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Hotel house / Adriano Cancellieri
ISBN 978-88-908130-0-9
published under CreativeCommons licence 3.0
by professionaldreamers, 2013
Progetto grafico | Mubi
Immagine di copertina | Adriano Cancellieri
Immagini | Adriano Cancellieri
Revisione dei testi | Mubi
professionaldreamers è un progetto editoriale indipendente che pubblica
e promuove richerche sulle tematiche di spazio e società, privilegiando
gli studi urbani, territoriali e la prospettiva etnografica. I progetti di libro e i
manoscritti ricevuti sono sottoposti a un processo di peer-review anonima.
professionaldreamers si avvale altresì della consulenza di un international
advisory board.
www.professionaldreamers.net
Adriano Cancellieri
hotel house
indice
Illustrazioni
7
Tabelle
8
ringraziamenti 9
prefazione di
Chantal Saint-Blancat
11
Capitolo 1. Mondominio Hotel House. Storia, demografia e urbanistica
La storia, 1967-2012
15
17
L’arrivo degli immigrati. La nuova demografia
19
Tra autosufficienza e separazione. Architettura e urbanistica
27
Capitolo 2. La ricchezza
liminali Il capitale spaziale
e l ’ ambivalenza del capitale spaziale .
Spazi
comunitari e spazi
33
34
Spazi comunitari e spazi liminali
36
“Mi sembra di stare in Senegal”. Gli spazi domestici
37
“è bello ogni tanto sentirci come una famiglia”. Lo spazio comunitario della moschea
46
“I servizi se li sono fatti al piano terra”. Gli spazi di incontro
51
“Qui io mi trovo in mezzo alla gente”. I luoghi terzi 59
Capitolo 3. Differenti Hotel House. Usi
minoranza Essere donna
e sensi del luogo delle minoranze nella
69
70
Crescere qui
77
Essere italiano
80
5
Capitolo 4. Le battaglie per il senso del luogo e gli “esterni costitutivi”
“Una cosa seria è diventata!” Il comitato multiculturale
Stigma e abbandono. Gli “esterni costitutivi”
Qualche anno dopo: la caduta verticale
85
86
98
104
Capitolo 5. Conclusioni. Cosa imparare dall’Hotel House?
I principali fattori condizionali
113
115
appendice metodologica 123
126
La forza dell’etnografia
bibliografia postfazione di I lvo
6
129
Diamanti
139
Illustrazioni
1.1. L’arrivo all’Hotel House 14
1.2. Locandina pubblicitaria dell’epoca
20
1.3. Periodico locale La Tartana, n. 74, luglio-agosto 1976
22
1.4. La città di Porto Recanati vista dall’Hotel House
30
1.5. L’Hotel House visto in lontananza
31
1.6. Hotel House e Porto Recanati: un difficile incontro…
32
2.1. La risignificazione degli spazi domestici (foto di Francesca Pieroni)
40
2.2. Immagini tradizionali e… immagini multimediali (foto di Francesca Pieroni)
41
2.3. Alcuni degli usi dei balconi dell’Hotel House
45
2.4. Il piano terra dell’Hotel House. Sintesi grafica degli spazi di incontro
56
2.5. Il campetto da calcio del Garden House e l’ingresso al parcheggio
57
2.6. Due piccole amiche nel bar di Mukthar e Rahman
62
2.7. Vacanzieri e abitanti chiacchierano davanti alla portineria
63
3.1. Una minoranza nella minoranza: essere donna
71
3.2. Biciclette e motorini parcheggiati in piazzetta
76
3.3. Giovani bangladesi giocano a badminton nel campetto di cemento
79
4.1. La manifestazione del comitato H.H. davanti alla Prefettura (2005)
92
4.2. La manifestazione
93
4.3. La chiusura delle attività commerciali
106
4.4. Gli ascensori in regime di funzionamento ridotto
107
4.5. Le attività della nuova associazione di senegalesi dell’Hotel House (2009)
109
7
Tabelle
8
Tab. 1.1. Abitanti dell’Hotel House: principali paesi di provenienza (2005-2009)
27
Tab. 2.1. Percentuale di abitanti all’Hotel House su totale abitanti di Porto Recanati
47
Tab. 2.2. Attività economiche al piano terra dell’Hotel House
60
Tab. 3.1. Percentuale di donne sul totale, per gruppo nazionale (2005-2009)
70
Tab. 3.2. Popolazione minorenne dell’Hotel House suddivisa per età e genere 78
Tab. 4.1. Proprietà degli appartamenti (per gruppi nazionali)
88
ringraziamenti
Questo libro è il frutto di un lungo percorso di ricerca e scrittura durante
il quale molte persone mi hanno accompagnato e aiutato. I miei genitori
e mio fratello, i miei amici e, ovviamente, la mia compagna, Juan, in primo luogo. Queste persone, insieme a tutti i gesti, le situazioni, i luoghi che
continuano ad accarezzare i miei sensi e il mio cuore, nutrendo così la mia
curiosità, arricchiscono la mia voglia di vivere, di conoscere e di fare ricerca.
Ringrazio di cuore Chantal Saint-Blancat per avermi sempre supportato
e consigliato in questi anni di ricerca, Andrea Mubi Brighenti per la proposta
e la pazienza, i referee anonimi per le critiche e i loro utili suggerimenti.
Un ringraziamento sentito va anche ai miei colleghi di dottorato di un ciclo davvero speciale (Mauro, Mimmo, Paolo, Francesca, Valentina, Chiara e
Maria Chiara), ai miei colleghi attuali della Cattedra Unesco di Venezia (Elena, Giovanna e Mirko) e a Marcello Balbo e, ovviamente, ai miei colleghi di
Tracce urbane (Giuseppe, Carlo, Caterina, Vanni, Ferdinando, Paolo, Andrea):
queste persone tutte insieme hanno reso questo lavoro così instabile un’attività per me “stabilmente” stimolante e piacevole.
Ma, soprattutto, ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato ad entrare
nel condominio, in particolare Giorgio, Giampaolo e gli abitanti dell’Hotel
House, sia i tantissimi che mi hanno fatto sentire subito a casa mia, sia quelli
che hanno mal sopportato la mia presenza. Per qualche anno sono entrato
nelle loro vite, loro sono entrati nella mia per sempre.
L’Hotel House è un luogo speciale. Almeno per me. Dalla prima volta che
ci sono entrato ho iniziato a legarmi a questo luogo. Un luogo di passaggio
per tanti ma è un passaggio che lascia traccia. I sentimenti verso questo
enorme condominio sono stati nel tempo molteplici: curiosità, attaccamento, noia, irritazione, delusione, re-illusione, consapevolezza. In ogni caso, anche ora che non vi abito più, posso dire che dall’Hotel House non sono mai
più uscito.
Anche per questo posso dire che questo libro per me era necessario.
Spero che per voi possa essere almeno utile.
Buona lettura.
9
10
prefazione
Il primo pregio di questo raffinato lavoro etnografico su “un mondominio
chiamato Hotel House” è il ritorno dell’autore sul campo dopo sei anni e il
suo saper guardare a distanza il suo oggetto, rimettendo in questione le sue
prime ipotesi ed interpretazioni. Questa capacità non è data a tutti. è visibilmente una dote di Adriano Cancellieri, che si abbina alla perfezione con il
suo talento di saper entrare in un campo, lasciando sulla soglia pregiudizi e
rappresentazioni (vedere a questo proposito l’esemplare appendice metodologica) onde fare tesoro di una paziente e umile capacità di dare ascolto
e voce agli attori che studia.
La narrazione di questo suo viaggio “da un continente all’altro” solo prendendo l’ascensore, entrando in moschea o sedendosi in un bar, consente al
lettore di entrare fisicamente ed emozionalmente in tutti gli spazi dell’Hotel
House, inclusi quelli strettamente privati; grazie anche ad una lingua che
restituisce suoni, colori, odori, luci e controluci, aprendo finestre su realtà
di vita sconosciute ai più e qui sintetizzate in poche righe lapidarie. Se entriamo assieme all’autore negli appartamenti senegalesi è anche per capire
che essi “sono una sorta di nodi di un territorio circolatorio lungo il quale
spostarsi”.
Perché è di luoghi, di territori e di spazi che ci sta parlando Adriano Cancellieri. L’ambizione del libro va ben al di là di un caso di studio empirico, per
raggiungere quella di un laboratorio paradigmatico, che raccoglie in pieno
tutte le contraddizioni e ricchezze, le carenze e potenzialità dell’avventura
migratoria nel nostro paese, ponendo al centro anche le responsabilità istituzionali delle politiche migratorie, urbane e di inclusione che non hanno
saputo (o voluto) promuovere l’empowerment delle capacità spaziali degli
abitanti qui studiati.
è di fatto uno stimolante interrogativo teorico sullo sguardo socio-antropologico dello spazio ciò che viene qui proposto, una démarche metodologica in cui l’etnografia si è avventurata solo recentemente. Per il rigore
concettuale e per la ricchezza della letteratura analizzata, sia interdisciplinare che internazionale, lo stato dell’arte sul “capitale spaziale” che apre il
secondo capitolo vale da solo la pena di prendere in mano questo libro.
L’autore introduce la potenzialità di analisi di categorie come capitale spa-
11
ziale, attori spaziali, spazi liminali e spazi-tempi, o terzi luoghi di multiculturalismo quotidiano.
Lo spazio è il protagonista di questo volume, da riscoprire nelle sue molteplici sfaccettature di senso conferito all’azione. Se l’analisi prende in prestito alle ultime ricerche antropologiche e di geografia umana, non perde di
vista dimensioni più prettamente sociologiche come quelle del conflitto e
del potere. Una buona ricerca si legge anche nell’uso vigilante di uno sguardo distanziato. L’autore rimane attento nel far sempre affiorare le ambivalenze sia degli spazi sia degli attori, le gerarchie, le costruzioni di frontiere, le
emarginazioni interne (donne e giovani), gli “esterni devianti”, dimostrando
che qualsiasi spazio è in continuo divenire, come illustra bene questa strana
“palestra di convivenza”.
Lasciamo al lettore godersi la vitalità dell’Hotel House, la sua capacità
di resistenza e protesta, sottolineando la rilevanza degli otto insegnamenti
teorici e metodologici che l’autore pone alla conclusione di questo suo secondo soggiorno all’Hotel House: in particolare il “senso del luogo” come
campo di battaglia dall’esito imprevisto, legato alla forza dell’intersezionalità
tra etnia, genere, età, lingua e religione e l’importanza dell’analisi diacronica
per chi studia un territorio.
Infine, un ultimo tocco personale. Ho imparato molto, anni fa, seguendo il lavoro sul campo di questo giovane ricercatore e spero che questo
suo ritorno all’Hotel House possa dare a chi lo legge l’opportunità di capire
perché e come ogni spazio è un “campo aperto” nel quale bisogna però
adottare una “grammatica spaziale”, costruire un sapere per interpretare la
relazione tutta speciale tra abitanti e luoghi.
Chantal Saint-Blancat
Padova, febbraio 2013
12
13
1.1. L’arrivo all’Hotel House
|capitolo 1|
Capitolo 1
Mondominio Hotel House.
Storia, demografia e urbanistica
Passeggio su e giù lungo il corso principale della cittadina di Porto Recanati, per
iniziare a prendere un po’ di confidenza con i volti, i movimenti, i luoghi, le strade.
Leggo i messaggi affissi sulle bacheche, osservo i gruppi di persone che si addensano all’ingresso dei negozi, mi fermo davanti alle vetrine e alle pubblicità più o meno
ammiccanti. Basta! È ora di andare all’Hotel House. Non so ancora bene cosa andrò
a fare, ma è quello il luogo che ho deciso di approfondire, di studiare, di analizzare
(cfr. Appendice metodologica). Perciò torno indietro, ripercorro il corso della città per
raggiungere la mia automobile, quasi in fondo al viale, dove le case, le attività economiche e i flussi di persone iniziano pian piano a diradarsi.
Sono alla macchina, salgo, mi avvio e mi dirigo deciso verso Sud: mi accorgo che
se prima mi ero stupito di non trovare quasi nessun immigrato tra le persone incontrate nel centro della città, nonostante la più alta incidenza percentuale di immigrati
dell’intera regione e una delle più alte d’Italia1, man mano che mi avvicino al grande
condominio, lungo la strada, invece, vedo quasi soltanto immigrati. Camminano
anche loro diretti all’Hotel House; sarà una semplice suggestione, ma mi sembrano
tutti avere uno sguardo triste, fisso sul vuoto, tra lo spento e l’arrabbiato.
Arrivo alla rotonda in fondo al viale, ed ecco che scorgo all’orizzonte la sagoma
isolata e imponente del condominio Hotel House, la “Torre di Babele” cruciforme che
domina la parte meridionale della città. Procedo a bassa velocità quando nei pressi di un sottopassaggio sono quasi costretto a fermarmi perché continua il via vai
di persone che a piedi se ne tornano al condominio e in quel punto, non essendoci
marciapiede, sono costrette ad invadere la carreggiata. Devo ridurre la velocità, mi
guardo attorno con prudenza, supero il sottopassaggio e mi ritrovo in mezzo ad una
grande rotatoria. La prima uscita a destra porta alla strada statale adriatica, la seconda, dritta, alla zona industriale. Prendo la terza, a sinistra, che conduce proprio
all’Hotel House e mi ritrovo in una sorta di progressivo imbuto: alla mia destra una
fila di alberi mi separa dai campi incolti; alla mia sinistra molti immigrati a piedi; da
ambo i lati una fila di macchine parcheggiate che rende la carreggiata sempre più
1 La percentuale di stranieri sul totale della popolazione residente della cittadina
di Porto Recanati ha raggiunto il 21,9% (dati Istat 31/12/2010). Si tratta della terza
incidenza percentuale più alta tra tutti i comuni italiani (dopo Baranzate e Pioltello,
nel milanese, rispettivamente con il 26,5% e il 22,8%).
15
stretta.
Proseguo lentamente e d’improvviso, alla mia destra, si apre un grande parcheggio tutto disseminato di buche (di cui alcune enormi e colme d’acqua); sembra più
un paesaggio lunare che un’area di sosta. Si sta riempiendo ora con le automobili di
ritorno dal lavoro, ma ha ancora ampi spazi vuoti. Le auto parcheggiate sono intervallate qua e là da cumuli di sporcizia e da alcune carcasse di automobili sulle quali
tre o quattro persone sono impegnate a smontare pezzi.
Cresce in me una leggera sensazione di ansia per essermi buttato con una certa
ingenuità in questo “strano” luogo. Proseguo lentamente quando scopro, con mia
grande sorpresa, che la strada davanti a me è chiusa. Guardo lo specchietto retrovisore e mi accorgo che dietro ho una fila di automobili; a sinistra e a destra sono quasi
bloccato da auto e persone a piedi. Tento di entrare nel parcheggio, unica via di fuga,
ma per schivare una buca enorme faccio una manovra impacciata: per un attimo
ho l’impressione di essermi incastrato. In quel momento inizio a sentirmi guardato in
modo sospettoso e, d’improvviso, è la paura a prevalere. Temo di aver fatto un passo
troppo avventato e di venire scambiato per una spia della polizia; ho il timore che la
mia macchina possa venire smontata pezzo per pezzo come quelle che ho davanti ai
miei occhi; temo di essere considerato un ospite non gradito: la mia fantasia, ormai
lanciata, non mi dà tregua. Devo ripartire subito! Trattengo il fiato, giro la macchina
con decisione, dopo un paio di tentate manovre riesco a dare le spalle al parcheggio
e al condominio e a ripartire con un bel colpo di gas liberatorio. Mi avvicino al fondo
del viale, all’imbocco della rotonda e torno finalmente a respirare!
Man mano che sento il condominio sempre più lontano, tornando verso la
via principale di Porto Recanati, inizio a pensare più lentamente. Rifletto su questo
primo incontro ravvicinato con l’Hotel House. Non pensavo di finire in una strada
chiusa, così come non pensavo di ritrovarmi in mezzo a quel “paesaggio”. Ma in fin
dei conti cos’ho visto? Qualche mucchio di immondizia? Tre o quattro macchine da
rottamare? Tanta gente che torna dal lavoro? Decido di tornare subito indietro, ma
di farlo stavolta a piedi, sia per arrivare gradualmente e senza il rischio di rimanere
bloccato con la macchina, sia per iniziare a condividere i percorsi di una parte degli
abitanti del condominio. Fermo la macchina sul corso principale, a circa un chilometro dall’Hotel House e proseguo camminando lentamente sul marciapiede, lungo
il ciglio della strada. Davanti a me ci sono un paio di giovani venditori ambulanti
senegalesi con la loro merce in mano. Mi guardo attorno, cercando di scrutare con
attenzione. Le automobili passano veloci alla mia sinistra, mi sento osservato. Sono
l’unico non immigrato a percorrere a piedi questa strada. Arrivo presto all’inizio del
sottopassaggio dove il marciapiede, già stretto, d’improvviso si interrompe. Ora sono
io che devo stare attento a schivare le auto che passano e a dover attraversare la
strada velocemente, per evitare brutte sorprese. Uno sguardo a destra e uno a sinistra e con due balzi sono oltre il sottopassaggio! Alzo lo sguardo e vedo di fronte a
me la sagoma del condominio ergersi imperiosa in mezzo ai campi, come un frutto
anomalo di una strana semina. Devo attraversare sempre con una certa attenzione, velocemente e contromano, anche la rotonda, per imboccare l’inizio della strada
senza uscita che porta all’ingresso del condominio. Passano ancora molte macchine,
e, intanto, scorgo meglio i volti dei lavoratori che tornano a piedi, i ragazzi che rientrano dalla scuola, alcuni anziani, dei venditori ambulanti; vedo volti assolutamente
16
|capitolo 1|
non diffidenti né tanto meno ostili. Mi sento molto più a mio agio stavolta. Non ho
neanche più l’impressione di essere osservato. Cerco di non mostrarmi troppo curioso
e arrivo presto al luogo che prima mi aveva suscitato tanto timore. I “meccanici” alle
prese con le carcasse delle automobili ne stanno spingendo una che riparte sfrecciando verso l’uscita. Il viavai di persone si è fatto ancora più intenso. E io ne faccio
parte.
Stavolta sono proprio sotto il condominio. Non so se rivolgere l’attenzione all’abitato imponente che si protende verso l’alto o al brulichio dell’abitare che ha luogo ai suoi piedi. Mentre rifletto continuo a camminare seguendo il flusso principale
di persone e mi ritrovo in una specie di piazzale creato al piano terra dall’incrocio
dei due grandi parallelepipedi che costituiscono il condominio. Scopro che ci sono
moltissimi negozietti che vi si affacciano. Subito alla destra dell’ingresso c’è un bar,
tutt’intorno delle panchine, nella parte sinistra un numero incredibile di motorini e
biciclette tutte infilate in maniera ordinatissima negli appositi spazi. Ci sono tanti
gruppetti di persone che si scambiano qualche battuta sia intorno alle panchine che
davanti gli esercizi commerciali. Il posto non è certamente bello ma è decisamente
vivo e a suo modo inizio a trovarlo accogliente. Arrivo in fondo al piazzale, lancio uno
sguardo fugace alle facciate dei negozi e poi decido di tornare indietro. Oggi volevo
soltanto fare un primo assaggio e poi tra poco ho un appuntamento all’Ufficio Anagrafe per iniziare a studiare la demografia del condominio; giro le spalle all’edificio
e mi incammino verso l’uscita. Mi sembra di sentire fischiare verso la mia direzione,
aspetto qualche secondo e poi mi giro un istante, il tempo di notare in fondo alla
piazzetta due ragazzi che, in effetti, sembrano guardarmi. Riprendo il cammino e
sento un altro fischio; forse si tratta di due piccoli spacciatori che hanno visto un possibile nuovo acquirente? Non lo so e, per ora, non mi va di saperlo. Per la mia prima
giornata all’Hotel House va bene così. Inizio a pensare che l’idea di fare ricerca in questo luogo possa essere stimolante. Mi accorgo di essere qui con tutti i miei pregiudizi
(tanti, soprattutto inconsci) finalmente a nudo, con tutte le mie paure, tutta la mia
curiosità, tutta la mia voglia di comprendere; con tutti i miei stereotipi, vecchi e nuovi
in continua (de)costruzione. [diario di campo, 21 ottobre 2004]
La storia, 1967-2012
L’Hotel House è un grande condominio di architettura razionalista composto da 480 appartamenti distribuiti in diciassette piani, situato nella parte
Sud della cittadina di Porto Recanati (MC), nel Sud delle Marche. L’edificio si
presenta nettamente separato dal resto della città: circondato soltanto da
barriere naturali – principalmente campi – e da grandi infrastrutture – autostrada, strada statale e ferrovia (Img. 1.1).
Questo enorme condominio, con una bella vista sul mare e sulle colline
azzurre cantate da Giacomo Leopardi, è stato progettato alla fine degli anni
Sessanta2 come luogo di villeggiatura estiva per turisti, in un periodo nel
2 La posa della prima pietra è avvenuta il 22 luglio del 1967 alla presenza del Ministro Lorenzo Natali e degli onorevoli locali Arnaldo Forlani e Ferdinando Tambroni.
L’autorizzazione all’abitabilità è stata rilasciata dal Comune di Porto Recanati il 10
settembre del 1970.
17
quale, grazie al boom economico, al diffondersi del modello automobilistico di mobilità sul territorio e alla costruzione di grandi infrastrutture (in
primis l’A14, l’Autostrada Adriatica), la vacanza stava diventando un bene di
largo consumo. L’Hotel House è stato uno dei segni tangibili e quantomai
visibili della trasformazione della costa adriatica in territorio di turismo di
massa. Questo sistema costiero è divenuto, infatti, fin dagli anni Sessanta
l’ambito preferenziale di una progressiva crescita edificatoria, caratterizzata
da forti interventi speculativi per soddisfare la domanda di abitazioni e la
richiesta di nuovi impianti da parte del settore turistico, in forte espansione
(Lanzani e Vitali 2003).
Secondo il progetto iniziale, l’Hotel House avrebbe dovuto occupare
un’area di circa 40.000 metri quadri di terreno, di cui soltanto il 15%, ossia
circa 6.000 metri quadri, per il complesso abitativo. Nel progetto erano previsti campi da minigolf e da tennis, negozi, un parco-giochi per bambini, un
distributore di benzina, un numero considerevole di parcheggi e persino un
laghetto artificiale. Inoltre al residence si sarebbe dovuto affiancare un altro
stabile molto più basso, detto il “corpo avanzato”, che avrebbe dovuto ospitare un auditorium, una boutique, un ristorante, una discoteca e una sauna.
In realtà, si è trattato di un grande progetto di speculazione edilizia, avviato non a caso negli ultimi mesi in cui il Comune di Porto Recanati era
sprovvisto di piano regolatore. Il progetto fu subito visto con stupore e diffidenza da parte degli abitanti di Porto Recanati, che allora era soprattutto
un borgo di pescatori. Allo stesso tempo, la costruzione del condominio fu
loro presentata come una grande occasione di sviluppo economico e come
un’idea pilota nel campo dell’industria nazionale del turismo (Img. 1.2). Non
a caso, la pergamena che sancì la fine dei lavori di costruzione del condominio recava la scritta: Per il progresso delle civili genti marchigiane. E il ministro
democristiano dell’epoca, Lorenzo Natali, che presiedette all’inaugurazione
sintetizzò in modo esplicito: L’Hotel House è un’opera che fa onore alla riviera3
(Img. 1.3).
Gli appartamenti del grande palazzo vennero acquistati da persone di
ceto medio-alto e da una piccola borghesia desiderosa di migliorare il proprio status. Tra questi vi era anche un’importante famiglia della zona che
aveva acquistato ben sedici appartamenti (l’intero primo piano), per un
certo periodo utilizzati per ospitare turisti austriaci. Alcuni residenti ancora
ricordano come i primi abitanti-turisti venivano trasportati dal condominio
al mare con un pittoresco pullman a forma di barca. Nei primi anni il luogo
era persino diventato d’estate un punto di riferimento per i giovani della
città, come ricorda l’attuale Assessore allo Sport della città:
3 Per una ricostruzione storica più dettagliata è possibile sfogliare le pagine del periodico portorecanatese La Tartana (pubblicato dal 1965 al 1968) che ha dedicato
al progetto ed alla realizzazione dell’edificio ampi e dettagliati servizi (alcuni estratti
sono consultabili al sito: http://www.portorecanatesi.it/POLIT_SOCIETA/HH/I40anniHotelHouse.htm).
18
|capitolo 1|
Quando hanno costruito l’Hotel House avevo 13-14 anni. Quando eri ragazzino
se volevi fare un torneo carino andavi all’Hotel House perché era un posto dove
andavano tutti i turisti. Era uno dei posti migliori di Porto Recanati. C’erano i primi campi di pallavolo all’aperto, i primi campi di calcetto. C’era una pizzeria che
era la maggiore di Porto Recanati, c’erano dei negozi. E di fianco all’Hotel House
c’era uno dei locali che andava per la maggiore! Assessore allo Sport, Comune
di Porto Recanati
Il residence si è rivelato, però, sin dai primissimi anni una grande occasione mancata: il condominio, infatti, accoglieva un brulicante numero di
persone durante i mesi estivi, ma d’inverno era un grande contenitore quasi
vuoto con solo 60-70 appartamenti occupati. L’enorme caldaia centralizzata
che riscaldava contemporaneamente tutti e 480 gli appartamenti rappresenta un po’ il simbolo del fallimento. Gli stessi esercizi pubblici che erano
stati realizzati al piano terra del residence (una pizzeria, un ristorante, una
macelleria, un bar, una parrucchieria, un alimentari, un fruttivendolo, una
pescheria, una lavanderia e un negozio di elettrodomestici) non potevano
sopravvivere al lungo periodo di letargo invernale.
Un punto di svolta decisivo si ebbe nel giugno del 1973: la ditta che costruì l’opera, nel frattempo impegnata anche in altri grandi investimenti non
andati a buon fine, dichiarò il fallimento e il suo titolare, Antonio Sperimenti,
poco dopo, si suicidò. Con il fallimento della ditta costruttrice, l’Hotel House
si smembrò: il cosiddetto corpo avanzato fu terminato in fretta e venduto
finendo per trasformarsi, da struttura di servizio, a residence a sé stante, separato dall’Hotel House da una recinzione. L’area destinata al parcheggio
venne ceduta e, per diritto di prelazione, acquistata da alcuni condomini
che da allora la gestiscono attraverso una cooperativa privata chiamata Garden House. Soprattutto, gran parte dei previsti servizi esterni non furono
mai realizzati, rendendo così la città-verticale una sorta di cattedrale nel deserto. Le luci del condominio-resort si sono spente, così, bruscamente.
L’arrivo degli immigrati. La nuova demografia
La storia dell’Hotel House è stata sin dall’inizio molto complessa e in costante evoluzione. Il luogo è sempre stato una sorta di parziale vuoto urbano riempito nel tempo da popolazioni molto eterogenee tra loro, unite solo dalla provvisorietà del loro insediamento4: gli sfollati del terremoto di Ancona
del 1972-1973, alcuni ufficiali dell’aeronautica che lavoravano al radar della
vicina Potenza Picena, alcuni collaboratori di giustizia inseriti nei programmi
di domicilio coatto e, a partire dalla fine degli anni Ottanta, le ballerine dei
tanti night clubs della zona.
L’introduzione silenziosa quanto evidente di questa nuova eterogenea
popolazione portò i cittadini di Porto Recanati a considerare l’Hotel House
come un luogo sempre più estraneo al territorio locale. La sua autoreferen4 Vanno segnalati anche alcuni componenti delle Brigate Rosse che, secondo i racconti di molti degli storici residenti dell’Hotel House, si sarebbero nascosti per un
certo periodo proprio in uno degli appartamenti del condominio.
19
1.2. Locandina pubblicitaria
dell’epoca
1.3 (pagina successiva).
Periodico locale La Tartana,
n. 74, luglio-agosto 1976
zialità sbandierata, unita alla sua conformazione, così ben protetta, ha generato nell’immaginario collettivo dei porto recanatesi la rappresentazione di
un luogo di passaggio, dove non si sa cosa succede, né chi ci passa. L’Hotel
House è diventato dunque per Porto Recanati un luogo altro.
Dopo vent’anni di cambiamenti carsici e graduali della vita condominiale, a partire dai primi anni Novanta l’Hotel House si trasforma in maniera
impetuosa a causa dell’arrivo di crescenti flussi di immigrati da altri Paesi.
Una trasformazione fortemente favorita dal successo economico della cosiddetta economia diffusa della Terza Italia, cioè da quel modello fondato
su distretti industriali di piccole imprese, soprattutto in realtà urbane di dimensioni contenute, di cui Porto Recanati fa parte. Infatti, nel giro di pochi chilometri, si trovano il distretto calzaturiero di Fermo e di Macerata, il
distretto plurisettoriale Recanati-Osimo-Castelfidardo e il distretto di pelli,
cuoio e calzature di Civitanova Marche. Il travolgente sviluppo economico
del territorio si è tradotto in una crescente richiesta di manodopera non
qualificata, tipica di un’economia post-fordista, a cui si è presto aggiunta
quella del sempre più fiorente settore dei servizi, specialmente nel turismo.
Di fronte a questa domanda di manodopera e a flussi via via più considerevoli di immigrati, è mancata qualsiasi politica nazionale e locale per
la casa. Le dinamiche di insediamento abitativo sono state lasciate quasi
esclusivamente all’economia di mercato e alle capacità interstiziali degli immigrati. Il (parziale) vuoto urbano, come si presentava l’Hotel House, diventò inevitabilmente un territorio di “naturale” destinazione di queste nuove
popolazioni. Nella stessa zona adriatica anche altri ex-residence estivi hanno
avuto una storia simile: si pensi per esempio, a Fermo, agli edifici noti come
“Casa Bianca” e “Lido Tre Archi” (Lanzani e Vitali 2003).
All’Hotel House i flussi di immigrati sono diventati consistenti proprio
quando una parte dei vacanzieri di lunga data presenti stavano decidendo di affittare o vendere i propri appartamenti, perché stanchi del solito
luogo di villeggiatura. Graduale abbandono degli italiani e progressivo insediamento degli immigrati, come accade spesso, si sono così rafforzati a
vicenda. In particolare l’inizio dell’avvicendamento si è avuto quando alcuni
vacanzieri hanno dato in gestione ai portieri del condominio i propri appartamenti per affittarli. Anche con la complicità delle agenzie immobiliari,
questi ultimi hanno intercettato l’imponente flusso di immigrati in arrivo.
Dalle parole di un testimone privilegiato, un avvocato che lavora vicino
all’Hotel House e che ha per clienti molti degli abitanti del condominio, si
possono ben intuire le dinamiche di questi processi:
A poco a poco la gente ha cominciato a vendere. C’è stato un po’ il disamore
per la zona, perché tutti i centri balneari hanno subìto una grossa botta per la
concorrenza dell’estero. Per esempio della Croazia e poi perché dopo anni della stessa località, serena, ma un po’ noiosa, la gente comincia a dire: “io là al
mare non ci voglio più andare” e via di seguito. I proprietari, che erano soprattutto del Nord e che non usavano le case d’inverno, durante il periodo invernale
le lasciavano agli stranieri. Poi pian piano gli stranieri sono aumentati. Hanno
cominciato magari alcuni del Nord, non venivano e continuavano a mantenere
la proprietà dell’immobile, l’hanno affittato tutto l’anno e quindi è cominciata
24
|capitolo 1|
così l’escalation. Poi addirittura sono stati venduti perché ormai ovviamente non
potendo più venire in vacanza lì perché considerata zona rossa, pericolosa, no?
