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“LA SEDUZIONE DELLA WILDERNESS. IL CINEMA E IL MITO

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“LA SEDUZIONE DELLA WILDERNESS. IL CINEMA E IL MITO
 “LA SEDUZIONE DELLA WILDERNESS. IL CINEMA E IL MITO DELLA
NATURA SELVAGGIA”
Introduzione
3
1. La Natura Selvaggia e L’uomo
6
1.1 Definizione di Wilderness
1.2 Le origini della Wilderness
9
1.3 Thoureau e il lago Walden
12
1.5 Pensare la Wilderness oggi
14
2. Isola deserta:un esempio di Wilderness
19
2.1 Robinson Crusoe: un modello di Wilderness?
2.2 Sopravvissuti sull’isola che forse non c’è
24
2.3 Travolti da un insolito destino….
29
3.Natura Selvaggia e cinema
34
3.1 Sopravvivere solo nel bosco, Man in the Wilderness di Richard Sarafian
1 3.2 Una nuova etica ambientale, Never cry wolf di Carroll Ballard
4. Una natura oscena e crudele
36
41
4.1 La travolgente indifferenza della natura secondo Werner Herzog
5. Il mito Americano nell’incontro tra uomo e natura selvaggia
51
5.1Jeremiah Johnson, l’uomo delle montagne
5.2 Chris McCandless e il sogno dell’Alaska
58
Bibliografia
Fimografia
2 Introduzione
C’è qualcosa nel mare che mi affascina e spaventa allo stesso tempo. Mi piace
immergermi e bagnarmi, anche fino all’altezza dal collo ma non sono mai riuscita ad
andare oltre. Guardare l’orizzonte e vedere che questa enorme macchia blu si estende
ben al di là di ciò che il mio sguardo possa concepire mi imprime soggezione.
Eppure l’uomo ha passato i primi nove mesi della sua esistenza nuotando nel feto
materno e lasciarsi abbandonare fra le onde non è forse l’equivalente di ritornare a
quello stato primordiale da cui siamo venuti al mondo? Più facile a dirsi che a farsi.
Ho deciso di separare gli individui in due categorie: quelli che hanno paura di entrare
in mare e quelli che non sanno neanche nuotare ma si tuffano da altezze elevate alla
ricerca di quel emozione che si prova quando si chiudono gli occhi e si salta giù. La
prima categoria di persone vive di certezze prestabilite ed è convinta che la felicità
maggiore sia data dai rapporti con gli altri esseri umani. Un ritratto piuttosto comune,
mi sembra. Gli “altri” invece si svegliano la mattina pensando solo al presente ,senza
essere illusi dal miraggio di quanto deve ancora venire che è indicato come domicilio
della felicità, credono che la società odierna stia man mano distruggendo
l’individualità degli esseri umani (con ottimi risultati finora) e che la massima gioia
sia da ricercarsi nella natura, o meglio nella natura più incontaminata, non quella da
cartolina o da riserva naturale, ma quella estrema, la cosiddetta Wilderness. La
Wilderness è un luogo dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso, in cui una
varietà di esseri, viventi e non, si manifestano secondo il loro ordine interno. Chi di
noi non ha mai osato sfidare la madre Terra anche solo per arrogarsi il diritto di
sentirsi forti? Esiste forse nel globo un uomo che non ha mai cercato il tremito di
3 rimanere nudo, spogliato delle proprie potenzialità e in balìa di forze ad egli
sconosciute? Sebbene la mia paura per l’acqua non credo mi abbandonerà mai, poco
tempo fa ho deciso di fidarmi del mare e stendermi sulla sua superficie vellutata
chiudendo gli occhi. E’ spaventoso e così innaturale trovarsi sospesi, con lo sguardo
rivolto al sole. All’inizio il cuore mi batteva all’impazzata poi ha cominciato a
calmarsi e gli occhi aperti stavano osservando il mio corpo che insolitamente
galleggiava sulla grande macchia blu. Ci ero riuscita, avevo sfidato il grande gigante
Golia e avevo vinto. Anche se uno splendido mare limpido non è l’equivalente di una
terra incontaminata allo stato brado, la sensazione del principiante che si avvicina per
la prima volta all’ignoto è simile. In principio ci si chiede il motivo per cui se un
uomo è nato per camminare sulla terra ferma, in acqua, è preferibile imparare a
nuotare, e perché se è destinato ad essere un animale sociale, a volte sente il bisogno
di scomparire ed addentrarsi nei luoghi più selvaggi. Poi gli ambienti che ci
sembravano ostili diventano nostri amici, dimentichiamo quello che eravamo prima
per affrontare nuove sfide e raggiungere nuovi traguardi. Alla fine accade che la
ragazza terrorizzata dal mare non vuole più uscirne, e l’uomo che ha imparato ad
apprezzare la bellezza del bosco non vuole più far ritorno nella grigia civiltà. La
Wilderness rappresenta la coscienza primordiale dell’uomo. La parte istintiva del
cervello. Quando l’uomo moderno cessa di vivere secondo la ragione, la Wilderness
fa il suo ingresso. La natura selvaggia è il luogo dove secondo la legge della giungla e
la selezione naturale di Charles Darwin, è il più forte a sopravvivere. E’ colui che
combatte costantemente contro la paura e i suoi demoni, che accetta le sfide e ne esce
usando l’astuzia, l’audacia, la forza fisica anche, ma mai servendosi di
elettrodomestici, gingilli futili e terapie psichiatriche. Nella Wilderness per
sopravvivere bastano poche cose: un coltello, un fucile per andare a caccia e degli
abiti adeguati al luogo, il resto è tutta opera dell’ingegno umano. Se l’uomo avrà
rispetto della Terra allora la gioia che ne potrà ricavare sarà immensa, poiché l’amore
4 è onnipresente in natura come motivo e ricompensa. Solo a contatto con la natura
selvatica l’uomo perderà il suo antropocentrismo e si inginocchierà davanti alla
supremazia della madre Terra. Forse troverà una nuova redenzione, come la guida
Zachary Bess nel film di Richard Sarafian Man in the Wilderness o sarà
piacevolmente sorpreso dai lupi come il biologo di Never cry wolf. L’ex-soldato di
Sidney Pollack invece, Jeremiah Jonhson, diverrà una leggenda vivente e otterrà il
rispetto degli Indiani, mentre il più recente Tredwell di The Grizzly Man verrà
divorato dall’animale che tanto venerava per poi incarnarne lo spirito. Infine ci sarà il
giovane Chris McCandless, protagonista di Into the wild, che a soli ventidue anni
abbandonò famiglia e carriera per vivere la sua grande avventura in Alaska. Cinque
grandi film che narrano la storia di altrettanto grandi uomini. Individui che hanno
reso la Wilderness il luogo di liberazione dell’istinto e quello ostile in cui trovare la
morte. In ognuna di queste pellicole la natura è co-protagonista degli attori principali,
ci ha commosso e spaventato ma di certo non lasciato indifferenti. Dedico questo mio
umile lavoro a tutte le persone che sentono il bisogno di vivere avventure forti,
emozionanti e talvolta pericolose, perché quando la ragione avrà sopraffatto del tutto
l’istinto, allora la specie umana si potrà considerare estinta.
5 1.NATURA SELVAGGIA E UOMO
“Che qualcuno mi mostri un luogo la cui vista risulti insopportabile a qualsiasi civiltà” .
(Henry D. Thoreau) 1.1 Definizione di Wilderness
Il Dizionario di Inglese, Hazon 2006, definisce Wilderness: ” deserto, solitudine,
landa, lontano dal potere, messo in disparte, riserva naturale e zona naturale.”.Ciò che
viene da chiederci immediatamente è; in un mondo dove siamo costantemente visti
dai satelliti presenti nell’universo, è possibile parlare ancora di natura selvaggia e
inesplorata? Non solo, che cosa significano oggi per noi i termini ”Selvaggio ” e
“Natura” ? La parola natura viene dal latino Natura: nascita, costituzione, carattere,
corso delle cose e deriva, in ultima analisi da Natus,”nato”.La parola viene usata in
due sensi leggermente diversi. Nel primo la natura è : il “mondo al di là delle soglie
delle umane abitazioni.”, il mondo fisico che include tutti gli esseri viventi non umani
ed è indipendente dalla civiltà e dalla volontà umane” ; la macchina, l’artificio,
6 l’invenzione e tutto ciò che è straordinario vengono detti “innaturali”.L ‘altro senso,
più ampio è quello di ” mondo materiale o insieme delle cose che lo compongono ”
che comprende i prodotti dell’azione e dell’intenzionalità umana. Come agente la
natura viene definita “ la potenza creatrice e regolatrice che si ritiene operi nel mondo
materiale e sia la causa immediata di tutti i suoi fenomeni”. Per quanto concerne il
termine Selvaggio, l’Oxford English Dictionary propone questi significati della
parola Wild:
ƒ di animale: libero, dotato delle proprie caratteristiche naturali, che vive
nell’ambito dei sistemi naturali ;
ƒ di pianta: che si riproduce e si sviluppa da sé, secondo qualità innate ;
ƒ di terra: disabilitata, non coltivata, un luogo dove la flora e la fauna
interagiscono pienamente e le forme della terra derivano interamente da
forze non umane ;
ƒ di raccolto: spontaneo, prodotto senza coltura ;
ƒ di società: non civilizzata , rozza, ingovernabile, il cui ordine è cresciuto
all’interno e si mantiene in forza del consenso e della tradizione, piuttosto
che di una legislazione esplicita; cultura primaria, che si considera abitante
originaria ed eterna del proprio territorio; società che resiste al dominio
economico e politico della civiltà; società la cui economia è in stretto
rapporto con l’ecosistema locale ;
ƒ di individuo: sregolato, insubordinato, licenzioso, dissoluto, non intimidito,
autonomo, indipendente, libero;
7 ƒ di comportamento: violento, distruttivo, crudele, sregolato, senz’artificio,
libero, spontaneo, che resiste fieramente a ogni oppressione, delimitazione o
sfruttamento ;
I dizionari definiscono Wild in larga misura in termini di ciò che, da un punto di vista
umano, non è .Questo approccio dunque non riesce a vedere ciò che è. La parola
Wilderness (mondo selvatico, natura incontaminata), già Wyldernesse, da Wildeornes,
forse derivante da Wildeer-ness (deo, deer indicava il daino e altri animali della
foresta), ma più probabilmente daWildern-ness (ness significa promontorio, capo) ha
queste definizioni:
ƒ un’ampia estensione di terra selvatica, con la sua flora e faune originarie,
che può andare dalla giungla o foresta tropicale alle bianche distese
nevose delle regioni alpine o artiche ;
ƒ un terreno incolto,inutilizzato, o inutilizzabile per l’agricoltura o la
pastorizia ;
ƒ uno spazio di cielo o di mare ;
ƒ un luogo pericoloso o difficile, dove ci si muove a proprio rischio,
contando sulle proprie capacità e senza possibilità di soccorso ;
ƒ questo mondo, contrapposto al cielo ;
ƒ un luogo di abbondanza, come in John Milton: “ a Wilderness of sweet”,
una distesa di dolcezze”.
8 Il senso che il poeta inglese John Milton da alle parole coglie molto bene la
situazione di energia che spesso caratterizza la natura intatta. Wilderness sono i
miliardi di piccoli scombri e aringhe nell’oceano, i chilometri cubi di semi delle
piante erbacee nelle praterie, l’incredibile fecondità dei piccoli animali e delle piante
che nutre l’intera rete della vita. Per un altro verso, Wilderness richiama il caos,
l’eros, l’ignoto, il tabù, l’ambito a cui appartengono sia l’estasi sia il demoniaco. In
entrambi i sensi è un luogo di potere archetipico, di apprendimento e di sfida. Gli
antichi romani avevano un aggettivo, il cui senso ormai abbiamo perso, per
descrivere questa capacità della natura selvaggia di incutere timore reverenziale e
rispetto per ciò che sfugge alla nostra comprensione, di suscitare il senso del
meraviglioso e dello stupore sacro: “numinous” (da “numen”). Qualcosa di simile è
stato poi il “sublime” romantico e la concezione di Wilderness degli scrittori e poeti
americani dell’ottocento.
1.2 Le origini della Wilderness
L’America, il continente più giovane della Terra, ha costruito la propria identità sul
concetto di Wilderness. Esso è infatti il tema fondante delle arti figurative, della
letteratura e del cinema americano. Merito certamente della presenza di paesaggi
vasti e grandiosi, la sua pittura di paesaggio è da considerarsi tra i momenti più
gloriosi del secolo scorso. Per quanto invece riguarda la fotografia, è d’obbligo citare
Roger Cutforth che negli anni ottanta esplorò il tema delle sequenze nelle fotografie
paesaggistiche, scegliendo luoghi di difficile accesso, lontani dalla civiltà, nelle
9 regioni occidentali degli Stati Uniti o il ben più noto Ansel Adams, celebre fotografo
di paesaggi americani, famoso anche per il suo impegno a favore della natura. E che
dire del cinema? Uno dei principali generi che caratterizzano il cinema americano è il
western, un genere molto apprezzato, originale rispetto alle cinematografie europee,
che si fa principale e più esplicito portavoce dell’ideologia: “l’espansione americana
verso il West alla ricerca di una Nuova Frontiera, non riguarda solo la conquista di un
territorio ma soprattutto l’identificazione in uno spirito di avventura e in un universo
di valori che la cultura della vecchia Europa non sapeva, o non poteva più esprimere,
pur potendone rivendicare un’antica, indiscussa paternità” (Albano Lucilla). I primi
film western furono girati all'inizio del XX° secolo e, come tutte le produzioni
dell'epoca, esclusivamente in studio. Quando però l'evoluzione tecnologica consentì
le riprese anche in esterno, le ambientazioni scelte per il western cominciarono fin da
subito ad essere scelte tra gli angoli più desolati e selvaggi della California,
dell'Arizona, dello Utah, del Nevada, del Colorado o dello Wyoming e ben presto il
panorama stesso non rappresentò solo uno sfondo per la vicenda ma un elemento
portante del racconto. Anche le aree Wilderness, di cui parlerò più oltre, sono sorte
per la prima volta in America, più precisamente nel 1964, anno in cui il Wilderness
Act, scritto da Howard Zahniser, sancì la nascita del sistema nazionale di tutela delle
aree Wilderness; nel 1999 seguì il Lands Legacy Iniziative, documento proposto dal
presidente Bill Clinton nel quale si stabiliva che le aree Wilderness negli Stati Uniti
coprono più di cinque milioni di acri. Insomma, un’intera cultura creata sulla
celebrazione della natura selvaggia, per dare carattere e individualità a un popolo che,
non avendo tradizioni alle spalle, se ne è dovuta trovare necessariamente una,
passando attraverso pensatori come Ralph Waldo Emerson, considerato “ il filosofo
della natura”. Ralph Waldo Emerson, saggista, poeta e filosofo molto popolare, è
l’ispiratore e il teorizzatore di quella corrente filosofica fiorita specialmente a Boston
e chiamata “Trascendentalismo Americano”. Egli attinse il suo pensiero da diverse
10 correnti di pensiero: il Romanticismo inglese e tedesco, il neoplatonismo, il kantismo
e persino l’Induismo. Intere generazioni di scrittori e intellettuali americani
risentirono della sua influenza, a partire dal suo amico scrittore Henry David
Thoureau fino a John Dewey, senza tralasciare che anche Friedrich Nietzsche ne
apprezzò esplicitamente gli scritti e dedicò gran parte della sua riflessione ai temi del
nostro, in particolare alla potenza, al fato, alla poesia, alla storia e alla critica del
Cristianesimo. Risale al 1837 uno dei suoi testi più rinomati, Nature. Si tratta di un
saggio, un discorso diviso in otto capitoli sul rapporto intrinseco tra le due parti
dell’universo: la natura e lo spirito, il concreto e l’astratto, le anime individuale e
universale, il micro e il macrocosmo. La corrispondenza delle due realtà pone in
nuova luce la natura. Quest’ultima è fondamentale per cogliere la verità e il
significato dello spirito. La natura diviene un tramite ineliminabile per comprendere i
significati dell’universo. Ne Lo Studioso Americano un discorso tenuto il 31 agosto
1837 per la “Phi Beta Kappa Society” di Cambridge, Emerson afferma che
l’intellettuale è educato dalla natura, dai libri e dall’azione. La natura è la prima sia
per cronologìa (è presente da sempre) che in ordine di importanza. Dietro la varietà
delle forme naturali si celano infatti le stesse leggi fondanti che governano la mente
umana: la disciplina dalla quale la natura è regolata è una preziosa fonte
d’insegnamento per l’uomo. Un altro principio che si trova spesso negli scritti di
Emerson, è quello della “Potenza”, concetto che esalta la figura dell’uomo ”duro ”
che vive seguendo le proprie regole. Il power cui si riferisce Emerson conserva più un
carattere artistico-intellettuale che politico-militare. Un passaggio del saggio recita
infatti: “Il momento più alto della storia umana fu quello in cui l’uomo da poco aveva
abbandonato il suo stato selvaggio, il momento in cui la sua rude forza primitiva era
tutta diretta verso il nascente senso di bellezza. E qui abbiamo Pericle e Fidia, prima
del trapasso nella civiltà Corinzia. La potenza si trova tutt’intorno a noi, ma non è
sempre possibile controllarla. E’come un uccello che si libra nell’aria senza meta,
11 passando incessantemente di ramo in ramo.” Rimane comunque l’accentuazione
naturalistica a dare un’incisività particolarmente “americana” alla filosofia di
Emerson; è in particolare la natura degli States, il Nuovo Mondo, con la sua vastità
spaziale – “un’ampiezza geografica che abbaglia l’immaginazione” – e le sue
grandiose proporzioni, a rappresentare l’espressione divina del suo pensiero
filosofico.
