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nasce un predicatore - Luca Sossella editore
ANNO XII NUMERO 20 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 24 GENNAIO 2007 (foto: New Foto Sud) di Annalena Benini Napoli. Il teatro in piedi ad applaudire, Walter Veltroni al centro del palco, immobile, palmi aperti e sollevati a raccogliere ogni battito di mani, ogni grido d’amore. Molti minuti così, finché il sindaco è tornato piano dietro le quinte, il sipario rosso è calato e i napoletani, vestiti da prima della Scala, hanno iniziato a baciarsi tra loro, entusiasti, le mogli bionde e rasserenate ad asciugarsi le lacrime. Perché quel finale sudamericano sull’utopia che se ne sta all’orizzonte e non si lascia raggiungere, tu cammini dieci passi e l’orizzonte si allontana dieci passi più in là, e allora a cosa serve l’Utopia? “A questo serve: a camminare”, ecco, dopo due ore di preparazione dello stato d’animo perfetto, quella frase ha fatto venire giù il teatro. Veltroni ha così dato lunedì sera spettacolarmente inizio a una tournée pazzesca (ha detto, prima di cominciare: “Andrò anche a Milano, a Torino, ma non chiamatelo tour, è solo un atto d’amore verso la politica”, infatti non è un tour ma una tournée teatrale, con una sedia rossa di velluto, un leggio, un microfono, le immagini che scorrono e la gente, fuori, che fa a pugni per entrare), l’ha fatto dopo le prove generali e cittadine all’Auditorium, il suo amorevole Auditorium alla porchetta. L’altra sera al Mercadante di Napoli, infatti, era molto di più, era l’inaugurazione di una retorica politica talmente nuova che nessuno ha osato sghignazzare sul romanziere, nessuno ha scherzato sull’Africa, nessuno ha riso quando Veltroni ha detto: “Non bisogna lasciarsi vivere”, più di una canzone di Baglioni, più di Venditti, più di tutto. Qualche napoletano allegro con sciarpa morbida da teatro però, si sa, dopo essersi arrossato le mani in sala, non ha resistito e fuori, sulla piazza del Municipio, davanti al castello e alle gru, tra sorrisi e sigarette si è lasciato andare: “Vabbuò Veltroni, ma vafangùlo, va’”. E’ stato un trionfo vero (e Antonio Bassolino, in platea, chinava la testa, e Rosa Russo Iervolino se n’è andata alla svelta salutando con la mano, incespicando un po’ sui tacchi), tutti in fila per un posto in sala, molti lì in piedi per urlargli: “Sei il miglioreee”, e lui allora: “Calma, è un po’ presto per dirlo”, ma è già vestito da Kennedy, è già pronto con le parole in fila, i grandi personaggi da rappresentare, e la grande religione dell’utopia con cui accarezzare tut- NASCE UN PREDICATORE BELLA POLITICA & FACCIA TOSTA Spettacolare tappa napoletana del tour di Veltroni (fra concetti alti e bellurie da sciampisti solidali) ti: racconti con cui è impossibile non essere d’accordo, stati d’animo che non si potrà mai criticare, speranza di bellezza per il futuro, una cosa talmente poco italiana che va per forza riempita di citazioni americane, ma è Veltroni a farlo, e d’ora in poi sarà lui, quello nuovo. Quello con Charlie Chaplin in tasca e Barack Obama in mente, quello che dice, serio: “Put the people first” e parla di badanti da tutelare e pensionati da assistere, sentendosi un po’ come Martin Luther King, “il più grande discorso politico del Novecento”, quando gridava del sogno per i suoi quattro bam- “Vi prego, non c’è niente oltre all’amore per la politica, vi prego, davvero, è solo un’altra delle mie favolose idee, e grazie Napoli” bini neri: stringere le mani di tutti i loro fratelli bianchi, in ogni stato d’America. Walter Veltroni si è preso tutto, ha usato tutto, è diventato tutto. Ha messo in fila gli eroi, ne è diventato il portavoce e l’amico per sempre. Si guarderà per la trecentesima volta il film “Sacco e Vanzetti”, oppure “Il candidato”e sarà la volta in cui verrà in mente Veltroni in giacca e camicia. Ha usato Gandhi, ha usato Craxi, Charlot, ha usato Ingrid Betancourt che piange e Robert Redford che ride, ha preso perfino in prestito un film appena uscito nelle sale, “Bobby”di Emilio Estevez: ha mostrato, ringraziando per la gentile concessione, la scena dell’assassinio dell’altro Kennedy, Robert, nelle cucine di un ristorante a Los Angeles, nel 1968. Così si può guardare tutto quel sangue finale, sparso da un attentatore palestinese, e vedere Sharon Stone che piange con acconciatura cotonata, Antony Hopkins che resta attonito, la voce fuori campo (uno degli ultimi discorsi di Bob Kennedy) che spiega l’insensatezza dell’odio, e il disonore di una nazione che individua nel proprio spaurito fratello un nemico da combattere. Così, dopo il sangue e le lacrime e le facce intense e glamour, Veltroni ha potuto finalmente dire che “Abbiamo bisogno di tornare a sognare. Anche quel che sembra impossibile, irraggiungibile”. E dicendolo, in quel modo poi, cioè con garbo, voce bassa e i grandi personaggi del passato a tenergli la mano, è diventato l’unico candidato possibile al sogno. Anche perché in questa lezione magistrale sulla bella politica Veltroni ha lasciato libero soltanto lo spazio per l’uomo del presente (in America ha mostrato Barack Obama parlare di “audacia della speranza”), in Italia no, non c’è nessuno tranne lui, ora che in modernità d’immagine ha superato Silvio Berlusconi, ora che ha fatto quel che nemmeno il Cav., cioè il tenutario assoluto della megalomania, aveva mai osato fare: mettersi accanto al film della storia. C’era Enrico Berlinguer, che continuava a dire: “Dobbiamo lavorare” anche E ora Torino, Milano, Tirana (e un Dvd) Roma. Dicono in Campidoglio che “sono arrivate centinaia di richieste di replica” della lezione veltroniana sulla politica. Università, partiti, associazioni varie, teatri. Ieri persino dall’Albania. Si è fatto vivo il sindaco di Tirana, il socialista Edi Rama, per chiedere al collega capitolino di fare una puntatina nella sua città. “La tua lezione sarà per me motivo di orgoglio e onore – ha scritto ispirato Rama a Veltroni – perché grazie a te farò un regalo ai miei concittadini”. E Walter, a Tirana ci sarà al più presto. Di tutti i rimanenti inviti ne ha accettato solo altri due, “non ce la faccio proprio”, dopo la puntata al Mercadante di Napoli: a Milano il 9 febbraio, teatro dal Verme, a Torino il 26, teatro Carignano. Dicono in Campidoglio che “il sindaco non è in tournée”, anche se poi la scelta è caduta proprio su tre teatri, “ma a prendere contatto con gli organizzatori è l’Auditorium di Roma”, che per la prima volta, a dicembre, ha ospitato la serata veltroniana sul tema “Cos’è la politica”. Lezione, spiegano e rispiegano i collaboratori del sindaco, mica isolata, piuttosto in compagnia di serate analoghe sul tema, per dire, della giustizia o dell’architettura, tenute da Franco Cordero come da Renzo Piano. Fatto sta che a lasciare il segno, a tramutarsi in un singolare fenomeno di massa, è stata solo quella veltroniana. E lo stesso sindaco “quando ha visto mille e duecento persone, pronte a pagare cinque euro a testa” per sentirlo raccontare la sua “bella politica” (il titolo di un suo libro intervista di oltre dieci anni fa), ha capito che era il caso di replicare. “A lui è piaciuta subito l’idea di raccontare la politica, di come può essere bella e intensa”, dicono in Campidoglio. Ma già da prima l’impegno all’Auditorium non era stato vissuto come un qualsiasi altro impegno. Nulla lasciato al caso, persino la scelta del sindaco di apparire sul palco, in queste occasioni, senza cravatta, informale, intellettual-professorale anziché politico di primo piano. E infatti attorno all’iniziativa ha messo al lavoro quasi l’intero suo staff in comune. Il discorso poi l’ha tirato giù lui (lavorandoci per diversi giorni), l’ha fatto revisionare a Claudio Novelli, speechwriter di fiducia. La scelta dei filmati e il montaggio sono stati fatti con Roberto Malfatto, “esperto in convention del centrosinistra”, e Roberto Benini, altro suo collaboratore. Il tutto sotto la supervisione di Walter Verini, braccio destro di Veltroni nel palazzo del Campidoglio. Ma prima ancora di mettersi al computer, il sindaco ha organizzato diversi incontri con più persone – per esempio, ha partecipato anche lo scrittore Ugo Riccarelli, l’autore de “Il dolore perfetto”, che con Veltroni lavora quotidianamente – solo per parlare del tema della lezione, per raccogliere suggerimenti, per ascoltare perplessità. “Niente va lasciato al caso”, la parola d’ordine. Dalla cravatta, appunto, alla scelta dei filmati, dai discorsi da citare, agli abbinamenti da fare (per esempio mettere insieme Alcide De Gasperi e il Bettino Craxi di Sigonella). Sapeva benissimo, il sindaco, che tra gli stessi Ds qualcuno avrebbe parlato di “veltronata”, qualcuno avrebbe fatto dell’ironia. Ma quella sera di dicembre, all’Auditorium, ha capito di aver fatto (mediaticamente, poi politicamente si vedrà) centro. E ha deciso di esportare anche oltre il raccordo anulare (e persino oltre l’Adriatico) la fortunata iniziativa. Il testo, del resto, più veltroniano non potrebbe essere. Da Chaplin ai Kennedy, da Gandhi a Mandela, da “I have a dream”, che appunto occorre “tornare a sognare”, ai ragazzi di Tien An Men, tutto l’immaginario del primo cittadino c’è, l’evocazione fascinosa della “bellezza della politica”, detto con precisione: “Idealismo pragmatico”. “L’iniziativa è nata sei mesi fa, al di fuori della stringente attualità, e per iniziativa dell’Auditorium”, ripetono i collaboratori di Veltroni. Che però ha preso al volo il successo, “persino inaspettato”, del debutto. E anche se ripete di “non cercare quello che non c’è”, è chiaro che sta sparigliando il dibattito a sinistra e sul Partito democratico con strumenti che nessun altro nel centrosinistra (e ormai anche nel centrodestra) può solo pensare di possedere. E in ogni modo, per coloro che hanno perso gli appuntamenti di Roma e di Napoli, e che magari perderanno quelli di Milano e Torino, c’è sempre la possibilità di rifarsi, con tutto comodo a casa, visto che la lezione veltroniana (come le altre dell’Auditorium) sarà possibile rimediarla anche in Dvd, edito da Luca Sossella. Veltroni finisce la sua lezione citando Eduardo Galeano, sull’orizzonte che più cammini e più si allontana. “A che serve l’Utopia? A questo serve: a camminare”. Curiosamente, Fausto ripete spesso la stessa cosa usando i versi di Kavafis su Itaca che “ti ha dato un bel viaggio” e quindi “che cos’altro ti aspetti?”