Comments
Transcript
“LA SEDUZIONE DELLA WILDERNESS. IL CINEMA E IL MITO
“LA SEDUZIONE DELLA WILDERNESS. IL CINEMA E IL MITO DELLA NATURA SELVAGGIA” Introduzione 3 1. La Natura Selvaggia e L’uomo 6 1.1 Definizione di Wilderness 1.2 Le origini della Wilderness 9 1.3 Thoureau e il lago Walden 12 1.5 Pensare la Wilderness oggi 14 2. Isola deserta:un esempio di Wilderness 19 2.1 Robinson Crusoe: un modello di Wilderness? 2.2 Sopravvissuti sull’isola che forse non c’è 24 2.3 Travolti da un insolito destino…. 29 3.Natura Selvaggia e cinema 34 3.1 Sopravvivere solo nel bosco, Man in the Wilderness di Richard Sarafian 1 3.2 Una nuova etica ambientale, Never cry wolf di Carroll Ballard 4. Una natura oscena e crudele 36 41 4.1 La travolgente indifferenza della natura secondo Werner Herzog 5. Il mito Americano nell’incontro tra uomo e natura selvaggia 51 5.1Jeremiah Johnson, l’uomo delle montagne 5.2 Chris McCandless e il sogno dell’Alaska 58 Bibliografia Fimografia 2 Introduzione C’è qualcosa nel mare che mi affascina e spaventa allo stesso tempo. Mi piace immergermi e bagnarmi, anche fino all’altezza dal collo ma non sono mai riuscita ad andare oltre. Guardare l’orizzonte e vedere che questa enorme macchia blu si estende ben al di là di ciò che il mio sguardo possa concepire mi imprime soggezione. Eppure l’uomo ha passato i primi nove mesi della sua esistenza nuotando nel feto materno e lasciarsi abbandonare fra le onde non è forse l’equivalente di ritornare a quello stato primordiale da cui siamo venuti al mondo? Più facile a dirsi che a farsi. Ho deciso di separare gli individui in due categorie: quelli che hanno paura di entrare in mare e quelli che non sanno neanche nuotare ma si tuffano da altezze elevate alla ricerca di quel emozione che si prova quando si chiudono gli occhi e si salta giù. La prima categoria di persone vive di certezze prestabilite ed è convinta che la felicità maggiore sia data dai rapporti con gli altri esseri umani. Un ritratto piuttosto comune, mi sembra. Gli “altri” invece si svegliano la mattina pensando solo al presente ,senza essere illusi dal miraggio di quanto deve ancora venire che è indicato come domicilio della felicità, credono che la società odierna stia man mano distruggendo l’individualità degli esseri umani (con ottimi risultati finora) e che la massima gioia sia da ricercarsi nella natura, o meglio nella natura più incontaminata, non quella da cartolina o da riserva naturale, ma quella estrema, la cosiddetta Wilderness. La Wilderness è un luogo dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso, in cui una varietà di esseri, viventi e non, si manifestano secondo il loro ordine interno. Chi di noi non ha mai osato sfidare la madre Terra anche solo per arrogarsi il diritto di sentirsi forti? Esiste forse nel globo un uomo che non ha mai cercato il tremito di 3 rimanere nudo, spogliato delle proprie potenzialità e in balìa di forze ad egli sconosciute? Sebbene la mia paura per l’acqua non credo mi abbandonerà mai, poco tempo fa ho deciso di fidarmi del mare e stendermi sulla sua superficie vellutata chiudendo gli occhi. E’ spaventoso e così innaturale trovarsi sospesi, con lo sguardo rivolto al sole. All’inizio il cuore mi batteva all’impazzata poi ha cominciato a calmarsi e gli occhi aperti stavano osservando il mio corpo che insolitamente galleggiava sulla grande macchia blu. Ci ero riuscita, avevo sfidato il grande gigante Golia e avevo vinto. Anche se uno splendido mare limpido non è l’equivalente di una terra incontaminata allo stato brado, la sensazione del principiante che si avvicina per la prima volta all’ignoto è simile. In principio ci si chiede il motivo per cui se un uomo è nato per camminare sulla terra ferma, in acqua, è preferibile imparare a nuotare, e perché se è destinato ad essere un animale sociale, a volte sente il bisogno di scomparire ed addentrarsi nei luoghi più selvaggi. Poi gli ambienti che ci sembravano ostili diventano nostri amici, dimentichiamo quello che eravamo prima per affrontare nuove sfide e raggiungere nuovi traguardi. Alla fine accade che la ragazza terrorizzata dal mare non vuole più uscirne, e l’uomo che ha imparato ad apprezzare la bellezza del bosco non vuole più far ritorno nella grigia civiltà. La Wilderness rappresenta la coscienza primordiale dell’uomo. La parte istintiva del cervello. Quando l’uomo moderno cessa di vivere secondo la ragione, la Wilderness fa il suo ingresso. La natura selvaggia è il luogo dove secondo la legge della giungla e la selezione naturale di Charles Darwin, è il più forte a sopravvivere. E’ colui che combatte costantemente contro la paura e i suoi demoni, che accetta le sfide e ne esce usando l’astuzia, l’audacia, la forza fisica anche, ma mai servendosi di elettrodomestici, gingilli futili e terapie psichiatriche. Nella Wilderness per sopravvivere bastano poche cose: un coltello, un fucile per andare a caccia e degli abiti adeguati al luogo, il resto è tutta opera dell’ingegno umano. Se l’uomo avrà rispetto della Terra allora la gioia che ne potrà ricavare sarà immensa, poiché l’amore 4 è onnipresente in natura come motivo e ricompensa. Solo a contatto con la natura selvatica l’uomo perderà il suo antropocentrismo e si inginocchierà davanti alla supremazia della madre Terra. Forse troverà una nuova redenzione, come la guida Zachary Bess nel film di Richard Sarafian Man in the Wilderness o sarà piacevolmente sorpreso dai lupi come il biologo di Never cry wolf. L’ex-soldato di Sidney Pollack invece, Jeremiah Jonhson, diverrà una leggenda vivente e otterrà il rispetto degli Indiani, mentre il più recente Tredwell di The Grizzly Man verrà divorato dall’animale che tanto venerava per poi incarnarne lo spirito. Infine ci sarà il giovane Chris McCandless, protagonista di Into the wild, che a soli ventidue anni abbandonò famiglia e carriera per vivere la sua grande avventura in Alaska. Cinque grandi film che narrano la storia di altrettanto grandi uomini. Individui che hanno reso la Wilderness il luogo di liberazione dell’istinto e quello ostile in cui trovare la morte. In ognuna di queste pellicole la natura è co-protagonista degli attori principali, ci ha commosso e spaventato ma di certo non lasciato indifferenti. Dedico questo mio umile lavoro a tutte le persone che sentono il bisogno di vivere avventure forti, emozionanti e talvolta pericolose, perché quando la ragione avrà sopraffatto del tutto l’istinto, allora la specie umana si potrà considerare estinta. 5 1.NATURA SELVAGGIA E UOMO “Che qualcuno mi mostri un luogo la cui vista risulti insopportabile a qualsiasi civiltà” . (Henry D. Thoreau) 1.1 Definizione di Wilderness Il Dizionario di Inglese, Hazon 2006, definisce Wilderness: ” deserto, solitudine, landa, lontano dal potere, messo in disparte, riserva naturale e zona naturale.”.Ciò che viene da chiederci immediatamente è; in un mondo dove siamo costantemente visti dai satelliti presenti nell’universo, è possibile parlare ancora di natura selvaggia e inesplorata? Non solo, che cosa significano oggi per noi i termini ”Selvaggio ” e “Natura” ? La parola natura viene dal latino Natura: nascita, costituzione, carattere, corso delle cose e deriva, in ultima analisi da Natus,”nato”.La parola viene usata in due sensi leggermente diversi. Nel primo la natura è : il “mondo al di là delle soglie delle umane abitazioni.”, il mondo fisico che include tutti gli esseri viventi non umani ed è indipendente dalla civiltà e dalla volontà umane” ; la macchina, l’artificio, 6 l’invenzione e tutto ciò che è straordinario vengono detti “innaturali”.L ‘altro senso, più ampio è quello di ” mondo materiale o insieme delle cose che lo compongono ” che comprende i prodotti dell’azione e dell’intenzionalità umana. Come agente la natura viene definita “ la potenza creatrice e regolatrice che si ritiene operi nel mondo materiale e sia la causa immediata di tutti i suoi fenomeni”. Per quanto concerne il termine Selvaggio, l’Oxford English Dictionary propone questi significati della parola Wild: di animale: libero, dotato delle proprie caratteristiche naturali, che vive nell’ambito dei sistemi naturali ; di pianta: che si riproduce e si sviluppa da sé, secondo qualità innate ; di terra: disabilitata, non coltivata, un luogo dove la flora e la fauna interagiscono pienamente e le forme della terra derivano interamente da forze non umane ; di raccolto: spontaneo, prodotto senza coltura ; di società: non civilizzata , rozza, ingovernabile, il cui ordine è cresciuto all’interno e si mantiene in forza del consenso e della tradizione, piuttosto che di una legislazione esplicita; cultura primaria, che si considera abitante originaria ed eterna del proprio territorio; società che resiste al dominio economico e politico della civiltà; società la cui economia è in stretto rapporto con l’ecosistema locale ; di individuo: sregolato, insubordinato, licenzioso, dissoluto, non intimidito, autonomo, indipendente, libero; 7 di comportamento: violento, distruttivo, crudele, sregolato, senz’artificio, libero, spontaneo, che resiste fieramente a ogni oppressione, delimitazione o sfruttamento ; I dizionari definiscono Wild in larga misura in termini di ciò che, da un punto di vista umano, non è .Questo approccio dunque non riesce a vedere ciò che è. La parola Wilderness (mondo selvatico, natura incontaminata), già Wyldernesse, da Wildeornes, forse derivante da Wildeer-ness (deo, deer indicava il daino e altri animali della foresta), ma più probabilmente daWildern-ness (ness significa promontorio, capo) ha queste definizioni: un’ampia estensione di terra selvatica, con la sua flora e faune originarie, che può andare dalla giungla o foresta tropicale alle bianche distese nevose delle regioni alpine o artiche ; un terreno incolto,inutilizzato, o inutilizzabile per l’agricoltura o la pastorizia ; uno spazio di cielo o di mare ; un luogo pericoloso o difficile, dove ci si muove a proprio rischio, contando sulle proprie capacità e senza possibilità di soccorso ; questo mondo, contrapposto al cielo ; un luogo di abbondanza, come in John Milton: “ a Wilderness of sweet”, una distesa di dolcezze”. 8 Il senso che il poeta inglese John Milton da alle parole coglie molto bene la situazione di energia che spesso caratterizza la natura intatta. Wilderness sono i miliardi di piccoli scombri e aringhe nell’oceano, i chilometri cubi di semi delle piante erbacee nelle praterie, l’incredibile fecondità dei piccoli animali e delle piante che nutre l’intera rete della vita. Per un altro verso, Wilderness richiama il caos, l’eros, l’ignoto, il tabù, l’ambito a cui appartengono sia l’estasi sia il demoniaco. In entrambi i sensi è un luogo di potere archetipico, di apprendimento e di sfida. Gli antichi romani avevano un aggettivo, il cui senso ormai abbiamo perso, per descrivere questa capacità della natura selvaggia di incutere timore reverenziale e rispetto per ciò che sfugge alla nostra comprensione, di suscitare il senso del meraviglioso e dello stupore sacro: “numinous” (da “numen”). Qualcosa di simile è stato poi il “sublime” romantico e la concezione di Wilderness degli scrittori e poeti americani dell’ottocento. 1.2 Le origini della Wilderness L’America, il continente più giovane della Terra, ha costruito la propria identità sul concetto di Wilderness. Esso è infatti il tema fondante delle arti figurative, della letteratura e del cinema americano. Merito certamente della presenza di paesaggi vasti e grandiosi, la sua pittura di paesaggio è da considerarsi tra i momenti più gloriosi del secolo scorso. Per quanto invece riguarda la fotografia, è d’obbligo citare Roger Cutforth che negli anni ottanta esplorò il tema delle sequenze nelle fotografie paesaggistiche, scegliendo luoghi di difficile accesso, lontani dalla civiltà, nelle 9 regioni occidentali degli Stati Uniti o il ben più noto Ansel Adams, celebre fotografo di paesaggi americani, famoso anche per il suo impegno a favore della natura. E che dire del cinema? Uno dei principali generi che caratterizzano il cinema americano è il western, un genere molto apprezzato, originale rispetto alle cinematografie europee, che si fa principale e più esplicito portavoce dell’ideologia: “l’espansione americana verso il West alla ricerca di una Nuova Frontiera, non riguarda solo la conquista di un territorio ma soprattutto l’identificazione in uno spirito di avventura e in un universo di valori che la cultura della vecchia Europa non sapeva, o non poteva più esprimere, pur potendone rivendicare un’antica, indiscussa paternità” (Albano Lucilla). I primi film western furono girati all'inizio del XX° secolo e, come tutte le produzioni dell'epoca, esclusivamente in studio. Quando però l'evoluzione tecnologica consentì le riprese anche in esterno, le ambientazioni scelte per il western cominciarono fin da subito ad essere scelte tra gli angoli più desolati e selvaggi della California, dell'Arizona, dello Utah, del Nevada, del Colorado o dello Wyoming e ben presto il panorama stesso non rappresentò solo uno sfondo per la vicenda ma un elemento portante del racconto. Anche le aree Wilderness, di cui parlerò più oltre, sono sorte per la prima volta in America, più precisamente nel 1964, anno in cui il Wilderness Act, scritto da Howard Zahniser, sancì la nascita del sistema nazionale di tutela delle aree Wilderness; nel 1999 seguì il Lands Legacy Iniziative, documento proposto dal presidente Bill Clinton nel quale si stabiliva che le aree Wilderness negli Stati Uniti coprono più di cinque milioni di acri. Insomma, un’intera cultura creata sulla celebrazione della natura selvaggia, per dare carattere e individualità a un popolo che, non avendo tradizioni alle spalle, se ne è dovuta trovare necessariamente una, passando attraverso pensatori come Ralph Waldo Emerson, considerato “ il filosofo della natura”. Ralph Waldo Emerson, saggista, poeta e filosofo molto popolare, è l’ispiratore e il teorizzatore di quella corrente filosofica fiorita specialmente a Boston e chiamata “Trascendentalismo Americano”. Egli attinse il suo pensiero da diverse 10 correnti di pensiero: il Romanticismo inglese e tedesco, il neoplatonismo, il kantismo e persino l’Induismo. Intere generazioni di scrittori e intellettuali americani risentirono della sua influenza, a partire dal suo amico scrittore Henry David Thoureau fino a John Dewey, senza tralasciare che anche Friedrich Nietzsche ne apprezzò esplicitamente gli scritti e dedicò gran parte della sua riflessione ai temi del nostro, in particolare alla potenza, al fato, alla poesia, alla storia e alla critica del Cristianesimo. Risale al 1837 uno dei suoi testi più rinomati, Nature. Si tratta di un saggio, un discorso diviso in otto capitoli sul rapporto intrinseco tra le due parti dell’universo: la natura e lo spirito, il concreto e l’astratto, le anime individuale e universale, il micro e il macrocosmo. La corrispondenza delle due realtà pone in nuova luce la natura. Quest’ultima è fondamentale per cogliere la verità e il significato dello spirito. La natura diviene un tramite ineliminabile per comprendere i significati dell’universo. Ne Lo Studioso Americano un discorso tenuto il 31 agosto 1837 per la “Phi Beta Kappa Society” di Cambridge, Emerson afferma che l’intellettuale è educato dalla natura, dai libri e dall’azione. La natura è la prima sia per cronologìa (è presente da sempre) che in ordine di importanza. Dietro la varietà delle forme naturali si celano infatti le stesse leggi fondanti che governano la mente umana: la disciplina dalla quale la natura è regolata è una preziosa fonte d’insegnamento per l’uomo. Un altro principio che si trova spesso negli scritti di Emerson, è quello della “Potenza”, concetto che esalta la figura dell’uomo ”duro ” che vive seguendo le proprie regole. Il power cui si riferisce Emerson conserva più un carattere artistico-intellettuale che politico-militare. Un passaggio del saggio recita infatti: “Il momento più alto della storia umana fu quello in cui l’uomo da poco aveva abbandonato il suo stato selvaggio, il momento in cui la sua rude forza primitiva era tutta diretta verso il nascente senso di bellezza. E qui abbiamo Pericle e Fidia, prima del trapasso nella civiltà Corinzia. La potenza si trova tutt’intorno a noi, ma non è sempre possibile controllarla. E’come un uccello che si libra nell’aria senza meta, 11 passando incessantemente di ramo in ramo.” Rimane comunque l’accentuazione naturalistica a dare un’incisività particolarmente “americana” alla filosofia di Emerson; è in particolare la natura degli States, il Nuovo Mondo, con la sua vastità spaziale – “un’ampiezza geografica che abbaglia l’immaginazione” – e le sue grandiose proporzioni, a rappresentare l’espressione divina del suo pensiero filosofico. 