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Numero 1 - anno 2010 - Istituto Luigi Boccherini

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Numero 1 - anno 2010 - Istituto Luigi Boccherini
Codice 602
Nuova serie
Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca
N. 1 - anno 2010
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14-12-2010 12:07:40
«CODICE 602»
Nuova serie
Il titolo della Rivista è un omaggio ad una delle più antiche tradizioni musicali lucchesi.
Risale, infatti, all’XI secolo il prezioso Antifonario noto come Codice 602, custodito nella Biblioteca Capitolare
Feliniana di Lucca.
Rivista annuale dell’Istituto Superiore di Studi Musicali
“L.Boccherini” di Lucca
N. 1 - Dicembre 2010
Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 867 del 20.10.2007
Direttore Responsabile: Carmelo Mezzasalma
Responsabile editoriale: Sara Matteucci
Comitato di redazione: Giulio Battelli, Sara Matteucci, Carmelo Mezzasalma, Fabrizio Papi
In questo numero hanno collaborato:
Matteo Cammisa, Pier Marco De Santi, Marco Mangani, Pietro Pietrini, Francesco Scarpellini Pancrazi,
Flaminia Zanelli
Progetto grafico e stampa: Felici Editore
via Carducci 60 - 56017 Ghezzano (PI)
tel. 050 878159 - fax 050 8755897
www.felicieditore.it)
Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini: GianPaolo Mazzoli
Presidente: Ugo Giurlani
Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini”
Piazza del Suffragio, 6
55100 – Lucca
Tel. 0583 464104
Sito web: www.boccherini.it
La Rivista «Codice 602» Nuova serie è realizzata grazie al contributo di: Fondazione Banca del Monte di Lucca
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Indice
Editoriale
di Carmelo Mezzasalma
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La parola del Direttore
di Gian Paolo Mazzoli
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Contributi
«Voglio afferrare il destino alla gola»: alcune considerazioni analitiche e cronologiche
sulla Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 2 (Mondschein-Sonate)
di Ludwig van Beethoven e sull’Adagio KV 540 di Wolfgang Amadeus Mozart
di Francesco Scarpellini Pancrazi,
Professore di Storia della Musica presso il Conservatorio di Perugia
9
Quanto la musica “dà alla testa”: la sinfonia che influisce sul cervello
di Pietro Pietrini, Daniela Bonino, Giuseppina Rota, Emiliano Ricciardi
Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica, Università di Pisa 38
La grande “voce” della colonna sonora italiana. Un genere musicale di nessun conto
di Pier Marco De Santi
Professore di Storia del Cinema Italiano e Museologia del Cinema
presso l’Università di Pisa e direttore artistico di EuropaCinema
50
Intervista a Luis Bacalov
di Sara Matteucci
Docente presso l’Istituto Musicale “L. Boccherini” di Lucca
55
Studi sulla musica lucchese
Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
di Marco Mangani
Docente di musicologia presso l’Università di Ferrara
58
La tesi di laurea
Due autori dell’est europeo a confronto nel repertorio della viola: differenze ed analogie tra
Alfred Schnittke e György Kurtág
di Flaminia Zanelli
73
La parola degli studenti
Convegno di Padova. I conservatori a dieci anni dalla riforma
di Matteo Cammisa
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Editoriale
Jeanne Hersch (1910-2000), filosofa e musicista di origine polacca ma
vissuta sempre a Ginevra, ha dedicato un illuminante saggio al rapporto
tra la musica e il tempo. In questo saggio afferma ad un certo punto: «La
prodigiosa varietà della musica occidentale ha probabilmente la stessa origine di quella della filosofia: la libertà si è impegnata individualmente e
collettivamente nel mondo per farlo accadere e dargli forma, nel corso di
quell’avventura magnifica e terribile che si chiama storia. I pensieri e i sogni
s’incarnano nelle possibilità offerte dal passato e dal futuro a esseri umani che possono creare soltanto ora, al presente, in questa fugace miniatura
d’eternità, in cui hanno l’unico appuntamento col mondo, in cui musicisti
diffondono le loro melodie attraverso i ricordi e i progetti» (Tempo e musica,
Baldini&Castoldi-Dalai Editori, Milano 2009, pp. 85-86). Così, nella riflessione della Hersch, la musica non solo esige la continua formazione, ma
è un reale approfondimento della condizione umana, della vita nel tempo
che vuole sempre rinnovarsi dal momento che l’esperienza estetica è sentire
un’altra vita, seguirne il respiro.
Anche una rivista dedicata alla musica come «Codice 602», e quale
espressione dell’impulso formativo che anima il nostro Istituto, deve accettare di rinnovarsi proprio per mantenere viva e propositiva quella prospettiva europea che è imposta alla musica dalle condizioni storico-culturali
del nostro presente. Non deve sorprendere più di tanto, allora, che «Codice
602» si presenti ora profondamente rinnovata nei contenuti per meglio rispondere allo spirito della riforma che vuole orientare i conservatori italiani
in senso universitario. Si tratta di dare una nuova forma alla formazione attraverso un autentico spirito di ricerca. In questa prospettiva, come ha notato il nostro Direttore, è importante sottolineare che i saggi che compaiono in
questo numero della rivista sono prevalentemente collegati alla produzione
artistica dell’Istituto chiamata «Open» e che ha visto Ospiti in concerto,
Performance Boccherini, Eventi, Note di arte, cultura e ricerca.
Di fatto, al Seminario (1-3 giugno 2010) sulle innovazioni stilistiche e
libertà formali nelle 32 Sonate per pianoforte di Beethoven, tenute dal nostro docente Pietro Rigacci, si affianca nella rivista il bellissimo contributo
di Francesco Scarpellini Pancrazi, docente di Storia della musica presso il
Conservatorio di Perugia, e dedicato all’analisi della Sonata quasi una fantasia Op. 27 n. 2 (Mondschein-Sonate). Attraverso lo scandaglio del motivo melodico, della figurazione tastieristica, del motivo ritmico e di quello metrico,
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Editoriale
lo studioso giunge a individuare la cifra personalissima del celebre “Adagio sostenuto” in una sorta di “marcia funebre” del compositore tedesco, in
parte legata alla sua incipiente sordità che, tuttavia, non sembra annullare
il suo grande slancio creativo. Alla conferenza “Esecutiva-Mente – indagine
sulla mente musicale” (20 aprile 2010), tenuta da Pietro Pietrini, Professore
Ordinario presso il Dipartimento di Patologia Sperimentale e Biotecnologie
Mediche dell’Università di Pisa, si lega il contributo a più voci e firmato
da Pietro Pietrini, Daniela Bonino, Giuseppina Rota, Emiliano Ricciardi del
Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica dell’Università di Pisa: un contributo interessante e stimolante della neuroscienza
cognitiva che indaga il rapporto tra il cervello umano e il fenomeno musicale, aprendo nuovi scenari di conoscenza e di assimilazione del linguaggio
musicale.
Un aspetto davvero significativo della produzione artistica dell’Istituto
è di sicuro quella musica da film che ha visto (7-8 giugno 2010) l’incontro
con il celebre compositore Luis Bacalov, autore di numerose colonne sonore
anche per film di registi italiani quali Pasolini e Fellini. Considerata quasi
come la “cenerentola” della musica seria, la musica da film trova una lucida
e serrata difesa nel contributo di Pier Marco De Santi, Professore di Storia
del cinema italiano e di Museologia del Cinema dell’Università di Pisa e
Direttore artistico di EuropaCinema. C’è, in effetti, una incomunicabilità tra
i compositori di musica da film e la musicologia accademica, ma è un segno
dei tempi che questo steccato debba cadere, prima o poi, se non si vuole
mortificare pericolosamente il respiro creativo della musica che, ieri come
oggi, cerca sempre il suo pubblico. Anche qui il problema formativo è di
primaria importanza. In questo senso, pur nella sua brevità, è interessante
l’intervista, condotta da Sara Matteucci, con Luis Bacalov che dimostra – se
mai ce ne fosse bisogno – quanto un compositore resti sempre tale e anche
quando vuole spaziare oltre i confini della musica tradizionale, affidando
ai film la presenza insostituibile della musica. In “Ospiti in concerto” di
«OPEN» c’è stata, tra l’altro, la presenza di diversa musica da camera e ciò
spiega, quindi, il puntuale e suggestivo contributo di Marco Mangani, Musicologo e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara, dedicato alla tipologia delle forme cicliche nella musica
di Boccherini. Infatti, siamo abituati a considerare la “forma ciclica” come
legata principalmente alla musica dell’Ottocento. Eppure, Boccherini, come
dimostra egregiamente il saggio di Mangani, ne aveva già anticipato l’impiego in diverse delle sue straordinarie composizioni.
Infine, «Codice 602» riserva uno spazio tutto particolare ai nostri allievi
che sono chiamati, ancora una volta, a partecipare allo spirito rinnovato
della nostra rivista con due preziosi contributi. Il primo è la tesi di laurea
di Flaminia Zanelli (relatore Prof. Claudio Valenti) e dedicata a due autori
dell’Est europeo, Alfred Schnittke e Gyorgy Kurtág. Due compositori, forse
non troppo noti al grande pubblico, che si sono dedicati specificatamente
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C. Mezzasalma
al repertorio della Viola con una capacità eccezionale, pur operando nell’allora “cortina di ferro”, di guardare ben oltre i loro confini geografici e quasi in accordo con le migliori avanguardie europee del Novecento. La tesi
di Flaminia Zanelli documenta bene il percorso di questi due compositori
che vivevano la musica nell’ansia di un rinnovamento che percorre tutto
il secolo. Il secondo contributo di Matteo Cammisa, presidente della Consulta del nostro Istituto, ci informa sul convegno tenuto a Padova presso il
Conservatorio “C. Pollini” (2 ottobre 2010) per discutere la situazione dei
conservatori a dieci anni dalla riforma. Il convegno ha visto, infatti, la partecipazione di alcuni rappresentanti degli studenti dei conservatori nazionali
(Trieste, Como, Alessandria, Matera, Palermo, Sassari, Brescia e Lucca) ed
è stato, come documenta l’articolo, un significativo momento di riflessione
fra i rappresentanti delle istituzioni presenti onde mettere a fuoco i problemi ancora irrisolti della riforma, nonché un’occasione di dialogo tra gli
studenti per vedere il futuro del percorso formativo.
Come si vede da questa rapida presentazione, «Codice 602» si presenta
ai nostri occhi e alla nostra attenzione con interessi inediti e di largo respiro
che possono migliorare la nostra percezione della musica, così come la necessità di comunicarla in un’autentica offerta formativa. Anche se la percezione di ogni fenomeno artistico è quasi sempre parziale, la musica per sua
natura è sempre molto di più: una compagine di qualità che, direbbe ancora
Jeanne Hersch, vive nei suoni che passano e non passano.
Carmelo Mezzasalma
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La parola del direttore
Da quando sono diventato Direttore dell’Istituto Musicale “Luigi Boccherini”, nel novembre del 2009, sapevo che sarebbe stato un anno in cui
la nostra scuola avrebbe dovuto affrontare numerose sfide, un anno nel
quale avremmo dovuto saper interpretare, nei tempi e nei modi giusti, il
senso del cambiamento. La fine della fase di sperimentazione e, di conseguenza, la piena attuazione della riforma in senso universitario hanno
sancito, di fatto, la fine dei vecchi ordinamenti. Ai docenti è toccato pertanto il gravoso e impegnativo compito di organizzare il nuovo percorso
sia del segmento universitario sia di quello pre-accademico.
Tutto questo ha significato un intenso lavoro di varie commissioni che
si sono impegnate nella stesura dei nuovi ordinamenti e dei relativi regolamenti sia per i Trienni sia per i corsi pre-universitari. Un lavoro durato
molti mesi, che ha richiesto a noi tutti un impegno continuo e un confronto altrettanto costante sui problemi posti inevitabilmente da un nuovo
modo di concepire la formazione musicale nel nostro paese.
Si è reso necessario di conseguenza promuovere una dimensione europea anche nei contenuti dell’insegnamento, rendere appetibile l’offerta
anche ai paesi terzi, potenziare uno stretto legame tra formazione superiore e ricerca.
Abbiamo ridisegnato, quindi, anche la nostra produzione artistica
modulandola in due grandi Percorsi Musicali, di primavera e di autunno, e denominandola OPEN, un acronimo che significa Ospiti in concerto,
Performance Boccherini, Eventi, Note di arte, cultura e ricerca. La nostra
produzione artistica, attenta in ogni sua espressione ad essere sempre funzionale agli obiettivi didattici che ci eravamo proposti, si è così realizzata
attraverso la professionalità dei docenti interni, le competenze degli studenti più meritevoli e con il contributo di personalità di chiara fama. Abbiamo cercato in questo modo di essere sempre più visibili e collaborativi
in rapporto al nostro territorio, ma anche proiettati sempre di più verso
una dimensione internazionale.
È in questo senso che abbiamo lavorato per rendere concreto il Progetto
Erasmus quale strumento, insieme ad altri (come il Progetto Turandot) per
essere in linea con quella spinta all’internazionalizzazione contenuta nella
“Riforma”, ovvero nella Legge 508 del 1999. Grazie al nostro impegno
si sono così potuti, in breve tempo, realizzare numerosi bilateral-agreement
con molte e importanti Istituzioni musicali europee.
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G.P. Mazzoli
È solo tenendo conto di tutto quanto premesso che si può capire a questo
punto l’importanza della Rivista «Codice 602» e di quanto la sua funzione
sia centrale nella realizzazione dei nostri obiettivi e dei nostri progetti. Per
tutto questo ho ritenuto indispensabile una sua riqualificazione attraverso
una nuova progettazione e nuovi contenuti. Ho istituito un nuovo comitato
di redazione (formato dai prof. Giulio Battelli, Sara Matteucci, Carmelo Mezzasalma e Fabrizio Papi), che in questi mesi ha lavorato per rendere la pubblicazione ancora più aderente alle necessità della nostra programmazione
didattica e artistica. Dal prossimo numero la rivista avrà anche un comitato
scientifico del quale faranno parte Guido Salvetti e Marco Mangani.
Per una immediata percezione esterna della fonte organizzativa e della
contiguità tra i nostri Percorsi OPEN e la Rivista «Codice 602», si è scelto una nuova veste grafica capace di connotarci come un vero centro di
produzione musicale e promozione culturale. Senza voler rinunciare agli
importanti contributi dei docenti interni abbiamo ritenuto necessario in
questa occasione inserire nel nostro progetto il contributo di prestigiosi
studiosi di fama internazionale che personalmente ringrazio per aver condiviso con entusiasmo questo nuovo corso dalla rivista e per aver accettato di trattare argomenti correlati ai temi presenti nei Percorsi Musicali di
OPEN.
In ogni numero troveremo inoltre uno spazio riservato ai nostri allievi:
sarà di volta in volta pubblicata una tesi di laurea, scelta dalla commissione, e lasciato un libero spazio alla Consulta degli studenti, al fine di
rendere sempre più partecipe la gestione dell’Istituto.
In conclusione non posso non ringraziare i colleghi per l‘impegno, la
dedizione, l’entusiasmo e lo spirito di servizio che hanno messo nel realizzare questo nuovo e importante progetto che contribuisce a fare del nostro
Istituto un’eccellenza nell’ambito dell’Alta Formazione Musicale.
Gian Paolo Mazzoli
Direttore dell’ISSM “Luigi Boccherini”
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«Voglio afferrare il destino alla gola»:
alcune considerazioni analitiche e cronologiche
Sonata quasi una fantasia
27 n. 2 (Mondschein-Sonate)
di Ludwig van Beethoven
e sull’Adagio KV 540 di Wolfgang Amadeus Mozart
sulla
op.
di Francesco Scarpellini Pancrazi
Come è noto, le composizioni di Beethoven sono sempre dotate di un
forte aspetto unitario, assicurato dalla presenza di alcuni elementi caratterizzanti che donano una solida e pregnante coerenza al pensiero musicale.
Nella Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 21 – della quale vorrei qui occuparmi, nonostante l’amplissima ed eccellente letteratura ad essa dedicata – 2 gli elementi che caratterizzano ed unificano la composizione sono
principalmente quattro, e di ognuno di essi riportiamo per ora l’esempio
di un’occorrenza significativa:
1. un motivo melodico, che si estende su di una quarta discendente diminuita, (talvolta anche ampliata in giusta), contenuto in un intervallo di
sesta minore (nell’Es. 1 prima in tonica e poi in dominante):
Es.1: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, III mov., batt. 139-140 e 45-46
1
*Nel corso del presente lavoro il Do centrale è indicato con Do3. Negli esempi musicali il numero
romano indica il movimento e i numeri arabi indicano le battute. Le traduzioni italiane, se non
diversamente indicato, sono mie. Dedico questo lavoro alla memoria di mio padre, Pietro Scarpellini Pancrazi. Georg Kinsky – Hans Halm, Das Werk Beethovens. Thematisch-bibliographisches
Verzeichnis seiner sämtlichen vollendeten Kompositionen, G. Henle Verlag, München 1955, pp. 67-68;
Kurt Dorfmüller, Supplement zum Thematisch-bibliographischen Verzeichnis von Kinsky-Halm, in
Kurt Dorfmüller (a cura di), Beiträge zur Beethoven-Bibliographie, G. Henle Verlag, München 1978,
pp. 281-403, alla p. 304.
2
Per un’ampia selezione si veda Egidio Pozzi (a cura di), I classici dell’analisi e la Mondscheinsonate di Ludwig van Beethoven, Bollettino del G.A.T.M., III/1(giugno 1996).
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F. Scarpellini Pancrazi
2. un motivo di figurazione tastieristica costituito dall’arpeggio dell’accordo minore (talvolta maggiore) principalmente in secondo rivolto:
Es.2: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 1 / III mov., batt. 1-2
3. un motivo ritmico, costituito dalla croma puntata e dalla semicroma,
modificato poi, nell’«Allegretto», in un ritmo ternario:3
Es.3: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 1-2 / II mov. Batt. 1-2
4. un motivo metrico, costituito dall’enfasi sull’ultimo tempo della battuta:
Es.4: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, III mov., batt. 2
I primi due di questi elementi hanno già attirato l’attenzione di diversi
3
Con ciò non intendo assolutamente spezzare una lancia a favore dell’assimilazione, nell’«Adagio sostenuto», del ribattuto puntato con la terzina di crome sottostante, e non tanto per
l’esatto posizionamento della semicroma dopo l’ultima croma della terzina – costante nella
prima edizione Cappi (1802), e frequente nell’autografo – ma soprattutto per quanto scrive,
con sicurezza, Carl Czerny (che era stato allievo di Beethoven) nelle sue osservazioni sulla
Sonata op. 27 n.2: «Il sedicesimo va suonato dopo l’ultima nota della terzina sottostante. [Die
Sechzehntel ist der untern letzten Triolen-Note nachzuschlagen.]», in Carl Czerny, Über den
richtigen Vortrag der sämtlichen Beethoven’schen Klavierwerke, a cura di Paul Badura-Skoda, Universal Edition, Wien 1963, p. 51. (Il commentario di Czerny fa parte del IV volume della sua
Klavierschule op. 500, pubblicata da Diabelli a Vienna nel 1842).
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
analisti,4 in parte anche il terzo,5 mentre non mi risulta che il quarto – che
agisce all’interno di ciascuno dei tre movimenti, a livelli diversi, sia nelle
loro parti costituenti, sia nella loro totalità, come anche nella Sonata intera
considerata come un tutto unico – sia stato messo particolarmente in evidenza, cosa che tenterò di fare nella parte finale di questo saggio.6
Comunque, fra i quattro elencati, il primo elemento, motivico, incentrato sulla quarta discendente (e contenuto nell’intervallo di sesta minore), è certamente quello principale, e qui di seguito ne presenterò le più
evidenti occorrenze:
Partirò dal terzo movimento «Presto agitato»:
Es.5: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, III mov., batt. 21-22 / 35-36 / 45-46 / 57-59 / 87-90 / 187-188
4
Cfr. Giorgio Sanguinetti, Motivo e forma nel terzo movimento della Sonata op. 27 n. 2, in Egidio
Pozzi (a cura di), I classici dell’analisi cit., pp. 64-78, alle pp. 77-78, e Marco Renoldi, Aspetti
del contributo di Schenker allo studio delle strutture tonali. Un’analisi del secondo movimento della
Sonata op. 27 n. 2, in Egidio Pozzi (a cura di), I classici dell’analisi cit., pp. 46-63, alle pp. 53-54.
Entrambi fanno riferimento ad un saggio di Ernst Oster del 1947 (Musicology, I/4, pp. 407429), The Fantaisie-Impromptu: A tribute to Beethoven, ristampato in David Beach (a cura di),
Aspects of Schenkerian Theory, Yale University Press, New Haven-London 1983, pp. 189-207.
5
Cfr. Rudolph Reti, The thematic process in music, Greenwood Press Publishers, Westport Conn.
1978, p. 91. (Prima ed.: 1951).
6
Sugli elementi musicali comuni ai tre movimenti della Sonata op. 27 n. 2 si veda comunque
anche Kenneth Drake, The Beethoven Sonatas and the Creative Experience, Indiana University
Press, Bloomington-Indianapolis 1994, p. 115.
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F. Scarpellini Pancrazi
Il motivo di quarta – giusta, nella tonalità maggiore (Re bemolle) – caratterizza anche il secondo movimento «Allegretto»:
Es.6: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, II mov., batt. 1-8
Passando infine al primo movimento «Adagio sostenuto», diversi analisti hanno sottolineato l’importanza strutturale della battuta 27. Heinrich
Schenker vi individua i primi due suoni principali dell’Urlinie, il Mi4 ed il
Re4 della voce superiore:7
Es.7: Heinrich Schenker, Der freie Satz
Ebbene, che cosa troviamo proprio a battuta 27-28, enfatizzata dal culmine del primo «crescendo» del pezzo? La quarta diminuita discendente
Mi4-Re#4-Do#4-Si#3, tanto che Giorgio Sanguinetti arriva a sostenere che
nelle battute 27-28 si trovano «gli eventi strutturalmente più rilevanti della prima metà dell’Adagio sostenuto»:8
Es.8: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 25-28
7
Heinrich Schenker, Free composition (Der freie Satz), trad. inglese di Ernst Oster, 2 voll., Longman, New York-London 1979, vol. II (Supplement: Musical Examples), Fig. 7a. (Ed. orig.: 1935).
Si veda la spiegazione di questo grafico in Egidio Pozzi, La lettura di un grafico schenkeriano: il
primo movimento della Mondscheinsonate, in Egidio Pozzi (a cura di), I classici dell’analisi cit., pp.
29-45, alle pp. 32-33.
8
Giorgio Sanguinetti, Motivo e forma nel terzo movimento della Sonata op. 27 n. 2 cit., p. 78. A conferma dell’importanza della battuta 27, è utile ricordare come Beethoven inizialmente, nella
seconda pagina, poi cassata, dell’autografo, sotto al Mi4 di battuta 27 avesse indicato «questo
culmine [del precedente crescendo] con l’understatement di un piano» (parole di William S.
Newman, Beethoven on Beethoven. Playing His Piano Music His Way, Norton, New York-London
1988, p. 187), piano poi eliminato nella versione definitiva a pagina 4. (Per quanto riguarda
l’autografo e la sua paginazione, si veda più avanti).
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
Peraltro, nell’«Adagio sostenuto» la quarta era stata già introdotta al
basso nelle prime quattro battute, Do#1-Si-1-La-1-(Fa#-1)-Sol#-1, e riproposta
al canto nelle batt. 7-9, La3-Sol#3-Fa#3-(Si3)-Mi3:
Es.9: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 1-4 e 5-9
Faccio anche notare come la quarta discendente al basso si ritrovi anche nelle prime due battute dell’«Allegretto», Fa3-Mib3-Reb3-Do3, e nelle
prime nove battute del «Presto agitato», Do#1-(Si#-1)-Si-1-La-1-Sol#-1:
Es.10: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, II mov., batt. 1-2 / III mov. batt. 1-9
A questo punto, vorrei subito proporre la mia personale ipotesi di una
diretta derivazione di questo elemento musicale caratterizzante dallo
straordinario, dolente, Adagio in Si minore KV 540 di Wolfgang Amadeus
Mozart – datato nel Verzeichnuß aller meiner Werke «19 marzo 1788», con
l’indicazione «Ein Adagio für das klavier allein in H mol»9 – nel quale il
9
«Un Adagio per pianoforte solo in Si minore», [Wolfgang Amadeus] Mozart, Eigenhändiges
Werkverzeichinis Faksimile, a cura di Albi Rosenthal e Alan Tyson, Bärenreiter, Kassel 1991, p.
44 e f. 15v. Secondo Siegbert Rampe, Mozarts Claviermusik. Klangwelt und Auffürhungspraxis,
Bärenreiter, Kassel 1995, p. 323, «Per l’ovvia ipotesi che il KV 540 sia stato progettato come
movimento intermedio di una sonata per pianoforte non esistono spunti musicali concreti: come l’Andante KV 616 e l’Adagio KV 356 anche il presente movimento è una composizione, superiore, a sé stante e non necessita completamento alcuno. [Für die naheliegende
Hypothese, KV 540 sei als Mittelsatz einer Claviersonate projektiert worden, gibt es keinerlei konkrete musikalische Anhaltspunkte: wie das Andante KV 616 und das Adagio KV 356
[617a] hat auch der vorliegende Satz bestand als souveräne Einzelkomposition und bedarf
keiner Ergänzung.]». Secondo Christian Friedrich Daniel Schubart, Ideen zu einer Aesthetik
der Tonkunst, J.W. Degen, Wien 1806, pp. 379-380, (ma i contenuti risalgono al 1784/85, cfr. la
ristampa anastatica del testo di Schubart della Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New
York 1990, alla p. VI), la tonalità di Si minore «è per così dire la tonalità della pazienza, della
calma attesa del proprio destino, e della rassegnazione alla volontà divina. Per questo il suo
lamento è così dolce, senza mai cadere in oltraggiosi brontolii o piagnucolii. La diteggiatura
di questa tonalità è in tutti gli strumenti piuttosto difficile; per questo motivo si trovano così
pochi pezzi che siano scritti in modo espressivo in essa. [Ist gleichsam der Ton der Geduld,
der stillen Erwartung seines Schicksals, und der Ergebung in die göttliche Fügung. Darum ist
seine Klage so sanft, ohne jemahls in beleidigendes Murren, oder Wimmern auszubrechen.
Die Applicatur dieses Tons ist in allen Instrumenten ziemlich schwer; deshalb findet man
auch so wenige Stücke, welche ausdrücklich in selbigen gesetzt sind.]», cit. anche in Siegbert
Rampe, Mozarts Claviermusik cit., p. 323.
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F. Scarpellini Pancrazi
motivo melodico della quarta diminuita discendente (poi anche ampliata
in giusta e preceduta da una sesta minore ascendente),10 gioca egualmente
un ruolo fondamentale. Se consideriamo le prime due battute dell’Adagio
di Mozart,11 noteremo anche che lo spazio aperto dal salto ascendente di
sesta minore è riempito da due quarte discendenti incatenate, la prima
diminuita, Re4-Do#4-Si3-La#3, e la seconda giusta, Si3-La#3-Sol3-Fa#3 (il Sol3
e il Fa#3 si trovano, a battuta 2, nella parte superiore della mano sinistra,
tetracordo poi ribadito esplicitamente nella mano destra a battuta 3):12
Es.11: Mozart, Adagio KV 540, batt. 1-3
Vorrei anche ricordare come l’Adagio di Mozart, pubblicato per la prima volta da Hoffmeister a Vienna nel 1788, fosse stato poi ristampato da
diversi editori proprio negli anni immediatamente precedenti la composizione della Sonata op. 27 n. 2: da Artaria a Vienna nel 1794, da André a Offenbach nel 1795 o ’96, da Simrock a Bonn nel 1798, da Breitkopf & Härtel
a Lipsia nel 1799 e da Mollo a Vienna nel 1801.13
È inevitabile che mi si faccia adesso la giusta obiezione che motivi melodici basati su di una quarta discendente si possono trovare in moltissime
10 Secondo Johann Philipp Kirnberger, Die Kunst des Reinen Satzes in der Musik, 2 voll., BerlinKönigsberg 1776-79, l’affetto del motivo della quarta discendente è «sehr niedergeschlagen
[molto afflitto]» e quello della sesta minore ascendente «wehmütig, bittend [triste, implorante]», cit. in Siegbert Rampe, Mozarts Claviermusik cit., p. 323. Beethoven sicuramente conosceva
l’opera di Kirnberger, perché nell’inventario dei suoi beni (Auktionskatalog) redatto dopo la
morte, al n. 250 figurano sei volumi del teorico tedesco (i cui lavori principali sono appunto
contenuti in sei volumi), si veda Elliot Forbes (a cura di), Thayer’s Life of Beethoven, Princeton
University Press, Princeton 1970, p. 1070. (Prima ed.: 1964).
11 Il testo musicale delle prime tre battute dell’Adagio KV 540 è ripreso da Wolfgang Amadeus
Mozart, Klavierstücke, a cura di István Máriássy, Könemann Music, Budapest 1994, pp. 103107.
12 Nell’Adagio mozartiano, strutturato in forma-sonata, il motivo di quarta discendente va poi a
costituire il nocciolo del secondo tema, alle batt. 15-16 e 45-46.
13 Ludwig Ritter von Köchel, Chronologisch-thematisches Verzeichnis sämtlicher Tonwerke Wolfgang
Amadé Mozarts, Breitkopf & Härtel, Wiesbaden 1983, pp. 612-613. Cfr. anche Gertraut Haberkamp, Die Erstdrucke der Werke von Wolfgang Amadeus Mozart: Bibliographie, Hans Schneider,
Tutzing 1986, p. 305. Purtroppo non sono riuscito a sapere in quale mese del 1801 sia stata
pubblicata l’edizione Mollo (numero di lastra 98).
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altre composizioni: perché mai pensare proprio all’Adagio in Si minore di
Mozart?
A ciò rispondo prima di tutto col ribadire che siamo di fronte alla corrispondenza di ben due elementi concomitanti (il motivo di quarta all’interno dell’intervallo di sesta minore), ed in secondo luogo presentando
due indizi.
In uno dei fogli di schizzi (SV 113)14 del terzo movimento «Presto agitato» della Sonata op. 27 n. 2, si trovano anche otto battute in 4/415 – proprio
in tonalità di Si minore – il cui incipit ricorda in maniera sorprendente
(nonostante l’assenza dell’accordo di settima diminuita) il motivo iniziale (sesta minore ascendente e quarta diminuita discendente) dell’Adagio
mozartiano:
Es.12: Beethoven, foglio di schizzi SV 113, f. 1r, righi 9/10-11/12
L’abbozzo, chiaramente, non è una copia dell’inizio dell’Adagio KV
540, ma potrebbe provare come Beethoven stesse riflettendo sulle possibilità insite nel materiale mozartiano.