. E questo è trovare quello che c’è. mentre si accasciava sul banco, c’era Benigno Zaccagnini che con gli occhi lucidi ripensava a Moro e chiedeva alla vedova di perdonarlo se non aveva fatto abbastanza, c’era Bettino Craxi che rispondeva “no” agli Stati Uniti, e Alcide De Gasperi che costruiva la pace italiana a Parigi. Nessun altro, in effetti, nessuno dopo Vittorio Foa che dice “non so” e a Veltroni pare una meraviglia piena di significati. Ma Veltroni era lì apposta, in piedi, felice e serio, prontissimo a “non lasciarsi vivere” e a diventare l’altra immagine a colori, dopo la loro. Ha ripetuto ancora una volta, prima di cominciare: certo che no, non c’è niente oltre all’amore per la politica, vi prego, davvero, è solo un’altra delle mie favolose idee, e grazie Napoli anche perché non riuscite a starci tutti, dentro questo piccolo teatro. Una lectio magistralis e nient’altro (del resto anche Franco Cordero andrà a parlare di “che cos’è la giustizia”, anche lui in replica post Auditorium; del resto l’ingresso era libero fino a esaurimento posti, la serata lieve, il teatro in centro; del resto Giovanna Melandri era andata a prendere un caffè al Gambrinus, quel pomeriggio, con le signore di Emily, per sognare un Partito democratico pieno di ragazze sorridenti e vaporose). Ma Veltroni era concentrato, pronto al salto e senza cravatta, perché l’umanizzazione conta, come le camicie americane (“quel certo modo disinvolto di portare il classico che lo fa riconoscere”, ha detto infatti Giorgio Ar- mani di lui), e aveva studiato per bene quell’effetto di ombre e luci per cui il suo profilo intento accompagnava ogni grande discorso, ogni bellissima frase impossibile da sbagliare, ogni speranza di futuri splendidi e condivisi, con l’arma fortissima degli archivi in bianco e nero rinfrescati, da sempre uno dei migliori programmi in tivù. Ha messo, dentro la nuova retorica da leggere, anche Antoine de Saint-Exupery, “Il piccolo principe” (che sì, insieme a Siddartha è il libro più adorato dagli sciampisti solidali), ma era comunque perfetto, senza sbavature: “Se La moralità, se di moralità ci si vuole servire, ha bisogno di poesia, sennò diventa un programma di Santoro sulla mafia, e ci si addormenta vuoi costruire una nave non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”. Perché la moralità, se di moralità ci si vuole servire, ha bisogno di poesia, sennò diventa un programma di Santoro sulla mafia, sennò ci si addormenta, in un teatro caldo e nelle poltroncine di velluto. Invece le belle signore erano lì, coi gomiti sullo schienale di fronte, labbra socchiuse, e i signori applaudivano a metà, felici di sentire frasi così: “Conta essere, non conta apparire. Nella vita, non solo nella politica”, come se fosse tutto vero e possibile, come se davvero Veltroni avesse raggiunto lo scopo: “Trasmettere insieme serietà programmatica e una specie di luce interiore”, aveva detto parecchi anni fa. L’ha fatto, è ridicolo ma ci è riuscito. Quando ha spiegato: “Dobbiamo reintrodurre l’etica pubblica”, aveva già vinto. Quando ha letto: “Guardate, non c’è politica senza valori, senza programmi, senza condivisione”, non ha detto nulla ma l’hanno applaudito forte, perché uno così, che scarica le canzoni da Internet e fa le compilation la notte, è in fondo il massimo della modernità non gelida che si possa avere. Uno che ha visto tutti i film e sa cos’è un iPod, si ricorda il passato, si commuove molto, dedica strade a chiunque e continua, ferocemente, con la storia della bontà. “Abbiamo bisogno di ritrovare la passione per la politica. Di riscoprirne la bellezza, e insieme il suo essere lo strumento più alto e nobile di cui gli uomini concretamente dispongono per tracciare il loro cammino, se saranno capaci di restituirle la saggezza, il pudore e il senso di giustizia di cui parlava Platone”. Platone, Prometeo, Nelson Mandela e anche i Procol Harum, con “A Whiter shade of pale” (ma bisogna avere visto molte volte il Grande freddo, possedere il vinile, piangere spesso): mentre Veltroni se ne stava lì, fermo, immerso negli applausi, la canzone che aveva scelto per i saluti era spudoratamente lacrimevole, bellissima: “We skipped the light Fandango…”, quella dei lenti in cui finalmente ci si baciava alle feste. Non c’è niente, in questa performance da predicatore con faccia tosta e cuore gonfio, che si possa sbeffeggiare fino in fondo. Non c’è nessun altro che abbia avuto la stessa idea, qui. Non c’è immagine, di quelle mostrate, che non faccia salire agli occhi qualche lacrima. Nemmeno il fatto che abbia letto i fogli per tutto il tempo (neanche un pezzetto a memoria, un po’ d’improvvisazione, una divagazione, una battuta) senza scartare mai dal discorso perfetto, nemmeno questo significa che è tutto finto. Lui fa le lezioni magistrali, gli atti d’amore alla politica, le tourneé col leggio, mica i comizi. Quelli che non lo sopportano proprio Roma. Per Andrea Romano, il segreto di Walter Veltroni è “la capacità di trasformare l’arte della fuga nella retorica del coraggio”. Secondo Giovanni Sabbatucci si tratta di una novità assoluta, che definisce “populismo inclusivo”. Per Bruno Tabacci è solamente una sorta di “antipolitica buonista”. Tra coloro che pure non applaudono alla tournée di Walter Veltroni – tra politici, storici e intellettuali di diverso orientamento – nessuno nega l’originalità e l’efficacia della sua retorica. Sostiene lo storico Sabbatucci: “Il discorso populista, storicamente, si basa sull’individuazione di un popolo buono, depositario di tutte le virtù, e di un nemico più o meno nascosto, intento a cospirare e perciò responsabile di tutti i mali. Ma nel populismo inclusivo veltroniano manca il nemico. E questo fa di lui una figura del tutto inedita”. La natura strettamente non conflittuale del discorso veltroniano è quella che colpisce anche Andrea Romano, che proprio alla generazione dei Veltroni, D’Alema e Fassino ha dedicato un libro di prossima uscita per Mondadori, il 20 febbraio, dal titolo assai significativo: “Compagni di scuola - Ascesa e declino dei post comunisti”. Nella “lectio” del sindaco, Andrea Romano ritrova la sintesi “questa sì, davvero magistrale”, del solito discorso veltroniano. “La capacità non comune di trasformare l’arte della fuga nella retorica del coraggio. Sono venti anni che Veltroni ci dice quanto sia importante il coraggio in politica, rifacendosi a ogni sorta di martire, dai Kennedy a Martin Luther King. Ma la sua è stata l’onesta carriera di un comunista berlingueriano che certo non andava in giro per le sezioni predicando l’eterodossia o dicendo di non essere comunista, finché c’è stato il Pci. Da segretario dei Ds ha collezionato solo sconfitte, salvo candidarsi al Campidoglio appena in tempo per evitare di doverne rendere conto a qualcuno. Anche questa è un’arte, sia chiaro. Però mi domando: è possibile immaginare un Veltroni presidente del Consiglio nel bel mezzo di una crisi internazionale? Cosa farebbe, nel momento in cui non fosse possibile dare ragione a tutti, o semplicemente darsi alla fuga?”. A questa domanda – cosa farebbe il premier Veltroni dinanzi a una crisi internazionale – Bruno Tabacci dà una risposta lapidaria: “Temo che la crisi non potrebbe giovarsi del suo contributo”. Il parlamentare dell’Udc è convin- to infatti che “l’antipolitica buonista sta lontana dalle durezze, dai contrasti e dai confronti”. Ma così, prosegue, non si capisce come “il paese possa affrontare le questioni legate al suo immobilismo”. Quella di Veltroni è insomma “la retorica del bipolarismo leaderistico all’italiana”. Nei Ds, a microfoni spenti, i commenti si fanno anche più sferzanti. “Una pagina da libro Cuore, con la differenza che almeno lì c’era la storia del Risorgimento”. Nello spettacolo veltroniano, invece, niente storia. Storielle, parabole, raccontini edificanti. “Camaleontismo di sottocultura, di chi non legge libri ma solo le classifiche delle vendite. Lo stesso processo che ha trasformato l’auditorium in una sagra di paese. Ma come? Prendi il più grande architetto del mondo, gli commissioni la più importante opera pubblica per la musica classica in Italia, per la cultura, e la trasformi in un luna park, con i gazebo da mercatino, i camioncini con lo zucchero filato, i saltimbanchi e la porchetta?”. Resta da spiegare il segreto del suo successo, perlomeno sui giornali. Qualcuno, però, nega anche questo: “Mi sembra avviato verso un triste declino. Persino sui giornali di questi giorni, da una parte è raffigurato con il cardinal Ruini mentre intitola e poi si rimangia l’intitolazione della stazione Termini a Giovanni Paolo II, dall’altra mentre esce dalla sinagoga con la kippa in testa, su un giornale accanto all’immagine di Charlie Chaplin, su un altro mentre dispensa consigli a Hillary Clinton dopo essersi buttato su Obama. Insomma, nemmeno sulla stampa ha più un’iconografia da persona seria”. Una spiegazione del suo successo, invece, l’avanza Romano: “La differenza tra il sindaco di Roma e tutti gli altri leader politici è che Walter Veltroni è totalmente privo di inibizioni. Dopo avere passato anni nel Pci, Veltroni è capace di dire che Berlinguer era a capo di un partito non comunista. Questo è il suo vero elemento di forza, e qui credo conti molto la sua formazione personale. E’ questo elemento di leggerezza, come direbbe lui citando Calvino, che spiega la celebre intervista che rilasciò non appena eletto segretario dei Ds, quando dichiarò di non essere mai stato comunista. La capacità quasi sovrumana, insomma, di dire cose banali e cose platealmente infondate, risultando sempre credibile”. E perfino coraggioso. ANNO XII NUMERO 20 - PAG II IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 24 GENNAIO 2007 La bella politica in cammino da Platone verso il domani Il testo della lezione di Walter Veltroni. Quasi una pièce teatrale che spazia da Chaplin ad Hannah Arendt, dal mito di Prometeo ed Epimeteo a Machiavelli, da Gandhi al Craxi di Sigonellla La denuncia del potere vissuto come fine e non come mezzo, il dovere di essere “intrecciati” con il popolo, le grandi sfide dell’umanità e il valore trainante dell’Utopia Se vogliamo provare a domandarci “che cos’è la politica”, dobbiamo partire da qui. Dal fatto che nella storia la politica è stata sempre al centro delle attività degli uomini Dall’alto: Alcide De Gasperi Enrico Berlinguer Bettino Craxi Nelson Mandela Barack Obama “IL GRANDE DITTATORE” Il discorso che avete ascoltato non fu scritto da un uomo politico. Charlie Chaplin non lo era, ed è straordinario pensare che questo film fu girato nel 1940. La Seconda guerra mondiale