1.3 Henry David Thoureau e il lago Walden
Se Ralph Waldo Emerson è colui che ha gettato le basi per una futura dottrina della
Wilderness, la svolta definitiva avvenne il 9 agosto 1854 a Boston, quando il filosofo
americano Henry David Thoureau pubblicò il suo più grande successo, Walden or
Life in the woods e fece avvicinare migliaia di lettori al mondo della natura con frasi
come: “I santuari della Wilderness sono l’estremo desiderio dell’uomo civilizzato.”
Walden è il resoconto di due anni di vita solitaria nella campagna del Massachusetts
che Thoureau trascorse fra il luglio del 1845 e il settembre 1847. E tuttavia è il testo a
cui oltre un secolo più tardi faranno riferimento i movimenti ecologisti e ambientalisti
di mezzo mondo. Si tratta di un semplice diario che all’esperienza intima unisce la
descrizione della vita quotidiana, materiale, fatta di suoni, silenzi, paesaggi reali e
immaginari. Tra le righe in cui questo maestro mette in scena la semplicità della vita
tra i boschi, scopriamo anche perché Thoureau è colui cui si ispireranno Gandhi e le
centro-culture contemporanee, che lo rileggeranno e rielaboreranno, magari
criticandolo ma assumendolo come punto di partenza. Uscendo apparentemente dal
12 mondo, il personaggio di Thoureau si pone come rappresentante di una nazione che
comincia a lasciare il suo segno indelebile sulla società. L’importanza di Walden è da
attribuirsi alla sua attualità, alla ricerca di uno stile di vita sostenibile, alla conquista
di un rapporto paritario uomo-natura ed infine alla critica ad una società definita “del
lavoro e dell’abbondanza”. Secondo il pensiero di Thoureau, nella natura c’è un
elemento che coinvolge Spirito e Materia allo stesso modo, una sorta di sintesi fra i
due opposti. Questa sintesi è ciò che il filosofo chiama “selvatico”. Dosi abbondanti
di selvatico rieducano l’individuo a sentire la vita e a sconfiggere i rischi
dell’individualismo. In Walden, dunque, si racconta la presa di distanza dalla società
nella ricerca di una dimensione più autentica. L’edificazione della capanna,
l’autoproduzione dei mezzi di sussistenza con la coltivazione della Terra,
l’immersione nella fisicità del Corpo e della Natura, in cui lo stagno viene visto come
“l’occhio della Terra, guardando il quale l’osservato misura la profondità della
propria natura”. L’acqua del lago come la parte più intima dell’essere umano non ha
bisogno di recinti che ne proteggano la purezza, la bellezza e la capacità di
sopravvivere. E allora sono l’attenzione, il mito, l’ideologia che fanno parlare
Thoureau di deliberately, altra parola chiave: un’esperienza deliberata, ponderata,
consapevole a ogni passo, che nell’estasi della comunione con la natura lascia sempre
uno spazio per l’uso della ragione.
13 1.5 Pensare la Wilderness oggi
Oggi la Wilderness è divenuta una forma di pensiero, una filosofia di vita, un
approccio all’ambiente naturale in cui entrano in gioco numerosi fattori,
particolarismi e soprattutto iniziative ad personam. L’essenza della Wilderness è
quella di operare per conservare la natura cosi com’è, andando al di là delle
problematiche esclusivamente ecologiche e tentando di risanare il rapporto uomonatura, senza mai perdere d’occhio le implicazioni antropologiche e filosofiche che
tale impegno determina. La natura selvaggia va quindi vista come occasione per
conoscere il mondo selvaggio dal quale la nostra specie deriva e che non può
ignorare. Aldo Leopold (1887-1948), uno dei padri del movimento ecologista
americano e internazionale, puntualizzava che: “Come i venti e i tramonti, la vita
selvaggia era data per scontata fino a che il progresso non ha cominciato a portarsela
via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto tenore di vita valga il
suo costo in cose naturali, libere e selvagge.” Il degrado prodotto dagli interventi
sull’ambiente è tale da generare il più profondo pessimismo in ogni uomo che abbia
un po’ a cuore lo stato di salute del pianeta in cui vive. Oggi, inoltre, l’interesse per
l’ambiente è spesso contrassegnato da una visione antropocentrica: per cui la
salvaguardia dell’ambiente risulta subordinata ai bisogni dell’uomo. I danni prodotti
dall’inquinamento ci spaventano poiché poniamo come referente la nostra specie e i
nostri modelli culturali. Questa visione non è aderente alla filosofia Wilderness, che
al contrario si impegna a mantenere il rispetto e la conservazione della “natura in sé”,
senza tener conto delle relazioni connesse all’esclusivo interesse umano. In
apparenza, la Wilderness, è intravista come un’opportunità di approccio alla natura in
diretta opposizione al modus vivendi attuale, basato sulla velocità e sulla quasi totale
assenza di contemplazione dell’ambiente circostante. Pensando a Shakespeare si
14 potrebbe dire che entrare nel mondo Wilderness equivale ad abbandonare “le ansie e
le doglie dell’oltraggiosa fortuna”, è guardare la vita da un altro punto di vista, meno
frenetico e più equilibrato. Gli attivisti della Wilderness sono invece convinti che
questo tipo di osservazione ci conduce a cercare i luoghi selvaggi e quindi a
penetrarli in punta di piedi, lasciando che il luogo “parli”, dando a ognuno delle
emozioni. Quelle emozioni che attivano in noi qualcosa di primordiale, sul piano
della percezione razionale ma anche su quello estetico. Per favorire questa crescita
culturale dell’uomo in diverse parti del mondo sono state create “Aree Wilderness”,
piccole nicchie atte alla conservazione di un patrimonio naturale che può essere tale
solo se lasciato selvaggio. In Italia ci sono venti associazioni in sei regioni, una di
queste è la Mountain Wilderness ( www.mountwild.it). Nell’autunno del 1987, un
nutrito gruppo di alpinisti, provenienti da ogni parte del mondo, si riunì a Biella, su
invito del Club Alpino Accademico e della Fondazione Sella, per definire le strategie
necessarie a contrastare il progressivo degrado delle montagne del mondo e degli
ultimi grandi spazi desertici. I convenuti produssero e sottoscrissero un documento
finale, di importanza storica, noto come “La tesi di Biella” e approvarono la
costituzione di un nuovo movimento organico, a carattere internazionale, al quale
venne dato il nome di “ Mountain Wilderness - Alpinisti di tutto il mondo in difesa
della Montagna”. Da allora l’associazione ha continuato a operare in questo senso
aprendosi sempre di più anche al mondo extra- alpinistico , diffondendosi tra la gente
che vive normalmente la montagna, che intende proteggerla e impegnarsi per essa,
tra chi ricerca e vive nella montagna intensi valori. L’associazione intende
promuovere un vissuto diverso di montagna: montagna non solo come luogo di
divertimento e consumo, ma come luogo culturale in cui portare e vivere valori
ecologico- ambientali, istanze etiche, sentimenti d’ idealità forti; montagna come
luogo in cui sperimentare incontri diretti con i grandi spazi e in cui vivere libertà,
rispetto, solitudine, integrità e ritmi propri. L’ Area Wilderness è quindi un luogo
15 privo di strade e di moderne costruzioni, la sua denominazione ha origini americane
ed è legata al concetto di conservazione dell’ambiente naturale, omonimamente
definito, che mira alla salvaguardia degli ultimi territori e zone non antropizzate del
mondo, mediante un duraturo vincolo di tutela. Fondamentalmente, un’Area
Wilderness si distingue per il fatto di consentire un uso umano che non divenga mai
di massa e quindi rovinoso per l’Ambiente e fastidioso per lo stesso visitatore; una
limitazione all’uomo fatta non per punirlo o negargli il diritto alla frequentazione di
luoghi, bensì per migliorarla, affinché divenga di totale appagamento per tutti,
riservando a ognuno il diritto di godere delle stesse situazioni ambientali in identiche
situazioni psicologiche. Nella maggior parte di queste Aree è stato interdetto il diritto
di scalata, proibite le motoslitte, i kayak e i gommoni, al fine di contribuire al
mantenimento dello stato di natura selvaggia che certi sport estremi mortificano,
secondo quell’arroganza tipica dell’antropocentrismo, in continua “gara” con la
natura. Vivere in una cultura della Wilderness è sempre stato un aspetto
fondamentale dell’esperienza umana. La natura non è un luogo da visitare, è casa
nostra. Un territorio i cui luoghi ci sono più o meno famigliari. Esistono anche
regioni impenetrabili e remote, ma tutte sono conosciute ed hanno un nome. Lo
scrittore trentino Mario Rigoni Stern alcuni fa scrisse un articolo su un quotidiano
italiano in cui suggeriva di nascondere, o per lo meno di non divulgare, l’esistenza di
aree considerate in qualche modo”integre”, ancora non travolte dal turismo di massa.
Ma per quale motivo dovremmo sentirci investiti da tale privilegio di selezione ,
decidendo che un certo spazio alpino non deve essere “inquinato” da un altro essere
umano? Probabilmente alla base di questa presunzione selettiva c’è una forte aria di
integralismo ecologico. E’ necessario non trasformare la natura esclusivamente in
un’officina di speculazione filosofica, perdendo di vista la sua fisionomia e
soprattutto i suoi bisogni. I sostenitori della Wilderness sono contrari a chi utilizza la
natura solo come palestra del corpo o come spunto per dare forma ad ansie
16 intellettuali, senza contare i molteplici utilizzi distruttivi perpetuati senza sosta
dall’uomo: ciò serve solo a sfruttare l’ambiente senza dare nulla in cambio. Rispettare
la natura selvaggia significa lasciar da parte l’egocentrismo e provare a non
addomesticare la natura. Comprendere l’importanza di questa incontaminazione
corrisponde a comprendere perché Buck, il cane di Il Richiamo della foresta di Jack
London (1876-1926), lasciò gli uomini per vivere coi lupi: metafora che ben si
attaglia alla filosofia Wilderness, interpretabile oggi come una sorta di fuga dalla
nostra società. Nel teatro della natura, quindi, dobbiamo imparare che spesso il nostro
ruolo è quello di comprimari: altri sono i protagonisti, vincolati ad un meccanismo a
cui, comunque, non possiamo imporre procedure e andamenti atti a variarne gli
ancestrali equilibri. Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla
terra tutto il mondo era Wilderness, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la
verità naturale. Poi è arrivato l’uomo e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a sé
stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita. La
Wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni
possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile
per la ricreazione, o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova
Wilderness nel vero senso della parola è impossibile. La capacità di comprendere il
valore culturale della Wilderness sta divenendo in ultima analisi una questione di
umiltà intellettuale. Il presuntuoso pensiero dell’uomo moderno si è distaccato dalle
sue radici con la terra, e sostiene di avere già scoperto cosa è importante e cosa no.
Certe aree naturali vanno salvate solo perché hanno diritto di continuare a perdurare
nel tempo così come sono giunte a noi, modificate solo dalla lenta evoluzione delle
forze della natura o da quelle primitive dell’uomo, e non perché siano ‘usate’
dall’uomo di oggi in senso materiale stretto. L’uomo deve porsi dei limiti precisi oltre
i quali di principio non permettere più il minimo intervento modificatore e deve avere
la forza e la volontà di tirarsi indietro anche come visitatore non appena la sua
17 presenza tende a modificarne lo stato fisico, o anche quello psichico del visitatore
stesso, che deve sempre godervi le sensazioni di un rapporto di solitudine con la
natura selvaggia.
18 4. ISOLA DESERTA: UN ESEMPIO DI WILDERNESS?
“Non può esistere ritorno senza una permanenza in un’isola magica,
solo un paese incantato può prepararti al miracolo definitivo e finale del tuo,
del porto da cui eri partito.”