Prima di passare al secondo indizio, vorrei prevenire un’altra obiezione che mi potrebbe essere mossa; l’incipit mozartiano è sì caratterizzato
dalla quarta diminuita discendente, ma anche e in egual misura dalla sesta minore ascendente che la precede: si trova una qualche traccia significativa di questa sesta nella Sonata op. 27 n. 2? Intanto abbiamo già detto
che nella Sonata il motivo di quarta è quasi sempre contenuto in un intervallo di sesta minore, ma poi – per quanto ciò possa sembrare una forzatura – la sesta minore ascendente viene esplicitamente enunciata nel primo
arpeggio di crome Sol#2-Do#3-Mi3 della mano destra nella prima battuta
dell’«Adagio sostenuto» – arpeggio che si presenta subito come uno degli
14 Conservato alla Beethoven-Haus Bonn, si veda Hans Schmidt, Verzeichnis der Schizzen Beethovens in Beethoven Jahrbuch VI (1965/68), Beethovenhaus Bonn, Bonn 1969, p. 57, e Michael Ladenburger, Die Quellen zu Beethovens Klaviersonate cis-Moll op. 27 Nr. 2, alla p. 40 del Kommentar
(pp. 39-48) nel facsimile dell’autografo e dei fogli di schizzi della Sonata op. 27 n. 2, pubblicato
dalla Beethoven-Haus, di cui alla nota n. 19 del presente lavoro. L’abbozzo in questione si trova nel foglio 1 recto di SV 113, nei righi 9/10 e 11/12. La trascrizione di Michael Ladenburger,
da noi riprodotta nell’Es.12, si trova a p. 27 della Skizzentranskription (pp. 25-36).
15 Battute che Michael Ladenburger (Kommentar p. 40, vedi nota precedente) ritiene non correlate («unabhängige») al lavoro sul finale della Sonata.
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elementi caratterizzanti di tutta la Sonata, e nel quale la sesta minore ha
una valenza espressiva fortissima:16
Es.13: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), I mov., batt. 1-5
Inoltre, in una lettura schenkeriana, l’arpeggio Sol#-Do#-Mi, anche ad
un livello più profondo, e quindi strutturalmente più importante (primo
livello medio), viene enunciato nelle battute 5, 23 e 2717 (si veda il grafico
nell’Es. 7).
Ricordiamo infine come l’arpeggio di sesta minore ascendente Sol#Do#-Mi vada poi a costituire l’ossatura degli arpeggi di semicrome all’inizio (ed in altri luoghi) del terzo movimento «Presto agitato», e raggiunga
il suo climax nelle battute 171-176, 181 e 183 (prima nota della mano destra
di ciascuna battuta) con ripetizione enfatica, in direzione discendente a
battuta 183:18
Es.14: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, III mov., batt. 171, 181, 183
Il secondo indizio riguarda il genere musicale a cui appartengono le
due composizioni: perché sto accostando una sonata in tre movimenti ad
un adagio a sé stante? Differisco per un poco la risposta, perché a questo
riguardo, lo studio della genesi della Sonata op. 27 n. 2 ci potrebbe riservare alcune sorprese.
16 Ciò fa anche comprendere come le note superiori delle terzine di crome vadano a costituire
una voce importante, sebbene discreta, nel contrappunto del movimento.
17 Egidio Pozzi, La lettura di un grafico schenkeriano cit., pp. 32-33.
18 Cfr. anche Giorgio Sanguinetti, Motivo e forma nel terzo movimento della Sonata op. 27 n. 2 cit.,
p. 77. Secondo Ernst Oster (The Fantaisie-Impromptu: A Tribute to Beethoven cit.), la FantasiaImprovviso op. 66 (postuma, composta nel 1834 o 1835) di Chopin, sarebbe stata fortemente
ispirata dalla Sonata op. 27 n. 2 di Beethoven (in particolare dal terzo movimento), e costruita
proprio sul motivo dell’arpeggio Sol#-Do#-Mi, sia nella direzione principale ascendente, sia
(nella coda) in direzione discendente. Aggiungo la considerazione che nella Fantasia-Improvviso di Chopin il motivo della quarta discendente è sì presente (ad es. celato nelle semicrome
delle batt. 6-12), ma non sembra avere l’importanza assegnatagli da Beethoven nella Sonata
op. 27 n. 2.
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L’«Adagio sostenuto» come pezzo a sé stante
Nell’autografo della Sonata op. 27 n. 2 – custodito alla Beethoven-Haus
a Bonn– 19 dopo l’ultima battuta (69) del primo movimento «Adagio sostenuto», in basso a destra sono chiaramente visibili due parole – «il fine»
– scritte da Beethoven con lo stesso inchiostro e lo stesso tratto (non molto
sottile) utilizzato per il testo musicale e poi cancellate con un reticolo di
tratti più sottili tracciati con un inchiostro di colore diverso e nettamente
più chiaro; accanto, con quest’ultimo inchiostro, Beethoven ha aggiunto
«Attacca subito / il seguente».20
Es. 15: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, autografo, I mov., batt. 68-69
La locuzione ‘il fine’ (oppure ‘fine’), normalmente, non viene utilizzata all’interno di un lavoro in più movimenti. In Beethoven, sia negli
autografi, sia nelle prime edizioni si trova (talvolta) al termine dell’intera
composizione, e cioè alla fine del suo ultimo movimento.21 Oppure, come
19 Con la segnatura BH 60. L’autografo è costituito da 16 fogli (32 pagine) in formato orizzontale
(mm. 227x308), con 8 pentagrammi per pagina. Nel 2003 la Beethoven-Haus (in cooperazione
con la Musashino Ongaku Daigaku) ha pubblicato un facsimile a colori dell’autografo e dei
cinque fogli di schizzi esistenti (SV 113, SV deest, SV 314, SV 333, SV 309): Ludwig van Beethoven, Klaviersonate cis-Moll op. 27 Nr. 2 “Mondschein-Sonate”,Teil I – Faksimile des Autographs
BH 60 im Beethoven-Haus sowie der erhaltenen Skizzenblätter, Teil II – Faksimile des Erstdrucks mit
Skizzentranskription und einem Kommentar von Michael Ladenburger, Verlag Beethoven-Haus,
Bonn 2003, (Band 16 della Reihe III “Ausgewählte Handschriften in Faksimile-Ausgaben”, a
cura di Sieghard Brandenburg e Michael Ladenburger). Precedentemente, nel 1921 (in bianco
e nero) e nel 1970 (a colori), erano state pubblicate due altre edizioni in facsimile della Sonata
op. 27 n. 2: Ludwig van Beethoven, Sonate Op. 27 Nr. 2 (Die sogennante Mondscheinsonate). Mit
drei Skizzenblättern des Meisters. Herausgegeben in Faksimile-Reproduktion, a cura di Heinrich
Schenker, Universal Edition, Wien 1921; Ludwig van Beethoven, Faksimile-Ausgabe des Autographs und der Original-Ausgabe der Sonata quasi una Fantasia “Mondschein” op. 27 No. 2, a cura
di Keisei Sakka, Ongaku no tomo edition, Tokyo 1970.
20 Questo inchiostro è diverso da quello utilizzato per la stesura dell’«Allegretto» che segue
l’«Adagio sostenuto». Il colore si avvicina semmai a quello utilizzato per le indicazioni di
pedale nel «Presto agitato» e ad un’aggiunta, a battuta 53 dell’«Adagio sostenuto».
21 In questa posizione si trova, ad esempio, nell’autografo della Sonata per pianoforte op. 28
(1801, Ludwig van Beethoven, Piano Sonata op. 28. Facsimile of the Autograph, the Sketches, and
the First Edition with Transcription and Commentary by Martha Frolich, Beethoven-Haus, Bonn
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nel caso della prima edizione delle tre Sonate per pianoforte op. 10 e delle
due op. 14, si trova solamente al termine dell’ultimo movimento dell’ultima sonata della raccolta.22 Nelle prime edizioni delle composizioni cameristiche si può trovare al termine delle singole parti (come ad esempio nel
Quintetto per archi op. 29, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1802) o al termine
dell’ultima parte (Quintetto per archi op. 4, Artaria, Wien 1796).23 Le due
uniche eccezioni a mia conoscenza, il «Vivace alla Marcia» della Sonata op.
101 (movimento con un ‘da capo al fine’) e la quarta Bagatella dell’op. 126
(in forma A-B-A, con ulteriore ripetizione della sezione B senza un ritorno
finale di A), mi sembrano confermare la regola.24
Poiché non sembra possibile che l’«Adagio sostenuto» sia stato progettato come parte A di una forma con da capo,25 possiamo invece ritenere
che esso sia stato inizialmente pensato come pezzo a sé stante, e solo in un
secondo momento Beethoven lo abbia tramutato nel primo dei tre movimenti della Sonata, componendo l’«Allegretto» e il «Presto agitato».
1996, p. 55); nell’autografo della Sonata per pianoforte e violino op. 96 (1812, Ludwig van
Beethoven, Sonate für Klavier und Violine G-Dur Opus 96. Faksimile nach dem im eigentum der
Pierpoint Morgan Library New York befindlichen Autograph, a cura di Martin Staehelin, G. Henle
Verlag, München 1977, p. 44), o nella prima edizione della Sonata per pianoforte op. 13 (Louis
van Beethoven, Grande Sonate pathetique Pour le Clavecin ou Piano-Forte [...] Oeuvre 13, Hoffmeister, Vienna [1799], p. 19, facsimile in Ludwig van Beethoven, The 32 Piano Sonatas, a cura
di Brian Jeffery, 5 voll., Tecla Editions, London 1989, vol. I).
22 Louis van Beethoven, Trois Sonates pour le Clavecin ou Piano Forte [...] Oeuvre 10, Joseph Eder,
Vienna [1798, numero di lastra: 23], p. 45, e Louis van Beethoven, Deux Sonates pour le Piano-Forte
[...] Oeuvre 14, T. Mollo & Comp., Vienna [1799, numero di lastra: 125], p. 26, facsimile in Ludwig
van Beethoven, The 32 Piano Sonatas, a cura di Brian Jeffery, 5 voll., Tecla Editions, London 1989,
vol. I.
23 Nel caso di raccolte, come ad esempio quelle delle Sonate per pianoforte e violoncello op. 5
(Artaria, Vienna 1797) o quelle dei Trii per archi op. 9 (Jean Traeg, Vienna 1798), la locuzione
‘il fine’ si trova al termine delle parti dell’ultimo brano della raccolta. Per la consultazione
delle prime edizioni delle opp. 4, 5, 9 e 29, si veda il sito della Beethoven-Haus (www.beethoven-haus-bonn.de, consultato nel settembre 2010), in “Digitales Archiv”.
24 Il secondo movimento della Sonata op. 101 (1815-17) è una marcia con trio, al termine della
marcia è scritto «il Fine», e al termine del trio «Da Capo al Fine. Senza repetizione». (Ludwig
van Beethoven, Klaviersonate A-Dur Opus 101. Faksimile nach dem Autograph im besitz des Beethoven-Hauses Bonn, a cura di Sieghard Brandenburg, G. Henle Verlag, München 1998, [p. 10].) Al
termine della Bagatella op. 126 n. 4 (1824, che ha una struttura descrivibile con A in Si minore
– B in Si maggiore – A – B, dove la parte B ha in effetti il carattere di un trio), Beethoven ha
certamente voluto ribadire che dopo la seconda volta della parte B non si deve ripetere ancora
la parte A. Nell’autografo (fol. 11v) la parola ‘fine’ è addirittura scritta due volte. Invece, nella
prima edizione (B. Schott’s Söhne, 1825) la locuzione ‘il fine’ non appare. (Ludwig van Beethoven, Sechs Bagatellen für Klavier Op. 126. Faksimile der Handschriften und der Originalausgabe mit
einem Kommentar herausgegeben von Sieghard Brandenburg, 2 voll., Beethoven-Haus, Bonn 1984,
vol. I, p. 28 e vol. II p. 13).
25 A meno di voler ipotizzare che Beethoven avesse in mente un parallelo con la Sonata quasi una
fantasia op. 27 n. 1, che inizia con un «Andante» alla breve, seguito da un «Allegro» in 6/8 e
dalla ripetizione (abbreviata) dell’«Andante».
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Questa ipotesi trova anche una sorta di conferma nella ricognizione
delle filigrane e della foliazione del manoscritto: prima di tutto, la filigrana della carta utilizzata per l’«Adagio sostenuto» (JTW Paper-Type 6,
stampo B)26 è diversa da quella della carta utilizzata per il terzo movimento «Presto agitato» (JTW Paper-Type 4, stampo B e A),27 e nei due tipi di
carta è anche diversa la disposizione dei pentagrammi.28
Es.16: filigrane JTW Paper-Type 6 e JTW Paper-Type 4
In secondo luogo, se prendiamo in considerazione la distribuzione
della filigrana nei quadranti, le sette pagine utilizzate per il primo movimento (di cui la prima – con le batt. 1-13 – mancante, e la terza – con una
prima versione delle batt. 27-36 – cassata), potrebbero benissimo essere
26 Lettere maiuscole EGA nel primo quadrante, stella marina con sette bracci nel secondo e tre
lune crescenti divise orizzontalmente a metà tra terzo e quarto quadrante. La sigla ‘JTW’
sta ad indicare Douglas Johnson – Alan Tyson – Robert Winter, The Beethoven Sketchbooks.
History. Reconstruction. Inventory, Oxford University Press, Oxford 1985, dove la filigrana del
Paper-Type 6 è riprodotta a p. 545.
27 Lettere maiuscole GFA nel primo quadrante, aquila con la corona nel secondo quadrante e
tre lune crescenti divise orizzontalmente a metà tra terzo e quarto quadrante. La filigrana
del Paper-Type 4 è riprodotta in JTW a p. 545. Per un’altra riproduzione delle due filigrane, Paper-Type 4 e Paper-Type 6, si veda anche Michael Ladenburger, Kommentar, in Ludwig
van Beethoven, Klaviersonate cis-Moll op. 27 Nr. 2 “Mondschein-Sonate”, II – Erstdruck, Skizzentranskription, Kommentar, Verlag Beethoven-Haus, Bonn 2003, p. 65.
28 Nei primi cinque fogli gli otto pentagrammi per pagina sono disposti, appositamente per la
scrittura pianistica, in coppie, con minor spazio tra i membri della coppia che non fra una
coppia e l’altra, mentre nei restanti undici fogli gli otto pentagrammi sono grosso modo equidistanti.
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appartenute a due bifogli, provenienti da un unico foglio grande, ed inseriti l’uno nell’altro.29 Ecco uno schema della foliazione e delle filigrane
dell’autografo della Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 2:30
Tabella 1: foliazione, filigrane e quadranti dell’autografo della Sonata op. 27 n. 2
NB1: le battute seguite da # contengono materiale musicale poi scartato
NB2: i fogli indicati con ‘0’ e ‘00’ sono mancanti
NB3: la p. 3 (foglio 2 recto) è vuota perché il foglio 2 è stato cucito da Beethoven sul
margine sinistro del verso del foglio 1 per coprire le battute 27#-36#.
NB4: la p. 28 (foglio 14 verso) è vuota perché il foglio 14 è stato cucito da Beethoven sul margine
superiore del recto del foglio 15 per coprire le batt. 161#-166#
29 Ad eccezione del foglio 2, singolo e cucito su pagina 2 del foglio 1, con la versione riscritta
delle battute 27-37 sul verso; si veda lo schema della foliazione più avanti.
30 Il manoscritto è stato da me consultato personalmente alla Beethoven-Haus nel 1995, in presenza dell’allora Direttore, Dr. Sieghard Brandenburg, che molto gentilmente mi guidò nella
ricognizione della foliazione. Tuttavia nel commentario a cura di Michael Ladenburger del facsimile della Sonata op. 27 n. 2, facsimile pubblicato nel 2003 dalla Verlag Beethoven-Haus nella
Reihe III (a cura di Sieghard Brandenburg e Michael Ladenburger), viene data una diversa
foliazione, con i primi cinque fogli tutti considerati come singoli, Ludwig van Beethoven, Klaviersonate cis-Moll op. 27 Nr.2 ... Faksimile cit., vol. II, p. 65.
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
Quando Beethoven decise di dare un seguito all’«Adagio sostenuto»,
per la stesura dell’«Allegretto» si trovò probabilmente ad utilizzare dapprima la pagina 8 (foglio 4v) rimasta vuota, ed ad aggiungere poi il foglio
5, che sembra essere un foglio singolo, con la medesima filigrana dei precedenti ma di stampo A invece che B (e quindi proveniente da un altro foglio grande),31 ed anche diverso per minor spessore, riscontrabile al tatto.
Le filigrane, inoltre, della carta utilizzata per l’«Adagio sostenuto» e della
carta utilizzata per il «Presto agitato», sembrano indicare una data di composizione del primo anteriore rispetto al secondo, e anche questo potrebbe
confermare l’ipotesi dell’«Adagio sostenuto» come pezzo a sé stante.
Vediamo, innanzitutto, che notizie si hanno sulla data di composizione
della Sonata op. 27 n. 2: le due Sonate quasi una fantasia op. 27 n. 1 e n. 2
furono pubblicate da Giovanni Cappi a Vienna nel marzo 1802,32 ma non
abbiamo indizi provenienti da Beethoven sulla loro data di composizione.
L’autografo della Sonata op. 27 n. 1 non ci è pervenuto, e se l’autografo
della Sonata op 27 n. 2, di cui ci stiamo occupando, fosse stato da lui datato, una data si sarebbe verosimilmente potuta trovare nel primo33 o, meno
probabilmente, nell’ultimo foglio del manoscritto, ma entrambi, come abbiamo visto, sono mancanti,34 e non ci sono d’altra parte indizi nelle lettere
del periodo. Dall’analisi dei quaderni di schizzi, e dalla datazione delle
altre composizioni coeve si ritiene oggi che Beethoven abbia lavorato alle
due Sonate op. 27 nel periodo coperto dal Quaderno di schizzi “Sauer”,
periodo compreso tra l’aprile e il dicembre 1801.35
31 Stampo A e stampo B si riferiscono ai due stampi utilizzati alternativamente per una stessa
filigrana, che in entrambi i nostri casi sono perfettamente speculari. Quando i due stampi sono
speculari i quadranti del foglio grande si numerano convenzionalmente, in senso orario, partendo da quello in basso a sinistra, da 1 a 4 per lo stampo A e da 4 a 1 per lo stampo B. Nel
formato orizzontale, i due bifogli provenienti da uno stesso foglio grande saranno costituiti dai
quadranti 1a-4a e 2a-3a per lo stampo A e 4b-1b e 3b-2b per lo stampo B. Per questo argomento
si rimanda al secondo capitolo di Douglas Johnson – Alan Tyson – Robert Winter, The Beethoven
Sketchbooks cit., pp. 44-67.
32 Numeri di lastra 878 e 879; annuncio nella Wiener Zeitung del 3 marzo 1802 (assieme alla
Sonata op. 26), cfr. Georg Kinsky – Hans Halm, Das Werk Beethovens cit., p. 66.
33 Come nell’autografo della Sonata op. 28 – si veda Ludwig van Beethoven, Piano Sonata op. 28. Facsimile of the Autograph cit., p. 5 – e nell’autografo del Quintetto per archi op. 29, si veda Georg Kinsky
– Hans Halm, Das Werk Beethovens cit., p. 71.
34 Un possibile motivo della mancanza del primo e dell’ultimo foglio potrebbe risiedere nell’uso
di consegnare al copista un manoscritto incompleto per evitare che questi fosse tentato di
vendere la composizione per proprio conto. Sappiamo che Beethoven utilizzò questo accorgimento per il Gloria della Missa solemnis, e se ne scusò col Principe Nikolaus Galitzin nella
lettera del 13 dicembre 1823; si veda Ludwig van Beethoven, Epistolario, a cura di Sieghard
Brandenburg, trad. it. di Luigi Della Croce, 6 voll., Accademia Nazionale di Santa Cecilia –
Skira, Milano 1999-2007, vol. V, lettera n. 1757, pp. 277-278, p. 277. (Ed. orig. tedesca del V
volume: 1997).
35 Timothy Jones, Beethoven: The ‘Moonlight’ and other Sonatas, Op. 27 and Op. 31, Cambridge
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Il fatto, tuttavia, che la filigrana dell’autografo dell’«Adagio sostenuto»
sia del Paper-Type 6 – presente anche nell’autografo della Sonata op. 26,36 negli schizzi del «Presto agitato» della nostra Sonata op. 27 n. 2, negli schizzi e
nell’autografo della Sonata op. 2837 e negli schizzi del Quintetto op. 29 – mentre l’autografo del «Presto agitato» sia del Paper-Type 4 – una filigrana non
presente negli schizzi e autografi beethoveniani del 1800-1801 (esclusi due
bifogli isolati nell’autografo del finale del Quintetto op. 29),38 ma presente
in lavori del periodo immediatamente seguente (come ad esempio nell’au-
University Press, 1999, pp. 18-20. Jones ipotizza anche, con molta cautela, che il periodo di
composizione delle Sonate op. 27 si collochi tra la tarda primavera/prima estate e il primo
autunno del 1801, Ibidem, p. 19. Klaus Kopfinger nella MGG (esattamente come nel catalogo
Kinsky-Halm) dà la datazione 1800/1801 per la Sonata op. 27 n. 1 e 1801 per la Sonata op. 27
n. 2, si veda Klaus Kropfinger, Beethoven, Ludwig van, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der Musik, begründet von Friedrich Blume. Zweite, neubearbeitete
Ausgabe, a cura di Ludwig Finscher, 27 voll., Bärenreiter-Metzler, Kassel-Stuttgart, 1994-2007,
Personenteil, vol. II, coll. 667-944, alle coll. 841-842. La data 1801 per entrambe le Sonate op.
27 si trova in Joseph Kerman – Alan Tyson et alii, Beethoven, Ludwig van, in The New Grove
Dictionary of Music and Musicians, seconda edizione, a cura di Stanley Sadie, 29 voll., Londra,
Macmillan 2001, vol. III, pp. 73-140, alla p. 120. Nel Beethoven Compendium si trova la data
1801 per entrambe le Sonate op. 27: Anne-Louise Coldicott, Piano Music, in Barry Cooper et
alii, The Beethoven Compendium, a cura di Barry Cooper, Thames and Hudson, London 1996,
pp. 239-249, alla p. 245. (Prima ed.: 1991). Barry Cooper nella sua edizione delle Sonate per
pianoforte di Beethoven dà la data 1801 (probabilmente maggio-luglio) per la Sonata op. 27
n. 1, e la data 1801 per la Sonata op. 27 n. 2, in Ludwig van Beethoven, The 35 Piano Sonatas,
Edited by Barry Cooper, Fingering by David Ward, 3 voll., The Associated Board of the Royal
Schools of Music, London 2007, vol. II, pp. 69 e 86 e pp. 16 e 20 dei «Commentaries». Nel sito
della Beethoven-Haus Bonn (www.beethoven-haus-bonn.de, consultato nel settembre 2010),
in “Digitales Archiv”, le due Sonate op. 27 vengono datate «inizio anno fino a non oltre l’autunno 1801 [Fruhjahr bis spätestens Herbst 1801]».
36 Ringrazio vivamente il Dr. Marian Zwiercan, Vicedirettore della Biblioteka Jagiellońska, e la
compianta Dr. Agnieszka Mietelska, Direttrice della Sezione musicale, che nel 1996 gentilmente mi comunicarono per lettera le informazioni relative alla filigrana e alla foliazione dell’autografo della Sonata op. 26.
37 Inoltre, la disposizione dei pentagrammi (ovvero le misure delle distanze, la cosiddetta ‘rastrologia’) nei fogli che utilizzano il Paper-Type 6 della Sonata op. 26, dell’«Adagio sostenuto»
e della Sonata op. 28, è praticamente identica.
38 L’autografo del Quintetto op. 29 potrebbe costituire un caso di studio interessante: in trentanove dei quarantatre fogli di cui è costituito si trova la filigrana del Paper-Type 9 (utilizzata
poi nel Quaderno di schizzi “Kessler” datato inverno 1801/1802-estate 1802), ed in soli quattro fogli (due bifogli, uno inserito nell’altro) la filigrana del Paper-Type 4, in corrispondenza
delle prime otto pagine del finale «Presto» (si veda Ludwig van Beethoven, Streichquintette.
Kritischer Bericht, a cura di Sabine Kurth, G. Henle Verlag, München 2001, (Beethoven Werke,
Abteilung VI/Band 2), pp. 31-34 per la descrizione delle fonti e pp. 66-69 per la foliazione e
per la riproduzione della filigrana, e Sabine Kurth, Beethovens Streichquintette, Fink, München
1996, pp. 19-22). Purtroppo non sono riuscito a consultare il manoscritto (che si trova a Cracovia nella Biblioteka Jagiellońska e del quale non è stato ancora pubblicato un facsimile) per
vedere se vi siano indizi che possano spiegare l’uso di una carta diversa – che è poi quella
utilizzata anche per il terzo movimento della Sonata op. 27 n. 2 – per i due bifogli con la parte
iniziale del «Presto» finale.
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
tografo della Sonata per pianoforte e violino op. 30 n. 2,39 gli schizzi della
quale si trovano nel Quaderno “Kessler”, datato inverno 1801/1802-estate
1802,40 e nelle prime otto pagine del Quaderno di schizzi “Wielhorsky”, utilizzato nella seconda metà del 1802) 41 – potrebbe corroborare l’ipotesi che
Beethoven abbia iniziato la redazione dell’autografo del «Presto agitato» in
un secondo momento, più vicino al 1802, quando l’autografo dell’«Adagio
sostenuto» era già terminato da un certo tempo.42
Per maggior chiarezza si veda la seguente tabella, nella quale sono riportati i diversi Paper-Types di schizzi e autografi di alcune opere beethoveniane composte tra l’inverno 1800/1801 e l’inverno 1801/1802:43
Opera
Sonata op. 26
Die Geschöpfe des Prometheus
op. 43 (gennaio-marzo 1801)
Sonata op. 27 n. 1
Sonata op 27 n. 2 (I mov.)
Sonata op 27 n. 2 (II mov.)
Sonata op 27 n. 2 (III mov.)
Sonata op. 28
Quintetto op. 29
Schizzi (quaderno, PT)
“Landsberg 7”
Paper-Type 3, 7, 8
“Landsberg 7” (terminato in
“Sauer”?)
Paper-Type 2, 3, 7, 8, 11, 13, 14
“Landsberg 7”
Paper-Type 7, 8
Non pervenuti “Sauer” ?
Non pervenuti
“Sauer” ?
“Sauer” Paper-Type 6
“Sauer”
Paper-Type 6
“Sauer”
Paper-Type 6
Autografo
Paper-Type 6
Non pervenuto
Non pervenuto
Paper-Type 6
Paper-Type 6
Paper-Type 4
Paper-Type 6 + ?43
Paper-Type 9 (+ due bifogli
Paper-Type 4)
Tabella 2
In base ai dati della tabella provo ad ipotizzare il seguente ordine cronologico di composizione (le parentesi quadre indicano fonti non pervenute):
Autunno-inverno 1800
Schizzi della Sonata op. 26 (“Landsberg 7”, Paper-Type 3, 7, 8).
39 Hans Schmidt, Die Beethovenhandschriften des Beethovenhauses in Bonn, in Beethoven-Jahrbuch,
VII (1969/70), Beethovenhaus, Bonn 1971, p. 225.
40 Douglas Johnson – Alan Tyson – Robert Winter, The Beethoven Sketchbooks cit., p. 125.
41 Ibidem, p. 133. Il Paper-Type 4 si trova anche nel primo bifolio del Quaderno di schizzi “del
1807-08”, Ibidem, p. 162.
42 Non va tuttavia taciuto come anche due bifogli del Paper-Type 6 (quello utilizzato per l’«Adagio sostenuto») si trovino, isolati, nel Quaderno di schizzi “del 1807-1808”: Douglas Johnson
– Alan Tyson – Robert Winter, The Beethoven Sketchbooks cit., p. 162.
43 Le prime quattro pagine dell’autografo della Sonata op. 28 hanno una filigrana non presente
nella lista di Johnson-Tyson-Winter, si veda Ludwig van Beethoven, Piano Sonata op. 28. Fac����
simile of the Autograph cit., p. 129.
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Inverno 1801
Schizzi di Die Geschöpfe des Prometheus op. 43 (“Landsberg 7”, Paper-Type
2, 3, 7, 8, 11, 13, 14), iniziati nel gennaio 1801.
Schizzi della Sonata op. 26 e della Sonata 27 n. 1 (“Landsberg 7”, PaperType 7, 8).
Schizzi di Die Geschöpfe des Prometheus op. 43 (“Landsberg 7” e “Sauer”?),
terminati nel marzo 1801.
[Autografo di Die Geschöpfe des Prometheus op. 43]. Prima rappresentazione: 28 marzo 1801.
Primavera-estate 1801
Autografo della Sonata op. 26 (Paper-Type 6).
[Autografo della Sonata op. 27 n. 1].
[Schizzi dell’«Adagio sostenuto»] (“Sauer”?).
Autografo dell’«Adagio sostenuto» (Paper-Type 6).
Estate-autunno 1801
[Schizzi dell’«Allegretto»] (“Sauer”?).
Schizzi del «Presto agitato» e della Sonata op. 28 (“Sauer”, Paper-Type 6).
Schizzi del Quintetto op. 29 (“Sauer”, Paper-Type 6).
Autografo della Sonata op. 28 (Paper-Type 6 + ?).
Autografo del Quintetto op. 29? (In possesso del Conte Moritz von Fries
dall’ottobre 1801).44
Autunno-inverno 1801
Autografo dell’«Allegretto»? (Paper-Type 6, si veda la discussione sopra).
Autografo del «Presto agitato» (Paper-Type 4).
1802
Prima edizione della Sonata op. 26, annunciata il 3 marzo 1802.
Prima edizione delle Sonate op. 27, annunciata il 3 marzo 1802.
Prima edizione della Sonata op. 28, annunciata il 14 agosto 1802.
All’inizio dell’estate del 1801 – periodo nel quale grosso modo abbiamo
collocato la redazione dell’autografo dell’«Adagio sostenuto» – Beethoven
scrisse le due lettere che contengono la prima confessione, ad amici, della
propria tragedia, il progredire inesorabile della sordità: a Franz Gerhard
Wegeler il 29 giugno45 e a Karl Amenda il 1 luglio.46
44 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 110, pp. 227-231, nota 5 a p. 231.
45 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 65, pp. 175-181.