1.3 Henry David Thoureau e il lago Walden Se Ralph Waldo Emerson è colui che ha gettato le basi per una futura dottrina della Wilderness, la svolta definitiva avvenne il 9 agosto 1854 a Boston, quando il filosofo americano Henry David Thoureau pubblicò il suo più grande successo, Walden or Life in the woods e fece avvicinare migliaia di lettori al mondo della natura con frasi come: “I santuari della Wilderness sono l’estremo desiderio dell’uomo civilizzato.” Walden è il resoconto di due anni di vita solitaria nella campagna del Massachusetts che Thoureau trascorse fra il luglio del 1845 e il settembre 1847. E tuttavia è il testo a cui oltre un secolo più tardi faranno riferimento i movimenti ecologisti e ambientalisti di mezzo mondo. Si tratta di un semplice diario che all’esperienza intima unisce la descrizione della vita quotidiana, materiale, fatta di suoni, silenzi, paesaggi reali e immaginari. Tra le righe in cui questo maestro mette in scena la semplicità della vita tra i boschi, scopriamo anche perché Thoureau è colui cui si ispireranno Gandhi e le centro-culture contemporanee, che lo rileggeranno e rielaboreranno, magari criticandolo ma assumendolo come punto di partenza. Uscendo apparentemente dal 12 mondo, il personaggio di Thoureau si pone come rappresentante di una nazione che comincia a lasciare il suo segno indelebile sulla società. L’importanza di Walden è da attribuirsi alla sua attualità, alla ricerca di uno stile di vita sostenibile, alla conquista di un rapporto paritario uomo-natura ed infine alla critica ad una società definita “del lavoro e dell’abbondanza”. Secondo il pensiero di Thoureau, nella natura c’è un elemento che coinvolge Spirito e Materia allo stesso modo, una sorta di sintesi fra i due opposti. Questa sintesi è ciò che il filosofo chiama “selvatico”. Dosi abbondanti di selvatico rieducano l’individuo a sentire la vita e a sconfiggere i rischi dell’individualismo. In Walden, dunque, si racconta la presa di distanza dalla società nella ricerca di una dimensione più autentica. L’edificazione della capanna, l’autoproduzione dei mezzi di sussistenza con la coltivazione della Terra, l’immersione nella fisicità del Corpo e della Natura, in cui lo stagno viene visto come “l’occhio della Terra, guardando il quale l’osservato misura la profondità della propria natura”. L’acqua del lago come la parte più intima dell’essere umano non ha bisogno di recinti che ne proteggano la purezza, la bellezza e la capacità di sopravvivere. E allora sono l’attenzione, il mito, l’ideologia che fanno parlare Thoureau di deliberately, altra parola chiave: un’esperienza deliberata, ponderata, consapevole a ogni passo, che nell’estasi della comunione con la natura lascia sempre uno spazio per l’uso della ragione. 13 1.5 Pensare la Wilderness oggi Oggi la Wilderness è divenuta una forma di pensiero, una filosofia di vita, un approccio all’ambiente naturale in cui entrano in gioco numerosi fattori, particolarismi e soprattutto iniziative ad personam. L’essenza della Wilderness è quella di operare per conservare la natura cosi com’è, andando al di là delle problematiche esclusivamente ecologiche e tentando di risanare il rapporto uomonatura, senza mai perdere d’occhio le implicazioni antropologiche e filosofiche che tale impegno determina. La natura selvaggia va quindi vista come occasione per conoscere il mondo selvaggio dal quale la nostra specie deriva e che non può ignorare. Aldo Leopold (1887-1948), uno dei padri del movimento ecologista americano e internazionale, puntualizzava che: “Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era data per scontata fino a che il progresso non ha cominciato a portarsela via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto tenore di vita valga il suo costo in cose naturali, libere e selvagge.” Il degrado prodotto dagli interventi sull’ambiente è tale da generare il più profondo pessimismo in ogni uomo che abbia un po’ a cuore lo stato di salute del pianeta in cui vive. Oggi, inoltre, l’interesse per l’ambiente è spesso contrassegnato da una visione antropocentrica: per cui la salvaguardia dell’ambiente risulta subordinata ai bisogni dell’uomo. I danni prodotti dall’inquinamento ci spaventano poiché poniamo come referente la nostra specie e i nostri modelli culturali. Questa visione non è aderente alla filosofia Wilderness, che al contrario si impegna a mantenere il rispetto e la conservazione della “natura in sé”, senza tener conto delle relazioni connesse all’esclusivo interesse umano. In apparenza, la Wilderness, è intravista come un’opportunità di approccio alla natura in diretta opposizione al modus vivendi attuale, basato sulla velocità e sulla quasi totale assenza di contemplazione dell’ambiente circostante. Pensando a Shakespeare si 14 potrebbe dire che entrare nel mondo Wilderness equivale ad abbandonare “le ansie e le doglie dell’oltraggiosa fortuna”, è guardare la vita da un altro punto di vista, meno frenetico e più equilibrato. Gli attivisti della Wilderness sono invece convinti che questo tipo di osservazione ci conduce a cercare i luoghi selvaggi e quindi a penetrarli in punta di piedi, lasciando che il luogo “parli”, dando a ognuno delle emozioni. Quelle emozioni che attivano in noi qualcosa di primordiale, sul piano della percezione razionale ma anche su quello estetico. Per favorire questa crescita culturale dell’uomo in diverse parti del mondo sono state create “Aree Wilderness”, piccole nicchie atte alla conservazione di un patrimonio naturale che può essere tale solo se lasciato selvaggio. In Italia ci sono venti associazioni in sei regioni, una di queste è la Mountain Wilderness ( www.mountwild.it). Nell’autunno del 1987, un nutrito gruppo di alpinisti, provenienti da ogni parte del mondo, si riunì a Biella, su invito del Club Alpino Accademico e della Fondazione Sella, per definire le strategie necessarie a contrastare il progressivo degrado delle montagne del mondo e degli ultimi grandi spazi desertici. I convenuti produssero e sottoscrissero un documento finale, di importanza storica, noto come “La tesi di Biella” e approvarono la costituzione di un nuovo movimento organico, a carattere internazionale, al quale venne dato il nome di “ Mountain Wilderness - Alpinisti di tutto il mondo in difesa della Montagna”. Da allora l’associazione ha continuato a operare in questo senso aprendosi sempre di più anche al mondo extra- alpinistico , diffondendosi tra la gente che vive normalmente la montagna, che intende proteggerla e impegnarsi per essa, tra chi ricerca e vive nella montagna intensi valori. L’associazione intende promuovere un vissuto diverso di montagna: montagna non solo come luogo di divertimento e consumo, ma come luogo culturale in cui portare e vivere valori ecologico- ambientali, istanze etiche, sentimenti d’ idealità forti; montagna come luogo in cui sperimentare incontri diretti con i grandi spazi e in cui vivere libertà, rispetto, solitudine, integrità e ritmi propri. L’ Area Wilderness è quindi un luogo 15 privo di strade e di moderne costruzioni, la sua denominazione ha origini americane ed è legata al concetto di conservazione dell’ambiente naturale, omonimamente definito, che mira alla salvaguardia degli ultimi territori e zone non antropizzate del mondo, mediante un duraturo vincolo di tutela. Fondamentalmente, un’Area Wilderness si distingue per il fatto di consentire un uso umano che non divenga mai di massa e quindi rovinoso per l’Ambiente e fastidioso per lo stesso visitatore; una limitazione all’uomo fatta non per punirlo o negargli il diritto alla frequentazione di luoghi, bensì per migliorarla, affinché divenga di totale appagamento per tutti, riservando a ognuno il diritto di godere delle stesse situazioni ambientali in identiche situazioni psicologiche. Nella maggior parte di queste Aree è stato interdetto il diritto di scalata, proibite le motoslitte, i kayak e i gommoni, al fine di contribuire al mantenimento dello stato di natura selvaggia che certi sport estremi mortificano, secondo quell’arroganza tipica dell’antropocentrismo, in continua “gara” con la natura. Vivere in una cultura della Wilderness è sempre stato un aspetto fondamentale dell’esperienza umana. La natura non è un luogo da visitare, è casa nostra. Un territorio i cui luoghi ci sono più o meno famigliari. Esistono anche regioni impenetrabili e remote, ma tutte sono conosciute ed hanno un nome. Lo scrittore trentino Mario Rigoni Stern alcuni fa scrisse un articolo su un quotidiano italiano in cui suggeriva di nascondere, o per lo meno di non divulgare, l’esistenza di aree considerate in qualche modo”integre”, ancora non travolte dal turismo di massa. Ma per quale motivo dovremmo sentirci investiti da tale privilegio di selezione , decidendo che un certo spazio alpino non deve essere “inquinato” da un altro essere umano? Probabilmente alla base di questa presunzione selettiva c’è una forte aria di integralismo ecologico. E’ necessario non trasformare la natura esclusivamente in un’officina di speculazione filosofica, perdendo di vista la sua fisionomia e soprattutto i suoi bisogni. I sostenitori della Wilderness sono contrari a chi utilizza la natura solo come palestra del corpo o come spunto per dare forma ad ansie 16 intellettuali, senza contare i molteplici utilizzi distruttivi perpetuati senza sosta dall’uomo: ciò serve solo a sfruttare l’ambiente senza dare nulla in cambio. Rispettare la natura selvaggia significa lasciar da parte l’egocentrismo e provare a non addomesticare la natura. Comprendere l’importanza di questa incontaminazione corrisponde a comprendere perché Buck, il cane di Il Richiamo della foresta di Jack London (1876-1926), lasciò gli uomini per vivere coi lupi: metafora che ben si attaglia alla filosofia Wilderness, interpretabile oggi come una sorta di fuga dalla nostra società. Nel teatro della natura, quindi, dobbiamo imparare che spesso il nostro ruolo è quello di comprimari: altri sono i protagonisti, vincolati ad un meccanismo a cui, comunque, non possiamo imporre procedure e andamenti atti a variarne gli ancestrali equilibri. Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra tutto il mondo era Wilderness, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a sé stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita. La Wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione, o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova Wilderness nel vero senso della parola è impossibile. La capacità di comprendere il valore culturale della Wilderness sta divenendo in ultima analisi una questione di umiltà intellettuale. Il presuntuoso pensiero dell’uomo moderno si è distaccato dalle sue radici con la terra, e sostiene di avere già scoperto cosa è importante e cosa no. Certe aree naturali vanno salvate solo perché hanno diritto di continuare a perdurare nel tempo così come sono giunte a noi, modificate solo dalla lenta evoluzione delle forze della natura o da quelle primitive dell’uomo, e non perché siano ‘usate’ dall’uomo di oggi in senso materiale stretto. L’uomo deve porsi dei limiti precisi oltre i quali di principio non permettere più il minimo intervento modificatore e deve avere la forza e la volontà di tirarsi indietro anche come visitatore non appena la sua 17 presenza tende a modificarne lo stato fisico, o anche quello psichico del visitatore stesso, che deve sempre godervi le sensazioni di un rapporto di solitudine con la natura selvaggia. 18 4. ISOLA DESERTA: UN ESEMPIO DI WILDERNESS? “Non può esistere ritorno senza una permanenza in un’isola magica, solo un paese incantato può prepararti al miracolo definitivo e finale del tuo, del porto da cui eri partito.” (Roberto Muussapi) 1.4 Robinson Crusoe: un modello di Wilderness “ Isola della disperazione”, così Robinson Crusoe, protagonista dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe (1660-1719) indica l’isola in cui fu costretto a iniziare una nuova esistenza dominata dalla solitudine e privata di tutti quei privilegi che la vita civile gli aveva concesso. L’isola “orribile e desolata”, non lontana dalle foci dell’Orinoco, è il territorio della sua salvezza dopo il naufragio in cui hanno perso la vita tutti suoi compagni di viaggio. Immediatamente, quel mondo selvaggio ed inospitale risulta una sorta di inferno dominato dalla perdita della civiltà; in quel mondo sconosciuto, l’uomo che ha sfidato il mare deve subire la sofferenza determinata dal suo allontanamento dalle regole di una vita “normale”, in armonia con le prerogative tipiche del modello borghese. Robinson, senza ascoltare i consigli del padre, che non lo voleva per mare, salpa in direzione dell’avventura, affidando il 19 proprio destino alla natura. E la natura si prende quel giovane ch insegue la vita libera e gli impone una sorta di rito di passaggio attraverso la pesante prova della vita sull’isola deserta. Egli deve imparare sulla propria pelle che l’avventura è scandita da livelli, che non esiste un modello assoluto, unico e aderente alla visione teoretica. E cosi impara a cacciare, a costruirsi case e oggetti indispensabili, a studiare il territorio senza alcuna speranza di modificarne la fisionomia, ma accettandone completamente il suo dominio. Per queste e altre prerogative, il personaggio creato da Defoe può essere considerato un modello di Wilderness, ma non tanto un modello di vita, in quanto oggettivamente ai limiti della sopravvivenza per la maggior parte di noi, ma un esempio didattico importante. Infatti, Robinson ci induce a comprendere soprattutto il potere e la forza della natura, dimostrando i limiti dell’uomo e che il suo antropocentrismo crolla miseramente quando vengono a mancare quei valori fittizi contrabbandati come fondamentali. Significativamente, in numerose opere di Defoe ricorre quasi come un’ossessione il tema della ricerca del denaro e della sua accumulazione: un mito che travolge l’uomo