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programma di sala - Società del Quartetto di Milano
Martedì 3 marzo 2015 ore 20.30 Sala Verdi del Conservatorio Stagione 2014-2015 Concerto n. 12 Rafał Blechacz pianoforte Bach - Concerto Italiano BWV 971 Beethoven - Sonata n. 8 in do minore op. 13 “Patetica” Chopin - Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2 - Tre Valzer op. 64 - Tre Mazurche op. 56 - Polacca in fa diesis minore op. 44 Di turno Andrea Kerbaker Luciano Martini Consulente Artistico Paolo Arcà Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685 - Lipsia 1750) Concerto Italiano BWV 971 (ca. 16’) I. (Allegro) II. Andante III. Presto Anno di composizione e pubblicazione: 1735 (in Clavier Übung II) Il secondo volume della Clavier Übung, pubblicato nel 1736 e destinato a un pubblico di amatori e persone di gusto, contiene esempi delle due scuole di musica strumentale che si contendevano il primato in Europa, quella francese e quella italiana. Ciascuna delle due era rappresentata attraverso la forma considerata il rispettivo cavallo di battaglia, l’Ouverture per la scuola francese e il Concerto per quella italiana. Concerto è un termine dall’etimologia incerta, che indica allo stesso tempo l’idea di legare assieme e quella di conflitto, di contrapposizione. Nella musica il termine ha cominciato a delinearsi con una specifica fisionomia a partire dal Seicento, ma solo verso la fine del secolo ha acquistato il valore di una vera e propria forma musicale, grazie a maestri italiani di fama internazionale come Stradella, Torelli e Corelli. La grande fioritura del concerto solistico avviene nei primi decenni del Settecento, soprattutto per merito dei maestri veneziani come Albinoni, Benedetto Marcello e Vivaldi. I loro lavori erano conosciuti in tutta Europa attraverso edizioni e copie manoscritte. Bach stesso, per carpire i segreti dello stile italiano, aveva copiato numerosi lavori di Vivaldi, trovati per esempio nelle biblioteche musicali delle cappelle dove aveva prestato servizio. Concerto, per Bach, indica soprattutto uno stile, che riguarda i rapporti tra le diverse voci all’interno della scrittura. In questo caso infatti egli scrive un Concerto per un solo strumento, in cui la tastiera rappresenta di volta in volta il solista e l’orchestra che lo accompagna o lo contrasta. Non è difficile distinguere le parti destinate a incarnare il tutti orchestrale e quelle nelle quali emerge invece una singola voce accompagnata dal ripieno degli altri strumenti. Nel frontespizio della Übung è indicato chiaramente come strumento il cembalo a due manuali, proprio per la necessità di alternare i piani sonori, ma tuttavia il termine Concerto sembra inteso da Bach più sul piano astratto della scrittura che come forma musicale in senso concreto. L’omaggio al gusto italiano infatti trova la sua espressione più alta nell’“Andante”. Qui la contrapposizione tra l’orchestra e la voce solista, che canta con la massima libertà e il narcisismo più voluttuoso, sembra l’ideale dei grandi Concerti per violino di Vivaldi, che Bach conosceva e amava fin dai tempi di Köthen. Ludwig van Beethoven (Bonn 1770 - Vienna 1827) Sonata n. 8 in do minore op. 13 “Patetica” (ca. 20’) I. Grave - Allegro di molto e con brio II. Adagio cantabile III. Rondò. Allegro Anno di composizione: 1798 Anno di pubblicazione: Vienna, 1799 La tonalità di do minore segna le principali fasi di passaggio del percorso artistico di Beethoven. Una di esse è rappresentata dalla Sonata op. 13, conosciuta come “Grande Sonate pathétique”, titolo inventato dall’editore ma poi accettato di buon grado da Beethoven, che sentiva