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Giurisprudenza di merito 4-09

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Giurisprudenza di merito 4-09
GI U R ISPRU DE NZ A
DI M E R I TO
direttore scientifico Ciro Riviezzo
04-2009
XLI — aprile 20 09, n° 04
| e s t rat t o
LA NULLITÀ DEL TRASFERIMENTO MORTIS
CAUSA DI UN BENE ALTRUI
di Gianluca La Marca
giurisprudenza civile
SUCCESSIONE
146 DISPOSIZIONE TESTAMENTARIA AVENTE
AD OGGETTO UNA COSA ALTRUI
TRIBUNALE DI BARI - 22 LUGLIO 2008 - PRES. - EST. DE SIMONE
Successione testamentaria - In genere - Disposizione avente ad oggetto una cosa altrui - Nullità.
(c.c., artt. 1346, 1418 comma 2)
La disposizione testamentaria con cui il de cuius ha inteso trasferire un bene di cui non è proprietario
integra, secondo il combinato disposto degli artt. 1418 comma 2 e 1346 c.c. ed in ossequio al brocardo
nemo plus iuris in alium trasferre potest quam ipse habeat, una causa di nullità dell’atto per carenza
nell’oggetto del requisito della possibilità.
(Omissis)
2. L’art. 1346 c.c. descrive le caratteristiche dell’oggetto del contratto in termini di liceità,
determinatezza e possibilità. Laddove difetti uno di tali requisiti, viene in rilievo l’art. 1418 comma
2 c.c. che dispone la sanzione della nullità per deficit strutturale del negozio giuridico.
Le citate disposizioni, previste nel libro IV del Codice Civile in materia contrattuale, spiegano
effetti, in assenza di espresse previsioni contrarie, per tutti gli atti di carattere negoziale, sia inter
vivos che mortis causa (Cfr. Cass., sez. II, 6 marzo 1992, n. 2708).
3. Tanto premesso in linea generale sull’applicabilità delle cause di nullità del contratto alla
materia delle disposizioni di ultima volontà,nel caso di specie risulta agli atti (vedi doc. sub. 3 del
fascicolo dell’attore) che il bene controverso apparteneva a F. N., padre degli attori, sin dal 31
maggio 1960, giorno in cui costui, a seguito dell’atto pubblico di rinunzia d’usufrutto e di divisione
del 31 maggio 1960 per notar Cardinali intervenuto tra il medesimo dante causa degli attori e R. A.,
F. M., F. P. e F. M., ne acquisiva la proprietà esclusiva, esercitandovi negli anni successivi la
propria attività odontoiatrica.
Raggiunta la pensione, poi, egli cedeva la detenzione dell’immobile alla sua sorella nubile, F.
P., a titolo di comodato gratuito.
4. E pur tuttavia F. P., senza essere proprietaria del bene, lo trasferı̀ mortis causa in favore di
una sua nipote (l’odierna convenuta): la disposizione di un bene altrui integra, secondo il combinato disposto degli artt. 1418 comma 2 e 1346 c.c. ed in ossequio all’antico brocardo nemo plus iuris
in alium transferre potest quam ipse habet, una causa di nullità dell’atto per carenza nell’oggetto
del requisito della possibilità (cfr. Corte Appello Trento, sent. 14 gennaio 1997).
Tale nullità, in ragione della regola posta all’art. 1419 c.c. e nella logica del favor testamenti,
spiega effetti limitatamente alla disposizione contestata, ferma restando la validità e l’efficacia
della restante parte del negozio de quo.
5. La convenuta ha dedotto che la disposizione mortis causa eseguita in suo favore da F. P.
poteva legittimamente comprendere il bene in contesa per due ordini di ragioni:
1. la de cuius l’aveva usucapito;
2. la de cuius l’aveva acquistato con scrittura privata.
In disparte il rilievo dell’intrinseca contraddittorietà della prospettazione, dato che l’una
esclude pacificamente l’altra, la S. non ha fornito alcuna prova dei sui assunti, tutti smentiti
dall’istruttoria espletata.