(Roberto Muussapi)
1.4 Robinson Crusoe: un modello di Wilderness
“ Isola della disperazione”, così Robinson Crusoe, protagonista dell’omonimo
romanzo di Daniel Defoe (1660-1719) indica l’isola in cui fu costretto a iniziare una
nuova esistenza dominata dalla solitudine e privata di tutti quei privilegi che la vita
civile gli aveva concesso. L’isola “orribile e desolata”, non lontana dalle foci
dell’Orinoco, è il territorio della sua salvezza dopo il naufragio in cui hanno perso la
vita tutti suoi compagni di viaggio. Immediatamente, quel mondo selvaggio ed
inospitale risulta una sorta di inferno dominato dalla perdita della civiltà; in quel
mondo sconosciuto, l’uomo che ha sfidato il mare deve subire la sofferenza
determinata dal suo allontanamento dalle regole di una vita “normale”, in armonia
con le prerogative tipiche del modello borghese. Robinson, senza ascoltare i consigli
del padre, che non lo voleva per mare, salpa in direzione dell’avventura, affidando il
19 proprio destino alla natura. E la natura si prende quel giovane ch insegue la vita libera
e gli impone una sorta di rito di passaggio attraverso la pesante prova della vita
sull’isola deserta. Egli deve imparare sulla propria pelle che l’avventura è scandita da
livelli, che non esiste un modello assoluto, unico e aderente alla visione teoretica. E
cosi impara a cacciare, a costruirsi case e oggetti indispensabili, a studiare il territorio
senza alcuna speranza di modificarne la fisionomia, ma accettandone completamente
il suo dominio. Per queste e altre prerogative, il personaggio creato da Defoe può
essere considerato un modello di Wilderness, ma non tanto un modello di vita, in
quanto oggettivamente ai limiti della sopravvivenza per la maggior parte di noi, ma
un esempio didattico importante. Infatti, Robinson ci induce a comprendere
soprattutto il potere e la forza della natura, dimostrando i limiti dell’uomo e che il suo
antropocentrismo crolla miseramente quando vengono a mancare quei valori fittizi
contrabbandati come fondamentali. Significativamente, in numerose opere di Defoe
ricorre quasi come un’ossessione il tema della ricerca del denaro e della sua
accumulazione: un mito che travolge l’uomo come una maledizione biblica. In
Robinson Crusoe questo processo subisce una sorta di evoluzione, il naufragio
diviene archetipo di un bisogno minimo di arricchimento: le priorità del protagonista
adesso sono effettive e circoscritte a pochi ed elementari bisogni. Robinson impara a
costruire e non solo a consumare: anche i detriti del quotidiano assumono un valore
eterno. Tutto si rivela fondamentale per l’esistenza. Defoe scrisse la sua opera più
famosa a sessant’anni, quando aveva alle spalle una vita contrassegnata da lunghe
esperienza esistenziali e di lavoro. L’inseguimento del denaro non aveva condotto a
nulla? Forse il mito aureo aveva mostrato la sua banalità? E’ possibile. Anche senza
forzare l’interpretazione di Defoe, con le avventure del suo naufrago, pone in
evidenza la necessità dell’uomo di non dimenticare mai di essere parte di una realtà
di più ampie dimensioni, in cui è sempre la natura a prevalere. La prima edizione di
Robinson Crusoe apparve a Londra nell’aprile del 1719 e nel giro di tre mesi furono
20 stampate tre edizioni; nell’agosto dello stesso anno apparve la seconda parte,
anch’essa ristampata in breve tempo e un anno dopo la terza parte. L’impianto diari
stico, con un linguaggio semplice ed addirittura disadorno, non riduce il valore
dell’opera di Defoe, anzi, da un punto di vista didattico, è nella condizione di dotarla
di maggiore forza. Al di là di quale fu l’effettiva intenzione dell’autore, da molti
critici Defoe è stato considerato un autore che per guadagno scriveva di ogni
argomento" e che costruì il suo famoso personaggio servendosi delle memorie di
Alexander Selkik, un marinaio scozzese che visse alcuni anni in solitudine su un’isola
deserta vicino a Juan Fernandez, le avventure di Robinson Crusoe costituiscono
un’ottima occasione di riflessione. L’uomo che ha perso coscienza, eticamente e
praticamente, delle proprie relazioni con l’ambiente, si comporta come Robinson
Crusoe: impara a rispettare la natura e nello stesso tempo avverte lo stordimento della
solitudine, determinata dall’allontanamento dalla più comoda e battuta via del
benessere. L’avventura dell’”uomo nei boschi” è in fondo tutta chiusa nella solitudine
perché scegliere la via del bosco( dell’isola, o di qualunque altro luogo che esprima la
natura selvaggia) corrisponde a riconoscere il dominio della natura. Un atto di
modestia che in pochi sono disposti ad effettuare. La maggior parte delle letture
contemporanee di Robinson Crusoe hanno fatto di questo romanzo il luogo in cui
scorgere l’affermazione del modello ideale dell’uomo moderno, della middle class.
Nell’Emile, Rousseau enfatizza il ruolo dominante dell’autosufficienza
dell’uomo:”Robinson nella sua isola, solo, senza l’aiuto dei suoi simili e degli
strumenti di tutte le arti, che riesce tuttavia a provvedere al suo sostentamento, alla
sua conservazione, procurandosi anche un certo benessere; ecco un argomento
interessante per qualsiasi età e che può essere reso piacevole per i ragazzi.” Per Kant,
Robinson era la vivida rappresentazione dell’età dell’oro in cui gli uomini vivevano
in una sorta di Eden. Molto teoricamente, Kant invocava il ritorno ad una dimensione
esente dal “disgusto della vita civile”. Insomma, un mondo impossibile quello di
21 Crusoe: uno spazio destinato ad essere deserto come quello dell’isola perduta
nell’oceano lontano. Il romanzo di Defoe più di altre opere in cui il rapporto
dell’uomo con la natura selvaggia è dichiarato e prospettato con toni quasi
programmatici, offre al lettore particolarmente attento l’opportunità per riflettere
concretamente su che cosa sia effettivamente la Wilderness. E’ l’ambiente privo di
ogni forma di antropizzazione, in cui la creatura più evoluta può solo adattarsi a
regole esistenti da sempre, senza pensare di riuscire a dettare le proprie leggi. Il
naufragio di Crusoe può essere metafora di molti altri naufragi: ognuno prima o poi
viene scagliato su un’isola deserta dove le sorti cambiano e vengono richieste energie
nuove per dare un senso all’esistenza. Oggi il naufragio collettivo è costituito dalla
crisi dell’ambiente naturale: solo il ripristino del mondo selvaggio può fornire
all’uomo gli strumenti per riprendere coscienza delle effettive risorse della natura e
dei limiti insiti nel suo essere. Sentirci un po’ Robinson può essere un mezzo per
salvarci la vita. Dobbiamo arrenderci ai ritmi degli alberi e delle acque; non possiamo
pensare che le certezze delle scienze costituiscano per forza il modo migliore per
essere nell’ambiente e nella storia. Robinson Crusoe non problematizza questa
istanza che oggi non può essere ascoltata, ma esprime in modo elementare il dramma
dell’allontanamento dalla natura. Lo pone in rilievo dando comunque qualche
speranza, perché alla fine Crusoe riesce a radicarsi nell’ambiente, acquisendo quelle
certezze che, agli occhi degli altri, fanno di lui un “selvaggio”. Ma un selvaggio che
non ha perduto il bene del pensiero, della memoria, della speranza. Il vago sentore
escatologico, che accompagna l’immagine della natura padrona assoluta, determina
comunque un brivido in ognuno di noi: ciò significa che l’impatto con il mondo
selvaggio è meno immediato e naturale di quanto possa apparire teoricamente. La
prova quasi iniziatica di Robinson può essere considerata la più dura e violenta che
oggi, senza più isole sconosciute e “selvaggi cannibali”, si marginalizza
nell’immaginario, ma non allenta le sue radici in noi, perché si aggrappa a qualcosa
22 di atavico, di profondo. In tempi lontani dall’ideologia del “buon selvaggio” e in
piena discussione sul valore dell’individualismo, ecco che il cinema ci induce, con un
film come Cast Away di Robert Zemeckis, a pensare che Robinson Crusoe potremmo
diventarlo tutti, perché i naufragi non sono esclusivo dominio della letteratura. Infatti
il film ci costringe a pensare soprattutto a quanto siamo strettamente legati a certe
comodità senza le quali la nostra vita pratica si trasformerebbe in una specie di
tragedia, in un’esperienza ai limiti della sopravvivenza. Costretto per quattro anni su
un’isola deserta, Chuck è, alla lettera, castaway: naufrago in una terra lontana da ogni
umanità. Giocando con la lingua, già nel titolo di Cast Away (Usa, 2000, 143’) Robert
Zemeckis allude alla "passività" del suo protagonista, gettato via dalla sorte. Altro che
signoria sul mondo e su di sé, ideologicamente coltivata dal vecchio Crusoe anche a
spese di Venerdì: il miserabile Chuck è la dimostrazione (cinematografica) d’una
debolezza sorprendente dell’animale uomo. Un’inadeguatezza naturale alla vita, la
sua e la nostra, che la regia sottolinea quasi con cattiveria nelle immagini della fuga
dall’isola, paragonandola alla leggerezza e alla forza di una balena che danza in mare,
lei sì davvero "signora". isolare in Cast Away la parte più bella e intensa, il naufragio,
e considerarla un film compiuto: un film che sarebbe ben potuto cominciare con la
partenza di Chuck in aereo, per poi finire con l’immagine della grande nave alle sue
spalle. Tra i due eventi, questo "nostro" film si sviluppa con linearità e coerenza, e
con una sorprendente maestria nel ridurre il racconto, alleggerendolo di fatti e di
argomentazioni, e persino di ogni commento musicale. In tal modo, allo spettatore è
data quasi la stessa esperienza del protagonista: la perdita improvvisa e spaesante
della normalità, di quella somma di significati consolidati e ovvi che chiamiamo
senso comune. Ben diverso da Crusoe, e semmai più simile all’Alexander Selkirk naufrago dal 1705 al 1709, appunto per 4 anni, sull’isola cilena di Juan Fernandez che ne suggerì la storia a Daniel De Foe, Chuck viene gettato via, lontano non solo
dalla società ma anche da se stesso. Quel che gli resta dell’una e dell’altro son solo
23 "relitti": oggetti una volta familiari e ora privi di senso, residui d’abilità tecnica,
frammenti di progettualità, ombre di responsabilità, ricordi d’affetti. Con essi gli
tocca di provarsi a sopravvivere, trasformandoli in surrogati più patetici che
ingegnosi, disperatamente tentando di campar la vita fino al giorno dopo, e il giorno
dopo tornando a tentare, sempre esposto alla signoria della paura. Due pattini per
ghiaccio diventano coltello e scure. Un pezzo di plastica simula una vela. Il fuoco
nasce da un antico gioco da scout. Soprattutto, un pallone si trasforma in volto, in
presenza umana, nell’unico e precario garante della sua stessa umanità. Ne ha
bisogno, Chuck, ben più che Crusoe di Venerdì. "Wilson" non è il suo servo, ma il
suo specchio: il riflesso della sua coscienza, del suo linguaggio, della sua incerta
immagine di sé. Ne ha tanto bisogno, che rischia la vita in mezzo all’oceano, pur di
non perderlo. Ma lo perde, alla fine, e con esso perde del tutto se stesso. Poi, ultima
ed estrema confutazione dell’ottimismo di Crusoe, alle sue spalle incombe la grande
nave. Riempiendo lo schermo con la propria rassicurante massa d’acciaio, lo salva
dal niente in cui è stato "gettato". La sua individuale inadeguatezza alla vita è ora più
evidente, più penosa che mai. Chiusi nelle nostre case con riscaldamento d’inverno e
aria condizionata d’estate, con ogni genere di elettrodomestici, con prese di corrente
assortite dalle quali un’energia invisibile soddisfa microonde e playstation, computer
e rasoio elettrico, siamo schiavi di un modus vivendi a cui ormai non sappiamo
immaginare alternativa. E’ traumatico immaginare di “uscire dalla storia”, naufragare
per un certo tempo, e frustrare il nostro delirio di onnipotenza, smettendo di essere
presenti.
24 2.2 Lost, sopravvissuti sull’isola che forse non c’è
L'occhio di un uomo che si risveglia da un incubo. Intorno, il fumo che si leva da una
foresta di bambù. In testa, un solo ricordo: lo schianto dell'aereo. E' un inizio
eloquente quello di Lost, il serial cult negli Stati Uniti e nel resto del mondo, la beffa
di chi crede di essere scampato al disastro e poi scopre che è solo passato da una
tragedia all'altra. L'incidente aereo, i sopravvissuti sull'isola deserta, la lotta
primordiale con la natura selvaggia per garantirsi la sopravvivenza, sono elementi che
sempre hanno nutrito piccolo e grande schermo, perché paure ricorrenti nella
letteratura di tutti i tempi. Ma Lost, oltre che delle paure, si nutre anche di cinema, e
porta sul piccolo schermo effetti speciali degni della migliore Hollywood, una
puntata pilota che ha segnato un record di budget, alcuni attori già celebri per ruoli
precedenti, una quantità consistente di protagonisti (i superstiti sono quarantotto), una
sceneggiatura avvincente che mescola suspense ed azione, ritmi serrati, sfumature
thriller e misteri. Su un'isola che, pian piano si scoprirà, nasconde alcuni segreti.
Come quelle misteriose presenze che scuotono la giungla con le loro urla. Ma segreti
ne nascondono anche le persone, e probabilmente nulla è come sembra. Forse i
protagonisti non sono nemmeno così vivi, forse l'isola non è di questa terra, forse...
Amici, sconosciuti, componenti del medesimo nucleo familiare, tutti costretti a
collaborare nella lotta per la vita. Di nuovo l’isola deserta dunque (vedi paragrafo
precedente). Il luogo per eccellenza in cui l’uomo si misura in una forzata convivenza
con la natura incontaminata. Dal naufragio solitario di Crusoe ai quarantotto
sopravvissuti del volo Oceanic 815 di Lost, l’isola deserta può essere per chi ci
25 finisce: luogo di redenzione o gabbia senza via d’uscita. La Wilderness mostrata nel
serial, è quanto di più artefatto e poco naturale possa essere visto. La giungla hawaina
in questione infatti, è dotata di: enormi bunker sotterranei, sistemi di difesa elettronici
che uccidono le persone, apparecchiature mediche, orsi polari sbucati dal nulla, un
impianto elettromagnetico, una quantità assurda di armi, e come se non bastasse, di
un piccolo villaggio residenziale con tanto di piscine. Inoltre, una buona parte dei
personaggi, dopo essersi salvati dallo schianto con l’aereo, trovano la morte proprio
sull’isola, per mano degli abitanti “originari” , che vogliono proteggerla da invasioni
estranee.E’ interessante però pensare al promo trasmesso della terza stagione, in cui
la voice off recitava :” Eroe, santo peccatore, assassino, traditore, martire, vai
sull’isola e trova te stesso.” Al di là dell’accattivante messaggio pubblicitario, ciò che
in Lost colpisce, specialmente nelle prime due serie, è il concetto di come quarantotto
persone possano riuscire a creare una comunità dal nulla e di come il passato di
ognuno di loro si annulli una volta che si trovano sull’isola. Una delle protagoniste,
Kate è in realtà un’assassina, una ladra, una truffatrice, ma sull’isola nessuno conosce
la sua vera identità e ciò fa si che ella diventi l’eroina del gruppo, comportandosi
valorosamente in molteplici situazioni. Alcuni temi ricorrono nelle trame di Lost,
affiancando la trama principale e sviluppando le storie dei singoli personaggi. Uno
dei temi ricorrenti è proprio quello della redenzione. Alcuni personaggi pensano di
aver compiuto una cattiva azione nel loro passato e cercano di redimere le proprie
azioni mentre si trovano sull’isola. Kate è la prima di questa categoria, ma anche
Charlie, Jin; Sun in particolare è una dei personaggi a ricaderci soprattutto in un
episodio in cui parla con Shannon chiedendole se tutto quello che sta succedendo sia
appunto una punizione per tutti quei peccati o cose sbagliate che avevano compiuto
nella vita “reale”. Altri personaggi a ricaderci sono Sawyer, Sayid, Shannon ed infine
il piccolo Walt. A John Locke è stata data una seconda possibilità sull'isola. Egli era
paralizzato su una sedia a rotelle mentre si trovava in volo sul pacifico, ma subito
26 dopo lo schianto riesce a camminare di nuovo. L’isola descritta in Lost è lontana anni
luce dal concetto di Wilderness in cui mi sono propinata fin’ora. Un luogo dove
avvengono miracoli, che deve restare sconosciuto all’umanità – e addirittura – isola
che può essere spostata geograficamente (come abbiamo assistito nell’ultima puntata
della quarta serie) attraverso una gigantesca manovella. Insomma, nessuno sa ancora
se si tratti effettivamente di un’isola nel Pacifico, dell’immaginazione delirante di un
folle o dell’Inferno stesso. Purtroppo mancano ancora due serie, quindi non possiamo
fare altro che supposizioni. Finora abbiamo scoperto che il grande magnate, Charles
Widmore e lo scienziato Benjamin Linus (capo degli “altri”) sono in guerra per
aggiudicarsi il controllo univoco dell’isola, l’uno è disposto anche a far credere al
mondo intero che l’aereo è caduto in un'altra zona e che i passeggeri siano tutti morti,
per far si che nessuno tenti di trovarsi sulla tanto decantata isola. Essa è infatti la vera
protagonista del serial. I due leader del gruppo, John Locke il “miracolato”, e il
chirurgo Jack Shepard, sono in continua disputa proprio su questioni riguardanti
l’isola. In un episodio della prima stagione, intitolato appositamente Uomo di scienza
e uomo di fede, Locke sostiene che è stato il destino a far schiantare l’aereo proprio
su quell’isola e che i sopravvissuti devono ritenersi fortunati perché l’isola permetterà
loro di crearsi una nuova esistenza, mentre Jack è convinto che il caso, o l’errore
umano ha fatto si che i quarantotto si trovassero in quella situazione di pericolo e che
l’unica cosa da fare è andarsene al più presto da li. L’isola in quanto “entità” non
permetterà mai veramente a nessuno dei sopravvissuti di tornare a casa. Anche se nel
finale della quarta serie troviamo gli Oceanic six (ovvero i sei che sono riusciti a
tornare a casa), nelle battute finali del episodio, aleggia l’inquietante sospetto che
l’isola li rivuole indietro uno per uno, altrimenti si vendicherà facendo del male ai
sopravvissuti rimasti. Negli Stati Uniti, dove ha debuttato nel settembre del 2005 sul
network Abc, Lost ha conquistato diciotto milioni di spettatori a settimana. Gli autori
di Lost hanno letto parecchio. E lo dicono. C'è parecchia letteratura dietro agli
27 episodi, tanti e diversi titoli ai quali J. J. Abrams (“papà” delle serie tv Felicity, Alias
e della pellicola Cloverfield) e Damon Lindelof si sono ispirati, da Alice nel paese
delle meraviglie di Lewis Carrol a The Arrivals di Naomi Smith, da La collina dei
conigli di Richard Adams a L'isola misteriosa di Jules Verne fino alle tentazioni più
horror di Il signore delle mosche di William Golding e L'ombra dello scorpione di
Stephen King. Apporti multiformi che si riflettono nei caratteri dei personaggi, in
particolare in quello di Charlie, ex rockstar caduta in disgrazia con qualcosa da
nascondere, e Kate, che si ritagliano presto il ruolo di guide e sostenitori del gruppo.