nell’aggettivo “patetica” un’eco delle teorie estetiche di Schiller. Vicino alla svolta del secolo, Beethoven sente la necessità di imprimere un nuovo slancio al linguaggio della sonata, con uno stile più asciutto, drammatico e integrato. L’altro aggettivo del titolo, grande, si riferisce più al carattere della scrittura che alle dimensioni della Sonata, che è in soli tre movimenti e di durata relativamente modesta. Nobile e solenne infatti incede il “Grave” iniziale, che introduce la forma sonata vera e propria indicata come “Allegro di molto e con brio”. Il passo lento e scandito dei pesanti accordi che partono e ritornano alla tonalità di do minore precipitano l’ascoltatore nel cuore di una tragedia, di cui ancora non conosciamo i contorni. Le dolorose appoggiature e le aspre dissonanze messe in risalto ad ogni cadenza ci raccontano di un animo esacerbato, che trattiene a fatica l’esasperazione. La scrittura burrascosa dell’“Allegro” successivo incarna invece l’impeto dell’azione drammatica. Una tempesta si scatena nel cuore del pianoforte, che scuote la tastiera con tremoli e note ribattute del basso, mentre nell’altra mano il tema si sviluppa in mezzo a sincopi ritmiche e a sferzanti folate di crome. Il secondo tema, affinché si capisca qual è la natura cupa del dramma, viene esposto in mi bemolle minore, anziché in maggiore, come ci si aspetterebbe. Il maggiore viene conquistato solo alla fine, con grande fatica, come una sorta di bottino di guerra. Lo sviluppo comincia con la ripresa di un frammento del “Grave”, che dunque si rivela parte integrante della forma e non una semplice introduzione. Il carattere tempestoso di questo primo tempo, così vibrante e scolpito nel granito, forma un contrasto scenografico con il successivo “Andante cantabile”. Qui la dolce melodia del tema si dispiega nella morbida tonalità di la bemolle maggiore, con la semplicità di un Lied. Ma le strofe di questa canzone, in opposizione al canto spianato del tema, raccontano ancora una storia triste e di dolore. Ritorna infatti prima il do minore e si affaccia poi un episodio in la bemolle minore, che vaga in territorî lontani come il mi maggiore prima di tornare sul suolo di casa, per così dire, della tonalità principale. Il “Rondò” conclusivo è ancora in forma sonata, con il secondo couplet che rappresenta lo sviluppo e il terzo la ripresa. Anche in questo caso vi è da notare la forte attrazione esercitata dal mi bemolle minore, che s’intromette nel tema prima di lasciar passare la “giusta” tonalità in maggiore. L’eroe di Beethoven non è titubante, anzi procede fino all’ultima battuta con la massima determinazione e senza il minimo dubbio. Mostra solo un momento d’indecisione, con un calando alla fine dell’ultimo ritornello, ma è solo un attimo, perché si riprende subito e termina con una stoica coda, non trionfale ma di virile fermezza. Fryderyk Chopin (Zelazowa Wola 1810 - Parigi 1849) Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2 (ca. 5’) Tre Valzer op. 64 (1846) (ca. 9’) in re bemolle maggiore n. 1 in do diesis minore n. 2 in la bemolle maggiore n. 3 Tre Mazurche op. 56 (1843) (ca. 12’) in si maggiore n. 1 in do maggiore n. 2 in do minore n. 3 Polonaise in fa diesis minore op. 44 (1841) (ca. 10’) Il Notturno in mi maggiore op. 62 n. 2 fa parte di una raccolta di due, scritti e pubblicati nel 1846. Sono gli ultimi esempi di un genere legato in maniera indissolubile al nome di Chopin. Il carattere di questo Notturno, in armonia con i lavori dell’ultimo periodo, sembra tendere verso un’espressione quasi astratta, grazie al perfetto equilibrio tra la forma e la densità sempre più rarefatta del materiale. Gli