5.1. Quanto alla pretesa usucapione, perché essa si perfezioni è necessario il possesso continuato e pacifico del bene protrattosi per almeno 20 anni.
Ebbene, la convenuta ha dedotto che la sua dante causa era nella disponibilità del cespite per
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averlo concesso in uso a L. C., ma tale circostanza non costituisce indice sintomatico del suo
possesso ad usucapionem perché risulta espressamente contraddetta dal teste D. O. V., moglie del
defunto F. N., che ha riferito che l’ingresso nell’abitazione della L., suocera di un’altra sorella della
de cuius, era stato autorizzato espressamente da suo marito su richiesta della sorella che, nubile,
desiderava «…avere e ricevere compagnia».
A dimostrazione del possesso o quantomeno della interversio possessionis della de cuius non
può nemmeno rilevare l’asserito negozio di locazione che la stessa avrebbe concluso nel 1985, dal
momento che il documento che l’attesterebbe per un verso è inutilizzabile in quanto privo di data
certa, per l’altro è inefficace ai fini invocati perché il termine per l’usucapione non è maturato: ed
invero, mentre il contratto sarebbe stato concluso nel 1985, il presente giudizio è stato instaurato
nel 2003.
D’altro canto, ogni discussione sul punto appare oziosa laddove si tenga in considerazione che
lo stesso marito della convenuta, C. P., ha riconosciuto che la zia P. aveva versato a F. N. un canone
per la locazione dell’immobile; il che significa implicitamente che la de cuius riconosceva non di
utilizzare il bene uti dominus ma di detenerlo in nome e per conto del legittimo proprietario.
5.2. Neppure è stata provata la presunta cessione a titolo oneroso del bene, cui i due fratelli
(F. N. e F. P.) sarebbero addivenuti.
Tale circostanza avrebbe dovuto essere dimostrata per tabulas (arg. ex art. 1350 c.c.) e non per
testimoni (da qui l’irrilevanza delle dichiarazioni rese sul punto dal teste C. P.), ostandovi il chiaro
disposto dell’art. 2725 c.c. (cfr. Cass., sez. II, 29 agosto 1998, n. 8611).
(Omissis).
LA NULLITÀ DEL TRASFERIMENTO MORTIS CAUSA
DI UN BENE ALTRUI
Premessa la condivisibile estensione della disciplina sui requisiti dell’oggetto contrattuale al
negozio testamentario, l’Autore auspica l’applicabilità anche dell’art. 1348 c.c., di modo che l’attribuzione mortis causa di una cosa futura, anche se appartenente ad un terzo (futurità «soggettiva»), non può dirsi inficiata dal vizio di nullità, quantomeno non perché l’oggetto ne risulta
impossibile. Trattasi, piuttosto, di disposizione ad efficacia reale differita, che fa sorgere in capo
all’onerato l’obbligo di far acquistare al beneficiario la titolarità del bene dedotto.
Sommario 1. Nozione di oggetto del contratto. — 2. L’oggetto impossibile e l’oggetto inesistente:
la res futura. — 3. Applicabilità al negozio testamentario. — 4. Conclusioni.
1. NOZIONE DI OGGETTO DEL CONTRATTO
Il principio affermato nella sentenza in epigrafe — secondo il quale l’atto di disposi- di
zione di un bene altrui è nullo per impossibilità dell’oggetto — consiglia una breve, ma Gianluca
necessaria, ricognizione dei risultati interpretativi a cui oggi si è pervenuti in merito La Marca
alla nozione di «oggetto» del contratto, e del negozio giuridico generalmente inteso.
Sebbene l’art. 1325 c.c. elenchi l’oggetto tra gli elementi essenziali del contratto, è
vacuo cercarne nel codice una definizione normativa, che addirittura latita financo
nella disciplina ad esso dedicata (artt. 1346-1349 c.c.). Ciononostante, è possibile scorgervi la volontà del legislatore di identificare l’«oggetto» del contratto con la «presta-
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zione» in esso dedotta (1), ossia l’oggetto dell’obbligazione giuridica di cui il contratto è
fonte.