come una maledizione biblica. In Robinson Crusoe questo processo subisce una sorta di evoluzione, il naufragio diviene archetipo di un bisogno minimo di arricchimento: le priorità del protagonista adesso sono effettive e circoscritte a pochi ed elementari bisogni. Robinson impara a costruire e non solo a consumare: anche i detriti del quotidiano assumono un valore eterno. Tutto si rivela fondamentale per l’esistenza. Defoe scrisse la sua opera più famosa a sessant’anni, quando aveva alle spalle una vita contrassegnata da lunghe esperienza esistenziali e di lavoro. L’inseguimento del denaro non aveva condotto a nulla? Forse il mito aureo aveva mostrato la sua banalità? E’ possibile. Anche senza forzare l’interpretazione di Defoe, con le avventure del suo naufrago, pone in evidenza la necessità dell’uomo di non dimenticare mai di essere parte di una realtà di più ampie dimensioni, in cui è sempre la natura a prevalere. La prima edizione di Robinson Crusoe apparve a Londra nell’aprile del 1719 e nel giro di tre mesi furono 20 stampate tre edizioni; nell’agosto dello stesso anno apparve la seconda parte, anch’essa ristampata in breve tempo e un anno dopo la terza parte. L’impianto diari stico, con un linguaggio semplice ed addirittura disadorno, non riduce il valore dell’opera di Defoe, anzi, da un punto di vista didattico, è nella condizione di dotarla di maggiore forza. Al di là di quale fu l’effettiva intenzione dell’autore, da molti critici Defoe è stato considerato un autore che per guadagno scriveva di ogni argomento" e che costruì il suo famoso personaggio servendosi delle memorie di Alexander Selkik, un marinaio scozzese che visse alcuni anni in solitudine su un’isola deserta vicino a Juan Fernandez, le avventure di Robinson Crusoe costituiscono un’ottima occasione di riflessione. L’uomo che ha perso coscienza, eticamente e praticamente, delle proprie relazioni con l’ambiente, si comporta come Robinson Crusoe: impara a rispettare la natura e nello stesso tempo avverte lo stordimento della solitudine, determinata dall’allontanamento dalla più comoda e battuta via del benessere. L’avventura dell’”uomo nei boschi” è in fondo tutta chiusa nella solitudine perché scegliere la via del bosco( dell’isola, o di qualunque altro luogo che esprima la natura selvaggia) corrisponde a riconoscere il dominio della natura. Un atto di modestia che in pochi sono disposti ad effettuare. La maggior parte delle letture contemporanee di Robinson Crusoe hanno fatto di questo romanzo il luogo in cui scorgere l’affermazione del modello ideale dell’uomo moderno, della middle class. Nell’Emile, Rousseau enfatizza il ruolo dominante dell’autosufficienza dell’uomo:”Robinson nella sua isola, solo, senza l’aiuto dei suoi simili e degli strumenti di tutte le arti, che riesce tuttavia a provvedere al suo sostentamento, alla sua conservazione, procurandosi anche un certo benessere; ecco un argomento interessante per qualsiasi età e che può essere reso piacevole per i ragazzi.” Per Kant, Robinson era la vivida rappresentazione dell’età dell’oro in cui gli uomini vivevano in una sorta di Eden. Molto teoricamente, Kant invocava il ritorno ad una dimensione esente dal “disgusto della vita civile”. Insomma, un mondo impossibile quello di 21 Crusoe: uno spazio destinato ad essere deserto come quello dell’isola perduta nell’oceano lontano. Il romanzo di Defoe più di altre opere in cui il rapporto dell’uomo con la natura selvaggia è dichiarato e prospettato con toni quasi programmatici, offre al lettore particolarmente attento l’opportunità per riflettere concretamente su che cosa sia effettivamente la Wilderness. E’ l’ambiente privo di ogni forma di antropizzazione, in cui la creatura più evoluta può solo adattarsi a regole esistenti da sempre, senza pensare di riuscire a dettare le proprie leggi. Il naufragio di Crusoe può essere metafora di molti altri naufragi: ognuno prima o poi viene scagliato su un’isola deserta dove le sorti cambiano e vengono richieste energie nuove per dare un senso all’esistenza. Oggi il naufragio collettivo è costituito dalla crisi dell’ambiente naturale: solo il ripristino del mondo selvaggio può fornire all’uomo gli strumenti per riprendere coscienza delle effettive risorse della natura e dei limiti insiti nel suo essere. Sentirci un po’ Robinson può essere un mezzo per salvarci la vita. Dobbiamo arrenderci ai ritmi degli alberi e delle acque; non possiamo pensare che le certezze delle scienze costituiscano per forza il modo migliore per essere nell’ambiente e nella storia. Robinson Crusoe non problematizza questa istanza che oggi non può essere ascoltata, ma esprime in modo elementare il dramma dell’allontanamento dalla natura. Lo pone in rilievo dando comunque qualche speranza, perché alla fine Crusoe riesce a radicarsi nell’ambiente, acquisendo quelle certezze che, agli occhi degli altri, fanno di lui un “selvaggio”. Ma un selvaggio che non ha perduto il bene del pensiero, della memoria, della speranza. Il vago sentore escatologico, che accompagna l’immagine della natura padrona assoluta, determina comunque un brivido in ognuno di noi: ciò significa che l’impatto con il mondo selvaggio è meno immediato e naturale di quanto possa apparire teoricamente. La prova quasi iniziatica di Robinson può essere considerata la più dura e violenta che oggi, senza più isole sconosciute e “selvaggi cannibali”, si marginalizza nell’immaginario, ma non allenta le sue radici in noi, perché si aggrappa a qualcosa 22 di atavico, di profondo. In tempi lontani dall’ideologia del “buon selvaggio” e in piena discussione sul valore dell’individualismo, ecco che il cinema ci induce, con un film come Cast Away di Robert Zemeckis, a pensare che Robinson Crusoe potremmo diventarlo tutti, perché i naufragi non sono esclusivo dominio della letteratura. Infatti il film ci costringe a pensare soprattutto a quanto siamo strettamente legati a certe comodità senza le quali la nostra vita pratica si trasformerebbe in una specie di tragedia, in un’esperienza ai limiti della sopravvivenza. Costretto per quattro anni su un’isola deserta, Chuck è, alla lettera, castaway: naufrago in una terra lontana da ogni umanità. Giocando con la lingua, già nel titolo di Cast Away (Usa, 2000, 143’) Robert Zemeckis allude alla "passività" del suo protagonista, gettato via dalla sorte. Altro che signoria sul mondo e su di sé, ideologicamente coltivata dal vecchio Crusoe anche a spese di Venerdì: il miserabile Chuck è la dimostrazione (cinematografica) d’una debolezza sorprendente dell’animale uomo. Un’inadeguatezza naturale alla vita, la sua e la nostra, che la regia sottolinea quasi con cattiveria nelle immagini della fuga dall’isola, paragonandola alla leggerezza e alla forza di una balena che danza in mare, lei sì davvero "signora". isolare in Cast Away la parte più bella e intensa, il naufragio, e considerarla un film compiuto: un film che sarebbe ben potuto cominciare con la partenza di Chuck in aereo, per poi finire con l’immagine della grande nave alle sue spalle. Tra i due eventi, questo "nostro" film si sviluppa con linearità e coerenza, e con una sorprendente maestria nel ridurre il racconto, alleggerendolo di fatti e di argomentazioni, e persino di ogni commento musicale. In tal modo, allo spettatore è data quasi la stessa esperienza del protagonista: la perdita improvvisa e spaesante della normalità, di quella somma di significati consolidati e ovvi che chiamiamo senso comune. Ben diverso da Crusoe, e semmai più simile all’Alexander Selkirk naufrago dal 1705 al 1709, appunto per 4 anni, sull’isola cilena di Juan Fernandez che ne suggerì la storia a Daniel De Foe, Chuck viene gettato via, lontano non solo dalla società ma anche da se stesso. Quel che gli resta dell’una e dell’altro son solo 23 "relitti": oggetti una volta familiari e ora privi di senso, residui d’abilità tecnica, frammenti di progettualità, ombre di responsabilità, ricordi d’affetti. Con essi gli tocca di provarsi a sopravvivere, trasformandoli in surrogati più patetici che ingegnosi, disperatamente tentando di campar la vita fino al giorno dopo, e il giorno dopo tornando a tentare, sempre esposto alla signoria della paura. Due pattini per ghiaccio diventano coltello e scure. Un pezzo di plastica simula una vela. Il fuoco nasce da un antico gioco da scout. Soprattutto, un pallone si trasforma in volto, in presenza umana, nell’unico e precario garante della sua stessa umanità. Ne ha bisogno, Chuck, ben più che Crusoe di Venerdì. "Wilson" non è il suo servo, ma il suo specchio: il riflesso della sua coscienza, del suo linguaggio, della sua incerta immagine di sé. Ne ha tanto bisogno, che rischia la vita in mezzo all’oceano, pur di non perderlo. Ma lo perde, alla fine, e con esso perde del tutto se stesso. Poi, ultima ed estrema confutazione dell’ottimismo di Crusoe, alle sue spalle incombe la grande nave. Riempiendo lo schermo con la propria rassicurante massa d’acciaio, lo salva dal niente in cui è stato "gettato". La sua individuale inadeguatezza alla vita è ora più evidente, più penosa che mai. Chiusi nelle nostre case con riscaldamento d’inverno e aria condizionata d’estate, con ogni genere di elettrodomestici, con prese di corrente assortite dalle quali un’energia invisibile soddisfa microonde e playstation, computer e rasoio elettrico, siamo schiavi di un modus vivendi a cui ormai non sappiamo immaginare alternativa. E’ traumatico immaginare di “uscire dalla storia”, naufragare per un certo tempo, e frustrare il nostro delirio di onnipotenza, smettendo di essere presenti. 24 2.2 Lost, sopravvissuti sull’isola che forse non c’è L'occhio di un uomo che si risveglia da un incubo. Intorno, il fumo che si leva da una foresta di bambù. In testa, un solo ricordo: lo schianto dell'aereo. E' un inizio eloquente quello di Lost, il serial cult negli Stati Uniti e nel resto del mondo, la beffa di chi crede di essere scampato al disastro e poi scopre che è solo passato da una tragedia all'altra. L'incidente aereo, i sopravvissuti sull'isola deserta, la lotta primordiale con la natura selvaggia per garantirsi la sopravvivenza, sono elementi che sempre hanno nutrito piccolo e grande schermo, perché paure ricorrenti nella letteratura di tutti i tempi. Ma Lost, oltre che delle paure, si nutre anche di cinema, e porta sul piccolo schermo effetti speciali degni della migliore Hollywood, una puntata pilota che ha segnato un record di budget, alcuni attori già celebri per ruoli precedenti, una quantità consistente di protagonisti (i superstiti sono quarantotto), una sceneggiatura avvincente che mescola suspense ed azione, ritmi serrati, sfumature thriller e misteri. Su un'isola che, pian piano si scoprirà, nasconde alcuni segreti. Come quelle misteriose presenze che scuotono la giungla con le loro urla. Ma segreti ne nascondono anche le persone, e probabilmente nulla è come sembra. Forse i protagonisti non sono nemmeno così vivi, forse l'isola non è di questa terra, forse... Amici, sconosciuti, componenti del medesimo nucleo familiare, tutti costretti a collaborare nella lotta per la vita. Di nuovo l’isola deserta dunque (vedi paragrafo precedente). Il luogo per eccellenza in cui l’uomo si misura in una forzata convivenza con la natura incontaminata. Dal naufragio solitario di Crusoe ai quarantotto sopravvissuti del volo Oceanic 815 di Lost, l’isola deserta può essere per chi ci 25 finisce: luogo di redenzione o gabbia senza via d’uscita. La Wilderness mostrata nel serial, è quanto di più artefatto e poco naturale possa essere visto. La giungla hawaina in questione infatti, è dotata di: enormi bunker sotterranei, sistemi di difesa elettronici che uccidono le persone, apparecchiature mediche, orsi polari sbucati dal nulla, un impianto elettromagnetico, una quantità assurda di armi, e come se non bastasse, di un piccolo villaggio residenziale con tanto di piscine. Inoltre, una buona parte dei personaggi, dopo essersi salvati dallo schianto con l’aereo, trovano la morte proprio sull’isola, per mano degli abitanti “originari” , che vogliono proteggerla da invasioni estranee.E’ interessante però pensare al promo trasmesso della terza stagione, in cui la voice off recitava :” Eroe, santo peccatore, assassino, traditore, martire, vai sull’isola e trova te stesso.” Al di là dell’accattivante messaggio pubblicitario, ciò che in Lost colpisce, specialmente nelle prime due serie, è il concetto di come quarantotto persone possano riuscire a creare una comunità dal nulla e di come il passato di ognuno di loro si annulli una volta che si trovano sull’isola. Una delle protagoniste, Kate è in realtà un’assassina, una ladra, una truffatrice, ma sull’isola nessuno conosce la sua vera identità e ciò fa si che ella diventi l’eroina del gruppo, comportandosi valorosamente in molteplici situazioni. Alcuni temi ricorrono nelle trame di Lost, affiancando la trama principale e sviluppando le storie dei singoli personaggi. Uno dei temi ricorrenti è proprio quello della redenzione. Alcuni personaggi pensano di aver compiuto una cattiva azione nel loro passato e cercano di redimere le proprie azioni mentre si trovano sull’isola. Kate è la prima di questa categoria, ma anche Charlie, Jin; Sun in particolare è una dei personaggi a ricaderci soprattutto in un episodio in cui parla con Shannon chiedendole se tutto quello che sta succedendo sia appunto una punizione per tutti quei peccati o cose sbagliate che avevano compiuto nella vita “reale”. Altri personaggi a ricaderci sono Sawyer, Sayid, Shannon ed infine il piccolo Walt. A John Locke è stata data una seconda possibilità sull'isola. Egli era paralizzato su una sedia a rotelle mentre si trovava in volo sul pacifico, ma subito 26 dopo lo schianto riesce a camminare di nuovo. L’isola descritta in Lost è lontana anni luce dal concetto di Wilderness in cui mi sono propinata fin’ora. Un luogo dove avvengono miracoli, che deve restare sconosciuto all’umanità – e addirittura – isola che può essere spostata geograficamente (come abbiamo assistito nell’ultima puntata della quarta serie) attraverso una gigantesca manovella. Insomma, nessuno sa ancora se si tratti effettivamente di un’isola nel Pacifico, dell’immaginazione delirante di un folle o dell’Inferno stesso. Purtroppo mancano ancora due serie, quindi non possiamo fare altro che supposizioni. Finora abbiamo scoperto che il grande magnate, Charles Widmore e lo scienziato Benjamin Linus (capo degli “altri”) sono in guerra per aggiudicarsi il controllo univoco dell’isola, l’uno è disposto anche a far credere al mondo intero che l’aereo è caduto in un'altra zona e che i passeggeri siano tutti morti, per far si che nessuno tenti di trovarsi sulla tanto decantata isola. Essa è infatti la vera protagonista del serial. I due leader del gruppo, John Locke il “miracolato”, e il chirurgo Jack Shepard, sono in continua disputa proprio su questioni riguardanti l’isola. In un episodio della prima stagione, intitolato appositamente Uomo di scienza e uomo di fede, Locke sostiene che è stato il destino a far schiantare l’aereo proprio su quell’isola e che i sopravvissuti devono ritenersi fortunati perché l’isola permetterà loro di crearsi una nuova esistenza, mentre Jack è convinto che il caso, o l’errore umano ha fatto si che i quarantotto si trovassero in quella situazione di pericolo e che l’unica