Quindi non venire in vacanza lì, tenersi un appartamento che comunque non
usi… ovviamente lo vendi! Avvocato, f, italiana, non residente
Il turnover di popolazione tra italiani e immigrati, che per la Scuola di
Chicago è un naturale meccanismo di ecologia urbana di invasione e successione (Park 1950), ha ben poco di naturale. La distribuzione abitativa dei
gruppi sociali non è infatti determinata solamente dalla libera competizione
tra gli attori sociali ma è anche e soprattutto il risultato di pratiche e politiche che favoriscono la concentrazione residenziale di alcuni gruppi. Nel
caso dell’Hotel House, essa è stata incentivata e accelerata dalle agenzie immobiliari che hanno tratto consistenti guadagni dalla creazione di un mercato delle case specifico per gli immigrati. L’arrivo degli immigrati è coinciso
infatti con il tracollo dei prezzi degli immobili causato dall’ampliarsi della
forbice tra domanda e offerta: molti dei residenti hanno cercato di vendere
e pochissimi erano disposti a comprare (praticamente solo speculatori, perché all’epoca per gli immigrati era impensabile – e addirittura impossibile
per legge – acquistare un appartamento). Il risultato è stato che, secondo
una ricerca del 2005, il prezzo al metro quadro aveva raggiunto i 2.500-4.000
euro in centro città e anche in periferia oscillava tra i 1.200 e i 1.700 euro,
mentre all’Hotel House andava da un minimo di 550 ad un massimo di 800
euro al metro quadro. Questo significa che appartamenti dell’Hotel House
di circa 60 metri quadri, vicini al mare, sono stati venduti anche a poco più
di 30.000 euro (Rocchi 2005).
Il meccanismo per creare guadagni dal mercato duale dei valori immobiliari è abbastanza semplice. Si tratta del cosiddetto block busting (Orser
1994, Sugrue 1996): prima si favorisce la vendita di appartamenti provocando “paure etniche” nei proprietari e negli affittuari, per avvantaggiarsi
della caduta dei prezzi; in un secondo momento si affittano o si vendono
gli appartamenti agli immigrati a prezzi più elevati. Questa dinamica è stata
confermata, nella mia ricerca, da diversi testimoni privilegiati:
Ci sono dietro investitori, chi ha dieci appartamenti, chi ha venti appartamenti,
italiani che hanno acquistato perché il prezzo è molto basso, magari all’asta.
Quindi hanno fatto un buon investimento. Amministratore del condominio
dal 2003 al 2007, m, italiano, non residente
Invitando i migranti a dirigersi in un’area già popolata da altri migranti,
ed evitando più o meno direttamente che prendano in affitto case in altre
aree (meccanismo noto come steering, Gotham 2002), si rafforza la costruzione di un mercato duale:
Qui la disponibilità di un alloggio c’è: diciamo per la persona più emarginata
all’Hotel House, per la persona più altolocata al centro. Responsabile dei Servizi sociali del Comune di Porto Recanati
Dunque la concentrazione degli immigrati all’Hotel House riflette prima
di tutto le difficoltà che gli immigrati incontrano nel trovare altre sistemazioni. Secondo un residente, ad esempio:
25
L’Hotel House è la salvezza degli extracomunitari se no qui è un problema. In questa zona qui il lavoro c’è tanto, ma le abitazioni… è una cosa proprio fondamentale e se non ci fosse l’Hotel House! Il 60-70% dei lavoratori qui intorno sono gente
che abita qui all’Hotel House. Nader5, m, 1965, tunisino, residente
Con questa trasformazione demografica, l’Hotel House è diventato un
condominio abitato da quasi 2.000 persone, con pochissimi appartamenti
rimasti vuoti. I dati più attendibili sulla popolazione dell’Hotel House sono
stati raccolti in maniera capillare dalla portineria del condominio fino all’estate del 2009. Al 30 giugno 2009, la popolazione residente ammontava a
1.562 unità. A questi vanno aggiunti coloro che non sono registrati in quanto non in regola con i documenti o perché ospitati da parenti o amici per
un periodo più o meno limitato di tempo. Inoltre d’estate vanno sommati
un centinaio di senegalesi che arrivano all’Hotel House per lavorare come
venditori ambulanti nelle spiagge affollate di turisti.
Se prendiamo le ultime statistiche attendibili disponibili sul totale degli
abitanti del condominio, notiamo che nel 94,5% dei casi si tratta di persone immigrate o di origine immigrata, provenienti principalmente da cinque
Paesi: Senegal, Bangladesh, Pakistan, Tunisia e Nigeria (Tab. 1.1). Se osserviamo i cambiamenti demografici intercorsi a partire dai miei primi mesi di
presenza all’Hotel House (2005), emerge in modo evidente il peso crescente
di bangladesi e pakistani e il ridimensionamento numerico di italiani e marocchini.
In generale, però, l’Hotel House è diventato un luogo caratterizzato
dall’eterogeneità delle provenienze (più di quaranta nazionalità) , tanto che
nessun gruppo nazionale supera il 25% del totale delle presenze. Il dato è in
linea con ciò che avviene generalmente in Europa nei contesti di concentrazione residenziale di minoranze (si veda ad esempio Blokland 2008 per il
caso olandese). Questa tendenza in Italia appare particolarmente accentuata dal fatto che i principali flussi migratori non sono collegati a precedenti
rapporti privilegiati di tipo post-coloniale, come invece avviene in molti altri
Paesi europei. Peraltro anche negli Usa, nonostante Wacquant (2007) abbia messo in evidenza la forte omogeneità etnica di alcuni contesti di concentrazione di minoranze, i nuovi quartieri etnici non sono così omogenei
(Small 2008); inoltre, anche in passato alcuni di questi quartieri, come per
esempio il Lower East Side di New York, erano caratterizzati da un intreccio
di gruppi nazionali (Maffi 1992).
Oltre a essere un contesto eterogeneo da un punto di vista demografico, l’Hotel House è anche un territorio ad alta densità demografica e un
luogo caratterizzato da un’accentuata mobilità, in quanto abitato prevalentemente da popolazioni migranti. Questo territorio ha, dunque, le tre caratteristiche (eterogeneità, densità e mobilità) che, riprendendo la rivisitazione che il geografo Pile (1996) fa della classica definizione di urbanità data
da Wirth (1938), contraddistinguerebbero uno spazio urbano (Cancellieri
2012a). Ciò può apparire paradossale dato che l’Hotel House è parte del5 Com’è consueto in questo tipo di lavori, tutti i nomi indicati nel testo sono stati
modificati per proteggere l’anonimato degli abitanti.
26
|capitolo 1|
Tab. 1.1. Abitanti dell’Hotel House: principali paesi di provenienza (2005-2009)
Provenienza
N.
2005
%
N.
2009
%
2005-2009
(%)
Senegal
311
26,1
371
23,8
+19,3
Bangladesh
156
13,1
358
22,9
+129,5
Pakistan
79
6,6
225
14,4
+184,8
Tunisia
129
10,8
165
10,6
+27,9
Nigeria
82
6,9
97
6,2
+18,3
Italia
132
11,1
86
5,5
-34,8
Cina
53
4,4
55
3,5
+3,8
Macedonia
35
2,9
50
3,2
+42,9
Marocco
70
5,9
46
2,9
-34,3
Altri Africa
29
2,4
50
3,2
+72,4
Altri Asia
27
2,3
28
1,8
+3,7
Centro e Sud America
23
1,9
19
1,2
-17,4
Altri Europa Orientale
62
5,2
12
0,8
-80,6
4
0,3
0
0
-100,0
1.192
100
1.562
100
+31,0
Altri Occidentali
Totale
Fonte: dati portineria dell’Hotel House (04.01.2005; 06.07.2009)
la piccola cittadina di Porto Recanati (Macerata), di appena 12.155 abitanti
(dati Istat, 31/12/2010), tradizionalmente contraddistinta da bassa densità,
bassa eterogeneità e bassa mobilità. Siamo dunque di fronte ad una sorta
di “città verticale”: un’edifi-città decisamente fuori scala rispetto al contesto.
Tra autosufficienza e separazione. Architettura e urbanistica
L’Hotel House è una struttura composta da due enormi parallelepipedi che
si intrecciano tra loro. Come sottolineato da Ciorra (2010) “l’edificio non
manca di ambizione architettonica, con una bella pianta cruciforme derivata dai grattacieli disegnati da Le Corbusier per il Plan Voisin (1925) di Parigi”.
Il grande condominio si sviluppa su diciassette piani: un pianterreno
adibito ad esercizi commerciali (vedi Cap. 2) e sedici ad uso abitazione. Ciascuno dei sedici piani superiori si dirama in quattro corridoi, due corti e due
lunghi, sui quali si affacciano rispettivamente cinque e dieci appartamenti,
per un totale di trenta appartamenti per ciascun piano. Gli alloggi sono tra
loro tutti uguali o, comunque, speculari, di circa sessanta metri quadri di
superficie.
Il “condominio alveare” Hotel House è molto originale e insolito rispetto
all’immaginario collettivo della casa di vacanza italiana e decisamente fuori scala se rapportato alle caratteristiche del cosiddetto sprawl della costa
27
adriatica e, più nello specifico, agli altri edifici che compongono la piccola
cittadina di Porto Recanati. L’area adriatica di cui fa parte è infatti costituita
da una serie di centri urbani, sviluppati attorno a piccoli borghi marinari, che
seguono nel loro processo di crescita la linea longitudinale della statale 16,
configurandosi in alcuni tratti come una vera e propria conurbazione.
L’eccentricità dell’Hotel House rispetto al contesto era parte del progetto originario, ispirato esplicitamente alla Unité d’Habitation di Le Corbusier.
L’idea del costruttore era quella di dare vita ad un condominio verticale,
autosufficiente: una casa (House) con tutti i servizi e i comfort di un albergo
(Hotel). Per riprendere le parole del suo costruttore, Antonio Sperimenti, un
grattacielo come l’Hotel House è stato pensato per attuare “quella che è una
delle condizioni ideali per l’abitazione dell’uomo del nostro tempo, e cioè
la solitudine nella comunità. Nel suo interno ogni gruppo familiare fruisce
senza impedimenti della propria libertà e nello stesso tempo si sente protetto, rassicurato, dal calore delle molte esistenze che si svolgono attorno e
accanto ad esso” (in La Tartana, n. 7-8, 1968).
La separazione urbanistica così evidente del condominio dal resto della città è il frutto di un’espressa volontà del suo ideatore. Il progetto Hotel House nasceva con l’idea di dare vita a un’enclave turistico-residenziale
autosufficiente:“Vivere tra mura domestiche con i servizi di un grande albergo” era uno degli slogan pubblicitari utilizzati per promuovere la vendita degli appartamenti del condominio. L’Hotel House è stato una di quelle
grandi costruzioni utopiche frutto di un’architettura disciplinare, razionale e
olistica che si proponeva di risolvere ogni tensione urbana, sociale e spaziale attraverso un unico gesto creativo (Senaldi 2006): insomma una di quelle
“macchine per abitare”, monumentali e unitarie, architettate senza l’idea di
un collegamento con il tessuto urbano e senza passato. Progettato per essere isolato. Tutto questo è ben testimoniato dalle parole di uno dei residenti:
Se potessimo fare una foto aerea, l’Hotel House lo vedremmo un po’ distaccato,
da un punto di vista proprio delle distanze metrico-lineari. È fuori, è eccentrico.
Gli altri edifici sono tutti più o meno addensati sulla nazionale ma sono più nucleati. Noi siamo enucleati dal punto di vista proprio topografico. Antonio, m,
1940, italiano, residente
A questa storica separazione si aggiunge il fatto che a Porto Recanati non esiste un servizio di trasporto pubblico urbano. Il tratto tra l’Hotel
House e il resto della città resta persino privo di un collegamento pedonale
sicuro. Gli spostamenti pedonali dei condomini sono così effettuati attraversando la carreggiata stradale in un tratto in prossimità dell’entrata Sud della
strada statale 16, dove il traffico è alquanto intenso, come lamentato da un
mediatore culturale che lavora all’Hotel House:
Il problema è che qui l’Hotel House è un po’ appartato rispetto alla popolazione
di Porto Recanati. Appartato nel senso che non c’è questo collegamento con il
centro. C’è un problema di mezzi di trasporto, è una cosa molto sentita, perché
qui non è che tutti hanno le macchine. Ci sono tante macchine fuori, però non
tutti hanno la macchina. Così per andare in centro devi camminare, si vede un
grande passeggio a piedi delle persone che arrivano a Porto Recanati. Questa è
una situazione antipatica, c’è questo problema. Diop, m, senegalese, mediatore culturale non residente
28
|capitolo 1|
Il risultato è che l’Hotel House si trova in una posizione di isolamento
urbanistico, nettamente separato dal resto della città (Img. 1.4). Se si parte
dal centro di Porto Recanati, una volta superato il ponte sulla foce del fiume
Potenza, si ha l’impressione di uscire dalla città. A Sud c’è il lungomare dominato dalla pineta, a Est prevalgono i campi e la strada statale. All’orizzonte
si nota, ben distinta, la caratteristica forma a croce e l’imponente edificio
dell’Hotel House che domina lo sky-line dando l’idea di una fortezza protetta e, allo stesso tempo, minacciosa. Per arrivarci è necessario procedere
dal centro in direzione della strada statale ma, invece di imboccarla, occorre svoltare a sinistra e immettersi in una stradina secondaria senza uscita.
Questo è l’unico accesso verso il condominio. Si tratta di un breve rettilineo
alberato che si conclude con una curva a novanta gradi che porta ai piedi
del gigantesco edificio (Img. 1.5).
Per rappresentare in modo semplice ma eloquente, il distacco sociospaziale tra la città e il condominio si potrebbe utilizzare il cartello stradale
che si trova al centro della rotonda che porta al residence (Img. 1.6): da
un lato Porto Recanati, dal lato opposto l’Hotel House. Ovviamente, le caratteristiche ecologiche e, più in generale, la separazione spaziale incidono
sull’isolamento sociale (Small 2004). Uno dei compiti dei paragrafi successivi
sarà proprio quello di approfondire come però ciò non avvenga in modo
deterministico e come siano molti i fattori intervenienti da considerare.
29
1.4. La città di Porto Recanati vista dall’Hotel House
1.5. L’Hotel House visto in lontananza
1.6. Hotel House e Porto Recanati: un difficile incontro…
|capitolo 2|
Capitolo 2
La ricchezza e l’ambivalenza del capitale
spaziale. Spazi comunitari e spazi liminali
Spazio spazio, io voglio, tanto spazio per dolcissima
muovermi ferita: voglio spazio per cantare crescere
errare e saltare il fosso della divina sapienza. Spazio
datemi spazio ch’io lanci un urlo inumano, quell’urlo di silenzio negli anni che ho toccato con mano.
Alda Merini
I grands ensembles densamente abitati come l’Hotel House sono sempre
stati oggetto di dibattito per la loro presunta incapacità di favorire relazioni
sociali e per la carenza di spazi pubblici adeguati. In Francia si è addirittura
coniato il termine sarcellite che deriva da Sarcelles, tipica città dormitorio
della periferia parigina, uno dei primissimi esempi di un’urbanizzazione basata su edifici imponenti. Con tale espressione i mass media francesi negli
anni Sessanta denunciavano la malattia del “gigantismo” urbanistico e l’anomia sociale che caratterizzava questi grandi agglomerati. Anche la letteratura ha descritto i rischi che sarebbero insiti in questo tipo di strutture verticali
(Ballard 2003).
Ciò che salta agli occhi sin dai primi momenti di permanenza all’Hotel
House è molto lontano da quest’immagine di anomia e svuotamento sociale. Come avviene anche in contesti che sono espressione di un modernismo
persino più radicale, come per esempio il Corviale a Roma (Gennari Santori e
Pietromarchi, a cura di, 2006) o, per altri versi, il quartiere Zen a Palermo (Fava
2008), nonostante il paesaggio grigio e la scarsa manutenzione di queste
“scatole di cemento” questi territori sono caratterizzati da una discreta organizzazione sociale e da quotidiani processi di addomesticamento e risignificazione degli spazi. Anzi, una parte importante dell’interesse per questo
tipo di luoghi sta proprio in questo apparente paradosso tra le linee rette, prevedibili e grigie dell’abitato da un lato, e la varietà e l’imprevedibilità
dell’abitare dall’altro.
Gli attori sociali sono sempre immersi nello spazio e lo subiscono e, al
tempo stesso, lo usano, cercando costantemente di riconfigurarlo materialmente e simbolicamente per accrescere il proprio capitale spaziale. I sogget-
33
ti individuali o collettivi sono, cioè, degli attori spaziali (Gotham 2003).
In questo capitolo ci addentriamo nell’analisi etnografica del condominio Hotel House mettendo al centro della nostra attenzione la dialettica
socio-spaziale e in particolare i processi quotidiani di costruzione del capitale spaziale.
Il capitale spaziale
Il concetto di capitale è stato utilizzato nelle scienze sociali in maniera crescente e poliedrica negli ultimi anni. A partire da Bourdieu (1986) è stato
sottolineato come oltre al capitale economico, altri capitali giochino un
ruolo fondamentale nello strutturare l’azione umana: il capitale sociale, cioè
le relazioni, il capitale culturale, vale a dire la cultura e il capitale simbolico,
ossia prestigio e distinzione. Tutti capitali che, seppur intrecciati tra di loro,
hanno una propria autonomia.
Pur non inserendosi direttamente nel filone bourdiesiano, questo lavoro
intende estendere questa categoria introducendo in maniera esplicita l’utilizzo di un ulteriore tipo di capitale, il capitale spaziale, concetto sotteso a
molti studi urbani e non solo, ma ancora fortemente marginale nel dibattito
internazionale.
Il primo ad applicare il concetto di capitale allo spazio è stato probabilmente Lévy (1994), partendo dall’osservazione simmeliana sulla finitezza
dello spazio che diventerebbe, proprio per questo aspetto, soggetto a competizione. Il capitale spaziale sarebbe dunque costituito da “tutte le risorse
accumulate da un attore che gli permettono di beneficiare, secondo le proprie strategie, dell’uso della dimensione spaziale della società” (Lévy 2003:
124). Questa prospettiva sottintende un’antropologia in cui l’azione sociale
degli attori (spaziali) è sempre strategica e volontarista. Anche per Centner
(2008) il capitale spaziale esprime l’abilità di mercificare lo spazio, controllarlo, dominarlo, trasformarlo (in particolare da parte dei cosiddetti “gentrificatori”). Il capitale sociale, per Centner, è una forma di capitale simbolico in un
campo dove lo spazio è la posta in palio. Lo spazio è, cioè, l’oggetto finito di
un gioco a somma zero.
Questa visione essenzialista dello spazio lascia però trapelare un’agency
spaziale riduttiva e tradisce un’idea di spazio come mero valore di scambio.
In tal modo lo spazio viene reso astratto, “oggettivo”, quantitativo. Ma da
anni gli sviluppi del cosiddetto spatial turn ci hanno insegnato tutta la ricchezza del valore d’uso dello spazio, esperito attraverso i sensi – uno spazio
qualitativo, concreto e “soggettivo”. Con l’espressione spatial turn si fa riferimento a un’ondata di lavori interdisciplinari che mira a decostruire, criticare
e ricostruire il discorso sullo spazio. Si va dal pionieristico lavoro di Gregory e
Urry (1985), ai lavori di Soja (1989), Massey (1994), Friedland e Boden (1994),
Harvey (1996), Low e Lawrence-Zuniga (2003), passando per alcuni fondamentali contributi più teorico-filosofici come Casey (1997), Malpas (1999),
Whatmore (2002), Cresswell (2004) e Massey (2005). Un vero e proprio rina-
34
|capitolo 2|
scimento dell’immaginazione geografica1.
Uno dei pionieri di questo nuovo modo di intendere lo spazio è un marxista anomalo come Henri Lefebvre (1974: 62) che ha messo in luce come lo
spazio sia qualcosa di situazionale e relazionale, “essenzialmente qualitativo,
fluido e dinamizzato”.
I migliori recenti contributi degli studi urbani sono stati proprio quelli
che hanno portato al centro gli spazi intesi in tutta la loro multi-sensorialità
(Bondi, Davidson e Smith 2005; Pink 2009), cioè i paesaggi visuali, sonori, olfattivi, gli spazi-corpi (per esempio come alcuni corpi siano considerati fuori
posto o fuori luogo o come il corpo possa essere strumento di rottura del
dato per scontato) e gli spazi-tempi (per esempio le memorie di un luogo,
le idee di futuro legate ad un luogo). Come ha sottolineato Bagnasco (1994)
parlando di “fatti sociali formati nello spazio”, la stessa esistenza della sociologia urbana è anche una critica alla scarsa considerazione da parte della sociologia della materialità e della multisensorialità della vita quotidiana (e del
mondo empirico), della radicale appartenenza mondana del soggetto. Ciò
si traduce anche in una critica all’abitudine di usare il mondo empirico per
convalidare teorie piuttosto che riferirsi in prima e ultima istanza al mondo
materiale (Blumer 2008) e acquisire familiarità con esso come metodo di
ricerca (Jacobs 1993; Lees 2003). Come ci ricorda la fenomenologia, l’esperienza umana non è eterea ma è essere-nel-mondo (Merleau-Ponty 1945).
Il concetto di capitale spaziale si inserisce in questo filone di pensiero
che sottolinea il ruolo dello spazio al di là delle dicotomie in cui era stato
fino a poco tempo fa rinchiuso. Adottare un’ontologia spazializzata (Soja
1989) significa riconoscere che lo spazio diventa protagonista non solo
come setting da costruire, come oggetto di contesa, ma anche come attore,
come mediatore, come un vettore abilitante e disabilitante, come risorsa e
come vincolo, per dirla con Gibson (1979) come affordance. Lo spazio è un
testo che ci dice costantemente cosa e come guardare, cosa e come fare.
La dialettica socio-spaziale implica che mentre noi diamo forma allo spazio, lo spazio ci in-forma incessantemente, stimolando o meno parti di noi
altrimenti inerti. Tale prospettiva né deterministica né romanticizzante, né
strutturalista né particolaristica, si inserisce nel più ampio emotional, sensorial e relational turn (Ingold 2001; Howes 2003; Massey 2005; Murdoch 2006).
Il capitale spaziale è perciò qui considerato come quell’insieme di pratiche e di rappresentazioni spaziali che permettono di procurarsi risorse
simboliche e/o materiali; risorse, e questo è fondamentale, che non sono
necessariamente a somma zero. Lo spazio infatti è un campo di conflitti
dove spesso si innescano giochi a somma superiore di zero (guadagnano
quasi tutti, come per esempio nella trasformazione di un territorio in spazio pubblico) o a somma minore di zero (perdono quasi tutti, per esempio
quando, al contrario, uno spazio perde le sue caratteristiche di publicness
1 Rinascimento che, peraltro, in Italia ha coinciso con una crescente marginalizzazione proprio della disciplina geografica. Un segnale emblematico è rappresentato dall’abolizione, prevista dalla cosiddetta “Riforma Gelmini” (Legge n. 169/2008),
dell’insegnamento obbligatorio della geografia nelle Scuole superiori.
35
come nel caso delle cosiddette politiche revansciste, cfr. Atkinson 2003;
Mitchell 2003). Il concetto di capitale spaziale è sia individuale che di gruppo, riferibile sia ad attori che a territori. Un luogo come l’Hotel House, come
vedremo, ha un capitale spaziale elevato perché è composto da un numero di luoghi che favoriscono pratiche e rappresentazioni spaziali (cioè usi e
sensi del luogo) capaci di fornire risorse (simboliche e/o materiali): luoghi in
cui è possibile affermare alcuni diritti spaziali, come li ha definiti Lynch (1981:
205–207): il “diritto di presenza”, di “uso e di azione”, di “appropriazione”, di
“modificazione”; un territorio in cui è possibile aggiungere qualcosa di sé,
cioè ap-propriarsi del luogo.
Spazi comunitari e spazi liminali
Lo spazio è il medium dell’azione sociale e gioca un ruolo fondamentale
nella costruzione di identità e nella possibilità di rafforzare confini sociali.
All’Hotel House alcuni spazi sono diventati strumento per la creazione di
comunità, degli spazi comunitari più o meno porosi rispetto all’esterno. Più
precisamente, più che di spazi si tratta di spazi-tempi, vale a dire luoghi in
cui in determinati momenti della giornata e/o della settimana, prevalgono
quelle relazioni che Lofland (1998), riprendendo Hunter (1985), ha definito
parochial, vale a dire quei legami tra conoscenti, parenti, amici caratterizzati
da un senso di con-divisione e comunità. Come sottolinea Gans (2008), indipendentemente dalla volontarietà o meno dell’insediamento, i luoghi di
concentrazione residenziale in cui si ritrovano a coabitare famiglie, amici e
più in generale persone che condividono background culturali o percorsi di
vita simili (come l’Hotel House) contribuiscono a dare vita a molteplici spazi
comunitari (Small 2004). Territori come l’Hotel House garantiscono, infatti,
quella “massa critica” sufficiente per “affermare la propria identità nazionale
e/o culturale e/o religiosa, o meglio di riscoprirla e ridefinirla, ‘inventando’
una propria tradizione” (Lanzani 2003: 338).
Nel corso di questo capitolo andremo ad analizzare in particolare alcuni
spazi utilizzati per ri-produrre relazioni comunitarie da parte di alcune famiglie senegalesi, oltre a uno spazio di preghiera islamica che permette la
riproduzione di un più ampio “noi” musulmano. Come vedremo, tali spazi
sono capaci di mobilitare fondamentali risorse, sia materiali che simboliche,
ma anche di causare rischi di auto-chiusura sociale.
All’Hotel House lo spazio gioca un ruolo fondamentale, anche nel rendere più fluidi i confini e i ruoli sociali – nel creare, cioè, occasioni di incontro. In questo caso si può parlare della liminalità favorita da alcuni spazi. è
stato l’antropologo culturale Victor Turner (1967), rifacendosi alla divisione
fra sacro e profano di Eliade (1973) e alle fasi del “rito di passaggio” analizzate da Van Gennep (1909), a introdurre il concetto di spazio liminale, inteso
come spazio di trasformazione, ambiguo e transitorio. Tale concetto è stato
poi ripreso da alcuni studiosi post-coloniali come Bhabha (1994). Quest’ultimo in particolare ha utilizzato il concetto per indicare che esistono degli
“spazi in-between”, caratterizzati dal superamento di identificazioni fisse e
da una particolare rilevanza delle dinamiche di ibridazione. All’Hotel House
36
|capitolo 2|
non abbiamo tanto spazi in-between nell’accezione post-coloniale, quanto
molteplici spazi di incontro che traggono la propria specificità dall’essere
prevalentemente luoghi di confine tra differenze. Si tratta soprattutto degli spazi di incontro semi-pubblici, cioè alcuni esercizi commerciali dove si
incontrano quotidianamente quelli che Lofland (1998) chiama gli stranieri
biografici, vale a dire soggetti sconosciuti. Questi luoghi rappresentano delle vetrine in cui mettere in scena la propria identità, spazi di confronto, di
contaminazione, di scoperta, di negoziazione e, perché no, di malinteso e
anche di scontro.
L’ambivalenza degli spazi comunitari e degli spazi liminali ruota intorno
alla dialettica, evidenziata da Seamon (1979), tra volontà-desiderio-bisogno
di radicarsi, centrarsi e trovare una casa e quella di esplorare, di scavalcare
i confini e muoversi in direzione di luoghi e persone sconosciuti. A questo
proposito Augé (1992) parla della coppia Hestia/Hermes: la prima simboleggia il focolare circolare al centro della casa, lo spazio chiuso del gruppo
ripiegato su se stesso, mentre il secondo (dio della soglia e della porta, ma
anche dei crocevia e degli ingressi delle città) rappresenta il movimento e
la relazione verso gli altri.
Lo spazio è sempre aperto e plurale e, come vedremo, uno stesso spazio in certi casi e per certe persone può essere territorio di incontro, per
altri territorio comunitario o viceversa un luogo di esclusione sociale. L’uso
quotidiano dello spazio va inteso perciò come arena della riproduzione dei
rapporti di potere ma anche della soggettività, del mutamento sociale e
della resistenza (Heller 1975; Lefebvre 1974). Noi siamo limitati dallo spazio
ma questi stessi vincoli rivelano le effettive potenzialità delle nostre azioni (Simmel 1903). Anzi si può sostenere che inteso così lo spazio appare
il terreno ideale per tenere insieme, da un punto di vista analitico, sia le
costrizioni spaziali che le possibilità da esso offerte all’azione. Per usare le
parole di Merrifield (2000: 170-171) ciò che ne esce è “una riconciliazione tra
lo spazio fisico (natura), lo spazio mentale (le formali astrazioni relative allo
spazio) e lo spazio sociale (lo spazio dell’azione e del conflitto umano e dei
‘fenomeni sensoriali’)”.
“Mi sembra di stare in Senegal”. Gli spazi domestici
Lascio alle mie spalle il corridoio buio e grigio per entrare nell’appartamento di Mamadou e Fatou. Mi ritrovo di colpo immerso in un’atmosfera densa e multisensoriale: gli odori forti della cucina, le musiche mbalax travolgenti dei canali satellitari
senegalesi, in sottofondo le preghiere islamiche che provengono dalla camera di
Malick. Sulle pareti tante fotografie di parenti e di leader religiosi. Spiccano soprattutto quelle enormi di Cheikh Ahmadou Bamba, il profeta fondatore del muridismo2,
2 Il muridismo, o confraternita della Muridiyya, è nato e si è sviluppato attorno agli
anni Ottanta del XIX secolo grazie alla predicazione del mistico senegalese Cheikh
Ahmadu Bamba (1853-1927), di lingua wolof e appartenente al clan Mbacke. Durante l’occupazione coloniale egli divenne l’elemento catalizzatore della società senegalese (Schmidt di Friedberg 1994) e per questo venne anche esiliato per due volte
37
la principale confraternita dell’Islam senegalese in Italia. Si tratta di immagini che
rappresentano le vicende della vita di Ahmadou Bamba, sempre raffigurato in base
alla sola foto che si ha di lui, vestito di bianco, un paio di sandali ai piedi, e con il
viso parzialmente coperto da un velo. Anche i corpi sono “addobbati” con treccine e
vestiti tradizionali dai colori sgargianti. E quando arriva il cibo, come sempre buonissimo di Fatou, sapori, odori, colori e suoni si uniscono tra loro per dare luogo ad una
sinestesia africana!