Ma l’identità concettuale tra prestazione e oggetto del contratto rischia di sconfessare la prestazione stessa come oggetto dell’obbligazione.
Si pensi, ad esempio, al contratto ex art. 769 c.c. con cui il donante arricchisce il
donatario trasferendogli la titolarità di un suo diritto: è noto che, ai sensi dell’art. 1376
c.c., il trasferimento non si realizza attraverso l’esecuzione di una prestazione a cui il
donante si è obbligato, ma opera come effetto del mero accordo tra le parti. Onde per
cui, nessun rapporto obbligatorio può dirsi tecnicamente sorto tra le parti della donazione: non a carico del donante, per la citata regola del consenso traslativo; né tanto
meno a carico del donatario, considerata la causa liberale del contratto di donazione (2).
Poiché, dunque, sarebbe alquanto risibile affermare che la donazione sia un contratto
privo di oggetto (3), la prestazione non può identificarsi con l’oggetto del contratto senza
al contempo negarne la natura di oggetto dell’obbligazione.
L’inequivocabile lettera dell’art. 1174 c.c., allora, suggerisce di percorrere un’altra
via esegetica, e segnatamente quella lastricata dall’atecnicismo con cui il legislatore ha
usato passim il termine «prestazione» per indicare, in realtà, qualcosa di necessariamente diverso.
Il primo riferimento è alla disciplina dei «contratti con prestazioni corrispettive»: in
questo caso, è pacifico che con il termine «prestazione» il legislatore abbia voluto
riferirsi, in generale, all’attribuzione giuridico-patrimoniale che ciascuna parte effettua mercé contratto. Se, infatti, il significato inteso dal legislatore fosse quello tecnico di
oggetto dell’obbligazione, rimarrebbero esclusi dalla categoria in parola i contratti di
trasferimento a titolo oneroso (4) e i contratti reali onerosi (5), i quali, come spiega la
stessa Relazione al codice civile, vanno invece inquadrati tra i contratti con prestazioni
corrispettive (6).
In altri termini, il concetto di prestazione viene utilizzato nella sua accezione fina(1)
Cfr. l’art. 1347 c.c. e, più incisivamente, l’art.
1349 c.c.
(2)
Invero, è ben possibile che taluni obblighi accessori gravino sul donante (es. artt. 796 e 797 c.c.) ed
anche sul donatario (es. art. 793 c.c.). Ma come meglio si comprenderà nel proseguo della trattazione,
l’insieme delle determinazioni volute dalle parti - sia
le principali, che da sole costituiscono l’oggetto del
contratto, sia le secondarie - accedono al c.d. «contenuto» del contratto: in questo senso, vedi CATAUDELLA, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 187 s.
Contra DIENER, Il contratto in generale, Milano, 2002,
345-346, la quale nega ogni rilevanza alla distinzione
tra oggetto e contenuto del contratto, giudicandola
una mera sottigliezza dottrinale. Tuttavia, è dato rinvenire importanti conseguenze pratiche laddove si
condivida il principio giurisprudenziale secondo cui
la forma ad substantiam riguarda solo gli elementi
essenziali del contratto, e non si estende alle altre
determinazioni stabilite dalle parti (tra le più recenti,
Cass. 27 febbraio 2008, n. 5197 e Cass. 5 giugno 2008,
n. 14938, entrambe in Contratti, 2008, 708 e 899).
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(3)
Cfr., del resto, anche solo l’art. 778 c.c., relativamente alla legittimità del terzo di «determinare
l’oggetto della donazione».
(4)
Vedi, per tutti, la compravendita ad efficacia
reale immediata, sulla cui natura di contratto sinallagmatico nessuno dubita: mal si giustificherebbe,
altrimenti, la prevista applicabilità delle norme sulla
risoluzione per inadempimento (es. art. 1497 c.c.).
(5)
Nel contratto di mutuo oneroso, addirittura,
l’attribuzione elargita dal mutuante integra un requisito di perfezionamento del contratto. Eppure anche questo può essere risolto per inadempimento
(art. 1820 c.c.): il rapporto di corrispettività, infatti,
esiste ed interessa, da una parte, il trasferimento delle cose date a mutuo e, dall’altra parte, il pagamento
degli interessi (GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, Milano, 1972, 47 e, in giurisprudenza, Cass. 21 febbraio
1995, n. 1861, in Giur. it., 1996, 998).