cosa da fare è andarsene al più presto da li. L’isola in quanto “entità” non permetterà mai veramente a nessuno dei sopravvissuti di tornare a casa. Anche se nel finale della quarta serie troviamo gli Oceanic six (ovvero i sei che sono riusciti a tornare a casa), nelle battute finali del episodio, aleggia l’inquietante sospetto che l’isola li rivuole indietro uno per uno, altrimenti si vendicherà facendo del male ai sopravvissuti rimasti. Negli Stati Uniti, dove ha debuttato nel settembre del 2005 sul network Abc, Lost ha conquistato diciotto milioni di spettatori a settimana. Gli autori di Lost hanno letto parecchio. E lo dicono. C'è parecchia letteratura dietro agli 27 episodi, tanti e diversi titoli ai quali J. J. Abrams (“papà” delle serie tv Felicity, Alias e della pellicola Cloverfield) e Damon Lindelof si sono ispirati, da Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol a The Arrivals di Naomi Smith, da La collina dei conigli di Richard Adams a L'isola misteriosa di Jules Verne fino alle tentazioni più horror di Il signore delle mosche di William Golding e L'ombra dello scorpione di Stephen King. Apporti multiformi che si riflettono nei caratteri dei personaggi, in particolare in quello di Charlie, ex rockstar caduta in disgrazia con qualcosa da nascondere, e Kate, che si ritagliano presto il ruolo di guide e sostenitori del gruppo. Lost si è aggiudicato il Golden Globe per la miglior serie drammatica 2006. In Italia le prime tre stagioni sono state trasmesse dal canale televisivo a pagamento Fox (visibile con la piattaforma SKY) in anteprima e replicate gratuitamente da Rai Due. La quarta stagione è trasmessa in anteprima italiana sempre da Fox, dal 7 aprile 2008. In Svizzera viene trasmesso dalla TSI a partire dal novembre 2007. Lost ha ottenuto un notevole successo sia di pubblico che di critica, ricevendo diversi riconoscimenti, tra cui il sopra citato Golden Globe ed un Emmy.Il produttore esecutivo della serie Carlton Cuse, ha detto che fissare la data per il gran finale sarebbe stato l'ideale per il team per sviluppare al meglio la storia con tutti i misteri e gli enigmi irrisolti. Nell'intervista rilasciata, Damon Lindelof e Carlton Cuse spiegano: “Questa storia ha un inizio, una parte centrale e una fine, annunciando esattamente quando la serie finirà, sarà possibile far proseguire la vicenda nella giusta direzione al giusto ritmo".Sempre Cuse proponeva il centesimo episodio come gran finale, quindi l'arrivare alla quinta stagione. Il presidente dell'ABC si è dimostrato però contrario dichiarando che, se fosse stato il caso, avrebbe cercato nuovi produttori per far continuare la serie. Alla fine è stato raggiunto l'accordo ed è stato annunciata la fine di Lost prevista per il 2010, con altre tre stagioni da sedici episodi senza interruzioni, per un totale di quarantotto puntate, negli anni 2008, 2009 e 2010. Lo sciopero degli sceneggiatori della WGA ha però condizionato la realizzazione di questo progetto: 28 prima dell'inizio dello sciopero, infatti, sono stati girati soltanto otto dei sedici episodi previsti per la quarta stagione, che hanno cominciato a essere trasmessi a partire dal 31 gennaio 2008. In seguito, dopo la conclusione dello sciopero, i produttori della serie hanno dichiarato di poter realizzare altri cinque episodi entro la fine della stagione televisiva, portando così gli episodi della quarta stagione della serie a tredici. Nella stessa sede, i produttori hanno dichiarato che le ore di programma mancanti non saranno perse, ma saranno recuperate nelle due stagioni successive. Prodotto dalla Touchstone Television, Lost è girato alle Hawaii, ogni puntata costa circa quattro milioni di dollari (ma per la prima ne sono serviti undici milioni), e per la scena dell'incidente aereo è stato utilizzato un Lockheed L-1011 Jumbo Jet, tagliato a pezzi e trasportato sull'isola che fa da set alla serie. Fra gli interpreti alcuni volti noti del cinema e di altre celebri serie tv, come Dominic Monaghan, l'hobbit Meriadoc Brandybuck di Il signore degli anelli, Terry O'Quinn (Alias, Jag, The X-Files, Roswell) e Emilie de Ravin (CSI Miami). 3.3 Travolti da un insolito destino… “ …E se non facevamo u’ naufragio, come stavamo io e te eh? Io di sotto e te di sopra. Io poveraccio nero e te riccaccia bianca. Io non ti passavo neanche per la testa. Tu facevi la signora e io una specie di sottoschifo di cameriere. E ognuno al posto suo va…Noi siamo una cosa che c ‘è solo perché siamo qua e basta. Passione disperata perché siamo qua. La vorrei proprio vedere, la Sig.ra Lancetti passeggiare con questo terrone vicino, a Milano, provatelo un po’ a immaginare. Vorrei proprio vedere quanto ne rimarrebbe del tuo amore…”. Aveva visto giusto il povero Giancarlo Giannini, alias Gennarino Carunchio, protagonista assieme a Mariangela Melato del gender “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” della regista Lina 29 Wertmuller, datato 1974. Girato in un atollo in Sardegna e non proprio in un’isola sperduta, la pellicola narra l’amore impossibile tra una ricca sig.ra del nord, Raffaella Pavone Lancetti e il proletario meridionale Gennarino Carunchio. La coppia Giannini-Melato, già collaudata con fortuna due volte (Mimì metallurgico, 1972; Film d'amore e d'anarchia, 1973), funziona, specialmente nella sadomasochistica e scatenata parte centrale. I due rappresentano stereotipi e difetti dell’Italia inizio anni ’80. Lei è una milanese con yacht, moglie di un industriale, uscita dai salotti snob di Franca Valeri: spocchiosa e arrogante, ha i comunisti come il fumo agli occhi (le piace tanto La Malfa da trovarlo sexy); lui, siculo e birba, odia i padroni: marinaio preso in affitto, vorrebbe vederli strisciare ai suoi piedi. Il miracolo accade quando, in alto mare su un gommone, per un guasto i due fanno naufragio, e sono costretti a convivere in un’isola deserta. Sulle prime la donna continua a dar ordini, poi le parti si invertono: Gennarino, che sa procurare fuoco e cibo, si ribella alle sue prepotenze, e la obbliga a servirlo e a dargli del lei. Figuratevi Raffaella: inorridisce e scalpita, ma ha fame e freddo. Di più: convinta dai ceffoni, come lui voleva s’innamora del suo zotico Crusoe, che si rivela tenero e robusto. Sicché quando, dopo dilettevoli rotoloni, lo yacht li rintraccia e corre a salvarli a, se non fosse per Gennarino che vuol metterla alla prova, lei sceglierebbe la vita selvaggia. Invece riassapora i comodi di casa, e pur con rimpianto dà al suo mozzo il benservito. Travolti da un insolito destino, i due dimenticano la differenza di ceto, non solo, colui che precedentemente era nello status di schiavo, pretende di essere tratttato come se fosse lui il padrone e di vendicarsi di tutte le angherie subite a bordo dello yacht. In un luogo dove per sopravvivere non contano né soldi, né ricchezze l’uomo che riesce a cacciare e procurarsi del cibo è colui che detiene il potere. Esemplare la scena in cui la Melato chiede a Giannini di venderle il pesce appena pescato, arrivando ad offrire anche un milione di lire. Niente da fare. L’astuto Gennarino sa bene che in una situazione come la loro i soldi non hanno alcun valore ed arriva ad umiliarla in tutti i modi, facendola 30 inginocchiare e urlandole: “Bacia la mano al padrone!” La pellicola offre interessanti spunti di riflessione sull’uomo costretto a vivere per un periodo di tempo nella Wilderness. Lontani dalle certezze materiali della società moderna, i due protagonisti, in chiave talvolta comica, grottesca e anche drammatica, vengono spogliati della loro identità e vivono un “miracolo”. Se non avessero naufragato sull’isola “magica”, i due non avrebbero mai scoperto di cosa erano veramente capaci. Le loro esistenze non sarebbero mutate. Cosa che effettivamente non capita alla sig.ra Lancetti. Nel film la natura selvaggia fa da solo da sfondo, non può essere propriamente considerata il terzo protagonista del racconto, dato che oltre al limpido mare d’agosto citato nel titolo dell’opera, il paesaggio incontaminato risulta piuttosto anonimo. In questo caso la Wilderness è solo il palcoscenico su cui si muovono i personaggi.La Wertmüller, reduce dai trionfi americani, ci racconta in un film allegrotto e simpatico, con parentesi di tenerume e torrenti di parolacce, dove qualche goccia di aceto volge lo scherzo in apologo. Scritto e diretto dalla stessa regista con ironica fantasia, il film è una strenna intelligente. Benché arranchi sul finale in cerca d’un epilogo non troppo didascalico, il furbo congegno nasconde sotto la buccia d’una bella storia d’amore bombe incendiarie. Fedele al tema a lei consueto, del conflitto fra i poveracci e i potenti, ciascuno col suo patrimonio di debolezze, la Wertmüller predica infatti la rivolta, ma insieme mette in guardia contro le trappole dell’ingenuità. Il suo Gennarino è troppo convinto che le donne debbano ai maschi cieca obbedienza, è troppo legato al mito della virilità del sottoproletariato, e anche troppo curioso dei vizi dei padroni, perché la sua provvisoria vittoria non lo lasci deluso. Passata la festa, Gennarino finirà servo di sua moglie. Ritrattista d’ottima scuola, Lina Wertmüller spara le sue migliori cartucce nella pittura dei protagonisti, e fa centro. Anche grazie a un Giannini e a una Melato ormai perfettamente affiatati, e ogni volta capaci di darsi connotati freschi (qui lui, occhi da matto, ha accenti esilaranti, e lei morbidezze nuovissime), il film ha tronco robusto e lieta fioritura. Gennarino che 31 incrudelisce sulla donna, e vuol farle pagare il fo di tutte le colpe dei ricchi, cui poi corrisponde la passione di lei per il suo furibondo aguzzino, è un’allegoria che diverte e morde, detta con un gusto del comico e una vivacità di stile molto azzeccati. La Wertmüller sfrutta una condizione di vita estrema (un naufragio) per portare all'eccesso le ideologie opposte dei due personaggi. Nel film sono presenti numerosi errori attribuibili alla fotografia, per cui nella stessa scena cambia più volte la tonalità dello sfondo. Del film è anche stato ricavato un pessimo remake dal titolo originale Swept away, diretto nel 2002 da Guy Ritchie ed interpretato dall’allora consorte Madonna e il figlio di Giannini, Adriano. La pellicola è stata un vero flop al botteghino e si è guadagnata la statuetta dei Razzie Awards( premi cinematografici ironici considerati gli “Oscar dei peggiori”) come peggior film dell’anno. 32 3. NATURA SELVAGGIA E CINEMA “ …Sunshine or thunder, a man will always wonder where the fair wind blows…” (Jeremiah Johnson’s song) 3.1 Sopravvivere solo nel bosco, Man in the wilderness di Richard Sarafian Nel 1971 il regista statunitense Richard C. Sarafian, conosciuto dai più per la sua grande attività come sceneggiatore ed attore, dirige un inusuale ed efficace western, Man in the Wilderness (Uomo bianco và col tuo Dio). Il film narra la drammatica storia di un uomo che lotta per la sopravvivenza nell’ambito di una natura impervia. Verso il 1820, una spedizione di cacciatori di pelli attraversa le foreste americane del lontano Ovest, trascinandosi dietro un grosso barcone. Durante una battuta di caccia, la guida del gruppo Zachary Bess, impersonata da Richard Harris, (reduce dal successo di A man called horse dell’anno precedente), viene ferocemente assalita da un orso. Il capo del gruppo, interpretato da John Huston (figura archetipa nonché centrale del film: l’attore si unì al resto del cast due giorni dopo aver abbandonato le risprese di The last run), timoroso di un attacco Indiano decide di lasciarlo quasi esangue al suo Destino, non senza innumerevoli sensi di colpa per la sua scelta. Malgrado le sue condizioni lo diano per spacciato, Bess familiarizza con la natura 33 selvaggia che lo circonda e dopo essersi guarito le ferite con piante officinali e procurato del cibo, si rimette in forma prefiggendosi un solo scopo: vendicarsi degli uomini che lo hanno lasciato in fin di vita nei boschi. Alla fine, il suo tentativo di vendetta salverà la vita ai suoi compagni da un attacco degli Indiani e Bess potrà tornare a casa da suo figlio con una maggiore consapevolezza delle cose. Scritto da Jack De Witt, basato sulla storia vera del cacciatore di pelli Hugh Classa, Man in the Wilderness narra dell’incredibile resurrezione di Zachary Bess, che come un Robinson Crusoe martoriato, deve vincere la sfida di saper sopravvivere solo nella natura più selvaggia. Si tratta di uno dei primi western in cui il tema centrale non è rappresentato dal contrasto Uomo-Indiano o Bandito-Fanteria: focale qui è il rapporto Uomo-Natura. E’ quest’ultima, d’altronde, la grande protagonista del film, grazie anche all’utilizzo del formato Panavision: un formato cinematografico a 35 mm anamorfico, con rapporto in stampa di 2,35:1 e in proiezione (mediante mascherino) 2,40:1, spesso confuso col più anziano formato Cinemascope, che vide la luce all'inizio degli anni '60 dall'omonima azienda leader del settore. Si tratta del formato attualmente più diffuso assieme al Academy Flat 1,85:1. Nella pellicola, la Wilderness è presente sotto diversi aspetti: è crudele, come l’orso che con tenacia aggredisce Bess trascinandoselo dietro per un bel po’ di strada; è il dolce coniglio che fa compagnia al nostro eroe e gli ricorda il mancato affetto paterno nei confronti di suo figlio; ma soprattutto è la salvezza, la terra in cui un uomo può rinascere una seconda volta facendo forza solo sulle proprie capacità. Durante la battuta di caccia all’inizio del film, un inserviente colpisce un cervo ferendolo solamente; dopodiché afferma: “Non si può abbandonare un animale ferito, è la legge del foresta.” E sarà cosi che Bess per cercare il cervo ferito verrà catturato dall’orso. Il suo senso di dovere lo porterà quasi verso la morte ed egli diventerà l’animale ferito della frase precedente, abbandonato dai suoi compagni. Il regista dimostra qui tutta la sua sensibilità per il paesaggio, che può essere magnifico e ostile; dopo aver esordito con 34 alcune opere in Gran Bretagna, Sarafian torna in patria con un film western molto visionario e insolito. E’ solo uno dei primi film che aprirà le porte a un magnifico cinema basato sull’incontro tra uomo e natura selvaggia. 