Oramai mi diverto a passare da un continente all’altro semplicemente camminando pochi metri e, perciò, questa volta trovo una scusa per non fermarmi a pranzo
e lascio “il Senegal” per andare “in Pakistan”. Pochi passi lungo il corridoio e provo a
bussare a casa di Abbas. Mi apre poco dopo e subito sento le musiche indiane che si
intrecciano all’odore del chapati in cottura. La stanza è invasa dai suoi quadri, molti
sono ritratti, molti altri sono paesaggi del Pakistan o dell’Italia. Abbas, infatti, è un
bravissimo pittore e arrotonda il suo stipendio da aiuto cuoco vendendo qualche
quadro. Qui si vede che è una stanza di primomigranti, che non c’è una famiglia che
si occupa della casa. C’è più disordine e l’appartamento è meno curato ma ciononostante l’atmosfera che si è ricreata all’interno dello spazio domestico è anche in
questo caso fortemente identitaria. Le musiche e le danze dei film di Bollywood si
mischiano agli odori, ai colori e alle pratiche quotidiane che mi fanno immergere in
un paesaggio sensoriale che rimanda al Pakistan.
Mi fermo poco perché ho voglia di finire il tour con un giro in Tunisia: di solito a
quest’ora Nader dovrebbe essere rientrato dal lavoro. Prendo l’ascensore e dopo pochi istanti mi ritrovo davanti alla porta della sua casa. Non faccio in tempo a salutarlo che già sento all’orizzonte la lingua araba della tv tunisina e l’odore della carne per
il cous cous in cottura. Alle pareti e sugli scaffali foto e oggetti che scandiscono la sua
biografia e la sua voglia di rimanere legato al suo Paese di origine. [diario di campo, 7 marzo 2006]
Gli spazi domestici sono tradizionalmente luoghi in cui attraverso oggetti
e pratiche quotidiane si dà forma e spazio alla propria memoria, alla propria appartenenza e a frammenti della propria identità (Mandich e Rampazzi 2009). Questo vale ancora di più per popolazioni come quelle migranti
che si trovano fisicamente lontane dai propri territori di origine. Gli spazi
domestici vengono addobbati, ricoperti e marcati per ricostruire e rivivere
i paesaggi sensoriali dei territori di origine: i canali satellitari riaccendono
i suoni, l’import-export inarrestabile di cibi fa rivivere gli odori, i profumi,
i sapori. Tutto questo permette di creare un habitat simbolicamente più
confortevole, capace di richiamare e dare continuità al proprio background
socio-culturale, a volte anche idealizzando, una madrepatria e un passato
mai esistiti, perlomeno in quella forma, come ricorda Appadurai (1996).
Attraverso questi atti di scrittura dello spazio, si cerca di ritrovare un ordine, una continuità, in una situazione di rottura e disordine simbolico (Basco,
Boccagni e Brighenti, a cura di, 2012). Riprendendo De Martino (1977) si può
dire che sia un atto ontologico, una sorta di centratura di sé nell’ambiente.
dall’amministrazione francese. Cheikh Ahmadu Bamba e i suoi discendenti sono
tutt’oggi venerati da molti cittadini senegalesi.
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|capitolo 2|
Infatti attraverso la relazione con il proprio spazio domestico il soggetto “si
radica nel mondo (lo abita) e in qualche misura lo fonda, nel senso che se ne
appropria interiorizzandolo e nello stesso tempo lo colonizza proiettandovi
una parte di sé” (Pasquinelli 2004). (Img. 2.1, 2.2)
Ho iniziato la mia presenza all’Hotel House come ospite di una signora senegalese (Diara) e ho trascorso una parte importante dei primi mesi
passando dal suo appartamento a quello di altri senegalesi, in particolare,
l’appartamento di Mamadou e Fatou (vedi Appendice metodologica). In
questo periodo ho potuto vedere come all’Hotel House alcuni appartamenti di cittadini senegalesi rappresentino forse l’esempio più compiuto
di come lo spazio domestico possa essere usato per costruire e condividere
processi identitari, per ricostruire e rafforzare reti sociali comunitarie e come
questo avvenga con modalità privilegiate in contesti di concentrazione residenziale di minoranze. Infatti alcuni gruppi di senegalesi utilizzano alcuni
appartamenti dell’enorme condominio come luoghi di pratiche comunitarie come i pasti e le preghiere collettive e, più in generale, come una sorta
di luoghi sempre aperti, in cui entrare, incontrare amici o parenti, fare due
chiacchiere e uscire.
Ogni volta che sono all’Hotel House mi basta varcare la soglia dell’appartamento di Fatou o di Diara per rendermene conto:
Dovrei essere ormai abituato ma questi corridoi sono sempre una sorta di labirinto: 15A, lato corto, lato lungo, gira a destra, gira a sinistra, alcuni corridoi sono bui,
negli altri comunque la luce è sempre un po’ soffusa, viavai di persone tra l’ascensore
e gli appartamenti. Ed eccomi, finalmente, di fronte all’appartamento di Fatou e Mamadou. Suono il campanello e dopo pochi secondi si affaccia Bamba che saluto con
piacere. Anche lui sembra felice di vedermi. Sento subito il sottofondo di musica senegalese con i suoi ritmi forsennati mischiati a musica dance. Come sempre mi invita a
mettermi sul divano e iniziamo a parlare e a guardare la tv. Dopo pochi minuti dalla
stanza esce Aliou con il suo cappellino da rapper e la maglietta del Milan. Anch’egli
prima saluta e poi si mette a sedere con noi e a chiacchierare. Passano dieci minuti
circa ed è la volta di Fatou, che arriva in casa insieme ad un’altra signora senegalese
che non avevo mai visto prima. Fatou, sempre gentilissima con me, mi chiede come
sto io e come sta mia madre (me lo chiede sempre, pur non avendola mai incontrata). Se ne va prima in camera e subito dopo in cucina. L’amica, invece, si mette
con noi sul divano e inizia a parlare con Bamba in wolof. Passano pochi minuti ed
ecco arrivare anche Mamadou insieme ad altre due persone; entra con merci di vario
tipo, lui è un venditore ambulante. Saluta con i suoi modi più freddi ma comunque
cordiali e anche loro si mettono a sedere e a parlare un po’. L’amica di Fatou intanto
se ne va. Proprio mentre dalla cucina inizia a diffondersi l’odore della carne speziata
in cottura. Fatou è al lavoro. Si avvicina l’ora della cena e altri senegalesi arrivano.
Siamo ormai una decina. Bamba prepara il giornale a terra e in breve tempo ci ritroviamo tutti a mangiare insieme, sullo stesso grande piatto. Ma continua il viavai.
Alcuni finiscono in breve tempo di mangiare e ripartono. [diario di campo, 27 aprile 2006]
Alcuni gruppi amicali e parentali di senegalesi trascorrono una parte
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2.1. La risignificazione degli spazi domestici (foto di Francesca Pieroni)
2.2. Immagini tradizionali e… immagini multimediali (foto di Francesca Pieroni)
preponderante del proprio tempo libero insieme nei loro appartamenti:
gente che continuamente arriva, si ferma per pochi minuti per un saluto
veloce o per chiacchierare per ore. C’è sempre un appartamento disponibile
per prendere un tè alla menta, bere un toufam (un mix di yogurt e acqua
zuccherata molto amato in Senegal), vedere un nuovo film senegalese o
per ascoltare discorsi politici, in particolare del presidente alla tv satellitare,
per fare o farsi fare acconciature in stile africano, per vedere videocassette
su matrimoni, battesimi o altre feste.
In queste occasioni la comunicazione faccia a faccia, così intensa e viva,
può protrarsi anche per molto tempo, permettendo la (ri)produzione di una
cultura e il rafforzamento di relazioni sociali. Gli appartamenti sono nodi di
un territorio circolatorio lungo il quale spostarsi. Non a caso spesso le porte
degli appartamenti rimangono aperte, com’è tradizione in Senegal, e molti
non salutano neppure nel momento in cui vanno via.
Una delle principali passioni è sicuramente guardare dvd o programmi
televisivi della tv senegalese che proiettano video musicali, al punto che
questi costituiscono lo sfondo quasi costante delle chiacchierate quotidiane. Il genere musicale che li fa letteralmente impazzire è chiamato mbalax.
Si tratta di una fusione di musica popolare occidentale (dance, jazz e soul) e
di sabar, la musica tradizionale senegalese, caratterizzata da forti accompagnamenti ritmici (percussioni), chiamati appunto mbalax. I video di questo
genere musicale sono caratterizzati spesso da danze scatenate, ritmate a
suon di tamburi, conghe e jambé. L’idolo di questo genere musicale è Youssou N’Dour, chiamato non a caso il “Re del Mbalax”3.
Negli spazi domestici i senegalesi si ritrovano anche per celebrare i rituali della confraternita religiosa della muridiyya, a cui appartiene la maggioranza di coloro che sono immigrati in Italia. Il forte orientamento comunitario
della confraternita e la rete di solidarietà e di mutuo soccorso dei muridi
costituisce, un sistema di assicurazione sociale per i migranti, in quanto è in
grado di organizzare e fornire ospitalità, sostegno economico, avviamento
al lavoro, trasferimenti di denaro, logistica di viaggi e spostamenti (Schmidt
di Friedberg 1994).
Gli spazi domestici sono luoghi di preghiera anche nei momenti più ordinari della vita quotidiana. Anche nelle situazioni più affollate e in mezzo
alle discussioni più animate, può accadere che alcuni vadano a prendere il
proprio tappetino e inizino a pregare in mezzo alla stanza, appena defilati
in un angolo:
Ero seduto sul divano nella parte vicina all’entrata quando vedo Mamadou che
parla con Babacar, appena arrivato da Brescia. Gli passa il tappetino per pregare,
entrambi hanno un po’ di indecisione su dove collocarlo a terra. Ecco, deciso! Il tappeto sarà messo all’ingresso tra il divano dove sono seduto io e il tavolino, quindi
praticamente al mio fianco. La cosa interessante è che nella stanza eravamo in 4-5
persone, compresa una ragazza chiassosissima. Babacar inizia a pregare e gli altri
3 Youssou N’ Dour, nell’aprile 2012, è diventato Ministro della cultura e del turismo
nel nuovo governo di Abdoul Mbaye.
42
|capitolo 2|
(tranne me), facevano veramente tutto come se niente fosse: urlavano, telefonavano, giocavano con il cellulare. D’altra parte, anche Babacar sembrava assorto nella
preghiera come se in quel momento si trovasse da solo in un deserto. Pregava in certi
momenti anche a voce piuttosto alta, compiendo tutti i gesti rituali, gli inchini, gli
inginocchiamenti, mentre gli sguardi degli altri presenti sembravano quasi passare
attraverso la sua figura, come se fosse trasparente. [diario di campo, 18 luglio 2006]
Gli appartamenti dell’Hotel House non sono di pessima qualità e di ridotte dimensioni come spesso accade ai luoghi dove si ritrovano a concentrarsi gli immigrati. Non si tratta cioè di “case di immigrazione” come le
chiamano Granata e Novak (1999). Come detto (Cap. 1), l’Hotel era stato
progettato per ceti medi, e di conseguenza gli appartamenti sono più che
dignitosi: 60 metri quadri ciascuno, distribuiti in ingresso, camera da letto
matrimoniale, seconda camera più piccola, soggiorno-pranzo di discrete dimensioni, cucina stretta ma lunga, servizi igienici completi di bagno e doccia. Inoltre un’ampia terrazza di 13 metri quadri fronteggia ciascun appartamento. La divisione degli spazi è estremamente razionale: sono eliminati
i corridoi e tutti gli spazi cosiddetti inutili e di disimpegno. La funzionalità
degli appartamenti dell’Hotel House è riconosciuta dalla quasi totalità dei
suoi residenti. Essi rappresentano, dunque, un territorio particolarmente fertile per dare spazio a queste reti sociali.
Uno dei momenti più significativi durante il quale si afferma lo spirito
comunitario di questi gruppi di senegalesi e attraverso il quale gli spazi domestici diventano spazi comunitari capaci di richiamare soggetti da diversi
appartamenti è il rituale del pasto collettivo (Img. 2.3). Il pasto consiste generalmente in riso (ma non mancano grandi spaghettate) accompagnato
da carne (di bue o pollo) o da pesce e qualche verdura. Il significato del
pasto collettivo è simbolicamente forte: mangiare con le mani stando tutti seduti a terra intorno ad un grande piatto unico. Questa è la mia prima
esperienza da co-protagonista del rituale:
Iniziamo a toglierci le scarpe, un ragazzo che non conosco mette i giornali sulla
moquette a mo’ di tovaglia, nello spazio largo tra i divani. Anch’io mi inginocchio
come tutti e questo crea un pizzico di sorpresa. Non a caso Diara mi ha chiesto subito: “tu vuoi fare l’africano?”. Quando ecco arrivare il piatto grande con insalata, pollo,
patatine e salse varie. Siamo una decina seduti a terra sui giornali e scalzi, disposti
tutt’intorno all’enorme piatto. Durante il pasto c’è un’incredibile disciplina nel mangiare tutti allo stesso piatto; molti prendono il riso e il condimento con il cucchiaio,
mentre altri tra cui Diara e Fatou prendono il cibo con la mano e lo lavorano un po’
per farne una sorta di pallina, di polpetta. Hanno dei movimenti velocissimi, quasi
affascinanti per quanto sono armonici e liberi, sembra quasi una danza delle dita
con la mano che funge da palco. A volte prendono anche la carne e la suddividono in
pezzi più piccoli e la distribuiscono un po’ in tutto il piatto e quindi a tutti i commensali, con un occhio di riguardo per gli ospiti, come me. Fatou, soprattutto, è attenta
e scrupolosa nel far arrivare i pezzetti di carne lavorata dalla parte del piatto a me
riservata. Nel momento in cui finisco di mangiare e sto per alzarmi, mi accorgo di
43
avere un po’ di riso maldestramente attaccato sul ginocchio dei pantaloni. Me lo fa
notare qualcuno e allora rispondo: “Non sono ancora africano!”… e sorridiamo un
po’ tutti. [diario di campo, 7 novembre 2004]
Il pasto collettivo è un rito comunitario che si rivela anche un esercizio
continuo di autocontrollo e di rispetto reciproco; esso costringe, infatti, ad
essere sempre attenti a non invadere la porzione di piatto di chi sta al proprio fianco. Se è vero che i pasti sono un momento comunitario, è però
altrettanto vero che nel corso di essi si parla poco (il che si nota ancora di
più dato che negli altri momenti i senegalesi chiacchierano tantissimo tra
di loro); inoltre se l’inizio è sincronizzato, la fine è molto più individualistica.
Alcuni lasciano il pasto anche molto presto, dopo aver appena spizzicato
qualcosa, perché è considerato doveroso assaggiare il cibo, in segno di amicizia, rispetto e gradimento. Inoltre è buona norma non lasciare mai una
persona a mangiare da sola e così c’è sempre qualcuno che fa in modo di
rallentare per fare compagnia fino alla fine al più vorace (cioè spesso a me,
specie nelle occasioni in cui il riso è particolarmente buono).
Va ricordato comunque che, se è vero che una parte di senegalesi ha
saputo ricreare all’Hotel House una rete di sostegno e degli spazi comunitari
significativi, è anche vero che questo reticolo denso di relazioni sociali implica anche forti vincoli. Sostegno e controllo, ricevere e dare, rappresentano,
infatti, sovente due aspetti della stessa medaglia in conflitto dialettico tra
loro. Non a caso non sono pochi i senegalesi che mi hanno “confessato” di
sentirsi un po’ bloccati in questa rete:
Stare qua è come essere in Senegal… è difficile anche imparare la lingua italiana! Modou, m, 1976, senegalese, residente
La stessa Diara che mi ha ospitato i primi tempi mi ha raccontato:
A me inizia a darmi fastidio ora che tutti entrano e escono senza neanche bussare. Quando vado in Africa, mi dicono che sono diventata bianca! Per esempio hai
visto prima Fatou è entrata con il telefono in mano, senza salutare ed è andata
in bagno. A te farà ridere ma se era europea non faceva così. È una questione di
civilizzazione perché uno poteva anche stare facendo qualcosa! Diara, f, 1964,
senegalese, residente
All’Hotel House sono innanzitutto i giovani senegalesi a sentirsi troppo
vincolati da legami comunitari così forti, tanto da aver scelto, in certi casi, di
lasciare il condominio proprio per questo motivo, come ha fatto Bunama:
Io all’Hotel House non ci stavo bene. Ti giudicano sempre, ti guardano sempre
male! Io sono andato via anche per questo. Bunama, m, 1982, senegalese,
ex-residente
Le reti sociali così dense, infatti, possono esercitare un controllo molto
forte sul comportamento individuale, scoraggiare i comportamenti innovatori e favorire pratiche e rappresentazioni conservatrici. Il mantenimento
di un forte comunitarismo può anche diventare una questione di mantenimento del proprio sistema di privilegi da parte di chi si trova in posizioni
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2.3. Alcuni degli usi dei balconi dell’Hotel House
gerarchicamente superiori. Questo è il cosiddetto downside (lato negativo)
o addirittura dark side (lato oscuro) del capitale sociale.
Le reti dense sono particolarmente efficaci nel preservare risorse. Al contrario, quando lo scopo è ottenere nuove risorse, sono spesso più utili reti
ampie e a maglia larga e aperte (Granovetter 1973). Le relazioni che formano il capitale sociale andrebbero perciò sempre analizzate in merito alla loro
natura simmetrica o asimmetrica, orizzontale o verticale.
Non va dimenticato, comunque, che l’esperienza migratoria rende possibile anche la fuga dal controllo sociale della comunità. Due storie che
esemplificano questa dinamica mi sono state raccontate da Diara:
Awa è di una zona in cui si sposano a 13 anni: lei è fuggita la prima volta perché non voleva sposarsi. Poi l’hanno ritrovata, si sono sposati, suo marito l’ha
portata in Spagna, lì ha visto, ha capito ed è fuggita. Ha conosciuto uno e gli
ha chiesto se la poteva portare in Italia. Questo signore mi ha chiamata e mi ha
chiesto se potevo tenerla, lei è amica della mia nipote. Ieri ti ho detto che è la mia
nipote anche perché lei mi chiama zia. Lei ha perso tutti i parenti, loro sono tutti
in Spagna. Ma soprattutto ha perso la figlia di pochi anni; è due anni che non la
vede! Gli manda sempre i soldi, ma non lo sanno dov’è lei!
Poi continua con un’altra storia:
Quando ero piccola mia madre mi ha raccontato di una ragazza che non voleva
sposarsi con un tipo. Allora era fuggita e i suoi amici e parenti quando l’hanno
trovata l’hanno messa sopra una tavola e l’hanno picchiata. Lei dopo 15 giorni ancora non camminava dal dolore. Dopo è fuggita nuovamente e stavolta
è andata in Francia; dopo qualche anno è tornata sposata con un francese. Ha
messo su un bar a Dakar e ha assunto come dipendenti i suoi familiari. Quando
la vedevamo arrivare noi bambini, tutti dicevano che lei era la puttana. Ma noi
gli andavamo sempre incontro perché ci dava le cose, era molto brava. Anche
mia madre me lo diceva che era brava! Diara, f, 1964, senegalese, residente
L’esito dei reticoli densi e comunitari, come quelli che si stanno riproducendo all’Hotel House, non è scontato: non è cioè in sé positivo o negativo,
quanto piuttosto ambivalente. Fondamentale è interrogarsi perciò su come
questo capitale sociale viene utilizzato.
“è bello ogni tanto sentirci come una famiglia”. Lo spazio comunitario
della moschea
Un ampio spazio scarno, semplice, senza decorazioni particolari se non qualche
oggetto appeso e una piccola bacheca all’ingresso. La grande distesa di tappeti a
coprire il pavimento. La grande sala è piena, tutti scalzi a ripetere gli stessi gesti, come
un solo corpo a eseguire i rituali sacri della preghiera. Tutte le “differenze” dell’Hotel
House, senegalesi, tunisini, bangladesi, pakistani gli uni accanto agli altri. Anzi, non
tutte le differenze del condominio, dato che non ci sono donne. Finita la preghiera
inizia il discorso dell’imam in arabo, lingua conosciuta solo da una ristretta minoranza dei fedeli; infatti una volta terminato, inizia la traduzione in italiano. Ma non si
presta grande attenzione né al sermone né alla sua traduzione; solo le persone nelle
prime file sono attente e restano sedute intonando preghiere e canti rituali mentre la
46
|capitolo 2|
Tab. 2.1. Percentuale di abitanti all’Hotel House su totale abitanti di Porto Recanati
Provenienza
Bangladesh
Senegal
Nigeria
Pakistan
Tunisia
Marocco
Macedonia
Romania
Italia
Albania
Porto Recanati (1)
345
377
99
236
271
129
160
188
12155
240
Hotel House (2)
358
371
97
225
165
46
50
7
86
0
% (2)/(1)
103,8*
98,4
98,0
95,3
60,9
35,7
31,3
3,7
0,7
0,0
Fonte: dati Istat al 31.12.2009 per la città di Porto Recanati e dati della portineria al
01.07.2009 per l’Hotel House
* Come sopra ricordato, i dati della portineria sono quelli più fedeli in quanto permettono di includere anche presenze non formalmente registrate all’anagrafe. La diversità
delle fonti utilizzate in tabella rende però possibile che la percentuale di concentrazione nel condominio risulti addirittura superiore al 100%, come nel caso dei bangladesi.
Nonostante questi limiti, la comparazione resta comunque indicativa per considerazioni di carattere generale.
maggior parte delle persone sbadiglia, parla o si guarda attorno.
[diario di campo, 10 gennaio 2006]
Si può stimare che circa l’80% degli abitanti dell’Hotel House proviene
da Paesi a larghissima maggioranza di religione musulmana, caratteristica
questa che contraddistingue fortemente gli immigrati che si sono insediati
nel condominio rispetto a quelli che sono presenti nelle altre parti della
città (Tab. 2.1). Infatti se prendiamo i primi dieci gruppi nazionali immigrati
presenti a Porto Recanati notiamo che sono proprio quelli di religione musulmana ad essere fortemente concentrati all’Hotel House mentre i gruppi
nazionali dove la componente musulmana è minoritaria (Albania) o pressoché assente (Romania), solo in pochissimi casi hanno scelto di insediarsi
nel grande condominio. Questo processo di selezione su base religiosa è
avvenuto anche in altri contesti di concentrazione residenziale di immigrati
(Barberis e Cancellieri 2012).
La sala di preghiera-moschea è un grande polo identitario e di socialità, come è stato sottolineato da uno dei protagonisti delle attività della
moschea, nonché muratore-tuttofare per l’amministrazione condominiale,
il quale ne ha messo in evidenza la natura di terzo luogo (Oldenburg 1989),
oltre gli spazi domestici e lavorativi – un luogo in cui “ricaricare le batterie”,
trovare senso e riconoscimento:
Ogni tanto facciamo il cous cous e lo portiamo giù in moschea. Piace a tutti; tutte le nazionalità lo mangiano. Mangiamo sui tappeti, è bello ogni tanto sentirci
47
un po’ come una famiglia. Non voglio dire questo perché siamo musulmani ma
siamo tutti uguali, siamo tutti lavoratori, siamo tutti lontani dai nostri paesi. Se
no, casa-lavoro, casa-lavoro, uno fa una fossa e si butta là dentro! Saber, m,
1963, tunisino, residente
Considerata l’importanza dell’identità islamica, l’esigenza di uno spazio
materiale, di un luogo in cui professare insieme il culto islamico, è emersa
sin dai primi anni di insediamento di migranti all’Hotel House. Ma è solo nel
2002 che tale desiderio si è potuto materializzare attraverso l’acquisto da
parte di un signore egiziano con cittadinanza italiana di tre negozi di 35 metri quadri l’uno al piano terra. Questi sono stati unificati in un unico spazio di
105 metri quadri arredato come sala di preghiera islamica: un ampio salone
con un pavimento interamente ricoperto da tappeti, una stanzettina con le
docce dove fare le abluzioni e una parete con un’ampia scaffalatura dove si
trovano oggetti dorati e copie del Corano in diverse lingue. La struttura si
presenta pulita e in un certo senso elegante, come è stato notato anche dai
residenti italiani del condominio:
Io non sto sempre a sficcanasare però un’altra cosa interessantissima è che olfattivamente la moschea è come se fosse un salone a Parigi! Odora che è una bellezza! Perché loro fra l’altro vendono al mercato le candele, e con queste candele
si ha la sensazione di igiene e di profumo. è un posto gradevole, addirittura ho
sentito un effluvio fuori: “Ma che sono impazziti?” Nel sacro sta anche il fatto che
sia pulito. Non è poco questa cosa, quindi quello è un dato positivo. Antonio, m,
1940, italiano, residente
L’apertura della moschea ha certamente rappresentato un momento di
svolta e di accelerazione del processo di islamizzazione del condominio e
ha portato alla prima materializzazione e delimitazione di uno spazio sacro
che irradia la sua influenza anche sul territorio circostante. E per la religione,
in particolare per quella islamica, il confine tra sacro e profano, tra lecito
(halal) e illecito (haram) è centrale nella vita quotidiana. Se prima la religione
sacralizzava alcuni tempi, il venerdì o alcune feste come la festa del montone o il ramadan, ora sacralizza anche un territorio, un luogo.
Sono molti gli episodi che hanno messo in luce l’esistenza di una sorta
di “campo magnetico” che circonderebbe il locale adibito a moschea e che
comporta una sorta di “moralizzazione degli spazi”:
È stata importante l’apertura della moschea. Ecco per esempio quello [indica la
zona davanti alla moschea] prima era un postaccio. Io abito sopra e prima non
potevi andare sul balcone, anche mia moglie perché c’era gentaccia. Da quando
è stata aperta la moschea, è tranquillo. Per esempio ci sta qualche musulmano che beve, ma con la bottiglia non ci passa più davanti la moschea perché si
vergogna. Perché questo è un luogo sacro, un posto proprio pulito per andare
almeno un attimino in pace con quello che ti ha creato. Saber, m, 1963, tunisino, residente
Con la moschea sono cambiate anche tante cose. La gente ha cominciato a vivere in modo diverso. Per esempio io conosco un tunisino che viveva come un
musulmano non dovrebbe vivere: ubriaco, veniva a casa, menava moglie e figli!
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|capitolo 2|
Però quando è nata la moschea, lui ha cambiato tutto. E così sono tanti, tanti…
perché è sempre una cosa sensibile la moschea. Ali, m, 1969, bangladese, residente
Un aspetto interessante è dato dal fatto che da un punto di vista “visivo”
l’importanza dell’Islam e della dimensione religiosa appare poco accentuata
all’Hotel House. La stessa moschea presente al piano terra della struttura
non è caratterizzata all’esterno da alcun segno o simbolo. La platealità di
quest’assenza non può che rivelare una volontarietà di non esporre all’esterno questo spazio sacro, di non “metterlo in scena”. Allo stesso tempo,
però, se è vero che l’Islam non viene ostentato nello spazio pubblico del
condominio, è altrettanto vero che l’Hotel House è vissuto più o meno
esplicitamente da molti dei residenti musulmani come una zona dove si
pretende di non essere esposti alle “pressioni” da parte della religione cattolica dominante. Questo è apparso chiaramente in occasione di un Natale
quando la presenza di un presepe in portineria aveva incontrato molteplici
resistenze e, ancor di più, in seguito al goffo tentativo di alcune associazioni
di volontariato di stampo cattolico di arredare la sala comunale al piano terra del condominio destinata, tra le altre attività anche ai corsi di arabo, con
molteplici marcatori cattolici come, per esempio crocefissi e altre immagini
religiose. Anche in quest’ultimo caso la reazione di una parte di residenti è
stata fortemente polemica.
La moschea diventa un grande polo di attrazione soprattutto il venerdì,
giorno sacro per l’Islam, durante la preghiera del tramonto e in occasione di
alcune ricorrenze religiose come l’Ayd al Fitr, cioè la festa del montone o la
rottura del digiuno nel mese di Ramadan: in tutti questi casi l’Hotel House
attira anche numerosi fedeli non residenti. In quei momenti, passeggiando
nella piazzetta antistante l’ingresso, è facile ritrovarsi in mezzo a un viavai
ininterrotto di fedeli che, spesso indossando gli abiti da festa, escono dal
condominio per andare a pregare. Lo spazio è frequentato soprattutto da
bangladesi e pakistani ma anche da un buon numero di tunisini e più in
generale di maghrebini. I senegalesi, che sono il gruppo nazionale più numeroso presente all’Hotel House, sono proporzionalmente pochi, perché
professano generalmente un tipo di Islam eterodosso, quello cioè della confraternita mistica della muridiyya e tendono di conseguenza a ritrovarsi più
facilmente negli appartamenti che, come abbiamo già sottolineato, sono
i loro principali spazi di incontro, anche religioso (in particolare in uno di
questi dedicato alla lettura del Corano e alla preghiera collettiva, oltre che
sede della locale associazione senegalese).
L’eterogeneità nazionale dei fedeli che frequentano la moschea la rende
anche uno spazio di multiculturalismo quotidiano (Colombo e Semi 2007).
La costruzione di questa piccola ummah è, infatti, un formidabile momento
di messa in secondo piano dei legami nazionali e di ricostruzione e rafforzamento di legami sopranazionali fondati sulla comune appartenenza religiosa (Barberis e Cancellieri 2012). La comune identità islamica della maggior
parte degli abitanti del condominio fa dell’Islam una delle dimensioni che
maggiormente caratterizzano la vita quotidiana del residence. Tale pre-
49
senza crescente si evince per esempio dal semplice continuo ripetersi del
saluto As-Salamu `Alaykum/wa `Alaykum As-Salam (“Che la pace sia con te
/ Altrettanto”), così come dal ruolo dell’Islam come schema di riferimento
valoriale, come ci racconta un residente:
Ogni tanto parlare del fondo del Corano, dell’Islam, ci fa sempre imparare
qualche cosa, perché come ti dicevo prima ci stanno tanti problemi nella vita,
su qualsiasi cosa, su qualsiasi problema noi chiediamo una soluzione. Il Corano con la Bibbia ti impara come camminare, come trattare, come vivere, come
comportarsi con la gente, come ti comporti con tuo figlio, ciò che deve fare il
figlio, ciò che non deve fare [il figlio Toufik, presente all’intervista aggiunge “Ciò
che il padre deve fare!”]. Se uno va ad affondare un attimino sul Corano, la religione, piano piano trova la strada. è tutto più chiaro, su qualsiasi movimento, su
qualsiasi cosa piccola e grande della vita. Saber, m, 1963, tunisino, residente
I riferimenti alla morale islamica sono continui e soprattutto affermati
con estrema convinzione spesso come reazione conservatrice al mondo
occidentale considerato “corrotto” (Afshar 1994). Questo comporta una forte
rigidità morale costruita ed espressa in particolare nei confronti dei musulmani che violano alcune prescrizioni religiose, come quella di fumare, dire
bestemmie, bere e non rispettare luoghi e cose sacre.
Da ultimo va sottolineato come la moschea sia anche uno spazio di potere. Infatti essa ha anche permesso la strutturazione di alcune forme di leadership che potremmo riassumere in due idealtipi. Da un lato una serie di
soggetti che vivono da diverso tempo all’Hotel House e parlano molto bene
la lingua italiana; essi potrebbero essere definiti “uomini del fare”, in quanto rappresentano il perno pratico, operativo-manuale della moschea, quei
soggetti che quotidianamente gestiscono la moschea. Sono soprattutto
tunisini e bangladesi, parlano bene la lingua italiana e sono molto presenti
e attivi anche in tutte le attività extra-religiose che riguardano il residence,
come per esempio il consiglio di amministrazione del condominio o, come
vedremo più avanti (vedi Cap. 4), alcune iniziative di protesta. Dall’altro lato
una serie di personalità religiose, spesso nominate direttamente dall’UCOII4
che sono poco visibili e che non sempre risiedono nel condominio; tali soggetti guidano le principali cerimonie religiose.