elementi decorativi si appoggiano con estrema delicatezza sulla linea melodica, mentre la scrittura estremamente trasparente conferisce una luce lunare al suono del pianoforte. La valse era la regina delle danze nell’Ottocento e ha contribuito in misura notevole a stabilire la posizione di Chopin nel mondo parigino. I valzer rappresentano l’esempio migliore dello stile brioso e improvvisativo delle sue prime esibizioni. Le cifre ricavate da Chopin per la pubblicazione dei suoi valzer sono la miglior testimonianza della popolarità raggiunta dalla sua musica. Altrettanto si potrebbe dire dei Tre Valzer op. 64, che tra il 1846 e il 1848 vennero pubblicati in diverse città europee. La musica da salotto, malgrado il passare delle mode, restava una merce editoriale sicura e garantiva un cespite all’autore. Chopin stesso, nelle sue ultime e rare apparizioni in pubblico, inseriva quasi sempre uno dei suoi Valzer nel programma. Il primo dei Tre Valzer op. 64, quello in re bemolle maggiore, figura infatti nell’ultimo concerto di Chopin a Parigi, il 16 febbraio 1848, suscitando nel pubblico un tale entusiasmo da costringere il musicista a concedere il bis. Il lavoro è pieno di grazia e vivacità, con una sfumatura di melanconia conferita alla danza dalla reminiscenza di una melodia popolare del suo villaggio natale. Il secondo, in do diesis minore, è altrettanto prediletto dagli amateur. La forma è quella del rondò, con la strofa di carattere lirico al posto del Trio. L’ultimo, in la bemolle maggiore, è forse il migliore dal punto di vista musicale, anche se non altrettanto popolare. I numerosi spunti cromatici e l’instabilità dell’armonia rivelano, dietro l’apparenza mondana, l’irrimediabile tormento di uno spirito inquieto, una sorta di confessione autobiografica caratteristica dell’ultimo Chopin. La mazurca, tra tutte le forme di danza prese in considerazione da Chopin, rappresenta senz’altro quella più radicata nel mondo contadino polacco. Proprio perché espressione di un mondo essenzialmente chiuso come quello rurale e abbarbicato a tradizioni secolari, in Polonia la musica popolare varia da zona a zona, con versioni anche molto diverse delle stesse melodie e dei ritmi delle danze. Le regioni che Chopin aveva conosciuto meglio furono la Mazowia, dov’era nato, e la Kujawia, dove da ragazzo passava l’estate. La mazurca in Chopin riporta più d’ogni altra musica a quel mondo e a quel senso d’identità polacca, che forma il carattere essenziale della sua opera. Gli influssi della musica popolare, nelle Mazurche, hanno naturalmente un carattere più ideale che concreto, dal momento che in quell’epoca gli scrupoli filologici cominciavano appena a mettere radici nella mentalità degli studiosi. In questo senso, le Mazurche rappresentano le opere meno autobiografiche e più oggettive di Chopin, proprio perché volte a evocare la nostalgia di un mondo perduto, e contengono allo stesso tempo forse le gemme più preziose della sua musica per eleganza e perfezione formale. L’autore non si staccò mai da questo genere prediletto, pubblicando a intervalli regolari le Mazurche a fascicoli di tre o di quattro. Chiude il programma la Polacca in fa diesis minore op. 44, terminata nel 1841. Chopin ne parlava come di “una nuova specie di Polacca, piuttosto una fantasia”. Questa vasta composizione racchiude molte esperienze del pianoforte di Chopin, a cominciare dalla nostalgia per una patria ormai immaginaria. A differenza delle Mazurche, le Polacche erano danze di carattere pomposo e urbano, più adatte a raccontare ideali politici romantici e suggestioni letterarie. Chopin trasforma la Polacca in fa diesis minore in una