(6)
Tuttavia, nega il carattere della corrispettività
ai cc.dd. contratti bilaterali imperfetti, tra i quali
emergono proprio i contratti reali onerosi, TRABUCCHI, Istituzioni di diritto privato, Padova, 2005, 695.
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listica, con riferimento cioè al risultato patrimoniale prospettato dai contraenti, a prescindere che il suo raggiungimento passi attraverso l’adempimento di una vera e
propria obbligazione (es. il pagamento del prezzo), piuttosto che discendere dal mero
consenso legittimamente manifestato dalle parti (es. il trasferimento della proprietà), o
ancora coincidere con un elemento costitutivo della fattispecie (es. la dazione a mutuo
di denaro).
Tornando all’esempio della donazione, l’arricchimento conseguito dal donatario
rappresenta l’entità patrimoniale dell’attribuzione effettuata dal donante, quindi coincide con la «prestazione dedotta in contratto»: l’oggetto della donazione è la prestazione di arricchimento effettuata dal donante a vantaggio del donatario.
Sulla base delle riflessioni suesposte, la dottrina dominante ha concluso — in varia
guisa ma con risultati sostanzialmente identici — nel senso di individuare l’oggetto del
contratto nella prestazione che determina, in genere, ogni modificazione della situazione giuridico-materiale voluta dalle parti (7), sia che tale modificazione segua al
comportamento che il contraente deve tenere dopo la conclusione del contratto (8) o al
fine di perfezionare il contratto medesimo, sia che la modificazione derivi automaticamente dalla volontà delle parti.
Infine, la prestazione quale oggetto del contratto non deve essere confusa con la
«cosa» che può formare oggetto di diritti e, quindi, del contratto stesso.
Talune disposizioni del codice, in effetti, fanno riferimento al bene quando trattano
dell’oggetto del contratto (9); ma la soluzione all’apparente contraddizione è fornita
dall’art. 1348 c.c., secondo cui «la prestazione di cose future può essere dedotta in
contratto»: è di tutta evidenza, infatti, come la prestazione venga tenuta distinta dal suo
oggetto, nel caso specifico dalla cosa futura. Di conseguenza, si afferma che mentre la
prestazione dedotta costituisce l’oggetto diretto (o immediato) del contratto, il bene
rappresenta l’oggetto della prestazione, ossia l’oggetto indiretto (o mediato) del contratto (10).
2. L’OGGETTO IMPOSSIBILE E L’OGGETTO INESISTENTE:
LA RES FUTURA
Dall’interpretazione sistematica delle norme sull’oggetto del contratto e di quelle che,
in generale, disciplinano i suoi requisiti (art. 1346 c.c.), sembra emergere il seguente
corollario: la liceità e la possibilità dell’oggetto riguardano esclusivamente la prestazione del contratto. Logicamente prima ancora che giuridicamente, infatti, non ha
senso parlare di cosa impossibile o di cosa illecita in maniera avulsa dalla prestazione
a cui essa accede. Ciò che può essere impossibile o illecito è solo il risultato patrimo(7)
Cosı̀ MIRABELLI, Dei contratti in generale, in
Comm. c.c., Torino, 1980, 176.
(8)
In questo caso, taluni autori preferiscono discorrere di «utilità programmata» piuttosto che di
prestazione in senso stretto, poiché nel contratto la
prestazione è considerata «non nella sua dimensione
dinamica, ma nella prospettiva statica dell’atto» (NAVARRETTA, in Diritto privato, Torino, 2003, 266 s.).
(9)
Ancora in tema di donazione, vedi gli artt. 771
comma 2 e 783 c.c. Si ricordi, inoltre, che anche
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l’abrogato codice identificava l’«oggetto dei contratti» con la res (v. artt. 1116, 1117 e 1118 c.c. del 1865).