La moschea ha permesso, inoltre, di fissare materialmente anche un forte confine di genere. Infatti i suoi spazi interni sono costituiti da una grande
sala dedicata agli uomini e una piccola saletta, destinata alle donne, quasi
sempre vuota e separata dalla principale da una tenda semi-trasparente.
Anche durante le grandi feste religiose che si sono svolte in certi casi nell’auditorium di Porto Recanati, che è decisamente più grande, le donne sono
sistemate in fondo con i bambini. Questa separazione di genere si è rivelata
evidente una volta di più quando è entrata con me in moschea durante una
celebrazione per la fine del Ramadan, una ragazza che ha studiato per un
paio di mesi le dinamiche dell’Hotel House per la propria tesi di laurea. Men4 L’Unione delle Comunità Islamiche in Italia controlla la maggior parte delle associazioni e dei luoghi di preghiera sul territorio italiano e rappresenta l’Islam neotradizionalista attivista, quello del cosiddetto “riformismo islamico”.
50
|capitolo 2|
tre la mia presenza non è stata mai osteggiata: “la moschea da noi è sempre
aperta, basta che togli le scarpe” (Ali, m, 1973, bangladese, residente), quando
è entrata lei, al mio fianco, è stata subito invitata senza mezzi termini a coprirsi il capo con il velo e spedita in mezzo alle altre donne che non hanno
mostrato il minimo cenno di interesse ad interagire con lei. Questo piccolo
episodio ha messo in evidenza, tra gli altri aspetti, l’importanza del “corpo”
(e del genere) del ricercatore che troppo spesso tende invece a considerarsi
“una mente senza corpo e senza sangue” (Gouldner 1980), neutra. Il ricercatore è, al contrario, uno degli attori in campo e non è certamente l’unico
dotato di riflessività (vedi Appendice metodologica).
Anche la moschea come spazio comunitario rivela la sua ambivalenza
di territorio che veicola significative risorse simboliche e materiali ma anche
strumento per la riproduzione di confini sociali.
“I servizi se li sono fatti al piano terra”. Gli spazi di incontro
Neanche stanotte ho sentito rumori, non so se sono io ad avere un sonno così pesante o i miei 2.000 vicini di casa che, durante la notte, decidono di volermi far riposare
tranquillo. Diego, il mio coinquilino, è già partito: oggi lavora proprio all’Hotel House
per fare manutenzione ad uno degli otto ascensori, arterie fondamentali per la regolare circolazione del residence.
Come tutte le mattine, ancora assonnato, mi affaccio al balcone e scorgo un Hotel House semivuoto. Il cielo è azzurrissimo e l’aria già calda. Il campetto in cemento,
unico spazio di gioco per i bambini e i ragazzi, è deserto. Il triste grigio dell’edificio
domina il paesaggio; ma ad uno sguardo più attento l’occhio va sui balconi, esempi
magistrali della vitalità del luogo. In questi spazi stretti e lunghi c’è di tutto: i panni stesi ad asciugare si mescolano ad arnesi da cucina, a materassi per ospiti più o
meno provvisori, a biciclette. In una terrazza più lontana scorgo anche un ragazzo
maghrebino intento a chinarsi e sollevarsi ripetutamente, eseguendo i movimenti
rituali islamici per la preghiera della mattina e mi vengono in mente le parole di Antonio di ieri:
Qualche volta sul balcone è incredibile vedere quando si genuflettono. Perché
quando uno lo vede in un documentario è preparato. Ma io vedo la gente che fa
delle genuflessioni per 20-30 minuti, ginocchi e rotule sul pavimento, nel balcone
all’aperto, quand’è inverno. Se penso che cinque anni fa in un balcone molto
vicino vedevo una coppia di italiani, in versione nudo integrale, abbracciati che
stavano a prendere il sole perché era una località di residenza estiva! [...] Il tempo
trasforma, questo è un posto stranissimo dove anche domani mattina qualche
piccolo cambiamento lo vedremo. Antonio, m, 1940, italiano, residente
Non mi va di stare lì ad osservare troppo e rientro in casa, senza neanche dare
uno scorcio alla moschea, di fronte al campetto di cemento. Mi lavo, mi vesto velocemente e scendo al bar. Sto per chiudere la porta di casa, quando dal fondo del corridoio
buio vedo emergere persone come fantasmi. Riconosco la signora Federica, una delle
anziane italiane che non hanno abbandonato l’Hotel House, che sta rientrando in casa.
Ci salutiamo con un cenno cordiale, poi chiudo la porta e mi avvicino all’ascensore. Inizio
a sentire i primi rumori e dopo pochi passi mi ritrovo di fianco un ragazzo pakistano, che
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anche lui aspetta di scendere. Dopo un minuto di silenzio e di attesa, l’ascensore arriva,
si aprono le porte e entriamo. Lentamente scendiamo a terra. A metà discesa, ci fermiamo; entra un signore senegalese con in mano un libretto di preghiere con la foto della
moschea di Touba5 e una sorta di rosario6. Questi ascensori sembrano tanti piccoli Hotel
House in miniatura, dove convive in pochissimi metri quadrati l’umanità dell’enorme edificio. Arriviamo presto al piano terra. Si aprono le porte dell’ascensore e inizia il brusìo di
sottofondo che caratterizza il condominio: ora è lieve, alla sera dopo il lavoro diventerà
quasi assordante. Intanto ognuno va per la sua strada, dopo questa breve coabitazione
forzata.
Passo davanti alla portineria, vedo la solita marea di cartelli e annunci appesi, molti dei quali si riferiscono ad appartamenti in vendita. Mi fermo a leggere un
cartello in cui si pubblicizzano due serate organizzate dall’associazione senegalese,
che si è formata da poche settimane all’Hotel House. Passo davanti alla portineria e
faccio un cenno a Sandel, il portinaio romeno, sempre molto taciturno ma cordiale.
Esco finalmente dal residence e mi ritrovo fuori, sotto la luce, nella piazzetta antistante, ora semideserta. Alcuni negozi non sono ancora aperti, le panchine sono tutte
vuote. Così mi avvicino stancamente al bar. Entro e, purtroppo, non vedo Danilo, il
gestore salernitano con il quale speravo di iniziare la giornata prendendolo un po’
in giro sulla sua fede calcistica milanista. Ordino un caffè e sento vicino a me una
signora romena parlare di indulto. So che ha il marito in carcere, quindi capisco bene
l’interesse per la questione. Me ne vado subito, leggermente più sveglio di prima. Vedo
pochissima gente in giro e decido di tornare su in casa. Mi stupisce sempre l’idea di
una “città” così densamente popolata che però in alcune fasi della giornata è decisamente silenziosa e “noiosa”. Così mi rifugio nel mio appartamento. Dopo un paio
d’ore di riflessioni e di scrittura, decido che è il momento di scendere e di vagare un po’
per il piano terra in cerca di qualcuno con cui chiacchierare. Eccomi di nuovo nella
piazzetta antistante l’ingresso: in fondo davanti al bar si è composto il solito gruppetto di persone per lo più maghrebine sedute nei tavolini esterni al bar; nelle cabine dei
phone centers vedo alcune persone intente a telefonare quando ecco che riconosco,
seduto su una delle panchine, il signor Fabrizio, uno degli ultimi vacanzieri, cioè uno
di quegli italiani che ancora usa il residence come luogo di villeggiatura. Dopo alcune parole sui suoi gravi problemi di salute, commenta con un po’ di amaro in bocca:
“Eh, siamo rimasti sempre di meno! Ogni tanto c’è qualcuno che vende!”.
In effetti l’impressione, guardandomi intorno, è che l’anziano vacanziere di Milano sia il vero straniero del condominio dei giovani lavoratori immigrati. Lo saluto anche perché con la coda dell’occhio vedo che in portineria è arrivato Michele, il capoportinaio, una delle “biblioteche viventi” del residence, dove vive da più di venti anni.
Sta parlando con Saber, il muratore-tuttofare tunisino che si occupa delle riparazioni
condominiali. Mi avvicino quando sento Saber rivolgersi a Michele:
“Per quell’appartamento come devo fare? Io la parte del condominio l’ho sistemata ma per il resto ha detto che ci pensa lui. Hai sentito stanotte quei cinesi, che
5 Touba è una città del Senegal fondata nel 1887 dal profeta Ahmadu Bamba. Oggi,
grazie alle rimesse degli immigrati all’estero, è diventata la seconda città del Senegal
per grandezza e importanza economica.
6 Si tratta del cosiddetto tasbih, usato per pronunciare i novantanove nomi più belli
di Dio.
52
|capitolo 2|
casino che hanno fatto? Non so cosa prendevano a martellate, cavolo, ma come si
fa! All’una di notte! Questi fanno come gli pare. [Indicando me] Michele, fagli vedere
le foto di quello che cucinavano l’altra sera!”
Michele, rivolto a me: “Ciao Adriano… vieni a vedere… guarda.” Pochi secondi e
vedo apparire nel suo computer delle immagini di una delle tante terrazze del condominio letteralmente invasa da griglie dove sono in cottura degli “strani” pesci.
Saber subito commenta: “Facevano una puzza incredibile! Ma cosa mangiano?
Come si fa, portano un sacco di vassoi di roba, cucinano e friggono di tutto. Quelli che
stanno sopra aprono le finestre e rischiano di vomitare!”
Nel frattempo arriva un signore nigeriano e Saber se ne va; un’altra riparazione
lo attende. La gente continua ad entrare ed uscire ininterrottamente dal residence.
Riconosco Fatou, la fermo con un cenno del volto ed esco subito dalla portineria per
salutarla.
Io: “Ciao Fatou, come stai?”
Fatou: “Ciao Adriano, bene. E tu? Sto andando a telefonare. Poi passa a casa, anzi
stasera vieni a mangiare!”
Io: “Non so se riesco oggi, però sono qua tutta la settimana e vi vengo a salutare,
sicuramente. Ciao Fatou. Intanto salutami tutti gli altri”.
Fatou si congeda con il suo solito sorriso solare e se ne va.
Torno in portineria quando, nel frattempo, vedo spuntare il cappello di Antonio,
un ex-vacanziere, uno dei residenti storici. Faccio un cenno di congedo a Michele e
lo raggiungo. Antonio, come da copione tradizionale, dopo un breve saluto, alla domanda “Come va?” risponde come se avessi inteso chiedere come va l’Hotel House e
inizia a fare il suo riassunto delle puntate precedenti, sul “suo” Hotel House, in particolare su alcune riunioni che stanno organizzando per cercare di migliorare la vivibilità
del condominio […]
È passata quasi un’oretta da quando sono sceso giù e mi rendo conto che devo ancora comprare qualcosa per il pranzo se voglio placare la fame che nel frattempo si sta
facendo sentire. Saluto Antonio e per fortuna non devo fare che pochi passi per entrare
sotto il porticato dove, subito dopo il phone center di Diallo, mi ritrovo dentro il minimarket di Khalid, commerciante pakistano che nel giro di pochi anni, ha aperto una lavanderia a gettoni, un phone center e appunto un minimarket tutti affacciati nella piazzetta
centrale dove si trova l’ingresso del condominio. Entro e vedo subito il fratello di Khalid che
saluto con un cenno rispettoso, ricambiato. Scruto i primi scaffali e vedo code di gatto,
spezie orientali e africane, salse e cibi in polvere o in scatola provenienti da tutto il mondo, un freezer dove si trova solo carne halal, macellata con rito islamico. Non so ancora
cosa prendere, chiedo una baguette al banco del pane e ho finalmente un’illuminazione:
prenderò della pasta! Peccato solo che non potrò prendermi una birra perché Khalid non
vende prodotti haram. Vorrà dire che andrò al minimarket dall’altra parte del condominio dove c’è quel ragazzo bangladese più “flessibile” sui precetti alimentari islamici. Con
il mio bottino mi dirigo alla cassa dove trovo Khalid. Ci salutiamo, gli chiedo come sta la
moglie Natasha (italiana, convertita all’Islam) e il figlioletto e gli accenno delle riunioni di
cui aveva parlato Antonio […] Khalid è costretto a tornare al lavoro e io allora decido
di salutare e uscire dal supermarket.
Ho decisamente fame e decido di correre verso il mio appartamento, sperando di
non incontrare nessuno che conosco. Faccio in tempo a notare che il viavai dell’Hotel
House è cresciuto. Stavolta opto per le scale grigie e poco curate. Mentre salgo, ad ogni
53
piano dai vari corridoi arrivano odori di cucina che sembrano essere impregnati alle pareti: spezie e aromi gradevoli si mescolano a odori lievi, acri e a volte disgustosi. Ma ormai
il mio naso si è abituato a questo strano intreccio, così caratteristico del condominio […]
Presto arriva la sera e decido di scendere per prendermi un kebab nel nuovo negozio
marocchino. Passo di fianco alla lavanderia di Khalid, dove un ragazzo aspetta il proprio lavaggio e alla merceria dove Gladys, la signora nigeriana che la gestisce, è intenta
a giocare con il figlioletto. Ora la processione che sembra dominare il residence è quella
di alcuni giovani albanesi che si dirigono con volti scuri e decisi al bar di Youssef e Samir, di alcuni giovani italiani e tunisini che chiacchierano in gruppetti che se ne vanno
nei giardini al buio, al riparo da occhi indiscreti e poi ritornano, chissà per cosa fare…
Questo mentre la piazza è sempre più viva, tutti stanno tornando dal lavoro, i negozi
sono stracolmi, le panchine si stanno riempiendo, alcune signore nigeriane, decisamente
provocanti, lasciano il residence e si avviano all’ingresso. Non mi resta che cercarmi una
panchina libera per sedermi, godermi il fresco e il mio kebab. [diario di campo, 5 settembre 2005]
Questi estratti di un più lungo resoconto etnografico fanno emergere
come una delle caratteristiche principali dell’Hotel House, anche rispetto
ad altri contesti di concentrazione residenziale di minoranze (Vianello 2006,
Barberis e Cancellieri 2012), è data dalla ricchezza non tanto degli spazi comunitari quanto degli spazi pubblici di incontro, vale a dire all’ampia diffusione di territori che favoriscono la compresenza di soggetti con differenti
background culturali.
L’enorme condominio dove abitano duemila persone ha un unico ingresso e quindi tutti devono entrare dalla medesima porta e passare accanto alla medesima portineria. Il che significa che l’area antistante tale ingresso
è attraversata quotidianamente da un continuo andirivieni di persone. Questo territorio rettangolare, delimitato da ambo i lati da due parallelepipedi
che costituiscono la struttura abitativa e dagli altri due da cancelli e reti di
protezione, è la cosiddetta “piazzetta” dell’Hotel House, il luogo di incontro
per eccellenza degli abitanti del condominio. La piazzetta è una sorta di
proiezione al suolo dell’Hotel House, cioè dei suoi 480 appartamenti, dei
suoi 72 corridoi e soprattutto dei suoi quasi 2.000 abitanti. Come sottolineato da Lanzani e Vitali (2003: 64) essa
sta assumendo i connotati di uno spazio di nuova centralità essendo il vero
spazio dello scambio e dell’incontro della socializzazione: è il luogo dove
ci si incontra quotidianamente dopo il lavoro al bar o davanti al negozio di
alimentari […] è il luogo delle riunioni di condominio; è il luogo dei giochi
all’aperto dei bambini, che con i loro colori e le loro grida animano questo
spazio grigio e desolato.
Infatti nella piazzetta si affacciano gran parte dei negozi del piano terra.
Entrando all’Hotel House, sul lato destro della piazzetta, sotto un loggiato,
si trovavano durante gli ultimi mesi di osservazione partecipante, ben sei
attività commerciali (Img. 2.4): in ordine, partendo dal cancello di ingresso,
il bar di Danilo, un italiano di mezza età, tornato con la sua famiglia dall’emigrazione in Germania; un phone center gestito da dei ragazzi del Ban-
54
|capitolo 2|
gladesh; il minimarket di Khalid (che è quello più grande del condominio),
seguito da due phone center, il primo gestito da un signore pakistano, l’altro
da un giovane senegalese (l’unica attività commerciale del condominio gestita da un senegalese, tanto da rappresentare un punto di riferimento per
questa parte di popolazione del residence).
Arrivati in fondo al lato destro si esce dal loggiato e si arriva all’ingresso
del condominio. Alla sinistra, sul lato corto del condominio, troviamo una
lavanderia a gettoni gestita dalla famiglia di Khalid, con a fianco la merceria
della signora nigeriana Gladys e, lì accanto, due locali, per anni rimasti vuoti,
che sono stati recentemente lasciati in eredità al Comune di Porto Recanati
che li ha trasformati in spazi adibiti ad attività educative e formative di vario
genere (in particolare corsi di lingua italiana e attività di sostegno pomeridiano per bambini). Lo spazio aperto della piazza è, inoltre, contrassegnato
da nove panchine, sei sul lato lungo, a fianco del loggione antistante i negozi, distribuite quasi a intervalli regolari dall’entrata del residence fin quasi
all’entrata della piazzetta e, parallelamente a queste, tre sul lato sinistro poste a fianco del grande parcheggio di biciclette e motorini.
Ma gli spazi di incontro a piano terra del condominio non si limitano
alla piazzetta. Infatti i due parallelepipedi che costituiscono il grande abitato
formano altri tre piazzali sui quali si affacciano anche altre attività commerciali e altri spazi pubblici. Più precisamente, se una volta arrivati al phone
center gestito da Diallo, invece di andare in direzione dell’ingresso si prende
il sottopassaggio sulla destra, ci si ritrova in un secondo spiazzo sul quale si affacciano altri esercizi pubblici: una macelleria gestita da un signore
marocchino, un alimentari gestito da un ragazzo bangladese (l’unico che
vende alcolici) e, all’estremità del caseggiato, un phone center gestito da
una famiglia di pakistani.
Questi ultimi si trovano di fronte ad uno spazio che, a differenza del
primo, è fortemente caratterizzato dalla presenza di automobili (Img. 2.5).
Infatti in questa parte del condominio è stato creato tanti anni fa un parcheggio a pagamento riservato agli abitanti del residence, chiamato Garden House (Cap. 1 e Img. 2.4). Il nome è dato dal fatto che in questa parte
del piano terra si trova anche una lunga e stretta area verde, che una volta
era un giardino coltivato e adesso è diventata per metà un prato abbandonato e per l’altra metà un campetto da calcio per partitelle settimanali e
anche per periodici tornei, soprattutto durante il periodo estivo. Da questo
spiazzo si può prendere un altro breve sottopassaggio sulla sinistra e arrivare alla terza sezione del piano terra, dominata da un’ex-pista di pattinaggio
ora diventata principale luogo di giochi dei bambini e dei ragazzi (mai delle
bambine e delle ragazze – vedi Cap. 3).
Sotto l’ex pista di pattinaggio si trova il grande locale dove si trovava l’enorme caldaia che fino a venticinque anni fa riscaldava l’intero condominio:
un locale che, nonostante la precarietà e la scarsa manutenzione, considerata la mancanza di spazi al chiuso di tale dimensione, è stato utilizzato nel
tempo per tantissime attività sociali, da feste a cerimonie religiose, in particolare da parte dei musulmani come luogo di preghiera (per un lungo pe-
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2.4. Il piano terra dell’Hotel House. Sintesi grafica degli spazi di incontro
2.5. Il campetto da calcio del Garden House e l’ingresso al parcheggio
riodo prima dell’apertura della moschea e durante la ristrutturazione della
stessa in seguito ad un incendio fortuito), e da parte di una congregazione
evangelica di nigeriani, specie negli ultimi mesi. In questa parte del piano
terra c’è anche un barbiere di origine marocchina e, più in fondo, i tre locali
adibiti a moschea.
Attraverso un ulteriore sottopassaggio si raggiunge l’ultimo spiazzo, al
quale si può arrivare anche dall’ingresso principale, prendendo il piccolo
sottopassaggio tra la portineria e la merceria di Gladys. Qui si trova una seconda piccola area verde del condominio, molto più abbandonata e scarsamente utilizzata. È uno spazio dove si trovano alcuni giochi per bambini
e dove si affaccia, come vedremo meglio più avanti, uno dei luoghi più discussi del condominio, vale a dire il bar di Youssef e Samir. A fianco di questo
ci sono gli ultimi due esercizi pubblici: un kebab bar gestito da un giovane
marocchino e un alimentari di una famiglia di bangladesi.
Ancora una volta, è la conformazione del condominio e dei suoi spazi
materiali ad aver favorito la creazione di alcuni importanti spazi di incontro. Infatti, se è vero che il progetto originario prevedeva tutta una serie di
luoghi di servizio (Cap. 1) poi solo parzialmente realizzati e che, dunque, gli
spazi esterni ai due grandi parallelepipedi sono fortemente ridotti e limitati,
è altrettanto vero che l’intero primo piano del condominio era stato previsto
come spazio commerciale ed in effetti lo è sempre stato. Nei primi anni di
vita del condominio vi si trovavano una pizzeria, un ristorante, una macelleria, un bar, un barbiere, un alimentari, un fruttivendolo, una pescheria, una
lavanderia e un negozio di elettrodomestici. Con l’arrivo degli immigrati c’è
stata una sostituzione e, soprattutto, un rifiorire di piccole attività commerciali di vicinato.
Gli spazi commerciali e gli spazi di sosta al piano terra dell’Hotel House
sono fortemente concentrati in un piccolo territorio e questo fa sì che si siano creati luoghi densi, “spessi”, veri e propri “spazi di interconnessione” (Toubon e Messamah 1990). Questa sorta di enclave di piccolo commercio si è
creata qualche anno fa soprattutto grazie alla volontà di alcuni condòmini,
alcuni di origine immigrata, entrati nel consiglio di amministrazione. Ecco le
parole dell’amministratore dell’epoca:
I servizi se li sono fatti sotto, al piano terra. Tre anni fa i negozi erano tutti chiusi.
Quando noi siamo arrivati non c’era vita sociale, non c’era vita commerciale, c’era l’abbandono totale. Poi gli appartamenti costavano 15-30 milioni, 35-40 milioni. Adesso sono più che raddoppiati i valori degli appartamenti, anche i negozi
hanno riaperto tutti. All’inizio del fabbricato, 20 anni fa, 30 anni fa, c’erano i servizi, era un palazzo grande con prospettive, c’erano tutti i negozi aperti, nel bar
c’era una pizzeria di un italiano. Dopo sono andate via; da quel momento tante
attività di italiani sono morte, hanno chiuso. Infatti in tre negozi chiusi ci hanno
fatto la moschea; questa è stata aperta su tre negozi che erano completamente
sfitti, vuoti. Facendo riprendere la vita sociale, anche se di extracomunitari, che
organizzano la loro vita sociale propria. È nato il bar dei marocchini, dentro ci
sono tutte le arcate pitturate in stile marocchino, tutti fiori, tutti archi. Hanno
preso possesso di tutto, anche dei negozi, però sono tutti servizi per loro stessi,
secondo le loro richieste. Loro vengono da là e anche qua vogliono mangiare
lo stesso che trovano a casa. È normale che essendoci la domanda ci sta subito
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|capitolo 2|
anche l’offerta. Però sono cose che sono nate negli ultimi due anni. Amministratore del condominio dal 2003 al 2007, m, italiano, non residente
La presenza di piccoli esercizi commerciali al piano terra del condominio
è tanto ricca quanto mutevole. Nel momento in cui sono entrato per la prima volta all’Hotel House (ottobre 2004) erano aperti quattro phone center,
due bar, due macellerie, un supermercato, un parrucchiere, un minimarket,
una merceria, una lavanderia, un commercialista e un kebab, per un totale di ben quindici esercizi commerciali. Per quanto riguarda la ripartizione
nazionale va sottolineato il protagonismo dei marocchini che gestivano
ben quattro negozi (Tab. 2.2) pur rappresentando una parte così ridotta
della popolazione residente e, all’opposto, lo scarso protagonismo di alcuni
gruppi come senegalesi e tunisini che sono quelli da più tempo radicati nel
condominio.
Durante il mio periodo di ricerca ho assistito all’apertura della lavanderia
gestita da Khalid, della merceria di Gladys e di una pasticceria gestita da un
giovane marocchino, oltre che alla chiusura della merceria di un signore
senegalese. Inoltre ho visto cambiare di gestione un kebab bar prima condotto da due pakistani (ora da un ragazzo marocchino) e due phone center
prima gestiti da due bangladesi e da una signora senegalese sposata con
un italiano e ora passati a due differenti famiglie pakistane. La relativa alta
mortalità di questi spazi commerciali è data dal fatto che si tratta in gran
parte di piccole attività economiche.
Un altro aspetto peculiare del condominio è che si tratta nella totalità
dei casi di attività commerciali formali, a differenza di quanto è avvenuto in
altri contesti di concentrazione residenziale di minoranze come Via Anelli a
Padova (Vianello 2006) o Corviale a Roma (Gennari Santori e Pietromarchi,
a cura di, 2006). Come ricordato sopra, questo è stato facilitato dal fatto
che la progettualità dell’architetto aveva previsto proprio questa necessità,
cioè l’integrazione tra le abitazioni e i servizi commerciali e condominiali
al piano terra. E questa parte del progetto, a differenza del Corviale, si è
concretizzata.
Quindi, da un lato, la volontà “creatrice” che sta dietro un’opera come
l’Hotel House, con la sua pretesa onnisciente di “fine della storia”, ha creato
dei vincoli – si pensi per esempio all’idea dell’autosufficienza del condominio (Cap. 1); dall’altro, essa ha permesso di creare le condizioni spaziali e
materiali che hanno fatto dell’Hotel House un luogo anche ricco.
“Qui io mi trovo in mezzo alla gente”. I luoghi terzi
Gli spazi commerciali dell’Hotel House sono molto diversi tra loro. Il bar di
Danilo, per esempio, ha una clientela che affolla la parte antistante l’entrata
(si tratta in gran parte di maghrebini) e che rappresenta una sorta di sentinella degli ingressi e delle uscite da e verso il condominio. Si tratta di un
gruppo piuttosto omogeneo, un assembramento che, attraverso sguardi
diffidenti, può incutere anche un po’ di timore, ma che in realtà non rappresenta un “muro”, un confine sociale, se non in parte per quanto riguarda la
59
Tab. 2.2. Attività economiche al piano terra dell’Hotel House
2005
2009
Provenienza N.
Attività economica
N. Attività economica
Pakistan
3
Un supermercato
Un alimentari
Un kebab
5
Due phone center
Un supermercato
Un alimentari
Una lavanderia
3
Una macelleria
Un bar
Un parrucchiere
5
Una macelleria
Un bar
Un barbiere
Una pasticceria
Un kebab
Bangladesh 4
Due phone center
Una macelleria
Un alimentari
3
Nigeria
0
-
2
Senegal
3
Italia
2
Marocco
Totale
15
Due phone center
Una merceria
Un bar
Un commercialista
Un phone center
Una macelleria
Un alimentari
Una parrucchiera
Una merceria
1
Un phone center
1
Un bar
Quattro phone center
Quattro phone centers
Tre alimentari/supermarket
Tre alimentari/supermarket
Tre bar/kebab
Tre bar/kebab
Due macellerie
Due macellerie
17
Due parrucchieri/barbieri
Un parrucchiere
Una lavanderia
Una merceria
Una pasticceria
Un commercialista
Una merceria
*Fonte: dati portineria dell’Hotel House (04.01.2005 e 25.06.2009)
componente femminile, che nel bar appare decisamente ridotta (le uniche
donne che frequentano il bar sono rumene, italiane o più raramente nigeriane ma solo di passaggio). La clientela del bar è costituita da una larghissima prevalenza di uomini, per lo più “bianchi” – cosa che, per le caratteristiche del residence, è decisamente peculiare. Infatti il bar è pochissimo
frequentato da senegalesi e quasi per nulla da nigeriani: la clientela fissa
è rappresentata soprattutto da gruppi di maghrebini (specie tunisini), ma
anche da persone dell’Est Europa e da qualche italiano (sia coloro che lavorano nel residence, come i portieri, sia alcuni residenti storici).
Il bar di Danilo è gestito da una famiglia di campani che sono stati per
una ventina d’anni emigranti in Germania. È il bar più vecchio del residence
e per alcuni è l’unico socialmente “accessibile” (in quanto l’altro bar, quello
di Youssef e Samir, è fortemente stigmatizzato – vedi Cap. 4). È un luogo che
vive soprattutto di routine, che ha i suoi momenti di “euforia” nelle discussioni di calcio nel corso delle quali i diversi raggruppamenti di tifosi, come nei
migliori bar dello sport, si sbeffeggiano senza pietà:
60
|capitolo 2|
Entro nel bar di Danilo e mi prendo il solito caffè. Sto quasi per andarmene quando vedo arrivare Luciano il portinaio. Un po’ di convenevoli, faccio due chiacchiere e
arriva un signore senegalese che conosco molto bene, Aliou, in gran forma. Prende
subito in giro Luciano: “Ciao terrone”. Poi arriva Salem, un tunisino e so già come andrà a finire. Danilo, milanista come pochi altri, inizia come sempre ad “attaccarlo”,
prendendolo in giro: “Non ti sei fatto vivo questi giorni?” Salem, risponde prontamente: “Sono i giorni del Ramadan, non è facile per noi”. Danilo, che conosce bene Salem,
non ha dubbi: “Altro che Ramadan! Quando perde la Juventus, tu non ti fai mai vedere!”. [diario di campo, 2 novembre 2005]
Il phone center di Mukthar e Rahman è invece frequentato soprattutto
da giovani (e non solo) pakistani e bangladesi (Img. 2.6). è proprio qui che
ho potuto constatare come il confine nazionale non debba essere considerato in modo assoluto. Infatti il phone center è anche un’occasione di incontri
interetnici, seppur prevalentemente superficiali (in particolare con alcuni ragazzi senegalesi), com’è testimoniato proprio da Rahman:
Scusami ma stavo parlando al telefono con un ragazzo del Senegal, un mio
cliente. Gliel’avevo detto che se non mi chiamava dal Senegal non l’avrei più
fatto entrare nel negozio! [risata] Rahman, m, 1991, pakistano, esercente e
residente
In un’altra occasione è stato divertente assistere alle discussioni tra
Rahman e Mahfuz, un ragazzo bangladese. Rahman insisteva a parlare in
urdu, una delle lingue del Pakistan e ironizzava dicendo che Mahfuz diceva
di non capire ma Rahman invece capiva benissimo quando lui parlava il
bangla, la lingua del Bangladesh, perché in realtà secondo lui è molto simile
all’urdu. Mahfuz, in seria difficoltà, non riusciva a comprendere quasi nulla
e, quasi implorava Rahman di parlare in italiano. Questo è solo un piccolo
esempio degli intrecci linguistici che caratterizzano il condominio in generale e il phone center in particolare: Mahfuz parla un po’ italiano e il bangla,
Mukthar e Rahman parlano in urdu e quando arriva il padre in pashtun, una
lingua simile all’afghano che si parla nella regione del Pakistan ai confini
dell’Afghanistan, io che mi esprimo in inglese e italiano e la tv in sottofondo
in cui imperversano canzoni indiane.