Lost si è aggiudicato il Golden Globe per la miglior serie drammatica 2006. In Italia
le prime tre stagioni sono state trasmesse dal canale televisivo a pagamento Fox
(visibile con la piattaforma SKY) in anteprima e replicate gratuitamente da Rai Due.
La quarta stagione è trasmessa in anteprima italiana sempre da Fox, dal 7 aprile 2008.
In Svizzera viene trasmesso dalla TSI a partire dal novembre 2007. Lost ha ottenuto
un notevole successo sia di pubblico che di critica, ricevendo diversi riconoscimenti,
tra cui il sopra citato Golden Globe ed un Emmy.Il produttore esecutivo della serie
Carlton Cuse, ha detto che fissare la data per il gran finale sarebbe stato l'ideale per il
team per sviluppare al meglio la storia con tutti i misteri e gli enigmi irrisolti.
Nell'intervista rilasciata, Damon Lindelof e Carlton Cuse spiegano: “Questa storia ha
un inizio, una parte centrale e una fine, annunciando esattamente quando la serie
finirà, sarà possibile far proseguire la vicenda nella giusta direzione al giusto
ritmo".Sempre Cuse proponeva il centesimo episodio come gran finale, quindi
l'arrivare alla quinta stagione. Il presidente dell'ABC si è dimostrato però contrario
dichiarando che, se fosse stato il caso, avrebbe cercato nuovi produttori per far
continuare la serie. Alla fine è stato raggiunto l'accordo ed è stato annunciata la fine
di Lost prevista per il 2010, con altre tre stagioni da sedici episodi senza interruzioni,
per un totale di quarantotto puntate, negli anni 2008, 2009 e 2010. Lo sciopero degli
sceneggiatori della WGA ha però condizionato la realizzazione di questo progetto:
28 prima dell'inizio dello sciopero, infatti, sono stati girati soltanto otto dei sedici episodi
previsti per la quarta stagione, che hanno cominciato a essere trasmessi a partire dal
31 gennaio 2008. In seguito, dopo la conclusione dello sciopero, i produttori della
serie hanno dichiarato di poter realizzare altri cinque episodi entro la fine della
stagione televisiva, portando così gli episodi della quarta stagione della serie a tredici.
Nella stessa sede, i produttori hanno dichiarato che le ore di programma mancanti
non saranno perse, ma saranno recuperate nelle due stagioni successive. Prodotto
dalla Touchstone Television, Lost è girato alle Hawaii, ogni puntata costa circa
quattro milioni di dollari (ma per la prima ne sono serviti undici milioni), e per la
scena dell'incidente aereo è stato utilizzato un Lockheed L-1011 Jumbo Jet, tagliato a
pezzi e trasportato sull'isola che fa da set alla serie. Fra gli interpreti alcuni volti noti
del cinema e di altre celebri serie tv, come Dominic Monaghan, l'hobbit Meriadoc
Brandybuck di Il signore degli anelli, Terry O'Quinn (Alias, Jag, The X-Files,
Roswell) e Emilie de Ravin (CSI Miami).
3.3 Travolti da un insolito destino…
“ …E se non facevamo u’ naufragio, come stavamo io e te eh? Io di sotto e te di
sopra. Io poveraccio nero e te riccaccia bianca. Io non ti passavo neanche per la testa.
Tu facevi la signora e io una specie di sottoschifo di cameriere. E ognuno al posto suo
va…Noi siamo una cosa che c ‘è solo perché siamo qua e basta. Passione disperata
perché siamo qua. La vorrei proprio vedere, la Sig.ra Lancetti passeggiare con questo
terrone vicino, a Milano, provatelo un po’ a immaginare. Vorrei proprio vedere
quanto ne rimarrebbe del tuo amore…”. Aveva visto giusto il povero Giancarlo
Giannini, alias Gennarino Carunchio, protagonista assieme a Mariangela Melato del
gender “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” della regista Lina
29 Wertmuller, datato 1974. Girato in un atollo in Sardegna e non proprio in un’isola
sperduta, la pellicola narra l’amore impossibile tra una ricca sig.ra del nord, Raffaella
Pavone Lancetti e il proletario meridionale Gennarino Carunchio. La coppia
Giannini-Melato, già collaudata con fortuna due volte (Mimì metallurgico, 1972;
Film d'amore e d'anarchia, 1973), funziona, specialmente nella sadomasochistica e
scatenata parte centrale. I due rappresentano stereotipi e difetti dell’Italia inizio anni
’80. Lei è una milanese con yacht, moglie di un industriale, uscita dai salotti snob di
Franca Valeri: spocchiosa e arrogante, ha i comunisti come il fumo agli occhi (le
piace tanto La Malfa da trovarlo sexy); lui, siculo e birba, odia i padroni: marinaio
preso in affitto, vorrebbe vederli strisciare ai suoi piedi. Il miracolo accade quando, in
alto mare su un gommone, per un guasto i due fanno naufragio, e sono costretti a
convivere in un’isola deserta. Sulle prime la donna continua a dar ordini, poi le parti
si invertono: Gennarino, che sa procurare fuoco e cibo, si ribella alle sue prepotenze,
e la obbliga a servirlo e a dargli del lei. Figuratevi Raffaella: inorridisce e scalpita, ma
ha fame e freddo. Di più: convinta dai ceffoni, come lui voleva s’innamora del suo
zotico Crusoe, che si rivela tenero e robusto. Sicché quando, dopo dilettevoli rotoloni,
lo yacht li rintraccia e corre a salvarli a, se non fosse per Gennarino che vuol metterla
alla prova, lei sceglierebbe la vita selvaggia. Invece riassapora i comodi di casa, e pur
con rimpianto dà al suo mozzo il benservito. Travolti da un insolito destino, i due
dimenticano la differenza di ceto, non solo, colui che precedentemente era nello
status di schiavo, pretende di essere tratttato come se fosse lui il padrone e di
vendicarsi di tutte le angherie subite a bordo dello yacht. In un luogo dove per
sopravvivere non contano né soldi, né ricchezze l’uomo che riesce a cacciare e
procurarsi del cibo è colui che detiene il potere. Esemplare la scena in cui la Melato
chiede a Giannini di venderle il pesce appena pescato, arrivando ad offrire anche un
milione di lire. Niente da fare. L’astuto Gennarino sa bene che in una situazione come
la loro i soldi non hanno alcun valore ed arriva ad umiliarla in tutti i modi, facendola
30 inginocchiare e urlandole: “Bacia la mano al padrone!” La pellicola offre interessanti
spunti di riflessione sull’uomo costretto a vivere per un periodo di tempo nella
Wilderness. Lontani dalle certezze materiali della società moderna, i due protagonisti,
in chiave talvolta comica, grottesca e anche drammatica, vengono spogliati della loro
identità e vivono un “miracolo”. Se non avessero naufragato sull’isola “magica”, i
due non avrebbero mai scoperto di cosa erano veramente capaci. Le loro esistenze
non sarebbero mutate. Cosa che effettivamente non capita alla sig.ra Lancetti. Nel
film la natura selvaggia fa da solo da sfondo, non può essere propriamente
considerata il terzo protagonista del racconto, dato che oltre al limpido mare d’agosto
citato nel titolo dell’opera, il paesaggio incontaminato risulta piuttosto anonimo. In
questo caso la Wilderness è solo il palcoscenico su cui si muovono i personaggi.La
Wertmüller, reduce dai trionfi americani, ci racconta in un film allegrotto e simpatico,
con parentesi di tenerume e torrenti di parolacce, dove qualche goccia di aceto volge
lo scherzo in apologo. Scritto e diretto dalla stessa regista con ironica fantasia, il film
è una strenna intelligente. Benché arranchi sul finale in cerca d’un epilogo non troppo
didascalico, il furbo congegno nasconde sotto la buccia d’una bella storia d’amore
bombe incendiarie. Fedele al tema a lei consueto, del conflitto fra i poveracci e i
potenti, ciascuno col suo patrimonio di debolezze, la Wertmüller predica infatti la
rivolta, ma insieme mette in guardia contro le trappole dell’ingenuità. Il suo
Gennarino è troppo convinto che le donne debbano ai maschi cieca obbedienza, è
troppo legato al mito della virilità del sottoproletariato, e anche troppo curioso dei
vizi dei padroni, perché la sua provvisoria vittoria non lo lasci deluso. Passata la
festa, Gennarino finirà servo di sua moglie. Ritrattista d’ottima scuola, Lina
Wertmüller spara le sue migliori cartucce nella pittura dei protagonisti, e fa centro.
Anche grazie a un Giannini e a una Melato ormai perfettamente affiatati, e ogni volta
capaci di darsi connotati freschi (qui lui, occhi da matto, ha accenti esilaranti, e lei
morbidezze nuovissime), il film ha tronco robusto e lieta fioritura. Gennarino che
31 incrudelisce sulla donna, e vuol farle pagare il fo di tutte le colpe dei ricchi, cui poi
corrisponde la passione di lei per il suo furibondo aguzzino, è un’allegoria che diverte
e morde, detta con un gusto del comico e una vivacità di stile molto azzeccati. La
Wertmüller sfrutta una condizione di vita estrema (un naufragio) per portare
all'eccesso le ideologie opposte dei due personaggi. Nel film sono presenti numerosi
errori attribuibili alla fotografia, per cui nella stessa scena cambia più volte la tonalità
dello sfondo. Del film è anche stato ricavato un pessimo remake dal titolo originale
Swept away, diretto nel 2002 da Guy Ritchie ed interpretato dall’allora consorte
Madonna e il figlio di Giannini, Adriano. La pellicola è stata un vero flop al
botteghino e si è guadagnata la statuetta dei Razzie Awards( premi cinematografici
ironici considerati gli “Oscar dei peggiori”) come peggior film dell’anno.
32 3. NATURA SELVAGGIA E CINEMA
“ …Sunshine or thunder,
a man will always wonder where the fair wind blows…”
(Jeremiah Johnson’s song)
3.1 Sopravvivere solo nel bosco, Man in the wilderness di Richard Sarafian
Nel 1971 il regista statunitense Richard C. Sarafian, conosciuto dai più per la sua
grande attività come sceneggiatore ed attore, dirige un inusuale ed efficace western,
Man in the Wilderness (Uomo bianco và col tuo Dio). Il film narra la drammatica
storia di un uomo che lotta per la sopravvivenza nell’ambito di una natura impervia.
Verso il 1820, una spedizione di cacciatori di pelli attraversa le foreste americane del
lontano Ovest, trascinandosi dietro un grosso barcone. Durante una battuta di caccia,
la guida del gruppo Zachary Bess, impersonata da Richard Harris, (reduce dal
successo di A man called horse dell’anno precedente), viene ferocemente assalita da
un orso. Il capo del gruppo, interpretato da John Huston (figura archetipa nonché
centrale del film: l’attore si unì al resto del cast due giorni dopo aver abbandonato le
risprese di The last run), timoroso di un attacco Indiano decide di lasciarlo quasi
esangue al suo Destino, non senza innumerevoli sensi di colpa per la sua scelta.
Malgrado le sue condizioni lo diano per spacciato, Bess familiarizza con la natura
33 selvaggia che lo circonda e dopo essersi guarito le ferite con piante officinali e
procurato del cibo, si rimette in forma prefiggendosi un solo scopo: vendicarsi degli
uomini che lo hanno lasciato in fin di vita nei boschi. Alla fine, il suo tentativo di
vendetta salverà la vita ai suoi compagni da un attacco degli Indiani e Bess potrà
tornare a casa da suo figlio con una maggiore consapevolezza delle cose. Scritto da
Jack De Witt, basato sulla storia vera del cacciatore di pelli Hugh Classa, Man in the
Wilderness narra dell’incredibile resurrezione di Zachary Bess, che come un
Robinson Crusoe martoriato, deve vincere la sfida di saper sopravvivere solo nella
natura più selvaggia. Si tratta di uno dei primi western in cui il tema centrale non è
rappresentato dal contrasto Uomo-Indiano o Bandito-Fanteria: focale qui è il rapporto
Uomo-Natura. E’ quest’ultima, d’altronde, la grande protagonista del film, grazie
anche all’utilizzo del formato Panavision: un formato cinematografico a 35 mm
anamorfico, con rapporto in stampa di 2,35:1 e in proiezione (mediante mascherino)
2,40:1, spesso confuso col più anziano formato Cinemascope, che vide la luce
all'inizio degli anni '60 dall'omonima azienda leader del settore. Si tratta del formato
attualmente più diffuso assieme al Academy Flat 1,85:1. Nella pellicola, la
Wilderness è presente sotto diversi aspetti: è crudele, come l’orso che con tenacia
aggredisce Bess trascinandoselo dietro per un bel po’ di strada; è il dolce coniglio che
fa compagnia al nostro eroe e gli ricorda il mancato affetto paterno nei confronti di
suo figlio; ma soprattutto è la salvezza, la terra in cui un uomo può rinascere una
seconda volta facendo forza solo sulle proprie capacità. Durante la battuta di caccia
all’inizio del film, un inserviente colpisce un cervo ferendolo solamente; dopodiché
afferma: “Non si può abbandonare un animale ferito, è la legge del foresta.” E sarà
cosi che Bess per cercare il cervo ferito verrà catturato dall’orso. Il suo senso di
dovere lo porterà quasi verso la morte ed egli diventerà l’animale ferito della frase
precedente, abbandonato dai suoi compagni. Il regista dimostra qui tutta la sua
sensibilità per il paesaggio, che può essere magnifico e ostile; dopo aver esordito con
34 alcune opere in Gran Bretagna, Sarafian torna in patria con un film western molto
visionario e insolito. E’ solo uno dei primi film che aprirà le porte a un magnifico
cinema basato sull’incontro tra uomo e natura selvaggia.