46 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 67, pp. 182-184.
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
Nella prima scrive fra l’altro:
Purtroppo un demone invidioso, la mia cattiva salute, mi ha messo i bastoni fra
le ruote; voglio dire che da tre anni il mio udito si è fatto sempre più debole [...]
le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte. Posso proprio
dire di condurre una vita da derelitto; da quasi due anni evito ogni compagnia,
perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi
altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è
una condanna terribile! [...] Spesso ho maledetto il Creatore e la mia esistenza.
Plutarco mi ha portato alla rassegnazione; se altrimenti è possibile, voglio sfidare il mio destino, tuttavia vi saranno dei momenti nella vita in cui io sarò la
più infelice delle creature di Dio. [...] Rassegnazione: che misero rifugio, eppure
è l’unico che mi rimanga.47
Nella seconda ribadisce:
Triste rassegnazione nella quale devo pur trovare il mio rifugio; mi sono proposto, è vero, di esser superiore a tutto, ma come sarà possibile?48
Al 16 novembre 1801 – periodo attorno al quale abbiamo collocato la
redazione dell’autografo del «Presto agitato» – risale invece la lettera,
sempre a Franz Gerhard Wegeler, in cui Beethoven, un poco rinfrancato,
rivela:
La mia vita è diventata ora più piacevole perché frequento di più la gente, non
puoi immaginare il senso di vuoto e la tristezza che mi hanno accompagnato
in questi ultimi due anni, la mia debolezza d’udito mi perseguitava ovunque
47 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 65, alle pp. 176-177. Le sottolineature
sono di Beethoven. Testo originale tedesco (con tutte le peculiarità di ortografia e sintassi
non modernizzate) in Ludwig van Beethoven, Briefwechsel. Gesamtausgabe, 7 voll., a cura di
Sieghard Brandenburg, G. Henle Verlag, München 1996-1998, vol. I, pp. 79-80: «Nur hat der
neidische Dämon, meine schlimme Gesundheit, mir einen schlechten Stein ins Brett geworfen nemlich: mein Gehör ist seit 3 Jahren immer schwächer geworden [...] meine ohren, die
sausen und Brausen tag und Nacht fort; ich kann sagen, ich bringe mein Leben elend zu, seit
2 Jahren fast meide ich alle gesellschaften, weils mir nun nicht möglich ist, den Leuten zu
sagen, ich bin Taub, hätte ich irgend ein anderes Fach, so giengs noch eher, aber in meinem
Fach ist das ein schreklicher Zustand [...] ich habe schon oft den schöpfer und mein daseyn
verflucht, Plutarch hat mich zu der Resignation geführt, ich will wenn’s anders möglich ist,
meinem schicksaal trozen, obschon es Augenblicke meines Lebens geben wird, wo ich das
unglücklichste Geschöpf gottes seyn werde. [...] resignation: welches elende Zufluchtsmittel,
und mir bleibt es doch das einzige übrige.»
48 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 67, alla p. 183. Il corsivo indica la scrittura latina utilizzata nell’originale al posto dell’usuale scrittura tedesca corrente., cfr. Ludwig
van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, Introduzione, p. 29. Testo originale tedesco in Ludwig van
Beethoven, Briefwechsel. Gesamtausgabe cit., vol. I, p. 85: «Traurige resignation zu der ich meine
Zuflucht nehmen muß, ich habe mir Freylich vorgenommen mich über alles das hinaus zu
sezen, aber wie wird es möglich seyn?»
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come uno spettro e io fuggivo gli uomini; dovevo apparire misantropo, io che
invece lo sono così poco, questo mutamento lo ha prodotto una cara incantevole ragazza, che mi ama e che io amo, in due anni sono questi i soli momenti
beati ed è la prima volta che sento che il matrimonio potrebbe rendere felici,
purtroppo essa non è del mio ceto sociale e ora – non mi potrei davvero sposare
– devo ancora darmi moltissimo da fare, se non fosse per l’udito, già da molto
tempo avrei girato mezzo mondo, come sarebbe mio dovere.49
E poco più avanti:
Voglio afferrare il destino alla gola, non riuscirà di certo a piegarmi totalmente
– oh, è così bello vivere mille volte la vita – per una vita tranquilla, no, lo sento,
non sono più fatto [...].50
«Rassegnazione»51 – «una cara incantevole ragazza, che mi ama e che
io amo»52 – «voglio afferrare il destino alla gola [ich will dem Schiksal
49 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 70, pp. 185-189, alla p. 187. Testo originale tedesco in Ludwig van Beethoven, Briefwechsel. Gesamtausgabe cit., vol. I, p. 89: «Etwas
angenehmer lebe ich jezt wieder, indem ich mich meher unter Menschen gemacht, du kannst
es kaum glauben, wie öde, wie traurig ich mein Leben sit 2 Jahren zugebracht, wie ein Gespenst ist mir mein schwaches Gehör überall erschienen, und ich flohe – die Menschen, mußte
Misantrop scheinen, und bins doch so wenig, diese Veränderung hat ein liebes zauberisches
Mädchen hervorgebracht, die mich liebt, und die ich liebe, es sind seit 2 Jahren wieder einige
seelige Augenblicke, und es ist das erstemal, daß ich fühle, daß – heirathen glücklich machen
könnte, leider ist sie nicht von meinem stande – und jetzt – könnte ich nun freylich nicht heirathen – ich muß mich nun noch wacker herumtummeln, wäre mein Gehör nicht, ich wäre nun
schon lang die halbe Welt durchgereißt, und das muß ich.»
50 Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 70, pp. 185-189, alla p. 188. Testo originale tedesco in Ludwig van Beethoven, Briefwechsel. Gesamtausgabe cit., vol. I, p. 89: «Ich will
dem schicksaal in den rachen greifen, ganz niederbeugen soll es mich gewiß nicht – o es ist so
schön das Leben tausendmal leben – für ein stilles – Leben, nein ich fühl’s, ich bin nicht mehr
dafür gemacht [...]».
51 Non possiamo non pensare alla caratterizzazione di Schubart mediante l’uso della parola
‘rassegnazione’ (‘Geduld’ in Schubart, ‘Resignation’ in Beethoven) della tonalità di Si minore, (quella dell’Adagio KV 540 di Mozart) riportata nella nota n. 9 del presente lavoro. Gli
affetti invece espressi dalla tonalità di Do# minore sono, sempre secondo Schubart «lamento
penitenziale, colloquio intimo con Dio, con l’amico e con il compagno di vita; sospiro per
l’amicizia e per l’amore delusi. [Bussklage, trauliche Unterredung mit Gott; dem Freunde;
und der Gespielinn des Lebens; Seufzer der unbefriedigten Freundschaft und Liebe liegen in
seinem Umkreis.]», Christian Friedrich Daniel Schubart, Ideen zu einer Aesthetik der Tonkunst
cit., p. 379.
52 Si ritiene che Beethoven si riferisse a Giulietta Guicciardi, alla quale impartì lezioni di pianoforte nel corso del 1800/01 (cfr. Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 70, pp.
185-189, nota 7 alla p. 189.) Considerare tuttavia la Sonata op. 27 n. 2 completamente ‘ispirata’
da lei per il solo fatto che le fu dedicata (nel 1802), si scontra con il fatto che la stessa Contessa
Guicciardi, in una conversazione del 1852 con Otto Jahn fece presente come la composizione a
lei originalmente dedicata fosse il Rondò in Sol maggiore op. 51 n. 2, ma avendo poi deciso di
destinarlo alla Contessa Lichnowsky, Beethoven finì per dedicarle invece la Sonata, cfr. Elliot
Forbes (a cura di), Thayer’s Life of Beethoven cit., p. 291. Il Rondò op. 51 n. 2 (tema abbozzato nel
1798, composto circa 1800, cfr. Georg Kinsky – Hans Halm, Das Werk Beethovens cit., pp. 119-
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
in den Rachen greifen]», potrebbero farci comprendere gli stati d’animo
che fecero da sfondo alla composizione dell’«Adagio sostenuto» da una
parte, e dell’«Allegretto» e del «Presto agitato» dall’altra. A questo proposito, la celebre definizione di Liszt dell’«Allegretto» come «un fiore tra
due abissi»,53 potrebbe essere calzante non esclusivamente dal punto di
vista estetico.
Infine, una tenue prova che l’«Adagio sostenuto», o per lo meno le sue
idee fondamentali, siano state concepite autonomamente, prima dell’elaborazione dell’intera Sonata, si può forse anche trovare nello schizzo –
pure in Si minore (la tonalità dell’Adagio mozartiano) – che si trova nel
foglio 139 del “Kafka-Skizzenbuch” e che secondo Joseph Kerman risale
al 1793,54 con gli arpeggi in terzine di crome, la melodia alle dita estreme della mano destra e il movimento ascendente-discendente delle ottave alla mano sinistra, e che viene talvolta citato in relazione alla genesi
dell’«Adagio sostenuto»:55
Es.17: Beethoven, “Kafka-Skizzenbuch”, f. 139r, righi 13/14
L’«Adagio sostenuto» come marcia funebre
Se ammettiamo che l’«Adagio sostenuto» sia nato come pezzo a sé
stante, non dobbiamo sottovalutare l’importanza della vicinanza o addirittura coincidenza temporale con il periodo di composizione della Sonata
op. 26: da diversi studiosi sono già state soprattutto notate le somiglianze
tra l’«Adagio sostenuto» con il terzo movimento, lento, dell’op. 26, la celebre «Marcia funebre sulla morte di un Eroe».56 Oltre all’ovvia tonalità mi-
120), è musicalmente e tecnicamente più semplice della Sonata op. 27 n. 2, ed ha in effetti un
carattere serenamente affettuoso, ‘amoroso’, con qualche tratto malinconico.
53 Wilhelm de Lenz, Beethoven et ses Trois Styles, Gustave Legouix, Paris 1909, p. 199. (Prima ed.:
1852).
54 Ludwig van Beethoven, Autograph Miscellany from circa 1786 to 1799 [...] (The ‘Kafka Sketchbook’),
a cura di Joseph Kerman, British Museum, London 1970, pp. xxvi-xxvii.
55 Si veda ad es. Ludwig van Beethoven, Klaviersonate Op. 27/2. Nach den Quellen herausgegeben
von Peter Hauschild, Wiener Urtext Edition (Schott/Universal Edition), Wien 1994, p. 4, e
Michael Ladenburger, Die Quellen zu Beethovens Klaviersonate cis-Moll op. 27 Nr. 2 cit., p. 39. La
trascrizione che si trova nell’Es.17 è mia.
56 Timothy Jones, Beethoven: The ‘Moonlight’ and other Sonatas cit., p. 79. Secondo Jones «L’Adagio
sostenuto appartiene ad una lunga tradizione di Trauermusik (musica funebre). Nei secoli
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nore, l’elemento comune di massima evidenza è senza dubbio l’anacrusi
puntata con le note ribattute, e in particolar modo il fatto che la prima sua
esposizione sia in entrambi i pezzi sul quinto grado,57 Sol# nel Do diesis
minore dell’«Adagio sostenuto», e Mib nel La bemolle minore della «Marcia funebre»:58
Es.18: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 5-7 / Sonata op. 26, III mov., batt. 1-2
diciassettesimo e diciottesimo fu sviluppato un insieme di idee musicali e artifici, elaborati
e formali, per rappresentare le reazioni alla morte a alla sofferenza. In questo movimento
Beethoven utilizza un’intera collezione di questi artifici: il Lament bass, profili melodici derivati dal canto gregoriano, figurazioni d’accompagnamento ripetitive e figure cromatiche.
[The Adagio sostenuto belongs to a long tradition of Trauermusik (mourning music). A set
of elaborate, formal musical ideas and devices was developed in the seventeenth and eighteenth centuries to depict reactions to death and suffering. Beethoven uses a whole collection
of these devices in this movement: the Lament bass, melodic shapes derived from plainchant,
repetitive accompaniment figures, and chromatic figures.]», e Ludwig van Beethoven, Klaviersonate Op. 27/2. Nach den Quellen herausgegeben von Peter Hauschild cit, p. 3. L’accostamento
con la Sonata op. 26 era stato già proposto da Hugo Riemann, Ludwig van Beethovens sämtlichen
Klavier Solo-Sonaten. Aesthetische und formal-technische Analyse mit historischen Notizen, 3 voll.,
Max Hesses Verlag, Berlin 1918-1919, vol. ����������������������������������������������������
II, p. 240. Riguardo alla «Marcia funebre sulla morte d’un Eroe», Ries narra che «trasse la sua origine dai grandi elogi che gli amici di Beethoven
tributarono alla Marcia funebre che Päer scrisse per la sua opera Achilles», Franz Gerhard Wegeler – Ferdinand Ries, Beethoven appunti biografici dal vivo, a cura di Artemio Focher, Moretti
& Vitali editori, Bergamo 1993, pp. 99-100. (Ed. orig. tedesca: 1838). L’opera Achille, tuttavia,
ebbe la sua prima rappresentazione a Vienna il 6 giugno 1801, laddove i primi abbozzi della
Marcia funebre della Sonata op. 26, contenuti nel Quaderno di schizzi “Landsberg 7”, risalgono probabilmente all’autunno/inverno 1801 (si veda Douglas Johnson – Alan Tyson – Robert
Winter, The Beethoven Sketchbooks cit., pp. 106-111). Per l’incipit (con massiccia presenza della
figura ritmica croma puntata-semicroma) della «marcia lugubre» – come viene definito il ritornello del n. 27 della partitura di Päer (Atto II, Scena XI) nel libretto di Giovanni de Gamerra
– si veda Wolfram Ensslin, Chronologisch-thematisches Verzeichnis der Werke Ferdinando Paërs.
Band 1: Die Opern, Georg Olms Verlag, Hildesheim-Zürich-New York 2004, p. 458.
57 Si noti che anche la «Marcia funebre» della posteriore Sinfonia “Eroica” op. 55 (1803) inizia
con l’anacrusi puntata con il quinto grado (Sol in Do minore) ribattuto. Nel «Maggiore» (batt.
69-104) è anche presente l’accompagnamento ‘ostinato’ in terzine, cfr. anche Timothy Jones,
Beethoven: The ‘Moonlight’ and other Sonatas cit., p. 79 e Ludwig van Beethoven, Klaviersonate Op.
27/2. Nach den Quellen herausgegeben von Peter Hauschild cit., p. 3.
58 Vorrei anche ricordare che nel 1815, quando Beethoven trascrisse la «Marcia funebre sulla
morte d’un Eroe» della Sonata op. 26 per orchestra per farne il quarto numero delle Musiche
di scena (WoO 96) per Leonore Prohaska di Friedrich Duncker, la trasportò da La bemolle minore a Si minore, la tonalità dello schizzo del “Kafka-Skizzenbuch” del 1793 che, come abbiamo
già detto, viene talvolta menzionato in connessione alla genesi dell’«Adagio sostenuto» della
Sonata op. 27 n. 2. Per le musiche di scena WoO 96 si vedano Georg Kinsky – Hans Halm, Das
Werk Beethovens cit., pp. 553-554, e Kurt Dorfmüller, Supplement zum Thematisch-bibliographischen Verzeichnis von Kinsky-Halm cit., p. 371.
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«Voglio afferrare il destino alla gola»
Del resto, il carattere funebre dell’«Adagio sostenuto» era già stato, nel
1852, sottolineato da Wilhelm von Lenz in Beethoven et ses Trois Styles:
Ed eccone una, ed è la celebre sonata quasi fantasia in Do diesis minore, che non
ne ha che tre [di movimenti], che inizia con un adagio che, lui solo, è una sonata,
una scena tombale; Tomba dei Scipioni! Sotto questa pietra riposano le grandezze
umane; essa non si apre che per ricoprirne una nuova. Quant’è difficile da sollevare! Ecco si solleva! Sentite vibrare la corda di Mi maggiore? Il profumo dei
fiori viene a visitare il sepolcro!59
E più avanti, facendo un implicito riferimento alla «Marcia funebre»
della Sonata op. 26:
Rellstab compara quest’opera a una barca che visita, al chiaro di luna, i siti
selvaggi del Lago dei Quattro Cantoni in Svizzera. Il soprannome MondscheinsSonate che, da vent’anni, fa protestare i conoscitori in Germania, non ha altra
origine.60 Questo adagio è piuttosto un mondo di morti, l’epitaffio di Napoleo-
59 Wilhelm de Lenz, Beethoven et ses Trois Styles cit., p. 194: «En voici une, et c’est la célèbre sonata
quasi fantasia en ut dièse mineur, qui n’en aura que trois, qui commencera par un adagio qui à lui
seul sera une sonate, une scène au tombeau; Tomba dei Scipioni! Sous cette dalle reposent les
grandeurs humaines; elle ne s’ouvre que pour en recouvrir une nouvelle. Qu’elle est difficile
à soulever! La voilà qui se lève! Entendez-vous bruire la corde de mi majeur? Le parfum des
fleurs vient visiter le sépulcre!»
60 Secondo Lenz dunque il titolo risaliva ai primi anni ‘30. Pare che esso (pur in assenza della
Svizzera e del Lago dei Quattro Cantoni) provenga dallo schizzo letterario, Theodor, scritto da
Rellstab nel 1823 e pubblicato nel 1824 (quindi mentre ancora Beethoven era in vita!), e quindi – fatto che può giustificare l’ipotesi di Lenz – ripubblicato nei Gesammelte Schriften (F.A.
Brockhaus, Leipzig, 6 voll.) nel 1828: «Non varrei una quinta fasulla, se io avessi dimenticato
l’Adagio della Fantasia in Do diesis minore. Il lago riposa nel tenue scintillìo della luna; le
onde colpiscono sordamente la riva buia; scure montagne ricoperte di boschi si innalzano
e separano la sacra regione dal resto del mondo; cigni scivolano sull’acqua con un fruscio
bisbigliato come spiriti e un’arpa eolia misteriosamente suona lamenti d’un amore solitario
e nostalgico da quelle rovine. [Keiner falschen Quinte wäre ich werth, wenn ich das Adagio
aus der Phantasie in Cis=moll vergessen hätte. Der See ruht in dämmernden Mondenschimmer; dumpf stößt die Welle an das dunkle Ufer; düstere Waldberge steigen auf und schließen
die heilige Gegend von der Welt ab; Schwäne ziehen mit flüsterndem Rauschen wie Geister
durch die Fluth und eine Äolsharfe tönt Klagen sehnsüchtiger einsamer Liebe geheimnißvoll
von jener Ruine herab.]», Ludwig Rellstab, Theodor: Eine musikalische Skizze, in Berliner allgemeine musikalische Zeitung, 1 (21 luglio 1824), 247–49; 1 (28 luglio 1824), 255–58; 1 (4 agosto
1824), 263–66; 1 (11 agosto 1824), 271–75; 1 (18 agosto 1824), 279–81, cit. in Jürgen Rehm, Zur
Musikrezeption im vormärzlichen Berlin, Georg Olms, New York 1983, pp.90–91, (n.72), e lungamente discusso in Sarah Clemmens Waltz, In Defense of Moonlight, in Beethoven Forum, XIV/1
(spring 2007), pp. 1-43, alle pp. 32-33. Nel
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1842, riferendosi all’«Adagio sostenuto», Carl Czerny osservava: «Questo movimento è altamente poetico, e perciò perfettamente comprensibile
a chiunque. È una scena notturna, nella quale in lontananza risuona la voce di uno spirito
che si lamenta. [Dieser Satz ist höchst poetisch und dabei für jeden leicht fasslich. Es ist eine
Nachtscene, wo aus weiter Ferne eine klagende Geisterstimme ertönt.]», Carl Czerny, Über
den richtigen Vortrag der sämtlichen Beethoven’schen Klavierwerke cit., p. 51.
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ne in musica, adagio sulla morte d’un eroe!61
Ma veramente sorprendente è quanto scrive Lenz in un suo libro posteriore, Die grossen Pianoforte-Virtuosen unserer Zeit aus persönlichler Bekanntschaft. Liszt. Chopin. Tausig. Henselt, pubblicato a Berlino nel 1872; nello
scambio di battute tra Lenz e Tausig, che riportiamo qui appresso, si sottolinea il carattere funebre dell’«Adagio sostenuto», ma si accenna anche
alla sua genesi, frutto di improvvisazione, come pezzo a sé stante:
Noi entrammo nella stanza accanto, dove si trovava il primo pianoforte. Su di
questo si trovava aperta la [Sonata] Quasi-Fantasia in Do diesis.
– «Questa l’ha dimenticata un’allieva» disse Tausig.
– «Lo sa anche Lei, che la si può suonare solo in una stanza foderata con tessuto
nero?»
– «No, non lo so per niente!»
– «Me lo ha scritto Holz, lui lo sa; Beethoven gli ha confidato di avere improvvisato l’Adagio in una stanza foderata di nero accanto alla salma di un amico.»
– «Ma questa è bella» sorrise sotto i baffi Tausig nel suo modo di fare spesso
scherzoso: «Se un’allieva mi tormenta ancora, le chiederò: è la Sua stanza foderata di nero, completamente di nero? Altrimenti niente.»62
«Holz» è Karl Holz, dal 1823 secondo violino del quartetto Schuppanzig, che in quel periodo entrò in intimità con Beethoven, e tra il 1825/26 ne
divenne assistente e segretario.63 Secondo Barry Cooper «le reminiscenze
di Holz su Beethoven sembrano generalmente affidabili»,64 ma qui il problema è se sia possibile considerare affidabile Lenz. La prima domanda
61 Wilhelm de Lenz, Beethoven et ses Trois Styles cit., p. 199: «Rellstab compare cette oeuvre à une
barque, visitant, par un clair de lune, les sites sauvages du lac des Quatre Cantons en Suisse.
Le sobriquet de Mondscheins-Sonate qui, il y a vingt ans, faisait crier au connaisseur en Allemagne, n’a pas autre origine. Cet adagio est bien plutôt un monde de morts, l’épitaphe de
Napoléon en musique, adagio sulla morte d’un eroe!»
62 Wilhelm von Lenz, Die grossen Pianoforte-Virtuosen unserer Zeit aus persönlichler Bekanntschaft.
Liszt. Chopin. Tausig. Henselt, B. Behr’s Buchhandlung (E. Bock), Berlin 1872, p. 56. ����������
(Nel Capitolo III, intitolato «Carl Tausig»): «Wir traten in’s Nebenzimmer, wo sich das erste Pianoforte
zeigte. Auf diesem lag aufgeschlagen die Quasi-Fantasia in Cis. – «Das hat eine Schülerin
vergessen», sagte Tausig. – «Wissen Sie auch, dass man das nur in einem mit schwarzem Tuch
ausgeschlagenem Zimmer spielen darf?» – «Nein, das weiss ich gar nicht!» – «Holz hat es mir
geschrieben, der weiss es; ihm hat Beethoven vertraut, er habe das Adagio in einem schwarz
ausgeschlagenen Zimmer bei der Leiche eines Freundes improvisirt.» – «Aber das ist schön!»
schmunzelte Tausig in seiner oft humoristischen Weise; «quält mich noch ëine Schülerin damit, so frag’ich; Ist Ihr Zimmer schwarz, ganz schwarz ausgeschlagen? Sonst nicht.»
63 Barry Cooper, Calendar of Beethoven’s life, works and related events, in Barry Cooper et alii, The
Beethoven Compendium cit., pp. 12-33, alle pp. 30-32. Karl Holz nacque a Vienna nel 1798 e vi
morì nel 1858.
64 Barry Cooper, Who’s who of Beethoven’s contemporaries, in Barry Cooper et alii, The Beethoven
Compendium cit., p. 48: «Holz’s reminiscences of Beethoven seem generally reliable.»
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che viene in mente è perché Lenz non abbia riferito questo episodio nel
suo libro del 1852, Beethoven et ses Trois Styles, nell’estesa trattazione dedicata alla Sonata op. 27 n. 2, ma essendo Holz morto nel 1858, la lettera
a Lenz in questione potrebbe benissimo essere stata scritta dopo il 1852.
D’altra parte il tutto sembra una spiritosaggine per divertire Tausig, che
infatti risponde perfettamente in tono, ma ci si può limitare a considerare
spiritosaggine il «lo sa anche Lei, che la si può suonare solo in una stanza
foderata con tessuto nero?», e vera informazione il «me lo ha scritto Holz
... Beethoven gli ha confidato ...». Tuttavia, se andiamo in cerca di amici
morti, l’unico candidato di cui si abbia notizia è Lorenz von Breuning,
allievo e intimo amico di Beethoven a Vienna tra il 1794 e il 1797, morto il
10 aprile 1798,65 il che retrodaterebbe addirittura di tre anni la concezione
dell’«Adagio sostenuto».
Vorrei qui anche ricordare come il connotato di marcia funebre non sia
sfuggito a Dmitrij Šostakovič,66 il quale nel bellissimo finale, «Adagio»,
della sua ultima composizione – la Sonata per viola e pianoforte op. 147,
terminata pochi giorni prima della morte67 – ha voluto ampiamente citare
proprio l’«Adagio sostenuto», tanto che l’intero movimento si potrebbe
considerare come un commosso commento alla composizione beethoveniana.68 Nell’«Adagio» di Šostakovič, oltre all’accompagnamento ostinato
in crome, e all’anacrusi con il ribattuto puntato, che ricorrono ripetutamente in tutto il movimento, gioca un ruolo fondamentale anche il salto
65 Barry Cooper, Who’s who of Beethoven’s contemporaries cit., p. 43, e Ludwig van Beethoven, Epistolario cit., vol. I, lettera n. 66, nota 2 a p. 181. A Lorenz von Breuning (e a Franz Gerhard
Wegeler) fa forse riferimento la lettera di Beethoven a Carl Amenda, datata da Sieghard Brandenburg «prima di luglio 1801», nella quale si legge: «Mille volte il mio pensiero è andato
al migliore degli uomini che abbia conosciuto, certo, dopo i due uomini che si dividevano
tutto il mio amore e di cui uno solo sopravvive, ci sei tu, il terzo [...]», Ludwig van Beethoven,
Epistolario cit., vol. I, lettera n. 66, p. 181.
66 Cfr. Franco Pulcini, Šostakovič, E.D.T., Torino 1988, p. 181: «Ultima pagina scritta da
Šostakovič, la Sonata per viola e pianoforte op. 147 è l’estrema variazione dell’autore sulla
poetica della morte», e Enzo Restagno (a cura di), Nono, E.D.T., Torino 1987, p. 30 (parole di
Luigi Nono che ricorda l’incontro con Šostakovič): «D’un tratto si alzò e mi accompagnò al
suo pianoforte; sul leggio c’era, incompiuta, la musica della Sonata per viola e pianoforte. Fu
come un segnale segreto, un addio che stava dandoci.»
67 Šostakovič morì a Mosca il 9 agosto 1975, e l’autografo della Sonata, nell’ultima pagina (64),
porta la data «5 luglio 1975». Si veda Dmitri Schostakowitsch, Sonate für Viola und Klavier Op.
147. Facsimile Edition, Sikorski, [Hamburg 2000].
68 In una telefonata al violista Fëdor Družinin, effettuata il 5 luglio 1975, Šostakovič specificò
«il finale è un adagio in memoria di Beethoven», Dmitrij Šostakovič, Trascrivere la vita intera.
Lettere 1923-1975, a cura di Elizabeth Wilson, trad. it di Laura Dusio, Il Saggiatore, Milano
2006, p. 452.
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di quarta discendente, come si può ben vedere dall’incipit stesso (batt. 1-3,
viola sola):69
Es. 19: Šostakovič, Sonata per viola e pianoforte op. 147, III mov., batt. 1-3
Dobbiamo anche ricordare che nell’Ottocento circolavano inoltre altri
aneddoti sull’origine dell’«Adagio sostenuto». Sempre Lenz in Beethoven
et ses Trois Styles, riferisce questa voce viennese che scarta il motivo funebre ma insiste sull’improvvisazione di un movimento autonomo:
Raccontano a Vienna che Beethoven, innamorato della Signorina Guicciardi,
avrebbe improvvisato l’adagio sotto la pergola di un giardino. Da ciò il nome di
«Lauben-Sonate» [Sonata della pergola] come la chiamano alcuni eccentrici . 70
Infine Theodor von Frimmel – definendola «Unsinn», ‘sciocchezza’ –
riporta un’asserzione di Alexander Wheelock Thayer (fatta in uno scritto
del 1877 che non sono riuscito a procurarmi)71 secondo la quale «la Sonata
fu composta in una casa vicino alla Koblenzentor a Bonn per una fanciulla
cieca».72 Frimmel fa notare che ciò sarebbe dovuto accadere prima dell’autunno 1792, perché dopo la sua partenza per Vienna, Beethoven non sarebbe più tornato a Bonn. Qui – se la citazione di Frimmel è esatta – non
si isola l’«Adagio sostenuto» dal resto della Sonata, ma si fa riferimento ad
una concezione dell’opera molto indietro nel tempo, e non possiamo fare
a meno di pensare all’abbozzo del “Kafka-Skizzenbuch”, datato 1793, di
cui sopra.
Questi aneddoti, o leggende come li si voglia chiamare (escluso l’ultimo citato da Frimmel), isolano l’«Adagio sostenuto» dal resto della Sonata,
ne sottolineano il carattere funebre ed accennano ad una originaria im-
69 Dmitri Schostakowitsch, Op. 147. Sonate für Viola und Klavier, Musikverlag Hans Sikorski,
Hamburg 1975, p. 34.
70 Wilhelm de Lenz, Beethoven et ses Trois Styles cit., p. 195-196: «On raconte à Vienne que
Beethoven, amoreux de mademoiselle Guicciardi, aurait improvisé l’adagio sous la tonnelle
d’un jardin. De là le nom de «Lauben-Sonate» comme l’appellent quelques exclusifs.»
71 Alexander Wheelock Thayer, Ein kritischer Beitrag zur Beethoven-literatur, [?], [?] 1877, pp. 6 e
sgg., cit in Theodor von Frimmel, Beethovens Cis-moll Sonate, in Beethoven-Forschung, 6/7 (1916),
pp. 39-95, alla p. 48.
72 Theodor von Frimmel, Beethovens Cis-moll Sonate cit., p. 48: «In einem Hause nahe dem
Koblenzentor in Bonn sei die Sonate für eine blindes Mädchen von Beethoven komponiert
worden.»
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provvisazione. Anche se di nessuno di essi può esser provata la veridicità,
tutti probabilmente si rifanno alla verità del fatto che il primo movimento
ebbe origine come pezzo a sé stante.