La lingua appare, perciò, uno dei tanti prismi per analizzare l’intreccio di
identità e di pratiche che si svolgono quotidianamente all’interno dell’Hotel
House. Infatti, da un lato coabitano molteplici lingue nazionali come il wolof,
l’urdu e il bangla, dall’altro si sperimentano quotidianamente dei linguaggi
trasversali come l’inglese, il francese, l’arabo e soprattutto l’italiano. Anzi la
cosa “curiosa” è che la multietnicità del luogo costringe a parlare l’italiano
per comprendersi (anche se non serve un ottimo italiano) in quanto unico
vero canale che permette il dialogo con quasi tutti i condòmini.
Un terzo spazio commerciale importante è il supermercato di Khalid,
l’unico market di una certa dimensione presente nella struttura. Proprio per
questo (e per il fatto di avere un orario di apertura pressoché ininterrotto
fino alle dieci di sera) è un luogo dove quasi tutti i condòmini si indirizzano per i principali acquisti quotidiani. Esso è inoltre un’incredibile vetrina di
61
2.6. Due piccole amiche nel bar di Mukthar e Rahman
2.7. Vacanzieri e abitanti chiacchierano davanti alla portineria
prodotti “etnici”: gli scaffali sono disseminati di un’infinità di prodotti provenienti dai più svariati paesi d’origine dei residenti del condominio. Tra i tanti
prodotti del supermercato mancano però gli alcolici e i derivati del maiale,
in quanto considerati haram cioè proibiti dall’Islam e dai proprietari dell’esercizio, Khalid un giovane pakistano e sua moglie Natasha, marchigiana da
poco convertita all’Islam, sempre avvolta in una veste lunga e ampia e con i
capelli raccolti sotto il chador.
Rispetto al bar di Danilo il supermercato ha un passaggio di persone
molto più fugace e si presenta come uno spazio di incontri molto più anonimi. Ciononostante esso resta uno dei punti di maggior contatto tra i diversi
gruppi nazionali proprio perché appare come una sorta di zona franca, di
passaggio “obbligato”, in cui (forse proprio per la relativa “disattenzione civile” che lo caratterizza) tutti possono passare senza per questo sentirsi in uno
spazio ostile o demarcato da un gruppo in particolare. Non a caso esso è
spesso teatro di quelle che, riprendendo Radcliffe-Brown (1940), potremmo
chiamare “relazioni scherzose”. Sono, infatti, frequenti reciproche battute e
prese in giro:
Sono al supermercato di Khalid a “contemplare” gli scaffali quando d’improvviso
lo sento che sorride e si “lamenta” ironicamente con un ragazzo senegalese vestito
con la tunica lunga e colorata: “Non ci si veste mica così, con la tunica e i sandali,
siamo in Italia!’”, entrambi sorridono e si girano per guardarmi e condividere. [diario di campo, 13 luglio 2006]
Con l’espressione “relazioni scherzose” Radcliffe-Brown intendeva un
tipo di interazioni molto frequenti che permettono di mettere in scena la diversità delle reciproche appartenenze (Gallini 2003), seppure come oggetto
di derisione (Sarnelli 2003). Occorre subito distinguere, come già aveva fatto
l’antropologo inglese, un rapporto scherzoso simmetrico da uno asimmetrico, caratterizzato dal privilegio unilaterale di scherzo di una parte sull’altra.
Inoltre va aggiunto che “nello scherzo la distanza etnoculturale rappresenta
solo un aspetto di una dinamica comprensiva di altri elementi d’identificazione quali il sesso, l’età, la reputazione, la conformazione fisica” (Sarnelli
2003: 43). In ogni caso, all’Hotel House la situazione scherzosa costituisce
un elemento ricorrente nei rapporti reciproci tra gruppi etnici differenti. La
particolarità del residence, che non vede nessun gruppo in una posizione
di assoluto dominio, né numerico, né territoriale, sembra favorire relazioni
scherzose relativamente simmetriche.
La piazzetta, il bar di Danilo, il phone center di Mukthar e Rahman, il supermercato di Khalid sono luoghi molto diversi tra loro ma sono tutti allo
stesso tempo spazi di evasione, centri di informazione e spazi di discussione. Non a caso sono stati proprio questi luoghi i principali setting, gli hot spot
del mio lavoro di ricerca etnografica, i luoghi ai quali ero “rimandato” ogni
volta che chiedevo un incontro:
“Vai di sotto e chiedi al bar! / Dovrebbe essere di sotto ai telefoni! / Ci vediamo
nel negozio! / Dove vuoi che sia? Sarà sicuramente a prendere un caffè. / Se vieni nel
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|capitolo 2|
mio supermercato ci possiamo fare due chiacchiere e così magari ti faccio conoscere
qualcuno. / Ci vediamo qua nella piazzetta, tanto io devo passarci per forza. / Quando vuoi chiedermi qualcosa mi trovi sempre sulle panchine qua davanti.” [frammenti dal diario di campo]
Tali luoghi, così prossimi alle abitazioni, protesi sulla strada e aperti tutti
i giorni dalla mattina sino alla sera tardi, sono anche i luoghi del confronto
quotidiano con la differenza, delle esplorazioni, degli sconfinamenti; territori che consentono cioè quel contatto significativo e ripetuto che secondo
alcuni autori (Amin 2002; Amin e Thrift 2005) è fondamentale per innescare
interazioni interculturali e negoziazioni quotidiane. (Img. 2.7)
Tutti questi territori, pur essendo in gran parte privati, posseggono molte delle caratteristiche degli spazi pubblici (Brighenti 2010; Saint-Blancat e
Cancellieri 2013). In primis un’elevata accessibilità: infatti si tratta di territori
facilmente raggiungibili dalle abitazioni e con un orario di apertura decisamente ampio. Se è vero che la possibilità di entrare e uscire è comunque collegata, per quanto riguarda gli esercizi commerciali, alla capacità
di consumare, è altrettanto vero che soprattutto le aree antistanti gli spazi
commerciali sono occupate dagli abitanti dell’Hotel House come luoghi di
incontro e non di mero scambio commerciale. In secondo luogo sono spazi
di visibilità: cioè sono territori in cui poter vedere e essere visti da un numero
elevato di persone. Territori del contatto visivo e, dunque, di controllo e di riconoscimento. Da ultimo sono spazi di appropriazione territoriale temporanea, cioè territori in cui esercitare molteplici diritti spaziali (Lynch 1981) che
vanno dallo spostamento di attività quotidiane tipiche degli spazi privati,
come il mangiare e il sedersi, a forme di appropriazione “situazionale” com’è
rappresentato per esempio dal giocare dei bambini e dal commercio più o
meno formale di merci.
Questi luoghi informali di incontri casuali, questi “luoghi terzi” – come
li ha definiti Oldenburg (1989) per distinguerli dai luoghi di lavoro e dalla
casa – sono i veri e propri spazi liminali di multiculturalismo quotidiano in
cui gli abitanti si incontrano faccia a faccia, in cui si avvicinano, si sfidano,
si parlano, confiliggono e si trovano d’accordo (Cancellieri 2010a). Luoghi
di socievolezza in senso simmeliano in cui si costruiscono eroi e tragedie
locali (Oldenburg 1989), essi producono attaccamento al quartiere e danno
un senso di continuità. Sono territori multidimensionali il cui ruolo è stato
sottolineato anche in altri contesti (Small 2004; Koutrolikou 2012).
La tendenza di una parte rilevante degli abitanti dell’Hotel House a usare gli spazi pubblici del condominio come luogo di relazioni significative è
un modo di riproporre forme d’uso di tradizionali spazi collettivi locali che la
popolazione italiana ha in gran parte abbandonato (Lanzani 2003). Questa
modalità di vivere gli spazi pubblici deriva in parte dal fatto che molti abitanti dell’Hotel House provengono da Paesi dove vi è una consuetudine a
una vita più esposta all’aperto. La predominanza assegnata al valore d’uso
di un territorio è inoltre tipica di soggetti in condizioni socio-economiche
svantaggiate (Harvey 1989). Va ricordato, comunque, che questi modelli di
relazioni con gli spazi, così come anche i modelli “comunitari” analizzati pre-
65
cedentemente, non sono solo dovuti a differenze culturali ma sono anche
il frutto dei limiti imposti a chiunque cambi luogo di residenza e si trovi
nella necessità di ristrutturare la propria rete sociale; essi sono cioè collegati
alla migrazione come fatto “strutturale” o “interazionale”, più che culturale.
Cambiare città costringe chiunque (di qualunque cultura) a riorganizzare la
propria rete sociale (Eve 2001).
Quest’uso dello spazio, caratterizzato dall’interconnessione fra attività
abitative, commerciali e sociali, è particolarmente apprezzato anche da alcuni degli italiani che vivono nel condominio. Esso infatti si contrappone
all’aumento di spazi privatizzati, vuoi quelli votati al consumo muto, come
per esempio i grandi centri commerciali, vuoi a quelli abitativi, come le villette in periferia che, per salvaguardare la privacy, finiscono per eliminare
ogni possibile spazio d’incontro e di riconoscimento (Jacobs 2009; Sennett
1999). Come ricordato da Donzelot (2006), il sogno di un alloggio individuale, magari in più stretto rapporto con la natura, ha spesso portato a
costruire luoghi dove gli spazi comuni diventano il prolungamento degli
spazi privati: sempre più luoghi di nessuno piuttosto che luoghi di tutti. A
questo proposito, significative sono le testimonianze di due italiani residenti
all’Hotel House:
A dire il vero io all’Hotel House mi trovo bene. Bene. Appunto su quella base lì:
rispetta e sei rispettato. Poi da tutte le parti, tutto il mondo è paese. È tutto lì.
Qui c’è compagnia, non sono uno che va fuori a far amicizie però se scendo, mi
saluta uno, l’altro mi chiede, l’altro anche. Ti fanno sentire in mezzo alla gente,
anziché essere il solito isolato. Prima stavo nel Nord Italia, a Verbania. Bei posti,
piove sempre. Fa molto freddo d’inverno, l’amicizia… siccome non sono un tipo
che va a giocare a bocce, a giocare a carte, sono un tipo che sta in casa. Così qui
io mi trovo in mezzo alla gente. Pur standomene in casa mia. Quando esco c’è
Tizio, Caio e Sempronio in più avendo quello che ho [è presidente del Garden
House, nota mia], per un motivo o per un altro, sei in mezzo, chiacchieri, fai.
Giuseppe, m, 1941, italiano, residente
Qui la gente è vera, gli uomini sono uomini e le donne sono donne. Basta guardare i bambini, anche il peggiore dell’Hotel House è meglio di tutti quelli fuori che
crescono viziati, nella bambagia. Qui poi ci si aiuta veramente! Qualche giorno
fa uno del Bangladesh era rimasto a piedi perché aveva messo la nafta al posto della benzina; prima l’hanno preso in giro poi però dei senegalesi lo hanno
aiutato e insieme a lui lo hanno fatto ripartire. Una volta sono rimasto io con la
batteria scarica a Loreto, ho suonato ad una casa per poter telefonare; non mi
hanno neanche fatto fare una telefonata. Sono tutti chiusi e diffidenti. Io qua ci
sto talmente bene che faccio ormai difficoltà a stare con quelli di fuori! Achille,
m, 1969, italiano, residente
Analogamente si esprime anche il tuttofare Saber:
Qui per certe cose veramente è meglio. Qui anche se lasci una donna a casa la
sera o hai un figlio che sta male, scendi in portineria chiami l’ambulanza. Se tu
vai a Porto Recanati, non ti conosce nessuno mica ti aiutano! Anche se tu vivi in
periferia diciamo, vado in campagna come fai a lasciare una famiglia da sola se
non hanno anche una seconda macchina, se non hanno il telefono. Invece qui
dove vai vai; anche se qualcuno non ti conosce basta che vai a bussare a casa,
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|capitolo 2|
dici che hai un malato a casa. Qui ci si aiuta; sì, sì, c’è gente che è rimasta male
quando è venuta qui e ha visto quella gente come corre anche se… anche se
non sono la stessa razza. Però si aiutano; quella pure è una cosa positiva. Saber,
m, 1963, tunisino, residente
L’Hotel House, pur in tutta la sua complessità e le sue mille problematiche (vedi Cap. 4 e 5), di fronte a cittadine sempre più museificate o gentrificate sembra mostrare la possibilità di relazioni sociali differenti. Si potrebbe
dire che, come avviene anche in altri contesti di concentrazione residenziale di minoranze (Paone 2005), la città espulsa dal centro, finisce per pulsare
in periferia. Coloro che tradizionalmente hanno studiato i luoghi in cui sono
concentrate le minoranze hanno deplorato l’assenza di identità collettiva e
la “disorganizzazione sociale” (Zorbaugh 1929) che sarebbero il frutto dell’eterogeneità etnica, dell’instabilità residenziale e dell’elevata povertà. Molti
lavori etnografici classici (Whyte 1943; Gans 1962; Suttles 1968) e alcuni importanti studi recenti (Small 2004; Sanchez-Jankowski 2008) hanno messo
in luce, invece, come tali aree non siano disorganizzate, quanto piuttosto
caratterizzate da forme significative e alternative di organizzazione.
D’altra parte, il fatto che un quartiere per essere vitale debba essere capace di generare diversità, favorire incroci e scambi, circolazione e continuità era già stato compreso da Jane Jacobs cinquant’anni fa, nel 1961. L’autrice
americana aveva anche sottolineato la grande importanza della necessità di
controlli spontanei, di norme accettate e condivise dagli abitanti, oltre che
di un forte senso di appartenenza: non per invocare un ritorno ad un paradiso perduto pre-industriale ma al contrario per un compimento dell’urbano
di tipo inclusivo. L’idea di fondo è, cioè, quella che per salvare la città non si
possa abolirla ma si debba rafforzarla. In tutto questo un ruolo importante
può essere giocato dai terzi luoghi: infatti, dove questi ci sono, anche gli
stranieri possono sentirsi a casa, mentre dove questi non ci sono anche i
nativi tendono a sentirsi stranieri (Whyte 1980,1988; Lofland 1998).
Occorre però evitare di cadere in determinismi (o feticismi) di tipo spaziale e in rappresentazioni degli spazi pubblici come luoghi di automatico incontro (interculturale). Da un lato perché, come evidenziato da Amin
(2002), l’esito di questi spazi di compresenza non è per niente scontato:
molti tipi di incontro non producono contatti significativi, né producono
solo contatti positivi. Processi di ibridizzazione e mixité non discendono dalla semplice compresenza, come vorrebbero gli approcci comportamentisti
che si rifanno alla cosiddetta teoria del contatto (Allport 1954). Questa visione romanticizza l’incontro urbano. Il confine sociale rigido nei confronti di
un gruppo sociale subordinato può essere mantenuto nonostante incontri
positivi con soggetti di quel gruppo sociale (Valentine 2008). In secondo
luogo, come sopra evidenziato, questi spazi sono usati anche per rafforzare
alcuni confini e gerarchie sociali. Mi riferisco, in particolare, al fatto che questi luoghi sono spesso delle vere e proprie “case degli uomini”, in quanto è
fortemente limitata la componente femminile, soprattutto quella di alcuni
gruppi nazionali. Da ultimo, gli spazi pubblici in generale, e quelli dell’Hotel House in particolare sono, come vedremo, luoghi di incontro ma anche
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punti di contatto e di possibile scontro. Non a caso i conflitti all’interno del
condominio avvengono soprattutto nei pressi degli esercizi commerciali,
soprattutto negli orari notturni quando, nei negozi rimasti aperti, arrivano
persone che hanno fatto abuso di alcol o di sostanze stupefacenti, anche
se vere e proprie aggressioni sono decisamente poco frequenti (cfr. cap. 4).
Resta il fatto che la ricchezza di questi terzi luoghi rende il condominio
una sorta di “palestra di convivenza” in cui imparare a (soprav-)vivere con l’alterità, un luogo dove imparare a gestire i confini e i conflitti che scaturiscono dalla coabitazione tra persone che hanno usi e costumi diversi. Un luogo
con potenzialità ambivalenti e in continua mutazione. Questo equilibrio
instabile ma significativo, è stato facilitato dal fatto che all’Hotel House non
esiste un gruppo dominante o meglio i diversi gruppi hanno ciascuno un
peso rilevante in determinati ambiti e aspetti della vita sociale del condominio: questo comporta il fatto che “lasciare” agli altri la possibilità di ritagliarsi
i propri spazi è l’unica condizione per poter fare altrettanto. Per dirla con
Toubon e Messamah (1990) la tolleranza è una virtù “interessata” e il rispetto
dell’altro è un mezzo attivo per preservare la propria sfera personale. Il condominio fonda la propria (attuale) identità, infatti, proprio sulla diversità dei
gruppi che lo abitano, sul fatto che, per riprendere la terminologia di Elias e
Scotson (1965), il passaggio da outsider a insider qui è accelerato.
Tali processi sono in continuo divenire. Nel condominio si affiancano,
s’intrecciano e a volte si combattono modi estremamente differenti di vivere e narrare gli spazi relazionali e di vita che lo compongono. All’interno di
questa pluralità degli usi e dei sensi dello spazio dell’Hotel House emergono
in particolare tre categorie, tre minoranze, la cui condizione appare decisiva
per l’affermarsi di uno o dell’altro scenario nel futuro dell’Hotel House. Si
tratta delle donne, degli italiani e dei bambini. Su questi tre differenti modi
di usare e rappresentare l’Hotel House, si soffermerà il prossimo capitolo.
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|capitolo 3|
Capitolo 3
Differenti Hotel House.
Usi e sensi del luogo delle minoranze
nella minoranza
L’esperienza di vita quotidiana all’Hotel House varia profondamente al mutare dei soggetti presi in considerazione e, in particolare, al mutare delle
risorse e dei vincoli connessi ad una specifica differenza. Nel precedente
capitolo ampio spazio è stato dato all’Hotel House della maggioranza della
popolazione che abita il condominio, occultando volutamente alcuni fondamentali fattori di differenziazione come per esempio il genere e l’età, che
giocano un ruolo significativo nella produzione di differenti usi e sensi del
luogo e, in ultimo, nella costruzione di “differenti Hotel House”. In questo capitolo ci focalizziamo su alcune di queste minoranze interne, in particolare
le donne, i bambini/ragazzi e gli italiani, per far emergere e analizzare la pluralità dei differenti sguardi sull’Hotel House che coabitano quotidianamente e i quotidiani processi di costruzione di confini sociali, o boundary-work
(Lamont e Molnár 2002).
Si tratta di minoranze interne molto diverse tra loro: in particolare le
donne e i bambini rappresentano la componente più fragile in contesti di
concentrazione residenziali, mentre gli italiani sono la minoranza privilegiata in quanto l’unica a godere appieno dei diritti di cittadinanza. Donne e
bambini, inoltre, sono minoranze in crescita che fanno fatica a farsi a spazio,
mentre gli italiani stanno progressivamente perdendo rilevanza numerica.
Come appare evidente, questi fattori di differenziazione si sovrappongono
e si intrecciano. L’obiettivo di questo capitolo non è certo quello di analizzarli in modo comparato; piuttosto, lo scopo è quello analizzare come gli
attori sociali si trovano in differenti posizioni: al cambiare della “differenza”
attraverso la quale si analizza un luogo – per esempio cambiando genere o
età – si scoprono differenti risorse e differenti vincoli.
Poiché l’Hotel House è un luogo tanto plurale, per comprenderlo adeguatamente è necessario adottare una prospettiva intersezionale, attenta
all’intreccio e a volte alla sovrapposizione di molteplici fattori di differenziazione. L’idea di fondo è che il condominio sia un microcosmo dove si creano dei micro-territori specifici e significativi che non sono fissi e stabili, ma
mutano di significato da un’ora a un’altra, di settimana in settimana, da un
certo periodo a uno successivo. In ogni momento i soggetti occupano più
di un sistema di differenze e perciò possono “fissare” o essere “fissati” sullo
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spazio, mobilitando differenti aspetti di questa matrice (Jones e Moss 1995;
Fincher e Jacobs 1998).
Essere donna
La componente femminile dell’Hotel House è in graduale crescita ma resta ancora largamente minoritaria e inferiore al 30% (Tab. 3.1). Un dato significativamente basso se si considera che in Italia allo stesso periodo (fine
2009), le donne incidevano addirittura per il 51,3% sul totale della popolazione immigrata. Questa netta prevalenza maschile tra gli immigrati che
risiedono all’Hotel House è dovuta soprattutto alla particolare incidenza di
gruppi nazionali, che danno vita “tradizionalmente” ad un’immigrazione a
maggioranza maschile come i senegalesi, i pakistani e i bangladesi.
Nonostante la tendenziale crescita, si nota che il numero di donne è
davvero ridotto, soprattutto negli spazi liminali (Cap. 2). Anche i bambini
che giocano nella piazza o nell’ex-pista di pattinaggio sono quasi sempre
maschi; le poche bambine giocano spesso per conto proprio. Anche nel
Tab. 3.1. Percentuale di donne sul totale, per gruppo nazionale (2005-2009)
Donne residenti
Senegal
Bangladesh
Pakistan
Tunisia
Nigeria
Italia
Totale
2005
10,2
22,6
9,3
38,3
53,2
37,9
26,9
2009
18,1
28,3
15,6
36,0
49,0
37,3
28,3
Fonte: dati portineria dell’Hotel House (04.01.2005 e 06.07.2009)
corso della mia ricerca gran parte dei contatti più significativi che sono riuscito ad instaurare sono stati con uomini ed è proprio attraverso questi
sguardi e attraverso le evidenze etnografiche che ho cercato di analizzare
come la maggioranza maschile vivesse questa evidente separazione sociospaziale.
La maggior parte delle donne vive le proprie giornate segregata in casa,
ad occuparsi delle faccende domestiche e dei figli. Molte di loro non escono
mai da sole, non “hanno spazio” e sono sempre accompagnate dal marito o da una o più compagne generalmente della stessa nazionalità. Inoltre
le uscite sono sempre finalizzate a motivi puramente pratici quali le spese
per la casa o per i figli; sembra non esservi la concezione dell’uscita come
momento di socialità (Img 3.1). Questo atteggiamento cambia a seconda
dei gruppi nazionali. Pur senza voler essenzializzare tale appartenenza, dalle
evidenze empiriche appare chiaro come siano soprattutto le tunisine, bangladesi e pakistane sposate e con la famiglia al seguito ad essere le meno
visibili e avvicinabili. Diverso è il caso delle senegalesi e delle nigeriane, molte delle quali sono nubili o separate, oltre che delle signore italiane, spesso
70
3.1. Una minoranza nella minoranza: essere donna
anziane, che passeggiano molto più spesso e molto più tranquillamente da
sole tra un negozio e l’altro. Nel complesso, però, gran parte delle donne
cerca di scivolare via dai luoghi in cui maggiormente si sosta, rendendoli
delle vere e proprie “case degli uomini”.
Siamo di fronte alla “tradizionale” doppia partizione spaziale tra spazi privati/femminili e spazi pubblici-lavorativi/maschili: agli uomini il lavoro produttivo e gli spazi pubblici della promiscuità; alle donne la gestione della
vita familiare e domestica. Si ha una sorta di collegamento ideologico dei
differenti corpi ai loro “luoghi appropriati” (Strüver 2004).
Se alcuni appartamenti di senegalesi descritti nel capitolo precedente
sono degli spazi semi-pubblici, sempre aperti, in molti altri casi gli spazi domestici all’opposto sono una sorta di “gabbia” più o meno dorata, protetta
dall’esterno: luoghi da cui è difficile uscire e in cui non è facile entrare (Rose
1993; Massey 1994). Questi sono per esempio i racconti di due residenti che
lavorano nel condominio:
A casa di uno del Bangladesh, se devo entrare per una perdita o per un altro lavoro, se c’è solo una donna non mi apre! Neanche se ci vado con il carro armato, ci
dev’essere il marito per forza. O la autorizza il marito dicendo: “Ad una certa ora
deve venire quello allora apri la porta!”. Anche in quel caso lei apre, scappa subito
in camera e si chiude! Saber, m, 1963, tunisino, residente
La maggior parte di quelle del Bangladesh le vedi raramente, non le vedi quasi
mai, anzi non sai neanche se esistono. Anche del Pakistan alcune persone le vedi
oggi poi le rivedi tra un mese. Alcune le vedi solo per portare il bambino giù. Michele, m, 1963, italiano, portiere e residente
A partire dal seminale lavoro di Bourdieu (1970) sulla casa berbera, molti
autori hanno analizzato in profondità le componenti spaziali delle relazioni di genere (Massey 1994; McDowell 1999; Domoshe e Seager 2001; Low
e Lawrence-Zuniga 2003) e, in particolare, come gli spazi maschili siano
quotidianamente costruiti attraverso un momento opposizionale. Gli spazi
maschili e gli spazi femminili non sono tanto due domini distinti quanto
piuttosto due domini orientati l’uno rispetto all’altro. Alcuni processi di produzione spaziale sembrano dunque fondarsi su questa logica.
All’Hotel House anche solo attraversare lo spazio pubblico per le donne
può significare dover convivere con pesanti sguardi puntati su di sé. Sguardi
che possono essere più o meno tollerati, ma che strutturano un diverso uso
e senso del luogo, come evidenziato da due testimonianze di un’abitante
del condominio e di una giovane e brava tesista dell’Università di Macerata,
impegnata in una piccola ricerca nel corso del 2006:
Essendo una ragazza mi possono fischiare questi che stanno tutti al bar e buonanotte. Ormai nemmeno ci faccio caso io. Io pensavo fosse più difficile. Se una
passa ti dicono: ‘Oh, ah bella!’ Capito, è il modo come te lo dicono, cioè non sono
mai stata insultata. Ramona, f, 1975, rumena, residente
Le situazioni di maggiore imbarazzo sono state sempre legate agli sguardi puntati su di me in quelle occasioni in cui mi è capitato di aspettare qualcuno o di
72
|capitolo 3|
recarmi da sola a fare un’intervista. Le prime volte mi innervosivano fino a rendermi inquieta. A distanza di tempo e dopo le prime visite devo ammettere che
ho imparato ad apparire indifferente ai sorrisi insistenti o ai musi duri che, anche
se privi di ostilità, mi fanno sentire decisamente fuori luogo. Silvia Settembri,
tesista Università di Macerata
In un contesto a forte eterogeneità nazionale come l’Hotel House, è
ovvio che le relazioni di genere finiscano al centro dei principali processi
di essenzializzazione tra i differenti gruppi nazionali. Un esempio di queste
rappresentazioni è messo in evidenza in modo quantomai significativo dalle parole di un signore tunisino che, seppur tra stereotipi, evidenzia, tra le
altre cose, differenti e conflittuali modi di essere allo stesso tempo donna e
musulmana:
Come ti ho detto io ci vado a lavorare da alcuni del Bangladesh. La donna del
Bangladesh si chiude in camera, non puoi neanche chiedere: “Signora com’è
questo? Cosa devo fare? Questo è stato fatto? è finito o c’è da fare questo?” Niente! Questa è ignoranza perché l’Islam non è così. L’Islam basta che tu non esci
mezza nuda; quello che fa l’italiana fa la tunisina, la marocchina. Leggermente
diverso perché ci sono delle donne che se non le autorizza il marito non aprono.
Ma quelle del Bangladesh scappano proprio! La nigeriana lasciamola perdere
[risata] perché non se ne frega di niente. A volte esce anche nuda! L’altro giorno
c’era una perdita nella parete del corridoio, l’acqua proveniva dal nono piano, ho
bussato, è uscita una con i capelli ritti e una voce roca: “Che c’è?” “C’è una perdita
d’acqua” “Acqua qui non c’è!”. Mi ha lasciato la porta aperta, è entrata in camera,
si è chiusa dentro ed è tornata a dormire. Era mezza nuda, quasi nuda, non le
fregava niente! Ha lasciato la porta aperta: “Tu fai come ti pare!” [...] Una volta i nostri nonni facevano come quelli del Bangladesh: “Attenzione una donna
non deve aprire a un uomo! Scappa!”. Però il Corano bisogna saperlo, bisogna
leggerlo, bisogna sapere quello che c’è dentro. Dice di non coprire la faccia, la
faccia dev’essere presentabile per qualsiasi persona che sta dietro la porta. […] I
senegalesi sono diversi, le donne senegalesi sono tutta un’altra cosa. Per esempio
d’estate le donne hanno un mezzo straccio tutto aperto di fianco, il reggiseno
che balla di qua, quello per una musulmana non va bene! Non ci si deve vestire
così. Le donne senegalesi non pregano, solo gli uomini. Questa è pure una cosa
da ignoranti. Saber, m, 1963, tunisino, residente
Saber continua rimarcando le differenze per quanto riguarda l’uso di alcuni spazi pubblici:
Le donne che vanno in moschea per la maggior parte sono della Tunisia. Egiziane. Quelle del Bangladesh no. La donna del Bangladesh, quando vuoi entrare a
casa scappa, invece con il marito si mette a sedere anche al bar e fa colazione.
No, la tunisina non entra al bar, la marocchina non... certe marocchine, quelle poche, lasciamole perdere. Ma la donna. Al bar dove c’è l’alcol non entra, la
donna normale nordafricana dentro i bar dove c’è l’alcol non entra. Per esempio
in Tunisia li chiamiamo “i caffè”, non i bar, dove la donna entra, fa colazione, fa
quello che le pare. Ma i locali dove c’è l’alcol assolutamente né con il marito né
senza. In Bangladesh, poi, non fanno studiare la donna, da loro una donna non
studia mai dalla nascita, la donna non deve uscire di casa... in Tunisia non è così!
Saber, m, 1963, tunisino, residente
Anche uno degli storici italiani residenti che conosce bene le dinamiche
quotidiane del condominio, il signor Antonio, racconta la particolare segre-
73
gazione socio-spaziale delle signore bangladesi:
Nel Bangladesh c’è molto rispetto da parte dell’uomo verso la donna ma la
donna ha precise mansioni, dalle quali non dovrebbe uscire. Molto più riservata
nei confronti del marito di quanto sia una nera. Le nere possono essere anche
aggressive, non scherzano, comandano loro a casa… anche fisicamente, se si
arrabbiano menano! Insomma è tutto un altro discorso. In Bangladesh no. A
volte le donne non vengono presentate alle persone, per esempio ad amici. A
me ha un po’ meravigliato, lo posso anche capire, dobbiamo metterci a capire.
Frequentando casa di qualcuno io ho avuto il tè ma mi hanno detto che non mi
dovevo meravigliare se non mi presentavano la moglie perché da loro ci sono
altri usi. Me l’hanno proprio detto chiaro e tondo in modo da non dispiacermi.
Mi offrivano il migliore dei tè che avevano, però ci sono usi e costumi che vanno
rispettati. Addirittura a volte l’atteggiamento dell’uomo verso la donna sembra
un po’ untuoso nel senso di salamelecchi però nella sostanza deve stare a svolgere i compiti che le sono assegnati, prevalentemente in casa. È lei stessa che ci
vuole stare. È uno strano matriarcato come le donne marchigiane che alla fine
sono loro che comandano! Antonio, m, 1940, italiano, residente
Le forti appartenenze culturali che si ricostruiscono quotidianamente
all’Hotel House sono, dunque, imbevute di pratiche e ideologie che hanno a che fare col genere. Come evidenziato da Okin (1997), “la difesa delle
‘pratiche culturali’ può avere un impatto di gran lunga maggiore sulle vite
delle donne e delle ragazze che su quelle di uomini e ragazzi” . Per le donne,
il condominio rischia di diventare spazio di esclusione che marca e rafforza
confini di genere. A questo proposito Sibley (1995) parla di “geografia del
rifiuto”.