3.2 Una nuova etica ambientale, Never cry wolf di Carroll Ballard
“ Negli ultimi anni la regione artica è stata teatro di una catastrofe zoologica. Le
grandi mandrie di caribù che appena qualche anno fa contavano milioni di esemplari
sono sparite. Un ente governativo chiede che sia preparata una relazione tale da
giustificare scientificamente lo sterminio del sospetto colpevole – una creatura
conosciuta nella Storia, nel mito e nella leggenda come uno spietato assassino – il
lupo. Viste le enormi difficoltà pratiche, nessuno scienziato aveva mai di fatto
osservato dei lupi nell’atto di attaccare e uccidere i caribù. Quindi il compito
principale del Progetto Lupus era di inviare nell’ Ulkk qualcuno che seguisse un
branco di lupi per osservarne attentamente il comportamento.” Questo è l’incipit che
compare nel fotogramma iniziale di Never cry wolf ( Mai gridare al lupo), film del
1984, diretto da Carroll Ballard, poco noto regista statunitense, compagno di classe di
F.F. Coppola alla scuola di cinema dell’UCLA, esordisce come operatore in Guerre
stellari (1977) di G. Lucas. Il gusto per le immagini “dipinte” e la passione per gli
animali e gli spazi aperti, già evidenti nei primi documentari, ricorrono in tutti i suoi
film: Black Stallion (1979) descrive l’amicizia tra un ragazzo e un purosangue,
mentre Never cry wolf narra di un biologo alle prese con la natura inospitale del
Canada settentrionale. Tratto da un romanzo autobiografico del biologo Farley
Mowatt, la pellicola fu realizzata durante i primi anni ’80, quando la Walt Disney
Production, sotto la guida di Ron W.Miller, stava sperimentando l’utilizzo di trame
35 più mature per i suoi film. La premessa fondamentale del film è che la popolazione
artica dei caribù sta scomparendo, e che i lupi sono i primi ad essere ritenuti
colpevoli, anche se mai nessuno ha visto un lupo uccidere un caribù. Il biologo Tyler
Farley viene inviato per sei mesi fra i ghiacciai del Canada del Nord per cacciare e
studiare i lupi bianchi, accusati dalle Autorità di falcidiare i già scarsi branchi di
caribù. Depositato con le sue casse di viveri e di equipaggiamento da un traballante
aereo, pilotato dal bizzarro Rosie, Tyler comincia il suo lavoro. Si ambienta e si
organizza, dopo una serie di disavventure e di goffaggini: pianta la sua tenda non
lontano dalla tana di una famiglia di lupi bianchi, gradualmente si inserisce
nell'atmosfera determinata da asperità ghiacciate e da tundre sconfinate e impara, non
solo, a sopravvivere, ma anche a rispettare financo ad amare, i lupi e la natura
circostante. Tyler scopre che i caribù non sono decimati dai lupi, bensì da
sconsiderati ed avidi cacciatori, ma, soprattutto, grazie anche al positivo rapporto con
una famiglia di indigeni in eterno movimento, si integra perfettamente con la Natura,
che lo affascina per il suo equilibrio ed il suo silenzio pacificatore. Tyler è ora più
cosciente anche di sé come uomo avendo appreso la grande lezione della Natura: per
vivere, è anche necessario saper convivere. Film curioso, stimolante, “dal fascino
darwiniano” che porta a compimento la propria allegoria ambientalista con l’
avventurosa crudezza d'un Robinson Crusoe contemporaneo, ovvero un uomo di oggi
rieducato alla vita dalla spietata sopravvivenza in natura e dalle sue leggi misteriose e
inviolabili. Basato sulla vera esperienza di uno scienziato canadese, è calato in un
contesto quasi documentario in cui il protagonista cerca di farsi animale (mangia i
topi per ricavare le proteine necessarie, come i lupi) e alla fine celebra la propria
trasformazione in una sorta di cerimonia iniziatica, circondato dai caribù, in una
sequenza che non si dimentica facilmente. Nelle pellicola di Ballard è palese che non
solo i caribù e i lupi stanno scomparendo, ma gli stessi abitanti originari del luogo, gli
Inuit stanno perdendo la loro terra e le risorse che essa offre, mentre la nuova
36 generazione è attratta dai comfort del mondo moderno. Essi stanno tradendo cosa c’è
di buono e genuino in quella terra e sembrano disconoscere i miti e le leggende che
legano uomo e natura, come il racconto narrato dall’anziana Inuit, per cui dopo aver
sognato che un lupo ci strappa il cuore dal petto vuol dire che d’ora in poi egli è il
possessore della nostra anima. E’ stato scritto originariamente per lo schermo da Sam
Hamm ma la sceneggiatura fu alterata più volte ed Hamm finì per collaborare anche
con Curtis Hanson e Richard Kletter. Il film è anche degno di nota per esser stato il
primo film della Walt Disney a mostrare le natiche di un uomo adulto, quelle di
Charles Martin Smith. L’ attore protagonista fu devoto per quasi tre anni a Never cry
wolf. In un intervista egli affermò : “Ero molto più coinvolto emotivamente in questo
film che in qualsiasi altra pellicola. Non è stato solo recitare, ma scrivere e
partecipare all’intero processo creativo. L’intero percorso di realizzazione è stato
molto duro. Durante quasi tutti e due gli anni utilizzati per girare il film in Canada
nello Yukon ed a None, in Alaska, ero l’unico attore presente. E’ stato il film più
solitario in cui io abbia lavorato.” L. David Mech, un esperto internazionale di lupi
che ha effettuato ricerche sui lupi dal 1958, in luoghi come il Minnesota, il
Canada,l’Italia, l’Alaska nello Yellowstone National Park ed all’isola Royale, criticò
il lavoro svolto da Mowait, asserendo che quest’ultimo non sia in realtà uno
scienziato e che tutti in suoi studi, egli non si sia mai realmente imbattuto in un lupo
come invece sostiene nel suo libro. Nel programma televisivo Siskel & Ebert At the
Movies, Gene Siskel definì il film terrificante , mentre Roger Ebert disse: “ Questo è
uno dei migliori film che abbia mai visto sul rapporto tra esseri umani ed animali
sullo stesso pianeta.” Entrambi definirono la pellicola di Ballard sostanzialmente
riuscita. Il critico cinematografico di All movie guide, Brandon Hanley, apprezzò il
film, specialmente il lavoro di Smith e scrisse:” Il protagonista dei lupi è
splendidamente interpretato dall’attore Charles Martin Smith. Il risultato dell’opera
risulta una stranezza del destino, una genuina meditazione sulla vita”. Ronald
37 Holloway, critico cinematografico di Vogue scrisse una positiva recensione del film e
scrisse : ” …ideale per le masse lì fuori che amano i film di natura e anche per chi
non li ama.“ Alcuni critici trovarono la premessa del film un po’ difficile da credere.
Vincent Canby, critico per il New York Times scrisse :” Ho trovato difficile accettare
il fatto che il biologo, poco dopo che un aereoplano lo lasciò nel cuore di una natura
selvaggia ghiacciata, in una tempesta, decise di getto di abbandonare il suo lavoro
con la macchina da scrivere ed indossare guanti di lana tentando di classificare le sue
reazioni iniziali”. Canby aggiunse anche che il film era “perfettamente decente se
non un eccezionale adattamento cinematografico del best seller di Mowatt. Le
recensioni raccolte sul sito http://www.rottentomatoes.com/ riportano che tutte gli
undici articoli presenti danno un parere positivo. Sono presenti alcune differenze tra il
film e il libro di Mowat. Nel romanzo, il ruolo di Mike e Ootek è rovesciato, Mike è
davvero il fratello maggiore di Ootek (Ootek è un adolescente) ed Ootek parla un
inglese fluente e comunica apertamente con Mowait mentre Mike è piu riservato. Il
film aggiunge un elemento più spirituale rispetto al libro che è più una storia lineare.
La pellicola isola anche i personaggi mentre nel libro Mowatt incontra spesso persone
provenienti da diverse parti della rergione Artica. Inoltre nel libro, i lupi George ed
Angeline non vengono uccisi e il pilota dell’ aereo Rosie non porta investitori sul
luogo per costruirci una riserva. Etologico con intelligenza, un film da riscoprire.
38 4. UNA NATURA OSCENA E CRUDELE
“… And what’s disturb me is that on all the faces of the bears that Tredwell ever filmed I discovered no
affinity, no understanding, no mercy. To me there is no such thing as the secret world of the bears. In this
empty look there‘s a mechanics search interesting only on food. But for Timothy Tredwell this bear was a
friend, a saviour…”
(Werner Herzog) 4.1 La travolgente indifferenza della Natura secondo Werner Herzog
Nel 2003 l’aspirante regista ed attore Timothy Tredwell e la sua fidanzata Annie
Huguenard vengono sbranati da un orso mentre campeggiano in alcune aree remote
del Katmai National Park and Preserve, in Alaska. Dal 1990 al 2003 Tredwell si era
dedicato alla causa dei grizzly, cercando di vivere accanto a loro nel tentativo di
proteggerli e di indirizzare l’opinione pubblica verso la sua causa. Negli 1ultimi
cinque anni di permanenza Tredwell portò con sé una telecamera e realizzò oltre
cento ore di filmati. Da queste immagini il regista tedesco Werner Herzog ha ricavato
un documentario, The Grizzly man (2005), di straordinario impatto emotivo, dove lo
39 splendido e suggestivo paesaggio dell’Alaska fa da cornice ad un uomo che ha
dedicato gran parte della sua esistenza a salvaguardare l’esistenza dei grizzly.
Secondo Herzog, quella del regista è una "missione" che esige la messa in gioco
totale del proprio Io: si tratta di portare a compimento una performance al tempo
stesso fisica ed emotiva, da vivere fino in fondo, cercando costantemente i propri
limiti e scontrandosi, se necessario, con la natura più selvaggia e ostile.
Nessun altro regista è dunque più idoneo a riportare "le avventure dell’uomo dei
grizzly" di chi ha avuto l’ardire di far valicare una montagna a una vecchia nave (in
Fitzcarraldo) o di restare con la propria troupe in attesa dell’eruzione di un vulcano,
quando l’intera popolazione locale era già stata evacuata (La Soufrière). Il rischio, la
messa in gioco di sé, la volontà di potenza, la ribellione: sono temi che caratterizzano
l’intera filmografia di Herzog.Il suo è un cinema provocatorio, che sovente parte da
presupposti assurdi dai quali il cineasta si aspetta nuove verità. “ I film di Herzog non
hanno mai né eroi né poeti né mistici né ricercatori di realtà ‘separate’, ma sono
invece affollati di sordi, ciechi, muti, pazzi, handicappati, mostri, nani, oltre che da
animali di ogni genere…”(Ungari). Herzog, noto fin dai primi anni Settanta per le sue
opere di rara forza emotiva e valore sperimentale, ha compiuto con questo film un
ulteriore passo verso la codificazione del genere documentaristico, seminando una
serie di idee che aspettano solo di essere raccolte e sviluppate. Il regista non è nuovo
all’uso del found footage: nel film L’ignoto spazio profondo, grazie alla voce narrante
e alle musiche stranianti, aveva trasformato documentari della Nasa e riprese sotto la
calotta polare nel racconto di una fallimentare spedizione ai margini dell’universo. In
The Grizzly man l’uso delle immagini preesistenti è molto più tradizionale. Herzog
ricostruisce la storia aggiungendo, al materiale girato da Timothy, delle interviste e la
sua voce fuori campo che commenta ed interpreta. Egli ammira il caso che vi è nelle
riprese di Tredwell : “Una specie di magia misteriosa che interviene solo nel cinema”,
in cui vediamo volpi che si dispongono artisticamente nei vari piani dell’immagine; e
40 invita a cogliere i momenti in cui lo show sembra finito ma la camera rimane accesa,
e proprio allora coglie l’imprevisto, il “perturbante” e le immagini acquistano una
“vita propria”: è questa l’unica visione mistica in cui Herzog crede ancora. Tredwell,
aspirante star e regista di se stesso aveva un modo di riprendersi molto metodico,
poteva ripetere le riprese fino a quindici volte. Herzog mostra quello che Tredwell
probabilmente non avrebbe mai mostrato al pubblico (anche se il fatto di averlo girato
risponde ad una sua esigenza espressiva, se non artistica) con l’ovvia intenzione di
mostrare una realtà più vera e involontaria. Herzog applica il metodo anche alle
proprie riprese, come quando la mdp indugia sugli intervistati, dopo che più o meno
goffamente hanno recitato la loro parte. Il metodo utilizzato da Herzog si presta a
varie critiche, che la stampa anglofona non gli ha risparmiato: da un punto di vista
etico egli sfrutta il lavoro di un morto, lo spettacolarizza, si pone su un livello di
consapevolezza superiore e tratta Tredwell come un personaggio anziché una
persona, inserendolo in una galleria di folli a cui il suo cinema è abituato, da Kaspar
Hauser all’ingegnere inglese di Il diamante bianco. E’ quello di Herzog, un universo
di visionari, un mondo popolato da personaggi sradicati, la cui follia è il prodotto di
una disciplina basata sull’annullamento della personalità. Tredwell, però, è un pazzo
le cui debolezze sono fin troppo evidenti. Si tratta di un attore fallito che spesso delira
ed è in continuo conflitto con la civiltà degli uomini, oltre a scaricare le sue
frustrazioni sessuali nei suoi rapporti con le donne. Herzog intervista i suoi amici più
cari, la sua famiglia, la sua ex-fidanzata definendola “la sua vedova”, ma dà anche
voce senza alcuna pietà a persone che hanno buoni motivi per criticare Tredwell:
come il nativo americano che lo smonta sia con argomenti religiosi (non bisogna
varcare il confine invisibile tra uomo e animale) che ecologici (abituare gli orsi alla
presenza degli uomini vuol dire renderli preda più facili dei bracconieri). Ma se
Herzog, più che in altri casi, è ambiguo verso il suo soggetto, è anche vero che non
aveva mai interrogato cosi a fondo i limiti etici della visione. In Il diamante bianco,
41 Dorrington sfoga davanti alla macchina da presa il senso di colpa per aver provocato
involontariamente la morte di un amico. In un altro momento dello stesso film,
Herzog decide di non mostrare le riprese fatte da un free climber in una grotta sacra
della Guyana, rimasta inviolata dalla notte dei tempi. Qui però le cose cambiano.