era scoppiata da poco. Non sapeva, Chaplin, non poteva sapere. Ma aveva capito. Quando la caduta nell’abisso era solo iniziata, quando Auschwitz era solo un nome, e non l’inferno arrivato fin sulla Terra. Non è un politico nemmeno il personaggio del film che lo pronuncia, questo discorso. E’ un piccolo uomo, un semplice barbiere, ebreo, lontano dalla politica, estraneo al clima di odio e di intolleranza del suo tempo. Ci si trova dentro suo malgrado, all’inizio senza nemmeno comprendere bene. Un piccolo uomo, preso negli ingranaggi della grande Storia, che da quella tribuna stipata di uomini in divisa, ansiosi di guerra, trova però la forza, d’istinto, quasi d’incanto, di pronunciare parole di fratellanza e di pace universale, di costruire un discorso senza tempo, incastonato di immagini che trasmettono l’essenza della politica, la sua bellezza, gli ideali e la passione che possono animarla, le aspirazioni che possono renderla alta. E’ vero: parlare di “bellezza” della politica oggi rischia di sembrare non solo irrituale, ma strano, stridente. Oggi, agli occhi dei più, la parola “politica” appare terribilmente consumata. Nei suoi confronti c’è delusione, distacco, se non rifiuto e ostilità. Ma non è stato sempre così, nel corso delle vicende umane. Al contrario. E se vogliamo provare a domandarci “che cos’è la politica”, dobbiamo partire da qui. Dal fatto che nella storia la politica è stata sempre al centro delle attività degli uomini. Ne ha determinato le condizioni. Ha indirizzato il loro cammino. Ha influito sulle loro sorti. “Arte regia”, la definiva Platone, che rilesse in questa chiave uno dei miti più celebri di tutta l’antichità greca, il mito di Prometeo. All’origine della storia dell’umanità – dice Platone – Zeus incarica due fratelli, semidei, Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte le specie viventi le “qualità” che consentano loro di sopravvivere. A questo compito provvede Epimeteo, che come spiega l’etimologia del suo nome è “colui che vede dopo”, dunque che non coglie le cose con la cura dovuta, con l’attenzione necessaria. Epimeteo distribuisce le diverse qualità, e cioè la velocità, la forza, le unghie, gli artigli, alle varie specie viventi, dimenticando però gli uomini. A quel punto, esaurita la scorta delle qualità disponibili, interviene Prometeo, che è invece “colui che vede prima”, ed è quindi saggio, avveduto. Prometeo capisce che deve evitare l’estinzione dell’umanità, che senza le qualità necessarie alla sopravvivenza sarebbe stata abbandonata a se stessa, e compie il furto sacrilego, sottrae ad Efesto e ad Atena il fuoco e il “sapere tecnico”, e li dona agli uomini, che così entrano in possesso di ciò che dovrebbe servir loro per scongiurare gli attacchi delle fiere, per sopravvivere. Ma gli uomini vivono ancora dispersi, senza aggregarsi tra loro. E così restano vulnerabili, continuano a subire aggressioni, e muoiono. Questo accade, continua Platone, perché essi non posseggono ancora l’arte politica, politiké techne. Occorre a questo punto – così si conclude il mito – un intervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturisce l’esercizio dell’arte politica. Ecco dunque la polis, che per i greci è uno spazio sicuro, ordinato e calmo, dove gli uomini possono dedicarsi alla ricerca della felicità. Il politico è colui che si prende cura di questo spazio. La politica è a servizio della felicità degli abitanti della città. Verranno poi, molto presto e nel corso dei secoli, le durezze della storia. Verrà il peso assunto dalla violenza e dalle guerre nel dirimere i contrasti tra gli uomini e tra i popoli, e le dinamiche del potere nei rapporti tra stati e sovrani descritte da Machiavelli. E poi ancora verranno i cambiamenti epocali prodotti dalle rivoluzioni dei commerci e delle industrie, quelli provocati dal rovesciamento degli antichi regimi e dalla nascita di nuovi imperi, da restaurazioni e da movimenti nazionali, dalle lotte sociali. Verranno le rivoluzioni, i conflitti mondiali, e le dittature. In tutto questo la politica sarà sempre più calata, dagli uomini, nella complessità e nelle profondità della storia. Non sarà più patrimonio esclusivo dei nobili, com’era nell’antica Grecia, dove i lavoratori, liberi o schiavi che fossero, ne erano esclusi. Sarà utilizzata a fini di potere, esercitata per mantenere uguali a se stessi gli ordinamenti sociali, ma anche per rovesciarli, o per tentare di farlo. Sarà usata per togliere libertà, ma anche per restituirla. Per opprimere i popoli, ma anche per risollevarli. A volte si eclisserà, perché non c’è vera politica quando è una sola voce a poter parlare, quando è un solo pensiero a dominare, o quando il rumore delle armi sovrasta ogni altra voce. Ma sempre tornerà a farsi vedere, perché “la politica – come scriveva Hannah Arendt – è la favola di un tesoro antichissimo, che scompare celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, e di nuovo appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, come una fata morgana”. Oggi, quando siamo ancora agli inizi di un secolo che per tanti motivi ci sembra però già così pesante, che cos’è dunque la politica? A che punto siamo di questa “favola” che da oltre due millenni accompagna la vita degli uomini? La politica è scomparsa dietro uno dei suoi travestimenti oppure ha assunto delle sembianze nuove che facciamo fatica a scorgere? E’ difficile sfuggire alla sensazione che oggi, mentre tutto si muove velocemente, la politica invece sia lenta, impacciata, in ritardo. Non è qualcosa che riguarda solo il nostro paese, solo noi italiani. E’ qualcosa di più ampio e di più profondo, che interessa tutte E’ una politica che finisce col preferire, per autoconservazione, la fragilità di un sistema alla chiarezza e alla forza di una democrazia vissuta nell’equilibrio tra un potere di decisione e un potere di controllo. L’uno e l’altro affidati all’unico sovrano, in una democrazia: il popolo che vota. Così la politica si ritrae e finisce per scambiare miopia e presbiopia. Finisce per coltivare l’idea che il potere sia il fine e non il mezzo. Parlo dell’occidente tutto, dell’evidente crisi dei meccanismi di decisione democratica in una società globalizzata e con un’economia forte. E’ prova di tutto questo la dipendenza della politica moderna dai sondaggi. Più essi si mostrano fallaci, più ad essi ci si affida. Sono quei numeri a far sapere ai decisori politici cosa pensano i cittadini, come voteranno. Inariditi i rapporti diretti con una società mobile e complessa, ci si affida al valore mediatico di cifre fredde. La politica vera, il tempo lo ha dimostrato, è invece quella di chi sa trasmettere alla comunità il calore di una missione collettiva e sa far sempre prevalere l’interesse generale su ciò che i sondaggi indicano come la momentanea preferenza dei più. Non abbiate paura, verrebbe da dire. Non abbiate paura di dare il senso di un cammino, non abbiate paura dell’impopolarità di un giorno o di un mese, se fate ciò che ritenete giusto. La politica è “arte regia”, non è una disciplina del marketing. Conta essere, non apparire. Nella vita, non solo nella politica. “IL CANDIDATO” La politica non può essere sola immagine. Non può essere solo “far credere”, conquistare la curiosità delle persone per trasformarla in un consenso semplice, veloce, da prendere al volo e da mantenere quel tanto che basta per arrivare alla prossima scadenza elettorale. Gesti, volti e sorrisi sono parte assolutamente naturale di una politica moderna e senza più, giustamente, l’austera sacralità di un tempo. Ma non sono nulla senza idee, senza convinzioni, senza progetti. E’ la politica a non essere nulla, se “La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini”, scriveva Hannah Arendt. Nasce quando l’uomo esce dal buio della sua singolarità, del suo privato, ed è messo di fronte alla presenza degli altri. Nasce, scriveva, “quando la preoccupazione per la vita individuale è sostituita dall’amore per il mondo comune”. La politica, dunque, è “comunanza tra diversi”. E’ condivisione di idee e progetti che possono cambiare le cose, e a volte fare la Storia. La Arendt scrisse le sue pagine più intense in un tempo di ferro e di fuoco, di totalitarismi e di guerra. In quel tempo ci furono molti, in Italia e in Europa, che del senso e della moralità che la politica può assumere diedero una dimostrazione concreta, facendo quella scelta che cambiò la loro vita e quella del loro paese. Scelsero la Resistenza. Scelsero di battersi contro la dittatura e l’intolleranza, contro l’oppressione che priva della libertà. Animarono, per dirlo con le parole di uno dei padri della nostra Repubblica, “una straordinaria esperienza di gente che decise di non lasciarsi vivere, di non pensare alla vita come una chiusura in se stessi”. E’ un’idea, quella di inserire il proprio cammino, libero e individuale, in un percorso da compiere insieme agli altri, che è sempre stata, ed è ancora oggi, di un uomo straordinario come Vittorio Foa, che a chi gli domandava cosa avrebbe scelto di fare tornando ad avere trent’anni ha risposto con queste parole. VITTORIO FOA Cosa c’è di più umile e di più nobile insieme? Non chiudersi, unire i propri passi a quelli di altri. Non pretendere di cambiare il mondo tutto insieme e una volta per tutte, come per anni ci si era tragicamente illusi. No, la politica è “non lasciarsi vivere”. Senza rinunciare ad essere se stessi. Senza tralasciare le emozioni, e nemmeno i propri sentimenti. La politica è qualcosa che è dentro la vita di ognuno di noi, profondamente intrecciata con i nostri sentimenti. Con la nostra moralità, che non è negazione di ogni soddisfazione individuale, ma è intendere la vita come un’esperienza non solo personale. E’ qualcosa che ha a che fare con la necessità di dare un senso profondo, etico, al nostro agire. Ecco un’altra di quelle cose preziose da riportare in superficie. In alto: Pieter Paul Rubens “Prometeo”. A destra: Martin Luther King. Qui sopra: Helmuth Kohl e Michail Gorbaciov (foto Reuters) le società occidentali, tutte le grandi democrazie contemporanee. Proviamo a capire, e cominciamo a pensare a quanti cambiamenti hanno investito lo “spazio” della politica, e quindi i suoi confini, le sue forme, le sue chiavi interpretative, persino il suo linguaggio. Non c’è una data, un fatto, un avvenimento, che permetta di dire “tutto è cominciato lì”. C’è però un momento che io credo abbia a che fare, e non poco, con la politica così come la vediamo e la viviamo oggi. KOHL, GORBACIOV - MURO DI BERLINO TIEN AN MEN Il rischio, e il coraggio, a volte possono fare la Storia. Sia che appartengano a uno statista, sia che vengano da un semplice uomo, da un ragazzo senza nome che ferma la marcia di una colonna di carri armati, avendo come uniche armi due buste, tenute nelle mani, e il suo desiderio di libertà. Era il 1989. Il 9 novembre di quell’anno finisce la Guerra fredda, si chiude il tempo delle grandi contrapposizioni, del mondo diviso in blocchi. Quel giorno, sotto le macerie del Muro di Berlino, restano schiacciate anche le ideologie. Ideologie che erano una gabbia, che imprigionavano pensiero e libertà, che rendevano nemici gli avversari. Che avevano la pretesa, in nome di fini indiscutibili e di promesse salvifiche, di spiegare il mondo, mentre quel che facevano era piegare i popoli e gli individui. In nome delle ideologie milioni di persone sono state uccise. Ad Auschwitz. Nei gulag staliniani. Che quel tempo sia finito è un bene. Nessuno può rimpiangerlo. L’Europa oggi è unita. Milioni di persone si sono messe in cammino verso la libertà e la democrazia. Il superamento di quelle fedi assolute ha liberato energie, ha dato forza alle idee e ai valori che animano le culture dell’ambientalismo, del femminismo, dell’interdipendenza, della non-violenza. Che sono nate, non dimentichiamolo, fuori dai recinti delle famiglie politiche tradizionali. Anche grazie a queste culture, ora la politica è più libera, è più capace, o almeno lo è “potenzialmente”, di avere la concretezza necessaria ad affrontare i problemi senza perdere la giusta e indispensabile carica ideale. Pensiamo solo alla non-violenza, a quanto il suo affermarsi sia condizione essenziale per dare un pieno e democratico valore al conflitto, alla radicalità della critica alla società contemporanea. Che è altro rispetto ai giudizi sbrigativi, o neo-ideologici, che tagliano la storia con l’accetta. Ma è anche vero che in quel tempo, se pensiamo ad esempio all’Italia, grandi masse di cittadini sono entrate sulla scena politica, hanno contribuito a costruire e a consolidare la nostra democrazia. E’ vero che ci sono stati momenti, nel Novecento, in cui attorno a grandi progetti accadeva si muovessero le energie migliori della società. Ed è vero che grandi passioni, grandi aspirazioni di libertà e di giustizia sociale hanno mosso uomini a spendere se stessi, la propria vita, per dare diritti e dignità a chi senza diritti e senza dignità era sempre stato. “SACCO E VANZETTI” Siamo in un altro secolo, in un’altra epoca. E ci accorgiamo che la corrente della Storia sembra aver trascinato via, e portato a valle, insieme al ferro delle gabbie ideologiche l’argento vivo dei valori, degli ideali, dei pensieri profondi. Ed è un paradosso: proprio mentre potrebbe ritrovare, insieme alla libertà, tutta la sua “bellezza”, la politica è invece prigioniera dei tempi brevi, è appiattita sull’immediato. E’ come impoverita, smarrita. Ha perso il senso delle grandi visioni e vive, quotidianamente, del farsi e disfarsi di veti e alleanze. Fa fatica a decidere ciò che i cittadini attendono e sperano, venendo meno, così, al suo compito. Perché la decisione richiede delega e responsabilità. si riduce a pensare ai minuti, e non trova la pazienza di piantare alberi. Un albero impiega anni per crescere. Rende molto di più tagliare quelli che ci sono, farne legna e rivenderli, senza preoccuparsi del resto, senza preoccuparsi degli altri e del domani. Ma se cadono a precipizio gli ideali, se conta solo l’immediato, è facile che una persona, e soprattutto un giovane che si affaccia al mondo, dica: quello che succede fuori non mi riguarda, e anche se mi interessasse non avrei modo di far nulla. Tanto vale che io mi occupi solo di me stesso, della mia vita privata, dei miei interessi. Si tratta allora di scendere a valle, e di mettersi al lavoro per separare pazientemente ideologia e valori, le cose che possono restare lì, come sedimento del tempo, e quelle che invece devono essere riportate in alto, in superficie, perché sono preziose, perché servono a ritrovare la strada. Tra queste cose, c’è l’esempio dei grandi uomini che di piantare alberi hanno avuto l’amore e la pazienza. A volte sapendo che alla loro ombra non si sarebbero mai potuti sedere. MARTIN LUTHER KING (“I HAVE A DREAM”) Cinque anni dopo questa straordinaria giornata di agosto del 1963, Martin Luther King avrebbe pagato con la vita per queste e per altre parole, per il coraggio del suo impegno, per l’amore e la pazienza con cui lavorò alla realizzazione di quel sogno. Lo avete sentito: è un sogno che non è per oggi, è per domani. “Un giorno”, ripete più volte di fronte all’oceano di persone che lo ascolta. E il sogno non è per sé, è per i suoi quattro figli piccoli, è per chi verrà, è per tutto il popolo afro-americano, per i suoi diritti, per la sua libertà. La politica è questo. Il suo cuore, la sua bellezza, è qui. E’ dare un senso al presente pensando al futuro. E’ pensare se stessi in relazione agli altri. GIOVANNI BACHELET La vita pubblica ha bisogno di essere arricchita da ideali, da valori morali. Che la loro fonte sia la fede o siano i principi che nascono da una profonda coscienza civile, non c’è motivo di avere timidezza nel dirlo: dobbiamo reintrodurre l’etica pubblica nella politica. Solo così la politica può dare senso, può animare le idee e le azioni degli uomini, e contribuire a disegnare l’arco narrativo della loro vita. “Se vuoi costruire una nave”, scriveva Antoine de Saint-Exupery, “non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”. E una volta iniziato il viaggio, indispensabile è il gusto della ricerca, della scoperta. Avete ascoltato come Vittorio Foa concludeva la sua riflessione, con quel bellissimo “non so”. Ecco cos’altro è che alimenta la politica, che la riempie, che la rende affascinante, appassionante: l’abbandono delle facili certezze, della presunzione di sé e della indiscutibilità dei propri convincimenti, per scegliere invece di farsi accompagnare dal dubbio, dalla curiosità, dalla voglia di cercare. Senza pensare che una volta raggiunto un porto non resti altro che gettare l’ancora, ammainare le vele e restar fermi. E senza credere che tutto si risolva in un approdo già stabilito in partenza, quando a contare è invece il viaggio in sé, ed è la navigazione il vero modo per capire, per adeguare la rotta e la ricerca, per arrivare. Pensiamo a come può cambiare il significato dei nostri comportamenti. Pensiamo al termine “conservare”. Se lo riferiamo alle condizioni del pianeta, alla pesantezza della mano dell’uomo sull’ambiente, alle risorse naturali dilapidate da uno sviluppo che da tempo non è più sostenibile, ecco che ANNO XII NUMERO 20 - PAG III quello che è sempre stato un elemento statico, “conservare”, diventa invece un concetto positivo, innovativo. Diventa, per la politica, un valore. Oppure pensiamo a tutte le scoperte scientifiche che stanno producendo cambiamenti ancora più travolgenti di quelli seguiti alle scoperte della fisica nucleare negli anni 40 o alla diffusione della microelettronica negli anni 80 del secolo scorso. Pensiamo alle loro conseguenze su tutto ciò che ha a che fare con la vita umana, con il suo inizio e la sua fine. Pensiamo all’eutanasia, al rapporto tra morale e scienza, alla bioetica, ai meccanismi di differenziazione cellulare decisivi per la comprensione e la cura di molte malattie. Le domande che vengono in mente, allora, sono diverse. Si possono accostare alla pensano gli osservatori più futili, questo stile sia universalmente apprezzato e condiviso e generi una stima che va molto al di là delle fazioni o delle bandiere. Sicché non c’è da disperare della sopravvivenza di un’Italia attenta, fervida, costante”. Sono parole che potrebbero benissimo descrivere anche l’Italia di oggi, i suoi difetti e le sue qualità, i suoi egoismi e le sue risorse, i rischi del deteriorarsi del suo tessuto sociale e la ricchezza delle sue energie, dei suoi migliori talenti, per primi i giovani. La politica deve riuscire, con forme che ieri erano quasi esclusivamente i partiti e che oggi sono anche altre, nuove e diverse, ad essere in sintonia con il paese, a svolgere una complessiva funzione nazionale. E allora se scendiamo ancora a valle, e IL FOGLIO QUOTIDIANO BARACK OBAMA - CONVENTION 2004 La politica, lo avete sentito, non deve mai dimenticare che “siamo tutti collegati come se fossimo un’unica persona”. Deve saper condividere il disagio. Deve stare in mezzo ai problemi degli individui, e cercare le soluzioni. Non è altra cosa da noi, lo sconforto di una persona anziana non autosufficiente che non sa cosa scegliere, cosa fare con la sua pensione: pagare le medicine che le servono oppure la badante che la accudisce, che il più delle volte è immigrata, e spesso è costretta a non essere in regola. Non è altra cosa da noi, la preoccupazione di un ragazzo che termina gli studi, che si affaccia nel campo del lavoro, e si rende conto che i destini dei singoli continuano a dipendere poco dal talento e dalle capacità, e troppo dal posto che, per così dire, si è avuto “in eredità” nella società. Senza la serenità che viene dall’avere un lavoro, dall’essere autonoma economicamente, una persona non solo vive nel disagio: è meno libera, è colpita nella sua individualità, nella sua stessa dignità. Lo scriveva Carlo Rosselli: la libertà non accompagnata da autonomia economica “non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria. Libero di diritto, è servo di fatto”. La politica da tutto questo non può essere distante. La politica o è “intrecciata” con il popolo o non è. Perché può darsi che oggi, più di ieri, siano le persone affrancate dal bisogno, e quindi più libere. Ma è vero che il bisogno di giustizia sociale non potrà mai dirsi del tutto soddisfatto. Ed è vero anche che più di ieri, nelle nostre società complesse, c’è bisogno di far coesistere il principio di universalità, che vuole tutte le donne e tutti gli uomini uguali nel godimento delle libertà fondamentali, con il principio di differenza, con il riconoscimento e la protezione delle diversità tra gli individui, e con la rimozione di quelle disuguaglianze che ne impediscono il libero dispiegarsi. Come a dire che sì, gli uomini non hanno uguali caratteri e uguali obiettivi, ma devono avere uguali probabilità di dar prova del loro carattere e delle loro capacità di raggiungere i loro obiettivi. Devono avere la possibilità di manifestare tutto il loro talento. Devono poter essere, e questa è