(10)
Il riferimento testuale ora alla prestazione
ora alla cosa rivela, semplicemente, l’interesse normativo verso cui la disciplina di specie è orientata.
Nell’art. 771 c.c., ad esempio, la prevista nullità della
donazione di beni futuri opera a prescindere dal tipo
di prestazione che li riguarda, mentre la regola dell’art. 772 c.c. si applica indipendentemente dalla natura del bene oggetto della prestazione periodica.
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niale nel quale certi tipi di beni sono coinvolti, poiché la realtà naturalistica della res è
insensibile a giudizi di valore che interessano, prettamente, le sole vicende giuridiche (11): una cosa inesistente, ad esempio, non può essere di per sé contraria a norme
imperative, al buon costume o all’ordine pubblico, quanto piuttosto la sua disposizione
se a titolo donativo (12).
Tale precisazione, però, non esclude che il bene abbia o meno caratteristiche
proprie, né che questo sia giuridicamente rilevante ed influente sull’oggetto diretto del
contratto.
Cosı̀, un bene può essere determinato o determinabile (13) e può esistere o non
esistere in un preciso momento storico.
In particolare, si ha esistenza reale quando la cosa esiste nella sua im/materialità
nel patrimonio del disponente; si ha esistenza giuridica quando la cosa vi esiste come
bene in senso giuridico (ex art. 810 c.c.).
In entrambi i casi, il contratto è privo di oggetto quando non esiste la cosa dedotta in
prestazione (14): il contratto, allora, sarà nullo per mancanza dell’oggetto e non per la
mancanza in questo dei suoi requisiti essenziali, specie della possibilità (cfr. art. 1418
comma 2 c.c.).
Quando si discorre di oggetto impossibile, infatti, si allude alla prestazione di facere
o non facere che nessuno è in grado di eseguire (impossibilità materiale), ovvero alla
prestazione di dare una cosa che non può essere dedotta in un contratto (impossibilità
giuridica), ma che comunque «esiste» nel senso sopra precisato.
Di talché, si può concludere che in nessun caso l’inesistenza del bene comporta la
nullità del contratto per impossibilità dell’oggetto (15).
Anzi, è ben possibile che in certi casi il contratto privo di oggetto mediato sia valido,
se non addirittura anche immediatamente e pienamente efficace (cfr. art. 1472 comma
2 c.c.).
In effetti, la necessità di riscontrare l’esistenza della cosa a pena di nullità è derogata dal principio generale di cui all’art. 1348 c.c. che, come visto, consente alle parti di
dedurre in contratto cose future.
Il concetto di futurità, più precisamente, implica un’inesistenza attuale del bene di
cui le parti, però, si sono prefissate la successiva sopravvenienza: solo se difetta tale
preordinazione il contratto sarà nullo per mancanza di oggetto. Come dire che l’inesistenza ontologica del bene è superata dalla volontà delle parti a considerare attuale la
res futura (16).
(11)
In questo stesso senso, ad eccezione del requisito della possibilità, TAVANI-D’AMATO-CILLO, Dei
singoli contratti, I, Milano, 2005, 13.
(12)
Idem per i beni demaniali e gli edifici abusivi.
La tradizionale qualificazione che di questi si fa in
termini di beni fuori commercio costituisce, a ben
vedere, un posterius rispetto alla prevista illiceità o
impossibilità della loro commercializzazione; di talché, essi sono fuori commercio perché la loro disposizione è vietata o impossibile, e non viceversa.
(13)
Il requisito di cui all’art. 1346 c.c., anzi, interessa propriamente l’oggetto mediato del contratto:
infatti, la determinatezza della prestazione dipende
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inesorabilmente da quella del bene. E come si preciserà meglio in appresso, la stessa cosa vale anche per
l’esistenza dell’oggetto diretto.
(14)
SACCO, Il contenuto del contratto, in Trattato
Rescigno, Torino, 1997, 365.
(15)
Il fatto che l’impossibilità e l’inesistenza dell’oggetto individuino caratteristiche proprie di entità
diverse (rispettivamente, della prestazione e del bene) e che fra loro non esista alcuna interdipendenza
giuridica, sembra dimostrato anche dalla disciplina
separata degli artt. 1347 e 1348 c.c.