Ad accentuare la segregazione delle donne vi sono però anche alcuni potenti fattori esterni che rendono difficile uscire dal condominio e che
rafforzano l’isolamento urbanistico tra l’Hotel House e il resto della città. In
primo luogo la strada che occorre attraversare per raggiungere il centro è
pericolosa, sia perché transitata da molti veicoli che dalla zona industriale
si dirigono verso il centro, sia perché molte delle donne che vi camminano
provenienti dal condominio sono considerate da una parte dei portorecanatesi delle potenziali prostitute, come testimoniato da una residente:
Ogni volta che ti metti a camminare, inizi a vedere delle macchine che rallentano, che ti rompono… Provano a chiedere: “Quanto vuoi?”. Quelli di Porto Recanati quando arrivano qua non capiscono più niente! Mehra, f, 1973, macedone, residente
Ancora una volta, il signor Antonio, che ben conosce le priorità degli
abitanti del condominio, testimonia come questa pratica sia molto potente
nel rafforzare la segregazione delle donne:
Le donne vanno a Porto Recanati per imparare la lingua, però nella marcia di
trasferimento, siccome i mariti vanno a lavorare non ce l’hanno sempre portate in macchina e qualche volta... e loro questa cosa si sono imbestialite contro!
Perché c’è gente che viene qua sperando... gli sembra un po’ di venire a Las Vegas. In passato venivano nel nostro bar italiano perché immaginavano di incontrare delle donnine. Probabilmente era anche vero perché all’epoca c’erano
le entraîneuses, adesso giustamente il Bangladesh teme per le proprie donne!
74
|capitolo 3|
L’infastidimento relativo che può verificarsi nel viale che immette all’Hotel House,
quello dove sono parcheggiate quelle macchine. Perché c’è gente che in passato visto che c’era qualche corpivendola che andava lì, magari una negretta, si è
abituata dalla città, ad andare in attesa magari di trovare qualcuna. Allora se
passano queste persone che sono ben altro tipo di persone, anche nei loro abiti
tradizionali sarebbe da distinguere! Magari qualche lazzo, qualche cosa viene
detta… Antonio, m, 1940, italiano, residente
Il rischio quotidiano di subire “qualche lazzo” è una delle ragioni che
portano le donne a non uscire di casa da sole e mostra come la relazione
con l’esterno giochi un ruolo fondamentale nel rafforzare l’intrappolamento
spaziale di alcune donne. Invece di rafforzare autonomia e responsabilità
queste pratiche non fanno altro che favorire la chiusura di una parte delle
donne all’interno del condominio, che si struttura come rifugio, certamente
ambivalente, ma comunque più rassicurante rispetto al contesto esterno.
Oltre alla scarsa agibilità degli accessi pedonali che collegano al resto
della città, a Porto Recanati manca completamente un servizio di trasporto
pubblico urbano (Img 3.2). Costruire un collegamento pedonale meno disagiato e attivare un trasporto pubblico che colleghi l’Hotel House al centro
del paese sono da sempre le prime richieste espresse dai residenti, com’è
emerso anche qualche anno fa da un piccolo progetto di ricerca (De Angelis, a cura di, 2005). Il mancato riconoscimento di queste semplici richieste
ha dato vita ad un coro di voci di protesta degli abitanti tanto ricco quanto
omogeneo:
Faccio una domanda che faccio a tutti quanti: chi sono quelli responsabili per
quella situazione? O meglio, qui ci sono 2.000 abitanti in questo palazzo, questo
è un paese, qui non c’è niente, non c’è diciamo nessun tipo di servizi. Per tutto
dal sociale, dalla comunicazione, tante altre cose. Siamo separati dalla città di
Porto Recanati. Se attraversi dopo il ponte della ferrovia, se guardi un attimo,
vedi che siamo distaccati proprio, separati, perché da qui per arrivare in centro,
non c’è un marciapiede. Dopo la rotonda quando vieni verso qui non c’è neanche la segnalazione stradale. Allora immagini chi è che sono i responsabili di
questo distaccamento, questo diciamo ghetto? Non c’è nessun tipo di trasporto
da qui al centro, non c’è! C’è solo per la scuola. Invece per altre attività se uno
vuole andare in centro per un’ora non c’è niente. è un totale isolamento, da Porto
Recanati all’Hotel House; probabilmente l’ Hotel House è un’altra città! Ali, m,
1969, bangladese, residente
Da questo palazzo così grande, in qualsiasi momento se fai caso c’è gente che
parte a piedi e cammina in mezzo alla strada… non c’è sicurezza! Bisogna sicuramente costruire un marciapiede da qui! Natasha, f, 1972, italiana, esercente
non residente
Qua non c’è un trasporto; se non hai la macchina o un motorino devi andare
a piedi. D’estate va bene, ti fai una camminata, d’inverno se non hai la macchina… se tu vedi negli altri paesi, a Civitanova, a Recanati, c’è una circolare interna
che passa ogni mezz’ora. Qui non c’è un cavolo di pulmino che dici che ne so, fa
due corse la mattina e due corse il pomeriggio. Cioè io parlo a livello di trasporti,
di tutto, siamo proprio tagliati fuori! Michele, m, 1963, italiano, portiere, residente
75
3.2. Biciclette e motorini parcheggiati in piazzetta
|capitolo 3|
Numerosi fattori interni ed esterni dunque rafforzano l’intrappolamento
spaziale delle donne. Ciò non significa, però, che le donne siano solo soggetti passivi o che il quadro sia statico e senza possibilità di mutamenti. Ci
sono ad esempio dei tentativi di costruire spazi di socializzazione e di visibilità. D’estate, nei pomeriggi di bel tempo, molte donne bangladesi, tutte
vestite con abiti bellissimi e colorati, si riuniscono negli spazi all’aperto per
chiacchierare e lasciar giocare i bambini. Va detto, però, che il luogo prescelto per l’incontro è una zona decisamente laterale del condominio, una
porzione di asfalto del parcheggio a pagamento, tra due file di macchine, il
che simboleggia di nuovo la marginalità e interstizialità della loro presenza.
Un altro piccolo segnale è rappresentato dai corsi di lingua italiana per
donne, realizzati prima a Porto Recanati poi direttamente all’Hotel House,
che hanno portato a piccoli compromessi in senso “progressista” da parte
degli uomini, come racconta uno degli insegnanti:
All’inizio del corso di italiano nel 1996 non c’era neppure una donna. Poi ho insistito e gli islamici hanno iniziato a portare le donne. All’inizio i pakistani e i bangladesi le accompagnavano e aspettavano fuori, poi hanno visto e pian piano
si sono fidati, le hanno lasciate andare da sole. Pietro, m, 1968, professore di
lingua italiana, non residente
Resta il fatto che una delle iniziative più urgenti per la vita sociale del
condominio è proprio quella di aiutare le donne a farsi spazio, soprattutto
iniziando ad interrogarle su quelle che sono le loro esigenze e priorità, nei
modi e nelle forme da loro indicate – dunque attraverso politiche micro
e, potremmo dire, omeopatiche (Cancellieri 2010b), ma allo stesso tempo
radicali e profonde.
Crescere qui
Un discorso analogo può essere fatto per i bambini e gli adolescenti, un
segmento di popolazione che rappresenta circa un quinto dell’intero Hotel
House (più precisamente il 20,6% al settembre 2009) (Tab. 3.2). La presenza
dei bambini e dei ragazzi è fortemente visibile nei tempi extra-scolastici,
come nei pomeriggi e durante l’estate, anche perché, essendo fortemente
limitati gli spazi adatti al gioco, essi finiscono per invadere un po’ tutti gli altri
luoghi, in particolare la piazzetta antistante il condominio:
I ragazzi dove vanno a giocare? Non hanno posti…dove giri è tutto cemento!
Saber, m, 1963, tunisino, residente
L’unico spazio che si possa considerare realmente dominato dai bambini è un’ex pista di pattinaggio che vede nel corso della giornata l’alternarsi
di diversi gruppetti (Img. 3.3). Si tratta dello spazio più ambito dai bambini:
adattato un po’ ad ogni esigenza, è conteso da pakistani (e a volte bangladesi) che giocano a cricket, da bangladesi che amano giocare a badminton
e dal gruppetto multietnico di bambini più piccoli che preferisce giocare a
calcio. Un segno evidente di questa contesa è rappresentata dal fatto che
un giorno, d’improvviso, sul fondo del campetto è apparsa una scritta elo-
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Tab. 3.2. Popolazione minorenne dell’Hotel House suddivisa per età e genere
0 – 2 anni
3 – 5 anni
6 – 10 anni
11 – 13 anni
14 – 18 anni
Totale
Maschi
35
28
41
26
43
Femmine
42
42
28
13
26
Totale
77
70
69
39
69
324
Fonte: dati portineria Hotel House (09.09.2009)
quente: “Cricket only”.
All’infuori del limitato spazio del campetto in cemento, i bambini e i ragazzi dell’Hotel House cercano di utilizzare e ri-significare tutti gli spazi possibili. Così facendo, si trovano a volte anche a diventare spettatori sempre
meno ingenui di una miriade di comportamenti devianti, come per esempio lo spaccio di droga o alcuni rari scontri causati da questo o dall’abuso
di alcool, come lamentato da un residente e dall’amministratore del condominio:
I bambini non devono vedere quella robaccia lì, questo litiga con quello là. L’anno scorso, mio figlio è rimasto proprio scioccato quando ha visto due che si stavano ammazzando con un coltello! Saber, m, 1963, tunisino, residente
Adesso ci sono i bambini che cominciano ad avere 7-8-10 anni, 12 anni, se ci
sono gli spacciatori sotto il palazzo, se un bambino viene lasciato a giocare…
pian piano i bambini con gli spacciatori oppure con delle persone che si comportano in una certa maniera, imparano degli usi che probabilmente non sono
quelli che i genitori vorrebbero che imparassero. Amministratore del condominio dal 2003 al 2007, m, italiano, non residente
La scarsità degli spazi di gioco e il pericolo di “cattivi incontri” ha fatto sì
che molti genitori residenti abbiano chiesto ripetutamente e a gran voce
di predisporre degli spazi per il gioco. Come è accaduto per le richieste di
collegamento con il resto della città di Porto Recanati, i residenti lamentano
la mancanza di volontà delle istituzioni nel raccogliere queste domande:
Qualche settimana fa siamo andati a chiedere di mettere dei giochi. Hanno rifiutato perché hanno detto che qui è zona privata e noi non possiamo fare niente!
Tante volte vedi i ragazzini, non hanno niente, giocano con il pallone non sanno
dove andare. è brutto. Invece se c’è un parco giochi, anche piccolo, qualche adulto entra qui, li fai giocare un’oretta, una mezz’oretta. Nader, m, 1965, tunisino,
residente
La situazione qua per i bambini è terribile. Non c’è un posto dove possono giocare; servirebbe un posto dove possono giocare sotto gli occhi di tutti. Ci vorrebbe
non ti dico un parco ma almeno un posto dove non può accadere loro qualcosa
perché bene o male c’è sempre qualcuno che li vede. Natasha, f, 1972, italiana,
esercente non residente
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3.3. Giovani bangladesi giocano a badminton nel campetto di cemento
Quando si parla della situazione dei bambini e dei ragazzi che crescono
all’Hotel House, va aggiunto che una parte di essi sono impegnati in attività
lavorative: alcuni ad aiutare i genitori nella gestione degli esercizi commerciali, altri come venditori ambulanti, altri ancora in lavori più o meno informali, specie in agricoltura. Un chiaro esempio è rappresentato dal phone
center gestito da Rahman e Mahfuz, due ragazzi minorenni provenienti dal
Pakistan.
Le imprese familiari che si sono create al piano terra dell’Hotel House
fanno parte di settori economici relativamente marginali dove il livello di
sfruttamento della forza lavoro è particolarmente elevato, sia sotto il profilo
salariale che sotto quello delle condizioni di lavoro (Tarrius 1992; Lin 1998).
Queste imprese offrono molteplici occasioni di lavoro e anche un canale
per l’avanzamento sociale (Wilson e Portes 1980; Portes e Zhou 1993) ma
sono anche e, forse soprattutto, un sistema per trovare dipendenti leali e
flessibili.
Una volta di più, dunque, occorre interrogarsi su quanto questi spazi
commerciali che per molti soggetti fungono da spazi multifunzionali e d’incontro (vedi Cap. 2), per altri soggetti sono piuttosto spazi di segregazione
(Sanders 2002). In sintesi, donne e bambini sono due segmenti della popolazione dell’Hotel House in particolare difficoltà; due “frontiere” determinanti
per il futuro del luogo.
Essere italiano
Una delle minoranze più interessanti dell’Hotel House sulla quale è utile
porre l’attenzione per la propria specificità e significatività è rappresentata
dagli italiani del condominio. Una minoranza fortemente eterogenea che
sta via via perdendo rilevanza, essendo passata dal 2005 al 2009 dall’11,1%
al 5,5% del totale degli abitanti. In ogni caso, per radicamento storico, per
condizioni economiche e per diritti di cittadinanza ha giocato e, in parte,
tuttora gioca un ruolo fondamentale sugli scenari quotidiani del condominio. Alcuni storici residenti italiani sono stati per anni in alcuni posti chiave
del condominio come la portineria e soprattutto nei consigli di amministrazione. Nel complesso si può dire che la componente degli italiani è costituita principalmente da:
• ex-vacanzieri che si sono insediati in modo definitivo all’Hotel House, diventati anziani/e, spesso vedovi/e;
• lavoratori, in gran parte provenienti dal Sud Italia, destinati soprattutto al settore dell’edilizia che, nel periodo che ha preceduto l’attuale crisi economica, era sempre stato in espansione;
• italiani di origine straniera (per metà italo-argentini, per l’altra metà
italo-eritrei, quest’ultimi tutti appartenenti a una stessa famiglia
composta da cinque sorelle e dai loro figli);
• italiani di ceti sociali bassi, arrivati all’Hotel House in seguito a problematiche di diversa natura;
• soggetti che hanno trovato lavoro nei servizi di gestione del residence, come la portineria o la manutenzione degli ascensori.
80
|capitolo 3|
A questi si aggiungono ogni estate un centinaio di vacanzieri, cioè di soggetti nella quasi totalità dei casi anziani, che, dopo quasi trenta-quarant’anni
e una serie d’incredibili vicissitudini e di complesse dinamiche demografiche, usano il condominio per la sua funzione originaria, cioè come base
per una vacanza rilassante al mare. La loro presenza porta la popolazione
italiana d’estate quasi a raddoppiare.
Una parte degli italiani residenti da lunga data, spesso di ceto medio,
dotata delle risorse materiali necessarie e di un forte attaccamento identitario al luogo, ha fatto sì che il residence per anni potesse mantenere alcuni
servizi come per esempio il controllo della portineria 24 ore su 24. Tutto ciò
ha avuto un ruolo importante nel contrastare l’abbandono della struttura,
come è testimoniato dal signor Antonio, che ha giocato un ruolo particolarmente attivo in questo senso:
Nel 1998 il nostro amministratore ci propose di sgravare la spesa condominiale
di circa mezzo milione se avessimo rinunciato ai quattro portieri. Nessuno dei
condomini accettò, neanche i vacanzieri che vengono solo un mese d’estate
perché sarebbe equivalso ad aprire quest’immensa città alla prostituzione e allo
spaccio della droga indiscriminato. Perché togliendo quattro portieri e sostituendoli solo con due a giorni alternati e con orari ridotti, per esempio dalle sette del
mattino al tramonto, sarebbe stato decretare la fine! La qualità generale delle
persone ha portato tutti indistintamente a dire no e mantenere le stesse spese
gravose. Antonio, m, 1940, italiano, residente
Se andiamo ad analizzare le relazioni instaurate dagli italiani residenti
con gli altri abitanti del condominio, notiamo che una parte di essi mostra
un’inaspettata curiosità e apertura verso l’alterità, favorita forse anche dal
fatto di essere abituati a vivere in contesti multietnici, ad aver viaggiato molto e avere un background di migrazione, spesso abituati a vivere in contesti
multietnici:
Io sono abituato all’intreccio perché abitavo a Brindisi in un palazzo con sei appartamenti dove abitavano molte famiglie afro-americane…c’era la base Nato
lì vicino…io giocavo spesso da bambino con i bambini di colore…poi nella mia
famiglia mio fratello ha sposato una greca, io una rumena…mia zia è austriaca…anche mia moglie ha due amiche che sono sposate con un iraniano e un
irakeno che sono molto bravi. Paride, m, 1963, italiano, residente
Sono figlio di una marchigiana e di un palermitano. Quando ho terminato il
mio servizio, la mia attività militare, essendo nato in Africa volevo un campanile,
un minareto non andava bene per cui ho pensato ad una località delle Marche.
Sono vissuto parecchio a Porto Civitanova, 9 anni, 5-6 a Porto Potenza e poi ho
scelto Porto Recanati. Sono un condomino che sta da dodici anni all’Hotel House. E non ho fatto scelta migliore nella mia vita. Io mi trovo nella condizione di
essere un italiano che non ha venduto perché secondo me questa è un’esperienza bellissima, con gente che viene da diverse etnie, anche diverse lingue. Finché
morte non sopraggiunga, vorrei essere condomino dell’Hotel House […] Sono
stato a Torino ero ufficiale dei carabinieri ma venivo dal Sud perché venivo dal
Lazio. Già un bolognese è un mezzo terrone, figuriamoci uno che viene dal Lazio.
Io sono stato accolto malissimo, una città civilissima dove magari c’era gente
con cui magari frequentavo la stessa scuola…ma malissimo e quindi so l’immigrato come viene visto da noi…fa bene alla salute aver vissuto come uno che
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deve essere accettato…Capisco il loro stato d’animo e fa bene aver provato a
non ritenersi una razza superiore o cose del genere. Perché c’è sempre modo di
essere un terrone rispetto a qualcuno o un sottoprodotto dell’umanità visto la
testa bislacca dell’umanità. Antonio, m, 1940, italiano, residente
La maggioranza degli italiani, però, esperisce e descrive la trasformazione socio-demografica del condominio come una grande perdita, portando
avanti una narrazione identitaria del “vecchio Hotel House” come una sorta
di paradiso terrestre:
Eravamo tutta gente… c’erano avvocati, medici, giuristi, no, no era veramente
bello. Qua era un paradiso, un paradiso proprio. Nel senso che la vista era perfetta, meravigliosa, il mare accanto. Si andava tutti d’accordo, ognuno a casa
propria. Poi ogni tanto d’estate si facevano delle festicciole, arrivava l’orchestrina, si ballava sul piazzale; organizzata magari da quello del bar, per dirne una.
Era veramente bello, dietro c’era un ristorantino, dietro dove adesso c’è il bar dei
tunisini, c’era un ristorante, andavamo lì a pranzare, c’era una pizzeria […] C’erano tutti tappeti rossi lungo le scale, c’erano le insegnanti che abitavano qua,
i professori. Prima era un vivere bene, c’era quel bellissimo giardino, tutto verde
[il Garden House], eravamo tutti italiani, tutti in armonia. Rossana, f, 1935,
italiana, residente
Questa narrazione identitaria imputa ai nuovi residenti immigrati la colpa di un mutamento del luogo avvenuto lungo tre linee di frattura principali: in primis una trasformazione sociale, in quanto il vecchio Hotel House è
descritto come il residence in cui vivevano persone importanti come avvocati e giudici. Molti dei residenti storici amano mostrare le cartoline dell’epoca con l’edificio al suo massimo splendore, con i progetti delle aree verdi,
dei campi da tennis e della piscina; in secondo luogo, una trasformazione di
tipo etnico, in quanto fino a venti anni fa il residence era abitato quasi esclusivamente da italiani; in terzo luogo una trasformazione di tipo funzionale
dello spazio: prima il condominio era un luogo di relax per vacanzieri, ora
è rappresentato come una sorta di porto di mare in completo abbandono
dove tutti possono “ormeggiare”.
Per reazione a questa sensazione di perdita e di usurpazione, una parte
importante di italiani usa il proprio appartamento come una sorta di rifugio
e gli spazi pubblici del residence solo come luogo di (veloce) transito:
Io non attraverso più neanche la piazza. Vado subito per il sottopassaggio […]
Mia figlia non viene neanche più perché nell’ascensore ha paura. Federica, f,
1934, italiana, vacanziera
La presenza immigrata viene tradotta in sintomo di status sociale degradato: l’unica alternativa alla fuga è sottrarsi alla coesistenza spaziale, ripiegare sul proprio nucleo familiare, all’interno del proprio appartamento
(De Rudder 1989).
Spesso questo conflitto simbolico cela anche un rifiuto di declassare i
propri spazi di vita, cioè un confine di classe sociale. Infatti la quasi totalità
dei vacanzieri sembra palesare uno stigma verso le classi popolari, verso la
misère du monde. Le diversità culturali diventano tanto più forti quanto più si
accumulano con quelle che derivano dalla stratificazione sociale: i pregiudi-
82
|capitolo 3|
zi diventano, insieme, “i pregiudizi che nascono verso chi viene da lontano,
verso chi proviene da un paese ‘arretrato’ e verso chi occupa i gradini più
bassi della scala sociale” (Tabboni 1993: 17). Sono diverse le testimonianze
a questo proposito. Basti citare alcune parole di un’anziana signora della
“Bologna bene”:
[riferita al tuttofare del condominio, un signore tunisino] Come fa lui a capire
di alberi se vive tra i cammelli nel deserto […] Loro sono abituati a vivere nelle
capanne! Federica, f, 1934, italiana, vacanziera
Tuttavia ci sono due aspetti di questo stigma che vanno approfonditi. In
primo luogo il fatto che, come ho potuto constatare durante le mie interviste e i miei colloqui, gli italiani non hanno raccontato di essere stati coinvolti
in conflitti o disavventure capaci di confermare tali rappresentazioni negative; e questo nonostante la coabitazione con quasi 2.000 persone. Dunque
lo stigma a cui sono assoggettati gli immigrati sembra essere più forte della
positiva o quantomeno neutra esperienza personale. Questo perché ciascuno costruisce il suo rapporto con gli altri gruppi sulla base di stereotipi
(Simon 1995; Cancellieri 2003). D’altronde, come ha sottolineato Camilleri
(1990), quando un gruppo coabita con un altro è più esatto e operativo
affermare che coabita anche con l’immagine che se ne è fatto.
In secondo luogo non si può fare a meno di notare che, se le rappresentazioni di una parte degli italiani sono fortemente ostili nei confronti dei
nuovi abitanti, le loro pratiche quotidiane sono molto più complesse. I confini sociali delle pratiche sono spesso più sfumati: per esempio la parte della
piazzetta in cui abitualmente sostano a chiacchierare dei tunisini di mezza
età, d’estate vede insieme a loro alcuni italiani vacanzieri, tra cui la stessa
signora che sosteneva di non attraversarla neanche più. Questo ci ricorda
come non sia possibile assumere una corrispondenza esatta tra pratiche e
rappresentazioni. Spesso a pratiche di coabitazione pacifica corrispondono
rappresentazioni escludenti e viceversa. Esiste una relazione tra le pratiche
e le rappresentazioni tutta da scoprire, e il metodo etnografico appare particolarmente adatto a cogliere questi intrecci contestuali tra ciò che si dice
e ciò che si fa (vedi Appendice metodologica).
Il caso limite di questa ambivalenza è espresso dalla signora Rossana,
un’anziana italiana che ha addirittura issato la bandiera della Lega Nord sulla
propria terrazza, per rivendicare la sua forte contrarietà rispetto alla presenza degli immigrati nel condominio. Questa ex-vacanziera che ora vive tutto
l’anno all’Hotel House trova, però, nella vita quotidiana molteplici forme di
mediazione e di negoziazione con i propri “nemici”. Un altro condomino ha
ben descritto questa dinamica:
Sì, la signora Rossana è della Lega Nord, però ha un modo strano. Perché quando
è venuta su a Macerata alla manifestazione [cfr. cap. 4] dove abbiamo avuto
tutti modo di andare salendo i pullman, lei non era nel pullman nostro ma era
nel pullman dei nigeriani! È un soggetto molto interessante perché poi fra l’altro
ha una cosa che non abbiamo tutti: non ha assolutamente peli sulla lingua e
quello che gli deve dire glielo dice. E glielo dice anche in modo piuttosto elettrico per cui uno penserebbe: ‘Come fa a sopravvivere ogni giorno?’ perché lei
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poi aggredisce. Nel senso: è uno scriccioletto di donna, non è che sia un colosso
ma non ha assolutamente nessuna remora. Quando non le va bene una cosa si
esprime anche in termini molto icastici e andando oltre. Però per esempio siccome svolge anche attività sartoriale perché era disegnatrice, molto spesso i neri
si presentano da lei per sistemare i pantaloni. Poi è in ottimi rapporti con quelli
che stanno sopra casa sua. Perché se le sono simpatiche le persone poi… questo
dimostra che bisogna conoscersi e le cose cambiano. Non è un atteggiamento secco, però sicuramente è leghista, è l’unica che abbiamo qua dentro. C’è di
tutto, noi siamo molto variegati in questo senso! Antonio, m, 1940, italiano,
residente
Più in generale, sono diverse le signore italiane anziane e sole, residenti
storiche del condominio, che hanno scelto di dedicarsi a piccole faccende
domestiche, lavoretti di sartoria o ad accudire bambini per la nuova popolazione migrante. Inoltre, come emerso sopra (Cap. 2), non sono pochi
gli italiani che raccontano di vivere bene nel nuovo l’Hotel House proprio
perché è sempre possibile incontrare persone che si conoscono e trovare
qualcuno con cui parlare:
Certo è una grossa comunità, ma quando tu te ne stai a casa tua ti fai quello
che vuoi. Io sono più contento oggi che sono passati cinque anni da quando l’ho
acquistato che ancora prima di quando sono arrivato. Perché passano gli anni
e ne vedo di più l’utilità. Se fossi stato in una casa da solo avrei avuto sempre
più ansia, timori per la vecchiaia. Qui c’è sempre un portiere, hai il telefono sul
comodino, fai presto, ambulanze. Non abbiamo quella paura di quando si è soli
in un condominio, una palazzina con le scale, una casa isolata. Io ho sempre
vissuto in una casa isolata e di conseguenza qui è tutta una cosa diversa. Se non
altro un portiere c’è, se chiami qualcuno arriva. Mentre là devi aspettare il giorno
dopo che magari qualcuno venga a bussare alla porta. Allora ecco che… sono
queste le maggiori sicurezze che mi danno all’Hotel House. Giuseppe, m, 1941,
italiano, residente
Nel complesso, sembrano dunque diffondersi tra gli italiani due rappresentazioni dell’Hotel House molto differenti, a volte copresenti anche nel
medesimo soggetto: da una parte il “vecchio Hotel House”, il “paradiso terrestre perduto”, dall’altra il nuovo Hotel House multietnico. Una battaglia in
corso tra due narrazioni, tra due usi e sensi del luogo, per costruire il futuro
stesso del luogo.
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|capitolo 4|
Capitolo 4
Le battaglie per il senso del luogo e gli
“esterni costitutivi”
Le aree di concentrazione residenziale di minoranze sono tradizionalmente rappresentate come territori scarsamente soggetti a mutamenti, quasi
fossero privi di storia. Li si descrive come luoghi di marginalizzazione irrimediabilmente perduti o, tutt’al più, come “territori romantici”. Al contrario,
sappiamo che si tratta di contesti in costante mutamento, spazi soggetti a
continue trasformazioni demografiche, economiche e sociali che ne ri-disegnano il volto attraverso continue battaglie per il senso e l’uso del luogo.
Scopo di questo capitolo sarà proprio quello di mostrare le trasformazioni dell’Hotel House come campo di lotta tra gruppi differenti che, attraverso pratiche e rappresentazioni spaziali, cercano di affermare un uso dello
spazio piuttosto che un altro. Allo stesso tempo si analizzerà come queste
battaglie non siano solo endogene, interne al condominio. In esse un ruolo
fondamentale è giocato dalla relazione che si è creata nel tempo con l’esterno e, in particolare, dal ruolo strutturante giocato dai cosiddetti “esterni
costitutivi”, vale a dire dai soggetti sociali che maggiormente detengono
il potere di produzione spaziale, come il governo, i giornali locali e, più in
generale, la popolazione autoctona.
In particolare sarà analizzata la vicenda di un comitato creato nel 2005
da alcuni residenti del condominio per protestare contro l’isolamento e l’abbandono del luogo da parte delle istituzioni pubbliche. Il conflitto che ha
innescato la creazione del comitato ebbe luogo tra due differenti raggruppamenti di abitanti: quello composto da alcune famiglie, di differente nazionalità, e quello costituito da alcuni protagonisti di attività delinquenziali,
specialmente il traffico di stupefacenti.
Nella seconda parte del capitolo si metterà in luce come siano i fattori
esterni a (poter) incidere sull’esito di queste battaglie per l’uso e il senso del
luogo – ad essere cioè dei fattori costitutivi. Considereremo in particolare i
processi di quotidiana stigmatizzazione e il sistematico abbandono istituzionale.
Nella terza e ultima parte del capitolo infine aggiorneremo l’analisi allo
scenario ritrovato nel corso di due brevi ma più recenti periodi di ricerca –
l’estate del 2009 e quella del 2012: un Hotel House profondamente cambiato dove l’analisi dell’intreccio tra dinamiche endogene e esogene conferma
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ancora di più le potenzialità ambivalenti delle prime e le responsabilità delle
seconde.
“Una cosa seria è diventata!” Il comitato multiculturale
Se è vero, come evidenziato sin qui, che il clima generale del condominio è
stato per anni caratterizzato da una coabitazione pacifica (Cancellieri 2010a),
è altrettanto vero che in alcuni casi la condivisione degli spazi e l’incontro
“forzato” tra le diverse popolazioni ha creato momenti di tensione e anche
scontri. Questi sono avvenuti quasi esclusivamente tra persone appartenenti al medesimo gruppo nazionale (e spesso in “stato di alterazione”), mentre
sono decisamente rare le aggressioni a persone “inconsapevoli” e ancora
più rare le aggressioni tra gruppi su base “razziale”. D’altronde com’è emerso
anche in altre ricerche su contesti in cui non prevale un gruppo nazionale in
particolare, i conflitti che si possono definire strettamente inter-etnici sono
poco frequenti (Toubon e Messamah 1990, Simon 1995).
Nel corso del mio periodo di osservazione partecipante è accaduto,
però, in due situazioni ravvicinate, che due signori bangladesi che gestiscono delle attività al piano terra sono stati aggrediti da giovani maghrebini dediti allo spaccio, che rappresentano una delle minoranze più visibili e
stigmatizzate del condominio. Questo è il racconto di alcuni residenti:
Uno del Bangladesh che ha un negozio è stato minacciato da parte di uno di
questi, insomma una banda di spacciatori, di tunisini. Portavano via la birra, facevano la spesa e andavano via senza pagare con una pistola finta giocattolo.