3.2 Una nuova etica ambientale, Never cry wolf di Carroll Ballard “ Negli ultimi anni la regione artica è stata teatro di una catastrofe zoologica. Le grandi mandrie di caribù che appena qualche anno fa contavano milioni di esemplari sono sparite. Un ente governativo chiede che sia preparata una relazione tale da giustificare scientificamente lo sterminio del sospetto colpevole – una creatura conosciuta nella Storia, nel mito e nella leggenda come uno spietato assassino – il lupo. Viste le enormi difficoltà pratiche, nessuno scienziato aveva mai di fatto osservato dei lupi nell’atto di attaccare e uccidere i caribù. Quindi il compito principale del Progetto Lupus era di inviare nell’ Ulkk qualcuno che seguisse un branco di lupi per osservarne attentamente il comportamento.” Questo è l’incipit che compare nel fotogramma iniziale di Never cry wolf ( Mai gridare al lupo), film del 1984, diretto da Carroll Ballard, poco noto regista statunitense, compagno di classe di F.F. Coppola alla scuola di cinema dell’UCLA, esordisce come operatore in Guerre stellari (1977) di G. Lucas. Il gusto per le immagini “dipinte” e la passione per gli animali e gli spazi aperti, già evidenti nei primi documentari, ricorrono in tutti i suoi film: Black Stallion (1979) descrive l’amicizia tra un ragazzo e un purosangue, mentre Never cry wolf narra di un biologo alle prese con la natura inospitale del Canada settentrionale. Tratto da un romanzo autobiografico del biologo Farley Mowatt, la pellicola fu realizzata durante i primi anni ’80, quando la Walt Disney Production, sotto la guida di Ron W.Miller, stava sperimentando l’utilizzo di trame 35 più mature per i suoi film. La premessa fondamentale del film è che la popolazione artica dei caribù sta scomparendo, e che i lupi sono i primi ad essere ritenuti colpevoli, anche se mai nessuno ha visto un lupo uccidere un caribù. Il biologo Tyler Farley viene inviato per sei mesi fra i ghiacciai del Canada del Nord per cacciare e studiare i lupi bianchi, accusati dalle Autorità di falcidiare i già scarsi branchi di caribù. Depositato con le sue casse di viveri e di equipaggiamento da un traballante aereo, pilotato dal bizzarro Rosie, Tyler comincia il suo lavoro. Si ambienta e si organizza, dopo una serie di disavventure e di goffaggini: pianta la sua tenda non lontano dalla tana di una famiglia di lupi bianchi, gradualmente si inserisce nell'atmosfera determinata da asperità ghiacciate e da tundre sconfinate e impara, non solo, a sopravvivere, ma anche a rispettare financo ad amare, i lupi e la natura circostante. Tyler scopre che i caribù non sono decimati dai lupi, bensì da sconsiderati ed avidi cacciatori, ma, soprattutto, grazie anche al positivo rapporto con una famiglia di indigeni in eterno movimento, si integra perfettamente con la Natura, che lo affascina per il suo equilibrio ed il suo silenzio pacificatore. Tyler è ora più cosciente anche di sé come uomo avendo appreso la grande lezione della Natura: per vivere, è anche necessario saper convivere. Film curioso, stimolante, “dal fascino darwiniano” che porta a compimento la propria allegoria ambientalista con l’ avventurosa crudezza d'un Robinson Crusoe contemporaneo, ovvero un uomo di oggi rieducato alla vita dalla spietata sopravvivenza in natura e dalle sue leggi misteriose e inviolabili. Basato sulla vera esperienza di uno scienziato canadese, è calato in un contesto quasi documentario in cui il protagonista cerca di farsi animale (mangia i topi per ricavare le proteine necessarie, come i lupi) e alla fine celebra la propria trasformazione in una sorta di cerimonia iniziatica, circondato dai caribù, in una sequenza che non si dimentica facilmente. Nelle pellicola di Ballard è palese che non solo i caribù e i lupi stanno scomparendo, ma gli stessi abitanti originari del luogo, gli Inuit stanno perdendo la loro terra e le risorse che essa offre, mentre la nuova 36 generazione è attratta dai comfort del mondo moderno. Essi stanno tradendo cosa c’è di buono e genuino in quella terra e sembrano disconoscere i miti e le leggende che legano uomo e natura, come il racconto narrato dall’anziana Inuit, per cui dopo aver sognato che un lupo ci strappa il cuore dal petto vuol dire che d’ora in poi egli è il possessore della nostra anima. E’ stato scritto originariamente per lo schermo da Sam Hamm ma la sceneggiatura fu alterata più volte ed Hamm finì per collaborare anche con Curtis Hanson e Richard Kletter. Il film è anche degno di nota per esser stato il primo film della Walt Disney a mostrare le natiche di un uomo adulto, quelle di Charles Martin Smith. L’ attore protagonista fu devoto per quasi tre anni a Never cry wolf. In un intervista egli affermò : “Ero molto più coinvolto emotivamente in questo film che in qualsiasi altra pellicola. Non è stato solo recitare, ma scrivere e partecipare all’intero processo creativo. L’intero percorso di realizzazione è stato molto duro. Durante quasi tutti e due gli anni utilizzati per girare il film in Canada nello Yukon ed a None, in Alaska, ero l’unico attore presente. E’ stato il film più solitario in cui io abbia lavorato.” L. David Mech, un esperto internazionale di lupi che ha effettuato ricerche sui lupi dal 1958, in luoghi come il Minnesota, il Canada,l’Italia, l’Alaska nello Yellowstone National Park ed all’isola Royale, criticò il lavoro svolto da Mowait, asserendo che quest’ultimo non sia in realtà uno scienziato e che tutti in suoi studi, egli non si sia mai realmente imbattuto in un lupo come invece sostiene nel suo libro. Nel programma televisivo Siskel & Ebert At the Movies, Gene Siskel definì il film terrificante , mentre Roger Ebert disse: “ Questo è uno dei migliori film che abbia mai visto sul rapporto tra esseri umani ed animali sullo stesso pianeta.” Entrambi definirono la pellicola di Ballard sostanzialmente riuscita. Il critico cinematografico di All movie guide, Brandon Hanley, apprezzò il film, specialmente il lavoro di Smith e scrisse:” Il protagonista dei lupi è splendidamente interpretato dall’attore Charles Martin Smith. Il risultato dell’opera risulta una stranezza del destino, una genuina meditazione sulla vita”. Ronald 37 Holloway, critico cinematografico di Vogue scrisse una positiva recensione del film e scrisse : ” …ideale per le masse lì fuori che amano i film di natura e anche per chi non li ama.“ Alcuni critici trovarono la premessa del film un po’ difficile da credere. Vincent Canby, critico per il New York Times scrisse :” Ho trovato difficile accettare il fatto che il biologo, poco dopo che un aereoplano lo lasciò nel cuore di una natura selvaggia ghiacciata, in una tempesta, decise di getto di abbandonare il suo lavoro con la macchina da scrivere ed indossare guanti di lana tentando di classificare le sue reazioni iniziali”. Canby aggiunse anche che il film era “perfettamente decente se non un eccezionale adattamento cinematografico del best seller di Mowatt. Le recensioni raccolte sul sito http://www.rottentomatoes.com/ riportano che tutte gli undici articoli presenti danno un parere positivo. Sono presenti alcune differenze tra il film e il libro di Mowat. Nel romanzo, il ruolo di Mike e Ootek è rovesciato, Mike è davvero il fratello maggiore di Ootek (Ootek è un adolescente) ed Ootek parla un inglese fluente e comunica apertamente con Mowait mentre Mike è piu riservato. Il film aggiunge un elemento più spirituale rispetto al libro che è più una storia lineare. La pellicola isola anche i personaggi mentre nel libro Mowatt incontra spesso persone provenienti da diverse parti della rergione Artica. Inoltre nel libro, i lupi George ed Angeline non vengono uccisi e il pilota dell’ aereo Rosie non porta investitori sul luogo per costruirci una riserva. Etologico con intelligenza, un film da riscoprire. 38 4. UNA NATURA OSCENA E CRUDELE “… And what’s disturb me is that on all the faces of the bears that Tredwell ever filmed I discovered no affinity, no understanding, no mercy. To me there is no such thing as the secret world of the bears. In this empty look there‘s a mechanics search interesting only on food. But for Timothy Tredwell this bear was a friend, a saviour…” (Werner Herzog) 4.1 La travolgente indifferenza della Natura secondo Werner Herzog Nel 2003 l’aspirante regista ed attore Timothy Tredwell e la sua fidanzata Annie Huguenard vengono sbranati da un orso mentre campeggiano in alcune aree remote del Katmai National Park and Preserve, in Alaska. Dal 1990 al 2003 Tredwell si era dedicato alla causa dei grizzly, cercando di vivere accanto a loro nel tentativo di proteggerli e di indirizzare l’opinione pubblica verso la sua causa. Negli 1ultimi cinque anni di permanenza Tredwell portò con sé una telecamera e realizzò oltre cento ore di filmati. Da queste immagini il regista tedesco Werner Herzog ha ricavato un documentario, The Grizzly man (2005), di straordinario impatto emotivo, dove lo 39 splendido e suggestivo paesaggio dell’Alaska fa da cornice ad un uomo che ha dedicato gran parte della sua esistenza a salvaguardare l’esistenza dei grizzly. Secondo Herzog, quella del regista è una "missione" che esige la messa in gioco totale del proprio Io: si tratta di portare a compimento una performance al tempo stesso fisica ed emotiva, da vivere fino in fondo, cercando costantemente i propri limiti e scontrandosi, se necessario, con la natura più selvaggia e ostile. Nessun altro regista è dunque più idoneo a riportare "le avventure dell’uomo dei grizzly" di chi ha avuto l’ardire di far valicare una montagna a una vecchia nave (in Fitzcarraldo) o di restare con la propria troupe in attesa dell’eruzione di un vulcano, quando l’intera popolazione locale era già stata evacuata (La Soufrière). Il rischio, la messa in gioco di sé, la volontà di potenza, la ribellione: sono temi che caratterizzano l’intera filmografia di Herzog.Il suo è un cinema provocatorio, che sovente parte da presupposti assurdi dai quali il cineasta si aspetta nuove verità. “ I film di Herzog non hanno mai né eroi né poeti né mistici né ricercatori di realtà ‘separate’, ma sono invece affollati di sordi, ciechi, muti, pazzi, handicappati, mostri, nani, oltre che da animali di ogni genere…”(Ungari). Herzog, noto fin dai primi anni Settanta per le sue opere di rara forza emotiva e valore sperimentale, ha compiuto con questo film un ulteriore passo verso la codificazione del genere documentaristico, seminando una serie di idee che aspettano solo di essere raccolte e sviluppate. Il regista non è nuovo all’uso del found footage: nel film L’ignoto spazio profondo, grazie alla voce narrante e alle musiche stranianti, aveva trasformato documentari della Nasa e riprese sotto la calotta polare nel racconto di una fallimentare spedizione ai margini dell’universo. In The Grizzly man l’uso delle immagini preesistenti è molto più tradizionale. Herzog ricostruisce la storia aggiungendo, al materiale girato da Timothy, delle interviste e la sua voce fuori campo che commenta ed interpreta. Egli ammira il caso che vi è nelle riprese di Tredwell : “Una specie di magia misteriosa che interviene solo nel cinema”, in cui vediamo volpi che si dispongono artisticamente nei vari piani dell’immagine; e 40 invita a cogliere i momenti in cui lo show sembra finito ma la camera rimane accesa, e proprio allora coglie l’imprevisto, il “perturbante” e le immagini acquistano una “vita propria”: è questa l’unica visione mistica in cui Herzog crede ancora. Tredwell, aspirante star e regista di se stesso aveva un modo di riprendersi molto metodico, poteva ripetere le riprese fino a quindici volte. Herzog mostra quello che Tredwell probabilmente non avrebbe mai mostrato al pubblico (anche se il fatto di averlo girato risponde ad una sua esigenza espressiva, se non artistica) con l’ovvia intenzione di mostrare una realtà più vera e involontaria. Herzog applica il metodo anche alle proprie riprese, come quando la mdp indugia sugli intervistati, dopo che più o meno goffamente hanno recitato la loro parte. Il metodo utilizzato da Herzog si presta a varie critiche, che la stampa anglofona non gli ha risparmiato: da un punto di vista etico egli sfrutta il lavoro di un morto, lo spettacolarizza, si pone su un livello di consapevolezza superiore e tratta Tredwell come un personaggio anziché una persona, inserendolo in una galleria di folli a cui il suo cinema è abituato, da Kaspar Hauser all’ingegnere inglese di Il diamante bianco. E’ quello di Herzog, un universo di visionari, un mondo popolato da personaggi sradicati, la cui follia è il prodotto di una disciplina basata sull’annullamento della personalità. Tredwell, però, è un pazzo le cui debolezze sono fin troppo evidenti. Si tratta di un attore fallito che spesso delira ed è in continuo conflitto con la civiltà degli uomini, oltre a scaricare le sue frustrazioni sessuali nei suoi rapporti con le donne. Herzog intervista i suoi amici più cari, la sua famiglia, la sua ex-fidanzata definendola “la sua vedova”, ma dà anche voce senza alcuna pietà a persone che hanno buoni motivi per criticare Tredwell: come il nativo americano che lo smonta sia con argomenti religiosi (non bisogna varcare il confine invisibile tra uomo e animale) che ecologici (abituare gli orsi alla presenza degli uomini vuol dire renderli preda più facili dei bracconieri). Ma se Herzog, più che in altri casi, è ambiguo verso il suo soggetto, è anche vero che non aveva mai interrogato cosi a fondo i limiti etici della visione. In Il diamante bianco, 41 Dorrington sfoga davanti alla macchina da presa il senso di colpa per aver provocato involontariamente la morte di un amico. In un altro momento dello stesso film, Herzog decide di non mostrare le riprese fatte da un free climber in una grotta sacra della Guyana, rimasta inviolata dalla notte dei tempi. Qui però le cose cambiano. Herzog si confronta con la registrazione di una morte vera: quella incisa sul nastro della videocamera di Tredwell. “Non fece in tempo a togliere il tappo dall’obiettivo” si dice nel film. Ciò risulta doppiamente inquietante: da una parte perché si immagina Tredwell che, assalito dall’orso, pensa comunque di immortalare la propria morte come i protagonisti di Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato; dall’altra perché il caso ha voluto che quella registrazione, privata delle immagini e ridotta all’audio fosse in teoria meno atroce. In realtà però la registrazione resta abbastanza atroce, al punto di dissuadere Herzog dal far ascoltare il nastro a noi spettatori e da consigliarne la distruzione a Jewel Palowak, la fedele amica di Tredwell che l’aveva conservato senza mai ascoltarlo. La scena in cui Herzog ascolta la registrazione con le cuffie davanti a Jewel è il centro morale e stilistico del film. Cinicamente ci può venir voglia di pensare che sia stata messa in scena; o si può comunque accusare Herzog di sensazionalismo o di ipocrisia, nella logica che è sempre meglio mostrare tutto piuttosto che creare aloni morbosi di proibito. Il risultato estetico ed emotivo dà naturalmente ragione ad Herzog. Anche se non sentiamo nulla (ma già ci sono stati descritti tutti i particolari raccapriccianti da altri testimoni), l’orrore è insostenibile. Ed è questo senso di orrore che Herzog vuole trasmettere: la travolgente indifferenza della Natura, la crudeltà di un creato che è solo caos; e soprattutto l’idiozia dell’uomo, perché solo una cosa non si può perdonare a Tredwell: avere portato con sé la sua fidanzata che poi si è rifiutata di scappare. In Grizzly man il rapporto con gli orsi avviene in due modi apparentemente inconciliabili e discrepanti: da una parte c’è il protagonista della vicenda – “il biografato” Timothy Tredwell – che vive in stretta comunione con gli orsi, che avverte verso di loro un’affinità elettiva, e trova al 42 loro cospetto quella felicità che nessun uomo o abitudine sociale è in grado di dargli; dall’altra c’è il regista che confessa che lui nelle orbite vuote, liquide, degli orsi bruni non vede altro che un istinto predatorio e la fame. Quegli occhi non nascondono una profondità abissale. Sono una superficie piatta, inespressiva: non guardano, piuttosto colpiscono anch’essi come artigli e addentano come mascelle. Sono occhi senza spessore, occhi come sottili membrane su cui il dentro e il fuori non hanno tempo per distinguersi: subito s’incontrano nella pulsione animale, nel puro appetito che cerca appagamento. Herzog si chiede come possono questi occhi