la frontiera ideale che oggi abbiamo davanti a noi, “persone egualmente libere”. E’ una sfida che oggi è forse più difficile di ieri. Anche perché la condizione materiale nella quale viviamo non ci porta, come accadeva un tempo, a scegliere quasi spontaneamente la via della solidarietà. Quando il lavoro era una catena, alla quale erano attaccate migliaia di braccia, tutte ugualmente costrette allo stesso sforzo, era più facile capire il valore MERCOLEDÌ 24 GENNAIO 2007 mento del tessuto sociale, indicando il senso di marcia, offrendo una visione, una prospettiva. Se necessario, nei momenti più bui, regalando una speranza. DE GASPERI (CONFERENZA DI PACE) CRAXI (SIGONELLA) Avete visto la fermezza e l’autonomia con cui Craxi, in una delicata crisi internazionale come quella dell’ottobre 1985, della nave “Achille Lauro”, della base militare di Sigonella, difende come Presidente del Consiglio il principio della nostra sovranità nazionale e gli interessi italiani di fronte alle richieste degli Stati Uniti. E prima avete ascoltato le parole con cui Alcide De Gasperi si rivolge al mondo appena uscito dalla guerra e riunito a Parigi, in quella Conferenza di pace. De Gasperi sa bene qual è la condizione in cui l’Italia si trova, e sa in che modo all’Italia si guarda. “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”, dice. Ma la grandezza dello statista, e in quel momento della politica, è nel modo in cui De Gasperi interpreta la coscienza del paese e tutela la dignità del popolo italiano, parlando a nome di tutti, parlando – non lo avete sentito, ma è proprio all’inizio del discorso – “come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, che armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate”. La missione della politica, in fondo, è questa: tenere insieme i fili della vita associata, porre degli argini alla fragilità della convivenza umana, restituire speranza nel futuro. Soprattutto in un tempo cupo come questo. Il secolo scorso, infatti, pur con le sue contraddizioni e i suoi orrori, aveva in sé l’idea positiva del progresso. Guardare avanti, per le generazioni che hanno preceduto la nostra, significava comunque immaginare un mondo e una società migliori. Magari con difficoltà e ostacoli da superare lungo il cammino, ma nel medio e lungo periodo migliori. Oggi noi viviamo, invece, in una sorta di “età dell’ansia”, nella quale avevamo fatto ingresso anche prima dell’11 settembre, prima che la minaccia del terrorismo internazionale avvolgesse le nostre vite. Siamo immersi nella dimensione dell’insicurezza. E’ la “solitudine del cittadino globale” di cui parla Bauman, che descrive le persone “come i passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima”. Di qui, se vogliamo continuare in questa im- guardiamo con attenzione, vediamo che ci sono subito almeno altre due qualità della politica da recuperare e da far risaltare. La prima è la capacità di essere “popolare”, di essere legata ai sentimenti e alle aspirazioni delle persone, di saper catturare e interpretare almeno un po’ della complessità della loro esistenza. Guardate, non c’è politica senza valori, senza programmi, senza condivisione. Put the people first: le persone al primo posto. Le loro ansie da condividere, i loro problemi da risolvere, le loro speranze da confortare. Questa è la cosa importante. Questa è la politica. E’ l’idea del governo delle cose per aiutare la gente. E’ attenzione alle disuguaglianze, agli “strappi” che si creano nella società e che devono essere ricuciti, sostenendo chi è in difficoltà, proteggendo chi non ce la fa da solo, promuovendo la responsabile assunzione del proprio destino da parte di chi è in grado di procedere da sé, avendone l’opportunità. La politica è l’applicazione concreta di quel principio: le persone al primo posto. ZACCAGNINI E BERLINGUER Ci possono essere politici più “di professione” dei segretari di due partiti come la Dc e il Pci di allora? Sulla carta no, non c’è dubbio. Eppure Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer non erano percepiti così dagli italiani. E il perché era nel loro modo di essere, era nei loro volti, nelle loro parole. Li avete visti. Le avete ascoltate. Berlinguer e Zaccagnini avevano una moralità, erano animati da una passione e da una onestà intellettuale che non faceva dubitare della loro vocazione, di quale fosse l’idea della politica che li animava. Credevano in quello che dicevano, e chiunque li ascoltasse lo capiva, e li rispettava. Per entrambi valeva quel che un grande giornalista scrisse all’indomani dei funerali di Berlinguer, di fronte alla commozione che aveva attraversato tutto il paese, che aveva accomunato persone diverse tra loro e riempito all’inverosimile piazza San Giovanni. “In questa Italia che sembra così spensierata e frivola – scriveva Andrea Barbato – dove la politica sembra talvolta un gioco di specchi, di gesti e di maschere, ecco che si compone all’improvviso il ritratto scritto coralmente, e avvertito dalla coscienza comune, di un modo serio di fare politica, rivolgendosi alla ragione degli uomini. E ci si accorge come, contrariamente a ciò che Il Mahatma Gandhi JOHN KENNEDY DISCORSO INSEDIAMENTO Un’intera generazione fu pronta a seguire queste parole, figlie di una visione che era unione di realismo e di idealismo, di decisioni pratiche e di ambiziose aspirazioni. Era una politica che indicava delle possibilità concrete e mostrava una meta, una frontiera da raggiungere, e lo faceva trasmettendo speranza, fiducia, persino gioia di vivere. Era la generazione che aveva di fronte a sé grandi sfide: per prima quella di allontanare dall’umanità i rischi terribili di un conflitto nucleare, perché è vero che l’uomo ebbe per la prima volta “nelle sue mani di mortale la capacità di abolire tutte le forme di miseria umana e tutte le forme di vita umana”. E poi le altre: sollevare i popoli oppressi dal peso del neocolonialismo, estirpare la discriminazione razziale, liberare la società da quelle strutture che impedivano il pieno dispiegarsi dei diritti di ogni individuo. Sono passati quarant’anni. Tutto è cambiato. Ma davanti a noi ci sono sfide che non sono più piccole di quelle di allora. La politica vera è quella di chi sa trasmettere alla comunità il calore di una missione collettiva e sa far sempre prevalere l’interesse generale su ciò che i sondaggi indicano come la momentanea preferenza dei più. Non abbiate paura, verrebbe da dire. Non abbiate paura di dare il senso di un cammino, non abbiate paura dell’impopolarità di un giorno o di un mese, se fate ciò che ritenete giusto John e Robert Kennedy politica parole come dubbio, ricerca, etica, o la modernità in cui siamo immersi richiede solo altro? Oppure, per andare su una strada già percorsa, si può ancora dire che è per “vocazione” che si sceglie la politica? O invece stiamo parlando di una semplice professione, che si intraprende del tutto razionalmente? Prendiamo la celebre lezione di Max Weber su “La politica come professione”. Weber diceva che la passione, insieme alla responsabilità e alla lungimiranza, non può non animare l’uomo politico, e che poi sta a lui riuscire a controllare questa passione, facendosene spingere ma non fuorviare. Weber stesso, però, non aveva timore a parlare di “vocazione”. Diceva che “etica della convinzione ed etica della responsabilità si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere vocazione alla politica”. Raffaello, “La scuola di Atene”, Platone era aperto con grandi speranze, con un grande sogno. Pechino, Piazza Tien An Men, 1989 della solidarietà. Anche se metterlo in pratica, tradurlo in lotta per l’uguaglianza, poteva costare tanto, talvolta perfino la vita. Oggi quella catena c’è ancora. Ma si è fatta invisibile. E’ diventata immateriale, anche se non per questo meno pesante e robusta. Lega ancora tra loro migliaia, qualche volta milioni, di lavoratori. Ma lo fa in modo più sottile, più subdolo, così che ciascuno pensa di essere più libero, mentre in effetti spesso è soltanto più solo, ed è costretto all’incertezza, alla precarietà. Accade soprattutto ai giovani. Le nostre generazioni, infatti, erano abituate a contare su alcune certezze, sapevano che la vita era scandita da fasi fondamentali che riservavano ovviamente soddisfazioni come difficoltà, ma che erano quelle: lo studio, il posto di lavoro fisso, la pensione. Oggi cos’è la vita di un ragazzo? Finiti gli studi, magari presa una laurea, potrà avere buone opportunità, ma è più facile che dovrà andare avanti con contratti di pochi mesi, e forse sperare nel sostegno economico dei genitori. Non solo la sua pensione sarà un miraggio, se non può permettersi un’assicurazione privata, ma nell’immediato non potrà nemmeno pensare a una casa, a metter su famiglia, ad avere figli. Tanto più in una società come la nostra, la politica deve allora saper parlare a tutti, respingendo i rischi di divisione e di scolla- magine, la ricerca esclusiva del proprio paracadute, della propria salvezza senza pensare a quella degli altri, la chiusura particolaristica, l’innalzare muri contro tutto ciò che non si conosce, che potrebbe comportare un pericolo. E’ una politica piccola, quella che cerca facili scorciatoie, quella di chi solleticando queste paure, le debolezze delle persone, divide tutto in bianco o nero, in bene o male, in amico o nemico, dove il nemico è sempre l’estraneo. La “bellezza” della politica, di una politica “alta”, appare quando si riesce a tenere insieme concretezza e valori, ragione e passione. Lo spiegava già Tocqueville: nella politica, diceva, ci sono due parti, “una fissa e l’altra mobile”. La prima è quella delle grandi teorie, delle leggi generali, dei bisogni permanenti dell’umanità. La seconda è quella pratica, dell’esercizio del governo e della lotta contro le difficoltà di tutti i giorni. Bisogna fare in modo che queste due parti non si separino mai. Perché senza le visioni della prima, senza gli ideali, si rischia di procedere a tentoni. E senza la duttilità della seconda, senza la capacità di concretezza, non si fa molta strada. Nel corso della storia uomini che hanno saputo fare così, esperienze che hanno significato questo, ce ne sono state. Un decennio del secolo scorso, in particolare, si BETANCOURT – MANDELA – MENCHU’ Dare voce e diritti a chi è sottomesso, calpestato, sfruttato, vilipeso. A chi ha meno ricchezza e meno potere, talvolta né ricchezza, né potere. Scegliere uno sviluppo che abbia coscienza dei limiti delle risorse naturali. Ridurre le enormi