Herzog si confronta con la registrazione di una morte vera: quella incisa sul nastro
della videocamera di Tredwell. “Non fece in tempo a togliere il tappo dall’obiettivo”
si dice nel film. Ciò risulta doppiamente inquietante: da una parte perché si immagina
Tredwell che, assalito dall’orso, pensa comunque di immortalare la propria morte
come i protagonisti di Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato; dall’altra perché il
caso ha voluto che quella registrazione, privata delle immagini e ridotta all’audio
fosse in teoria meno atroce. In realtà però la registrazione resta abbastanza atroce, al
punto di dissuadere Herzog dal far ascoltare il nastro a noi spettatori e da consigliarne
la distruzione a Jewel Palowak, la fedele amica di Tredwell che l’aveva conservato
senza mai ascoltarlo. La scena in cui Herzog ascolta la registrazione con le cuffie
davanti a Jewel è il centro morale e stilistico del film. Cinicamente ci può venir
voglia di pensare che sia stata messa in scena; o si può comunque accusare Herzog di
sensazionalismo o di ipocrisia, nella logica che è sempre meglio mostrare tutto
piuttosto che creare aloni morbosi di proibito. Il risultato estetico ed emotivo dà
naturalmente ragione ad Herzog. Anche se non sentiamo nulla (ma già ci sono stati
descritti tutti i particolari raccapriccianti da altri testimoni), l’orrore è insostenibile.
Ed è questo senso di orrore che Herzog vuole trasmettere: la travolgente indifferenza
della Natura, la crudeltà di un creato che è solo caos; e soprattutto l’idiozia
dell’uomo, perché solo una cosa non si può perdonare a Tredwell: avere portato con
sé la sua fidanzata che poi si è rifiutata di scappare. In Grizzly man il rapporto con gli
orsi avviene in due modi apparentemente inconciliabili e discrepanti: da una parte
c’è il protagonista della vicenda – “il biografato” Timothy Tredwell – che vive in
stretta comunione con gli orsi, che avverte verso di loro un’affinità elettiva, e trova al
42 loro cospetto quella felicità che nessun uomo o abitudine sociale è in grado di dargli;
dall’altra c’è il regista che confessa che lui nelle orbite vuote, liquide, degli orsi bruni
non vede altro che un istinto predatorio e la fame. Quegli occhi non nascondono una
profondità abissale. Sono una superficie piatta, inespressiva: non guardano, piuttosto
colpiscono anch’essi come artigli e addentano come mascelle. Sono occhi senza
spessore, occhi come sottili membrane su cui il dentro e il fuori non hanno tempo per
distinguersi: subito s’incontrano nella pulsione animale, nel puro appetito che cerca
appagamento. Herzog si chiede come possono questi occhi ispirare un sentimento,
comunicare qualcosa. L’uomo è un animale, ma come lo definisce Ernst Cassirer, si
tratta di un animale simbolico, che tenta di investire di senso la realtà intorno a sé. Va
da se che gli orsi secondo Tredwell non si riducono a grado zero dell’istinto,
significano qualcosa. Nella sua esperienza in Alaska, l’irrequieto Timothy tenta di far
conciliare il peluche borghese, che lo accompagna dalla prima infanzia, con il grizzly
selvaggio, l’animale reale. Il simbolo culturalmente depotenziato con la strapotenza
della fiera in carne ed ossa, la “parola” con la “cosa”. E si genera cosi una scissione,
una sfasatura tra il segno e il suo referente. Lo scarto viene evidenziato da due
diverse concezioni della natura, di cui si fanno rispettivamente carico Tredwell ed
Herzog. La voce narrante di quest’ultimo in particolare, spiega in un passaggio : “La
perfezione appartiene agli orsi. Ma ogni tanto Timothy si scontra con la dura realtà
della natura selvaggia. Questo stride con la sua visione sentimentalistica secondo cui
tutto là fuori è buono e l’equilibrio vive secondo una gioiosa armonia. A volte gli orsi
maschi uccidono i cuccioli per far smettere le donne di allattarli e averle disponibili
per la fornicazione […] Qui mi discosto da Tredwell. Egli sembra ignorare che in
natura ci sono i predatori. Io credo che il denominatore comune dell’universo non sia
l’armonia, ma il caos, l’ostilità e l’omicidio.” Altrettanto insopportabile per Tredwell
è la constatazione che gli orsi, quando ridotti alla fame, divorano i loro stessi piccoli.
In definitiva se Tredwell è convinto che la natura sia pervasa dall’amore e
43 dall’equilibrio, Herzog scopre in se stessa solo una volontà assassina. Il regista non
considera Tredwell un eroe di altri tempi, è evidente. Ma cosa intende farne allora?
Ridicolizzarlo? Guardare con un senso di pietà e con un sorriso amaro a un
personaggio che ha pensato di trasferire la sua visione arcadica e pacifica della natura
negli scenari selvaggi dell’Alaska? Il fatto è che per Herzog la “stupidità” di
Tredwell non è affatto vuota. L’animale, la natura tout court, sono ambiti di confine
in cui il senso, il linguaggio si avvicinano ai loro estremi limiti e riescono a dar forma
a questi limiti solo per viam negationis portandone sul proprio corpo le ferite, le
lacerazioni, le cicatrici, testimonianza di un linguaggio e di un senso che non si
chiudono autorefenzialmente su se stessi e al contempo non posso dire e determinare
compiutamente il “punto cieco” verso cui si aprono. Rimangono cosi spezzoni di
parole, barlumi di visioni, echi sotterranei di melodie. La natura, l’animale sono il
Finis Terrae della rappresentazione. E Herzog viaggia su queste terre perdute, ai
margini del senso, laddove le immagini e le parole pulsano ed esplodono a contatto
con il magma primigenio, e restano quale traccia di ciò che non può essere detto. Il
significato di cui Tredwell investe gli orsi non viene meramente annullato o
sconfessato da Herzog; diviene per lui un nescio quid: un non-so-che come sfondo
obliato e irrappresentabile della rappresentazione, come il suo humus segreto, che si
dis-loca continuamente nella rappresentazione quando quest’ultima rivendica
un’eccessiva consistenza. Tuttavia, se non si sa bene dove collocare la linea di
confine tra uomo e orso, è anche perché lo stesso uomo è diventato “enigmatico”. Se
Timothy vuole trasformarsi in orso è per interrogarsi come uomo. Tredwell ad un
certo punto della sua giovinezza deraglia e conosce la dipendenza dall’alcol e la
droga e a questo punto cerca di reinventarsi: si costruisce un nuovo personaggio per
prendere le distanze dal passato, da se stesso: si sdoppia. Ciò non toglie che egli
continui a portare dentro si sé il suo altro, i suoi demoni. E l’abisso invoca l’abisso. Il
paesaggio estremo e inospitale dell’Alaska è – nota Herzog – uno specchio
44 dell’animo turbolento di Timothy. Avventurandosi nell’estremo Nord egli cerca un
luogo in cui stare a ridosso dei suoi fantasmi, un luogo in cui poterli interrogare e in
cui poter mettere in discussione, sul modello della disobbedienza civile di Henry
David Thoureau e del conservazionismo di John Muir, l’ordine sociale e la civiltà. Al
contatto con la Wilderness rimanda anche l’immaginario del cowboy e del cinema
western evocato nel film. Dapprima viene mostrata una fotografia di Tredwell, in
abito scuro e bandana sulla testa, con la sua amica Jewel che lo chiama “il mio
cowboy”. Poi Herzog inserisce la canzone country Coyotes, scritta da Rob Medill e
cantata da Don Edwards. In essa si parla del tramonto del mondo dell’Ovest, eroso
dalla civilizzazione moderna. Tornando ad occuparci del nostro protagonista,
Timothy non era così ingenuo, sapeva quanto rischiava a contatto con gli orsi, e
ripetutamente allude all’idea di morire, di essere fatto a pezzi e decollato. Ma egli sa
anche che sull’orlo di questo baratro può fare i conti con se stesso, con la sua
interiorità già frantumata e sempre attratta dal caos. “Amo i miei amici animali” dice
“Amo i miei amici animali. E sono pieno di problemi.” In un caso fa un gioco di
parole in cui parla di una volpe come di un wild animal e di sé come di una wild
person. Qui proprio all’insegna della Wilderness, il nesso, il ponte che sembra
consentire di instaurare una comunicazione. Spesso Timothy si confida con i suoi
animali, gli confida che era alcolizzato, che ha tentato di tutto per smettere di bere,
ma che è riuscito a farlo solo quando ha scoperto gli orsi e l’Alaska, solo quando la
difesa degli animali gli ha dato una ragione di vita. Egli ha offerto il suo aiuto, a patto
che loro aiutassero lui, instaurando un’occulta e impronunciabile corrispondenza.
Timothy se ne va in Alaska col suo peluche di orso: senza quel peluche l’abisso
dell’origine diverrebbe puramente distruttivo. Di qui il tentativo di Herzog e di
Timothy, seppur inconsciamente, di restituire al linguaggio e all’immagine il brivido
della loro origine. E ciò accade soffermandosi su una soglia, a ridosso dell’indicibile
che sta nel dicibile: vuoi che sia il suono sottratto dello scontro mortale con il grizzly,
45 vuoi che siano le immagini negate del massacro. Lo scatenamento animale e il grido
primigenio di terrore dell’uomo fanno parte di una preistoria “irrappresentabile”, da
cui la nostra società ha provveduto a staccarsi. Quel grido disarticolato, se gridato di
nuovo, segnerebbe la fine della civiltà. Ma se non se ne captasse più il riverbero, la
civiltà sarebbe sradicata e in questo modo il peluche di Timothy, anziché
commuovere, tornerebbe a essere un banale reperto borghese. L'Alaska di Herzog è
quella dei nostri cuori, ultima frontiera da sfidare in cerca di qualcosa che giustifichi
la nostra stessa esistenza. In fuga da un mondo troppo complesso e denso di
delusioni, a capofitto verso un'illusione che si rivelerà mortale, Timothy insegue se
stesso rovesciando il mito del Buon Selvaggio sugli orsi grizzly dell'estremo
settentrione. La rappresentazione della vita degli orsi grigi (che a tratti non può non
ricordare L’orso di Jean-Jacques Annaud), pertanto, priva com’è di didascalismo e
tesa invece a captare “in presa diretta” tutto quanto avviene sotto l’occhio attento di
Tredwell raggiunge vertici di verosimiglianza e aderenza al reale che poche altre
volte si erano visti al cinema. La progressione narrativa, che ci avvicina sempre più al
momento della tragica e misteriosa morte del protagonista, è condotta esemplarmente
e, pur intervallando immagini di archivio e interviste, senza soluzione di continuità. Il
film è un lento scivolare verso la scontata (perché nota fin dall’inizio) e terribile fine,
la morte di Tredwell, avvenuta con tutta probabilità a opera di un orso estraneo alla
comunità che egli stava cercando di studiare. A ben vedere, tuttavia, la vera forza di
Grizzly Man non sta in questo; né nella potenza evocativa delle immagini, né nel
magistrale impatto drammatico delle interviste. Sta invece nella capacità di Herzog di
procedere costantemente sulla linea di confine tra realtà e finzione, elaborando – in
un film che solo apparentemente, parafrasando un saggio di Roland Barthes, è fermo
al “grado zero della visione” – un’attenta e acuta analisi sulle dinamiche che regolano
la sovrapposizione dei piani narrativi e l’estetica della rappresentazione filmica. Solo
in apparenza un passo indietro rispetto al celebrato “mockumentary” (documentario
46 in cui si mescolano realtà e finzione), ma a ben vedere un passo avanti, perché in
grado di cogliere l’essenza del problema: la verità della materia mostrata. L'idea per il
film non nacque da Herzog, bensì da Jewel Palovak, l'ex-compagna e collega di
Tredwell che compare nel film. Discovery Channel le propose di realizzare il film
con loro e lei accettò. Il produttore Erik Nelson, di Discovery Channel, incontrò
Herzog al Jacksonville Film Festival e lo convinse ad essere il regista del film.
Herzog ha affermato di aver accettato sia per l'interesse che ha suscitato su di lui il
personaggio (molto vicino ai tipici eroi folli herzoghiani), sia per la volontà di
iniziare una vantaggiosa collaborazione con Discovery Channel, per il quale, infatti,
ha già realizzato un altro film: Encounters at the End of the World. Per selezionare tra
i filmati di Tredwell (più di 100 ore) il materiale da inserire nel film, fu affidato a un
gran numero di persone il compito di visionare le registrazioni e di assegnare ad ogni
scena un voto da una a quattro stelle. Herzog ha poi visionato quasi tutto il materiale
da tre e quattro stelle, dal quale ha scelto cosa inserire nel film. La produzione del
film è durata complessivamente ventinove giorni, di cui nove per il montaggio. Il
commento è stato scritto e registrato da Herzog durante il montaggio. Il film ha vinto
numerosi premi come miglior documentario ed è stato presentato nella sezione
“Americana” del 23° Torino Film Festival.
47 5. IL MITO AMERICANO NELL’INCONTRO TRA UOMO E NATURA
SELVAGGIA
“Il paesaggio è un attore del film,
agisce sullo spettatore
anche se egli non se ne accorge.”
(Michael Cimino)
5.1 Jeremiah Johnson, L’uomo delle montagne
Nato a Lafayette, Indiana, il 1 luglio 1934, Sydney Pollack è stato uno dei più
apprezzati registi hollywoodiani, uno dei pochi ad essere sempre riuscito nella
difficile impresa di coniugare le esigenze del box office con l'impegno e l'eleganza.
Attore, regista e produttore cinematografico, appartenente alla schiera dei registi
della New Hollywood, è sempre stato attratto dal concetto di tempo, inteso come
dimensione interiore e come conflitto tra il passato e il presente. Dopo They shoot
horses, don’t they? (Non si uccidono così anche i cavalli?) del ‘69 dirige nel ‘72 il
suo secondo film western Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo),
con l’ausilio del suo attore feticcio Robert Redford. Il film è la perfetta antitesi del
precedente: in questo la natura premeva ai bordi dello spazio reclusivo nel quale i
48 suoi personaggi erano condannati senza scampo; nel film del ‘72 un unico
protagonista vive un’avventura senza meta partendo da “nessun luogo”, come dice la
canzone che accompagna il film:”…Jeremiah Johnson made his way into the
mountain, betting on forgetting all the troubles that he knew… “. Come asserì in
un’intervista lo stesso Pollack, il secondo grande protagonista del film è la montagna.
La natura tutta, grazie ancora all’uso del Panavision, rientra nel quadro del film non
come sfondo ma come partecipe dell’intera storia. Ancora vestito con i pantaloni
della cavalleria americana , veterano della guerra tra Messico e Stati Uniti (1846-48),
Jeremiah Johnson giunge in un territorio di frontiera scendendo da un battello.
Fornitosi di armi e dell’occorrente ad una vita di trapper (cavallo compreso), si
avventura nel territorio delle montagne, delle nevi e degli indiani. In un primo tempo
riesce a cavarsela, sia pure con difficoltà, davanti agli imprevisti e alle durezze della
vita solitaria che ha scelto. Dopo qualche periodo incontra un indiano che lo osserva
compiere i gesti quotidiani e si allontana. Successivamente si imbatte in un vecchio
ed eccentrico cacciatore che gli insegna a cacciare e scuoiare i grizzly. In seguito
giunge in una casa dove incappa in una donna, impazzita per lo sterminio della
famiglia – subito da parte degli Indiani –, e in suo figlio muto. Jeremiah porta con sé
il bambino e incontra un altro personaggio alquanto bizzarro, un cacciatore calvo,
sepolto nella terra sino al collo dagli indiani. Questi si unisce a loro, e i tre sorpresi
dai pellerossa si recano al loro accampamento. Là Jeremiah deve regalare il suo
fucile al capo, il quale in cambio gli dona sua figlia in sposa. Praticamente alla testa
di una specie di famiglia, Jeremiah saluta il cacciatore che va per la sua strada e,
scelto un luogo adatto, costruisce una casa iniziando una vita di serenità domestica
con la donna e il piccolo con i quali però non può comunicare a parole. Jeremiah che
era partito solo e che in solitudine voleva vivere, indignato dalla civiltà degli esseri
umani, vive un momento di gioia con la sua nuova irregolare famiglia. Ma come in
ogni narrazione cinematografica che si rispetti, tale felicità è destinata a durare poco.