ispirare un sentimento, comunicare qualcosa. L’uomo è un animale, ma come lo definisce Ernst Cassirer, si tratta di un animale simbolico, che tenta di investire di senso la realtà intorno a sé. Va da se che gli orsi secondo Tredwell non si riducono a grado zero dell’istinto, significano qualcosa. Nella sua esperienza in Alaska, l’irrequieto Timothy tenta di far conciliare il peluche borghese, che lo accompagna dalla prima infanzia, con il grizzly selvaggio, l’animale reale. Il simbolo culturalmente depotenziato con la strapotenza della fiera in carne ed ossa, la “parola” con la “cosa”. E si genera cosi una scissione, una sfasatura tra il segno e il suo referente. Lo scarto viene evidenziato da due diverse concezioni della natura, di cui si fanno rispettivamente carico Tredwell ed Herzog. La voce narrante di quest’ultimo in particolare, spiega in un passaggio : “La perfezione appartiene agli orsi. Ma ogni tanto Timothy si scontra con la dura realtà della natura selvaggia. Questo stride con la sua visione sentimentalistica secondo cui tutto là fuori è buono e l’equilibrio vive secondo una gioiosa armonia. A volte gli orsi maschi uccidono i cuccioli per far smettere le donne di allattarli e averle disponibili per la fornicazione […] Qui mi discosto da Tredwell. Egli sembra ignorare che in natura ci sono i predatori. Io credo che il denominatore comune dell’universo non sia l’armonia, ma il caos, l’ostilità e l’omicidio.” Altrettanto insopportabile per Tredwell è la constatazione che gli orsi, quando ridotti alla fame, divorano i loro stessi piccoli. In definitiva se Tredwell è convinto che la natura sia pervasa dall’amore e 43 dall’equilibrio, Herzog scopre in se stessa solo una volontà assassina. Il regista non considera Tredwell un eroe di altri tempi, è evidente. Ma cosa intende farne allora? Ridicolizzarlo? Guardare con un senso di pietà e con un sorriso amaro a un personaggio che ha pensato di trasferire la sua visione arcadica e pacifica della natura negli scenari selvaggi dell’Alaska? Il fatto è che per Herzog la “stupidità” di Tredwell non è affatto vuota. L’animale, la natura tout court, sono ambiti di confine in cui il senso, il linguaggio si avvicinano ai loro estremi limiti e riescono a dar forma a questi limiti solo per viam negationis portandone sul proprio corpo le ferite, le lacerazioni, le cicatrici, testimonianza di un linguaggio e di un senso che non si chiudono autorefenzialmente su se stessi e al contempo non posso dire e determinare compiutamente il “punto cieco” verso cui si aprono. Rimangono cosi spezzoni di parole, barlumi di visioni, echi sotterranei di melodie. La natura, l’animale sono il Finis Terrae della rappresentazione. E Herzog viaggia su queste terre perdute, ai margini del senso, laddove le immagini e le parole pulsano ed esplodono a contatto con il magma primigenio, e restano quale traccia di ciò che non può essere detto. Il significato di cui Tredwell investe gli orsi non viene meramente annullato o sconfessato da Herzog; diviene per lui un nescio quid: un non-so-che come sfondo obliato e irrappresentabile della rappresentazione, come il suo humus segreto, che si dis-loca continuamente nella rappresentazione quando quest’ultima rivendica un’eccessiva consistenza. Tuttavia, se non si sa bene dove collocare la linea di confine tra uomo e orso, è anche perché lo stesso uomo è diventato “enigmatico”. Se Timothy vuole trasformarsi in orso è per interrogarsi come uomo. Tredwell ad un certo punto della sua giovinezza deraglia e conosce la dipendenza dall’alcol e la droga e a questo punto cerca di reinventarsi: si costruisce un nuovo personaggio per prendere le distanze dal passato, da se stesso: si sdoppia. Ciò non toglie che egli continui a portare dentro si sé il suo altro, i suoi demoni. E l’abisso invoca l’abisso. Il paesaggio estremo e inospitale dell’Alaska è – nota Herzog – uno specchio 44 dell’animo turbolento di Timothy. Avventurandosi nell’estremo Nord egli cerca un luogo in cui stare a ridosso dei suoi fantasmi, un luogo in cui poterli interrogare e in cui poter mettere in discussione, sul modello della disobbedienza civile di Henry David Thoureau e del conservazionismo di John Muir, l’ordine sociale e la civiltà. Al contatto con la Wilderness rimanda anche l’immaginario del cowboy e del cinema western evocato nel film. Dapprima viene mostrata una fotografia di Tredwell, in abito scuro e bandana sulla testa, con la sua amica Jewel che lo chiama “il mio cowboy”. Poi Herzog inserisce la canzone country Coyotes, scritta da Rob Medill e cantata da Don Edwards. In essa si parla del tramonto del mondo dell’Ovest, eroso dalla civilizzazione moderna. Tornando ad occuparci del nostro protagonista, Timothy non era così ingenuo, sapeva quanto rischiava a contatto con gli orsi, e ripetutamente allude all’idea di morire, di essere fatto a pezzi e decollato. Ma egli sa anche che sull’orlo di questo baratro può fare i conti con se stesso, con la sua interiorità già frantumata e sempre attratta dal caos. “Amo i miei amici animali” dice “Amo i miei amici animali. E sono pieno di problemi.” In un caso fa un gioco di parole in cui parla di una volpe come di un wild animal e di sé come di una wild person. Qui proprio all’insegna della Wilderness, il nesso, il ponte che sembra consentire di instaurare una comunicazione. Spesso Timothy si confida con i suoi animali, gli confida che era alcolizzato, che ha tentato di tutto per smettere di bere, ma che è riuscito a farlo solo quando ha scoperto gli orsi e l’Alaska, solo quando la difesa degli animali gli ha dato una ragione di vita. Egli ha offerto il suo aiuto, a patto che loro aiutassero lui, instaurando un’occulta e impronunciabile corrispondenza. Timothy se ne va in Alaska col suo peluche di orso: senza quel peluche l’abisso dell’origine diverrebbe puramente distruttivo. Di qui il tentativo di Herzog e di Timothy, seppur inconsciamente, di restituire al linguaggio e all’immagine il brivido della loro origine. E ciò accade soffermandosi su una soglia, a ridosso dell’indicibile che sta nel dicibile: vuoi che sia il suono sottratto dello scontro mortale con il grizzly, 45 vuoi che siano le immagini negate del massacro. Lo scatenamento animale e il grido primigenio di terrore dell’uomo fanno parte di una preistoria “irrappresentabile”, da cui la nostra società ha provveduto a staccarsi. Quel grido disarticolato, se gridato di nuovo, segnerebbe la fine della civiltà. Ma se non se ne captasse più il riverbero, la civiltà sarebbe sradicata e in questo modo il peluche di Timothy, anziché commuovere, tornerebbe a essere un banale reperto borghese. L'Alaska di Herzog è quella dei nostri cuori, ultima frontiera da sfidare in cerca di qualcosa che giustifichi la nostra stessa esistenza. In fuga da un mondo troppo complesso e denso di delusioni, a capofitto verso un'illusione che si rivelerà mortale, Timothy insegue se stesso rovesciando il mito del Buon Selvaggio sugli orsi grizzly dell'estremo settentrione. La rappresentazione della vita degli orsi grigi (che a tratti non può non ricordare L’orso di Jean-Jacques Annaud), pertanto, priva com’è di didascalismo e tesa invece a captare “in presa diretta” tutto quanto avviene sotto l’occhio attento di Tredwell raggiunge vertici di verosimiglianza e aderenza al reale che poche altre volte si erano visti al cinema. La progressione narrativa, che ci avvicina sempre più al momento della tragica e misteriosa morte del protagonista, è condotta esemplarmente e, pur intervallando immagini di archivio e interviste, senza soluzione di continuità. Il film è un lento scivolare verso la scontata (perché nota fin dall’inizio) e terribile fine, la morte di Tredwell, avvenuta con tutta probabilità a opera di un orso estraneo alla comunità che egli stava cercando di studiare. A ben vedere, tuttavia, la vera forza di Grizzly Man non sta in questo; né nella potenza evocativa delle immagini, né nel magistrale impatto drammatico delle interviste. Sta invece nella capacità di Herzog di procedere costantemente sulla linea di confine tra realtà e finzione, elaborando – in un film che solo apparentemente, parafrasando un saggio di Roland Barthes, è fermo al “grado zero della visione” – un’attenta e acuta analisi sulle dinamiche che regolano la sovrapposizione dei piani narrativi e l’estetica della rappresentazione filmica. Solo in apparenza un passo indietro rispetto al celebrato “mockumentary” (documentario 46 in cui si mescolano realtà e finzione), ma a ben vedere un passo avanti, perché in grado di cogliere l’essenza del problema: la verità della materia mostrata. L'idea per il film non nacque da Herzog, bensì da Jewel Palovak, l'ex-compagna e collega di Tredwell che compare nel film. Discovery Channel le propose di realizzare il film con loro e lei accettò. Il produttore Erik Nelson, di Discovery Channel, incontrò Herzog al Jacksonville Film Festival e lo convinse ad essere il regista del film. Herzog ha affermato di aver accettato sia per l'interesse che ha suscitato su di lui il personaggio (molto vicino ai tipici eroi folli herzoghiani), sia per la volontà di iniziare una vantaggiosa collaborazione con Discovery Channel, per il quale, infatti, ha già realizzato un altro film: Encounters at the End of the World. Per selezionare tra i filmati di Tredwell (più di 100 ore) il materiale da inserire nel film, fu affidato a un gran numero di persone il compito di visionare le registrazioni e di assegnare ad ogni scena un voto da una a quattro stelle. Herzog ha poi visionato quasi tutto il materiale da tre e quattro stelle, dal quale ha scelto cosa inserire nel film. La produzione del film è durata complessivamente ventinove giorni, di cui nove per il montaggio. Il commento è stato scritto e registrato da Herzog durante il montaggio. Il film ha vinto numerosi premi come miglior documentario ed è stato presentato nella sezione “Americana” del 23° Torino Film Festival. 47 5. IL MITO AMERICANO NELL’INCONTRO TRA UOMO E NATURA SELVAGGIA “Il paesaggio è un attore del film, agisce sullo spettatore anche se egli non se ne accorge.” (Michael Cimino) 5.1 Jeremiah Johnson, L’uomo delle montagne Nato a Lafayette, Indiana, il 1 luglio 1934, Sydney Pollack è stato uno dei più apprezzati registi hollywoodiani, uno dei pochi ad essere sempre riuscito nella difficile impresa di coniugare le esigenze del box office con l'impegno e l'eleganza. Attore, regista e produttore cinematografico, appartenente alla schiera dei registi della New Hollywood, è sempre stato attratto dal concetto di tempo, inteso come dimensione interiore e come conflitto tra il passato e il presente. Dopo They shoot horses, don’t they? (Non si uccidono così anche i cavalli?) del ‘69 dirige nel ‘72 il suo secondo film western Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo), con l’ausilio del suo attore feticcio Robert Redford. Il film è la perfetta antitesi del precedente: in questo la natura premeva ai bordi dello spazio reclusivo nel quale i 48 suoi personaggi erano condannati senza scampo; nel film del ‘72 un unico protagonista vive un’avventura senza meta partendo da “nessun luogo”, come dice la canzone che accompagna il film:”…Jeremiah Johnson made his way into the mountain, betting on forgetting all the troubles that he knew… “. Come asserì in un’intervista lo stesso Pollack, il secondo grande protagonista del film è la montagna. La natura tutta, grazie ancora all’uso del Panavision, rientra nel quadro del film non come sfondo ma come partecipe dell’intera storia. Ancora vestito con i pantaloni della cavalleria americana , veterano della guerra tra Messico e Stati Uniti (1846-48), Jeremiah Johnson giunge in un territorio di frontiera scendendo da un battello. Fornitosi di armi e dell’occorrente ad una vita di trapper (cavallo compreso), si avventura nel territorio delle montagne, delle nevi e degli indiani. In un primo tempo riesce a cavarsela, sia pure con difficoltà, davanti agli imprevisti e alle durezze della vita solitaria che ha scelto. Dopo qualche periodo incontra un indiano che lo osserva compiere i gesti quotidiani e si allontana. Successivamente si imbatte in un vecchio ed eccentrico cacciatore che gli insegna a cacciare e scuoiare i grizzly. In seguito giunge in una casa dove incappa in una donna, impazzita per lo sterminio della famiglia – subito da parte degli Indiani –, e in suo figlio muto. Jeremiah porta con sé il bambino e incontra un altro personaggio alquanto bizzarro, un cacciatore calvo, sepolto nella terra sino al collo dagli indiani. Questi si unisce a loro, e i tre sorpresi dai pellerossa si recano al loro accampamento. Là Jeremiah deve regalare il suo fucile al capo, il quale in cambio gli dona sua figlia in sposa. Praticamente alla testa di una specie di famiglia, Jeremiah saluta il cacciatore che va per la sua strada e, scelto un luogo adatto, costruisce una casa iniziando una vita di serenità domestica con la donna e il piccolo con i quali però non può comunicare a parole. Jeremiah che era partito solo e che in solitudine voleva vivere, indignato dalla civiltà degli esseri umani, vive un momento di gioia con la sua nuova irregolare famiglia. Ma come in ogni narrazione cinematografica che si rispetti, tale felicità è destinata a durare poco. 49 Durante l’inverno arriva sul posto un gruppo di cavalleggeri americani sulle tracce di alcuni civili rimasti bloccati sulla montagna; per raggiungerli, Jeremiah e i soldati sono costretti ad attraversare, violandolo loro malgrado, il terreno sacro di un cimitero indiano. Ritornando verso “casa” con un triste presentimento, Jeremiah scopre che la sua “famiglia” è stata massacrata dagli indiani. Bruciata la casa, egli ingaggia con questi una lotta serrata e senza quartiere, creandosi presso di loro la reputazione di guerriero forte e temibile. Continuando a peregrinare, come in un viaggio a ritroso, incontra di nuovo il cacciatore, questa volta coi capelli lunghissimi, poi giunge a casa della donna pazza presso la quale incontra altri bianchi che vi hanno trovato riparo. Là scopre anche la propria tomba preparata evidentemente dai pellerossa. Infine, Jeremiah incontra il vecchio cacciatore una seconda volta, ed in chiusura l’indiano che per primo aveva incontrato appena giunto in quel territorio. Questi lo saluta con un bellissimo gesto solenne della mano. Jeremiah risponde. Jeremiah Johnson è considerato uno dei capolavori di Pollack. La struttura compositiva della pellicola è perfetta, i rapporti fra i suoi elementi costitutivi impeccabili, la coerenza e la progressione dell’assunto lucidissime. Apparentemente la pellicola narra in chiave picaresca le peregrinazioni pericolose di un uomo che ha scelto la rude vita della natura selvaggia. Sembra, cioè, a prima vista incentrato sul contrasto Natura/Cultura, ovvero una delle chiavi di volta di tanto western americano. C’è il senso della peregrinazione, del trapper come wanderer, della scelta consapevole di una vita non condizionata dagli orpelli della civilizzazione; c’è la dignità del confronto con l’indiano, e il senso di un sacro elaborato da un’altra cultura che, pur non vissuto, va rispettato. Questo e altro Pollack ha ricevuto in eredità dal western classico. Ma in questo film silenzioso non conta la tradizione del genere. Egli non vede nell’Ovest la celebrazione di un destino storico