burroni Ci portò, in bocca ai lupi! Adesso non vedi – adesso non senti?! Vuoi dormire eternamente?! IX. Tu prometti, che ci dài Tanta neve quanta lana. Ma una scrofa ci spogliò, (mala femmina) Si nutrì di carne umana: Spogliò banche, chiese e chiostri; Non trattò che con furie e mostri; Spira veleno e vendetta… Non le scagli una saetta?! X. Il marito pecorone (cornuto) Non cerca altro che l’Astrone Il Fusaro, il Carditello, Cibo buono e bordello: Caccia il fumo per il naso, E lo aspira adagio adagio, Finché gli occhi solamente Non ci lascia – bui e piangenti! XI. Tu che gli uomini hai fatto Tali e quali a Te, E che dopo Ti pentisti D’aver fatto questa genia; Poi creasti i Neroni, I tiranni a milioni. E a questi assomigli? Che bellezze, che consigli! XII. Di David solamente Tu dichiarasti, grande Dio: <<Ho trovato un vivente (un uomo) <<Come vuole il mio cuore>>. Questo, poi, fece per follia Omicidi e tradimenti. Tu questo empio perdonasti.. E i sudditi impestati! (inquinato) XIII. Ad un birbone, che è infelice, Quando è morto poi gli dici: <<Tu i beni hai ricevuto <<Nella tua vita, or sei perduto>> Quando poi un uomo onorato Campa afflitto e rovinato, Tu lo premi nell’altra vita… Oh di Dio bontà infinita! XIV. Un profeta Tu lo mandi a trovar le meretrici Per far figli; e poi comandi a noi uomini infelici (qualità di vino) Di fuggir persino il pensarci: (nei pensieri) Chè ci vogliono le mogli Per far l’amore, chè c’è l’inferno.. Oh di Dio giudizio eterno! XV. Quando Adamo (ed Eva) e la moglie Quella mela hanno inghiottito, La giustizia Tua severa Tutti gli uomini ha fottuto; E entro tanti milioni, Che hai redento, Tu perdoni A quei pochi battezzati Confessati… Oh che pietà! XVI. Chiami Tu popolo eletto Quello Ebreo, che per dispetto Ti ha negato e compromesso, Trucidato e crocifisso… Noi crediamo, ai tempi nostri, Che gli eletti sono i mostri, Una scrofazza, che ci uccide, Lazzaroni e Sanfedisti! XVII. L’uomo stupido e mortale, A seguire il senso letterale Della Bibbia, (se ne frega), si stordisce; I misteri non capisce: Né sa quella profezia, Che predice il Messia Da un colombo (dallo spirito) generato; Da una Vergine partorita! XVIII. Resta l’uomo più confuso (Ma però solo i cretini) Al cantico famoso Del Savio Salomone. Là si (dove) parla di bellezza, Di occhi, labbra, petti e seni; Là si dice, <<cuore mio>> Ma chi parla? Parla Dio! XIX. Dio con l’anima sta facendo Un discorso affettuoso, Mentre poi le sta mettendo Un ditino nel buchetto: Quella freme nella pancia. – Questo Dio poi la portò, Sola sola, a un angolino (sotto il noce); S’infuocarono, e s’abbracciarono! XX. Io vi parlo del senso Letterale; ma gli immensi Espositori, gran dottori, Padri santi, i sessanta – quattro sensi decifrarono; Né la cosa è più confusa: Dio, dell’anima è innamorato; Dio la bacia, e se la sposa! XXI. Di questo Dio il Figliolo Si sposò – a stuoli a stuoli Chiese, santi e verginelle, Nelle cantine e nelle celle: Lui solo devono amare, Roba e parenti (sangue) devono lasciare; E’ geloso, ed è collerico (sdegnato) Per un niente… Oh Dio clemente! XXII. Chierichetti, che sentite Di questo Dio le opere infinite, Via! Fate atti d’amore, Di speranza e di dolore: Proponete di non peccare, Di volervi confessare; Perdonate a quell’arpia, E dite insieme a me: XXIII. <<Noi crediamo fermamente, <<Che siete uno e trino; (tre) <<Tutti e tre onnipotenti, <<Un sol Dio, non già tre Dii>>. Diranno i marmocchi, Che è un gioco a bussolotti… Noi però strilliamo tutti: <<Viva Dio di Sabaoth>> Coro ad alta voce: Lodiamo, lodiamo, Il Dio d’Abramo! Coro a bassa voce E il figlio di Dio, Giuseppe e Maria, I Santi e i Profeti… e così sia! La borghesia bellese del 1848 ereditò e maturò le idee rivoluzionarie del 1799, elevandole dalla visione limitata del Regno di Napoli a quella molto più ampia dell’unità nazionale. Il 10 febbraio del 1848, giorno in cui Ferdinando II concesse la Costituzione, i Bellesi celebrarono l’avvenimento non all’ombra della bandiera bianca dei Borboni, ma di quella tricolore italiana. Quando nel 1860 Garibaldi si portò nel Sud d’Italia per unirlo in un solo regno al resto della penisola, tutti si mostrarono pronti a fare del loro meglio per quella causa, che sentivano propria. Bella fu tra i primi paesi designato a sede di un Sotto Comitato, di cui facevano parte Pietro La Cava e Giacinto Albini. Il 18 agosto di quell’anno i Bellesi risposero all’appello con una forte schiera di giovani, che uniti agli altri della Provincia, proclamarono a Potenza il Governo provvisorio, innalzando la bandiera italiana al grido di “Viva Vittorio Emanuele!”