(16)
Cosı̀ PERLINGIERI, I negozi su beni futuri, I,
Napoli, 1964, 74.
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Tradizionalmente, inoltre, si afferma che le cose possono essere sia «oggettivamente» future, cioè quando non esistono in rerum natura o che sono res nullius, sia
«soggettivamente» future, vale a dire quando solo non esistono nel patrimonio del
disponente. Se ne deduce, allora, che anche i beni altrui sono cose future e che, come
tali, possono essere validamente dedotti in contratto a norma dell’art. 1348 c.c.
Come è noto, però, il contratto su cose future non produce alcun effetto reale
immediato (17): il diritto si trasferisce solo se e quando la cosa verrà ad esistenza
(nell’ipotesi di cosa altrui, di norma, quando il bene sarà acquistato dal disponente). In
caso contrario, il contratto — pur valido ai sensi dell’art. 1348 c.c. — rimarrà definitivamente privo di efficacia (18).
Infine, solo in casi particolari — ossia in quelli tassativamente previsti dal legislatore — è vietata la deduzione di beni futuri, come nel contratto di donazione (art. 771
c.c.) e nella disposizione di un’eredità futura (arg. art. 458 c.c.).
3. APPLICABILITÀ AL NEGOZIO TESTAMENTARIO
La dottrina ormai prevalente afferma la natura negoziale del testamento: si discorre, a
tal proposito, di negozio giuridico unilaterale (in quanto l’apporto volitivo proviene solo
dal testatore) avente una causa di morte, poiché la ragione giustificatrice del vinculum
testamentario è proprio quella di determinare la sorte dei rapporti patrimoniali in
dipendenza della morte dell’autore (19).
L’evento morte opera come una peculiare condicio iuris del testamento: esso, cioè,
consiste in un negozio già perfetto al momento della sua conclusione, ma di cui la legge
subordina la produzione di ogni effetto al tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere
e se egli, medio tempore, non lo avrà revocato. Di talché la fattispecie testamentaria realizza, più precisamente, una fattispecie giuridica complessa, formata dal negozio testamentario, ancorché privo di qualunque rilevanza esterna, e dall’evento morte del testatore.
Ciò premesso, è necessario verificare quali norme previste per l’archetipo del
negozio giuridico — il contratto — siano applicabili al negozio testamentario, con
precipuo riferimento al suo oggetto.
Nessun dubbio sull’applicabilità dell’art. 1325 c.c., che riguarda tutti i negozi giuridici in ossequio ad un principio generale dell’ordinamento.
Il legislatore, però, non disciplina espressamente e in modo generale l’oggetto del
testamento. In proposito, mentre la dottrina ritiene applicabile gli artt. 1346 e, correlativamente, 1418 comma 2 c.c. in via analogica (20), la giurisprudenza considera anche
(17)
Cfr. artt. 1472 e 1478 c.c. Per l’applicazione
generalizzata di tale normativa, v. SCOGNAMIGLIO, Dei
contratti in generale, in Commentario ScialojaBranca, Bologna-Roma, 1970, 365-366.
(18)
In proposito, è stato sostenuto (per tutti, RUBINO, La compravendita, in Trattato Cicu-Messineo,
1962, Milano, 185) che la mancata sopravvenienza
della cosa futura non è propriamente causa di nullità
(come invece recita testualmente l’art. 1472 comma 2
c.c.), bensı̀ causa di risoluzione del contratto: per ina-
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dempimento, se essa è imputabile al disponente; altrimenti per impossibilità sopravvenuta.
(19)
Cfr., per tutti, BIGLIAZZI-GERI, Il testamento,
Milano, 1976, 72 ss.
(20)
CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano,
2002, 444. L’Autore afferma che la lettera dell’art.
1324 c.c. estende l’applicazione delle norme in materia contrattuale solo agli altri negozi inter vivos,
cosicché è necessario far ricorso all’analogia finanche per ammettere l’applicabilità dell’art. 1325 c.c.
