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Occupazione sine titulo e tutela risarcitoria
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE SCUOLA SUPERIORE DELL'AVVOCATURA VIII Congresso giuridico-forense per l'aggiornamento professionale Roma, Complesso monumentale di S. Spirito in Sassia OCCUPAZIONE SINE TITULO E TUTELA RISARCITORIA a cura del Dott. Vincenzo Di Giacomo (Presidente di Sezione del Tribunale di Campobasso) Roma, 14.3.2013, ore 17,30 Secondo la consolidata impostazione tradizionale della S.C. (cfr. es. Cass., 8.6.1979, n. 3256; Cass., 8.11.1985, n. 5459; Cass., 27.7.1988, n. 4779; Cass., 11.3.1995, n. 2859; Cass., 4.2.1998, n. 1123; Cass., 18.12.1999, n. 1373; Cass., 21.1.2000, n. 649; Cass., 5.11.2001, n. 13630; Cass., 7.6.2001, n. 7692; Cass., 18/01/2006, n. 827; Cass., 8.3.2010, n. 5568), in caso di occupazione sine titulo di un immobile altrui, anche se del tutto marginale e limitata a parti dell’immobile non attualmente utilizzate, il danno subìto dal proprietario (o possessore o detentore qualificato) è in re ipsa, nel senso che lo stesso discende dalla perdita, totale o parziale, della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità anche solo potenzialmente ricavabile dal bene medesimo, in relazione alla sua natura normalmente fruttifera. Danno il cui risarcimento ben può essere determinato sulla base di elementi presuntivi semplici e facendo riferimento al cosiddetto danno figurativo, ossia al danno rapportato al valore locativo del cespite usurpato, ferma la natura di debito di valore dell’obbligazione risarcitoria (cui applicare quindi anche la rivalutazione monetaria, oltre gl’interessi compensativi: rivalutazione ed interessi da computarsi secondo i criteri costantemente indicati a partire da Cass., ss.uu., 17.2.1995, n. 1712 in poi). 1 Dei principi di cui sopra la SC ha fatto applicazione non soltanto con riferimento all’occupazione abusiva di alloggi o terreni, ma anche, come si diceva, di parti (ancorché molto limitate) di essi. Così, ad esempio, Cass., n. 4779/1988 (supra cit.) li ha applicati alla fattispecie di infiltrazione di acqua in un alloggio, proveniente da lastrici solari a causa di gravi difetti costruttivi. Cass., n. 649/2000 (supra cit.) li ha applicati alla fattispecie di apertura abusiva di pluviale su altrui terrazzino. Cass., n. 827/2006 (supra cit.) li ha applicati in tema di arbitraria occupazione durante la locazione dello spazio e del giardinetto attigui all’immobile locato e di uno scantinato (beni, questi, che non erano stati oggetto del contratto di locazione). Cass., 5568/2010 li ha applicati in tema di arbitrario esercizio di servitù di transito e di scarico sul fondo dei ricorrenti (integranti turbative di fatto e di diritto). La ratio di un simile concorde indirizzo giurisprudenziale risiede, come spiegato ad esempio in Cass., n. 1123/98 (supra cit.), nella circostanza secondo cui, sostanziandosi il contenuto del diritto di proprietà nelle facoltà di godimento e di disposizione del bene, tale situazione giuridica viene ad essere automaticamente pregiudicata per effetto della compressione che dette facoltà subiscono per effetto dell’altrui dolosa o colposa occupazione abusiva, in quanto tale ingiusta perché priva di titolo. Senonché, lo scorso anno una sentenza della SC (Cass., 7.8.2012, n. 14222) ha dissentito dal sovraesposto indirizzo, cassando la sentenza di merito che aveva liquidato il danno da occupazione sine titulo in quanto danno in re ipsa. Si verteva, nella specie, in tema di occupazione abusiva con tubazioni condominiali di un’autorimessa di proprietà esclusiva, senza che fosse stato accertato in sede di merito, con riferimento all’intero periodo di detta occupazione, se l’atteggiamento del proprietario dell’autorimessa, che si era accorto soltanto dopo circa un anno della presenza delle tubature, non fosse espressione di un intenzionale disinteresse per l’immobile, tale da indurre a circoscrivere il danno al solo periodo successivo alla scoperta dell’usurpazione. Dal che la SC, nella menzionata sentenza n. 14222/2012, ha affermato il principio che, in caso di occupazione sine titulo di un immobile altrui, l’esistenza di un danno in re ipsa costituisce oggetto di una mera presunzione iuris tantum, con la conseguenza che essa non opera ove risulti accertato che il dominus si sia intenzionalmente disinteressato del proprio immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione. 2 E la ancor più recente pronuncia (di circa due mesi or sono) di Cass., 16.1.2013, n. 924, pur richiamando in motivazione l’indirizzo tradizionale sul danno in re ipsa, in realtà finisce per riconoscere il risarcimento del danno in favore del custode (quale rappresentante della procedura esecutiva) sulla base di motivazioni di sostanza (imperniate cioè sull’effettivo accertamento della sussistenza del danno in concreto), ossia sul presupposto che il danno deriva, nel caso specifico preso in esame, dalla circostanza che “per tutta la durata del processo di esecuzione perdura il diritto dei creditori: a che i proventi della utilizzazione del bene entrino a comporre la somma da distribuire, mentre la tardiva riconsegna impedisce in loro danno una più proficua utilizzazione del bene pignorato; a che il bene sia venduto quanto prima, al suo effettivo valore di mercato, mentre l'occupazione del bene ne rende difficile la vendita e, comunque, ne riduce il valore economico”. Ciò che ha permesso e favorito il segnalato ribaltamento dell’indirizzo tradizionalmente sostenuto dalla SC è quel processo, da tempo in atto, di progressiva pubblicizzazione e costituzionalizzazione del diritto civile, che, con l’affermarsi del principio solidaristico, ha travolto una serie di dogmi tradizionali, a partire da quelli in materia di diritto di proprietà. Così, è ben noto come il Codice civile di stampo liberale del 1865 all’art. 436 definisse la proprietà come “il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. L’art. 832 del Codice civile del 1942, invece, nel definire non più il diritto in sé ma il suo contenuto (e sia pure qualificandolo come il diritto del proprietario “di godere e disporre delle cose in modo pieno ed assoluto”), impone al proprietario non solo il rispetto dei limiti (“entro i limiti” e, cioè, nel rispetto dei divieti cui faceva riferimento anche il cc del 1865) ma anche “l’osservanza degli obblighi” (e questa è la vera novità rispetto al cc del 1865, che verrà poi confermata ed ulteriormente sviluppata anche nella successiva Costituzione repubblicana, come si dirà subito) stabiliti dall’ordinamento giuridico. A sua volta, l’art. 42 della Costituzione, nel confermare che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, ne richiama “i limiti” allo scopo di assicurarne (e qui l’implicito riferimento agli obblighi) la “funzione sociale” e l’accessibilità a tutti. Norma, questa, che trova poi i suoi corollari anche in altre disposizioni, quale quella (art. 41 Cost.) sul divieto di svolgimento dell’iniziativa economica privata in contrasto con “l’utilità sociale” o con sicurezza, libertà e dignità umana e sulla funzionalizzazione della medesima attività (attraverso gli opportuni programmi e controlli) “a fini sociali”. Orbene, rispetto alla lettura tradizionale, tendente a stabilire un rapporto di continuità tra l’art. 832 cc del 1942 e l’art. 436 del cc previgente, la lettura più aggiornata e costituzionalmente 3 orientata tende a stabilire invece un rapporto di rottura tra dette due norme ed un rapporto di continuità tra l’art. 832 del cc vigente e l’art. 42 Cost. . In definitiva, si è andata sempre più affermando la tesi secondo cui il diritto di proprietà non rientra nel novero garantito dei diritti inviolabili, ma costituisce piuttosto un diritto per così dire “secondario”, nel senso che esso, in una prospettiva costituzionale, merita tutela ordinamentale non al fine della realizzazione di egoistiche esigenze individuali, ma soltanto in vista della soddisfazione di fini sociali. Dunque, il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata non raggiungono più la soglia della protezione assoluta. Perciò, mentre la lettura tradizionale dell’art. 832 cc dà risalto all’inciso ivi contenuto sul diritto del proprietario di “godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, la lettura più aggiornata e costituzionalmente orientata della medesima norma dà risalto all’inciso relativo ai “limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, in cui pure si sostanzia il contenuto del diritto di proprietà. Ne discende che, secondo la lettura tradizionale, fatta propria come si è visto dall’unanime giurisprudenza fino a tempi recentissimi, è indifferente che il proprietario (o possessore o detentore qualificato) eserciti o non eserciti il suo diritto, godendo o non godendo del bene e disponendone o non disponendone. Per cui, in caso di occupazione sine titulo, egli ha comunque diritto al risarcimento del danno, essendo il danno in re ipsa in quanto detta occupazione pone il proprietario nell’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo anche solo potenzialmente e, cioè, indipendentemente dal fatto che egli in concreto l’avrebbe poi conseguita o meno nel caso in cui il bene non fosse stato abusivamente occupato. Quest’ultima circostanza, infatti, sempre secondo l’impostazione tradizionale, è indifferente per l’ordinamento giuridico, in quanto il proprietario è del tutto libero, come si diceva, di esercitare o non esercitare in concreto il suo diritto. Per cui non solo egli non deve fornire al riguardo nessuna prova sull’an, ma non è ammesso neppure che l’occupante possa fornire utilmente una prova contraria, in relazione al disinteresse e comunque al mancato esercizio in concreto da parte del proprietario del suo diritto, né rileva che detta circostanza risulti eventualmente ex actis. Invece, la lettura più aggiornata e costituzionalmente orientata dell’art. 832 cc, fatta propria in materia da Cass., n. 14222/2012 cit., sebbene continui ad affermare il principio secondo cui il proprietario (o possessore o detentore qualificato) non deve dare la prova nell’an del danno subìto a seguito di occupazione abusiva, aggiunge però che si è qui in presenza di una presunzione di danno solo relativa (iuris tantum), per cui l’occupante può fornire la prova contraria nell’an, oppure la stessa può anche risultare ex actis. Sicché, qualora risulti ex actis oppure l’occupante dimostri il disinteresse e comunque il mancato esercizio in concreto da parte del proprietario (o possessore o detentore qualificato) del suo diritto, nessun risarcimento sarà dovuto. 