Per tre giorni loro hanno portato via la spesa, erano degli spacciatori, portavano
via la spesa senza pagare. L’ultima volta, erano ancora senza soldi e hanno cominciato a picchiare in tre o quattro quel ragazzo, l’hanno picchiato con una
bottiglia d’olio sulla testa, gliel’hanno spaccata in testa; poteva rischiare, poteva
anche morire. Una bottiglia di olio di oliva è pesante per la testa…qui in un negozio di fianco. Khalid, m, 1967, pakistano, esercente non residente
La comunità del Bangladesh ha subito da qualche tempo a questa parte diverse violenze di ordine materiale. Ci sono delle persone che hanno dovuto versare
del sangue, sistematicamente uno dal viso con una bella tagliata di coltello, un
altro dalla testa con una bella bottigliata di olio, non conosco la marca. Un litro
equivale ad un chilo di peso, più la bottiglia di vetro spaccata sul cranio e di conseguenza fuoriuscita di sangue, dieci punti di sutura e commozione cerebrale.
Quindi si è temuto anche il peggio. E un altro si è giocato l’arcata superiore dei
denti con un bel pugno ricevuto solo perché voleva che pagassero la merce che
aveva venduto a tre persone. Antonio, m, 1940, italiano, residente
La prima conseguenza di tutto ciò è che molti residenti provenienti dal
Bangladesh hanno minacciato una reazione di tipo “comunitario”, contro i
cosiddetti “tunisini” e/o “marocchini”, rischiando di innescare un classico
scontro interetnico. Come accade spesso in questi processi di stigmatizzazione etnica, anche se nel primo caso i probabili aggressori erano cittadini
algerini e, nel secondo caso, tunisini, un’etichetta nazionale come “tunisini”
o “marocchini” tende a rappresentare interamente soggetti maghrebini di
differente nazionalità. Queste sono alcune testimonianze:
86
|capitolo 4|
Da lì è nata tutta questa situazione qua… quelli del Bangladesh sono andati
sul piede di guerra. Loro erano pronti a tutto perché quando è successa questa
questione qui, loro hanno fatto diverse riunioni, tutti i capifamiglia, e hanno detto: “Se qui non troviamo una soluzione facciamo noi i passi contro i tunisini”.
Michele, m, 1963, italiano, portiere e residente
Noi ci siamo uniti perché abbiamo subito l’aggressività due volte da due marocchini. Abbiamo deciso di combattere con loro da soli, però per il rispetto del
Paese dove viviamo noi abbiamo informato prima le autorità e se loro tengono
male la situazione noi andiamo avanti. Noi non abbiamo nessun problema, perché loro sono alle minacce. Noi siamo disponibili, ci sono dei ragazzi giovani che
sono… In un paese di democrazia qui non possiamo fare… ma due volte hanno
fatto! A uno gli hanno spaccato tutti i denti, hai capito? […] Io sono andato di
fronte all’amministratore, con maniera dura diciamo: “Guarda mi dovete aiutare
se no dopo se succederà qualcosa io non posso fermare questi ragazzi. Se date
qualcosa, se no… perché loro minacciano a noi… siete responsabili di questo
palazzo, dovete rispondere!” Ali, m, 1969, bangladese, residente
Il conflitto innescato dai due episodi di violenza conferma che gli equilibri tra i diversi gruppi nazionali possono essere a volte molto fragili e non
vanno mai dati per scontati. Il seguito della vicenda mostra però anche le
risorse interculturali e di attaccamento al luogo che si sono create nel tempo. Infatti la risposta dei bangladesi è sfociata in una mobilitazione (seppur
debole e in forte divenire) che si è presto allargata ad alcuni nuclei familiari
migranti e italiani, dando vita ad un vero e proprio comitato multietnico
di residenti. Una sorta di “coalizione” con l’obiettivo esplicito di affermare e
difendere l’Hotel House in quanto luogo per le famiglie, contro l’immagine
del luogo come zona franca per le attività illegali. Questo è il racconto di
due italiani diventati subito membri del comitato:
Il comitato si è creato a partire da Alì che ha contattato per conto suo componenti della Cgil, della Cisl e qualche operatore nel sociale. Poi ha prospettato
questa cosa a me. Mentre il comitato si costituiva è partito di qua un certo gruppo di persone, poi l’amministratore, qualche operatore del sociale. Poi abbiamo
cercato di coinvolgere un po’ tutti i gruppi nazionali. Antonio, m, 1940, italiano,
residente
Esasperati, noi, ancora sani di mente, tipo Antonio e tanti altri, con qualche
straniero in mezzo, ci siamo molto ribellati. Qui l’Hotel House, torno a dire, era
talmente un posto bello, mi piaceva da morire e mano a mano c’è stato il degrado. Ora, bisogna mettersi di mezzo un pochettino tutti, collaborando tutti, pochi
italiani rimasti e qualche straniero. Rossana, f, 1935, italiana, residente
Questa aggregazione interculturale è stata favorita da una significativa
trasformazione socio-demografica che ha contraddistinto gli ultimi anni
dell’Hotel House, vale a dire il crescente radicamento di famiglie di immigrati che, nel giro di pochissimo tempo, hanno acquistato un grande numero
di appartamenti (ad agosto 2007, ultimo dato disponibile, ben 253, cioè più
della metà del totale – Tab. 4.1). Questo ha fatto sì che l’Hotel House, per
anni una sorta di porto di approdo di migranti soli senza famiglia (i cosiddetti “primomigranti”), è diventato anche un luogo abitato da donne, giova-
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Tab. 4.1. Proprietà degli appartamenti (per gruppi nazionali)
Gruppi nazionali
Italia
Bangladesh
Senegal
Pakistan
Nigeria
Tunisia
Marocco
Altri
Totale
Appartamenti di proprietà (N.)
227
71
48
37
28
23
9
37
480
% su totale
47,3
14,8
10,0
7,7
5,8
4,8
1,9
7,7
100,0
Fonte: elaborazione dati portineria Hotel House (01.08.2007)
ni e bambini (Cap. 3). Tale radicamento ha comportato una vera e propria
metamorfosi per quanto riguarda il senso e la responsabilità verso il luogo.
Per usare le parole di uno dei residenti che ha fatto parte del succitato comitato, ora “una cosa seria è diventata!”:
Molte persone, il 95% delle famiglie cominciano ad avere bambini. Io ne ho due,
il maschio è nato nel 1997, la figlia è nata nel 1995, sono quasi nati tutti qui; gli
altri diciamo, quelli dell’età nostra e dico per i tunisini è tra i 40 e i 35 anni tutti,
più o meno abbiamo la stessa età, cominciamo ad essere abbastanza maturi. I
figli stanno andando a scuola… una cosa seria è diventata […] sì perché piano piano uno diventa più serio, più responsabile quando ha la famiglia. Prima
quando ero solo, prima di sposare, non gli importa niente di quel che fa l’altro;
adesso sì, adesso perché guardo al futuro dei miei figli, non è che guardo me. Io
faccio quello che faccio, non me ne frega. Non è che devo difendere me, io sono
un guerriero, ma devo difendere i miei figli, per il futuro dei miei figli. Saber, m,
1963, tunisino, residente
L’importanza di questa evoluzione emerge chiaramente anche dal confronto con altri contesti in parte simili, come Via Anelli a Padova o il Residence Prealpino a Bovezzo in provincia di Brescia (Paltrinieri 2006; Vianello
2006). Questi ultimi casi sono soprattutto luoghi con un tasso molto elevato di sostituzione della popolazione, in cui cioè le persone non si fermano
a lungo: delle vere e proprie “aree di transizione” (Zorbaugh 1929) in cui,
nonostante si possa creare capitale sociale, la responsabilità verso il luogo
appare fortemente limitata. Questa funzione di rifugio temporaneo, zona di
passaggio, a volte obbligato in particolari situazioni di difficoltà, resta fondamentale anche per l’Hotel House, che funziona come un welfare space, una
specie di porto a cui attraccare per poi provare di nuovo a ripartire. Sono
molti infatti gli immigrati che in particolari difficoltà, come la perdita del
lavoro o uno sfratto, scelgono di andare o di ritornare, anche dopo qualche
anno:
Io stavo all’Hotel House fino a 8 anni fa poi mi ero trasferito a Potenza Picena. Ma
un mese fa i padroni hanno improvvisamente dato via la casa per trasferirsi in
Thailandia. Io ho litigato con loro, non gli ho neanche pagato l’ultimo mese ma
88
|capitolo 4|
mi sono ritrovato in mezzo alla strada. Così sono tornato all’Hotel House. Qui c’è
un mio amico brasiliano, Josimar. Nel giro di un mese è arrivato anche un altro
amico, sua sorella e uno dei suoi due figli, perché lei si è separata da poco. Da due
siamo diventati cinque! È per questo che non voglio stare all’Hotel House. Adesso
sono sotto infortunio ma appena guarisco, voglio guadagnare subito e trovare
casa da solo. Nelson, m, 1973, brasiliano, residente
Questa precarietà dello status abitativo comporta spesso una “responsabilità limitata” nei confronti del condominio, come ben testimoniato dal
racconto dei difficili tentativi di mediazione di Antonio:
Quando c’era qualcosa da discutere il problema era che non c’era neanche un
padrone di casa a cui rivolgersi: “Io per me garantisco però poi ce ne sono altri
cinque in casa, per gli altri cinque non garantisco!” Antonio, m, 1940, italiano,
residente
A partire dall’inizio degli anni 2000, l’Hotel House ha conosciuto una
fase di radicamento territoriale da parte di alcune famiglie, simboleggiata
dall’acquisto da parte degli immigrati di un numero quanto mai elevato
di appartamenti. Questa trasformazione è stata favorita dall’intreccio tra il
relativo basso costo degli immobili (e la crescente facilità a contrarre mutui
a basso interesse) e l’aumento progressivo del costo degli affitti: due tendenze nazionali che hanno reso relativamente più conveniente l’acquisto
della casa.
Questi nuovi nuclei di immigrati proprietari del proprio appartamento
mantengono forti connessioni transnazionali, ma al tempo stesso hanno
scelto di investire almeno una parte del proprio futuro nel condominio. Ciò
si rivela spesso un fattore significativo per la conservazione e la cura del luogo, come testimoniato anche da uno dei professionisti che conosce bene la
vita quotidiana del condominio:
Quando loro hanno acquistato gli appartamenti ovviamente essendo proprietari sono loro che hanno interesse a tenerlo bene, a comprare la lavatrice nuova.
È di interesse personale, se la tengono loro. Iniziano a dire: “Questa non sarà una
situazione di passaggio, momentanea, questa sicuramente sarà una situazione
che ne trarrò per parecchi anni finché sarò in Italia”. Dunque è diventato loro
prevalentemente l’interesse. Avvocato, f, italiana, non residente
Per questi nuovi nuclei di proprietari, l’Hotel House smette di essere un
rifugio temporaneo per diventare una normale “casa e nient’altro” :
L’Hotel House è un posto dove vivono tutte persone normali; secondo me l’Hotel
House è come tanti altri palazzi, è uguale. Non so perché l’Hotel House è così
famoso, non so per quale motivo tutti ne parlano. È diventato famoso per l’altezza? Per la grossezza? Per qualche altra cosa non lo so. Per l’altezza va bene, per la
grandezza pure va bene, però per l’altra cosa… Adesso come lo vedi a casa mia?
Silenzio! Per me è una casa, per me è una casa, non è niente altro […] Siamo
entrati qui cinque o sei persone, dopo piano piano siamo aumentati. Oggi siamo
quasi duecento, ci sono famiglie, ci sono i bambini, minori, ci sono una quarantina di appartamenti che si sono comprati. Sono tanti. Allora per me io voglio
essere qui contento con un piccolo spazio, voglio fare una vita mia tranquilla,
felice in questa parte. Ali, m, 1969, bangladese, residente
89
Questo senso del luogo si scontra prepotentemente con quello della
minoranza dedita al piccolo traffico di droga, intenta a soddisfare una parte
della domanda di sostanze illegali proveniente dalla città di Porto Recanati e
dalle aree circostanti. Parafrasando Ballard (2003), potremmo chiamarli i “dominatori della notte” e dei “giochi notturni”. Questi soggetti si sono raccolti
per molti anni soprattutto intorno al “bar di Youssef e Samir”, rimasto aperto
dal 2003 al 2006. Inizialmente doveva essere una sorta di sala da tè che non
vendeva alcolici ma si è trasformato rapidamente nel luogo che accoglie
gran parte dei “devianti” del condominio: tossicodipendenti e piccoli spacciatori ma anche molti dei consumatori di alcool e delle persone che amano
giocare a carte e scommettere. Il bar è diventato il luogo più stigmatizzato
dell’intero residence per le persone che vi circolano e per gli orari e i rumori
che da lì provengono: il locale più vivo dell’intera struttura, spesso affollato,
aperto fino a notte fonda e a volte teatro di liti furibonde:
Questo è un bar che la gente entra avanti e indietro. Uno spacciatore può entrare
lì, giocare a carte, arriva il cliente, esce fuori, gli dà la roba. Il proprietario non può
dire niente. L’unico appoggio è quello lì, venivano tutti, sta seduto, prende una
birra, aspetta lì un paio d’ore che passa lo spacciatore, capito? Stanno sempre lì,
capito? Aspettano lì. Gli serve un appoggio, stai lì, ordini un caffè e stai lì seduto
e vedi che arrivano i clienti. Si vedono gli italiani che entrano qua, prendono la
roba e vanno via. Ce ne stanno tanti sì. Che quando entra un italiano qua, è solo
per la droga, non è che viene qua per visitare l’House! Abderrahim, m, 1970,
marocchino, esercente non residente
Il bar del marocchino non lo frequento, non c’entro per niente perché è gente
ancora che non ha capito niente, fatto di delinquenza, non è gente pulita […] Il
bar ha il giardino davanti, tu bevi, butti davanti, pisci davanti, mangi qui, pisci
davanti, che razza. La gente che frequenta quel posto lì è proprio gente sporca.
Certo, se no che ci vai a fare in un locale così… tante volte ci ha creato problemi
sull’orario di chiusura, alle tre, alle quattro, alle sette del mattino addirittura. Un
casino. Quello che abita sopra è un paesano mio, un tunisino, ha lasciato l’appartamento in affitto, se n’è andato proprio perché non ne poteva più. La moglie
pure si è stufata non poteva neppure affacciarsi dal balcone. Chi bestemmia, chi
strilla, chi quello, chi quell’altro! Saber, m, 1963, tunisino, residente
Il bar di Youssef e Samir si trova in una posizione relativamente marginale
e defilata e si presta perciò sia a nascondere attività, sia ad essere luogo
da marginalizzare. Secondo diversi residenti, sembra addirittura dare vita ad
una sorta di alone che contaminerebbe gli spazi circostanti. Queste sono,
per esempio, le parole di Saber:
Quel negozio lì vicino non lavora più. Si trova dopo il bar dove ci sta il marocchino. Non ci va nessuno perché c’è da passare dalla delinquenza. Io per esempio
ho detto a mia moglie, non passare mai neanche se quel giorno lì non mangio.
Magari ti passa una bottiglia in testa! Saber, m, 1963, tunisino, residente
Ancor più significativo è il fatto che il barbiere marocchino che aveva
l’entrata proprio accanto al bar ha addirittura deciso di chiuderla per aprirla
sul lato opposto, vale a dire nella zona dell’ex-pista di pattinaggio e della
90
|capitolo 4|
moschea. Lo spazio intorno al bar sembra ormai inevitabilmente “contaminato”.
La parte degli abitanti dell’Hotel House che si stanno radicando con le
proprie famiglie, per schivare lo stigma che colpisce il loro habitat, ha dato
il via ad una lunga catena di imprecazioni contro questa minoranza interna (Mantovani e Saint-Raymond 1984), considerata dannosa e undeserving
(Katz 1989), unica responsabile della cattiva reputazione del luogo. Questi
due differenti sensi del luogo coesistono in tempi e spazi diversi e con una
forza diversa. Due mondi che si toccano, si intersecano e interagiscono (e
che convivono a volte anche negli stessi soggetti). La compresenza di diverse territorialità si è così radicalizzata sempre di più fino a sfociare in una vera
e propria battaglia per gli spazi.
Il culmine di questa contrapposizione si è avuto con la nascita del comitato Hotel House, che ha aperto una fase di mobilitazione. La mattina del
26 gennaio 2005 quasi 100 abitanti del condominio accorsi con tre autobus
diedero vita a una manifestazione di protesta davanti alla Prefettura di Macerata (Img. 4.1 e 4.2). Lo scopo della manifestazione era quello di far sentire la propria voce alle autorità per chiedere maggior presenza delle forze
dell’ordine contro la minoranza deviante oltre che, più in generale, di essere
considerati come parte integrante della città. Queste sono le testimonianze
di alcuni dei protagonisti della mobilitazione:
Noi vogliamo la tranquillità; che questa gente vada un po’ a farsi impiccare altrove, insomma. Ci siamo scocciati e anche tanto. Il fatto è che l’Hotel House per
anni non è stato considerato un luogo da difendere, questa è la verità, l’abbiamo
capito. L’autorità può essere stata anche obiettivamente nella condizione di valutare a freddo che in fondo essendo qui presente una certa sacca consistente di
delinquenza, anche stando alle opinioni espresse con troppa facilità, fosse opportuno lasciarne operare degli altri. Adesso però si paga questo ristagno, perché
dopo che si sono stratificate queste presenze e non è poi così facile sradicarle.
Però bisogna andarci giù abbastanza decisi. Noi non è che possiamo fare più
di tanto, però insomma dovevamo presentare la nostra, rappresentare a chi di
dovere. Antonio, m, 1940, italiano, residente
Vogliamo migliorare la vita, migliorare la situazione, migliorare il rapporto tra i
cittadini di Porto Recanati e l’Hotel House, migliorare i servizi. Secondo me quello
che è diventato più importante è la sicurezza. E come? Come sono tranquilli i
cittadini portorecanatesi. Poi ci sono anche altre cose da migliorare come il rapporto con i cittadini di Porto Recanati, diciamo interculturale… perché bisogna
avere anche il dialogo con la gente di Porto Recanati. Ali, m, 1969, bangladese,
residente
Io abito qui, sono spostato, ho la famiglia, ho due bambini, uno di 11, uno di 6
anni e quindi ci tengo al posto. Abitare all’Hotel House deve diventare un bigliettino da visita. Io mi batterò fino all’ultimo perché ho comprato l’appartamento
con i sacrifici e non intendo svenderlo oppure affittarlo e andar via. Sono uno dei
tanti che si stanno battendo per far sì che la gente deve capire, deve venire a vedere cosa c’è. Perché tanta gente non vuol venir a verificare di persona e fa come
quelli che: “Ti piace questa cosa?” “No.” “Ma l’hai mangiata?” “No.” “Allora come
fai a dire?”. La gente deve venire a vedere la realtà quella che è. Noi ci stiamo bat-
91
4.1. La manifestazione del comitato H.H. davanti alla Prefettura (2005)
4.2. La manifestazione
tendo. Domani abbiamo due riunioni, un comitato interno. C’è una delegazione
che andrà dal prefetto. Ma io dico che se noi non facciamo capire alle persone…
la persona qui non viene perché qui manca l’ordine pubblico e la sicurezza, noi
allora andiamo a manifestare. Noi andiamo a manifestare perché vogliamo l’ordine pubblico e la sicurezza. Michele, m, 1963, italiano, portiere, residente
Uno dei principali attori locali di questa mobilitazione è stata la moschea, che ha agito come vero e proprio corpo intermedio. A questo proposito significative sono le parole di Khalid, gestore di tre esercizi commerciali
al piano terra e frequentatore assiduo della moschea, che ha sottolineato
come tale mobilitazione abbia avuto anche lo scopo di preservare l’immagine della moschea stessa:
Qui c’è una moschea, persone che vanno tutte a pregare. C’era paura che queste
cose vanno a finire sul giornale e siamo noi che dobbiamo intervenire per fare
una cosa del genere, per salvare i nostri diritti, le nostre famiglie, i nostri figli e
anche soprattutto per la moschea. Perché qui c’è la moschea e da fuori possono
pensare: “Sono tutti uguali, lì c’è la moschea, lì c’è droga!” Khalid, m, 1967, pakistano, esercente non residente
La manifestazione ha avuto anche un’importante eco nei mass-media
locali ed è stata una delle prime occasioni in cui la stampa locale ha dato
voce ad alcuni residenti.
Corriere Adriatico del 25.01.2005
Hotel House, segnali di pace
PORTO RECANATI. Dopo l’annuncio della costituzione di un comitato permanente
all’Hotel House per le questioni più urgenti, e dopo il concomitante annuncio di un
sit-in a Macerata davanti alla Prefettura, c’è stato un incontro tra le autorità provinciali, il sindaco di Porto Recanati Glauco Fabbracci e gli amministratori del maxi condominio. Nel dettaglio, non si sa esattamente che cosa sia successo, ma abbiamo
potuto notare un certa soddisfazione da parte di alcuni dei presenti, non ultimi gli
amministratori dello stesso Hotel House. Ma da qui a dire che tutto sia risolto, sarebbe una bugia sesquipedale. Più che altro sono state avanzate proposte e suggerimenti, e da qui si dovrà partire per trovare la soluzione più idonea a un problema
che rischia di incancrenirsi. Si pensa, oltre che a un controllo più minuzioso da parte
della forza pubblica, all’incentivazione di attività a carattere sociale, commerciale, religioso, sportivo, etc., che dovrebbero dare una risposta di tipo culturale alle esigenze
globali dell’Hotel House. Palazzone dove vivono oltre 2.000 persone. La risposta “militare” sembra essere già in atto, visto che venerdì scorso abbiamo notato sul territorio
diversi posti di blocco – polizia e carabinieri – proprio in prossimità del residence. Nel
frattempo, nonostante i buoni propositi emersi dall’incontro, è stato confermato il
sit-in di sabato prossimo davanti alla sede della Prefettura di Macerata. “Prendiamo
atto di quanto si è detto – afferma […] uno dei promotori della manifestazione – ma
noi dobbiamo comunque andare avanti per la nostra strada perché appaia ancora più netta la nostra determinazione. Siamo fortemente compatti, italiani ed extra
comunitari, perché qui non è il caso di speculare sulle differenze di nazionalità: tutti
abbiamo un unico scopo, che è quello di vivere finalmente in un ambiente civile dove
non siano a rischio l’incolumità e la dignità dell’uomo. È vero che la quasi totalità
94
|capitolo 4|
degli inquilini dell’Hotel House è gente per bene, ma ci vuol poco per rendere una
esistenza altrimenti normale in un inferno. Nella manifestazione avremo l’appoggio incondizionato di tutti gli operatori commerciali del luogo, attualmente forse i
più esposti e a rischio, che sabato terranno i negozi chiusi per tutta la giornata. Ma
speriamo di avere anche quella del vostro giornale, al quale dobbiamo dare atto di
una sensibilità nei confronti di questo problema che non può che farci piacere ed
agevolarci nella richiesta di tutela dei nostri sacrosanti diritti. Ci aspettiamo quindi di
avere soddisfazione non solo in termini di prevenzione e controllo, ma bensì anche
in termini di organizzazione della vita sociale nella sua più ampia accezione”. Aurelio
Bufalari.
Corriere Adriatico del 27.01.2005
Il Comitato dei residenti spiega le ragioni della protesta
PORTO RECANATI. All’Hotel House rispetto a qualche mese fa qualcosa, forse addirittura molto è cambiato. C’è più ordine nell’aspetto esterno, più calma, più pulizia,
più decoro, più… vivibilità. Allora, si dirà, perché tutto questo baccagliare attorno
alle sue sorti? La risposta ce l’ha data ieri sera il comitato promotore del sit-in davanti
alla Prefettura di Macerata. “La nostra iniziativa non muove dalla disperazione o da
presupposti catastrofistici, né da pregiudizi strumentali magari di ordine politico, ma
bensì dalla presa di coscienza che l’Hotel House è un paese di gente civile e per bene,
la quale si sta facendo largo a forza di braccia per non veder compromesso tutto il
suo slancio verso la dignità della propria vita sociale a causa di qualche sacca di
marginalità. Per questo, il sit-in non ha carattere rivendicativo, né tanto meno protestatario, ma è uno strumento in più per affermare la nostra determinazione nel
perseguire gli obiettivi che ci siamo prefissi durante tutti questi anni, durante i quali,
pur se non molto, qualcosa abbiamo realizzato”. Ora, la manifestazione si muove
su un doppio binario ma con un’unica strategia: quella della vita normale. Il doppio
binario, dicevamo, è quello dell’ordine pubblico da una parte e quello della socialità
dall’altra. Per l’ordine pubblico si chiede di dare più sicurezza ai residenti nelle loro
reciproche relazioni, senza il timore di imbattersi in un qualche spacciatore e simili
– i quali per altro e per lo più arrivano da fuori città – o il rischio di cadere inopinatamente in un qualche blitz delle forze dell’ordine. Senza poi parlare di quell’aura di
diffusa diffidenza, di sospetto e di omertà che finisce per coinvolgere ogni coabitante
dell’House. Per quel che riguarda la socialità, invece, la palla passa all’Amministrazione la quale dovrebbe predisporre strutture e servizi tali da rendere questa “città ai
margini della città” un luogo vivibile a tutti gli effetti. L’House, in poche parole, dovrebbe essere capace di integrarsi nel tessuto sociale del paese mediante strutture
proprie attraverso le quali creare quell’humus socio-culturale che dovrebbe servire da
alimento per nuove iniziative interculturali finalizzate all’integrazione. “D’altronde,
dice [X], i nostri figli sono di nazionalità italiana e non penso che in una qualsiasi altra parte d’Italia si accetterebbe di vedere i propri connazionali vivere nella marginalità. Con tutto ciò, devo ammettere anch’io che ultimamente le cose sono migliorate,
e proprio questo miglioramento fa sì che piuttosto che scappare abbiamo intrapreso
la strada del manifestare, senza polemiche e senza secondi fini.” […] Aurelio Bufalari.
La peculiarità che ha contraddistinto l’esperienza della manifestazione
e, più in generale, del comitato è ben rappresentata dal fatto che in mez-
95
zo a tantissimi immigrati ha sfilato davanti alla Prefettura anche Rossana, la
signora iscritta alla Lega Nord (Cap. 3). A questa manifestazione sono poi
seguite altre piccole iniziative collettive e incontri istituzionali che hanno
comportato, tra le altre cose, una serie di pressioni sulle autorità locali. Le
forze dell’ordine sono di conseguenza giunte a predisporre la chiusura del
bar di Youssef e Samir, prima per quindici giorni, poi per tre mesi e, in seguito, in via definitiva, grazie alla scoperta di un “originale” metodo per spacciare la cocaina praticato all’interno dell’esercizio. Questo è il racconto di un
giornale locale:
Corriere Adriatico del 18.05.2006
Violenze e droga, il questore chiude un bar
PORTO RECANATI. Un gesto per prevenire situazioni di pericolosità sociale o atti di
microcriminalità: da questa esigenza, infatti muove il provvedimento della Questura
che ha disposto la chiusura di un locale pubblico. Dopo vari episodi di violenza e soprattutto di attività illecite legate al mondo della droga che sarebbero avvenuti all’interno, nelle vicinanze e nelle pertinenze del Bar […], un pubblico esercizio che opera
nel complesso dell’Hotel House di Porto Recanati, il nuovo Questore della Provincia,
Paolo Passamonti, ha disposto la chiusura del locale per quindici giorni. Si diceva
di un provvedimento tendente a prevenire azioni illegali, ma non soltanto: “questo,
infatti, potrebbe essere propedeutico ad altre misure più cospicue, qualora – spiega
la Questura – perdurasse all’interno del locale, una volta riaperto, la presenza di pregiudicati ed atti di violenza. Il decreto che ha disposto la chiusura del locale, il primo
nella provincia, è stato eseguito nella serata dell’altro ieri da personale della prima
e seconda Sezione della Squadra Mobile e da quello delle Volanti. Il provvedimento
– spiega ancora la Questura – si è reso necessario per ridare tranquillità e maggiore
sicurezza alla popolazione del posto, che da tempo mal sopporta azioni di intolleranza e di microcriminalità che attentano al libero e tranquillo svolgimento delle
attività”. Un particolare curioso: all’atto della chiusura del locale, non poche persone
che alloggiano nella struttura dell’Hotel House sono scese in strada a dimostrare la
propria gratitudine ed il ringraziamento al personale della Polizia di Stato, segno di
un evidente stato di disagio dei residenti e di una difficile convivenza […]
L’esperienza del comitato ha mostrato un consolidamento, seppur fragile, di una sorta di identità costruita in contrapposizione all’esterno e alla
minoranza interna. Una piccola materializzazione di questa identità è stata
la produzione di una serie di magliette con il logo “H.H.”, create dal portiere
storico Michele.
Questa vicenda ha fatto emergere chiaramente come abbia finito per
contare di più essere padre di famiglia1 o condividere uno specifico senso
del luogo che non, per esempio, essere maghrebino o italiano. Si è creata,
cioè, una forma di aggregazione interculturale fondata su una positiva
identità territoriale, come è avvenuto anche in altri contesti eterogenei dal
punto di vista nazionale caratterizzati da forti processi di stigmatizzazione
1 Sull’importanza del ciclo di vita e della condizione genitoriale come meccanismo
di identificazione che facilita le interazioni interculturali si veda Hipp e Perrin (2009).
96
|capitolo 4|
(Koutrolikou 2012). Un “fare comunità” senza omogeneità (Young 1990;
hooks 2003).
I confini sociali possono assumere una significativa fluidità e contingenza (Saint-Blancat 2008), in quanto si costruiscono situazionalmente attraverso assi di differenza mobili e interconnessi. La natura contestuale e fluida dei
confini sociali è stata analizzata attraverso celebri lavori antropologici come
lo studio di Mitchell (1976) sulla danza kalela nelle città africane durante il
colonialismo, che ha messo in luce come siano le risorse e i vincoli disponibili nei contesti della vita quotidiana a far emergere una specifica differenza
e/o ad aprire degli spazi dialogici e potenzialmente trasformativi.
La vicenda del comitato è stata, inoltre, esemplare per comprendere
come gli attori sociali non siano “vittime” o meri recettori passivi di processi esterni (Bourgois 1996): esistono, infatti, delle risorse endogene latenti
che possono essere mobilitate per aprire spazi per il cambiamento (VélezIbáñez 1983) e combattere contro la riproduzione quotidiana di quelli che
Wacquant (2008) ha chiamato i “rituali di marginalità”. All’Hotel House è stato
possibile costruire una positiva identità territoriale trasformando i discorsi
stigmatizzanti subìti in discorsi demotici, in risorse per l’azione (Baumann
1996; Gotham e Brumley 2002). L’appartenenza territoriale è stata supportata dalla condivisione di una condizione marginale e stigmatizzata (Toubon e Messamah 1990; Wacquant 2007) perché in un certo senso tutti gli
abitanti si trovano oggettivamente “sulla stessa barca” a causa del proprio
luogo d’insediamento e, in gran parte dei casi, anche della propria origine
nazionale e della propria classe sociale.