Ritorno dunque al mio argomento iniziale: se cerchiamo il modello di
un grande adagio per tastiera a sé stante, di carattere tragico che, più volte
ripubblicato, si trovasse di fronte a Beethoven, non possiamo non pensare
all’Adagio KV 540 di Mozart.73 Come abbiamo mostrato, esso è costruito
sull’elemento motivico caratterizzante della quarta discendente contenuta in un intervallo di sesta minore, e il suo incipit è utilizzato per abbozzare
un tema in uno dei fogli di schizzi che contengono il lavoro preliminare per il «Presto agitato» dell’op. 27 n. 2 (che Beethoven stava rendendo
unitario rispetto all’«Adagio sostenuto» proprio grazie al medesimo elemento motivico). Ricordiamo inoltre che sia l’Adagio KV 540 di Mozart,
sia l’«Adagio sostenuto» sono strutturati in forma-sonata, perfettamente
regolare quella del primo, in una originale formulazione romantica quella
del secondo.74
Il motivo metrico caratterizzante
Per concludere vorrei tornare brevemente sugli elementi musicali che
unificano i tre movimenti della Sonata op. 27 n. 2 da noi individuati all’inizio di questo saggio, e precisamente sul quarto, quello metrico, meno studiato degli altri. Vorrei qui mettere in evidenza come nella Sonata l’enfasi
sull’ultimo tempo della battuta (che in alcuni dei casi si potrebbe considerare forse un’enfasi sull’anacrusi), sia una costante in tutti e tre i movimenti e – al pari del motivo melodico della quarta discendente, del motivo
dell’arpeggio e del motivo ritmico – sia stata utilizzata da Beethoven per
modellare, in un secondo momento, l’«Allegretto» e l’«Allegro agitato» in
perfetta coerenza con l’«Adagio sostenuto». Nella maggioranza dei casi
tale enfasi viene sottolineata dalle indicazioni dinamiche, che sono gli elementi più passibili di modifiche arbitrarie nella trasmissione di un testo
musicale, ed infatti questo è anche un buon esempio per mostrare come la
filologia possa essere alleata dell’analisi e viceversa.
73 Una composizione di Beethoven certamente modellata su di una di Mozart, nell’organico,
nella tonalità, nei movimenti e in molti particolari ritmico-metrici nonché motivici è il Quintetto per pianoforte e fiati op. 16 (1796), frutto di attento studio del Quintetto KV 452 (1784).
74 In Timothy Jones, Beethoven: The ‘Moonlight’ and other Sonatas cit., pp. 80-81, sono discusse
due letture della forma dell’«Adagio sostenuto»: come forma-sonata di Ilmari Krohn (1927:
Esposizione batt. 1-23 – Sviluppo batt. 23-41 – Ripresa batt. 42-60 – Coda batt. 60-69, lettura
che sottoscrivo); e come forma-canzone di Peter Benary (1987: Preludio batt. 1-5 – I strofa
batt. 6-27 – Sezione centrale/punto pedale batt. 28-42 – II strofa batt. 43-60 – Coda batt. 60-69).
Si vedano anche le letture di Donald Francis Tovey (1931) e di Richard Rosenberg (1957) in
Maurizio Giani, Appunti sulla ricezione analitica della Sonata “Al chiaro di luna”, in Egidio Pozzi
(a cura di), I classici dell’analisi cit., pp. 19-28, alle pp. 25-28.
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I luoghi dove l’enfasi sull’ultimo tempo della battuta è più in evidenza, si trovano certamente nel materiale del primo gruppo tematico (poi
ripreso anche nello sviluppo e nella coda) del «Presto agitato». La coppia
di accordi in crome che, sul quarto tempo della seconda battuta, chiudono
l’ascesa degli arpeggi in quartine di semicrome è enfatizzata da non meno
di cinque fattori: il culmine melodico, lo spessore sonoro, lo sforzato sul
primo di essi, i tratti di staccato su entrambi e l’uso del pedale («senza
sordino»):
Es.20: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), III mov., batt. 1-3
Prima di completare, sotto questo punto di vista, l’analisi del «Presto
agitato», vorrei subito individuare l’elemento metrico nei movimenti precedenti, procedendo a ritroso.
Nell’«Allegretto», in 3/4, esso è evidentissimo nel Trio, con l’andamento costantemente sincopato (indice di ‘tempo rubato’),75 peraltro sottolineato, nella prima metà, con gli sforzati sul terzo quarto della battuta:
Es.21: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), II mov., batt. 36-44
Inoltre, nella parte iniziale del movimento il climax melodico, Sib4, è
raggiunto a battuta 33 sul terzo quarto e pure sottolineato dallo sforzato:
Es.22: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), II mov., batt. 32-36
75 L’andamento sincopato nella scrittura del periodo sta ad indicare quello che Robert Hudson
in Stolen Time. The History of Tempo Rubato, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 1. (Prima
ed.: 1994), chiama “earlier rubato”. Il “later rubato” è invece quello indicato per mezzo di
indicazioni verbali.
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Infine, anche la legatura di articolazione presente sul motivo iniziale
dell’«Allegretto» sta ad indicare che l’enfasi deve cadere sulla prima nota
in levare e non sulla seconda in battere, cosa resa poi esplicita dalla ripetizione dello stesso motivo in andamento sincopato nelle battute 8-16:
Es.23: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), II mov., batt. 1-11
Veniamo all’«Adagio sostenuto», il movimento primigenio: l’apparizione nella quinta battuta, dopo le quattro introduttive, dell’anacrusi, con
il ribattuto puntato, nella parte del canto alla mano destra, colpisce l’udito
e la mente a tutti gli effetti come un’enfasi sul quarto tempo. Ma l’enfasi
sull’ultimo tempo si trova anche a mio avviso – come ho già scritto altrove76 – nei passi delle battute 16 e 18 dell’esposizione e delle battute 52 e 54
della ripresa, e nel passo delle battute 28, 29, 30 e 31 dello sviluppo. In tutti
questi casi l’enfasi è affidata alla forcella di crescendo-decrescendo, e tutto
dipende da come essa viene collocata: nella prima edizione di Cappi del
1802 (Es. 24 a destra, batt. 54), l’apice della forcella è praticamente sempre
posto sul terzo quarto, lettura costantemente ripresa da tutte le edizioni
posteriori sino al 1950, mentre nell’autografo (Es. 24 a sinistra, batt. 54) la
situazione è di difficile interpretazione ma sembra, nel complesso, indicare un posizionamento sull’ultimo quarto, lettura più o meno accettata
nelle edizioni Urtext più recenti.
Es.24: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, I mov., batt. 54, autografo e prima ed. (Cappi 1802)
In questo frangente, l’approccio analitico – con l’idea dell’enfasi sull’ultimo tempo della battuta come elemento metrico unificatore dell’intera
Sonata – potrebbe giustificare la lettura, nell’autografo, della posizione
della forcella sul quarto tempo.
Ritornando al «Presto agitato», l’enfasi sull’ultimo tempo si trova anche nel secondo tema, a partire da battuta 22, garantita sia dall’apice me-
76 Francesco Scarpellini Pancrazi, Le fonti della Sonata op. 27 n. 2 cit., pp. 13-16.
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lodico (locale) che dalla forcella:77
Es.25: Beethoven, Sonata op. 27 n. 2, prima ed. (Cappi 1802), III mov., batt. 21-23
Se infine estendiamo il concetto di enfasi sull’ultimo tempo della battuta ad un livello superiore, si potrebbe notare come nel «Presto agitato»
l’enfasi espressiva cada sull’ultima parte del movimento, nella coda, con
gli arpeggi di settima diminuita ‘strappati’ nelle batt. 163-166, con la riesposizione del secondo tema alle batt. 167-176 e con la nuova figurazione
degli arpeggi delle batt. 177-189. In effetti la coda del terzo movimento
della Sonata op. 27 n. 2 è – nella produzione sonatistica beethoveniana – la
prima coda di forma-sonata ad avere un peso drammatico così rilevante
nell’economia del movimento, ed anticipa quella del finale della Sonata
op. 31 n. 2 (1802), ma soprattutto quelle dei primi movimenti delle Sonate
op. 53 “Waldstein” (1803/04), op. 57 “Appassionata” (1804/05) e op. 81a
“Les adieux” (1809/10).78
E, per concludere, se pensiamo all’intera Sonata, l’enfasi considerata
in termini di concitazione, velocità, potenza sonora e durata, cade decisamente sull’ultimo dei tre movimenti,79 e anche questo è un unicum nelle
Sonate per pianoforte beethoveniane, con un solo antecedente possibile –
ma assolutamente non commensurabile – rintracciabile (come già avevano notato Adolf Bernhard Marx e Hugo Riemann)80 nella Sonata op. 2 n. 1
77 Qui credo che per l’interprete sia importante notare anche come l’enfasi sull’ultimo tempo sia
preceduta e controbilanciata da un’enfasi (il Re#4 minima del tema, batt. 21) sul secondo tempo della battuta, l’altro tempo debole, particolare che pure contribuisce alla caratterizzazione
metrica di tutto il movimento (nell’esposizione alle battute 10, 12 e 14, 30 e 32, 47-48, 53-56 e
58 e 60; nello sviluppo alle batt. 71, 75 e 79, 87 e 91; nella coda alle batt. 164 e 166, 167 e 171,
191 e 193).
78 Il ritorno del materiale del secondo gruppo tematico nella coda si ha anche nel primo movimento del Trio per pianoforte, violino e violoncello op. 1 n. 1 (1794/95), e nel primo movimento della Sonata op. 7 (1796/97), ma in entrambi i casi il peso drammatico della coda non
è paragonabile a quello del «Presto agitato»
79 Glenn Gould, nelle note di copertina dell’LP Columbia MS 7413 (1970) sottolinea come «Contrariamente alla Patetica, dove la bellicosità dell’Allegro iniziale si smorza via via fino a concludersi con un Rondò di modeste pretese, la Chiaro di luna è un continuo crescendo emotivo
dalla prima all’ultima nota.», trad. it. di Anna Bassan Levi in Glenn Gould, L’ala del turbine
intelligente. Scritti sulla musica, Adelphi edizioni, Milano 1988, p. 101, cit. anche in Maurizio
Giani, Appunti sulla ricezione analitica della Sonata Al chiaro di luna cit., p. 25.
80 Mario Carrozzo – Wilma D’Ambrosio, La teoria musicale di Hugo Riemann e l’analisi della Sonata
op. 27 n. 2, in Egidio Pozzi (a cura di), I classici dell’analisi cit., pp. 79-117, alle pp. 99-100.
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in Fa minore (1793-95), nella quale la velocità e la violenza del finale, «Prestissimo», creano un notevole stacco con i tre movimenti precedenti.81
In ultima analisi si potrebbe forse pensare che anche l’originale successione dei movimenti della Sonata op. 27 n. 2 derivi dalla genesi del primo
movimento come pezzo a sé stante, ovvero da un piano di lavoro che è
andato sviluppandosi in due momenti temporali distinti.
81 Il primo movimento della Sonata op. 2 n. 1 è tuttavia un regolare «Allegro», e non un adagio.
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Quanto la musica “dà alla testa”:
la sinfonia che influisce sul cervello
di Pietro Pietrini, Daniela Bonino, Giuseppina Rota, Emiliano Ricciardi
Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica, Università di Pisa
Introduzione
Cosa succede nel nostro cervello quando ascoltiamo un pezzo musicale? Come nasce una composizione? Quali meccanismi cerebrali sono coinvolti nella moltitudine di processi che sono alla base dell’interpretazione
di una rappresentazione artistica? Quanto della capacità artistica è talento
innato e quanto, invece, è frutto di uno studio assiduo?
La musica è una forma d’arte universale, strettamente connessa ad altre
discipline artistiche come il ballo e il canto. Nello specifico, le abilità e le attività di un musicista richiedono l’esecuzione di diversi compiti altamente
sofisticati d’integrazione multimodale sensoriale, motoria e cognitiva. Tra
questi ci sono, ad esempio, la percezione della tonalità, la ”cattura” del
ritmo musicale, la lettura dello spartito, la composizione, il trasporto emotivo, la destrezza manuale, l’apprendimento e la memorizzazione. È stato
dimostrato che queste attività richiedono il reclutamento di molte aree del
nostro cervello, tra cui la corteccia motoria, le aree sensoriali della corteccia visiva occipitale e uditiva temporale e la corteccia prefrontale, ma
anche strutture più profonde, tra cui l’ippocampo, l’amigdala, il nucleo
accumbens e il cervelletto (Levitin e Tirovolas, 2009). Nella vita dell’uomo,
difficilmente troviamo un’altra attività che risulta ugualmente capace di
coinvolgere il nostro cervello in modo così diffuso. Questo aspetto caratteristico della musica ha indotto da sempre gli scienziati a domandarsi se il
cervello di un musicista, o di chi possiede particolari abilità musicali, fosse
così diverso da quello di un soggetto normale.
Gli sviluppi delle neuroscienze cognitive negli ultimi venti anni e, in
particolare, delle metodologie di esplorazione funzionale in vivo del cervello consentono oggi di avere una vera e propria “finestra biochimica”
sul cervello in azione. I processi consci e inconsci che giocano un ruolo
nell’ascolto o nell’esecuzione musicale, gli effetti dell’addestramento continuativo, il talento artistico hanno tutti una corrispondente base cerebrale
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la cui comprensione è condizione necessaria per lo sviluppo di strategie
di apprendimento sempre più sofisticate e personalizzate. Ad esempio,
prendendo spunto dall’esperienza emotiva dell’ascolto musicale, recenti
studi si sono focalizzati sullo studio di attività neuronali di aree del cervello, come l’insula, il giro del cingolo, l’ipotalamo, l’amigdala e la corteccia prefrontale, che intervengono normalmente nella modulazione della
risposta affettiva e nella regolazione del comportamento. Si è visto inoltre
come la competenza musicale modifichi plasticamente la struttura della
corteccia cerebrale, mettendo enfasi sul ruolo dell’ambiente in cui si vive
e degli stimoli culturali nello sviluppo cerebrale. Inoltre, un crescente numero di studi preliminari sta contribuendo a dimostrare gli effetti benefici
della musicoterapia, per esempio, in pazienti con patologie neuropsichiatriche, tra cui la malattia di Alzheimer. Sfortunatamente, per il momento,
una solida base di validità e applicazione scientifica della musicoterapia
ancora manca (Boso e coll., 2006). Lo scopo di questo articolo sarà pertanto di fornire una generale panoramica sugli effetti noti generati dalla
musica sul cervello umano.
La musica: un fenomeno innato
La musica entra nella percezione e nei processi di apprendimento ancora prima che il neonato venga alla luce. Alcuni studi hanno dimostrato che neonati di una settimana sono in grado di riconoscere una ‘ninna
nanna’ cantata dalla madre durante la gravidanza. Le ninna nanne già
percepite attraverso la voce materna durante il periodo gestazionale sembrano inoltre avere un maggiore effetto calmante sul neonato, rispetto ad
altre melodie. Hepper (1991), per esempio, ha dimostrato questo effetto di
melodie conosciute su neonati di 2 e 4 giorni. Ciò dimostrerebbe come la
musica faccia parte della nostra esistenza anche nelle fasi più precoci. L’innatezza della sensibilità alla musica trova conferma in ulteriori studi che
hanno testato la capacità di identificare cambiamenti nel contorno tonale
di diverse melodie presentate, sia in bambini (Chang e Trehub, 1977; Trehub e coll., 1984) che in adulti (Trainor e coll., 1999), indipendentemente
dalla loro esperienza musicale.
Queste osservazioni inducono a pensare ad una predisposizione del
nostro cervello nei confronti della musica: basti pensare a come i bambini
di pochi mesi siano attratti dalle melodie al punto di fermare l’attività di
gioco e cominciare ben presto a canticchiare e a ballare. Le ninna nanne,
così come le filastrocche materne, sembrano poi rivestire un ruolo molto importante nell’apprendimento del linguaggio, dalla produzione della
prima lallazione, sino alla comprensione dei contenuti emotivi della parola (Schön e coll., 2008). La musica sembra, quindi, nascere con l’uomo e
rivestire un particolare fascino attrattivo, oltre ad un ruolo benefico sullo
sviluppo.
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P. Pietrini, D. Bonino, G. Rota, E. Ricciardi
Gli effetti benefici della musica. Dice il saggio:
“Canta che ti passa”
Non ci sorprende, pertanto, che accanto al ruolo estetico e artistico della musica, siano state evidenziate anche le potenzialità terapeutiche. Un
training musicale può sortire effetti positivi sulle abilità non solo linguistiche, ma anche matematiche e sul quoziente d’intelligenza in generale
(Hannon e Trainor, 2007; Schellenberg, 2004, 2005; Trainor, 2005; Trehub e
Hannon, 2006; Trainor e coll., 2009).
Inoltre, la musicoterapia va sempre più diffondendosi, a fronte di effetti benefici prodotti dall’ascolto e pratica musicale. In pazienti affetti da
malattie estremamente invalidanti e soggetti ad isolamento forzato prolungato, con consecutivo deterioramento dell’interazione sociale e impoverimento dell’autostima, la musica favorisce una maggiore propensione
alla socialità, maggiore sicurezza in se stessi e soddisfazione personale
(Fukamizu e coll., 2009). Un effetto positivo della musicoterapia sull’umore è stato riscontrato anche in pazienti sottoposti a terapie neuroriabilitative (Magee e Davidson, 2002). Inoltre, in pazienti affetti da malattia di
Alzheimer la musicoterapia sortisce ottimi effetti, al punto che nel 2001
l’American Academy of Neurology ha indicato la musicoterapia come una
tecnica per migliorare le attività funzionali e ridurre i disturbi del comportamento in questo tipo di malati. Nonostante il rapido decadimento
cognitivo legato alla malattia, i malati di Alzheimer preservano intatte
alcune abilità e competenze musicali fondamentali, come l’intonazione,
la sincronia ritmica e il senso della tonalità. Tali caratteristiche cognitive
forniscono alla musica un canale di accesso al malato per migliorare la
condizione clinica tipica di tale patologia (Guentin e coll., 2009a,b).
Anche se la musicoterapia risulta una conquista dei nostri tempi, gli
effetti positivi della musica sono ben noti da secoli. Un esempio classico
viene offerto dal paziente con afasia articolatoria, ossia con una difficoltà
nella produzione di parole nella lingua parlata, conseguente ad un danno
a livello dell’area di Broca, una regione della corteccia prefrontale sinistra
che sottende l’elaborazione del linguaggio (cfr. Fig.1). Questi pazienti risultano avere minori difficoltà ad esprimersi cantando, rispetto a quando
parlano normalmente. Per questa ragione, Schlaug e coll. (2010) hanno
sottoposto questo tipo di pazienti alla melodic intonation therapy, una terapia in cui vengono sfruttate l’intonazione di parole e frasi semplici con il
contorno melodico tipico della prosodica linguistica, la cui produzione è
accompagnata e scandita ritmicamente dal battere della mano sinistra, favorendo la fluenza verbale. Tale metodica presuppone compiti motori ed
aspetti cognitivi che coinvolgono l’area corrispondente alla corteccia omologa della citata area di Broca, nell’emisfero destro, per questo i pazienti
con afasia articolatoria riescono ad eseguirla. Proprio il reclutamento di
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tali aree dell’emisfero destro, indotto dalla melodic intonation therapy, nonché la formazione di nuove connessioni corticali quale fenomeno indotto
dalla plasticità, sembrano essere alla base dell’effetto positivo della musicoterapia in questi pazienti afasici (per un approfondimento, vd. anche
Johanson, 2010).
Fig. 1 Le più importanti aree del linguaggio
nel cervello umano sono l’area di Broca e
l’area di Wernicke, che si trovano a livello
dell’emisfero sinistro per i soggetti destrimani.
Mentre l’area di Wernicke si trova a livello delle
regioni temporo-parietali e sottende le abilità di
comprensione del linguaggio scritto e parlato,
l’area di Broca si localizza a livello prefrontale
e presiede alla combinazione dei fonemi per
comporre parole (da Wikimedia)
La musicoterapia è ampiamente applicata, con successo, anche nell’attività riabilitativa di persone autistiche, adulti o bambini che siano (Boso e
coll., 2007). Si ipotizza che il motivo di tale successo sia il coinvolgimento
del sistema dei mirror neurons, poco funzionale in questa patologia, ma
sollecitato dalla produzione musicale (Wan e coll., 2010). Tali neuroni, collocati nella corteccia premotoria, sono fondamentali, non solo nella comprensione del comportamento altrui, ragione per cui è stata loro attribuita
la definizione di neuroni specchio, ma anche nell’apprendimento, come
dimostra il ruolo della familiarità con l’azione specifica nel loro reclutamento, e nel percorso riabilitativo.
Questi non sono che alcuni esempi delle molteplici applicazioni della
musicoterapia. Gli effetti benefici della musica descritti su apprendimento, umore, abilità sociali, applicabili, quindi, sia ad aspetti psichiatrici che
cognitivi, fanno sorgere numerosi quesiti sul ruolo della musica nel campo dell’emozione, come nel funzionamento fisiologico cerebrale.
La musica e le emozioni
Quello di ‘fare musica’ sembra essere un bisogno innato nell’uomo. Presente in tutte le società umane, la musica è stata prodotta fin dalle epoche
storiche più antiche. Perché gli uomini sentano il bisogno di creare musica
rappresenta un mistero dal punto di vista evoluzionistico. La musica, infatti, non sembra portare a nessun vantaggio immediato dal punto di vista
biologico. Per spiegare questa apparente mancanza di valore biologico,
alcuni hanno teorizzato che la musica si sia evoluta e mantenuta nel corso
della storia grazie alla sua capacità di veicolare emozioni (Trainor, 2008).
La musica si sarebbe preservata perché veicolo di risposte fisiologiche
filogeneticamente antiche che fungono da “dispositivi” bioregolatori deputati alla sopravvivenza e all’adattamento all’ambiente. La musica può
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suscitare emozioni condivise, e può funzionare da legante comunitario.
Un aspetto, questo, che avrebbe facilitato e promosso l’integrazione degli individui in gruppi sociali ampi e, in definitiva, facilitato la cooperazione dei membri della comunità (Trainor, 2010). La musica viene usata
universalmente in occasione di eventi e cerimonie che hanno una grande
importanza dal punto di vista sociale. In queste circostanze, siano esse
felici, come durante un matrimonio, o tristi, come durante un funerale, la
musica riesce ad amplificare le emozioni dei presenti, creando un’unità di
sentire del gruppo. In questo senso, la musica potrebbe essere stata veicolo
di integrazione dei primi gruppi umani ed elemento che ne ha promosso
la sopravvivenza nel corso della storia.
Ma perché ci emozioniamo? E perché la musica riesce spesso a ‘toccarci
il cuore’? Le emozioni hanno da sempre affascinato gli esseri umani. Fin da
epoche antiche, infatti, filosofi e medici hanno cercato di spiegare perché
ci emozioniamo, e hanno cercato di capire quale fosse l’origine di questo
fenomeno. La teoria umorale, ad esempio, concepita da Ippocrate, il medico
greco considerato il “padre” della medicina, identificò nell’eccesso di uno
dei quattro umori, il fuoco, l’acqua, la terra o l’aria, la predisposizione ad un
temperamento e ad una costituzione fisica specifica. Ippocrate individuò
un’associazione tra temperamento e stati emotivi specifici. Un individuo
dalla personalità “sanguigna”, ad esempio, avrebbe la predisposizione a
mostrarsi più gioviale ed allegro, mentre la vita affettiva del “flemmatico”
sarebbe meno perturbata da tali eccessi emozionali. Secondo Ippocrate, il
buon funzionamento dell’organismo dipenderebbe dall’equilibrio dei quattro elementi, uno stato questo, definito eucrasia, mentre l’eccesso dell’uno o
dell’altro sarebbe causa di squilibri e condurrebbe all’insorgenza della patologia. Questa visione ha dominato la scena medica a lungo. Ancora nel Seicento, nell’Europa del Nord, infatti, molti pazienti venivano curati mediante l’uso di una sedia rotante, un dispositivo meccanico in grado di ruotare
ad alta velocità e “ri-mescolare” gli umori dei pazienti che vi si sedevano,
ripristinando così il bilanciamento umorale perduto.
La teoria umorale, che può apparire fantasiosa agli occhi di noi contemporanei, ha però avuto il merito di aver messo in evidenza lo stretto
nesso che lega gli stati emotivi ai loro correlati fisiologici. Ad emozioni
come la paura, infatti, si accompagnano grandi sconvolgimenti nell’organismo che coinvolgono il sistema nervoso, cardiovascolare, e respiratorio.
Di fronte ad un pericolo, infatti, l’individuo deve rispondere in modo da
preservare la propria sopravvivenza, tipicamente mediante l’attacco o la
fuga. In queste circostanze, quindi, ritmo e frequenza cardiaca aumentano.
Nello stesso modo, si ha un incremento della quantità di sangue pompato
ad ogni battito e della traspirazione. I cambiamenti fisiologici che avven-
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gono in concomitanza di forti stati emotivi sono stati ben descritti dalla
poesia ancora prima di divenire oggetto di interesse da parte di medici e
fisiologi. Ne ha fornito una descrizione magistrale, ad esempio, Saffo, la
quale parlava del sovvertimento psicofisico che si prova alla vista della
persona amata: “Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e
la voce si perde sulla lingua inerte. Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e ho
buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente.” Emozioni intense, come l’attesa trepidante della persona amata, e la sorpresa
durante l’incontro fortuito della stessa, o, invece, più sfumate e durature,
come la tristezza melanconica o la nostalgia sono state spesso rappresentate ed espresse in musica.
È ben noto, infatti, come alcuni suoni abbiano il potere di suscitare risposte emozionali specifiche. Suoni forti e dissonanti, ad esempio, suscitano paura, mentre suoni rapidi e consonanti sono più spesso associati
ad emozioni gioiose. Le variazioni nella tonalità, nel ritmo e nell’energia
sono gli elementi fondamentali che contribuiscono a dare una specifica
valenza emotiva alla musica. Anche l’uso di suoni consonanti e la risoluzione della dissonanza in un concerto di consonanze è stata spesso usata
come mezzo di grande valore espressivo.
Le emozioni fanno sì che restiamo ancorati ad alcuni frammenti importanti del nostro passato, e che il passato trascolori in presente ogni volta lo
rivisitiamo con il potere della memoria. Ciò che ci emoziona lascia infatti
tracce indelebili nella nostra memoria. E, a distanza di anni, una melodia
ci può rapire dal presente per portarci con la mente al momento e alla
situazione in cui l’avevamo ascoltata. Può essere il caso, ad esempio, di
una cena con una persona cara dove la musica faceva da sottofondo della
serata.
La musica che accompagna situazioni fortemente emotive, inoltre, può
divenire essa stessa fonte primaria di emozioni. È il caso, ad esempio, delle celebri colonne sonore dei film di Sergio Leone. Qui la musica non si limita ad accompagnare l’azione, ma diviene essa stessa protagonista della
scena, e mezzo espressivo che fa vibrare emotivamente, senza bisogno di
ricorrere alla parola. Come per le emozioni, che si leggono sul viso dell’altro, o si percepiscono nei toni della sua voce, infatti, anche la musica si fa
veicolo di un linguaggio universale. Non capire il testo di una canzone
non ci impedisce di sentire ciò che la melodia ci comunica. Seguendo la
stessa logica, le madri che si rivolgono ai loro piccoli usano spontaneamente un’intonazione del parlato dal timbro e tonalità caratteristico. La
melodia della loro voce aiuta il neonato a modulare i propri stati emotivi
e, ad esempio, a calmarsi quando è in preda a stati di sconforto, o agitazione. Anche qui, sebbene i neonati non siano ancora in grado di capire la
semantica della parola, ne colgono appieno il significato.
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Anche nella poesia, le emozioni possono emergere dal suono delle parole. È questo quello che accade, ad esempio, in molti dei versi di Eugenio Montale. Nella poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo
strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato” la potenza iconica della melodia origina dai suoi toni spezzati e
duri. Così, è con la musica delle parole che Montale ci fa sentire il rumore
dell’acqua che scorre, l’arsura che contrae le foglie e il dolore del cavallo
che cade.
Gli studi di esplorazione funzionale in vivo del cervello sono ormai in
grado di mostrarci quali aree del cervello si ‘accendono’ durante l’ascolto della musica (Fig. 2) e rivelano il coinvolgimento di regioni cerebrali
implicate in processi altamente emotivi (Koelsch 2010), quali la corteccia
orbitofrontale e il nucleo accumbens, note per essere coinvolti nella sensazione di piacere e nei meccanismi di gratificazione. Gli studi metabolicofunzionali del cervello confermano, quindi, ciò che la poesia ci suggerisce
(La musica è una delle vie per le quali l’anima ritorna al cielo – diceva Torquato
Tasso), e cioè che il nostro cervello ci fa provare delle emozioni di grande
appagamento durante la percezione musicale.
Fig. 2 La figura mostra una
rappresentazione grafica delle aree
cerebrali implicate nell’ascolto
di brani musicali che provocano
un coinvolgimento emotivo
(Koelsch 2010). L’attivazione di
aree cerebrali quali l’amigdala, la
corteccia orbito frontale, il cingolo
anteriore, il nucleo accumbens,
l’area tegmentale ventrale (VTA),
l’ippocampo e il paraippocampo,
suggerisce come la musica sia in
grado di agire sul cervello con
la stessa portata di altri eventi
emotivamente salienti
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Quando la musica plasma il cervello: la plasticità corticale
Nell’ambito delle interazioni tra neuroscienze e musica, molte ricerche
si sono focalizzate sugli effetti dell’esperienza musicale nell’organizzazione della corteccia cerebrale. Nello specifico, è stato osservato che la competenza musicale, intesa come sapere suonare uno strumento, o cantare,
induce fenomeni di plasticità a livello del nostro cervello. Per plasticità
cerebrale si fa riferimento alla capacità dei circuiti nervosi di poter variare
struttura e funzione in risposta agli stimoli ambientali, ai cambiamenti
fisiologici, e all’esperienza, sia durante lo sviluppo, che nel corso della
vita adulta.
Al di là dei già citati studi che hanno riscontrato fenomeni di plasticità indotti, per esempio, in pazienti afasici dalla musicoterapia (Johanson,
2010; Schlaug e coll., 2010), altri gruppi di ricerca si sono concentrati sul
ruolo della conoscenza e dell’esperienza musicale in condizioni fisiologiche.
Un esempio dei cambiamenti plastici strutturali operati dalla competenza musicale è stato riportato da Schneider e coll. (2005) che hanno osservato come vi sia una differente dominanza emisferica nell’asimmetria
della materia grigia a livello della corteccia uditiva primaria, a seconda
dell’abilità di distinguere i toni musicali. Schlaug e coll. (1995) notarono
che i musicisti posseggono un corpo calloso – costituito da un insieme di
fibre che connettono i due emisferi cerebrali – più grande, rispetto ai non
musicisti. Questa caratteristica strutturale assicura una comunicazione interemisferica maggiore ai musicisti, caratteristica potenzialmente funzionale, per esempio, ad un’efficace coordinazione motoria utile per suonare
uno strumento musicale.