disuguaglianze che separano tra loro le donne e gli uomini del nostro tempo come uno scandalo intollerabile. Vincere la fame, la malattia, l’ignoranza. Sconfiggere l’Aids, porre fine a una tragedia senza precedenti, che ha già provocato 28 milioni di vittime. Che fa morire, nel mondo e in Africa molto più che altrove, un bambino ogni minuto. Non sono numeri, ma esseri umani. Carne e ossa come le nostre. Oggi sappiamo che è possibile cambiare l’inaccettabile. E’ un compito enorme, storico, ma è possibile. E io vorrei dire che se anche non lo fosse, la politica, se vuole appassionare e coinvolgere, se vuole ritrovare senso e nuove motivazioni, deve a volte sognare, e far sognare, ciò che sembra impossibile. Perché è vero quel che diceva proprio Weber, e cioè che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. E mentre porta la mente e il cuore a sognare l’impossibile, la politica deve anche capire dove il terreno è più solido, dove è possibile poggiare i piedi, uno dopo l’altro, un passo alla volta, per avanzare lungo il cammino. “GANDHI” Per generazioni di indiani prima di Gandhi, e così per coloro che lo ascoltavano, e riponevano in lui speranza e fiducia, furono sicuramente molti i momenti, e molti i motivi, per credere che libertà e indipendenza non sarebbero mai arrivati. E invece è stato così. Anche sconfiggere l’apartheid, e prima ancora la schiavitù, sembrava impossibile. E invece è stato così. Così dovrà essere, domani, per la povertà. Ci sono gli strumenti, ci sono le risorse. Quel che serve è la volontà, che non arriverà se a spingerla non saranno la passione e la ragione. Il realismo. Perché non si tratta solo di umanità, solo di giustizia. Nessuno, da questa parte del mondo, ricca e fortunata, può farsi illusioni. Non possiamo pensare di vivere all’infinito seduti sul nostro ramo rigoglioso mentre le condizioni dell’intera pianta dell’umanità continuano a peggiorare. Passione e ragione, dunque. Valori e concretezza. A dare ali a una politica che per tornare a volare ha bisogno esattamente di questo: di un idealismo pragmatico. E a questo proposito vorrei concludere con una storia, presa in prestito da un filosofo, Remo Bodei, che l’ha raccontata qualche tempo fa. Siamo nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. A Berlino, in un Palazzo dello Sport gremito, si svolge un dibattito fra un rappresentante del Partito comunista tedesco, ancora non disciolto, e un rappresentante del Partito nazionalsocialista. Il primo, di fronte a una platea formata da molti operai socialdemocratici e comunisti, comincia a illustrare il principio della caduta tendenziale del profitto secondo “Il Capitale” di Marx. Dice cose interessanti, lo fa in modo ineccepibile, ma è decisamente pedante. E’ come se trovandosi di fronte un assetato, invece di dargli l’acqua, gli leggesse l’etichetta della bottiglia, soffermandosi sulla composizione chimica del contenuto. L’oratore nazista, invece, parla con foga, usa argomenti irrazionali, come quelli della famosa “pugnalata alle spalle” che avrebbe fatto perdere alla Germania la Prima guerra mondiale o dell’altrettanto famoso strapotere occulto, con relativo complotto internazionale, degli ebrei. Però attira l’attenzione, è coinvolgente, conquista chi lo ascolta e viene portato in tripudio da quegli operai che erano arrivati al Palazzo dello Sport parteggiando per l’altro uomo politico. Questo episodio serve a ribadire due cose. Che un’idea, una politica, da sola non cammina. E che le passioni non possono, a lungo, fare a meno di argomentazioni e prove. Da una parte, dunque, nessun programma può avanzare solo perché ragionevole ed efficace. Ha bisogno di essere accompagnato da una visione, deve saper rispondere a quella domanda di senso che ogni società porta sempre con sé. Dall’altra parte, invece, passioni senza verità – in questo caso addirittura aberranti – finiscono per essere parole vuote, rischiano di essere semplice propaganda senza argomenti, e con il tempo vengono portate via dal procedere della storia. E’ qualcosa di simile all’antica saggezza che faceva dire al profeta di Kahlil Gibran, rispondendo alla sacerdotessa che lo interrogava, che la ragione e la passione sono, per chi deve affrontare la navigazione, come il timone e la vela: senza il primo non si governerebbe la direzione, senza la seconda si rimarrebbe fermi. “BOBBY” Abbiamo bisogno di ritrovare la passione per la politica. Di riscoprirne la bellezza, e insieme il suo essere lo strumento più alto e nobile di cui gli uomini concretamente dispongono per tracciare il loro cammino, se saranno capaci di restituirle la saggezza, il pudore e il senso di giustizia di cui parlava Platone. Abbiamo bisogno di stare con i piedi ben piantati in terra, e insieme di tornare a sognare. Anche quel che sembra impossibile, irraggiungibile. Quel che sembra utopia. Il perché ce lo ha spiegato un grande scrittore sudamericano, attento alle cose della vita e del mondo. “Lei sta all’orizzonte”, ha scritto Eduardo Galeano. “Mi avvicino due passi, lei si allontana due passi. Cammino dieci passi, e l’orizzonte si allontana dieci passi più in là. Per molto che io cammini, mai la raggiungerò. A che serve l’Utopia? A questo serve: a camminare”. ANNO XII NUMERO 20 - PAG IV IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 24 GENNAIO 2007 OSANNA, CRITICHE, STRONCATURE Semiologi, filosofi, scrittori e altri alle prese con l’omiletica veltroniana Capolavoro di comunicazione, a sinistra è lui il migliore n politico parla non di politica, ma sulla politica, spiega cos’è e come bisogna farU la, anzi ne tesse l’apologia, usando i discorsi di tanti altri politici… e nel farlo naturalmente fa politica, la sua politica. Potrebbe essere un percorso contorto, difficile da seguire, autoreferenziale, noioso. E invece Veltroni è lucido e chiarissimo, capace di arrivare al cuore del suo pubblico e di non annoiare neanche l’ascoltatore più distratto: un capolavoro di comunicazione. Non solo perché si fa capire, convince, commuove. Né perché usa bene le immagini, come possiamo solo intuire dal testo scritto, ma è naturale per un appassionato di cinema e di televisione. E neppure solamente perché richiama problemi reali, dalla miseria al terrorismo, dalla difficoltà di inserimento dei giovani alla solitudine degli anziani, senza parlare mai di schieramenti, di formule e di analoghe polverose cianfrusaglie politichesi. Perché parte da un’autocritica ammettendo la stanchezza del pubblico e la noia della politica italiana. O perché vola alto citando Platone e Weber e Arendt, senza intimidire nessuno dato che li mescola con Charlie Chaplin. Il punto è, che, difendendo la vocazione comune di chi ha scelto la vita pubblica, si rende inattaccabile in tutto lo schieramento politico di cui pure fa parte; ma insieme vi si posiziona sopra: com’è sempre superiore chi loda e difende a chi è lodato e difeso. Veltroni è abilissimo: soprattutto perché la politica che teorizza – avere una missione condivisa, risolvere i problemi della gente, cercare il bene comune, includere e spiegare, essere “intrecciato al popolo” – è esattamente la sua politica, il suo autoritratto di leader che propone l’ascolto, il rispetto e la concordia non solo come metodo ma come fine. In questo paese viviamo da una ventina d’anni almeno, ma in realtà da secoli, una politica all’insegna del titolo di un vecchio talk show: “O di qua o di là”: guelfi o ghibellini, risorgimentali o sanfedisti, democristiani o comunisti, berlusconiani o anti. Rispetto a questa lotta dominata dall’odio fra fazioni (anche se in realtà molto più nel Palazzo che fuori fra la gente vera), Veltroni si pone come l’alternativa rassicurante, impegnata e idealista. La scelta stessa di fare una “lezione” di politica, che è un colpo geniale di comunicazione, va in questo senso. Così per la selezione degli esempi, da Kennedy a Gandhi passando per Zaccagnini e Berlinguer, De Gasperi e Craxi: si mostra una politica dell’amore o della missione capace di prendere il buono da tutti e di cercare il consenso universale, al servizio di valori – indiscutibili – di progresso, libertà, partecipazione. Questa posizione potrà irritare gladiatori delle fazioni e teorici machiavellici ma è vincente (o almeno molto convincente) nel paese reale, stufo di esagitati e di tifosi, desideroso di calma, serenità, risultati concreti. Insomma Veltroni si conferma come di gran lunga il miglior leader di cui oggi dispone la sinistra. Ugo Volli po’ di buona oratoria politica nel dibattito pubblico. Comprensibilmente, è un’oratoria quasi cinematografica. La sua conferenza assomiglia molto a un film di Altman, corale e ricco di buoni attori. Siamo però ancora a un meta-linguaggio. Veltroni parla per bocca di altri. Ci dice come dovrebbe essere la politica, non che cosa dovrebbe dire, qui ed ora. Più che alla definizione di una leadership, siamo all’ermeneutica della leadership. La bella politica è una cosa importante, più importante è la buona politica: cioè la politica di cui un paese, in una determinata fase storica, ha bisogno. La cosa, insomma, su cui si esercitano i candidati leader di tutto il mondo occidentale, con alterne fortune. Presbiopia e ricerca dell’interesse generale sono un ottimo metodo, ma i metodi servono all’azione; e se il metodo unisce sotto la “grande tenda”, l’azione prima o poi divide. Eppure è essenziale, per arrivare da qualche parte. Non a caso Veltroni privilegia apertamente la navigazione all’approdo, il movimento al fine. Non a caso si ferma ammirato di fronte a “quel bellissimo ‘non so’ di Vittorio Foa”. E’ vero che se vuoi costruire una nave, citazione da Antoine de Saint-Exupéry, “prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato”. Ma è anche vero che non ti servono a niente né la nostalgia, né la nave e nemmeno il vento che le gonfia le vele, se non sai dove andare. Una volta un direttore di giornale mi insegnò a non porre domande ai lettori: pagano un euro per avere risposte. Al punto in cui siamo, è un imperativo anche lo, un abuso. Il politico amministratore deve piuttosto occuparsi di garantire le condizioni elementari e materiali perché gli individui siano liberi di scegliersi la felicità o l’infelicità che preferiscono. Non sarà per caso, Veltroni, una delle tante incarnazioni del politico new age? Io temo i leader carismatici, cioè gli ipnotizzatori e i pastori di anime. E’ vero che siamo a Roma, ma il sindaco non dovrebbe imitare il Papa, né entrare in competizione con lui. Come fa a non capire che