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le norme de quibus espressione di un principio generale del negozio giuridico, quindi
applicabile al testamento in via diretta (21).
In ogni caso, il momento valutativo dei requisiti dell’oggetto deve adeguarsi alle
peculiarità del negozio testamentario: poiché il testamento è assolutamente improduttivo di effetti fino alla morte del testatore, la valutazione dei requisiti va riferita al
momento dell’apertura della successione (22). Di conseguenza, se taluno dispone per
testamento in maniera impossibile, illecita o indeterminata, ovvero con riferimento a
beni inesistenti o futuri, il giudizio di nullità/inefficacia non può che intervenire in
dipendenza della rilevanza esterna del testamento. Solo aperta la successione del
testatore, dunque, si valuterà la sussistenza dell’oggetto e dei suoi requisiti (23), e
secondo le stesse regole previste in materia contrattuale.
In particolare, coerenza vorrebbe che fosse affermata l’applicabilità anche dell’art.
1348 c.c. poiché, come detto, esso esprime un principio di portata generale. Non fosse
altro che anche la disciplina successoria contiene una norma attuativa di tale principio,
sostanzialmente analoga a quella dell’art. 1478 c.c. Stabilisce, infatti, l’art. 651 c.c. che il
legato di cosa altrui è valido qualora risulti per iscritto che il testatore conosceva la
condizione di altruità al momento della confezione del testamento: è evidente come, di
fatto, tale altruità si atteggi nei sopra riportati termini di futurità (soggettiva) del bene;
cosicché la disposizione mortis causa della cosa altrui farà parimenti sorgere in capo
all’onerato l’obbligo di farne acquistare la titolarità al legatario (24).
4. CONCLUSIONI
In conclusione, si deve respingere l’assunto a cui il Tribunale di Bari è pervenuto nella
sentenza in commento, in quanto la nullità della disposizione testamentaria avente ad
oggetto un bene altrui non può mai esservi per impossibilità dell’oggetto.
Tutt’al più, è possibile che al momento della conclusione del testamento l’altruità
della cosa fosse sconosciuta al testatore: in questo caso si integrerebbe un’ipotesi di
nullità per mancanza dell’oggetto che, come detto, sarà eventualmente operativa solo
al momento della morte del testatore.
Viceversa, se la consapevolezza del testatore viene debitamente dimostrata, e
quindi la cosa in oggetto può tecnicamente qualificarsi come «futura», la disposizione
mortis causa della cosa altrui sarà perfettamente valida, ancorché priva di un immediato effetto traslativo a favore del beneficiario (25).
(21)
Cfr. Trib. Lucca 22 luglio 1991, in Giust. civ.,
1991, 2805 e Cass. 6 marzo 1992, n. 2708, in Vita not.,
1992, 1215, richiamata dal collegio barese in volontà,
evidentemente, di condividerne l’assunto.
(22)
È opinione comune, infatti, che nel nostro
ordinamento sia caduta l’antica regula catoniana secondo cui la validità della disposizione testamentaria
doveva valutarsi al tempo della confezione del testamento (cfr. GANGI, La successione testamentaria nel
vigente diritto italiano, II, Milano, 1952, 334).
(23)
In proposito, Cass. n. 2254 del 1951 ha giustamente stabilito che le norme applicabili al testamento sono quelle vigenti alla data della morte del testatore; sicché in caso di interinale ius superveniens
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che, ad esempio, ne elimini una causa di illiceità dell’oggetto, il testamento risulterà perfettamente valido.
(24)
A differenza della vendita di cosa altrui, però,
l’acquisto da parte del legatario non è automatico ma
necessita di un secondo trasferimento dall’onerato al
legatario (coercibile ex art. 2932 c.c.), ed è inoltre
riconosciuta all’onerato la facoltà di liberarsi da tale
obbligo pagando al legatario il giusto prezzo della
cosa.
(25)
Sostanzialmente conformi Cass. 19 marzo
2001, n. 3939, in Mass. Giust. civ., 2001, 524 e la
recente Cass. 11 marzo 2008, n. 6449, ivi, 2008, 3.
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