49 Durante l’inverno arriva sul posto un gruppo di cavalleggeri americani sulle tracce di
alcuni civili rimasti bloccati sulla montagna; per raggiungerli, Jeremiah e i soldati
sono costretti ad attraversare, violandolo loro malgrado, il terreno sacro di un
cimitero indiano. Ritornando verso “casa” con un triste presentimento, Jeremiah
scopre che la sua “famiglia” è stata massacrata dagli indiani. Bruciata la casa, egli
ingaggia con questi una lotta serrata e senza quartiere, creandosi presso di loro la
reputazione di guerriero forte e temibile. Continuando a peregrinare, come in un
viaggio a ritroso, incontra di nuovo il cacciatore, questa volta coi capelli lunghissimi,
poi giunge a casa della donna pazza presso la quale incontra altri bianchi che vi
hanno trovato riparo. Là scopre anche la propria tomba preparata evidentemente dai
pellerossa. Infine, Jeremiah incontra il vecchio cacciatore una seconda volta, ed in
chiusura l’indiano che per primo aveva incontrato appena giunto in quel territorio.
Questi lo saluta con un bellissimo gesto solenne della mano. Jeremiah risponde.
Jeremiah Johnson è considerato uno dei capolavori di Pollack. La struttura
compositiva della pellicola è perfetta, i rapporti fra i suoi elementi costitutivi
impeccabili, la coerenza e la progressione dell’assunto lucidissime. Apparentemente
la pellicola narra in chiave picaresca le peregrinazioni pericolose di un uomo che ha
scelto la rude vita della natura selvaggia. Sembra, cioè, a prima vista incentrato sul
contrasto Natura/Cultura, ovvero una delle chiavi di volta di tanto western americano.
C’è il senso della peregrinazione, del trapper come wanderer, della scelta
consapevole di una vita non condizionata dagli orpelli della civilizzazione; c’è la
dignità del confronto con l’indiano, e il senso di un sacro elaborato da un’altra cultura
che, pur non vissuto, va rispettato. Questo e altro Pollack ha ricevuto in eredità dal
western classico. Ma in questo film silenzioso non conta la tradizione del genere. Egli
non vede nell’Ovest la celebrazione di un destino storico dell’America, ma al
contrario la figura fantastica, mitica, che un’intera generazione ha elaborato. In
Jeremiah Johnson, Pollack utilizza il genere western come grandiosa occasione per
50 stabilire i fondamenti teorici della sua visione del mondo e dl tempo, indicando –
insieme – come la mitizzazione cinematografica dell’epica western non può riferirsi a
nulla di storicamente circostanziato, ma anzi vive di un limbo ideale di esperienza
assoluta con sostanza squisitamente metafisica. La storia di Jeremiah si presenta
come un perfetto chiasmo (una delle forme in cui si manifesta la circolarità). Si tratta
di una falsa regressione, di una falsa linea retta: il percorso di Jeremiah è curvo, si
rivolge su se stesso e, a parte il proemio dell’arrivo, finisce nel punto da cui è partito.
Il centro geometrico del film è la parte che va dalla costituzione della famiglia alla
serie di scontri con gli indiani; il resto è pura simmetria, struttura a specchio che trova
una continua e precisa corrispondenza di elementi. Non solo Jeremiah nella seconda
metà del film, incontra le stesse persone e gli stessi luoghi incontrati all’andata, ma
l’iterazione avviene, appunto, in senso simmetrico, ovvero nell’inversione dei singoli
momenti della serie. La simmetria quindi non è solo quantitativa ma anche chiasmica.
Ciò è importante per comprendere il senso profondo del film. Il secondo grado di
lettura della pellicola verterebbe – in modo anche più esplicito che nei film precedenti
– sull’ormai usuale tema della circolarità, della ripetizione degli eventi, avallando
quell’eterno presente che nella concezione di Pollack sostituisce la Storia, e non solo
nel western. A questo fine concorrono altri momenti dell’opera: intanto la sensazione
del sacro, del numinoso come realtà del mondo. Il ritorno di Jeremiah attraverso il
cimitero indiano è in questo senso un momento di grande suggestione metafisica.
Esattamente come il regista aveva pianificato, nello spettatore affiora silenziosamente
la sensazione che qualcosa sta per accadere. E’ un classico “momento panico”, che
però acquista subito il suo significato: ciò che deve accadere non riguarda
direttamente Jeremiah, ma qualcos’altro che gli è connesso, ovvero la casa, la sua
strana famiglia. Per non dire, poi, dell’atmosfera fiabesca che permea alcune figure
del film: il vecchio Unghia d’Orso, il cui stesso nome è un chiaro riferimento
totemico che allude in modo diretto alla qualità iniziatica del rapporto di Jeremiah
51 con lui. Unghia d’Orso è esattamente quel che Jeremiah diventerà, quel che
coscientemente aspira a diventare, così come ogni iniziando guarda con reverenza a
colui che lo prepara per l’iniziazione. Nel quadro di Jeremiah Johnson rivive
quell’Olimpo americano che una nazione giovanissima si è trovata a dover inventare
bruciando in fretta tutte le tappe che la separavano dalla tradizione culturale europea.
Ed è un Olimpo, è una tradizione, che vive sullo scontro fra l’umano e il selvaggio,
fra l’antropomorfo e l’animale, esemplificata da quel pezzo da antologia che è
l’appassionato vanto del cacciatore incontrato la seconda volta. E’il classico
overstatement che caratterizza il tipico umorismo americano di frontiera, per cui ogni
particolare viene ingigantito fino a dimensioni mitologiche, tali appunto da renderlo
ridicolo nei discorsi sproloquianti del cacciatore. David Crockett che ammalia gli
orsi con un sorriso, Pecos Bill che prende al lazo un ciclone, Paul Bunyam che da
solo disbosca un’intera foresta: sono questi gli dèi della giovane America, e a questi
Pollack si è ispirato cogliendone la bivalente natura (sovra)umana e animale, prodotto
inevitabile di una vita vissuta a contatto con una natura ancora intatta, con quella
virgin land che era stata il sogno dei pellegrini puritani per costituirvi la vagheggiata
Comunità dei Santi, il nuovo Eden sulla Terra, e che sarà in seguito per tutti –
cacciatori, cercatori d’oro, famiglie nomadi, hobos – il miraggio di una nuova
esistenza in un “Paese di Cuccagna” vecchio come i sogni dell’uomo. Nell’Ovest
mito e realtà si confondono, ma non nei termini comodi e calcolati in cui ce li ha
passati la tradizione del Capitale. Il mito dell’Ovest partecipa perfettamente delle
figurazioni fantastiche della mitologia universale: la montagna di Jeremiah Johnson è
la montagna sacra di Eliade, lo Zigurat persiano, il punto di riferimento del divino.
Non si parla di Dio in questo film, ma la sua presenza è ovunque: i segni del
numinoso si rintracciano dappertutto, nella neve che cade sopra un fuoco; nelle parole
e nel pianto di una folle; nel canto di un indiano sconfitto; nelle inusitate ombre che il
protagonista incontra durante la sua “perfetta” peregrinazione; nel sacrilegio
52 dell’indian burial ground e nei suoi effetti; nella vita che traluce, persino dal corpo
quasi imbalsamato di un cacciatore morto di freddo; nell’incontro casuale con un
indiano; nell’apparizione quasi soprannaturale di un cavallo; nella scoperta – ultimo
momento di un cammino verso la rinascita – della propria tomba; nell’uso
estremamente avaro che si fa dei nomi propri. E’ un mondo davvero fuori dal Tempo,
in cui la progressione del biologico è misurata solo sulle stagioni, sul sole e sulla
neve, in cui sei dissolvenze incrociate bastano a darci il senso del suo passaggio,
mentre sullo sfondo delle relative immagini la natura cambia continuamente volto nel
suo ciclico ripetersi di forme. Ecco il terzo grado del film: un perfezionamento
dell’immagine pollackiana del cerchio che non si ferma a figura profonda del suo
cinema, come per gli altri film, ma che incarna il mutamento radicale del suo
protagonista da uomo della civiltà, da esponente della separazione cartesiana fra Io e
Natura, a parte del tutto nel quale egli si è finalmente identificato. E’ il tipico
percorso iniziatico, scandito da tutti i passaggi classici del mito: la chiamata,
l’aiutante, l’incontro con un personaggio assurdo, la donna, la morte rituale. Persino
la ferita simbolica quando Jeremiah è colpito da una lancia indiana. In questo mondo
il movimento è la condizione della salvezza, gli spazi aperti il teatro delle certezze. E
sempre, come un destino, l’immagine di un passato che ritorna: la seconda serie di
incontri, certo, ma anche la strage della famiglia che rimanda a quella della prima
casa incontrata, il motivo della pesca, la tomba che scava i morti e quella che porta
inciso il suo nome. L’universo di Pollack è un universo regolato da leggi
insormontabili poiché sono le leggi che presiedono ai movimenti del cosmo. L’Ovest
di Pollack è rappresentato come un vero mito, o meglio, il teatro del mito, il luogo
dove esso può attuarsi nella maniera più esemplare, al di là dei filtri che
innegabilmente ne condizionano strutture e ritmi del mondo contemporaneo, sia esso
una cittadina del profondo Sud, sia esso una grande metropoli anonima. A suo modo
il regista è riuscito a evitare le strettoie della tradizione del cinema western americano
53 narrando una storia di coraggio e di forza che non mira ad alcuno statuto ideologico,
una storia di natura che non vive il contrasto con la cultura nei termini falsamente
dialettici che sappiamo, una storia di indiani che non tenta né accuse né ricatti, poiché
ne inserisce l’immagine in un contesto storico che si pone come visione del mondo.
Inebriata dallo spazio dell’Ovest, la macchina da presa di Pollack, reimpiega i suoi
abituali stilemi ma solo per darci il senso della natura – essenziale all’assunto del film
– o quello della sorpresa che inevitabilmente la scoperta di una diversa
organizzazione del mondo comporta. Gli spazi ristretti (la casa) osservati sono
sempre e soltanto gli spazi del mistero: osservati con carrelli obliqui o con improvvisi
zoom, essi si configurano come momento di pausa e a volte di meraviglia; ma mai
però come protagonisti ideologici dell’azione. L’etica dei Ford, il senso della
comunità, il messaggio di civiltà e di affetti che lo spazio chiuso prima o poi
comporta in quel cinema è assente dalla visione che Pollack ha dell’Ovest. L’Ovest di
Pollack è quello in cui l’essere umano si scopre parte di un disegno che lo supera e lo
include. Il film è interpretato con esemplare adesione da Robert Redford nella parte
di Jeremiah Johnson e da Will Geer in quella di “Artiglio d'orso”. Si dice che questo
film si sia in parte ispirato alla vita del leggendario trapper “Mangiafegato Johnson”.
La sceneggiatura, di John Milius ed Edward Anhalt, è inoltre basata sul racconto
Crow Killer (L'uccisore dei Corvi) di Raymond Thorp e Robert Bunker e sul romanzo
Mountain Man di Vardis Fisher. La pellicola venne girata in varie località dello Utah.
Jeremiah Johnson è stato, ai suoi tempi, un film di grande impatto in quanto
proponeva una visione diversa del classico, stereotipato rapporto tra Bianchi ed
Indiani. Al riguardo, si legge nel Dizionario dei film Morandini: “È uno dei western
che inaugurarono una nuova tendenza del genere, con gli indigeni amerindi visti
come una cultura ostile all'estendersi della civilizzazione, ma non inferiore né
negativa. (...) Il conflitto tra la collettività dei legittimi padroni del luogo e la
necessità storica del pioniere scatena una dura lotta, ma sfocia nella necessaria pratica
54 della tolleranza. ”In Italia Jeremiah Johnson ha ispirato direttamente uno dei più
importanti fumetti western degli ultimi anni, Ken Parker, il cui protagonista ha il
volto di Robert Redford ed è anch'egli, all'inizio, un trapper. La pellicola è
menzionata nel romanzo Waiting for White Horses, di Nathan Jorgenson. Un
riferimento si trova nel titolo di un episodio di Farscape, Jeremiah Crichton dove
l'eroe si è perduto lontano dalla civiltà e deve vivere delle risorse della terra.
5.2 Chris McCandless e il sogno dell’Alaska
Un sogno lungo dieci anni. Tanto ha impiegato Sean Penn a realizzare un film sulla
storia vera di Chris McCandless, un giovane che scelse di abbandonare la vita agiata
in cui era cresciuto per ritrovare il contatto con la natura più selvaggia. Un progetto
rimasto così a lungo sulla carta a causa dei continui tira e molla della famiglia del
ragazzo, ancora troppo legata al ricordo di Christopher per vederne tradotta la vita (e
la morte) sul grande schermo. Ma Penn non si è dato per vinto e ha mantenuto vivo
per tutto questo tempo il contatto con loro perché, parole sue, “è una storia nata per
diventare un film”. Dieci anni d’attesa non è un periodo lunghissimo per Hollywood,
ma è pur sempre un tempo ragguardevole. E allora viene da chiedersi come mai un
regista saltuario come l’attore Sean Penn (quattro film ed un episodio diretti in sedici
anni) sia rimasto affascinato dalla storia di un ventiduenne che molla tutto per girare
55 l’America a piedi. La risposta si può trovare nella possibilità offerta da quella storia
di superare di slancio i limiti dell’aneddoto per aprirsi su una riflessione capace di
abbracciare i miti fondanti della cultura e della storia americana: la frontiera, la
wilderness, il confronto con l’altro, il distacco dalla famiglia, il rifiuto del
consumismo, la scommessa dell’autosufficienza, il nomadismo, il mistero di Dio..etc.
Ed in un cinema che troppo spesso sembra tagliar fuori il confronto con la Natura o
ridurlo ad una pura immagine di sfondo, la breve esistenza di Chris McCandless è
sembrata troppo ghiotta ad un autore che nei suoi film ha sempre cercato di
interrogarsi sui temi che hanno costruito l’identità americana. Il film narra con
meticolosa precisione gli ultimi anni di vita di Chris McCandless che, subito dopo la
laurea in scienze sociali, ottenuta nel 1990, abbandona amici e famiglia per sfuggire
ad una società consumista e capitalista in cui non riesce più a vivere. La sua
inquietudine, in parte dovuta al pessimo rapporto con la famiglia e in parte alle letture
di autori anticonformisti come Thoreau e London, lo porta a viaggiare per due anni
negli Stati Uniti e nel Messico del nord, con lo pseudonimo Alexander Supertramp (il
supervagabondo). Durante il suo lungo viaggio verso l'Alaska, incontrerà sulla sua
strada diverse persone, una coppia hippie, un giovane trebbiatore del Dakota, una
giovane cantautrice folk ed un anziano veterano chiuso nei suoi ricordi, a cui
cambierà la vita con il suo messaggio di libertà e amore fraterno e dai quali riceverà
la formazione necessaria per affrontare le immense terre dell'Alaska. Qui trova la
natura selvaggia ed incontaminata che, con il passare del tempo, gli fa comprendere
che la felicità non è nelle cose materiali che circondano l'uomo o nelle esperienze
intese come eventi indipendenti e fini a se stessi, ma nella piena condivisione e
nell'incontro incondizionato con l'altro. A conferma di questo Christopher, poco
tempo prima di morire, scriverà su uno dei libri che era solito leggere“Happiness is
real only when shared” : la felicità è reale solo se condivisa. Morirà, infine, di stenti
o di freddo (le cause sono tutt'ora incerte, ma è probabile che la morte sia dovuta ad
56 intossicazione alimentare, come mostrato nel film) in Alaska nel 1992 dopo aver
vissuto per centotredici giorni in un autobus abbandonato, che egli denominò Magic
bus. Nel suo cuore, prima di morire, riuscirà a vedere la luce del perdono per i suoi
genitori e riconoscere la sua vera identità in quanto Christopher McCandless. La luce
della verità e della redenzione di un uomo che ha sperimentato la libertà più estrema
alla ricerca di una risposta al concetto di felicità terrena. Nel suo viaggio
McCandless, portò con sé solo i libri dei suoi beniamini – Tolstoj, Thoreau, London –
decidendo più o meno consciamente di mettere alla prova le due grandi linee di forza
che hanno attraversato due secoli di cultura statunitense: il mito della Natura come
vera (e autosufficiente) fonte di vita e quello del darwinismo e della sua struggle for
life. Una conferma di questa interpretazione viene dalla struttura del film che Sean
Penn, autore anche della sceneggiatura, non ha costruito seguendo lo sviluppo
cronologico della “fuga” di McCandless, ma frammentando (e mescolando) la
linearità narrativa per mettere in evidenza alcuni momenti fondanti. Così noi
scopriamo subito che Chris riuscirà ad arrivare in Alaska, la tappa finale di un
viaggio dove spera di potersi finalmente confrontare con la Natura allo stato puro. Ma
abbiamo anche il tempo per approfondire alcuni momenti e alcuni incontri più o
meno importanti del viaggio, a cui il film affida il compito di vere e proprie
“divagazioni filosofiche” sui singoli aspetti della mitologia e della cultura americana.