Elbert e coll. hanno preso in considerazione la corteccia somatosensoriale, una parte del nostro cervello organizzata topograficamente, in quanto
qui ogni parte del nostro corpo è mappata in una specifica area (somatotopica), dando luogo a quello che viene chiamato omuncolo (Fig.3) e che
si presenta come una buffa figura umana, con una grande bocca, piccole
orecchie, grandi mani, un piccolo busto e così via. Quanto più grande è la
parte del corpo rappresentata nell’omuncolo, tanto maggiore è la sensibilità percettiva della corteccia corrispondente ad essa. Davanti alla corteccia somatosensoriale, si trova la corteccia motoria che risulta ugualmente
organizzata in modo topografico.
Elbert e coll. (1995) hanno confrontato l’organizzazione corticale di
musicisti che suonano strumenti ad arco con quella di persone che non
suonano alcuno strumento di questo tipo. L’esperimento prevedeva la stimolazione del mignolo e del pollice di entrambe le mani, con l’obiettivo
di verificare se vi fossero differenze fra i due gruppi nell’attivazione della
corteccia somatosensoriale corrispondente. Effettivamente, i due gruppi
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Fig. 3: Omuncolo sensitivo (a sinistra) e omuncolo motorio. La raffigurazione somatotopica delle
percezioni sensoriali sulla corteccia somatosensoriale (giro postcentrale) e del controllo motorio sulle aree
della corteccia motoria (anteriore al solco centrale) (da Wikimedia)
reagivano in modo diverso: i musicisti avevano un’area di attivazione corticale maggiore, rispetto ai non musicisti, corrispondente alla stimolazione
della mano sinistra, ossia quella utilizzata per comporre gli accordi. Inoltre, la porzione di corteccia che risponde alla stimolazione tattile è tanto
più estesa quanti più sono gli anni di pratica del musicista. Sembra, cioè,
che la corteccia somatosensoriale si sia plasticamente riorganizzata in funzione della competenza musicale della persona. In questo caso, la grande
disputa ”nature versus nurture”, cioè dei geni verso l’ambiente, vedrebbe
la seconda vincitrice.
Un fenomeno simile è stato osservato nella corteccia uditiva dei musicisti da Pantev e coll. (1998) nel confronto fra musicisti con l’orecchio
assoluto (absolute pitch, ossia capaci di identificare note assolute) e musicisti con orecchio relativo (relative pitch, che identificano le note in relazione alle altre note del brano) ed un gruppo di controllo privo di alcuna
esperienza con strumenti musicali. In risposta alle note prodotte da un
pianoforte i due gruppi di musicisti attivavano una porzione corticale
maggiormente estesa, rispetto a quando udivano suoni puri sinusoidali
prodotti da un sintetizzatore. Tale differenza non è stata riscontrata nel
gruppo di controllo composto da non musicisti. Inoltre, anche in questo
caso, la maggiore competenza musicale si traduceva nella presenza di aree
di attivazione cerebrale marcatamente più estese. Nella medesima direzione vanno gli studi di Schlaug e coll. (1995), che hanno identificato una
corteccia uditiva primaria sinistra più estesa nei musicisti.
La plasticità corticale sembra essere legata non solo alla competenza
musicale generale, ma allo specifico campo di applicazione. Pantev e coll.
(2001) hanno dimostrato, ad esempio, che nei suonatori di violino e tromba la corteccia uditiva si attiva maggiormente durante l’ascolto di note
prodotte da strumenti reali rispetto a note sintetizzate; per di più, questi
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musicisti presentano una rappresentazione corticale più ampia quando i
suoni sono prodotti dallo strumento con cui hanno maggiore familiarità,
quindi o il violino o la tromba.
Il fattore della ‘familiarità’ motoria riveste un ruolo importante anche
per un’altra categoria di artisti del campo musicale: i ballerini. È stato dimostrato come il reclutamento corticale dei neuroni specchio in risposta a
video fosse maggiore per il tipo di ballo in cui si è maggiormente esperti
(nello studio venivano confrontati ballerini classici con ballerini di capoeira, Calvo-Merino e coll., 2005) e per il ruolo generalmente rivestito all’interno della diade ballante (ballerino maschio o femmina, Calvo-Merino e
coll., 2006). Tale sistema neuronale sembra rappresentare quindi una delle
strutture-chiave alla base dell’apprendimento efficace.
Anche il canto produce effetti di plasticità in entrambi gli emisferi cerebrali, in particolare, a livello della corteccia uditiva primaria, come hanno dimostrato Kleber e coll. (2010) nei cantanti di opera e in persone che
studiano canto al conservatorio. I cantanti lirici, inoltre, attivano un’area
aggiuntiva di corteccia somatosensoriale primaria destra, come ulteriore effetto della loro competenza musicale altamente specializzata. In tale
lavoro Kleber e coll. si sono spinti oltre, ed hanno osservato come l’expertise canoro elicitasse il reclutamento dei suddetti neuroni specchio, di
meccanismi di supervisione sensorimotoria (un sistema di neuroni atto a
potenziare il controllo cinestesico), nonché il coinvolgimento della memoria motoria implicita. Tali risultati chiariscono i potenziali effetti benefici
della musicoterapia e aprono nuove prospettive in campo riabilitativo.
Infine, effetti sul cervello della esposizione alla musica sono stati investigati e documentati anche negli animali. Uno studio recente ha dimostrato che cavie cresciute in un ambiente dove viene fatto ascoltare solo
rumore bianco (uno stimolo, cioè, privo di variazioni ritmiche e tonalità)
sono incapaci di discriminare variazioni ritmiche e di tonalità una volta
esposti a tali stimolazioni acustiche (Chang e Merzenich, 2003). L’esposizione dalla nascita o dalla prima infanzia alla musica, sembra essere quindi una condizione essenziale per la capacità di discriminare caratteristiche
della musica stessa. Anche qui la disputa “nature versus nurture”‘ vedrebbe la seconda vincitrice.
Concludendo…
La musica accompagna atavicamente il genere umano, è un fenomeno
transculturale. La percepiamo sino da quando siamo nel grembo materno.
Con lo sviluppo, diventa un buono strumento di mediazione, importante anche nell’apprendimento del linguaggio, colorando la nostra vita di
emozioni.
Gli effetti benefici della musica pervadono anche il campo riabilitativo,
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suggerendo l’importanza di questa forma d’arte per arricchire l’uomo. La
musica pervade l’esperienza umana, lasciando traccia del suo passaggio
anche nell’organizzazione plastica cerebrale.
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La grande “voce” della colonna sonora italiana
Un genere musicale di nessun conto
di Pier Marco De Santi
In Italia, fino a tutti gli anni Ottanta, la musica per il cinema – e, più in
generale, la cosiddetta “musica di scena” e quella per il musical – non avevano benché minimo “diritto di cittadinanza”; o (quando andava bene)
venivano considerate discipline di scarsissimo conto. I distinguo tra i musicisti “classici” – anche quelli contemporanei che (oggi si può dire) non
avevano nessun appeal per essere inseriti in questa categoria – e i “poveri”
compositori di colonne sonore non erano neppure ammessi; e i paragoni
per niente tollerati. Non c’era enciclopedia né pubblicistica musicale nella
quale si desse la dovuta e giusta attenzione al più grande fenomeno che,
insieme alla canzone, ha significativamente segnato il panorama musicale
del Novecento. I musicologi – paludati e non – avevano (e hanno ancora)
la “puzza al naso”, i teatri non davano nessuna ospitalità a questo genere
di musica e i conservatori gli chiudevano sprezzantemente la porta.
I motivi – se c’erano – (ma sarebbe meglio dire, l’ostracismo, l’intolleranza e il rigetto) derivavano dalla difesa a oltranza della musica seriale
e atonale rispetto al persistere della tonalità, non più ritenuta “contemporanea” e degna dei tempi; giungendo persino a negare la dignità “professorale” di un suo insegnamento. Per la “musica da film”, dunque, niente
conservatori né teatri; e nessuno spazio nella saggistica “seria”: un’idiozia storica e storico-critica tutta e sola italiana. Mi ricordo che quando,
nei primi anni Ottanta, realizzai per la Rai – insieme al Maestro Riccardo
Moretti – la fortunata serie (con un indice di ascolto altissimo) di tredici
trasmissioni radiofoniche sulla Storia della colonna sonora italiana, non ci fu
nemmeno una recensione e tutti i critici musicali del tempo che “contavano” (sia dei quotidiani che delle riviste specializzate) si guardarono bene
dallo scrivere un rigo.
Di questo clima di pregiudizi, più di tutti, furono vittime – talvolta,
con grandi frustrazioni esistenziali – i musicisti che, agli occhi dei loro
colleghi (spesso, impropriamente sugli altari) dovevano chinare il capo
per cospargersi di cenere dalla vergogna per aver abbracciato una disci-
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La grande “voce” della colonna sonora italiana
plina tanto “terra-terra”. Non parliamo poi dei professori di conservatorio e dei musicologi che, pur non conoscendo niente nel campo della
colonna sonora e prendendo le distanze dal cinema come dalla peste, si
sentivano aprioristicamente in dovere di esprimere giudizi trancianti al
solo nominare le parole “musica da film”. Negli anni Cinquanta si scriveva che le musiche per il cinema di Enzo Masetti, di Renzo Rossellini, di
Angelo Francesco Lavagnino, di Alessandro Cicognini erano paccottiglia;
con qualche “ruffiana” e deferente distinzione, ad esempio, per quelle di
Ildebrando Pizzetti, di Gian Francesco Malipiero, di Goffredo Petrassi, di
Mario Zafred che, tuttavia, ancora oggi l’Enciclopedia Universale della
Musica “Garzanti” nemmeno cita.
E, per quanto riguarda i “grandi” della colonna sonora italiana, dagli
anni Sessanta in poi (almeno fino a metà dei Novanta), l’editoria nazionale non ha permesso di scrivere niente, ritenendo che l’argomento – nel
campo degli studi musicali – fosse di nessun peso e di nessun interesse.
Intanto, grandi direttori, come Franco Ferrara o come Fernando Previtali
e Bruno Maderna, erano alla guida di orchestre e di esecutori eccellenti,
per rendere al massimo sullo schermo la qualità e la consistenza musicale
di tante pagine di notevole pregio dei loro colleghi compositori: in primis,
Nino Rota. Tutto questo, mentre alla ribalta del cinema italiano si affacciavano e si affermavano nel mondo musicisti come Carlo Rustichelli, Armando Trovajoli, Riz Ortolani, Ennio Morricone, Luis Bacalov, Nicola Piovani e tanti altri ancora, fino – oggi – a Carlo Crivelli, Luca Guerra, Franco
Piersanti, Luigi Einaudi, Dario Marianelli, tanto per citare qualche nome.
In sostanza, se in tutti gli altri Paesi europei e nelle grandi nazioni del
mondo (dagli Stati Uniti alla Russia al Giappone) i grandi compositori di
colonne sonore sono “portati in palmo di mano” e ammirati come Maestri,
al punto che i massimi teatri dedicano loro il dovuto spazio in rassegne e
concerti, da noi si continua ancora oggi con lo stesso andazzo di sempre;
naturalmente, con qualche nobile eccezione: si pensi ai concerti diretti da
Bacalov, Morricone e Piovani.
Tornando agli anni che ci interessano, dal dopoguerra agli Ottanta, voglio qui ricordare alcuni episodi ai quali ho partecipato personalmente e
raccontare ai miei lettori qualche aneddoto “illuminante”.
Cicognini, Rota, Morricone
Il primo riguarda il maestro Alessandro Cicognini, compositore principe per i film di Alessandro Blasetti, di Amleto Palermi, di Vittorio De Sica
e autore di tutte le colonne sonore dei film della serie Don Camillo. L’autore delle musiche di Ladri di biciclette e di Miracolo a Milano, oltre che di
partiture “classiche” di ogni genere, già direttore di tanti conservatori, era
– all’epoca dei miei incontri (1981/1983) – in pensione. Viveva a Roma in
uno splendido appartamento vicino a Piazza del Popolo e passava le sue
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giornate solitarie in una mansarda attigua ascoltando il terzo programma
della radio.
La prima volta che lo andai a trovare, con lo scopo di un’intervista ai fini
della stesura di un saggio sulla sua quarantennale attività di compositore
di colonne sonore, mi disse malinconico (gelando così il mio entusiasmo)
che non aveva più nessuna partitura da farmi vedere perché “aveva gettato tutto nel Tevere” e che del suo lungo sodalizio con il cinema non voleva
più sentire parlare. Le motivazioni? La profonda disillusione e amarezza
di fronte alla scarsissima considerazione dei critici, dei musicologi e della
stragrande maggioranza dei colleghi professori di conservatorio. “Il nostro”, concluse, “è un mestiere che in Italia non conta niente”.
Non so se, con le mie affettuose e ostinate frequentazioni, sono riuscito
a convincerlo del contrario. So soltanto che da Cicognini ho imparato tanto e che le sue colonne sonore sono – spesso – degli autentici capolavori,
oggi unanimemente riconosciuti in tutto il mondo.
Il secondo aneddoto riguarda Nino Rota, il “genio della musica da
film”, come lo ha una volta definito il suo grande amico ed estimatore Igor
Stravinski. Nino Rota era un uomo “fatto di musica”, come diceva Fellini e
al suo attivo ha scritto 140 colonne sonore: per i film di Renato Castellani,
di Mario Soldati, di Eduardo De Filippo, di Federico Fellini, di Luchino
Visconti, di Mario Monicelli, di Lina Wertmuller e di tanti altri, da King
Vidor a René Clement, da Henry Cass a Sergej Bondarciuk. Premio Oscar
per le musiche del Padrino (Parte II) di Francis Ford Coppola, Rota non si
è mai sentito in soggezione di fronte a nessuno. “In tutti i campi e in tutti
i generi, quando la musica è buona musica, non ci sono santi né critici che
tengano”, mi diceva spesso. E questo è un insegnamento che mi è rimasto
impresso nella mente come un marchio indelebile. In epoca di “atonalità”,
non gli si perdonava il suo coriaceo e convinto amore per la “tonalità” e
non si assolveva certamente per quello che era considerato come il suo
massimo “peccato mortale”: cioè, di aver dato il suo acume musicale e
la sua disponibilità nel comporre le “canzoncine” dello sceneggiato televisivo Il giornalino di Gian Burrasca di Lina Wertmuller. Quella Pappa col
pomodoro è rimasta indigesta a tutti.
Ciò nonostante, poiché Nino Rota era un “potente”, nessun sovrintendente di teatro – con lui sempre ossequioso - gli negava mai lo spazio per
l’esecuzione in anteprima di una sua qualunque composizione. Nell’ultima stagione teatrale della sua vita – 1979 – ben tre teatri misero in cartellone opere di Rota: Il cappello di paglia di Firenze, La visita meravigliosa, Napoli
milionaria. Mi ricordo che, a proposito de La visita meravigliosa, l’apertura
della recensione livorosa a quattro colonne di Paolo Isotta recitava “Non si
salva l’opera di Nino Rota”; e il maestro aggiunse a matita, nella copia del
giornale che ancora conservo, “da quaranta minuti di applausi!”.
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La grande “voce” della colonna sonora italiana
Dopo la morte di Nino – e qui è l’aneddoto – nessun teatro in Italia ha
più aperto le porte alla sua musica e non c’è stato più modo di ascoltare
una nota. Oggi, nel mondo si eseguono a decine concerti con le suites delle
sue colonne sonore (in partitura originale o in arrangiamenti di ogni tipo e
strumento), gli si dedicano (dal Coven Garden al Bolshoi) memorabili serate; si incidono in cd le sue musiche per film (lo ha fatto, a metà degli anni
Novanta, anche il suo allievo Riccardo Muti);e la sua opera omnia (sinfonie,
concerti, sonate, cantate, opere, balletti), è divulgata ovunque.
Il terzo e ultimo aneddoto è dedicato a un altro “gigante della colonna sonora”: Ennio Morricone. A metà tra la malinconica e ingiustificata
disperazione di Cicognini (tacciato di scrivere un tipo di musica assolutamente “minore” e da dimenticare) e la serena vitalità artistico-musicale
di Rota (per il quale la cosiddetta “semplicità” della musica per il cinema
era un “faticoso punto di arrivo e non un banale punto di partenza”, da
difendersi di fronte a chiunque), Morricone non ha mai negato il cosiddetto “distinguo di valore e di merito) tra la musica per film e la “musica
seria”. Allievo di Petrassi, ha – al contrario – sempre perseguito, nella sua
prolificissima e magistrale attività compositiva, la convinzione di questa
– a mio giudizio errata – dicotomia. Tanto è vero che, nello scrivere la
cosiddetta “vera musica seria”, il Maestro rifugge sistematicamente dalla
tonalità e segue, perciò, unicamente i dettami dello sperimentalismo contemporaneo che, dal mio punto di vista, fanno solo la gioia dei critici e
dei musicologi “di nicchia” e rinunciano neghittosi all’ascolto e ai favori
del grande pubblico. Pubblico che, al contrario, dimostra il suo più incondizionato consenso e apprezzamento di fronte agli splendidi concerti di
colonne sonore, che lo stesso Morricone da qualche anno dirige.
Ma veniamo all’aneddoto. Agli inizi degli anni Ottanta, le cose in Italia,
almeno per quanto riguarda l’esecuzione in concerto della musica da film,
non andavano per niente bene nemmeno per Morricone. Erano, questi, gli
anni in cui – come già avevo fatto con Nino Rota e con Cicognini, nell’intenzione di scrivere un libro anche sulle colonne sonore di Morricone e
con l’auspicio di poter curare la fattibilità e la realizzazione di un concerto
dedicato alla sua “arte musicale” – avevo preso contatto con il Maestro e
ne frequentavo spesso la favolosa casa in via dell’Ara Coeli a Roma. E’ in
quell’occasione che curai il programma di sala di una serie di quattro concerti di musiche da film che – su mio suggerimento – Morricone promosse
con l’orchestra sinfonica della Rai, nella stagione estiva di Villa Ada: il
primo dedicato a Nino Rota; il secondo con le musiche dello stesso Morricone; il terzo dedicato a Maurice Jarre; il quarto con le musiche dell’allora
astro nascente John Williams.
Il successo di pubblico fu clamoroso, ma la critica ancora una volta
lasciò perdere, senza proferir parola. Comunque sia, mi sentivo pronto – e
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mi sbilanciai con Morricone che, naturalmente, mi concesse il suo amichevole placet – per riproporre anche in Toscana, nell’anno in cui Firenze
era stata designata “Capitale d’Europa”, lo stesso concerto con le colonne
sonore del Maestro che tanto successo popolare aveva avuto a Roma. Ma
le cose non andarono come speravo. Il soprintendente del Teatro Comunale di Firenze, Giorgio Vidusso, non prese nemmeno in considerazione
la proposta e l’allora assessore alla cultura del comune di Firenze, Giorgio
Morales, mi rispose “a picche”.Mi vergognai a tal punto – per me e per
loro – che non ho mai avuto il coraggio di dire l’accaduto a Morricone (di
dirgli, in sostanza, che la sua musica per film non aveva il benché minimo riconoscimento e interesse da parte di nessuno dei massimi esponenti
musicali e culturali della mia regione) e, da quel momento in poi, non ho
più rivisto il Maestro.
Oggi qualcosa è cambiato?
“Bisogna che tutto cambi affinché tutto resti uguale”: è, questa, la celeberrima frase che Tommasi di Lampedusa nel suo libro e Luchino Visconti
nel suo film mettono in bocca al Principe Fabrizio di Salinas. La fulminante affermazione del Gattopardo è, oggi, di un’attualità sconvolgente: vale
per tutto e, dunque, anche per la musica da film.
In questi ultimi venti anni, alcuni conservatori hanno istituito la cattedra di “Storia della colonna sonora”; io stesso – tra i rarissimi docenti italiani – tengo all’Università di Pisa l’insegnamento di “Musica e Cinema”;
all’Accademia Chigiana di Siena, Morricone prima e Bacalov dopo hanno
tenuto e tengono i prestigiosi corsi estivi di perfezionamento sulla “musica da film”; i concerti di Morricone, Piovani e Bacalov sono presi d’assalto.
Ma, seppure questi barlumi di luce sembra “aprano” al cambiamento, il
cambiamento è ancora del tutto sporadico e dovuto alle iniziative e alla
buona volontà dei singoli musicisti e studiosi.
In realtà, tutto (o quasi) è restato uguale. La critica che conta – di fronte alla musica da film – continua ad avere la puzza al naso; i musicologi
“puristi” e di sicura “fede accademica” continuano a sprezzarne il valore
e la portata; i cosiddetti “teatri di tradizione” balbettano e non si sognano
minimamente di mettere in cartellone una nota che una di cinema.
Intanto, nel mondo, accade proprio il contrario e nei programmi delle
maggiori istituzioni teatrali si dà ampio spazio anche ai grandi Maestri
della colonna sonora (viventi e non), considerando le loro composizioni
come un Bene Culturale non solo nazionale, ma dell’umanità.
Il prossimo anno ricorre il centenario della morte di Nino Rota. Vogliamo scommettere che non ci sarà, in Italia, nessun “grande teatro” che
lo ricorderà – appunto – in quanto indiscusso “principe mondiale della
musica da film”?
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Intervista a Luis Bacalov
di Sara Matteucci
LUIS BACALOV è stato ospite della scorsa stagione di “Boccherini OPEN”,
con il suo ormai affermato seminario dal titolo “Funzioni della musica nel cinema”, tenuto il 7 e 8 giugno 2010 in due intensi pomeriggi offerti gratuitamente
dall’Istituto Musicale “Boccherini”.
Luis Bacalov, celebre compositore argentino particolarmente noto al grande
pubblico per le sue colonne sonore cinematografiche (premio Oscar per le musiche
de Il Postino nel 1995), ha messo la propria esperienza e competenza nel campo
della musica applicata a disposizione di musicisti, studenti e appassionati, illustrando il ruolo della musica in abbinamento con l’immagine, attraverso ascolti,
analisi di frammenti cinematografici e di partiture musicali. Da anni infatti il
noto musicista dedica parte della propria attività anche alla didattica: oltre al
suddetto seminario, Bacalov tiene attualmente anche il corso di “Composizione di
musica per film” presso l’Accademia Chigiana di Siena e all’Accademia di cinema
ACT Multimedia a Cinecittà a Roma.
Approfittando della sua presenza all’Istituto Musicale lucchese, abbiamo colto
l’occasione per porgli alcune domande.
Quale contributo può portare la musica per film nell’ambito della
produzione musicale contemporanea?
Ne individuo più di uno. Primo, il valore dell’aspetto “artigianale” del
fare musica, e del porsi con sufficiente umiltà da considerare il film come
ciò che, in qualche modo, governa la musica. Con questo voglio dire che
non è possibile prendere un film a pretesto per scrivere la musica che un
compositore vorrebbe produrre in maniera indipendente: questo sarebbe
un errore. Talvolta si incontrano musicisti che non hanno molta esperienza in questo campo e che dimostrano proprio tale tendenza. La seconda
considerazione che farei è che, grazie alla natura delle esigenze cinematografiche, é cosa ordinaria utilizzare linguaggi musicali che, proprio perchè
supportati da una narrazione, possono facilmente veicolare le stesse esperienze contemporanee che spesso nelle sale da concerto trovano ostilità o
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S. Matteucci
disinteresse, fino addirittura a indurre il pubblico ad andarsene. Al cinema invece non se ne va nessuno per questa ragione.
Visto che, quindi, una buona musica per film è principalmente quella che rende il miglior servizio al film stesso, in che misura secondo lei è
importante e va salvaguardata in questo contesto l’unicità della “voce”
musicale di un compositore?
È una cosa abbastanza complessa. In genere, i musicisti che si dedicano
alla musica applicata sono dal mio punto di vista un po’ borderline tra artigianato e arte, e dunque dotati di una particolare flessibilità e, come già
detto, devono riuscire anche a dimostrarsi abbastanza umili, poiché non
sono nella posizione di poter anteporre la loro più profonda personalità,
se ce l’hanno, al fatto che in quel momento stanno servendo un film. Se
il musicista ha un suo stile al di fuori dal cinema e intende conservarlo,
questo potrebbe entrare molto in contraddizione con il miglior servizio al
film. Un compositore che ha uno stile molto strutturato e non vuole allontanarsene dovrà quindi dedicarsi soltanto ad alcune tipologie di film, ovvero quelli che siano compatibili con il suo stile musicale; in caso contrario
sarebbe un errore per il compositore stesso e allo stesso tempo per chi gli
avrebbe commissionato la musica del film.
Quali sono secondo lei i requisiti che un compositore deve necessariamente avere per poter lavorare proficuamente nel cinema?
Innanzitutto il compositore deve saper vedere il film con molta attenzione, cosa che paradossalmente non è sempre così scontata come potrebbe sembrare. È necessario poi poter contare su una buona conoscenza della storia della musica per film e della storia del cinema stesso e, ancora una
volta, bisogna dimostrare flessibilità e porre l’attenzione verso la ricerca di
una via musicale migliore per il servizio del prodotto cinematografico. È
necessario inoltre saper lavorare dialetticamente con il regista, non tanto
per seguire pedissequamente le sue richieste, ma per poter discuterne insieme e cercare di comprendere a fondo la visione autoriale e i motivi per
cui egli richiede un certo tipo di composizione musicale.
Che ruolo gioca al giorno d’oggi la tecnologia nel processo di produzione di una colonna sonora?
Questo dipende dal compositore. Alcuni utilizzano le nuove tecnologie
molto bene e in maniera intelligente, altri no. La tecnologia in sé non garantisce una sufficiente creatività e di sicuro non è in grado di rimpiazzare
quella del musicista. Secondo me la miglior maniera di utilizzare la tecnologia è quella di servirsene per realizzare ciò che gli strumenti tradizionali
non possono fare. Il compositore si può servire della tecnologia più sofisticata, ad esempio, per ottenere risultati che non possono essere ottenuti
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Intervista a Luis Bacalov
da un’orchestra. Quindi, sostanzialmente, la tecnologia ha un ruolo “neutrale” e può essere quindi utilizzata in modo interessante oppure catastrofico: dipende solo da chi la usa e come.
Quanto e in che forma si sente ancora legato alla produzione musicale del suo paese d’origine?
Molto. Uno dei miei percorsi musicali è partito infatti proprio dalle
radici collegate alle musiche urbane argentine e in particolare della città di
Buenos Aires. In molti pezzi che ho scritto si può individuare un substrato
proprio di quella musica popolare urbana, che ho spesso usato anche per
la realizzazione di musiche abbastanza complesse. Si può dire quindi che
l’humus c’è.
Nella sua carriera ha scritto la musica per ben oltre cento film: c’è
qualche nuova esperienza adesso che avrebbe piacere a intraprendere?
Nel campo della musica per film, direi non più. Ho lavorato tanto per
il cinema e adesso mi dedico un po’ meno a questo ambito. In questo momento ci sono invece aspetti che mi interessano di più, e in particolare
scrivere musica per il teatro, soprattutto per la ricerca di una nuova drammaturgia musicale; attualmente mi occupo di più di questo settore che del
cinema, anche se non ho niente in contrario a mettermi all’opera nel caso
che mi offrano di scrivere la musica di un film interessante. Semplicemente non me la vado a cercare.
Quali sono i suoi progetti futuri?
A partire dal mese di dicembre 2010 ho una serie di concerti da realizzare: ho appena finito di scrivere un Concerto per pianoforte e orchestra che sarà eseguito per la prima volta a Milano dall’Orchestra “Verdi”
nel mese di febbraio, devo comporre poi un Concerto per clarinetto e orchestra e, tra molte altre cose, ho anche un’interessante commissione per
un’opera buffa.
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
di Marco Mangani
Introduzione
Nella storiografia musicale il concetto di ‘forma ciclica’ è indissolubilmente legato all’Ottocento, e in particolare alla corrente di innovazione
dei generi e delle forme che da Berlioz passa attraverso Liszt, per giungere a quella parte della generazione tardoromantica che fu influenzata in
vario modo da Wagner. A tutt’oggi, l’insistita adozione dei più disparati
schemi di forma ciclica da parte di Luigi Boccherini appare dunque come
un caso unico nell’ambito della produzione strumentale settecentesca, e
al tempo stesso continua a costituire uno dei problemi aperti più spinosi
per la musicologia che su quella produzione si esercita. Sulle origini di
questi molteplici schemi sono state avanzate nel tempo diverse ipotesi:
sono stati indicati come possibili modelli tanto l’ouverture d’opera con
ripresa del movimento iniziale (churgin 1984) quanto il trattamento peculiare del ciclo dell’Ordinario in alcune declinazioni della pratica liturgica
(churgin 1993). Non torneremo sulla questione in questa sede: offriremo
invece una casistica significativa delle diverse disposizioni cicliche boccheriniane, ricorrendo anche ad esemplificazioni inedite e ordinandole
secondo un grado crescente di complessità. Se è vero infatti che in termini
generali Boccherini adotta procedimenti più smaccati rispetto a quelli che
caratterizzeranno le composizioni cicliche ottocentesche, è vero altresì che
il ventaglio di possibilità che si manifesta nella produzione del lucchese
non sembra avere termini di paragone credibili, almeno allo stato attuale
delle conoscenze.
Ripetizione di un’intera sezione
Il caso più semplice di forma ciclica, nell’ambito della produzione di
Boccherini, è quello nel quale il finale di una composizione è costituito
dalla ripetizione letterale della parte conclusiva del primo movimento. Si
tratta di una situazione piuttosto frequente: l’esempio forse più celebre è
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
quello del Quintetto in Re maggiore op. 11 n° 61 (G 276) detto L’uccelliera.