. Con l’annessione del Sud all’Italia iniziò uno stato di tensione sociale che angustiò la popolazione per un lungo quinquennio. Il brigantaggio ha origini antiche, tutte riconducibili alla povertà diffusa, al frantumarsi dell’organizzazione statale e all’incertezza del nuovo governo unitario. Briganti furono disertori di eserciti e renitenti della nuova leva, funzionari allontanati dal lavoro e nostalgici di poteri perduti, autonomisti politici e reazionari, uomini segnati da ingiustizie e soprusi. In un primo momento il gruppo dei briganti si organizzò come un vero e proprio esercito ma, quando si suddivisero in “comitive” predominò lo spirito effettivo brigantesco della violenza, della brutalità, delle ruberie ad oltranza. Nell’aprile del 1861 Bella resistette coraggiosamente alle bande di Borjes, generale spagnolo inviato dal re Francesco II di Borbone per riconquistare il perduto Regno delle Due Sicilie dopo l'unità d'Italia e poi alleatosi con i briganti, e a quelle di Crocco. Il 22 novembre 1861 la città di Bella fu attaccata da ambo le parti da circa 700 briganti. I difensori della parte meridionale del paese, avvertendo la gravità della situazione, si ritirarono nel Castello. Il giorno seguente Crocco ordinò di consegnare il castello, minacciando di incendiare l’intero paese se non avessero ubbidito. In queste giornate Bella fu completamente saccheggiata e buona parte incendiata e vennero barbaramente uccise ben 11 persone. Le azioni brigantesche nella zona, però, non terminarono, infatti, la tragedia del brigantaggio desolò il territorio per cinque lunghi anni, dal 1861 al 1865, lasciando le popolazioni provate e impoverite. La miseria fu la prima causa dell’emigrazione, nella sua più che decennale durata, questa sottrasse al paese, e per sempre, migliaia di cittadini, intere famiglie, centinaia di giovani attivi e intraprendenti. Nei soli anni che vanno al 1896 al 1900, i bellesi emigrati furono 760. I danni, di conseguenza, sia di ordine lavorativo che produttivo, furono incalcolabili. Ma anche quei primi emigrati non ebbero vita facile, costretti molto spesso a svolgere lavori molto umili e a vivere in condizioni precarie che spesso portavano alla contrazioni di malattie mortali, quali la malaria. Ma anche il nuovo secolo iniziò male. Nel giugno del 1910 un terremoto di forte intensità danneggiò l’intero paese. La Prima guerra mondiale fu un altro colpo negativo per la resa agricola e produttiva e, quindi, per l’intera economia della comunità bellese. La crisi economica mondiale del 1929 – 32 registrò nella vita dei Bellesi le difficoltà di sempre, ma con la conquista dell’Etiopia, cui parteciparono diversi bellesi, si registrò una ripresa economica. Ma la vera rivoluzione economica avvenne subito dopo la Seconda guerra mondiale, grazie ad una legge agraria nazionale che portò all’esproprio dei terreni rurali e alla loro distribuzione ai coloni della zona, dapprima in assegnazione, poi in proprietà. Il 23 novembre 1980 alle 19:35 per sessanta interminabili secondi il paese fu scosso da un tragico e disastroso terremoto con epicentro tra la Campania e la Basilicata. Quando la nube di polvere si diradò, furono visibili i crolli e le lesioni gravissime ai muri; le abitazioni furono completamente abbandonate, le chiese si presentarono fortemente danneggiate. Anche il castello, che dagli anni Venti era stato trasformato in edificio scolastico e divenuto sede delle Suore Salesiane, cui era stato affidata la cura di un asilo infantile urbano, fu investito dal sisma. Tutte le strutture di copertura e i solai crollarono e subirono danni ingenti.