sorta di poema epico, riversando in questa forma una notevole quantità d’immagini liriche. Le stanze della danza originaria si dilatano per contenere episodi secondari, costruendo una piramide di frammenti di rara intensità, con una forza espressiva talmente concentrata che nemmeno le più ardite immagini pianistiche di Debussy saranno capaci di superare. Oreste Bossini Rafał Blechacz pianoforte Nato nel 1985 a Naklo nad Notecia in Polonia, Rafał Blechacz inizia lo studio del pianoforte a 5 anni. Ha proseguito gli studi alla scuola “Arthur Rubinstein” di Bydgoszcz e all’Accademia Musicale di Bygdoszcz dove si è diplomato nel 2007 sotto la guida di Katarzyna Popowa-Zydrón. Premiato al Concorso Internazionale per Giovani Pianisti in memoria di Arthur Rubinstein a Bygdoszcz (2002), al Concorso di Hamamatsu in Giappone (2003) e in Marocco (2004), nel 2005 ha vinto all’unanimità il primo premio al Concorso Chopin di Varsavia aggiudicandosi anche i premi speciali per la migliore esecuzione delle Mazurche e delle Polacche, per la migliore esecuzione concertistica e per la migliore esecuzione delle Sonate, premio istituito da Krystian Zimerman. La medaglia d’oro al Concorso Chopin gli ha aperto le porte delle maggiori sale da concerto in tutto il mondo quali Royal Festival Hall e Wigmore Hall di Londra, Philharmonie di Berlino, Herkulessaal di Monaco di Baviera, Alte Oper di Francoforte, Liederhalle di Stoccarda, Tonhalle di Zurigo, Concertgebouw di Amsterdam, Konzerthaus di Vienna, Salle Pleyel di Parigi, Avery Fisher Hall di New York. Ha suonato con importanti orchestre e celebri direttori fra cui Valery Gergiev, Michail Pletnev, Charles Dutoit, David Zinman, Marek Janowski e Jerzy Maksymiuk. È ospite regolare dei festival di Salisburgo, Verbier, La Roque d’Anthéron, Klavierfestival Ruhr e del Gilmore Festival negli Stati Uniti che gli ha assegnato nel 2014 il Gilmore Artists Award. Nel luglio 2010 gli è stato assegnato il premio dell’Accademia Chigiana di Siena. Nel 2006 ha firmato un contratto in esclusiva con la Deutsche Grammophon. Il primo CD dedicato ai Preludi di Chopin ha vinto il Disco di platino, l’ECHO Klassik e il Diapason d’or. Il CD dedicato ai Concerti di Chopin registrati nel 2010 con l’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam e Jerzy Semkow ha vinto il Premio della critica tedesca il Disco di Platino. La sua ultima incisione è dedicata alle Polonaises op. 26, op. 40, op. 44, op. 53 e op. 61 di Chopin. È stato ospite della nostra Società nel 2010 e 2012. Prossimo concerto: Martedì 10 marzo 2015, ore 20.30 Sala Verdi del Conservatorio Reto Bieri clarinetto Nicolas Altstaedt violoncello Herbert Schuch pianoforte Giovani, agguerriti e di successo, il clarinettista svizzero Reto Bieri, il violoncellista franco-tedesco Nicolas Altstaedt e il pianista rumeno Herbert Schuch formano un trio di alta classe dedito al repertorio di musica da camera. L’organico in questione non è vastissimo, ma vanta alcuni capolavori di valore assoluto, come il Trio per clarinetto op. 114 di Brahms. Anche Beethoven ha lasciato un lavoro giovanile per questa formazione, e questo sarebbe sufficiente a giustificare l’impegno, ma il repertorio si sta ancora allargando grazie a lavori di nuovi autori, come Jörg Widmann, che è stato incluso nel programma. Infine il concerto offre l’occasione di ascoltare un lavoro di Schumann meno conosciuto, gli Studi in forma canonica op. 56 per un particolare tipo di pianoforte con pedaliera, in una trascrizione ottocentesca di Theodor Kirchner. Società del Quartetto di Milano - via Durini 24 20122 Milano - tel. 02.795.393 www.quartettomilano.it - [email protected]