Eccone lo schema; i lettori tengano presente che i numeri romani (maiuscoli per il maggiore, minuscoli per il minore) indicano le tonalità in rapporto a quella d’impianto, mentre la x indica la situazione tonale instabile
tipica dell’inizio della seconda sezione in un allegro bi- o tripartito:
1° Adagio – Allegro giusto (||I→V| x→I||)
2° Allegro «I pastori e li cacciatori»
3° Minuetto (A||A’) – Trio – Minuetto (A||A’) + passaggio di raccordo→
4° Allegro giusto (la sezione | x→I| del primo movimento)
Come si vede, ciò che Boccherini utilizza a mo’ di finale, in questo
come in altri casi, è l’insieme costituito dallo sviluppo e dalla ripresa del
movimento iniziale (indipendentemente dal fatto che si tratti di una forma
sonata vera e propria o di una sonata bipartita): e in generale questa inaspettata ripetizione conclusiva del già udito è collegata al resto del brano o
mediante un passaggio di raccordo (come nel caso dell’Uccelliera), oppure
in virtù della conclusione con cadenza sospesa di ciò che immediatamente
la precede.2 Emblematico è poi il caso della Sinfonia in La maggiore op. 12
n° 6 (G 508), dove la ripetizione della sezione |x→I| del primo movimento è preceduta da un Grave concepito appositamente. Tutti questi procedimenti preparatòri mostrano con evidenza che Boccherini non intende
assolutamente la ripetizione conclusiva di parte del primo movimento
come un espediente meccanico, e tantomeno come un comodo mezzo per
risparmiare lavoro: la ripetizione è una sorpresa per l’ascoltatore, forse la
più impensabile, e Boccherini si fa carico di amplificarla proprio mediante
opportuni procedimenti atti a incrementare l’aspettativa di ciò che si rivelerà essere la conclusione del lavoro. Vengono allora in mente le parole
straordinarie di Georges de Saint-Foix, scritte nel lontano 1930 ma sempre
attualissime:
Si ha molto spesso, ascoltando Boccherini, l’impressione che, da cima a fondo,
l’uno o l’altro dei suoi quartetti, e soprattutto dei suoi quintetti, formi un tutto
destinato a suggerirci l’idea di una scena tagliata in diversi episodi, e che riproduce prima della fine, dando loro un senso definitivo, il loro vero senso, le
peripezie dell’inizio. [in picquot 1851 2a ed., p. 22]
Una delle conseguenze di tutto ciò è che, all’interno della categoria che
stiamo qui considerando, le variabili sono molteplici: pur nella costanza
1
I numeri d’opera che useremo saranno sempre quelli stabiliti dallo stesso Boccherini nel suo catalogo
(cfr. Bibliografia: ByC); tali numeri, va ricordato, non sempre coincidono con quelli assegnati alle
medesime opere dagli editori coevi.
2
In tutti gli schemi del presente saggio, la mancata soluzione di continuità tra un movimento e il successivo è stata indicata con una freccia al termine della riga.
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dello schema generale, si può dire che non vi siano due lavori nei quali
la ripetizione conclusiva della sezione |x→I| del primo movimento sia
presentata allo stesso modo. Un caso senza dubbio da evidenziare, a tal
proposito, è quello del Quintetto in La maggiore op. 28 n° 2 (G 308), articolato nei movimenti Allegro vivace – Minuetto-Trio-Minuetto – Larghetto –
Allegro vivace: in questo caso lo struggente Larghetto in La minore che costituisce il terzo movimento risulta in sé concluso, ma un breve passaggio
di raccordo, in La maggiore e privo di riferimenti tematici diretti a ciò che
lo precede, riapre i giochi, restando sospeso sulla dominante e preparando
così la ripetizione della sezione |x→I| del primo movimento. Quest’ultima, tuttavia, è a sua volta preceduta dall’enunciato del motivo di testa
del primo tema, di modo che l’ascoltatore non fatica a riconoscere questa
sua vecchia e cara conoscenza, che giunge rassicurante dopo il pathos quasi insostenibile del Larghetto (una pagina davvero unica nella letteratura
strumentale del tardo Settecento). Ecco i relativi esempi musicali:
Es. n° 1: Quintetto G 308, Allegro vivace (1° mov.) tema principale (batt. 1-4)
Es. n° 2: Quintetto G 308, Allegro vivace (1° mov.) inizio della sez. di sviluppo (batt. 61-68)
Es. n° 3: Quintetto G 308, Larghetto conclusione e passaggio di raccordo (batt. 38-54),
seguiti dalla ripetizione parziale dell’Allegro vivace
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
All’interno di questa prima categoria di forme cicliche possiamo includere anche quei brani nei quali il finale è costituito da una porzione
del primo movimento non del tutto coincidente con |x→I|. È il caso, ad
esempio, del Quintetto in Do maggiore op. 25 n° 4 (G 298), dove la cadenza
sospesa alla fine del Minuetto è seguita dalla ripetizione della sola sezione
di Ripresa dell’Allegro iniziale; ciò è tanto più agevole in quanto il primo
movimento è articolato secondo un chiaro schema sonatistico tripartito:
1° Allegro (||Esposizione [I→V]|| Sviluppo [x]→| Ripresa [I→I]||)
2° Larghetto
3° Minuetto-Trio- Minuetto→
4° Allegro (la sezione |Ripresa [I→I]| del primo movimento)
Il Quartetto in Do minore op. 41 n° 1 (G 214) presenta analogie con
entrambi gli esempi appena visti: con il Quintetto G 298 ha in comune il
fatto di utilizzare come finale una porzione del primo movimento inferiore a |x→I|, segnatamente quella che inizia dalla transizione alla ripresa
(un’enorme pedale di dominante decisamente affandangado); del Quintetto
G 308 recupera l’idea di far precedere tale ripetizione conclusiva da un
enunciato del primo tema. Rispetto a quest’ultimo caso, tuttavia, l’esito
espressivo è diametralmente opposto: dalle altezze sublimi delle citazioni dallo Stabat Mater contenute nei movimenti centrali l’ascoltatore viene
nuovamente precipitato nella danza infernale del primo movimento, senza alcuna speranza di redenzione. È una pagina sulla quale sono già stati
versati alcuni litri d’inchiostro (coli 2005, mangani 2005), e perciò su di
essa non ci soffermeremo ulteriormente.
Nella prassi compositiva boccheriniana, dunque, lo schema ciclico
che prevede la ripetizione di una parte del primo movimento in funzione
di movimento conclusivo è ben lungi dal costituire una formula rigida:
ammette declinazioni molteplici, che a loro volta costruiscono situazioni
espressive sempre differenti.
Ancora a questa categoria, infine, possiamo ascrivere i casi nei quali la
sezione utilizzata come finale proviene da un movimento diverso dal primo. Il caso tipico è quello del Quintetto con pianoforte in Mi minore op. 57
n° 3 (G 415), che presenta la seguente successione di movimenti:
1° Andante lento assai (cadenza sospesa)→
2° Minuetto non presto, con grazia (cadenza sospesa)→
3° Provensal, allegro vivo
[in forma di Rondò:3 X A / X A B X C X’ Coda]
3
Usiamo il termine ‘rondò’ nell’accezione corrente. Per i problemi connessi a questo termine nel tardo
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4° Andante lento [del tutto diverso dal 1° mov.] (cadenza sospesa)→
5° Provensal, allegro vivo e pp come prima
[X’ / X A B X C X’ Coda]
Come si vede, il tutto avviene in un contesto molto particolare: a parte
il ‘Provensal’, nessuno dei movimenti del Quintetto porta a compimento il
proprio decorso. A un primo esame, si sarebbe tentati di considerare il secondo Andante lento come una parentesi racchiusa dentro il ‘Provensal’,
ma lo impedisce proprio il fatto che già al suo primo apparire questo pezzo caratteristico si presenta come l’unico tra i movimenti del Quintetto che
termini compiutamente. Dobbiamo pertanto considerare lo schema di G
415 come il risultato della sintesi tra un procedimento compositivo ormai
collaudato da tempo (la ripresa parziale, al termine della composizione,
di un movimento già udito e pienamente realizzato) e l’accentuata libertà
formale che si manifesta nello stile boccheriniano tardo. Quello della ‘parentesi’ è invece un fenomeno totalmente differente, e lo esamineremo nel
prossimo paragrafo.
Dislocamento di un’intera sezione
Un caso più complesso, e sicuramente meno frequente, di forma ciclica
boccheriniana è quello nel quale il movimento iniziale resta aperto, per
essere completato solo al termine dell’intera composizione. È quanto avviene nell’ultimo dei Quintetti a due violoncelli di Boccherini, op. 51 n° 2
(G 377), articolato secondo lo schema seguente:
1° Grave assai – Allegro assai (||Esposizione [I→V]| Sviluppo [x→V])→
2° Andantino con innocenza
3° Minuetto-Trio-Minuetto
4° Grave assai come prima (abbreviato) – Allegro assai (Ripresa [I→I] + Coda)
La ripetizione dell’introduzione lenta prima del finale non è, per Boccherini, una novità: basti pensare alla celeberrima Sinfonia op. 12 n° 4 (G
506), dove tuttavia quella ripetizione è seguita da un movimento nuovo,
la chaconne su tema di Gluck (noonan 2002). Nell’ultimo Quintetto a due
violoncelli, al contrario, l’ascoltatore riode al termine del secondo Grave
lo stesso tema che ha udito al termine del primo, ma rispetto a quanto
avviene nei casi che abbiamo esaminato precedentemente la situazione
è profondamente diversa: là «le peripezie dell’inizio» (per usare l’espressione di de Saint-Foix) vengono interamente narrate, e alla fine della «scena» si tratta di recuperare la parte conclusiva di quelle «peripezie» per
Settecento si rinvia a rovelli 2009.
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
conferire ad esse «il loro vero senso»; qui l’Andantino e il Minuetto sono
i due episodi di una scena che sta all’interno di una cornice, un po’ come
avviene, nella narrativa, per i racconti delle Mille e una notte o, a teatro, per
La bisbetica domata di Shakespeare. E proprio come la sorte di Sheherazade
sarà nota solo al termine di tutti i racconti, e solo allora risulterà completata la cornice che li inquadra, così nel Quintetto G 377 bisognerà attendere
che si siano compiuti i movimenti centrali per sapere se e in che modo le
premesse formali dell’Allegro assai saranno portate a compimento. Per
rendere più chiaro il tutto, evidenziamo nei prossimi due esempi musicali
il tema principale dell’Allegro assai e il passaggio diretto dalla sua sezione
di Sviluppo all’Andantino con innocenza:
Es. n° 4: Quintetto G 377, Allegro assai (1° mov.) tema principale dopo il Grave introduttivo (batt. 1-4)
Es. n° 5: Quintetto G 377, Allegro assai (1° mov.)
conclusione dello Sviluppo (batt. 96-100) e inizio immediato del secondo mov.
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M. Mangani
Come vedremo nel prossimo paragrafo, non sempre questa tecnica
della ‘cornice’, quando viene applicata da Boccherini, coinvolge il primo
movimento di una composizione: si tratta di uno strumento delicato, che
tuttavia consente al compositore di creare delle vere e proprie metanarrazioni musicali.
Integrazione di differenti procedimenti ciclici
Un livello di complessità ancora superiore, nella strutturazione delle
forme cicliche boccheriniane, è rappresentato da quei brani che integrano
al loro interno i vari procedimenti visti fin qui. Il caso sicuramente più
vistoso è quello del Quintetto con pianoforte in La minore op. 56 n° 6
(G 412); nell’evidenziarne la struttura si dà conto, per la loro peculiarità,
anche dei segni di ritornello,4 mentre il simbolo VA si riferisce alla dominante raggiunta come tale, e dunque ‘attiva’ e necessitante di risoluzione,
e non come momentaneo centro tonale:
1° Allegretto [La minore]
(||:Esposizione [i→III→VA]:||:Sviluppo [x→VA]:||
Transizione alla ripresa [VA]→Ripresa interrotta [i]→Coda [i]||)
2° Andantino [Re minore]
(||:A:|| B, cadenza sospesa)→
3° Minuetto-Trio-Minuetto [Fa maggiore]
4° Andantino come prima [Re minore→VA di La minore]
(A’ del precedente Andantino, cadenza sospesa)→
5° Allegro ma non presto [La maggiore]
(forma sonata interrotta, cadenza sospesa)→
5° bis ‘Senza mutar di tempo’ [La minore]
(la sezione |Ripresa interrotta [i]→Coda [i]| del primo movimento)
Dallo schema si evince che qui sono all’opera simultaneamente sia il
principio della ripetizione parziale del primo movimento alla fine dell’intera composizione, sia il principio che abbiamo definito della ‘parentesi’
o della ‘cornice’. È evidente infatti che il Minuetto è un episodio inserito,
appunto, all’interno della cornice costituita dall’Andantino; a sua volta,
quest’ultimo è un brano in forma tripartita che in un primo momento si
interrompe, per concludersi (anche se assai debolmente) solo dopo che il
movimento di danza si è interamente svolto. La ripetizione conclusiva della sezione di Ripresa dell’Allegretto ci rimanda invece all’altro principio,
quello che abbiamo trattato nel primo paragrafo: possiamo perciò afferma-
4
Sulla questione degli sviluppi ritornellati nell’ultimo Boccherini la musicologia si sta ancora interrogando; ci limitiamo dunque a darne conto e a rinviare ad alcuni titoli in bibliografia: mangani 2010,
mastropietro 2010.
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
re che questo straordinario Quintetto rappresenta una vera e propria sublimazione del principio ciclico. Al tempo stesso, tuttavia, tale sublimazione
assume i caratteri sinistri di una narrazione incompiuta: questa volta, il
«vero senso» delle peripezie iniziali che si manifesta al termine della composizione è un senso fatale e tragico. Intanto, la cornice che racchiude il
Minuetto è incompleta; o, per meglio dire, uno dei suoi lati si piega verso
l’esterno: la ripresa della sezione A dell’Andantino, destinata a completarne il decorso formale dopo il Minuetto, svolta infatti abbastanza bruscamente verso la dominante principale del Quintetto (Re minore→VA di La
minore) e lì resta, senza che il movimento si concluda realmente; per cui è
possibile affermare che in questo caso il principio della ‘cornice’ si unisce a
un altro principio che abbiamo già incontrato, quello dell’introduzione lenta all’Allegro finale. Ma anche il procedimento della ripetizione con funzione conclusiva è qui piegato a una diversa dinamica formale ed espressiva:
la ripetizione del frammento tratto dal primo movimento non sostituisce
infatti un finale autonomo, poiché questo è presente (Allegro ma non presto); ma piuttosto vi si aggiunge, uccidendo con il proprio sconsolato La
minore tutte le speranze di una brillante conclusione in maggiore che quel
finale autonomo aveva acceso nell’ascoltatore. Il quale ascoltatore, a sua
volta, ha a malapena il tempo di accorgersi di ciò che gli sta accadendo:
quando il primo tema dell’Allegretto (es. n° 6) irrompe nel corso del finale «senza mutar di tempo» e privato della prima nota dell’anacrusi, ha la
durezza d’impatto di un evento traumatico, e l’improvvisa indicazione di
pianissimo non fa che accrescerne la nota dolente (es. n° 7):
Es. n° 6: Quintetto G 412, Allegretto (1° mov.) primo tema (batt. 1-16)
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M. Mangani
Es. n° 7: Quintetto G 412, Allegro ma non presto (5° mov.)
conclusione aperta (batt. 132-139) e irruzione del primo tema dell’Allegretto
Al termine del precedente paragrafo abbiamo parlato di ‘metanarrazione’, nella convinzione (motivata in mangani 2010) che questa struttura
così peculiare sia stata adottata da Boccherini per raccontare in musica
una tipica funzione sociale della musica stessa: quella del ballo pubblico,
che solitamente quando si svolge, in un salone o in un teatro, inizia e finisce con una contraddanza e racchiude al proprio interno il momento solistico e raccolto del Minuetto. Il ballo pubblico narrato da Boccherini ha un
esito poco felice: la brillante contraddanza in 2/4 di modo maggiore con
la quale si sarebbe dovuta concludere la serata va a male, e tutti tornano a
danzare mestamente la contraddanza in 6/8 di modo minore con la quale
la serata stessa aveva avuto inizio. Che questa narrazione sia stata o meno
nella mente di Boccherini (le caratteristiche della musica sembrano davvero renderlo plausibile), resta comunque il fatto che il lucchese ha saputo
rendere in termini modernissimi, ed esclusivamente con mezzi strumentali, l’impossibilità del lieto fine.
Reimpiego di materiale tematico
I procedimenti visti fin qui, pur nella loro diversità, sono accomunati da un elemento fondamentale: tutti impiegano come elemento ciclico
un’intera sezione di un movimento. La sezione può essere più o meno
ampia e può essere tanto replicata quanto interamente dislocata, ma si
tratta in tutti i casi di lavorare su dei ‘blocchi’. Il concetto di forma ciclica
che la storiografia musicale ci ha reso familiare, tuttavia, è qualcosa di
diverso: per ‘elemento ciclico’ intendiamo solitamente un singolo tema
ben riconoscibile (si pensi alla idée fixe della Sinfonia fantastica di Berlioz),
quando non addirittura una breve e pregnante cellula motivica. Questo
procedimento non è affatto estraneo alla scrittura di Boccherini, ma è opportuno precisare che tra la concezione romantica delle forme cicliche e
66
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
quella del compositore lucchese c’è, anche in questo caso, una differenza
fondamentale: in generale, nel trattamento boccheriniano degli elementi
ciclici manca il ricorso a quei procedimenti di elaborazione derivati degli
sviluppi sonatistici che l’Ottocento applicherà invece sistematicamente.
Quando recupera un tema, Boccherini ama recuperarlo così com’è. Ciò
non significa affatto, però, che l’operazione si risolva in un meccanico riciclaggio: i luoghi e i contesti del recupero sono sempre accortamente studiati per far sì che il tema recuperato acquisisca nuove funzioni formali
e nuove implicazioni espressive. Faremo ricorso a due esempi, tra loro
diversissimi: uno, il Quintetto con pianoforte in Fa maggiore op. 56 n° 2
(G 408) è gia stato ampiamente trattato altrove (mangani 2005), e dunque
ne richiameremo qui solo gli aspetti essenziali; l’altro, la Sinfonia in Do
minore op. 41 (G 519) ha ricevuto fino ad ora solo un’attenzione parziale,
soprattutto per quanto riguarda i suoi aspetti ciclici.
Il Quintetto G 408, articolato nei movimenti || Allegretto smorfioso ||
Minuetto amoroso || Poco adagio → Allegretto ||, è un esempio davvero
soggiogante della concezione ‘modulare’ della composizione musicale
che Boccherini maturò nell’ultima fase della propria vicenda creativa. Mediante il ricorso a degli opportuni elementi di collegamento, a dei ‘perni’
che consentono l’adattamento a situazioni differenti, in questa maniera
di comporre uno stesso tema può svolgere ruoli formali totalmente differenti in differenti movimenti: l’ascoltatore avverte così un effetto di déjà
vu (sarebbe forse più esatto parlare di déjà entendu), ma solo una lettura
attenta consente di cogliere l’esatta natura dell’operazione. E quell’attenta
lettura mostra che il rondò finale nasce dagli stessi materiali impiegati
per costruire la (peraltro liberissima) forma sonata del primo movimento,
come in un gioco di Lego o di Playmobil, dove la ricombinazione degli stessi mattoncini può dar luogo a strutture tra loro diversissime.5 Nel leggere
lo schema che segue, si tenga presente che i temi recuperati non subiscono
alcun tipo di modificazione sostanziale, se non qualche manipolazione segnalata tra parentesi; non vengono neppur trasposti di tonalità:6
1°
Temi
Primo
Transizione Prima Secondo
Primo tema
movimento
secondari sviluppo alla ripresa ripresa ‘sviluppo’
a
b
c
X
(a)
(b)
d
a
e
f
Seconda
Coda
ripresa
c
b
(a)
5
Ci auguriamo che i lettori non vogliano considerare il paragone come irriguardoso nei confronti di
Boccherini, un musicista a tratti mesto e a tratti tragico, ma il cui stile contiene anche un marcatissimo
elemento ludico.
6
Nello schema le lettere in carattere minuscolo neretto indicano gli elementi tematici comuni ai due
movimenti, mentre le lettere in carattere maiuscolo corsivo indicano i temi specifici di ciascuno; con
il carattere sottolineato si è voluto evidenziare il fatto che il Quintetto termina esattamente com’era
cominciato: con lo stesso tema ‘smorfioso’ nella tonalità d’impianto.
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M. Mangani
4°
Refrain 1° episodio Refrain 2° episodio
movimento
Y
c
(c)
d Y
b Z e (c)
Refrain 3° episodio Coda
d Y
b
Z
e
f
a
In questo brano la funzionalità modulare dei motivi ha un carattere
‘orizzontale’: scomponendone e ricomponendone l’ordine nel finale, i motivi del primo movimento originano una sequenza lineare totalmente differente che si risolve in un diverso schema formale.
Il caso della Sinfonia G 519 (forse il vero capolavoro sinfonico di Boccherini, certo un brano che meriterebbe ben altra attenzione da parte di interpreti e direzioni artistiche) è diverso, e per certi aspetti più complesso.
Contiene, intanto, un bellissimo esempio di funzionalità modulare ‘verticale’, già osservato in noonan 1996: un motivo che non appartiene alla
superficie melodica della Sinfonia, ma che costituisce il contrappunto al
grave del primo tema del primo movimento (‘a’, es. n° 8), serve altrettanto
egregiamente da fondamento al tema iniziale del Minuetto, dove viene
trattato in imitazione (es. n° 9):
Es. n° 8: Sinfonia G 519, Allegro vivo assai (1° mov.) primo tema (batt. 1-8)
Es. n° 9: Sinfonia G 519, Minuetto Allegro (3° mov.) inizio
In questo caso, inoltre, Boccherini conferisce un notevole senso di coesione all’intero terzo movimento proprio facendo leva su questo motivo, che fornisce anche il ductus e la configurazione ritmica al tema del Trio (es. n° 10):
Es. n° 10: Sinfonia G 519, Minuetto Allegro (3° mov.) inizio del Trio
Un aspetto ancor più sorprendente di questa sinfonia è il legame che si
crea tra i primi due movimenti grazie a degli elementi motivici estremamente pregnanti, ma il cui significato strutturale è a tutta prima insospettabile.
68
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
Il tema principale del primo movimento si conclude con un doppio
movimento cadenzale, che in entrambe le fasi prende avvio da un caratteristico disegno cromatico (‘b’); tale disegno prosegue in modo differente
nelle due fasi, approdando nella prima all’accordo di sesta napoletana (es.
n° 11):
Es. n° 11: Sinfonia G 519, Allegro vivo assai (1° mov.) cadenza del primo tema (batt. 8-12)
Questo piccolo elemento cromatico ricompare nel corso della sezione
di sviluppo, dove diviene oggetto d’imitazione e di ampliamento (‘b ampliato’, es. n° 12):
Es. n° 12: Sinfonia G 519, Allegro vivo assai (1° mov.) sviluppo dell’elemento b (batt. 132-137)
Il primo movimento contiene infine un altro elemento importante, un
disegno a note ribattute per grado congiunto ascendente (c) che costituisce il motivo specifico della transizione ai temi secondari (es. n° 13):
Es. n° 13: Sinfonia G 519, Allegro vivo assai (1° mov.) inizio della transizione (batt. 12-15)
Anche questo motivo è destinato a ripresentarsi nel corso dello sviluppo, tanto da imprimersi indelebilmente nella mente dell’ascoltatore.
Il secondo movimento della Sinfonia, Pastorale lentarello, è articolato seconda una forma che partecipa tanto delle caratteristiche del rondò
quanto di quelle della forma tripartita:7
7
Il fatto che nella terza sezione non ci sia alcuna modifica del percorso tonale tra il refrain e il primo
episodio impedisce di parlare di rondò-sonata.
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M. Mangani
A:
Refrain
Transizione 1
(c)
Primo episodio
Transizione 2
b ampliato
Refrain
B:
Secondo episodio
(b), b ampliato [oltre a materiale autonomo]
A:
Refrain
Transizione 1
(c)
Primo episodio
Transizione 2
b ampliato
Refrain
La cosa più rilevante, ai nostri fini, è il ricorso al materiale tratto dai
motivi b e c del primo movimento: in particolare, la presenza di b sia nella
transizione al refrain sia nel secondo episodio conferisce una grande compattezza all’intero ‘lentarello’, collegandolo al tempo stesso al movimento
precedente. Ma vale la pena di rilevare anche il modo sottile con il quale
Boccherini fa ricorso in questo secondo movimento al motivo c; si tratta di
uno dei rari casi nei quali è possibile assimilare la condotta del lucchese
alla prassi dello sviluppo motivico di tradizione viennese. Nella Pastorale,
infatti, del motivo c del primo movimento si conservano la struttura ritmica e il ductus, caratterizzato dal moto ascendente e dalle note ribattute; ma
qui il movimento per gradi congiunti si amplia in un arpeggio (es. n° 14):
Es. n° 14: Sinfonia G 519, Pastorale lentarello (2° mov.) inizio della transizione (batt. 12-13)
Fin qui abbiamo visto come, mediante l’impiego di tre motivi caratteristici dell’Allegro vivo assai, Boccherini crei una saldatura tra i primi tre
movimenti della sinfonia in Do minore. Ma il Finale non resta escluso dal
gioco. Il disegno cromatico discendente che caratterizza la versione del
motivo b ampliata per imitazione (si riveda l’es. n° 12) è, nel contesto del
linguaggio melodico della Sinfonia, talmente pregnante da essere immediatamente riconoscibile come ‘segnale’. Su un simile disegno, ampliato
a dismisura nei valori di durata ed eseguito in raddoppio dall’oboe e dai
bassi, si basa una parte dello sviluppo del quarto movimento (es. n° 15):
Es. n° 15: Sinfonia G 519, Finale allegro (4° mov.) pedale nella sezione di sviluppo (batt. 52-64)
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Tipologia delle forme cicliche nella musica di Boccherini
E questo stesso Finale si congeda con un piccolo gesto che, ancora una
volta, sembra voler conferire il «vero senso alle peripezie dell’inizio» (es.
n° 16):
Es. n° 16: Sinfonia G 519, Finale allegro (4° mov.) gesto conclusivo (batt. 110-112 e 114-116)
Conclusioni
La casistica qui presentata è ben lungi dall’esaurire tutti i brani di forma ciclica presenti nella produzione di Boccherini. Si è tentato tuttavia di
offrire una possibile tipologia, in modo da consentire ai lettori di orientarsi
nella molteplicità delle soluzioni adottate dal lucchese, e di pervenire autonomamente a un’opportuna classificazione dei brani coi quali potranno
trovarsi a contatto.
L’arte musicale è un’arte temporale: a metà del Settecento la concezione
del tempo espressa dagli stili musicali predominanti muta radicalmente
(berger 2007). Al tempo stesso, appare sempre più evidente che la musica
di Boccherini richiede approcci analitici differenti rispetto a quelli adottati
finora per la musica del cosiddetto classicismo viennese (mangani 2005, le
guin 2006, giuggioli 2010). In particolare, l’italiano mostra una concezione
‘modulare’ della composizione, entro la quale la ricerca della coesione tra
i materiali passa attraverso percorsi diversissimi da quelli basati sull’elaborazione motivica: e in lui la ripetizione ‘statica’ priva di spinta in avanti,
puramente contemplativa assume un’importanza determinante. I due fenomeni sono interconnessi: quella di Boccherini è una specifica concezione del flusso temporale, le cui coordinate sono ancora in una certa misura
da tracciare. Prendere atto delle numerose declinazioni nel trattamento
boccheriniano delle forme cicliche è senza dubbio un passo fondamentale
verso la definizione di tali coordinate.
Bibliografia
Edizioni moderne delle opere di Boccherini analizzate
Quintetti per 2 violini, viola, due viloncelli, a c. di P. Carmirelli, 10 voll., Roma, Istituto
Italiano per la Storia della Musica, 1970-1985 (contiene le opp. 10, 11, 13, 18, 20, 25,
27, 28, 29, 30);
Sei quintetti per archi, a c. di E. Polo, 3 voll., Milano, Ricordi, 1949 (il vol. II contiene il
Quintetto op. 51 n° 2, indicato erroneamente come op. 37 n° 1, laddove l’edizione
originale di Pleyel lo indica come op. 37 n° 24);
Sei quintetti per pianoforte, due violini, viola e violoncello op. 56 - opera grande, a c. di A. Pais,
Padova, Zanibon, 1986;
Codice 602
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M. Mangani
Sei quintetti per pianoforte, due violini, viola e violoncello op. 57 - opera grande, a c. di A. Pais,
Padova, Zanibon, 1984;
Sinfonia Nr. 26 c-moll, hrsg. A. de Almeida (Sämtliche Sinfonien, DM 626), Wien – München, Doblinger, 1988.
Saggi
Berger, Karol 2007: Bach’s Cycle, Mozart’s Arrow. An Essay on the Origins of Musical Modernity, Berkeley – Los Angeles – London, University of California Press;
Churgin, B. 1993: Sammartini and Boccherini: Continuity and Change in the Italian Instrumental Tradition of the Classic Period, in Luigi Boccherini e la musica strumentale dei maestri italiani in Europa tra Sette e Ottocento, a c. di F. Degrada e L. Finscher, «Chigiana»,
XLIII, nuova serie n. 23, pp. 171-191;
Churgin, Bathia 1984: Introduzione a The Symphony 1720-1840, series A – vol. II, G. B.
Sammartini: Ten Symphonies, New York – London, Garland;
Coli, Remigio 2005: Luigi Boccherini. La vita e le opere, Lucca, Pacini Fazzi, 2005;
Giuggioli, Matteo 2010: «Una scena tagliata in diversi episodi»: forma, espressione, implicazioni narrative nei Quintetti per archi op. 10 e op. 11 di Luigi Boccherini, Diss. dottorale,
Università di Pavia;
Le Guin, Elisabeth 2006: Boccherini’s Body. An Essay in Carnal Musicology, Berkeley, University of California Press;
Mangani, Marco 2005: Lugi Boccherini, Palermo, L’Epos, 2005;
Mangani, Marco 2010: Il quintetto con pianoforte op. 56 n. 6 di Boccherini, ovvero la musica
da camera come metalinguaggio, in Con-Scientia Musica. Contrappunti per Rossana Dalmonte e Mario Baroni, a c. di A. R. Addessi, I. Macchiarella, M. Privitera, M. Russo,
Lucca, LIM, 2010, pp. 55-83;
Mastropietro, Alessandro 2010: Tra forma-sonata e rondò: una nuova forma ibrida dell’ultimo Boccherini sopra lo sfondo del classicismo viennese?, «Boccherini Online», 3, (http://
www.boccherinionline.it/annate/n3-2010/mastropietro-1.php);
Noonan, T. 2002: The Slow Introduction in Boccherini’s Symphonic Finales, «Studi Musicali», XXXI/1, pp. 145-160;
Noonan, Timothy 1996: Structural Anomalies in the Symphonies of Boccherini, PhD. Diss.,
University of Wisconsin;
Picquot, Louis 1851 2a ed.: Boccherini. Notes et documents nouveaux par Georges de SaintFoix, Paris, Legouix, 1930;
Rovelli, Federica 2009: I rondo “espliciti” di Haydn. Problemi metodologici e punti di contatto col repertorio strumentale italiano, «Boccherini Online», 2 (http://www.boccherinionline.it/annate/n2-2009/rovelli-1.php).