4 Ovviamente, in simili ipotesi, il proprietario (o possessore o detentore qualificato), al fine di contrastare la prova fornita dall’occupante o emergente ex actis, avrà l’onere di fornire a sua volta l’eventuale prova contraria e cioè di dimostrare il proprio interesse e comunque il proprio effettivo esercizio in concreto del suo diritto. Si è sin qui parlato della prova nell’an. Resta il problema della prova nel quantum. In proposito, devesi rammentare che più in generale la SC, ai fini dell’accoglimento di una domanda risarcitoria, pur in presenza di prova nell’an circa la sussistenza del danno, ne richiede necessariamente la dimostrazione anche nel quantum (ossia la concreta dimostrazione del suo preciso ammontare), salvo il caso in cui tale prova risulti nel caso di specie “impervia o impossibile” o comunque presenti una “difficoltà di un certo rilievo”, alla luce della peculiare natura del pregiudizio lamentato dall’attore. Solo in quest’ultimo caso, pertanto, il ricorso ad un’autonoma valutazione equitativa del danno risulta legittimo e doveroso, dovendosi altrimenti rigettare la domanda risarcitoria per mancata prova sul quantum (così es. Cass., 12.10.2011, n. 20990 e Cass., I, 16.9.2002, n. 13469; e v. pure, in termini, Cass., 11.7.2007, n. 15585; Cass., 18.4.2007, n. 9244; Cass., 21.11.2006, n. 24680; Cass., 24.10.2006, n. 22836; Cass., 1°.8.2006, n. 17483; Cass., 12.4.2006, n. 8615; e v. poi Cass., 15.2.2008, n. 3794, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 cc è possibile solo ove ricorrano “elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione”). Orbene, tornando al caso della domanda risarcitoria per occupazione sine titulo, qualora non risulti ex actis oppure l’occupante non dimostri il disinteresse e comunque il mancato esercizio in concreto da parte del proprietario (o possessore o detentore qualificato) del suo diritto, cionondimeno quest’ultimo ha l’onere di provare il quantum della sua pretesa. Prova, quest’ultima, che egli dovrà fornire con riferimento, ove possibile, al c.d. danno figurativo, ossia al valore locativo del cespite usurpato (v. supra), magari anche facendo riferimento al valore locativo di immobili similari ubicati nella medesima zona; se egli non fornisce detta prova e se la stessa non risulta già altrimenti dagli atti processuali, il Giudice dovrà dunque rigettare la domanda risarcitoria per mancanza di prova sul quantum, non risultando nel caso di specie tale prova “impervia o impossibile” né presentando la stessa una “difficoltà di un certo rilievo”. Invece, nei casi in cui non è possibile fare ricorso al criterio del danno figurativo (si pensi, ad esempio, alle già segnalate fattispecie di arbitrario esercizio di servitù di transito e di scarico sul fondo dei ricorrenti, oppure di apertura abusiva di pluviale su altrui terrazzino, e così via) ed in cui la prova si presenti effettivamente nel caso di specie “impervia o impossibile” o presenti una “difficoltà di un certo rilievo”, il Giudice di merito potrà fare ricorso, anche d’ufficio (ciò 5 rientrando tra i suoi poteri discrezionali: Cass., 11.1.2001, n. 315), alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 cc, sempre che ricorrano “elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione” (Cass., n. 3794/2008 cit.). A proposito della quale valutazione equitativa del danno, va ricordato che il Giudice di merito deve indicare in motivazione i criteri di riferimento o quanto meno la giustificazione posta a base della valutazione medesima, pena un vizio motivazionale della sentenza censurabile in sede di legittimità, sebbene la SC sia talora più rigida (cfr. es. Cass., 13.2.2013, n. 3582) e talaltra meno rigida (cfr. es. Cass., 26.1.2010, n. 1529) nel ritenere l’effettiva sussistenza di detto vizio motivazionale. Infine, vale la pena di ricordare, sempre in tema di occupazione sine titulo, che la relativa azione e la connessa azione risarcitoria possono essere introdotte sia in sede possessoria che in sede petitoria e che il divieto di cumulo di cui all’art. 705 cpc riguarda solo il convenuto in possessorio e non anche l’attore in possessorio. Il quale ultimo può, anche in pendenza del giudizio possessorio, proporre dunque anche autonoma azione petitoria (senza che ciò implichi rinuncia all’azione possessoria), sebbene debba farlo in un separato ed autonomo giudizio, senza che dalla contemporanea pendenza dei due giudizi possa profilarsi una questione di litispendenza (cfr. es. Cass., 25.6.2012, n. 10588 e Cass., 23.6.2005, n. 13495). Vincenzo Di Giacomo 6