non ce la farebbe, e che un festival cinematografico o una notte bianca, per quanto divertenti, non avranno mai il potere di attrazione di Dio e della salvezza dell’anima? Veltroni fiuta un evidente declino occidentale della partecipazione politica e spera di rianimare a propria gloria un corpo sociale politicamente inerte con qualche dose di droga culturale. Mentre Roma, amministrativamente parlando, presenta diverse pecche. Preferirei più “nettezza urbana”, cartelli nello stile autostradale di consigli sul necessario civismo, sulla possibilità di attraversare Roma a piedi, piuttosto che discorsi in stile filosofico sulla salvezza morale dei cittadini. Alfonso Berardinelli Questa volta ha fatto le cose in grande (meglio di Nietzsche) enso a Veltroni, al suo discorso, a Napoli, per la seconda delle sue lezioni itineranP ti su “Che cos’è la politica”, e mi sembra una stupidaggine, mi sembra una stupidaggine la verità che la modernità ha fatto propria e che ha propagandato, e che cioè la politica è innanzitutto lotta spietata per il potere e che la sua base antropologica è la vanità e l’invidia (Hobbes, Hegel), ma è tornato indietro raccontando invece che la politica è ricerca della giustizia e della virtù (Aristotele). Veltroni è greco come Ratzinger. Ma un tantino meno platonico. Se infatti Benedetto XVI si appella al Logos affermando che è in grado di raggiungere le verità metafisiche, Veltroni preferisce lo stile aristotelico e chiarisce che la virtù si impara soltanto per via empirica, imitando i comportamenti dei grandi uomini del passato (di nuovo, Gandhi, Martin Luther King, De Gasperi, Charlie Chaplin, Berlinguer e persino Craxi). Non c’è Dio, ma ci sono tutti gli altri e, soprattutto, c’è posto per tutti. L’importante è la carità, la solidarietà, tutti gli immensi principi che hanno reso cristiano il mondo anche quando il mondo ha smesso di definirsi tale. Ignorare la verità della politica così come l’avevano espressa i moderni, proiettare ancora una volta il sogno e l’illusione greca, aggiornarla nello stesso tempo al cristianesimo secolarizzato: è questo il motore filosofico che sta alla base del discorso veltroniano. Ed è un motore potente e affidabile. Ma è anche un motore che nasconde una malizia sotterranea e non detta. Nel discorso di Napoli non si trova alcun riferimento all’islam radicale, manca cioè, ed è una straordinaria reticenza, l’individuazione del nemico numero uno di tutta la sua costruzione retorica. Il fanatismo islamico, for- glio di così a sinistra non c’è nulla attualmente. La retorica di Walter è la retorica delle belle facciotte, la retorica dei ragazzi sincerissimi che parlano di valori e ancora valori senza spiegare però quali sono i valori che non condividono, senza spiegare quali sono i propri nemici, senza dire “no guardate, questo proprio non possiamo accettarlo”. Faccio un esempio. Alla fine del suo discorso Walter accenna anche al nazismo e a Marx e parla anche di un “oratore nazista”. Ora, non che io voglia essere frainteso, ma almeno l’oratore nazista aveva un suo nemico preciso. E Walter? Non ha nessun nemico? Ma davvero? Voglio dire: il buonismo ha pur sempre un suo limite. E dato che questo è un discorso fatto credo appositamente per lanciare la propria campagna elettorale, forse Walter farebbe bene ad ammettere che manca il senso della realtà, che manca un programma, che manca un progetto e che manca una visione di cosa sta succedendo nel mondo. E’ ovvio che Walter parlando di Chaplin, Marx e Martin Luther King con quelle citazioni con la faccia pulita voglia coinvolgere i giovani. Ma qualcuno forse dovrebbe avvertire Walter che sulle magliette i ragazzi hanno Che Guevara, mica Kennedy. Un consiglio? A questo punto Walter ha davvero bisogno di un bel bagno nella retorica leninista. E questo lo dico perché, a differenza di tutti gli altri dirigenti dei Ds, io voglio bene a Walter; perché Walter, almeno, è un ipocrita sincero e crede davvero nelle cose che dice. Ma parlando con il linguaggio degli anni Sessanta e spiegando con- Walter Veltroni (foto Ansa) ristrettezze attuali, bisogna essere Nelle grati a Veltroni per aver introdotto un a bella politica di Walter Veltroni somiglia molto a quella che i soloni del poliL ticamente corretto chiamano con sussiego “antipolitica”. Spiegare che il nazismo è stato compreso e sconfitto dal piccolo uomo di Charlie Chaplin e non dalla straordinaria tenacia di Winston Churchill e da una poderosa coalizione di stati è un indizio evidente di questa inclinazione, come il fatto che le lezioni di Veltroni inizino proprio da qui. D’altra parte chi, come me, crede che l’antipolitica non esiste, che è solo il tentativo di sistemi politici in crisi di esorcizzare i possibili cambiamenti, questo carattere delle lezioni veltroniane non è affatto un difetto. Caso mai mi sembra un po’ approssimata l’idea che la politica è una espressione della democrazia, che la sua crisi riguarda le democrazie occidentali, mentre nelle dittature “dove parla una sola voce” la politica non esiste. La bella politica ha un pregio, quello di presentarsi come un prodotto innovativo, ricco di immagini e di richiami emozionali, che si distacca dalla “palude” della guerra di posizione tra le diverse correnti del costituendo Partito democratico o tra l’attuale maggioranza e l’attuale opposizione. Ha anche un difetto, quello di non affrontare nessuno dei temi cruciali che la politica vera, per brutta che sia, ha di fronte. Non c’è una parola sul terrorismo internazionale, nessuna indicazione su come gestire il problema di una società che invecchia, frasi ambigue sui temi etici sui quali si confrontano diverse visioni della vita, della morte, della dignità dell’uomo. La forza del messaggio di Veltroni non sta nei contenuti, che sono evitati accuratamente, ma nella prospettazione di una alterità esistenziale. Un po’ come quella di un certo Berlusconi tanti anni fa. Sergio Soave iguriamoci se voglio leggere il monologo di Veltroni… Ma di che parla? Della belF la politica? E quando mai la politica è stata tinuamente che il suo sogno è un’Italia di centrosinistra buona e pacificata dove tutti i politici si occupano di tutto meno che di politica, beh se davvero Walter continua a fare discorsi di questo tipo qui, finisce che diventiamo tutti dalemiani. E se Walter è veramente sceso così in basso vuol dire che ora è davvero pronto per sostituire Romano Prodi. Gianni Vattimo bella? La politica non è mai stata bella. Cita Chaplin? Cosa c’entra con la politica, che sia bella o brutta, il discorso che Chaplin pronuncia ne “Il grande dittatore”? I miei maestri su questo tema, i miei punti di riferimento, sono altri: Platone, Spinoza, Hegel, Schmitt. Piuttosto sono ovviamente d’accordo con lui quando descrive come un bene la caduta delle ideologie, tuttavia il legame concettuale che lui costruisce tra il crollo di queste e il rischio di perdere le idee politiche non sussiste. Ideologia e idea appartengono a due campi semantici e storici diversi e opposti: la caduta del Muro di Berlino non implica certo la fine delle idee, e forse neanche il rischio che queste si possano perdere. Devo dire, a rischio di essere brutale, che i problemi e le necessità politiche in Italia sono altre e ben altro che la bella politica. Che si parli piuttosto di Partito democratico e di riforme, non pasticciamo cose che non c’entrano niente con i temi pressanti e seri. D’altro canto con Veltroni ci intendiamo perfettamente sulla necessità riformista, che sia questo il tema del suo prossimo monologo e mettiamo la bella politica da parte. Massimo Cacciari Citazioni un po’ datate, per fortuna c’è “Bobby” E’ un berlusconiano puro, crede nel carisma come pochi alter Veltroni si è finalmente ricongiunto con “Bobby”, il film di Emilio Estevez che fu il vero schiaffo assestato dalla Mostra veneziana alla Festa romana. Scippare a Walter-non-si interrompe-un’emozione quel girotondo di venti personaggi attorno a Bob Kennedy fu una vera cattiveria (se avete la curiosità di vederlo, per intero e senza commenti, è uscito la scorsa settimana). Nel copione veltroniano – molto somigliante a un discorso di investitura, o autoinvestitura – “Bobby” è l’ultimo degli spezzoni. Viene ficcato a forza dopo una citazione dal “Profeta” di Kahlil Gibran: ragione e passione, ovvero vela e timone, e di come servano entrambi a navigare (aumentate lo stipendio allo speechwriter, che si compri un dizionario di citazioni un po’ più vispo). E prima di una citazione presa da Eduardo Galeano, ovvero l’utopia che funziona come un tapis roulant, giacché serve soprattutto a farci camminare. In mezzo, vediamo le cucine insanguinate dell’hotel Ambassador di Los Angeles, e ascoltiamo la voce del senatore Kennedy promosso a testimonial di Veltroni. O, se preferite, a guest star del suo spettacolo. Comunque, meno male che c’è “Bobby”. Parla del sempre caro 1968, dell’America “che ci piace” (prima di Bush, e anche prima di Nixon, presidente che però Sean Penn ha recentemente rivalutato). Ma perlomeno è un film girato nel 2006. Gli altri spezzoni ospiti sono “Il grande dittatore” di Charlie Chaplin (ha l’onore dell’apertura), “Sacco e Vanzetti” di Giuliano Montaldo, “Il candidato” di Michael Ritchie con Robert Redford. Non sta bene dare l’età ai ragazzi del coro che circondano il solista, ma un film è del 1940, un altro del 1970, un altro ancora del 1972. Come se poi non fosse suc- isogna riconoscere un fattore decisivo: Veltroni è l’unico, ma proprio l’unico, poB litico italiano ad aver compreso la lezione di alter Veltroni dice che la politica deve essere una cosa concreta. Ma nel suo diW scorso non c’è alcuna concretezza né un solo Sa porre bene le domande, servirebbero anche le risposte La sua forza è nella prospettiva di un’alterità esistenziale Lasci stare Chaplin che non c’entra e parli di riforme Manca di concretezza, e non parla del mondo d’oggi accenno di programma. Veltroni è il solito discorso politically correct. Non convince perché non c’è niente da convincere. Vuole la solidarietà fra gli uomini. Ma chi non la vuole? Dice che dobbiamo essere moderni ma non dice cosa sia questo mondo moderno. I giovani dovrebbero avere un posto di lavoro e alla fine ottenere una pensione. Ma non dice mai che gli italiani non fanno più figli e che non crescono più italiani a cui in futuro un politico potrà rivolgersi. Della drammatica crisi demografica non parla. Il terrorismo lo nomina solo per caso, mentre tutto l’occidente è sotto la minaccia terroristica: non dice come, con chi e cosa l’Europa deve fare per difendersi. Non descrive il vero mondo in cui viviamo. Veltroni prende la classica definizione della libertà all’americana, la ‘libertà di opportunità’: non siamo tutti uguali ma dobbiamo avere tutti le stesse possibilità. Dopo di che parla solo di quello che deve fare lo stato. E’ il solito discorso europeo statalista che a un americano vero non piace. La sinistra europea ha inventato poi un mito kennedyano che non esiste. Per quanto fosse bello ed elegante, John F. Kennedy è stato un grande fallimento come presidente. Era l’uomo che ci ha portato in Vietnam, non ha saputo risolvere i problemi della guerra e non ha avuto il coraggio di muoversi con decisione nella Baia dei Porci. Kennedy come persona voleva che sapessimo tutta la sua vita privata, era un uomo molto poco ammirevole. Per quanto riguarda Bobby non sappiamo cosa sarebbe stato, è morto prima di arrivare al potere. Mi ha sempre meravigliato che la sinistra lo abbracciasse senza mai dire che era il braccio destro del senatore McCarthy. I due fratelli Kennedy erano due viscerali anticomunisti, è ridicolo che vengano usurpati dalla sinistra europea ex comunista. Veltroni cita anche Rigoberta Menchu, che sappiamo essere una pura invenzione, un nulla, una fantasia. Il suo discorso è solo simbolismo, immagini e fantasia che non ha alcuna rilevanza concreta per cambiare l’Italia. Di islam non parla affatto, come della morte demografica e del futuro dell’Europa. E’ un discorso totalmente inutile. Anche a me piacciono i miti dell’antica Grecia ma non rispondono ai problemi di oggi. Bush invece parla di cose concrete e vere, come di energia e di guerra”. Michael Leeden cesso niente. Come se non esistessero altri titoli degni di nota, con un candidato presidente per protagonista. Come se tutti quanti fossero rimasti aggrappati ai loro vent’anni, con la stessa tenacia che i personaggi di Nick Hornby usano per restare abbarbicati ai loro quattordici: liste di vinili e raccolte di figurine comprese. C’è la caduta del Muro di Berlino, e un accenno a Barack Obama, perché ci devono essere. Ma quel che si celebra è una versione di “Anima mia” (inteso come format nostalgico di Fabio Fazio). Chi si presenta con “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry entra gratis. Mariarosa Mancuso per i politici. Risposte cercansi, possibilmente belle, necessariamente buone. I politici che si pongono e ci pongono le domande che la politique politicienne trascura, sono benedetti. I politici che ci dessero anche le risposte, o almeno qualcuna, sarebbero leader. La retorica è uno strumento raffinato, inariditosi nel dibattito pubblico nostrano. A Tommaso Moro la fecero studiare a scuola: l’esercizio prevedeva di saper difendere, con eguale efficacia e passione, le due tesi opposte in un identico dibattimento. Poi però venne il tempo della maturità, e Moro dovette farvi ricorso per difendere un’opinione, e una sola. Lo fece con tanta determinazione e ostinazione che il re gli staccò la testa. Non mi auguro la decollazione di Walter, ma un decollo sì. Antonio Polito Vuole essere Omero, rischia di assomigliare a Nerone P enso che un politico non possa parlare della bellezza della politica, perché così fa dell’estetismo gratificatorio sulla propria attività. Questi discorsi sublimanti sull’attività politica oggi, che traggono spunto da evocazioni dell’intera storia occidentale, dalla polis greca in poi, sanno di retorico e quindi di falsificazione. Io sono affezionato all’idea che, rispetto alla politica, esistano due categorie di persone: coloro (ristretta minoranza) che la fanno e coloro (stragrande maggioranza) che non la fanno ma la osservano, la commentano. Veltroni finge di poter parlare alla maggioranza di una cosa che in realtà conosce solo lui, in quanto politico di professione, qualcosa che non è un’esperienza condivisa. La riflessione sulla politica è opportuno che non venga dai politici stessi. Tanto che Socrate, in Atene, per poter pensare problemi di etica e di vita associata, scelse di non ricoprire cariche pubbliche. Volendoci scherzare un po’ su, si può dire che Veltroni, in quanto politico poeta, rischi di somigliare più a Nerone, che era un despota ma voleva essere Omero (mi sembra, tra l’altro, che Veltroni abbia pubblicato dei romanzi. O mi sbaglio?). Il politico che voglia trasformarsi in uomo totale, e quindi risolvere quei problemi dei cittadini che sono problemi privati (la felicità, la buona vita), commette, anche senza voler- che il mio primo istinto sia stato quello di andare a cercare un libro come “La teologia politica di san Paolo” di Jacob Taubes e di aprirlo a pagina 148: “Nietzsche ha un criterio per determinare il rango intellettuale, che si misura in base alla capacità di un uomo di forgiare in termini globali e con durata secolare valori per altri uomini”. Nietzsche invidiava con tutto se stesso san Paolo e con il suo Zarathustra intendeva realizzare quello che Saulo, una volta folgorato, era riuscito a fare con il cristianesimo, imporlo al mondo intero. Ma Veltroni? Cosa c’entra in tutto questo? Dicevo, ho letto il suo discorso, spesso ho pensato che assomigliasse a una via di mezzo tra il signor Bonaventura e Forrest Gump, e, nonostante tutto, sono rimasto con la sensazione che questa volta abbia fatto le cose in grande. Mi sono immaginato la scena: lui nel mezzo, il piatto forte; attorno, che apparivano e scomparivano, che insomma gli facevano da contorno, da cocottes, le immagini di Gandhi e di Martin Luther King, di De Gasperi e di Charlie Chaplin. Può essere megalomania. O genio puro. Forse perché era troppo semplice liquidare la prima opzione, mi ha incuriosito provare invece a riflettere sulla seconda, darla per scontata, radicalizzarla, e vedere cosa poteva succedere. Ecco. E’ successo che Veltroni mi è apparso come una specie di fondatore di mondi in technicolor, un Nietzsche (o un san Paolo) senza Sturm und Drang ma dotato di altrettanta ambizione e realismo. Insomma, nell’epoca del cosiddetto nichilismo, dello svelamento di tutti i valori, della loro distruzione eccetera, Veltroni, nella sua lezione, ha risposto proponendo un modello alternativo in grado non di confutare il nichilismo, ma di superarlo accogliendolo dentro di sé, come un compagno a volte utile ma un po’ troppo birichino. Veltroni ha proposto il modello dell’umanitarismo, dell’umanitarismo un po’ blando e post cristiano e proprio per questo assai attraente e convincente per tutti. Lo ha fatto utilizzando gli efficacissimi argomenti dei venditori di tappeti ambulanti quando arrivano in paese e srotolano la mercanzia: facendo sognare alle casalinghe la mollezza della Persia al posto della vita da tinello e dell’ingresso con vista bagno. Si è comportato da greco, da antico. Da perfetto ateniese. Non ha detto la verità, se nella sua arretratezza un po’ medievale, si pone in un’altra dimensione temporale rispetto all’umanitarismo post cristiano ma, questo è il problema, dispone della tecnica che la modernità ha saputo forgiare. Veltroni e il veltronismo possono dunque riuscire là dove Nietzsche ha fallito. Ma per farlo devono scendere a compromessi, devono sperare silenziosamente che l’occidente, e cioè concretamente gli Stati Uniti con le loro armi, riesca a vincere la sua guerra. Solo allora la strada sarà aperta a quello che già si annuncia come un successo planetario. Prossimamente su tutti gli schermi. Edoardo Camurri Non ha un nemico, non lancia nessuna sfida C osa ne penso del discorso di Veltroni? Mio Dio, ma siete sicuri? No, non parlo, non parlo, non parlo. Anzi sì, mi dispiace per Walter, ma stavolta parlo. Ma prima datemi il discorso, non scherziamo. Santo cielo. Povero Walter, ma guarda cosa diavolo è costretto a fare. Pur di non parlare di governo, pur di non parlare di Vicenza e pur di non parlare di Afghanistan si è messo a parlare della Polis greca. Povero Walter. Dico davvero, mi dispiace tanto dover leggere un documento del genere, a suo modo intelligente, ma che in 37.000 battute la città più attuale di cui parla si trova in Grecia, ed è di 2000 anni fa. Fateci caso. Walter parla di tutto, parla di Chaplin, parla di Martin Luther King, parla del nazismo, parla di Marx ma contemporaneamente riesce a non dire assolutamente nulla. Ma nulla, davvero nulla. Impressioni? Credo che da questo monologo venga fuori tutto il suo americanismo, quell’americanismo che – come dice Veltroni stesso – in fondo solo uno che comunista non lo è mai stato può davvero capire bene. Ma attenzione. Un discorso del genere può essere consolatorio per uno che sta a casa in ciabatte come me in questo momento, non – ad esempio – per un disoccupato napoletano. Cerchiamo di essere seri. Davvero Walter, cerca di essere un po’ più serio. Rileggitelo con attenzione questo discorso. Propone qualcosa? No. Dice qualcosa? No. Sfida qualcuno? No, no e no. Il motivo è semplice, purtroppo. E il problema è che me- W Berlusconi, e cioè che la forza politica sta nel carisma. Infatti è l’unico che stia lavorando seriamente su questo aspetto: il carisma personale. Che vuol dire anche un messaggio, delle idee, dei miti se vogliamo, da comunicare al pubblico. Questo è il carisma, la base di ogni leadership: Berlusconi l’aveva e gli altri no. Tutti gli altri questo non l’hanno ancora capito, il massimo di modernità per un politico italiano rimane andare al Bagaglino. Dunque da questo punto di vista onore a Veltroni, la sua operazione comunicativa va promossa. Soprattutto se la si mette a confronto con il lavoro sull’immagine fatto da Prodi, che è decisamente sconfortante. Poi certo, Veltroni usa i mezzi che ha, la cultura che ha: lui è veramente figlio dell’“Estate romana”, dei Nicolini e dei Moretti, della musica, le feste del cinema. Così mischia “Bobby” e Sacco e Vanzetti, Chaplin e Luther King, e su questo si può anche ironizzare. E’ come se fosse molto moderno – il più moderno in Italia – nell’individuare mezzi nuovi per parlare alla gente, perché il linguaggio politico tradizionale non è assolutamente più in grado di farlo, e allo stesso tempo fosse però arretrato, frenato, sul fronte dei contenuti. Fa bene ad abbandonare i comizi e i dibattiti, ma poi la sua visione è la tv degli anni 60-70, è lo stesso orizzonte culturale di Fabio Fazio. E’ fermo lì, gli manca il riferimento a “Lost”, a “Desperate Housewifes”, insomma all’immaginario che invece parla alla gente di oggi. Promosso ma deve aggiornarsi. Aldo Grasso (testo raccolto dalla redazione)