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Due autori dell’est europeo a confronto nel repertorio della viola:
Differenze ed analogie tra Alfred Schnittke e György Kurtág*
di Flaminia Zanelli
Premessa
Questo lavoro nasce da un’opportunità data dal repertorio della viola:
due pezzi belli e poco eseguiti. Dal professor Valenti e da un mio collega
avevo sentito parlare del Concerto di Schnittke in termini così positivi da
suscitare il mio interesse; mentre per le composizioni di Kurtág ero stata
incuriosita dall’entusiasmo di un amico di Fiesole che stava studiando i
Microludi per quartetto d’archi.
Dovendo scegliere un argomento per la Tesi, ho pensato che questa
potesse essere l’occasione ideale per avvicinarmi, in maniera pratica e teorica, a questi due compositori del secondo Novecento.
In comune, indubbiamente, avevano la provenienza: erano compositori che venivano genericamente liquidati come “ musicisti dell’Est”.
In realtà, dopo le mie letture in proposito, sono arrivata alla conclusione che c’era molta ignoranza in Occidente su quello che accadeva oltre la
“cortina di ferro”, piuttosto che il contrario. In altre parole: l’Europa occidentale, paga di sé, viveva nella consapevolezza di possedere i massimi
centri d’avanguardia. I compositori dell’Est, al contrario, s’ingegnavano
come potevano per conoscere cosa avvenisse fuori dei loro mondi, e, fatto
questo, potevano scegliere con maggior autonomia delle strade personali
ed originali.
Non sapevo cosa avrei trovato, se più analogie o più differenze. Interessante è stato il fatto di riconoscere, nei loro personalissimi percorsi,
importanti tematiche familiari a tutto il Novecento europeo.
Una tra queste è lo stretto legame con il passato.
*
Tesi di laurea di II livello in Discipline Musicali - indirizzo interpretativo-compositivo, percorso viola, Relatore Professor Claudio Valenti (AA. 2005-2006).
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F. Zanelli
Apparentemente, soprattutto per i profani, l’unico intento della musica
d’avanguardia fu quello di distruggere ogni rapporto con il passato, nel
tentativo di inventarsi “luoghi”, spazi e linguaggi nuovi. Ma in realtà chi
più di Schönberg si sentì erede di Beethoven?
Nel caso dei nostri compositori il passato a cui mi riferisco non è quello
pre-romantico, bensì ha radici più antiche, che affondano nello scorrere a
ritroso della storia: vicine alla polvere e allo spirito di quelle terre. Il giogo
cui si vuole fuggire nel Novecento è quello “dell’imperialismo tonale”,
che aveva dominato i tre secoli precedenti. Si recupera in primis Bach (tradizione inaugurata da Mendelssohn), e, percorrendo all’indietro, il primo
Barocco, il Rinascimento, i canti delle antiche religioni: quella spiritualità
semplice ma densa di significato, quella tensione vicina allo stridore, che
hanno, ad esempio, i Madrigali di Gesualdo da Venosa. E’ proprio da lì,
dal punto più profondo delle origini delle culture, dove la distinzione tra
canto colto e canto popolare ancora non esiste, che Kurtág e Schnittke radicano le loro personali poetiche. Così nascono pagine dense di riferimenti alla musica popolare ungherese nel primo, ed alle tradizioni volgari e
spirituali russe nel secondo.
Partendo da quel punto apparentemente vicino, i nostri autori riescono
a costruire due mondi lontanissimi, entrambi carichi di storia, la quale non
è vista con intento storicistico, bensì attraverso un fantastico caleidoscopio
personale.
Il mio lavoro è organizzato partendo da brevi cenni biografici, cui segue un’analisi delle diverse fasi compositive (con esempi musicali), per
terminare con riferimenti più dettagliati alle opere dedicate alla viola.
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14-12-2010 12:07:51
Due autori dell’est europeo a confronto
Alfred Schnittke (Engels 1934, Amburgo 1998)
“la musica aveva cessato d’essere poesia
ed era diventata prosa”
Schnittke nasce il 24 novembre del 1934 a Engels, cittadina sul Volga
diventata nel 1918 capitale della Repubblica Sovietica Autonoma Tedesca
del Volga. Sia Engels sia la vicina Saratov erano popolate da una comunità
tedesca insediata nel 1700 sulle sponde del fiume. Il padre era un giornalista, di famiglia ebrea, la madre era una cattolica tedesca “non credente”
(su questo il figlio nutre dei dubbi…). Schnittke si fa battezzare a 31 anni,
dopo aver letto il Dottor Živago.
Durante la seconda guerra mondiale i parenti della madre sono esiliati
in Siberia e Kazakistan, mentre la famiglia del padre è perseguitata perché
ebrea. Le radio, principale mezzo per l’ascolto della musica oltre che per
l’informazione, sono confiscate fino al ’46.
Nel ’41 il padre si trasferisce a Vienna per motivi di lavoro ed è qui che
nel ’46, già dodicenne, Schnittke prende le prime lezioni di pianoforte dalla loro padrona di casa Frau Ruben: aveva già voglia di comporre.
Lo stesso anno ascolta due concerti che lo impressioneranno molto: la
Settima Sinfonia di Bruckner diretta da Otto Klemperer e Die Walküre di
Wagner. Dalla seguente affermazione si può comprendere la futura predilezione per la composizione strumentale:
Ascoltando l’orchestra, provavo un’autentica beatitudine, ma quando i cantanti cominciavano a cantare la cosa diventava meno interessante.
Nel ’47 la famiglia Schnittke torna a Mosca.
Del ’48 è la Risoluzione contro Šostakovič, Prokof’ev e Khačaturjan,
che sarà revocata solo nel ’58 durante il Secondo Congresso dell’Unione
dei Compositori. Risultato fu che sparirono tutte le loro composizioni.
Stalin detestava l’originalità, la creatività, l’eccentricità. Era accettato
solo il linguaggio semplice, comprensibile alle masse e ricco di messaggi
d’ottimismo e positivi.
Gli artisti vivevano nel terrore di contraddire l’estetica ufficiale. I musicisti di talento potevano scegliere tre strade: la prima era la fuga all’estero;
la seconda, più semplice e favorevole per il riconoscimento ufficiale, implicava il totale soffocamento dell’impulso creativo, sfociando in un’inevitabile mediocrità; la terza, più complessa e piena d’insidie, fu quella scelta
da Šostakovič, che scriveva Il sole brilla sulla nostra patria per il regime,
mentre componeva un’enorme quantità d’altre opere destinate a rimanere
nei cassetti. Il fatto di comporre come ricerca individuale senza poter far
eseguire o pubblicare, tenendo le partiture nei cassetti, è una nota comune
a molti compositori di talento anche più giovani del Maestro.
Codice 602
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14-12-2010 12:07:51
F. Zanelli
Šostakovič, all’apparenza sottomesso al partito, in realtà scriveva partiture che nascondevano significati nascosti, beffardi … “ribelli”. A proposito del tema principale dello Scherzo della Decima Sinfonia, dal carattere tronfio e grottesco, confesserà che pensò a Stalin. Come l’Undicesima
Sinfonia: scritta per celebrare i quarant’anni dalla Rivoluzione, rievoca la
repressione zarista del 1905. Ne traspare l’evidente similitudine tra la repressione zarista e quella del regime sovietico.
E’ plausibile pensare che qualsiasi pagina scritta dal grande compositore, come da tanti altri russi, avesse significati extramusicali.
In realtà la repressione alimentava una vivacissima vita compositiva
sommersa: l’intellighenzia russa, sopravvissuta agli zar ed al regime comunista, organizzava incontri clandestini, cenacoli intellettuali ai margini
della città, intorno a figure chiave come, ad esempio, Philip Herscovici,
compositore rumeno allievo di Webern a Vienna, che poté far conoscere
la Seconda Scuola di Vienna ai giovani compositori Volkonskij, Denisov,
Suslin, e Schnittke.
Nel marzo del ’53 muore Stalin.
La Sala della Colonna, la più importante di Mosca, che aveva ospitato
esecuzioni di Čajkovskij, Rachmaninov, Clara Schumann, Liszt, è adibita a
camera ardente. Per tre giorni e tre notti si alternano ininterrottamente le
orchestre più grandi della città e i musicisti migliori dell’Unione.
Lo stesso giorno morirà Prokof’ev, celebrato con molto meno onore.
Da quel momento, con l’epoca di Chruščëv, inizia un lento disgelo, soprattutto nei confronti dei movimenti artistici. Nel ’56 è fondato l’Autunno
di Varsavia, festival zona franca in cui circolano liberamente i prodotti della
avanguardie occidentali. Nel ’57 Glenn Gould tiene una conferenza-concerto al Conservatorio di Mosca su Schönberg, Berg, Webern e Křenek.
Nel ’58 Leonard Bernstein fa una tournée in URSS con la New York
Philarmonic Orchestra dirigendo Le Sacre du printemps.
Nel ’62, dopo quarant’anni d’assenza, torna Stavinskij in una tournée
trionfale.
La nuova direzione del partito, indulgente con la cultura e repressiva
in politica, non riuscì a prevedere che da questa sua contraddizione sarebbe potuto scaturire il germe di successive crisi.
Il cambiamento sarebbe proprio venuto dal mondo culturale. Non a
caso, nel ’63, fu l’esecuzione della Tredicesima Sinfonia di Šostakovič uno
degli elementi che portarono alla caduta di Chruščëv. La sinfonia, per orchestra, coro maschile e tenore, è scritta su testi di Evtušenko (poeta semidissidente): il testo denuncia la strage di ebrei avvenuta per mano nazista
nel ’41 a Babij Jar, luogo alle porte di Kiev. Questo genocidio antisemita
per molto tempo non fu riconosciuto dal regime sovietico.
Lo stesso anno della morte di Stalin Schnittke s’iscrive al conservatorio
di Mosca, dove forma un sodalizio di studio con Edison Denisov: scrivono
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riduzioni per pianoforte di sinfonie di Šostakovič, ascoltano registrazioni
dei loro contemporanei non sovietici (Boulez, Stockhausen e Pousseur).
La musica che Schnittke scrive da studente è influenzata da Mjaskovskij (il suo insegnante di composizione ne era stato allievo), da Bartók,
dalla prima dodecafonia e naturalmente da Šostakovič.
Sono convinto che la mia formazione di compositore deve moltissimo a
Šostakovič; l’influenza che esercitava su di me era enorme, perché in lui vedevamo una figura viva che non si adeguava a norme e modelli. Poteva essere
molto attraente o anche molto sgradevole, ma in ogni caso restava, come la musica, totalmente imprevedibile. In fondo lui continuava a vivere fra di noi come
compositore, faceva parte dell’Unione dei Compositori ma non si adeguava agli
standard formali. Proprio per questa sua capacità interiore di essere libero e imprevedibile pur vivendo all’interno del sistema, lo consideravamo un modello.
Da Šostakovič assimila il mondo del grottesco, l’ironia, la parodia e
soprattutto il simbolismo di ciò che è manifesto, ma che ha una natura
sommersa.
Le composizioni di quegli anni non sono pubblicate perché considerate
come esercitazioni scolastiche (ad eccezione del Primo Concerto per violino e orchestra del ’57; la seconda opera pubblicata sarà il Concerto per
pianoforte del ’60).
Significativo di quel periodo è l’Oratorio Nagasaki del ’58, su testi giapponesi e russi di un sopravvissuto. Il materiale musicale è eterogeneo: la
scala pentatonica orientale, stratificazioni sonore e soprattutto il boato culminante che vuole riprodurre l’esplosione atomica. Il finale originario non
fu accettato dall’Unione dei Compositori perché troppo lugubre. Schnittke
lo sostuì con un finale più ottimista.
All’Oratorio si collega l’opera (anch’essa non pubblicata) L’undicesimo
comandamento del ’62, che racconta la sofferenza del pilota che sganciò la
bomba atomica. Questa composizione è per lui un laboratorio per esercitarsi sull’opera lirica, il balletto, la pantomima, il cinema, la radio e la
stereofonia.
Negli anni sessanta il processo di liberalizzazione culturale ha una brusca frenata. Il poeta Josif Brodskij è internato in un ospedale psichiatrico e
poi condannato ai lavori forzati. A nulla servono petizioni e prese di posizione di gran parte del mondo culturale russo ed europeo.
Caduto Chruščëv, Brežnev gestisce la normalizzazione, ossia una restaurazione incline a premiare la mediocrità ed il conformismo.
Importantissimo avvenimento del ’64 è l’arrivo al conservatorio di Luigi Nono, venuto soprattutto per incontrare Šostakovič e Roždestvenskij.
I due importanti maestri non sono portati dal compositore veneziano,
al quale sono invece fatti ascoltare i compositori “di regime” Suiridov e
Khačaturjan. Karamanov, Denisov e Schnittke sono fatti uscire dalla stanza.
Proprio commentando quest’incontro Schnittke afferma:
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Nono ha dimostrato che la musica contemporanea non può essere soltanto e
puramente razionale
Come a cercare conferme e dimostrazioni per la sua innata inclinazione
comunicativa.
In questi anni Schnittke studia le partiture di Schönberg, Berg, Webern
e anche Stokausen, Boulez, Pousseur, Nono e Stravinskij (di quest’ultimo
cerca principalmente gli schemi dei rapporti numerici).
Lo studio dei sistemi costruttivi razionali e seriali lo affascina, ma tali
modelli diventeranno ben presto un terreno fertile ove sviluppare sempre
maggiori elementi individuali.
Predilige i piccoli organici, con i quali può concentrarsi sul rigore e la
razionalità della tecnica seriale come esigenza etica.
Per un certo periodo il serialismo fu per me un principio molto dogmatico […]
Fu una specie di atteggiamento stoico da parte mia.
Lo strumento prediletto diventa il violino, anche perché violinisti d’eccezionale levatura (uno per tutti Gidon Kremer) s’interessano alla sua musica. Risalgono a quel periodo le prime due sonate per violino e pianoforte
del ’63 e del ’68, i primi due concerti per violino e orchestra del ’57 e ’66
e la Sonata per violino e orchestra del ’69 che altro non è che una nuova
versione della Prima Sonata col pianoforte.
Nella Prima Sonata per violino e pianoforte, ad esempio, il materiale seriale viene utilizzato in maniera analoga ad Alban Berg nel Concerto per
violino e orchestra: la serie è realizzata con sovrapposizioni di terze, acquisendo così una natura melodica ed espressiva.
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L’elemento inquieto ed introspettivo, tipicamente berghiano, si ritroverà spesso nelle sue composizioni, di solito in associazione alla serie, ed è
forse l’unica prospettiva con la quale è accettata la dodecafonia.
Già in queste composizioni si trova l’intento di riunire tutta l’opera in
unico ciclo (la Seconda Sonata per violino, il Secondo Concerto per violino, il
Concerto per pianoforte sono in un unico movimento). Nell’ultimo movimento della Prima Sonata per violino (come avverrà nel Concerto per viola)
sono ripercorsi tutti i temi già proposti, secondo l’idea che i fili drammatici
presentati si risolvano l’uno nell’altro: la musica è un divenire, un irrequieto fluire, afferrato con maggior o minor successo dal compositore.
Alla fine degli anni sessanta la composizione Pianissimo per orchestra
rappresenta l’apice del metodo razionalistico. Sono utilizzate le medesime
serie per gli intervalli ed il ritmo. Procedimenti matematici e casuali rielaborano la serie madre grazie alla sottrazione di una scala cromatica.
Il titolo Pianissimo non indica una dinamica, bensì un codice celato,
sommerso, che pian piano si svela fino all’illuminazione culminante sulla
nota, unisono per tutti, DO. Il culmine è la verità, ossia la serie svelata.
A contraddire quest’ossatura apparentemente strutturalista, è l’intento
programmatico che sottende l’opera. Schnittke si avvale di un canovaccio
narrativo: il racconto di Kafka Nella colonia penale. Così, accanto al metodo
razionale, troviamo una delle poche opere ”a programma” dell’autore.
Nello stesso anno di Pianissimo, il ’68, Schnittke compone la Serenata per
violino, contrabbasso, clarinetti, pianoforte e percussioni, in cui esplora
un mondo antitetico a quello razionalistico. L’opera è ipersatura di citazioni: il Concerto per violino ed il Concerto per pianoforte di Čajkovskij, RimskijKorsakov, jazz, polche… Un mondo frammentario e caotico irrompe nelle
sue pagine preannunciando il periodo eclettico.
Se negli anni sessanta Schnittke acquisisce la tecnica, nel decennio successivo si riappropria del mondo interiore.
Con il disgelo abbiamo visto come la repressione e l’imposizione di regole prestabilite entri in crisi. L’horror vacui, creato dalla graduale scomparsa di una visione razionale ed universale del mondo proposta dal comunismo reale, ora è compensato dal recupero delle tradizioni antiche,
del nazionalismo, della religione e della mistica. Tutto questo è tradotto
come avversione al progresso e recupero delle tradizioni rurali, come diffidenza verso l’occidente e perfino antisemitismo.
Molti compositori inserirono nelle loro opere rimembranze d’antiche
liturgie, la modalità e le immagini del primo cristianesimo: monasteri, icone, antiche leggende.
L’immaginario relativo all’antica chiesa russa era stato usato già da
Mahler, Šostakovič, Musorgskij e Berg, non in modo diretto, bensì come
affinità, reminiscenza, come un’eco che non riproduce il vocabolo, ma
l’emozione che esso crea.
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Emblematici fra le composizioni di Schnittke sono gli Inni I, II, III e IV
del ’74-’79 per insieme cameristico. Sono un viaggio verso la trascendenza
ottenuto dalla stilizzazione di una musica arcaica. Anche la Seconda Sinfonia del ’79 (una messa in onore di Bruckner) e la Quarta Sinfonia dell’84
(con temi della tradizione cattolica, giudaica ed ortodossa) sono dedicate
agli antichi culti. La ricerca del mondo spirituale e metafisico, ed il tentativo di catturarlo attraverso la musica, si possono riscontrare in queste
affermazioni:
è come se vivessimo in una caverna platonica a molti strati, che riflette con
grandi variabili d’esattezza la verità e la realtà. In questo caso chiamo verità e
realtà non il mondo tangibile ma qualcosa di diverso, e questa che io ritengo
una realtà più vera si può esprimerla meglio attraverso la musica.
Ogni musica non è altro che un avvicinamento all’ideale, ed è un avvicinamento che non sarà mai completo. […] Quando scrivo qualcosa di nuovo è come se
con gli occhi chiusi guardassi all’infinito, verso un obbiettivo irraggiungibile.
Alludere a significati nascosti, cifrati, serve ad ampliare i confini del testo, perché il segno non esiste per sé bensì è testimonianza di un’armonia
universale:
Non sono io che scrivo […]; la scrittura si realizza grazie a me.
Alcune figure (intervalli, triadi) passano d’opera in opera arricchendosi di valori semantici, diventando simboli di una realtà celata. Il punto di
riferimento è proprio la tradizione paleocristiana, in cui non importava
la soggettività individuale del compositore o dell’esecutore, piuttosto il
mondo spirituale di cui i suoni erano espressione.
Tutto questo si realizza nel Requiem del ’75 per solisti, coro ed insieme
strumentale, che ha un carattere di profonda introspezione, anche perché
scritto in occasione della morte della madre. Interessante è che la composizione non termini con il lux aeterna (ossia la luce, la speranza) bensì con
la ripresa del requiem iniziale. Può indicare da parte dell’autore il pensiero
che di fronte alla perdita irreversibile non c’è salvezza divina.
Il Quintetto per archi e pianoforte del ’72-’76 era stato concepito inizialmente come requiem strumentale in onore della madre, poi fu modificato
perché i temi avevano un carattere troppo vocale ed infatti furono utilizzati per il Requiem di cui abbiamo detto sopra.
Nel secondo movimento le note che corrispondono alla sigla B.A.C.H.
diventano una formula cristallina, simbolo d’eternità.
Tutta la tecnica esatta, tutto ciò che rimane “nascosto” nella musica –sigle, simboli, proporzioni, cenni e allusioni- viene comunque percepito. Un’opera priva
di tale parte “subacquea” non può lasciare alcuna impressione durevole.
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Schnittke è passato alla storia come compositore principalmente eclettico sul filone dello statiunitense Ives, del tedesco Bernd Alois Zimmerman (collage, citazioni) e del belga Henri Pousseur (opera a collage Vôtre
Faust).
I motivi per i quali Schnittke si rivolge al polistilismo sono da ricercare
innanzi tutto nella forte delusione per i principi di una serialità considerata artificiosa e sterile. Altra importante motivazione è la tendenza del XX
secolo a rivolgersi alle correlazioni tra tradizioni e elementi differenti: non
il singolo fenomeno bensì il legame tra i diversi stili.
Vagheggio l’utopia di un unico stile, dove i frammenti di “E” [Ernst: musica seria] e “U” [Untehaltung: musica d’intrattenimento] non rappresentino
screziature semiserie ma elementi di una multiforme realtà musicale, elementi
reali nella loro espressione benché sia anche possibile manipolarli, siano essi
jazz, pop, rock o la serie. [Un artista] riceve il diritto di riflettere una situazione
in modo proprio, libero da pregiudizi settari (come, ad esempio, in Mahler e
Ives).
Mahler porta nella sua musica l’intero suo mondo musicale. Ritengo che il
cammino di Webern non sia accettabile per me. Dico questo non con l’intento
di sminuire l’importanza di Webern, anzi al contrario, io posso soltanto restare ammirato da una tale cristallina purezza interiore. […] Per me è assai più
adatto il percorso di Mahler o di Šostakovič , di Berg, di Zimmerman, di Ives,
di quei compositori cioè che hanno trasfuso nella propria musica l’intero loro
mondo musicale e per i quali esiste una “periferia“ stilistica legata a una subcultura musicale, a ciò che chiamiamo comunemente “banale”.
Un esempio significativo è il secondo movimento del Terzo Quartetto
d’archi in cui il compositore ha una sorprendente capacità di concretizzare
visivamente il respiro stesso della storia, lo scorrere del tempo e l’esistenza
della musica in esso. Stili musicali tanto lontani l’uno dall’altro divengono
fasi naturali di una stessa opera, che concerta nel suo sviluppo diversi
periodi storici.
Schnittke fu molto impressionato dall’ascolto della Sinfonia di Berio.
Ciò influenzerà non poco la stesura della sua Prima Sinfonia, ma con una
fondamentale differenza: Berio cerca una molteplicità di “io”, mentre Schnittke vuole racchiudere tutte le individualità stilistiche in uno, nel linguaggio universale.
Nella Prima Sinfonia del ’72 è realizzato un censimento di tutti i tipi di
musica esistente: jazz, musica per film, classici di cliché, musica per banda, canzonette, citazioni, magmi sonori.
Mescolo gli stili e li trasformo, non per trarne una sintesi, ma per creare una
scrittura polistilistica, nella quale tutte le diversità degli stili sono usate come
tasti di un’unica grande tastiera.
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La sinfonia ha anche una valenza parateatrale: deve essere eseguita dopo la Sinfonia degli addii di Haydn (del 1772, pari a duecento anni
prima), che verrà ripresa a fine concerto. Gli strumentisti compaiono sul
palco improvvisando secondo un copione e sulla conclusione escono e rientrano.
Dopo aver attraversato gli estremi della serialità razionalistica e
dell’eclettismo teatrale, Schnittke è pronto per cercare un suo stile monolitico: scompaiono citazioni e allusioni, i contrasti polistilistici si condensano. Nelle sei sinfonie sono espresse due culture di pensiero geneticamente
appartenenti all’autore: la tradizione classica “razionale” tedesca e il mondo irrazionale, gli orizzonti extramusicali russi.
La tradizione tedesca è confermata già nel fatto di scrivere “sinfonie”:
la forma sonata è qui continuamente contraddetta e riconfermata.
La tradizione russa è quella della fede religiosa, delle simbologie realizzate da corali, da marce funebri…
Il personaggio letterario che ha condizionato molte composizioni di
Schnittke è Faust. A lui dedica la Storia del dottor Johann Faust dell’83, una
cantata per controtenore, contralto, tenore, basso e orchestra.
Il testo di cui si avvale è l’originale del 1587 scritto da Johann Spiess
di cui usa solo l’ultimo capitolo, considerando troppo vasto trattarlo per
intero.
Ma l’interesse per le tematiche proposte dal dottor Faust (la polarità
bene-male, la tormentosa autoanalisi, la contrapposizione tra il singolo
ed il mondo) si prolunga ben oltre la cantata. La dinamica in cui un’immagine (qualsiasi) sorge, entra in collisione con il proprio opposto e con
il mondo caotico circostante, ne subisce una trasformazione drammatica
fino a risorgere “nuova”, ora con diverse sfumature, è comune a molte
composizioni, dalla Serenata al Concerto per viola.
Gli undici concerti strumentali sono il luogo prediletto in cui Schnittke
fa agire l’eroe. Il dualismo inviduo-società è l’impulso motore del pezzo.
Questo conflitto può risolversi con una catastrofe della coscienza individuale (Faust) e la vittoria delle forze impersonali (orchestra), o, al contrario, con il trionfo derivante dalla rinascita spirituale del protagonista.
Nel Concerto per viola, come pure nel Quarto Concerto per violino, la parte
iniziale sembra una ricerca a tentoni del percorso da seguire, con un motivo d’estrema semplicità.
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Ad essa si contrappone una parte centrale con carattere eroico, mentre
quella finale è un ripensamento sull’accaduto, dove tutti gli avvenimenti
tornano irreali e leggermente alterati.
Interessante notare come l’autore si avvalga in questa composizione di
una serie (battuta 17) ripetuta sotto diverse vesti. È il leit motiv dell’eroe, che
in questo caso è il violista a cui è dedicato il pezzo: Yuri Baschmet. Le sei
note della semiserie madre corrispondono alle sigle di B.A.(e)S.C.H.(M).
E.(T). La seconda semiserie è la prima in forma retrograda-inversa. Se si
confrontano le prime dodici note con le dodici successive (trasposte nello
spazio di un’ottava) ci accorgiamo che c’è un rapporto di specularità.
Il carattere della serie è lirico ed inquieto … “alla Berg”, assolutamente
non strutturalista.
è necessario aggiungere, per capire nel profondo l’autore, che per
trent’anni si è guadagnato da vivere non con la sperimentazione, bensì
musicando ben 66 film per il cinema, a cui si aggiungono documentari,
musica per la radio e per la televisione. In questa vasta produzione Schnittke sperimenta, come in uno stravagante laboratorio, soluzioni ed effetti
non utilizzabili nella musica “pura”. Ciò nonostante in più occasioni riutilizza questa musica per le sue opere: ad esempio derivano da musica per
film i temi del Primo Concerto Grosso.
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György Kurtág (Lugoy 1926)
“ho un modo molto primitivo di pensare la musica: come una ricerca continua”
György Kurtág nasce il 19 febbraio 1926 da genitori ungheresi a Lugoy,
una cittadina ai piedi delle Alpi Transilvaniche, appartenente alla Romania (TAV.0). Inizialmente studia pianoforte e composizione a Timisoara.
Quando compie vent’anni s’iscrive all’Accademia Musicale di Budapest,
prende la cittadinanza ungherese e si diploma in pianoforte, musica da
camera e composizione. Il fascino delle tradizioni musicali ungheresi antiche e recenti in questo momento ha il sopravvento: le prime composizioni
hanno una chiara influenza bartókiana, che non vuole solo dire avere una
matrice nel folklore e nella tradizione popolare ungherese, ma accettare in
maniera quasi acritica il linguaggio del grande compositore d’inizio secolo.
Un importante esempio di questo periodo è il Movimento per Viola ed
Orchestra del ’55, nato per essere il primo tempo di un concerto organizzato in più movimenti. Caratterizzato da una spiccata identità musicale in
fine rimase l’unico pubblicato.
In questo momento Kurtág non è per niente soddisfatto del proprio
linguaggio musicale, ragion per cui seguiranno al Movimento per Viola ben
quattro anni di silenzio compositivo, ricchi di tentativi incompiuti.
Essendo nell’autore viva l’identità tra musica e vita, fu naturale che alla
crisi compositiva corrispondesse una grande sofferenza esistenziale.
Il ’57 ed il ‘58 li trascorre a Parigi per studiare con Messiaen e Milhaud.
Qui ha la fortuna di incontrare la psicologa Marsenne Stein che lo aiuterà
ad uscire dalla crisi creativa. A lei dedica l’opera che rappresenta la rinascita: il Quartetto per archi, op. 1 del ’59.
L’altro incontro folgorante di quegli anni avviene a Colonia con
Stockhausen, nel ’58. In tale occasione ha l’opportunità di ascoltare Gruppen e Artikulation di Ligeti. Queste partiture influenzeranno moltissimo il
nuovo stile di Kurtág, come avesse trovato la chiave di ciò che cercava da
anni: aveva ritrovato se stesso.
Dopo il mio ritorno in Ungheria […] con l’op. 1 cominciai una nuova vita. Da
quel momento il mio ideale, la mia aspirazione fu di riuscire a formulare nel
mio linguaggio qualcosa di simile all’esperienza che aveva rappresentato per
me Artikulation a Colonia.
Dal ’67 comincia ad insegnare all’Accademia di Musica di Budapest,
prima pianoforte e poi musica da camera. Nel suo lavoro didattico si concentra molto sull’approccio con il quale gli studenti si avvicinano alle partiture ed allo strumento. Questo presuppone una concentrazione e una
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dedizione totale, unico modo di fare musica. Bisogna fermarsi sulla relazione tra suoni e silenzio, sul significato della singola nota, sulle domande
e sulle risposte che i suoni creano. L’interpretazione dovrà essere libera
(perché è umana, è emozione), ma precisa (perché il segno è la vita dell’autore).
Alla pedagogia Kurtág dedica un’opera immensa: Játékok (Giochi) per
pianoforte, un work in progress iniziato nel ’75 e per ora composto da 250
brani, in cui si fondono le sue esperienze di compositore, interprete e didatta. Nascono come pezzi per bambini: una difficoltà progressiva servirà
all’alunno per formare una giusta coscienza musicale. Sono infatti giochi,
ossia un’attività senza fini pratici, che serva però ad educare ai comportamenti mentali della vita pratica. Al bambino viene proposto di entrare in rapporto con il pianoforte con mente e corpo insieme: lo strumento
diventa una cosa sua fisicamente ed intellettualmente e da ciò deriva un
comportamento gestuale e sonoro adeguato. Il gesto pianistico adesso rimanda a qualcuno, a qualcosa, a persone e fatti della vita, della natura, del
pensiero, ossia a tutto ciò che sta fuori dalla musica stessa.
Per impostare il bambino in un rapporto “sano” con il pianoforte Kurtág insegna il glissato, per il movimento della spalla su tutta la tastiera,
ed il cluster dell’avambraccio, per l’abbandono del peso di tutto il busto.