dell’America, ma al contrario la figura fantastica, mitica, che un’intera generazione ha elaborato. In Jeremiah Johnson, Pollack utilizza il genere western come grandiosa occasione per 50 stabilire i fondamenti teorici della sua visione del mondo e dl tempo, indicando – insieme – come la mitizzazione cinematografica dell’epica western non può riferirsi a nulla di storicamente circostanziato, ma anzi vive di un limbo ideale di esperienza assoluta con sostanza squisitamente metafisica. La storia di Jeremiah si presenta come un perfetto chiasmo (una delle forme in cui si manifesta la circolarità). Si tratta di una falsa regressione, di una falsa linea retta: il percorso di Jeremiah è curvo, si rivolge su se stesso e, a parte il proemio dell’arrivo, finisce nel punto da cui è partito. Il centro geometrico del film è la parte che va dalla costituzione della famiglia alla serie di scontri con gli indiani; il resto è pura simmetria, struttura a specchio che trova una continua e precisa corrispondenza di elementi. Non solo Jeremiah nella seconda metà del film, incontra le stesse persone e gli stessi luoghi incontrati all’andata, ma l’iterazione avviene, appunto, in senso simmetrico, ovvero nell’inversione dei singoli momenti della serie. La simmetria quindi non è solo quantitativa ma anche chiasmica. Ciò è importante per comprendere il senso profondo del film. Il secondo grado di lettura della pellicola verterebbe – in modo anche più esplicito che nei film precedenti – sull’ormai usuale tema della circolarità, della ripetizione degli eventi, avallando quell’eterno presente che nella concezione di Pollack sostituisce la Storia, e non solo nel western. A questo fine concorrono altri momenti dell’opera: intanto la sensazione del sacro, del numinoso come realtà del mondo. Il ritorno di Jeremiah attraverso il cimitero indiano è in questo senso un momento di grande suggestione metafisica. Esattamente come il regista aveva pianificato, nello spettatore affiora silenziosamente la sensazione che qualcosa sta per accadere. E’ un classico “momento panico”, che però acquista subito il suo significato: ciò che deve accadere non riguarda direttamente Jeremiah, ma qualcos’altro che gli è connesso, ovvero la casa, la sua strana famiglia. Per non dire, poi, dell’atmosfera fiabesca che permea alcune figure del film: il vecchio Unghia d’Orso, il cui stesso nome è un chiaro riferimento totemico che allude in modo diretto alla qualità iniziatica del rapporto di Jeremiah 51 con lui. Unghia d’Orso è esattamente quel che Jeremiah diventerà, quel che coscientemente aspira a diventare, così come ogni iniziando guarda con reverenza a colui che lo prepara per l’iniziazione. Nel quadro di Jeremiah Johnson rivive quell’Olimpo americano che una nazione giovanissima si è trovata a dover inventare bruciando in fretta tutte le tappe che la separavano dalla tradizione culturale europea. Ed è un Olimpo, è una tradizione, che vive sullo scontro fra l’umano e il selvaggio, fra l’antropomorfo e l’animale, esemplificata da quel pezzo da antologia che è l’appassionato vanto del cacciatore incontrato la seconda volta. E’il classico overstatement che caratterizza il tipico umorismo americano di frontiera, per cui ogni particolare viene ingigantito fino a dimensioni mitologiche, tali appunto da renderlo ridicolo nei discorsi sproloquianti del cacciatore. David Crockett che ammalia gli orsi con un sorriso, Pecos Bill che prende al lazo un ciclone, Paul Bunyam che da solo disbosca un’intera foresta: sono questi gli dèi della giovane America, e a questi Pollack si è ispirato cogliendone la bivalente natura (sovra)umana e animale, prodotto inevitabile di una vita vissuta a contatto con una natura ancora intatta, con quella virgin land che era stata il sogno dei pellegrini puritani per costituirvi la vagheggiata Comunità dei Santi, il nuovo Eden sulla Terra, e che sarà in seguito per tutti – cacciatori, cercatori d’oro, famiglie nomadi, hobos – il miraggio di una nuova esistenza in un “Paese di Cuccagna” vecchio come i sogni dell’uomo. Nell’Ovest mito e realtà si confondono, ma non nei termini comodi e calcolati in cui ce li ha passati la tradizione del Capitale. Il mito dell’Ovest partecipa perfettamente delle figurazioni fantastiche della mitologia universale: la montagna di Jeremiah Johnson è la montagna sacra di Eliade, lo Zigurat persiano, il punto di riferimento del divino. Non si parla di Dio in questo film, ma la sua presenza è ovunque: i segni del numinoso si rintracciano dappertutto, nella neve che cade sopra un fuoco; nelle parole e nel pianto di una folle; nel canto di un indiano sconfitto; nelle inusitate ombre che il protagonista incontra durante la sua “perfetta” peregrinazione; nel sacrilegio 52 dell’indian burial ground e nei suoi effetti; nella vita che traluce, persino dal corpo quasi imbalsamato di un cacciatore morto di freddo; nell’incontro casuale con un indiano; nell’apparizione quasi soprannaturale di un cavallo; nella scoperta – ultimo momento di un cammino verso la rinascita – della propria tomba; nell’uso estremamente avaro che si fa dei nomi propri. E’ un mondo davvero fuori dal Tempo, in cui la progressione del biologico è misurata solo sulle stagioni, sul sole e sulla neve, in cui sei dissolvenze incrociate bastano a darci il senso del suo passaggio, mentre sullo sfondo delle relative immagini la natura cambia continuamente volto nel suo ciclico ripetersi di forme. Ecco il terzo grado del film: un perfezionamento dell’immagine pollackiana del cerchio che non si ferma a figura profonda del suo cinema, come per gli altri film, ma che incarna il mutamento radicale del suo protagonista da uomo della civiltà, da esponente della separazione cartesiana fra Io e Natura, a parte del tutto nel quale egli si è finalmente identificato. E’ il tipico percorso iniziatico, scandito da tutti i passaggi classici del mito: la chiamata, l’aiutante, l’incontro con un personaggio assurdo, la donna, la morte rituale. Persino la ferita simbolica quando Jeremiah è colpito da una lancia indiana. In questo mondo il movimento è la condizione della salvezza, gli spazi aperti il teatro delle certezze. E sempre, come un destino, l’immagine di un passato che ritorna: la seconda serie di incontri, certo, ma anche la strage della famiglia che rimanda a quella della prima casa incontrata, il motivo della pesca, la tomba che scava i morti e quella che porta inciso il suo nome. L’universo di Pollack è un universo regolato da leggi insormontabili poiché sono le leggi che presiedono ai movimenti del cosmo. L’Ovest di Pollack è rappresentato come un vero mito, o meglio, il teatro del mito, il luogo dove esso può attuarsi nella maniera più esemplare, al di là dei filtri che innegabilmente ne condizionano strutture e ritmi del mondo contemporaneo, sia esso una cittadina del profondo Sud, sia esso una grande metropoli anonima. A suo modo il regista è riuscito a evitare le strettoie della tradizione del cinema western americano 53 narrando una storia di coraggio e di forza che non mira ad alcuno statuto ideologico, una storia di natura che non vive il contrasto con la cultura nei termini falsamente dialettici che sappiamo, una storia di indiani che non tenta né accuse né ricatti, poiché ne inserisce l’immagine in un contesto storico che si pone come visione del mondo. Inebriata dallo spazio dell’Ovest, la macchina da presa di Pollack, reimpiega i suoi abituali stilemi ma solo per darci il senso della natura – essenziale all’assunto del film – o quello della sorpresa che inevitabilmente la scoperta di una diversa organizzazione del mondo comporta. Gli spazi ristretti (la casa) osservati sono sempre e soltanto gli spazi del mistero: osservati con carrelli obliqui o con improvvisi zoom, essi si configurano come momento di pausa e a volte di meraviglia; ma mai però come protagonisti ideologici dell’azione. L’etica dei Ford, il senso della comunità, il messaggio di civiltà e di affetti che lo spazio chiuso prima o poi comporta in quel cinema è assente dalla visione che Pollack ha dell’Ovest. L’Ovest di Pollack è quello in cui l’essere umano si scopre parte di un disegno che lo supera e lo include. Il film è interpretato con esemplare adesione da Robert Redford nella parte di Jeremiah Johnson e da Will Geer in quella di “Artiglio d'orso”. Si dice che questo film si sia in parte ispirato alla vita del leggendario trapper “Mangiafegato Johnson”. La sceneggiatura, di John Milius ed Edward Anhalt, è inoltre basata sul racconto Crow Killer (L'uccisore dei Corvi) di Raymond Thorp e Robert Bunker e sul romanzo Mountain Man di Vardis Fisher. La pellicola venne girata in varie località dello Utah. Jeremiah Johnson è stato, ai suoi tempi, un film di grande impatto in quanto proponeva una visione diversa del classico, stereotipato rapporto tra Bianchi ed Indiani. Al riguardo, si legge nel Dizionario dei film Morandini: “È uno dei western che inaugurarono una nuova tendenza del genere, con gli indigeni amerindi visti come una cultura ostile all'estendersi della civilizzazione, ma non inferiore né negativa. (...) Il conflitto tra la collettività dei legittimi padroni del luogo e la necessità storica del pioniere scatena una dura lotta, ma sfocia nella necessaria pratica 54 della tolleranza. ”In Italia Jeremiah Johnson ha ispirato direttamente uno dei più importanti fumetti western degli ultimi anni, Ken Parker, il cui protagonista ha il volto di Robert Redford ed è anch'egli, all'inizio, un trapper. La pellicola è menzionata nel romanzo Waiting for White Horses, di Nathan Jorgenson. Un riferimento si trova nel titolo di un episodio di Farscape, Jeremiah Crichton dove l'eroe si è perduto lontano dalla civiltà e deve vivere delle risorse della terra. 5.2 Chris McCandless e il sogno dell’Alaska Un sogno lungo dieci anni. Tanto ha impiegato Sean Penn a realizzare un film sulla storia vera di Chris McCandless, un giovane che scelse di abbandonare la vita agiata in cui era cresciuto per ritrovare il contatto con la natura più selvaggia. Un progetto rimasto così a lungo sulla carta a causa dei continui tira e molla della famiglia del ragazzo, ancora troppo legata al ricordo di Christopher per vederne tradotta la vita (e la morte) sul grande schermo. Ma Penn non si è dato per vinto e ha mantenuto vivo per tutto questo tempo il contatto con loro perché, parole sue, “è una storia nata per diventare un film”. Dieci anni d’attesa non è un periodo lunghissimo per Hollywood, ma è pur sempre un tempo ragguardevole. E allora viene da chiedersi come mai un regista saltuario come l’attore Sean Penn (quattro film ed un episodio diretti in sedici anni) sia rimasto affascinato dalla storia di un ventiduenne che molla tutto per girare 55 l’America a piedi. La risposta si può trovare nella possibilità offerta da quella storia di superare di slancio i limiti dell’aneddoto per aprirsi su una riflessione capace di abbracciare i miti fondanti della cultura e della storia americana: la frontiera, la wilderness, il confronto con l’altro, il distacco dalla famiglia, il rifiuto del consumismo, la scommessa dell’autosufficienza, il nomadismo, il mistero di Dio..etc. Ed in un cinema che troppo spesso sembra tagliar fuori il confronto con la Natura o ridurlo ad una pura immagine di sfondo, la breve esistenza di Chris McCandless è sembrata troppo ghiotta ad un autore che nei suoi film ha sempre cercato di interrogarsi sui temi che hanno costruito l’identità americana. Il film narra con meticolosa precisione gli ultimi anni di vita di Chris McCandless che, subito dopo la laurea in scienze sociali, ottenuta nel 1990, abbandona amici e famiglia per sfuggire ad una società consumista e capitalista in cui non riesce più a vivere. La sua inquietudine, in parte dovuta al pessimo rapporto con la famiglia e in parte alle letture di autori anticonformisti come Thoreau e London, lo porta a viaggiare per due anni negli Stati Uniti e nel Messico del nord, con lo pseudonimo Alexander Supertramp (il supervagabondo). Durante il suo lungo viaggio verso l'Alaska, incontrerà sulla sua strada diverse persone, una coppia hippie, un giovane trebbiatore del Dakota, una giovane cantautrice folk ed un anziano veterano chiuso nei suoi ricordi, a cui cambierà la vita con il suo messaggio di libertà e amore fraterno e dai quali riceverà la formazione necessaria per affrontare le immense terre dell'Alaska. Qui trova la natura selvaggia ed incontaminata che, con il passare del tempo, gli fa comprendere che la felicità non è nelle cose materiali che circondano l'uomo o nelle esperienze intese come eventi indipendenti e fini a se stessi, ma nella piena condivisione e nell'incontro incondizionato con l'altro. A conferma di questo Christopher, poco tempo prima di morire, scriverà su uno dei libri che era solito leggere“Happiness is real only when shared” : la felicità è reale solo se condivisa. Morirà, infine, di stenti o di freddo (le cause sono tutt'ora incerte, ma è probabile che la morte sia dovuta ad 56 intossicazione alimentare, come mostrato nel film) in Alaska nel 1992 dopo aver vissuto per centotredici giorni in un autobus abbandonato, che egli denominò Magic bus. Nel suo cuore, prima di morire, riuscirà a vedere la luce del perdono per i suoi genitori e riconoscere la sua vera identità in quanto Christopher McCandless. La luce della verità e della redenzione di un uomo che ha sperimentato la libertà più estrema alla ricerca di una risposta al concetto di felicità terrena. Nel suo viaggio McCandless, portò con sé solo i libri dei suoi beniamini – Tolstoj, Thoreau, London – decidendo più o meno consciamente di mettere alla prova le due grandi linee di forza che hanno attraversato due secoli di cultura statunitense: il mito della Natura come vera (e autosufficiente) fonte di vita e quello del darwinismo e della sua struggle for life. Una conferma di questa interpretazione viene dalla struttura del film che Sean Penn, autore anche della sceneggiatura, non ha costruito seguendo lo sviluppo cronologico della “fuga” di McCandless, ma frammentando (e mescolando) la linearità narrativa per mettere in evidenza alcuni momenti fondanti. Così noi scopriamo subito che Chris riuscirà ad arrivare in Alaska, la tappa finale di un viaggio dove spera di potersi finalmente confrontare con la Natura allo stato puro. Ma abbiamo anche il tempo per approfondire alcuni momenti e alcuni incontri più o meno importanti del viaggio, a cui il film affida il compito di vere e proprie “divagazioni filosofiche” sui singoli aspetti della mitologia e della cultura americana. Ecco allora l’esperienza della distanza attraverso gli spostamenti e i viaggi – in autostop, in treno, soprattutto a piedi – dove misurarsi con la Natura come estensione, come terreno di gioco. Oppure le pause di lavoro (Chris deve pensare a mantenersi, a pagarsi l’equipaggiamento per l’Alaska), dove il film ci mostra un’ altra America, agricola, ma soprattutto cameratesca, scanzonata, lontanissima dal perbenismo borghese della famiglia McCandless. O l’incontro con Jan e Rainey, hippies un po’ fuori tempo massimo che offrono al protagonista il calore di un affetto totalmente gratuito, senza autoritarismi o “ricatti sentimentali”. O ancora la componente più 57 selvaggia e inquietante della Natura, come le rapide del Gran Canyon, i fiumi in piena dell’Alaska, la mancanza