Ecco allora l’esperienza della distanza attraverso gli spostamenti e i viaggi – in
autostop, in treno, soprattutto a piedi – dove misurarsi con la Natura come estensione,
come terreno di gioco. Oppure le pause di lavoro (Chris deve pensare a mantenersi, a
pagarsi l’equipaggiamento per l’Alaska), dove il film ci mostra un’ altra America,
agricola, ma soprattutto cameratesca, scanzonata, lontanissima dal perbenismo
borghese della famiglia McCandless. O l’incontro con Jan e Rainey, hippies un po’
fuori tempo massimo che offrono al protagonista il calore di un affetto totalmente
gratuito, senza autoritarismi o “ricatti sentimentali”. O ancora la componente più
57 selvaggia e inquietante della Natura, come le rapide del Gran Canyon, i fiumi in
piena dell’Alaska, la mancanza di cibo. Alcuni critici hanno visto un parallelismo tra
la storia di Chris McCandless e quella di Timothy Tredwell, protagonista del
documentario The Grizzly man di Werner Herzog. Anche in questo caso una natura
che era vista come salvezza e felicità si rivela crudele ed indifferente. Tredwell (di cui
ho parlato in precedenza), venne ucciso dall’animale che considerava quasi suo
fratello; McCandless, non adeguatamente equipaggiato, senza alcuna preparazione
alle condizioni estreme che avrebbe incontrato, morì in seguito ad un’intossicazione
alimentare. Egli mangiò una pianta velenosa di nome hedysarum mackenzii
scambiandola per una buona, l’ headysarum alpinum e pare che questo errore fu
fatale per il suo organismo. La natura selvaggia che tanto aveva bramato, l’Alaska di
cui parlava agli altri con tono quasi puerile, lo aveva tradito, si era presa gioco di lui.
Il viaggiatore infatti, dopo aver beneficiato delle meraviglie del paesaggio naturale ed
incontaminato, s'immerge sempre più nella solitudine, fino a sfidare le stesse
possibilità di sopravvivenza: la wilderness è libertà e verità, ma rappresenta anche il
rischio e la minaccia ultima. In una scena ai limiti del sublime, McCandless, ormai
stremato dalle privazioni, si trova di fronte un gigantesco orso bruno: forse affamato
quanto lui, eppure non minaccioso. Qui Penn dà forma definitiva al mito dell'incontro
tra due creature libere nel Paradiso Perduto, nostalgia lacerante di un'intera cultura
tutt’ora in lutto per la perdita dell'innocenza e che, promotrice della “civiltà”, ad essa
annette un irredimibile senso di peccato. Il film ha una valenza politica nonostante
questo non sia l'intento di base. Alle volte, si trasforma in un vero e proprio atto di
fede il cui credo fugge da tutto ciò che è religioso in senso stretto per trovare sfogo in
una dimensione che è solo e unicamente personale. Tutti le persone che Chris
incontrerà lungo il suo peregrinare oltre a colmare un vuoto familiare, fonte di
profonde sofferenze, amplificano l'idea di un percorso a stadi funzionale a liberarsi da
qualsiasi dipendenza da ogni tipo di comfort e privilegio. L'acquisizione della
58 saggezza avviene quasi per osmosi attraverso la spontaneità e la profondità degli
incontri fatti. Più maturo e disinvolto nel lavoro registico, Penn gioca di forti contrasti
nell'alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati, al costante senso di vuoto
del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell'enormità della natura. Il film è
tratto dal bestseller Into the wild di Jon Kracauer: grande narratore di avventure
estreme, egli divide il suo volume titolando i capitoli secondo le varie tappe
geografiche percorse da McCandless. Penn decide di manifestare subito il vero
intento dell’impresa, che pur volta alla ricerca di un contatto autentico con la Natura
quale necessario compendio del rifiuto di ogni superflua ed effimera costruzione
consumistica, è innanzitutto esplorazione delle regioni più intime dell’interiorità.
Perciò scandisce la narrazione – che pur si dipana in un’alternanza della permanenza
nelle terre d’Alaska alle numerose avventure del viaggio che parte da Atlanta – in
capitoli che chiariscono da subito la natura iniziatica del percorso. Un grande roadmovie che è al tempo stesso metafora di un nuovo ciclo vitale, dalla nascita al fine
ultimo raggiunto, nonostante le immancabili difficoltà e il tragico esito della
prolungata erranza: la conquista della saggezza. Il tópos della wilderness, largamente
frequentato da cinema e letteratura americani, accanto al suo significato romantico
acquista un alto valore politico – come del resto era legittimo aspettarsi dall’autore –
allorché sottolinea come, oltre alla ricerca estetica, è l’abiura dai principi in cui ha
vissuto ed è cresciuto a muovere il protagonista, alla maniera di un altro dei grandi
autori a lui cari, che non cesseranno mai di accompagnarlo e motivarlo (come
dimostrano i numerosi libri e le annotazioni su di essi riportate nel bus 142, rifugio
alaskiano). Un ultimo elemento che dà continuità al film è la musica, che Penn ha
avuto in mente fin dall’inizio, indicando già dalla sceneggiatura molti temi musicali e
canzoni. Alla fine la colonna sonora è risultata composta dalle canzoni originali e
musiche di Eddie Vedder (Pearl Jam), e dai brani di per chitarra di Michael Brook e
Kaki King. “Man mano che andavamo avanti con le riprese, ho cominciato a sentire
59 la voce di Eddie Vedder come l’anima di Chris McCandless” racconta Penn. A detta
dello stesso, “ le canzoni di Vedder sono venute fuori in uno stile essenziale,
spontaneo, in sintonia con lo spirito on the road del film. La musica – intima ed
emotiva – sottolinea ancora di più la profondità e l’affascinante complessità degli
interrogativi che McCandless si è lasciato alle spalle con la sua morte. Una cosa che
si riflette anche in una frase scritta da Penn alla fine della sceneggiatura. Dice: “Chris
è morto da vivo.” Quando gli si chiede di spiegarla, il regista sintetizza così: “Avendo
vissuto, Chris vive ancora dentro di noi”. Il bestseller di Jon Krakauer, Into the wild,
è stato pubblicato per la prima volta nel 1998 ed è diventato un istant classic della
letteratura degli spazi selvaggi. Il libro ha conquistato lettori di ogni estrazione e
provenienza indagando sulla vita si Chris McCandless. Chi egli fosse, quali luoghi ha
visitato e come ha trascorso quei memorabili centotredici giorni nel territorio
selvaggio dell’Alaska e con poche provviste, ecco la storia indimenticabile raccontata
da Krakauer nel suo libro, estensione di un suo articolo per la rivista Outside
Magazine. Alpinista e amante dell’avventura, attratto lui stesso dall’altitudine e dal
rischio, Krakauer ha affrontato la storia di McCandless con piglio molto personale,
quasi maniacale. Ha cominciato col chiedersi come mai tanti giovani americani
fossero così attratti dal rischio, e in che modo i problemi famigliari e la ricerca di una
vita autentica e piena di significato si intrecciassero nelle loro storie. Denso di
mistero e di cruda intimità, il libro è avvincente anche se affronta temi impegnativi: il
ruolo della natura selvaggia nell’immaginario americano, i legami e le schiavitù dei
rapporti famigliari, il conflitto fra un rozzo individualismo e il bisogno di amore e
vicinanza, e le contraddizioni dell’idealismo con la sua miscela di spinte egualitarie e
arroganza. Il risultato è un bestseller esploso ben oltre i confini del suo genere, e
apprezzato non solo come opera letteraria ma anche per i temi sollevati che sono
subito stati al centro di un vivace dibattito. Il critico letterario Christopher LehmanHaupt ha scritto sul New York Times che Krakauer ha preso gli elementi controversi
60 della storia di McCandless e ne ha fatto “ un dramma struggente sul tema del
desiderio umano”. Oggi, lo stesso Krakauer crede che, indipendentemente dalla
riuscita del suo libro, Chris McCandless resta certamente un emblema dei grandi
quesiti irrisolti della vita moderna. “Uno dei motivi per cui ho deciso di scrivere il
libro è che mi sono identificato con Chris e mi sono sforzato di capirlo – anche se non
pretendo di esserci riuscito fino in fondo” spiega Krakauer. “ Chris non era un
ragazzo come gli altri. Era molto egocentrico. Era ostinato, impetuoso. Ma era anche
puro di cuore. E la cosa straordinaria, di lui, è che non accettava compromessi. Aveva
grandi ideali, un forte senso di rettitudine morale. Credeva che la sua missione nella
vita fosse quella di abbandonare la via più facile. Molti lo hanno giudicato
semplicemente un pazzo incompetente e irresponsabile – perché si sono chiesti, non
si è portato un’accetta e una radio, andando in Alaska? Ma a loro Chris avrebbe
risposto: “non sarebbe più stata un’avventura”. In un mondo come quello odierno,
dove su una mappa non ci sono più spazi vuoti, Chris ha lasciato a casa tutte le
mappe. La pellicola Into the Wild ha ricevuto ottime recensioni da parte della critica.
Le recensioni raccolte sul sito www.rottentomatoes.com riportano 83% di recensioni
positive su 155. Il critico del Chicago Sun-Times, Roger Ebert ha dato al film quattro
stelle definendolo: “affascinante” ed elogiando la performance di Emile Hirsch,
definendola come una “interpretazione ipnotica e una grande prova d'attore”, lodando
inoltre il lavoro eseguito da Sean Penn. L'American Film Institute ha inserito il film
nella lista “ AFI Movie of the Year” del 2007, inoltre il National Board of Review lo
ha incluso tra i dieci film dell'anno. In Italia il film ha incassato 5.050.093 € ed è
rimasto in programmazione nelle sale per tre mesi, un vero record di questi tempi.
Alcune polemiche sono nate a causa della scena dello scuoiamento di un alce, il tutto
ripreso in primo piano. Paolo Spicacci, rappresentante dell'Enpa nella commissione di
revisione cinematografica del Ministero dei Beni Culturali, ha chiesto il taglio della
scena, che a detta di Spicacci disturba la sensibilità di chi ama gli animali e lede la
61 dignità degli animali stessi. Inizialmente la produzione ha tenuto a sottolineare che
l'animale in questione non è stato ucciso espressamente per realizzare la scena, ma
che è stato vittima di un incidente stradale, in seguito alle polemiche l'American
Humaine Association ha certificato che l'animale in realtà non è vero. 62 BIBLIOGRAFIA
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TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO NELL’AZZURRO MARE DI AGOSTO(1974)
Regia: Lina Wertmüller; Sceneggiatura: Lina Wertmüller; Fotografia:Giulio Battiferri ;
Musica: Piero Piccioni ; Montaggio: Franco Faticelli ; Interpreti: Giancarlo Giannini,
Mariangela Melato,Riccardo Salvino, Isa Danieli, Aldo Puglisi, Anna Melita
;Produzione: Medusa Romano Cardarelli ; Durata 125’
CAST AWAY (2000)
Regia: Robert Zemeckis; Sceneggiatura:William Broyles Jr. ; Fotografia:Don Burgess ;
Musica:Alan Silvestri ; Montaggio:Arthur Scmidt ; Interpreti: Tom Hanks, Helen
Hunt, Chris Noth, Michael Forest, Nan Martin, Dennis Letts, Aaron Rapke, Joe Conley;
Produzione: 20th century fox, Dreamworks, Image Movers, Playtone UIP; Durata: 143’
MAN IN THE WILDERNESS (UOMO BIANCO VA COL TUO DIO 1971)
Regia: Richard C.Sarafian; Sceneggiatura: Jack De Witt ; Fotografia (Technicolor):
Gerry Fisher ; Musica: Johnny Harris ;Montaggio:Geoffrey Foot ; Interpreti: Richard
Harris ; John Huston , James Doohan , Henry Wilconxon ; Produzione:Production
Company ; Durata: 104’
THE GRIZZLY MAN (2005)
Regia: Wener Herzog; Fotografia: Peter Zeitlinger; Musica:Richard Thompson, Jim
O’Rourke; Montaggio: Joe Bini; Interpreti: Franc G. Fallico, Amie Huguenard, Timothy
Treadwell, Werner Herzog, Jewel Palovak; Produzione: Discovery Docs ; Durata: 100’
JEREMIAH JOHNSON (CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO 1972)
Regia: Sidney Pollack; Sceneggiatura: John Milius, Edward Anhalt dal romanzo
Mountain Man di Vardis Fisher e dalla novella Crow Killer di Raymond Thorp e Robert
Bunker; Fotografia (Technicolor, Panavision): Duke Callaghan; Musica: John
Rubinstein, Tim McIntire; Regia della 2° unità: Mike Moder;Interpreti:Robert Redford
, Will Geer , Delle Bolton ,Stefan Gierasch ; Produzione:Warner Brothers (U.S.A);
Durata: 108’
66 NEVER CRY WOLF (MAI GRIDARE AL LUPO 1983)
Regia: Carroll Ballard ; Sceneggiatura: Curtis Hanson, Sam Hamm, Richard Kletter
dall’autobiografia di Farlay Mowat ; Fotografia:Hiro Narita ; Musica: Mark Isham;
Montaggio:Michael Chandler, Peter Palasheles ;Interpreti: Charles Martin Smith, Brian
Dennehy, Zachary Ittimangnaq; Produzione: Amarok Production LTD ; Durata:105’
INTO THE WILD(NELLE TERRE SELVAGGE 2008)
Regia: Sean Penn; Sceneggiatura: Sean Penn dal romanzo di Jon Krakauer Nelle terre
estreme; Fotografia:Eric Gautier ; Musica:Michael Brook, Kaki King, Eddie vedder;
Montaggio:Jay Cassidy ; Interpreti: Emile Hirsch, Marcia Gay Harden,William Hurt,
Jenna Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Kristen Stewart, Hal
Holbrook; Produzione: Paramount Advantage, River Road Entertainment; Durata: 148’
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