Dal cluster si procede per sottrazione: cluster dell’avambraccio, cluster del
palmo, gruppo di dita sino ad arrivare al dito singolo.
La convinzione per la quale nascono gli Játékok è che la musica sia proprietà di tutti e debba servire ad educare alla creatività. In essi ha molta
importanza il repertorio popolare ungherese (il riferimento diretto va al
Mikrokosmos di Bartók), il parlato alla Kodály e l’improvvisazione (appropriazione senza pregiudizi, come ad inventare di volta in volta spazio,
tempo, melodia, armonia, timbro). La grande raccolta comprende anche
trascrizioni a due o quattro mani di pezzi da J.S. Bach. Sono un diario, un
laboratorio d’idee e di tecniche espressive in cui una scrittura semplice
non contraddice la ricchezza di relazioni tra i diversi elementi. Memoria
(parafrasi, citazioni, autocitazioni, sviluppi a partire da un’idea musicale
di un brano di repertorio) ed invenzione (prassi della musica popolare)
coesistono felicemente.
Appartiene alla raccolta I fiori siamo noi”, per pianoforte. Con questo
pezzo di solito Kurtág inizia i concerti con la moglie. L’autore afferma in
proposito:
I fiori siamo noi… che è una maniera di abbracciarsi e fondersi .[…] Esso è una
proposta, una risposta, una coda.
La brevità del pezzo dimostra come Kurtág prediliga le forme aforistiche, come se ogni frammento fosse un istante smisurato, che si espande
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per l’intero spazio e tempo, rivelando la verità di tutto ciò che è in relazione con esso. Nello spazio della miniatura si trova un inizio, uno sviluppo ed una fine: una drammaturgia ricca di variazioni, amplificazioni,
rielaborazioni, echi, effetti di lontananza e d’avvicinamento. Tutto questo
partendo da un intervallo, da un ritmo o da un tema.
Alla forma del frammento Kurtág dedica quasi tutta la sua produzione
musicale. Oltre i Játékok, soprattutto i Kafka-Fragmente op.24 dell’85-’87 mostrano come l’essere sparso sia la chiave per conoscere le cose e come non
esista nessuna verità coordinante. In Wenn er mich immer frägt il bambino
(Kafka) non vede la persona intera, ma mette a fuoco solo i particolari: la
bocca, gli occhi, il naso … da quei particolari si ricostruisce il tutto.
Nel brano si può sentire chiaramente la mimesi tra violino e voce.
Il rapporto con la parola, con la poesia e, più in esteso, con la lingua
ungherese è la chiave di volta per comprendere a fondo l’espressività
dell’autore ed il luogo dove affondano le sue radici. Chi conosce, anche
in maniera sommaria, la vita di Bartók, sa come nel grande compositore
ungherese fosse vivo l’orgoglio nazionale, che si esprimeva soprattutto
nell’uso attivo della lingua d’origine. L’ungherese non era solo l’idioma
da usare con i propri cari o con i propri connazionali, bensì significava
indipendenza e ribellione verso le dominazioni straniere. Prima i Turchi,
poi gli Austriaci, in fine i Russi: era dal 1500 che gli ungheresi subivano
modelli politici, culturali e soprattutto linguistici estranei alla loro terra.
Così la lingua diviene l’unica arma di difesa e conservazione, l’unica unità
tra la popolazione: la lingua è essere!
Il linguaggio è un asilo in una vita violenta e prepotente. Ma è anche un
ponte: la voglia di comprensione verso l’altro con la quale ci si avvicina ad
una nuova lingua. Infatti Kurtág studierà il russo per poterlo usare nelle
sue composizioni.
Lo stesso Milan Škampa (celebre violista del quartetto Smetana) insegnava a noi giovani allievi, come ogni nota del quartetto Lettere Intime di
Janáček fosse legata a fonemi ungheresi, e come la suggestione derivante
dal suono delle parole stesse dovesse influenzare le nostre scelte musicali.
Anche in Kurtág è richiesto allo strumentista un atteggiamento parlante: il gesto musicale diventa un’eco del gesto parlato.
L’esperienza di Kodály è assorbita nell’uso del rubato, che servirà qui
per sviluppare la massima energia linguistica, la massima eloquenza dei
suoni.
Sono tantissimi i pezzi in cui il compositore si rapporta con la poesia o
con la letteratura, cercando di sviscerarne i significati più profondi, nella
convinzione che la musica non sia una trasposizione d’idee, piuttosto una
lingua originaria. Oltre che per I detti di Péter Bornemisza op.7, per soprano
e pianoforte del ’63-’68, il cui testo è tratto dagli scritti del predicatore visionario ungherese del 1500, collabora con il poeta Attila József (ricorrenti
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Due autori dell’est europeo a confronto
sono le dediche a lui) e la poetessa russa, sposata ad un ungherese, Rimma
Daloš, con la quale compone, tra l’altro, Scene da un romanzo op.19 del ’79‘82, per soprano, violino e contrabbasso, in russo.
Quando ci avviciniamo ad una partitura di Kurtág, rimaniamo colpiti
in primo luogo dalla cura e dalla precisione del segno musicale, e in un secondo momento dalle indicazioni extra-musicali (anche se la definizione
non è corretta nel caso di quest’autore in cui vita e musica di identificano).
Le pagine sono piene di in memoriam, hommage à, dedicato a, a cui seguono
nomi più o meno sconosciuti. Quando gli omaggi sono rivolti a Paganini,
Verdi, John Cage o a qualsiasi altro compositore celebre possono essere
comprensibili, soprattutto come tentativo di elaborare in una personale
prospettiva tutta la storia della musica: Kurtág trova in quei nomi un momento d’ispirazione, una scintilla. Ma quando i nomi sono ad esempio
Wilfried Brenneck o Stephan Stein? Per intendersi: il primo è il committente dell’Officium Breve op.28 per quartetto d’archi dell’89, che si adoprò
costantemente alla diffusione della sua musica in Germania; il secondo è il
marito della psicologa Marsenne, conosciuta a Parigi. Un brano è dedicato addirittura a un’insegnante di pianoforte che gli diede lezioni per due
mesi, quando era bambino!
In realtà sarebbe impossibile avere abbastanza dati biografici per comprendere tutti i riferimenti, possano essi appartenere alla sfera pubblica
o a quella privata. E’ come se Kurtág disegnasse in tal modo una mappa
stellare degli affetti, di ciò che lo ha aiutato, che lo ha incoraggiato, ispirato: una mappa per la complessità del suo animo.
Inizialmente le dediche erano solo per i destinatari dell’opera. Poi,
dopo la “rinascita” del Quartetto op. 1, le pagine si sono popolate sempre
più di richiami a persone e a momenti della vita: un segno, una traccia il
cui significato per chi legge può essere intuito, ma rimarrà sempre misterioso. In realtà Kurtág non lo fa per il lettore, ma per se stesso. E’ un atto
di riconoscenza: tutte quelle immagini e persone, ispirandolo, gli donano
la possibilità di esprimere il suo mondo.
Qui si dimostra come in Kurtág sia forte l’identità arte-vita. La dedica
serve all’autore a radicare profondamente l’opera nel suo mondo personale.
Il pubblico capirà solo l’oggetto artistico.
La composizione che mi ha fatto toccare in modo tangibile il mondo di
Kurtág è Jelek, játékok és üzenetek (Segni, giochi e messaggi) per viola sola, del
2005. Nella loro forma aforistica Kurtág mostra la grandissima capacità (o
necessità interiore) si svelare con minimi mezzi mondi sconfinati. Le indicazioni dinamiche, i modi d’attacco, i fraseggi non danno modo di fraintendere l’idea musicale proposta dall’autore. Sono idee cristalline, pure,
mai convenzionali: in ognuno di essi un carattere, un colore, un paesaggio
sono scolpiti come nel marmo.
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F. Zanelli
Ad esempio in … eine Blume für Tabea … le indicazioni d’inizio pezzo
“lecht, flüchtig, zart” (leggero, fugace svolazzante, dolce) e l’uso d’armonici ci immergono in un mondo fatto di suoni luminosi, frusciare d’ali,
parole bisbigliate, con la dolcezza propria di un ambiente accogliete, protettivo.
Atmosfera molto diversa denota il Doloroso. Le indicazioni “lento, parlando” sono abbastanza esplicite per comprendere come le pagine di Kurtág non siano popolate da note, bensì da parole: il linguaggio, la parola
e tutte le inflessioni e respiri che ne conseguono sono l’unica chiave per
capire il senso del pezzo. In esso ci sono due modi espressivi a confronto:
il pp, senza calore,e il mp, dolce, espressivo. Da questo “piccolo” contrasto si
aprono orizzonti sconfinati.
In Perpetuum mobile il materiale musicale è banale (sono le corde vuote)
e l’incedere meccanico (come vuole ogni moto perpetuo). Questo ritmo
“robotizzato” è rotto da degli schianti di lunghezza sempre differente.
Alla fine un arpeggio per quarte pare il giusto sberleffo per rompere quel
meccanismo senza senso.
Non si può sapere in Hommage à John Cage in che direzione vada il riferimento al compositore americano, se per una scelta aleatoria negli intervalli o cos’altro. Il sottotitolo “balbettato”, invece, è un’indicazione abbastanza esplicita per denotare l’incedere delle frasi. Forse possiamo cogliere
proprio nella distruzione della linearità del linguaggio l’eredità di Cage.
Completamente contrastante è il carattere di The carenza Jig: qui veniamo trascinati dalla grinta e dalla vitalità della musica ungherese, soprattutto nel ritmo vivacissimo e negli accenti.
Conclusioni
“Tutta la tecnica esatta, tutto ciò che rimane “nascosto” nella musica sigle, simboli, proporzioni, cenni e allusioni - viene comunque percepito.
Un’opera priva di tale parte “subacquea” non può lasciare alcuna impressione durevole.”
Ciò che rimane nascosto, cenni, allusioni, parte subacquea … ma a quale dei
due compositori questo frammento si riferisce: Kurtág o Schnittke?
Il lettore attento avrà riconosciuto un passaggio già citato del compositore Russo, ma è così lontano dalla concezione poetica del Kurtág di Jelek,
játékok és üzenetek?
Non può essere un caso che due compositori, apparentemente molto
diversi, sentissero così forte l’esigenza di arricchire le loro partiture di riferimenti e significati, che un ascolto privo di partitura (come può essere
quello in una sala da concerto) non può in alcun modo interpretare.
Per sciogliere questo nodo basta pensare in quali condizioni della vita
si crea il “sommerso”: esiste quando c’è una legge, una regola, uno schema
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Due autori dell’est europeo a confronto
sociale rigido, i cui limiti sono sentiti troppo stretti dai cittadini subalterni. È
difficile che esista un mistero quando tutto può avvenire alla luce del sole.
Prima che questo pensiero ci porti troppo lontano, mi pare giusto ricordare che nei loro “segni” e “messaggi” i due compositori non affermavano
niente di sovversivo o rivoluzionario contro il regime comunista.
Piuttosto si potrebbe ipotizzare che la convivenza di entrambi con il totalitarismo li abbia portati a un modus vivendi, o meglio, a una concezione
dell’atto creativo nella quale una parte si dona in modo esplicito all’ufficialità e il resto rimane segreto, ma importantissimo per l’autore.
Del resto Schnittke aveva il forte esempio di Šostakovič, capace sia di
scrivere compiacendo il regime, sia di farsi beffe dei burocrati con strumenti musicali.
Nelle stesso modo Kurtág ha imparato da Bartók a resistere alle dominazioni usando la lingua madre e gli idiomi musicali legati alla cultura
ungherese.
Come i due grandi maestri del primo novecento attuavano forme di resistenza e opposizione al regime attraverso la composizione, così la generazione successiva si riservava di tenere una parte per se di ciò che offriva
al pubblico.
La grande differenza è nel fatto che, con la crisi dell’Impero Sovietico del secondo novecento, il regime aveva allentato le briglie sull’estetica artistica, permettendo a quei contenuti celati di spostarsi dall’ambito
politico-sociale e quello biografico-affettivo.
Circoscrivendo il contesto dei due compositori a livello nazionale, si
può notare come sia molto vivo in entrambi il legame con la cultura d’origine, che si traduce nello stretto rapporto musica-parola. Alcune pagine,
tra cui ad esempio la Cadenza del Concerto per viola di Schnittke o il Doloroso
di Kurtág, sarebbero incomprensibili se non viste nella luce di una narrazione verbale.
In compenso v’è una notevolissima differenza nel rapporto che ciascuno dei due compositori ha avuto con il mondo musicale circostante.
Kurtág è una figura solitaria, esigente, inquieta, in disparte dai grandi
movimenti europei, ma senza ignorarli o respingerli. Questo spiega le non
poche difficoltà per raggiungere il successo fuori dall’Ungheria. La prima esecuzione dei Detti di Peter Bornemisza, avvenne negli anni Sessanta a
Darmstadt ma non riscosse successo. Non aderendo a nessuno dei movimenti sviluppati dagli anni Cinquanta (non utilizza la tecnica seriale, né
il minimale, né la musica concreta, né quella aleatoria) veniva considerato
un marginale per scelta. Solo dopo gli anni Ottanta è stato scoperto in
Germania e da lì ha acquistato la fama europea. In compenso in Italia ha
un’accoglienza precoce, grazie ai musicisti della cerchia del movimento
Musica/Realtà (Nono, Manzoni, Guarnirei, Gentilucci) che già nel ’76 cominciarono ad introdurlo al pubblico italiano.
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F. Zanelli
Schnittke invece è considerato da tutti un autore di successo. Ha vissuto nel centro della vita musicale sovietica prima ed europea dopo. Anche
il linguaggio da lui scelto per esprimersi va sicuramente incontro ad una
comprensione diretta ed accattivante: non che i contenuti siano superficiali, ma i mezzi usati rimandano a luoghi noti, familiari, che anche un
pubblico non di eletti possa capire facilmente. Ai suoi concerti c’era una
tale affluenza di pubblico da dover far intervenire il servizio d’ordine per
allontanare l’eccedenza.
L’uso delle citazioni e del polistilismo di Schnittke può averlo fatto avvicinare troppo ad un certo accademismo, ossia ad una maniera standardizzata che aveva come principale modello Šostakovič. In questo Kurtág
si distingue del tutto da Schnittke, per la lontananza assoluta da qualsiasi
accademia e rigidità preconcetta.
Coerentemente con le caratteristiche qui constatate i linguaggi musicali
che ne derivano sono molto differenti.
Schnittke cerca l’unità degli stili in un Uno sovrabbondante, pieno di
riferimenti a musiche passate e presenti, dotte e volgari. Si ascoltano echi,
deliri, trasfigurazioni. Usa le forme antiche (la sinfonia, il concerto, la suite…) per riempirle di provocazioni e contraddizioni. Non a caso, infatti,
nei passi citati sopra, prende a proprio modello Mahler e Ives.
L’Uno di Kurtág, consonante con il suo carattere introverso, tende
all’essenzialità ed alla miniatura. Non che i mondi descritti siano meno
ampi di quelli di Schnittke, anzi: con i minimi termini riesce a addentrarsi
in profondità non definibili. Questo lo avvicina molto all’estetica di Webern, in cui il singolo suono rivelava un mondo a sé.
Una composizione del ‘91, per contralto solo recitante, s’intitola Samuel
Beckett comunica con Ildikó Monyók avendo István Siklós come interprete. Da
questo titolo si può dedurre come le forme usate da Kurtág non siano assolutamente convenzionali o riconducibili a forme musicali passate.
Il cuore della diversità tra i due compositori risiede proprio nel fatto
che Schnittke cerca di rinnovare il linguaggio, mischiando e sperimentando la prosa musicale, facendo convivere armonicamente gli elementi più
disparati in una eloquente narrazione; mentre Kurtág si sofferma sul gesto
poetico, isolato, denso, autosufficiente.
Entrambe le estetiche non sono nuove al novecento.
La chiave risolutoria la potremmo chiedere a Charles Bukowski, che
con ironia graffiante afferma: “Che differenza c’è tra poesia e prosa? La
poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un
bel po’.”
Bibliografia
Dal volume Schnittke, Autori Vari, a cura di Renzo Restagno, ed. EDT, 1993:
Renzo Restagno, URSS/Russia: 40 anni di musica dalla morte di Stalin a oggi;
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Due autori dell’est europeo a confronto
E. Wilson, Conversazione tra Elizabeth Wilson e Alfred Schnittke;
R. Restagno, Conversazione tra Enzo Restagno e Alfred Schnittke;
Aleksandr Ivaškin, Alfred Schnittke: la musica e “l’armonia del mondo”.
Dal volume Festival, György Kurtág, a cura dell’Ufficio Edizioni del Teatro alla Scala, ed. del
Teatro alla Scala, 1998:
Philippe Albèra, György Kurtág, un’introduzione;
Ivan Negel, Kurtág ci parla ovvero: il “parlando di Kurtág;
András Wilheim, Kurtág e le occasioni;
Bálint András Varga, Per eseguire Kurtág;
Marco Mazzolini, György Kurtág: Kafka-Fragmente;
Paolo Pinamonti, Composizioni per coro;
Roberto Favaro, Omaggio a Kurtág: sei composizioni di autori italiani su poesie di Alda Merini;
Luigo Pestolazza, Játékok (Giogni);
Enzo Restagno, Bornemisza Péter Mondásai (I detti di Péter Bornemisza);
Paolo Petazzi, Stsenï iz romana (Scene da un romanzo);
Paolo Petazzi, Grastein für Stephan, Samuel Beckett: What is the Word;
Jürg Stenzl, Le musiche per quartetto d’archi;
Piero Rattalino, “Imposto” alla Kurtág;
Paolo Gallarati, Üzenetek (Messaggi);
Paolo Gallarati, ΣΤΗΛΗ (Stele);
Franco Pulcini, Messaggi della defunta signorina R.V. Trussova 21 poesie di Rimma Daloš, op. 17;
Bálint András Varga, Kurtág didatta;
Paolo Petazzi, Un poeta ungherese del’900: Attila Jósef.
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Il convegno di Padova.
I conservatori a dieci anni dalla riforma
di Matteo Cammisa
A Padova, il due ottobre scorso, si è svolto il convegno sul diritto allo
studio organizzato dal conservatorio C. Pollini, in particolare sulla decennale questione della riforma 508, scritta appunto nell’ormai lontano 1999.
Il convegno si è svolto durante tutta la giornata passando attraverso molti punti caldi della riforma. Sono state messe al vaglio questioni relative
alla situazione culturale italiana, agli sbocchi lavorativi, al pareggiamento dei corsi e all’equipollenza dei tanto agognati crediti formativi. Infine
due esperti, Luigi Filippo Donà dalle Rose e Paolo Destro1, hanno aperto un’importante parentesi sull’Erasmus, illustrando le caratteristiche e i
successi ad esso legato.
Al convegno erano presenti alcuni dei rappresentanti degli studenti di
alcuni conservatori nazionali (Trieste, Como, Alessandria, Matera, Palermo, Sassari, Brescia e Lucca) che nel pomeriggio, dopo aver ascoltato gli
importanti interventi della mattina, si sono riuniti a un tavolo di lavoro per
un confronto sulle tematiche relative alla formazione nei conservatori.
Preso atto che la riforma del ‘99 pone le basi per un cambiamento radicale del percorso di studi di ambito artistico, sono da subito emersi dubbi
e problemi relativi ad esso. In particolare si è sottolineato il fatto che la
legge non abbia ancora una forma definitiva. Essa infatti pone le basi per
una attuazione effettiva del cambiamento del percorso di studi da secondario a superiore ma in modo quanto mai vago e labirintico. E’ chiaro a
tutti che siamo di fronte a una legge che si fonda su basi legittime, ma
che non ha poi la possibilità di imporsi nel dettaglio in maniera decisiva
e definita. I corsi vengono istituiti in base ad una sua interpretazione e
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Il professor Paolo Destro è responsabile Erasmus del Conservatorio Pollini di Padova; il professor Luigi Filippo Donà dalle Rose è delegato del rettore dell’Università d deglistudi di
Padova alla mobilità internazionale
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Il convegno di Padova
non in relazione ad uno specifico programma di lavoro. Lo dimostrano,
fra l’altro, i numerosi interventi con i quali il TAR del Lazio in questi
ultimi anni ha annullato le richieste di convalida del diploma accademico di II livello, semplicemente per la mancanza di una firma a conferma
della loro validità. Gli stessi problemi si ripropongono, amplificati, per il
triennio di I livello. Il percorso di studi concepito dalla riforma cancella il
vecchio ordinamento e istituisce i tre anni di percorso accademico (livello
universitario). Azione in sé nobile, ma che impedisce a studenti già iscritti
all’università di frequentare anche il conservatorio, non essendo prevista
in Italia la doppia iscrizione. Considerando che una gran parte di studenti
di conservatorio aveva già avviato un percorso di studi di tipo universitario, è facile immaginare il numero di lamentele e richieste di spiegazioni
alle quali i poveri professori si trovano a dover rispondere, senza poter
fare niente. Inoltre, è noto che chi non ha ancora conseguito un diploma di
scuola media superiore non può accedere ai corsi universitari (compresi
quelli di nuova istituzione nei conservatori). Sappiamo però che per molti
strumenti lo studio deve iniziare precocemente e che il livello di professionalità richiesto dal diploma accademico di primo livello è spesso già
raggiunto prima del conseguimento di un diploma di maturità. Ciò comporta di conseguenza un allungamento francamente vessatorio dei tempi
di frequenza del triennio. In ultimo, con l’attuazione del triennio, detto
anche corso accademico di primo livello, i privatisti saranno costretti ad
iscriversi ad un istituto. Costrizione già preannunciata da tempo che però
mette comunque in difficoltà chi tra questi aveva quasi finito il corso di
studi. Questi infatti, anche se di fatto all’ultimo anno, in preparazione cioè
del diploma, si troveranno a dover affrontare un gran numero di esami in
più. Infine un altro problema della riforma riguarda i corsi pre-accademici.
I relatori si sono trovati d’accordo sulla possibilità di istituire questi corsi
di preparazione all’accesso al triennio. I dubbi nascono non appena questo
corso di base si dice essere parallelo o di importanza paritaria al corso di
studio dei licei musicali. Questi ultimi infatti, in quanto licei, preparano
i ragazzi al percorso formativo universitario (triennio) e quindi non possono essere professionalizzanti. In oltre nei Licei Musicali, tra l’altro di
numero estremamente esiguo rispetto ai conservatori presenti sul territorio, non si vanno ad insegnare tutti gli strumenti d’orchestra, spesso ci si
ferma solo ad alcuni di essi. Per finire, nel programma sono previste una
serie di materie umanistiche e scientifiche che nel corso base dei conservatori non esistono. In questi ultimi infatti lo strumento e la musica sono
le principali ed uniche materie da studiare. La conoscenza quindi da un
punto di vista musicale di un ragazzo che esce da un Liceo non può essere paragonata a quella di un ragazzo che esce dal conservatorio. Questi
sono alcuni dei dubbi che la riforma ha generato in questi anni e che ora
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soprattutto diventano di decisiva importanza. Dal prossimo anno accademico (2010-2011) i corsi triennali e i pre-accademici (corsi di base) saranno
vigenti in tutti i conservatori d’Italia.
In sostanza, la riforma nasce con un nobile intento, ma purtroppo non
viene gestita in maniera esaustiva e intelligente. La possibilità per gli studenti di fare un percorso formativo di livello superiore è sicuramente di
importanza epocale in quanto permette una serie di nuovi diritti e opportunità: apre la possibilità di una maggiore relazione con l’estero grazie
all’equipollenza dei crediti ed eleva la condizione dell’allievo ad una posizione di studente universitario a cui viene automaticamente garantito un
tipo di formazione di livello altamente professionalizzante. Attraverso il
progetto Erasmus si ha la possibilità di vedere riconosciuti gli studi effettuati in sede estere aumentando così l’offerta formativa. Inoltre lo studente si trova di fronte la possibilità di scegliere di studiare con altri professori
e seguire altri corsi senza dover cambiare iscrizione. L’Erasmus, che non
sarebbe stato possibile attivare in un corso di vecchio ordinamento, oltre
a un effettivo accrescimento personale in termini di formazione musicale
e umana, permette di aumentare le possibilità lavorative. Con l’aumento
del numero di contatti professionali, allo studente si aprono nuove opportunità che la semplice esperienza nazionale o addirittura regionale
non puògarantire. Il progetto Erasmus, che quest’anno compie 23 anni,
proprio per arricchire le possibilità lavorative dello studente, ha istituito
negli ultimi anni il progetto Erasmus Placement. Questa offerta, proposta
nell’ambito del Lifelong Learning Programme (LLP), si pone in alternativa all’Erasmus studio permettendo allo studente di vivere l’esperienza
lavorativa in prima persona passando attraverso stage presso imprese o
centri di formazione e di ricerca in uno dei 31 Paesi Europei partecipanti al
programma (da notare che sono in numero superiore ai paesi della comunità europea, attualmente 27). Inoltre al termine del periodo di Erasmus
Placement (minimo tre mesi), lo studente potrà vantare un’esperienza lavorativa anche se di fatto ancora non da professionista. Quest’ultimo fatto
è di grande importanza in quanto non sempre gli studenti riescono a studiare e a lavorare rimanendo nel proprio ambito professionale e quando
finiscono gli studi non hanno esperienze lavorative da inserire nei loro
curriculum.
La riforma delle istituzioni di formazione artistica, legge 508/99, è
quindi un importante traguardo che pone l’ambito artistico su un piano
superiore legittimandone l’importanza anche da un punto di vista legislativo. L’arte infatti non è solo uno svago ma un elemento fondante del
patrimonio italiano. Il presidente del CNAM (Consiglio Nazionale per
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Il convegno di Padova
l’Alta Formazione Artistica e Musicale), Prof. Giuseppe Furlanis, in sede
di dibattito ha però espresso il suo scetticismo a riguardo, illustrando una
situazione che non si allinea per niente con l’obiettivo e la buona volontà
della riforma. La presente politica di governo, guardando allo sviluppo
del territorio da un punto di vista economico e sociale, mostra un interesse
forsennato alla riduzione della spesa pubblica, atto legittimo, visti i debiti
e i deficit che oberano l’Italia negli ultimi anni: peccato però che si vadano a tagliare proprio quei settori che hanno dato all’Italia un importante
guadagno non solo etico e culturale ma anche e soprattutto economico.
“A volte” riprendendo le parole di Furlanis “ci dimentichiamo dell’importanza dell’estetica del prodotto italiano e di quanto i settori fondamentali
dell’Italia hanno come punto di forza la loro estetica. La dimensione artistica è un elemento fondamentale per lo sviluppo dell’Italia… I Cinesi, ad
esempio, ci apprezzano per il nostro design, per i nostri capi di abbigliamento, ma anche e soprattutto per le opere di Puccini!”
I tagli devastanti che sono stati fatti alla cultura rientrano in un programma volto al miglioramento gestionale degli apparati artistici come
ad esempio le fondazioni e le imprese liriche le quali, a detta del governo,
non danno un guadagno effettivo allo stato, mandando in spreco risorse
importanti per lo sviluppo di altri settori industriali. Furlanis nel suo discorso, più volte applaudito durante il convegno, ha voluto sottolineare
quest’incongruenza tra una riforma che mira all’elevazione di un settore
fondamentale della storia italiana e una crisi dell’ambiente culturale derivato dalla stessa politica di governo.
La situazione è insomma problematica e le speranze di proseguire gli
studi per gli studenti di oggi è spesso messa a dura prova. Se infatti da
una parte si ha una riforma che, seppur volta ad un miglioramento, genera solo caos, dall’altra si ha anche una crisi effettiva dei posti di lavoro.
“Il presidente delle ICO (Istituzioni Concertistico Orchestrali) Paolo Maluberti ” ha detto Paolo Troncon direttore del conservatorio di Vicenza
“ritiene che si debbano chiudere i conservatori in quanto non ci sono posti
disponibili nelle orchestre. Che serve educare un allievo al lavoro se poi il
lavoro non c’è?”. Il punto di vista estremamente diretto, ma reale, del presidente Maluberti delinea una problematica di non poco conto per chi si
dovrà affacciare al mondo del lavoro artistico. Le possibilità lavorative, da
un punto di vista musicale, in Italia si sono ridotte drasticamente a causa
della chiusura di diverse orchestre e del taglio del numero di insegnanti.
Troncon durante il convegno ha cercato di mostrare comunque una via
d’uscita a questo sistema di tagli. La mancanza di risorse infatti non deve
essere vista come una barriera insormontabile ma come un’occasione per
rielaborare i progetti, ridurre i costi e ottimizzare le produzioni. A tal proCodice 602
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M. Cammisa
posito si è fatto portavoce di un progetto che ormai ha preso piede nel Veneto da qualche anno cioè il Consorzio dei Sette Conservatori, che ha dato
vita all’Orchestra dei sette conservatori. Questo ha permesso agli Istituti
di avere degli incentivi a livello regionale e agli studenti di confrontarsi
con le realtà vicine. La concentrazione delle diverse iniziative artistiche ha
poi permesso una diminuzione dei costi. La mancanza di risorse rimane
comunque un nodo difficile da sciogliere. Le produzioni artistiche e le
offerte formative per quanto razionalizzate, se non hanno fondi saranno
sempre penalizzate. L’idea di accorciare le distanze e di creare dei collegamenti fra le varie istituzioni italiane (orchestre, istituti, associazioni ecc..)
è da tenere in considerazione comunque, al di là che ci siano dei tagli o
meno. Il rappresentante degli studenti in seno al CNAM, Paolo Gasperin,
al riguardo sta promuovendo l’idea di istituire un organo di consiglio che
raccolga tutti i rappresentanti dei conservatori e istituti nazionali. Non
esiste infatti una assemblea (fatta eccezione per le rare riunioni nazionali) dove i vari rappresentanti del corpo studentesco possano confrontarsi
sulle materie e le problematiche che li riguardano. Il convegno di Padova,
oltre ad un importante momento di riflessione sui temi citati è stata anche
un’occasione di incontro personale e confronto fra i rappresentanti delle
istituzioni presenti. Al termine della giornata, proprio per la buona riuscita dei tavoli di lavoro del pomeriggio, le consulte si sono trovate d’accordo
sulla proposta di Gasperin per l’istituzione di un organo nazionale riconosciuto ufficialmente.
Il confronto e il dialogo sulle problematiche degli studenti sono il primo passo verso l’evoluzione del percorso formativo. è dagli studenti che
deve venire la richiesta della risoluzione di determinati problemi perché
è per gli studenti e grazie ad essi che i conservatori, gli istituti e le accademie oggi lavorano a pieno regime.
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010
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