di cibo. Alcuni critici hanno visto un parallelismo tra la storia di Chris McCandless e quella di Timothy Tredwell, protagonista del documentario The Grizzly man di Werner Herzog. Anche in questo caso una natura che era vista come salvezza e felicità si rivela crudele ed indifferente. Tredwell (di cui ho parlato in precedenza), venne ucciso dall’animale che considerava quasi suo fratello; McCandless, non adeguatamente equipaggiato, senza alcuna preparazione alle condizioni estreme che avrebbe incontrato, morì in seguito ad un’intossicazione alimentare. Egli mangiò una pianta velenosa di nome hedysarum mackenzii scambiandola per una buona, l’ headysarum alpinum e pare che questo errore fu fatale per il suo organismo. La natura selvaggia che tanto aveva bramato, l’Alaska di cui parlava agli altri con tono quasi puerile, lo aveva tradito, si era presa gioco di lui. Il viaggiatore infatti, dopo aver beneficiato delle meraviglie del paesaggio naturale ed incontaminato, s'immerge sempre più nella solitudine, fino a sfidare le stesse possibilità di sopravvivenza: la wilderness è libertà e verità, ma rappresenta anche il rischio e la minaccia ultima. In una scena ai limiti del sublime, McCandless, ormai stremato dalle privazioni, si trova di fronte un gigantesco orso bruno: forse affamato quanto lui, eppure non minaccioso. Qui Penn dà forma definitiva al mito dell'incontro tra due creature libere nel Paradiso Perduto, nostalgia lacerante di un'intera cultura tutt’ora in lutto per la perdita dell'innocenza e che, promotrice della “civiltà”, ad essa annette un irredimibile senso di peccato. Il film ha una valenza politica nonostante questo non sia l'intento di base. Alle volte, si trasforma in un vero e proprio atto di fede il cui credo fugge da tutto ciò che è religioso in senso stretto per trovare sfogo in una dimensione che è solo e unicamente personale. Tutti le persone che Chris incontrerà lungo il suo peregrinare oltre a colmare un vuoto familiare, fonte di profonde sofferenze, amplificano l'idea di un percorso a stadi funzionale a liberarsi da qualsiasi dipendenza da ogni tipo di comfort e privilegio. L'acquisizione della 58 saggezza avviene quasi per osmosi attraverso la spontaneità e la profondità degli incontri fatti. Più maturo e disinvolto nel lavoro registico, Penn gioca di forti contrasti nell'alternare gli ampi spazi dei diversi paesaggi mostrati, al costante senso di vuoto del ragazzo che risulta essere una pura estensione dell'enormità della natura. Il film è tratto dal bestseller Into the wild di Jon Kracauer: grande narratore di avventure estreme, egli divide il suo volume titolando i capitoli secondo le varie tappe geografiche percorse da McCandless. Penn decide di manifestare subito il vero intento dell’impresa, che pur volta alla ricerca di un contatto autentico con la Natura quale necessario compendio del rifiuto di ogni superflua ed effimera costruzione consumistica, è innanzitutto esplorazione delle regioni più intime dell’interiorità. Perciò scandisce la narrazione – che pur si dipana in un’alternanza della permanenza nelle terre d’Alaska alle numerose avventure del viaggio che parte da Atlanta – in capitoli che chiariscono da subito la natura iniziatica del percorso. Un grande roadmovie che è al tempo stesso metafora di un nuovo ciclo vitale, dalla nascita al fine ultimo raggiunto, nonostante le immancabili difficoltà e il tragico esito della prolungata erranza: la conquista della saggezza. Il tópos della wilderness, largamente frequentato da cinema e letteratura americani, accanto al suo significato romantico acquista un alto valore politico – come del resto era legittimo aspettarsi dall’autore – allorché sottolinea come, oltre alla ricerca estetica, è l’abiura dai principi in cui ha vissuto ed è cresciuto a muovere il protagonista, alla maniera di un altro dei grandi autori a lui cari, che non cesseranno mai di accompagnarlo e motivarlo (come dimostrano i numerosi libri e le annotazioni su di essi riportate nel bus 142, rifugio alaskiano). Un ultimo elemento che dà continuità al film è la musica, che Penn ha avuto in mente fin dall’inizio, indicando già dalla sceneggiatura molti temi musicali e canzoni. Alla fine la colonna sonora è risultata composta dalle canzoni originali e musiche di Eddie Vedder (Pearl Jam), e dai brani di per chitarra di Michael Brook e Kaki King. “Man mano che andavamo avanti con le riprese, ho cominciato a sentire 59 la voce di Eddie Vedder come l’anima di Chris McCandless” racconta Penn. A detta dello stesso, “ le canzoni di Vedder sono venute fuori in uno stile essenziale, spontaneo, in sintonia con lo spirito on the road del film. La musica – intima ed emotiva – sottolinea ancora di più la profondità e l’affascinante complessità degli interrogativi che McCandless si è lasciato alle spalle con la sua morte. Una cosa che si riflette anche in una frase scritta da Penn alla fine della sceneggiatura. Dice: “Chris è morto da vivo.” Quando gli si chiede di spiegarla, il regista sintetizza così: “Avendo vissuto, Chris vive ancora dentro di noi”. Il bestseller di Jon Krakauer, Into the wild, è stato pubblicato per la prima volta nel 1998 ed è diventato un istant classic della letteratura degli spazi selvaggi. Il libro ha conquistato lettori di ogni estrazione e provenienza indagando sulla vita si Chris McCandless. Chi egli fosse, quali luoghi ha visitato e come ha trascorso quei memorabili centotredici giorni nel territorio selvaggio dell’Alaska e con poche provviste, ecco la storia indimenticabile raccontata da Krakauer nel suo libro, estensione di un suo articolo per la rivista Outside Magazine. Alpinista e amante dell’avventura, attratto lui stesso dall’altitudine e dal rischio, Krakauer ha affrontato la storia di McCandless con piglio molto personale, quasi maniacale. Ha cominciato col chiedersi come mai tanti giovani americani fossero così attratti dal rischio, e in che modo i problemi famigliari e la ricerca di una vita autentica e piena di significato si intrecciassero nelle loro storie. Denso di mistero e di cruda intimità, il libro è avvincente anche se affronta temi impegnativi: il ruolo della natura selvaggia nell’immaginario americano, i legami e le schiavitù dei rapporti famigliari, il conflitto fra un rozzo individualismo e il bisogno di amore e vicinanza, e le contraddizioni dell’idealismo con la sua miscela di spinte egualitarie e arroganza. Il risultato è un bestseller esploso ben oltre i confini del suo genere, e apprezzato non solo come opera letteraria ma anche per i temi sollevati che sono subito stati al centro di un vivace dibattito. Il critico letterario Christopher LehmanHaupt ha scritto sul New York Times che Krakauer ha preso gli elementi controversi 60 della storia di McCandless e ne ha fatto “ un dramma struggente sul tema del desiderio umano”. Oggi, lo stesso Krakauer crede che, indipendentemente dalla riuscita del suo libro, Chris McCandless resta certamente un emblema dei grandi quesiti irrisolti della vita moderna. “Uno dei motivi per cui ho deciso di scrivere il libro è che mi sono identificato con Chris e mi sono sforzato di capirlo – anche se non pretendo di esserci riuscito fino in fondo” spiega Krakauer. “ Chris non era un ragazzo come gli altri. Era molto egocentrico. Era ostinato, impetuoso. Ma era anche puro di cuore. E la cosa straordinaria, di lui, è che non accettava compromessi. Aveva grandi ideali, un forte senso di rettitudine morale. Credeva che la sua missione nella vita fosse quella di abbandonare la via più facile. Molti lo hanno giudicato semplicemente un pazzo incompetente e irresponsabile – perché si sono chiesti, non si è portato un’accetta e una radio, andando in Alaska? Ma a loro Chris avrebbe risposto: “non sarebbe più stata un’avventura”. In un mondo come quello odierno, dove su una mappa non ci sono più spazi vuoti, Chris ha lasciato a casa tutte le mappe. La pellicola Into the Wild ha ricevuto ottime recensioni da parte della critica. Le recensioni raccolte sul sito www.rottentomatoes.com riportano 83% di recensioni positive su 155. Il critico del Chicago Sun-Times, Roger Ebert ha dato al film quattro stelle definendolo: “affascinante” ed elogiando la performance di Emile Hirsch, definendola come una “interpretazione ipnotica e una grande prova d'attore”, lodando inoltre il lavoro eseguito da Sean Penn. L'American Film Institute ha inserito il film nella lista “ AFI Movie of the Year” del 2007, inoltre il National Board of Review lo ha incluso tra i dieci film dell'anno. In Italia il film ha incassato 5.050.093 € ed è rimasto in programmazione nelle sale per tre mesi, un vero record di questi tempi. Alcune polemiche sono nate a causa della scena dello scuoiamento di un alce, il tutto ripreso in primo piano. Paolo Spicacci, rappresentante dell'Enpa nella commissione di revisione cinematografica del Ministero dei Beni Culturali, ha chiesto il taglio della scena, che a detta di Spicacci disturba la sensibilità di chi ama gli animali e lede la 61 dignità degli animali stessi. Inizialmente la produzione ha tenuto a sottolineare che l'animale in questione non è stato ucciso espressamente per realizzare la scena, ma che è stato vittima di un incidente stradale, in seguito alle polemiche l'American Humaine Association ha certificato che l'animale in realtà non è vero. 62 BIBLIOGRAFIA AIMERI L., GIAMPIERI F., Manuale dei generi cinematografici, UTET Libreria, Torino, 2002 BOURGET J. L., Il cinema americano, Edizioni dedalo, Milano, 1985 CENTINI M., La wilderness. La natura selvaggia e l’uomo, Xenia edizioni, Milano, 2003 DIZIONARIO DI INGLESE, Haston, 2006 EMERSON R.W., Natura e altri saggi, Rizzoli libri, Milano, 1990 GANDINI L., L’immagine della città americana nel cinema hollywoodiano (1927-1932), clueb editore, 1994 GAUGAIN P., Diario di un selvaggio, Parma, 1988 ICONS, Fotografia del XX° secolo, Taschen, Koln, 2004 LA POLLA F., Sidney Pollack. Il Castoro cinema, La nuova Italia, Firenze, 1978, pp.6270 LEOPOLD A., Almanacco di un mondo semplice, Red edizioni, Como 1997 LONDON J., Zanna bianca, Mursia, Milano, 1987 JUNGER E., Trattato del ribelle, Milano, 1990 KEROUAC J., Sulla strada, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1995 KRAKAUER J., Nelle terre estreme, Corbaccio, Milano, 2008 MALSON L., I ragazzi selvaggi, Rizzoli, Milano, 1971 NAESS A., Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Como, 1994 REGOSA M., Breve storia del cinema, BCM editrice, Milano, 1998 SNYDER G., Nel mondo selvaggio, Red edizioni, Como, 1992 THOUREAU H.D., Walden. La vite nel bosco, Donzelli editore, Roma, 2005 63 SITOGRAFIA http://books.google.it ultima visita 26-04-08 h 18.47 http://en.wikipedia.org/wiki/Anthony_Storr 23-05-08 h 23.12 http://en.wikipedia.org/wiki/Edward_Hoagland 23-05-08 h 23.14 http://en.wikipedia.org/wiki/John_Haines 23-05-08 h 23.08 http://it.wikipedia.org/wiki/John_Muir 23-05-08 h 23.11 http://en.wikipedia.org/wiki/Paul_Shepard 23-05-08 h 23.25 http://www.ariannaeditrice.it 16-03-08 h 18.46 http://www.filosofico.net 12-03-08 http://www.alfredotradigo.it 12-03-08 h 11.43 h 12.35 http://www.webspawner.com/users/thoreaumio/ 15-04-08 h 18.47 http://www.interloc.com 15-04-08 h 18.32 http://www.imdb.com 16-05-08 h 18.02 http://www.vh1.com 14-03-08 h 19.49 http://www.mymovies.it 1-07-08 http://www.archivio.raiuno.rai.it 12-04-08 h 23.45 http://www.wernerherzog.com 16-04-08 h 22.12 http://en.wikipedia.org/wiki/Grizzly_Man 16-04-08 h 23.56 http://en.wikipedia.org/wiki/JeremiahJohnson 14-05-08 h 19.03 http://en.wikipedia.org/wiki/Sydney_Pollack 14-05-08 h 19.09 http://cinemavvenire.it 1-07-08 http://www.drammaturgia.it 26-04-08 h 23.34 http://news.nationalgeographic.com 16-04-08 h 22.09 h 12.34 h 12.46 64 http://en.wikipedia.org/wiki/Timothy_Treadwell 16-04-08 h 21.54 http://www.npr.org 21-04-08 h 23.42 http://www.nytimes.com 19-05-08 h 18.32 http://www.nature.com 13-05-08 h 19.12 http://www.repubblica.it 02-07-08 h 17.34 http://www.youtube.com 17-04-08 h 12.57 http://wm04.allmovie.com 15-04-08 h 18.39 http://en.wikipedia.org/wiki/Never_Cry_Wolf_(film) 27-06-08 h 12.38 http://www.intothewild.com 19-05-08 h 19.07 http://iulm.it 17-04-08 h 13.22 http://imdb.com 01-07-08 h 18.20 http://www.trascendetalists.com 17-04-08 h 12.59 http://www.pearljamonline.it 28-11-07 h 23.47 http://www.bimfilm.com/intothewild/ 19-05-08 h 19.16 ARTICOLI E SAGGI CATTANEO F., L’uomo nello specchio dell’orso, Cineforum 2006 n°460, pp.17-20 PEZZOTTA A., The grizzly man, Segnocinema 2006 n°143, pp.44 NOYS B., Antiphusis: Herzog’s Grizzly man, Film philosophy 11.3, novembre 2007 pp.39-49 PEROSINO S., Al limite estremo, I documentary di Werner Herzog, Sentieri selvaggi, pp.48-49 65 FILMOGRAFIA TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO NELL’AZZURRO MARE DI AGOSTO(1974) Regia: Lina Wertmüller; Sceneggiatura: Lina Wertmüller; Fotografia:Giulio Battiferri ; Musica: Piero Piccioni ; Montaggio: Franco Faticelli ; Interpreti: Giancarlo Giannini, Mariangela Melato,Riccardo Salvino, Isa Danieli, Aldo Puglisi, Anna Melita ;Produzione: Medusa Romano Cardarelli ; Durata 125’ CAST AWAY (2000) Regia: Robert Zemeckis; Sceneggiatura:William Broyles Jr. ; Fotografia:Don Burgess ; Musica:Alan Silvestri ; Montaggio:Arthur Scmidt ; Interpreti: Tom Hanks, Helen Hunt, Chris Noth, Michael Forest, Nan Martin, Dennis Letts, Aaron Rapke, Joe Conley; Produzione: 20th century fox, Dreamworks, Image Movers, Playtone UIP; Durata: 143’ MAN IN THE WILDERNESS (UOMO BIANCO VA COL TUO DIO 1971) Regia: Richard C.Sarafian; Sceneggiatura: Jack De Witt ; Fotografia (Technicolor): Gerry Fisher ; Musica: Johnny Harris ;Montaggio:Geoffrey Foot ; Interpreti: Richard Harris ; John Huston , James Doohan , Henry Wilconxon ; Produzione:Production Company ; Durata: 104’ THE GRIZZLY MAN (2005) Regia: Wener Herzog; Fotografia: Peter Zeitlinger; Musica:Richard Thompson, Jim O’Rourke; Montaggio: Joe Bini; Interpreti: Franc G. Fallico, Amie Huguenard, Timothy Treadwell, Werner Herzog, Jewel Palovak; Produzione: Discovery Docs ; Durata: 100’ JEREMIAH JOHNSON (CORVO ROSSO NON AVRAI IL MIO SCALPO 1972) Regia: Sidney Pollack; Sceneggiatura: John Milius, Edward Anhalt dal romanzo Mountain Man di Vardis Fisher e dalla novella Crow Killer di Raymond Thorp e Robert Bunker; Fotografia (Technicolor, Panavision): Duke Callaghan; Musica: John Rubinstein, Tim McIntire; Regia della 2° unità: Mike Moder;Interpreti:Robert Redford , Will Geer , Delle Bolton ,Stefan Gierasch ; Produzione:Warner Brothers (U.S.A); Durata: 108’ 66 NEVER CRY WOLF (MAI GRIDARE AL LUPO 1983) Regia: Carroll Ballard ; Sceneggiatura: Curtis Hanson, Sam Hamm, Richard Kletter dall’autobiografia di Farlay Mowat ; Fotografia:Hiro Narita ; Musica: Mark Isham; Montaggio:Michael Chandler, Peter Palasheles ;Interpreti: Charles Martin Smith, Brian Dennehy, Zachary Ittimangnaq; Produzione: Amarok Production LTD ; Durata:105’ INTO THE WILD(NELLE TERRE SELVAGGE 2008) Regia: Sean Penn; Sceneggiatura: Sean Penn dal romanzo di Jon Krakauer Nelle terre estreme; Fotografia:Eric Gautier ; Musica:Michael Brook, Kaki King, Eddie vedder; Montaggio:Jay Cassidy ; Interpreti: Emile Hirsch, Marcia Gay Harden,William Hurt, Jenna Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Kristen Stewart, Hal Holbrook; Produzione: Paramount Advantage, River Road Entertainment; Durata: 148’ 67 68