In ogni caso, se è vero che vi è stata una fase di mobilitazione di grande
rilievo, è altrettanto vero che si è trattato, come avviene sempre in queste
forme di partecipazione, di una piccola minoranza di condòmini. A questo proposito Small (2004) ha parlato di “fenomeno 95/5” intendendo che
un’ampia gamma delle attività di mobilitazione (il 95%), è portata avanti da
una ristretta minoranza (appunto il 5%). Ma, soprattutto, la fase di sostegno
e di supporto istituzionale è durata molto poco. Tanto che con il passare del
tempo, anche a causa dell’inevitabile riflusso della mobilitazione, è finito
per prevalere un senso di disillusione degli abitanti sul reale interesse delle
istituzioni a voler interrompere l’isolamento sociale del condominio, come
emerge dalle testimonianze di qualche tempo dopo:
Non so se hanno fatto finta d’aiutare ma si sono mossi per una settimana, dieci
giorni, sì è vero sono venuti, hanno controllato, andare su e giù per un giorno,
due, tre. Per un mese l’Hotel House è stato come se fosse un ospedale, tutti zitti,
calmi, buoni. Adesso da dieci giorni, i topi sono cominciati a tornare, è cominciato qualcuno a farsi vedere. Perché quando abbiamo fatto la manifestazione,
sono stati due mesi proprio silenzio, notte e sera. Poi i problemi sono cominciati
a tornare, qui di notte i topi in giro sono loro… I carabinieri adesso vengono un
giorno sì, un giorno no, mi pare, con il furgone si fermano lì nel piazzale. Chi vuoi
che passi lì davanti, chi stai a prendere per il culo? Non capisco proprio perché; la
legge è stupida o chi l’ha messa è stupido. La gente non credo che sia stupida, la
gente che capisce c’è! Saber, m, 1963, tunisino, residente
Come messo in luce da Small (2004) con riferimento al quartiere Villa
97
Victoria a Boston, se la partecipazione non è supportata non dura. Il possibile consolidamento del nuovo Hotel House si è rivelato così una grande
occasione persa, sfociata nella perdita di status sociale dei promotori della partecipazione e nel rafforzamento di un’identità reattiva nei confronti
dell’esterno. Infatti l’attaccamento al luogo, se non è colto come occasione
per essere integrato nella città nel suo complesso, rischia di non favorire
altro che il rafforzamento di un’enclave chiusa nei confronti dell’esterno.
L’esperienza del comitato mostra con evidenza come l’Hotel House non
sia un contesto inerte. Al contrario, esso è un territorio con risorse e limiti contestuali che si intrecciano creando spazi di mutamento che possono
portare a scenari completamente differenti tra loro (sulla ricchezza e l’ambivalenza delle risorse locali dei quartieri marginali, si veda il bellissimo lavoro
comparato di Sanchez-Jankowski 2008). Gli attori e i fattori del cambiamento o, al contrario, della conservazione della marginalità sono impegnati in
una battaglia quotidiana che attribuisce vittorie e sconfitte situate. Vedremo
ora come siano soprattutto i fattori esterni a poter incidere sull’esito di queste battaglie; ad essere cioè fattori costitutivi.
Stigma e abbandono. Gli “esterni costitutivi”
L’Hotel House è sempre stato un luogo di passaggio, un luogo al di là del fiume Potenza dove non si sapeva cosa succedeva e chi ci passava. L’urbanistica e l’architettura del condominio facilitano questa rappresentazione dato
che il condominio sembra incombere sulla città come a ricordare agli abitanti che il pericolo è alle porte ma che allo stesso tempo resta lì confinato.
Questo luogo di concentrazione degli immigrati, nettamente separato dal resto della città, è diventato nel tempo un contenitore (nel duplice
senso della parola) ideale delle paure, delle aporie, delle “distorsioni” della società locale. Esso sembra pur sempre inquietare molto meno e dare
meno fastidio rispetto alla “invasione” da parte della popolazione straniera
dei quartieri storici della città, degli esercizi commerciali, dei parchi cittadini
e delle piazze. Questa consapevolezza è chiara agli abitanti del condominio:
C’è un interesse forte da parte del Comune a tenere tutta questa gente qui inglobata, qui ammassata. Questo qui è un paese intero! Se si dovesse un attimo
propagare per tutta Porto Recanati, qui veramente sarebbe un’invasione! […]
Allora voglio dire, c’è tanta ipocrisia e in realtà fa comodo a tutti. Raffaella, f,
1985, italiana, residente
Il problema è che Porto Recanati è una città turistica quindi dev’essere tutta pulita e ripulita. Perciò tutto lo sporco va all’Hotel House: i carabinieri dicono proprio
andate a spacciare all’Hotel House! Achille, m, 1969, italiano, residente
La logica che sembra prevalere tra i cittadini di Porto Recanati è quella
del “loro stanno bene in periferia e noi stiamo bene al centro”:
Porto Recanati è una località costiera con uno sviluppo pazzesco, lei si figuri che
noi abbiamo raddoppiato la popolazione residente in circa nove anni, siamo
passati da 6.000 a circa 12.000 abitanti. Al di là degli stranieri è un paese a forte
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|capitolo 4|
immigrazione di persone provenienti dalla Puglia, provenienti dalla Sicilia, in generale dalle regioni meridionali. Pertanto c’è negli occhi del portorecanatese doc
che di fatto si dice non esiste più, c’è una certa diffidenza verso tutto quello che
è nuovo e chiaramente questo è aggravato nei confronti dello straniero. Da una
parte c’è questa titubanza, questo lasciare un attimo nel ghetto, tra virgolette,
questo tipo di popolazione. Io credo che le amministrazioni, ma un po’ tutta la
società civile, non solo le amministrazioni di Porto Recanati, hanno subito questo fenomeno. Per cui forse solo da un paio d’anni ci stiamo accorgendo a Porto
Recanati che circa 3.000 persone sono non comunitarie. È una mentalità che
esiste per cui la situazione è questa, loro stanno bene in periferia e noi stiamo
bene al centro. Responsabile dei servizi sociali del Comune di Porto Recanati
L’Hotel House ha cioè assunto il ruolo di “buco nero” dove far scomparire,
per quanto possibile, i “nemici” dalla società. Uno di “quei quartieri ‘caproespiatorio’ di cui ogni città ha bisogno” per dare un nome alle proprie paure
(Toubon e Messamah 1990: 465). Forse è proprio per questo che non si vede
alcuna reale volontà istituzionale di migliorare le condizioni di vita degli abitanti: se questo luogo venisse migliorato, infatti, forse perderebbe la propria
“funzione”. Gli unici limitati interventi si fanno in funzione del “centro” per
evitare che la rabbia, lo sporco, il degrado e la sofferenza arrivino sino alla
città (Colombo e Navarini 1999). Non a caso recentemente è stato commissionato dalla Prefettura di Macerata un frettoloso report di ricerca con
l’esplicito scopo di “contribuire ad individuare misure atte a circoscrivere e
controllare i fenomeni di degrado e di devianza che hanno luogo sistematicamente nel contesto”2: nessun proposito di migliorare le condizioni di vita
di chi abita l’Hotel House, solo un tentativo di impedire che i problemi degli
abitanti si propaghino fuori.
Da un lato quindi una città-fortezza relativamente pulita e sgombra
dall’alterità indesiderata, dall’altro un condominio sempre più percepito
come una discarica sociale.
Al pari di tanti ghetti, slums, inner-cities e banlieues, anche l’Hotel House è
assoggettato a potenti pratiche discorsive che mettono in atto un processo
di stigmatizzazione territoriale (Wacquant 1993): un discorso che sottolinea
la sporcizia e il disordine dei manufatti e che porta a definire questi luoghi
come aree “naturali” di micro-criminalità e di malaffare. La stigmatizzazione
territoriale comprende processi di produzione spaziale che dall’esterno incidono profondamente sui processi di costruzione spaziale interni (Phillips e
Karn 1992; Van Kempen e Özüekren 1998). Uno spazio, infatti, non è un semplice edificio ma è anche un’identità e un discorso (spaziale). Nessuno spazio è semplicemente un’entità data che precede le rappresentazioni, come
ci ricorda Deutsche (1996: 374); la sua identità è costituita e mantenuta attraverso relazioni discorsive. Considerare solo lo spazio materiale restringe il
campo della “realtà” e non permette di vedere la contestualità degli intrecci
tra pratiche, politiche e rappresentazioni spaziali.
Lo stigma quotidiano che subisce l’Hotel House diventa filtro percettivo
anche per i suoi abitanti. Questi, non a caso, criticano il proprio quartiere
non tanto perché non amano viverci, ma perché li stigmatizza limitandone
2 Il report è poi stato pubblicato in Zanier, Mattucci e Santoni (2011).
99
le possibilità di costruire relazioni con il contesto esterno. In questo senso
l’elenco di testimonianze dei residenti è lunghissimo quanto univoco:
Io l’altro giorno stavo nel corridoio, stavo spostando il letto dal secondo piano a
qui, ed è passata l’aiutante dell’assessore con un altro del Comune. Loro mi conoscono però non sapevano che abitavo all’House, e io li ho salutati. Si sono messi
attaccati al muro, gli ho detto: “Ciao” e quelli terrorizzati: “Ma tu che fai, abiti
qui?” “Sì, abito qui” e loro: “No, non ti ci avrei mai fatto!”. E perché, in che modo,
sono pregiudicata perché abito qui? Cioè è proprio una visione distorta! La gente
c’ha paura. Il fatto che io magari sono una persona che si interessa a tante cose,
non è possibile che vivo all’Hotel House perché lì sono tutti brutti, zozzi, cattivi,
negri! Raffaella, f, 1985, italiana, residente
La gente ha paura di andare all’Hotel House. Se tu dici Hotel House, la gente è
terrorizzata. Io sono andata un sacco di volte all’Hotel House, a me non è mai
successo niente. Uno dice: “Ah ma a te ti conoscono”…ma non è che dentro l’Hotel House la gente ti salta addosso […] Loro quando incontrano un datore di
lavoro o hanno un colloquio di lavoro non diranno mai che abitano all’Hotel
House perché comunque è talmente ghettizzata la forma mentis della zona che
loro dicono: “Abito in via Marconi”. In modo tale da non essere considerati bollati.
Una volta addirittura è morto un senegalese, un mio cliente, perché il pronto soccorso non è intervenuto, l’ambulanza non l’hanno mandata perché era all’Hotel
House. La giustificazione loro era: “noi abbiamo paura”. Aveva attacchi d’asma
ad un certo punto non ha respirato più, è morto, lui è morto, a 33 anni. Sono
arrivati dopo un’ora e mezza, sono rimasti fuori, non sono entrati. Perché avete
paura quando è un’ora e mezza che vi chiamano tutti i senegalesi del palazzo,
che dicono che quello stava per morire? Come vuoi che si senta uno straniero, si
sente bene? “Non mi sento certo integrato, se non posso neanche essere tutelato
se mi prende un colpo”. Avvocato, f, italiana, non residente
Non si sa perché ma gli abitanti hanno un’idea proprio nera sull’Hotel House.
Alcuni lo conoscono e vengono qui, dottori, ingegneri, architetti, gente che viene
qui, tranquilli, non ci sono problemi. E gli altri: “Tu come fai ad andare, tu come
fai ad entrare?”. Quell’idea lì fa il distacco, il distacco perché si sente, si vede. Per
esempio io che ho tantissimi contatti con la gente, ci vado a lavorare, ci vado a
comperare il materiale per la mia ditta, da Osimo a Recanati, mi dicono: “L’Hotel
House, eh? Ma come si sta?” “Si sta benissimo!”, rispondo. “Si sta benissimo, c’è
una bella vista sul mare, il mare è bellino, si va al mare senza traffico. Si sta bene”
Nader, m, 1963, tunisino, residente
Significativo al proposito è un dialogo a cui ho assistito, tra due anziani
italiani del condominio; Giovanni e Rosaria, storica residente e madre del
portiere Michele:
Rosaria (R) [arrabbiata]: Stanno a parlare tutti i giorni di questa cosa: Hotel House, Hotel House, Hotel House. È sempre la stessa cosa. A me dà fastidio. Io non vedo…,
io ci sto tanto bene…
Giovanni (G): Il giornale, la televisione, il comune battono tutti nella stessa direzione: è questo il guaio. Io se posso evitare di dire che sto all’Hotel House evito. Se
riesco a trovare la scorciatoia per girare al largo non lo dico. Parlo di zona, lì… cerco
di mischiare le carte. Non vorrei che quello mi risponde: “Come? All’Hotel House?”.
Guardi è vergognoso. È il discorso che abbiamo fatto l’altra sera. “Dove abiti?”, “All’Ho-
100
|capitolo 4|
tel House? Per l’amor di Dio! Non lo potevi dire prima?” Mi dicono: “Tu dici bugie”‘. Se
inizio una discussione non ne esco più. Perché tutti sono da quella parte lì, ci sono
solo io che sono da questa parte. Quante volte mi sono detto: “Sta calmo, conta fino
a dieci e poi ricomincia”.
R: Vendere l’appartamento per quattro soldi, io ho detto che piuttosto me lo brucio! Ma la soddisfazione di regalarlo non gliela dò. Io sono arrivata qua ero giovane
e resto qui!
G: Io sono sincero; io qui sto bene, però mi dà fastidio che se vado fuori e dico che
abito all’Hotel House sono considerato immediatamente un infame. Io allora dico:
abito a Porto Recanati.
R: Io una volta ad una che mi ha detto: “Ma all’Hotel House ci sono tutte puttane!”, “La prima puttana sei tu! Non ti permettere più!” le ho risposto.
G: Io la cosa che mi dà veramente fastidio, è che ci hanno marchiati. Io per fortuna non ho moglie, figli nessuno. Quando ho finito io finito tutti, però se tu vai fuori conosci una persona: “Se vieni da me facciamo due chiacchiere”, quello quando
viene fino a qua torna indietro! Non gli puoi spiegare; quello che vede, vede. Io ero
all’ospedale per sei mesi, ci ho messo tre mesi lì dentro per costruire la mia immagine
dopo che gli ho detto che abito all’Hotel House! Quello che prima non credevo così
grave, l’ho toccato con mano.
Allo stigma quotidiano si aggiunge l’abbandono istituzionale. L’inazione
delle istituzioni è stata molto spesso giustificata proprio dalla natura privata
della struttura condominiale. Il fatto che, però, un condominio privato dove
abita un quinto degli abitanti dell’intera città non sia considerato territorio dove applicare le politiche pubbliche evidenzia la forte contraddizione
fra pubblico, privato e bene comune e la necessità di un profondo ripensamento sulle competenze e sugli interessi pubblici, sui limiti ed i confini
dell’azione pubblica.
In ogni caso alla base del laissez-faire istituzionale, più che la natura giuridica della proprietà sta la questione della cittadinanza, cioè il fatto che il luogo è abitato in gran parte da soggetti che non hanno diritto di voto, come è
stato sottolineato anche da uno degli amministratori del condominio:
A livello di tasse comunali loro le devono pagare come le pagano tutti gli altri e
considerato che quella realtà è pari al 15% dei residenti porto recanatesi è una
realtà importante. E considerarla a livello di spese di attenzione all’urbanistica,
piuttosto che ai servizi sociali è una spesa sicuramente minore del 15% se non
pari a zero…anche come tempo dedicato, come risorse come attenzione si capisce…non si può certamente dire che l’amministrazione porto recanatese faccia
un buon lavoro sotto questo punto di vista, perché queste persone non danno
un ritorno da un punto di vista elettorale. Sono pochissimi quelli hanno la possibilità di far pesare il proprio voto e sono tutti ancora con nazionalità estera e con
permessi di soggiorno rinnovabili di anno in anno e questo comporta il fatto che
non pesino. Quindi tutta quella massa di persone che vorrebbe ad esempio dei
servizi sociali dal Comune di Porto Recanati, forse viene considerata fino ad un
certo punto perché non ha il peso politico. Amministratore del condominio
dal 2003 al 2007, m, italiano, non residente
Non bisogna mai dimenticare quest’aspetto perché l’Italia, con una legge sulla cittadinanza così restrittiva, è diventato un Paese in cui milioni di
101
residenti non hanno diritto di voto (Zincone, a cura di, 2006). La debolezza
politica di questa parte crescente di abitanti è un fattore centrale alla base
dell’evoluzione dei luoghi di concentrazione dei migranti. Anche se, ovviamente, come è dimostrato dal caso francese, la questione non si esaurisce
certo con la concessione di una cittadinanza formale.
Le stesse forze dell’ordine contribuiscono più o meno indirettamente
a questo mix di stigmatizzazione sociale e abbandono istituzionale. Infatti
se si può dire che la vita quotidiana del residence è caratterizzata da una
sostanziale assenza di controllo, è altrettanto vero che periodicamente
polizia e/o carabinieri si rendono protagonisti di massicci blitz altamente
spettacolari. Si tratta di operazioni che vedono coinvolti anche più di 100
uomini e 30-40 volanti e i cui risultati sono generalmente piuttosto miseri
se paragonati alla mole di risorse messe in campo, come raccontato dal
signor Antonio:
Qui c’era prima una retata di fine anno, il grande blitz, molto spettacolare, portava degli arresti e delle epurazioni, poca roba. Fare un blitz una volta all’anno
è sintomo di una mancanza di controllo per i rimanenti dodici mesi. E poi lì si
aveva di mira la clandestinità che è un grande problema, ma non è certo l’unico
e non è quello che ci assilla di più! Antonio, m, 1940, italiano, residente
Invece di fare un lavoro quotidiano, che sarebbe più efficace, sembrano
prevalere operazioni “simboliche” volte a rassicurare i cittadini portorecanatesi, più che a smantellare l’illegalità:
Quando le forze dell’ordine ogni tanto decidono: “Oggi facciamo la retata all’Hotel House”. Arrivano prima i giornalisti, poi le tv, poi arrivano i carabinieri! Michele, m, 1963, italiano, residente
Blitz del genere, con perquisizioni negli appartamenti del condominio
alle cinque di mattina, danno vita ad una politica di sicurezza che assume
i connotati di uno “stato di eccezione” (Agamben 2003), ovvero ad una sospensione temporanea dei diritti giustificata dall’emergenza di un pericolo,
di una minaccia (Alietti 2012). Si creano così aree dove “la legge generale è
parzialmente sospesa e viene applicato un diverso set di regole amministrative” (Stavrides 2011: 35).
Questi interventi hanno come unico esito certo quello di rendere ancora più difficile la vita quotidiana dei condomini. La presenza schizofrenica
delle istituzioni insieme alla forte stigmatizzazione sociale quotidiana fa sì
che una parte importante della popolazione migrante si senta “bloccata”
all’interno del condominio:
Nei Paesi europei gli immigrati lavoratori non vivono così. Sono stato in Francia
ho visto la gente com’è. Ci stanno i mercati proprio di loro, i mercati grossi. Ci
stanno i negozi, stranieri che lavorano dentro il mercato a fare la cassa. Qui tu
hai visto mai uno straniero alla cassa? Hai visto mai uno straniero che ha uno
studio? Uno studio medico, uno studio legale? In Francia ci stanno. Perché i francesi sono più aperti degli italiani? Non credo. Più sviluppati degli italiani? Io che
vedo gli stranieri come sono messi lì, il dottor Zakaria, tunisino, l’avvocato come
si chiama Amiri, un tunisino. La differenza è che tu qui mi blocchi all’Hotel House:
102
|capitolo 4|
“Stai attento questo è uno straniero, questo può darsi che…questo può darsi che
la sua moglie è una prostituta!” Nader, m, 1963, tunisino, residente
L’Hotel House più che un ghetto inteso come zona degradata e priva di
organizzazione sociale al suo interno, appare, dunque, come un territorio
ghettizzato nel senso analizzato da Gans (2008). Infatti se la conformazione
urbanistica e demografica gioca un ruolo nella separazione dell’Hotel House dal resto della città, assistiamo ad una marginalizzazione che è anche
sociale e politica.
Musterd (2008) ha recentemente sostenuto come non sia il luogo di
concentrazione in sé a creare inevitabili difficoltà: gli effetti negativi di concentrazione di questi territori abitati da minoranze povere sono fortemente
ridotti (anche se non assenti) in contesti di welfare state maturo come la
Svezia. Tutto questo appare confermato dal nostro caso: la concentrazione
residenziale ha permesso di creare capitale spaziale e sociale, ancorché ambivalente; mentre sono stati soprattutto gli esterni costitutivi, in particolare
gli attori istituzionali, a favorire il degrado della zona e a far prevalere chi usa
il condominio come vuoto urbano, invece di rafforzare le mille potenzialità
del luogo.
All’Hotel House le pratiche messe in atto da istituzioni locali, proprietari immobiliari e mass-media hanno favorito l’equiparazione del luogo a
una sorta di zona franca, interstiziale o di scarto (Avenel 2004), ideale per
attrarre e concentrare soggetti intenti ad affermare una logica ‘predatoria’
e strumentale. Non a caso molti dei condòmini hanno spesso sottolineato
come gran parte dei problemi sarebbero causati da soggetti esterni che
usano il luogo e lo frequentano solo di passaggio. Sembra quasi riprodursi la
percezione che i portorecanatesi hanno nei confronti dell’Hotel House, cioè
quella che il “male” proviene da fuori (Cancellieri 2008). A conferma di ciò è
sufficiente ascoltare le parole di alcuni residenti:
Qua mano a mano è diventato sempre peggio, soprattutto, e qui è incontestabile, per via degli extracomunitari maghrebini in genere che hanno portato droga,
che portano di tutto. Ma non tanto quelli che abitano qua, ma quelli che vengono da fuori, per spacciare perché qui è un posto dov’è più facile nascondersi. Ha
tanti sbocchi di conseguenza è più facile nascondersi. Rossana, f, 1935, italiana,
residente
Questi guastatori, nella stragrande maggioranza sono persone che vengono da
fuori, questi spacciatori. Quelli che danno un’immagine negativa dell’Hotel House, sono persone che vengono da fuori. Hanno qualche raccordo, hanno un amico qui, vengono a trovare un amico e poi si mettono a fare degli sgarri. Diop, m,
1963, senegalese, mediatore culturale
Un luogo come l’Hotel House, dove è più facile che altrove violare la
legge e non essere sanzionati, diventa dunque un luogo ideale anche per
i portorecanatesi per soddisfare la propria domanda di merci illegali. La separazione tra “città legittima” e “città illegittima” è solo fittizia, poiché la città
legittima evoca continuamente quella illegittima, come una minaccia continuamente incombente anche se quest’ultima rimane sempre senza voce
103
(Dal Lago e Quadrelli 2003). Come scrive anche Scandurra (2008: 168), “la
prima città che colpevolizza la seconda ricorre ad essa per un gran numero
di servizi o prestazioni, da quelli ‘sconci’ – droga e prostituzione – a quelli
‘etici’: lavoro precario e a basso controllo”. I residenti sono ben consapevoli
di questa situazione, tanto da ironizzarci sopra:
Se ognuno pensasse al futuro di suo figlio… è inutile che i genitori di Porto Recanati vengono a dire: “Oh perché lì all’Hotel House spacciano!”. “Tu controlla tuo
figlio!”, “Io da parte mia posso controllare qui quello che la vende, tu da parte tua
tu controlla tuo figlio! O magari il marito che sta a fare lì davanti all’Hotel House
nascosto dentro la macchina, che sta aspettando che passa qualcuna?” [risata].
Il figlio va a sniffare, il marito a cercare le donne, eh? [risata]. Saber, m, 1963,
tunisino, residente.
Qualche anno dopo: la caduta verticale
Una volta finito il mio primo lungo periodo di osservazione partecipante
sono tornato più volte all’Hotel House per salutare e ritrovare amici e conoscenti che mi avevano accompagnato per due anni nel mio lavoro quotidiano di ricerca. In questo modo ho cercato anche di rimanere aggiornato sulle evoluzioni del luogo. Ogni volta che tornavo vedevo la situazione
peggiorare. Nelle estati del 2009 e del 2012 ho deciso di prolungare i miei
soggiorni per poter meglio documentare le principali trasformazioni intervenute (vedi Appendice metodologica).
Nel 2009, il quadro emerso dal nuovo periodo di ricerca è stato univoco:
si erano concretizzati tutti i rischi sopra delineati ed erano venute meno
tante delle forze e potenzialità endogene del luogo. Innanzitutto i principali
soggetti che spingevano per il miglioramento e per l’integrazione dell’Hotel
House con il contesto circostante se ne erano andati uno ad uno, come
sconfitti.
Ali, uno dei motori delle proteste e dei portavoce della moschea, oltre
che uno dei personaggi più sensibili alla questione dell’integrazione con il
contesto italiano, era tornato in Bangladesh. Tanto che le sue parole di qualche anno prima, appaiono tristemente profetiche:
Me l’hanno detto tanti, che mi vogliono bene a me: “Lascialo quel palazzo, esci,
vai da un’altra parte perché lo sappiamo che tu sei una brava persona”. Però nessuno diceva: “Guarda, veniamo insieme con te, cerchiamo di migliorare qualcosa”, nessuno lo diceva. Perché se abbandoni tu, abbandona l’altro, dopo cosa
rimane qui? Niente, rimangono tutti gli spacciatori, drogati, ladri […] Se voi date
una mano possiamo fare un cambiamento totale. Io posso garantire che ce ne
sono tanti con voi, tanti, tanti con voi che vogliono partecipare. Però non lasciate
abbandonato questo palazzo, questo paese, questi bambini che sono qui. Ali,
m, 1969, bangladese, residente
Il signor Antonio non spende più il suo tempo a cercare di costruire reti
di sostegno, si è ritirato a vita privata. Continua ad amare a suo modo l’Hotel
House e almeno una parte dei suoi abitanti; infatti è diventato insegnante di
sostegno al pomeriggio per alcuni bambini senegalesi. Ma è come se si fos-
104
|capitolo 4|
se arreso e fosse andato in pensione per la seconda volta. Khalid è tornato
in Pakistan da alcuni anni, insieme alla moglie italiana, e torna solo un mese
all’anno. A gestire i propri negozi ha lasciato il padre e il fratello più piccolo.
Michele, il portiere storico, dopo quasi trent’anni ha lasciato il condominio:
“qui l’Hotel House è allo sbando completo”. Vi ha lasciato soltanto la madre,
le radici. Queste sono le motivazioni alla base della partenza, espresse dalle
parole della moglie di Michele che, più di lui, ha spinto per lasciare il condominio:
Con tutto questo casino che c’è; gli ascensori sono tutti rotti. C’è troppo giro qui
dentro; tutte le sere stanno qua davanti. Con i figli che c’ho… Il maschio ha
quindici anni, mi si era rovinato con certe compagnie. Quell’altro ha undici anni,
prima che gli va dietro… se eravamo soli non mi importava. L’altro giorno una
sparatoria. Non si sa dove è stata; chi dice qua dietro chi dice in portineria, non
si sa ma c’è stata! I controlli non ci vengono più; da quando è andato via mio
marito dalla portineria non ci è venuto più nessuno. Sono andate a fuoco otto
macchine, non si sa chi è stato perché hanno oscurato le telecamere di notte.
Guarda sono ancora nel parcheggio le carcasse bruciate. Ogni tanto ne succede
una! Marisa, f, 1967, italiana, ex-residente
Un chiaro indicatore di questa fase di decadimento del luogo è dato
dai valori degli appartamenti espressi dal mercato immobiliare: prima erano
crollati con l’arrivo dei primi immigrati, poi erano tornati a salire con l’arrivo
delle famiglie e l’acquisto da parte loro degli appartamenti, ora hanno raggiunto i minimi storici, tra i 25.000 e i 30.000 euro.
Ma Michele è soltanto uno dei tanti italiani che hanno abbandonato. I
vacanzieri sono sempre più rari; diversi anziani italiani sono morti e anche
chi è rimasto si sente “sconfitto”:
Gli italiani quanti siamo qui, saremo dieci famiglie. Forse neanche più. Metti pure
quattro, il resto sono tutti loro! Giovanni, m, 1933, italiano, residente
Non c’è più neppure il phone center di Mukthar e Rahman: un cancello
chiuso blocca la porta del piccolo locale (Img. 4.3). Gli affari non andavano più bene, mi ha raccontato Mukthar. Un fattore fondamentale in questa
evoluzione è stato la crisi economica. Ora, infatti, non c’è più l’abbondanza
di lavoro e molti si trovano in difficoltà economiche. Le frasi più ricorrenti
che mi vengono rivolte sono: “Il lavoro è un bel problema”; “Quanto dura questa crisi?”; “Meglio stare al mio Paese senza niente”. Emblematiche sono le insistenti domande di un amico pakistano, Akram, da diversi mesi disoccupato:
Tu sei italiano, tu capisci meglio tutto, ma come risolvere il problema della crisi? Troppa crisi, borse sempre cadute, crisi troppa crisi. Come aggiustare? Come
risolvere il problema, secondo te? Io non lo so…io voglio sapere come aggiustare…tu hai sentito telegiornali, libri, come aggiustiamo? Abbas, m, 1973,
pakistano, residente
Il quadro delineato da Rasul è ancora più eloquente:
Adesso il 90% non lavora, prima tutti lavoravano! Alla Mondialsole 2 c’erano almeno 60 senegalesi, alla Mondialsole più di 100 senegalesi. La prima è chiusa,
l’altra non prende più. Chi aveva il contratto a tempo indeterminato è andato
105
4.3. La chiusura delle attività commerciali
4.4. Gli ascensori in regime di funzionamento ridotto
in mobilità ma alla fine è stato licenziato. Adesso è dura, alcuni sono tornati a
casa, gli altri tutti in spiaggia a vendere… gli altri che non hanno permesso di
soggiorno devono stare qui e anche per il rinnovo ci vogliono i soldi. Rasul, m,
1976, senegalese, residente
Non a caso, molti bambini sono stati riportati nel Paese di origine, dando vita ad una immigrazione di ritorno che, da un lato, mette in difficoltà
soggetti che si ritrovano a crescere in un Paese che spesso non conoscono
affatto e, dall’altro, rischia di far tornare indietro di venti anni l’immigrazione
in Italia, invertendo la tendenza alla familizzazione che era stata la costante
degli ultimi anni.
Anche la vicenda degli amministratori del condominio è emblematica.
Se quattro amministratori si sono avvicendati nei primi trentasette anni di
vita del condominio (dal 1970 al 2007), altri quattro amministratori si sono
succeduti nei successivi quattro (dal 2007 al 2010). Se prima gli amministratori erano caratterizzati da una fase iniziale di promesse e qualche risultato raggiunto, seguita da pesanti accuse di malagestione delle risorse del
condominio, ora essi si limitano alla seconda fase e a passarsi il testimone
dopo pochi mesi. In particolare l’amministratore che ha gestito il condominio dal 2009 al 2011 sembra addirittura aver scelto di assecondare la caduta
del condominio, in qualche modo istituzionalizzandola, rinunciando a gran
parte dei servizi. Innanzitutto deliberando di non tenere più aperta la portineria 24 ore su 24 e licenziando, tra gli altri, Michele, lo storico portiere, sostituito non da veri portieri ma da alcuni condòmini morosi, che in tal modo
hanno potuto scontare i loro debiti. Questa discutibile sostituzione, insieme
a quella dei nuovi addetti alle pulizie è descritta, come sempre in maniera
icastica, dal signor Antonio:
La portineria com’è gestita? Non è gestita! È una finta portineria. Come durante
la guerra si mettevano i carri armati finti così che da una ricognizione aerea ti
dava l’idea che tu avessi dislocato le forze, invece non c’erano! Così si fa con i
portieri che sono delle immagini teoriche. Sì c’è un uomo che porta i calzoni, le
scarpe, respira, è un uomo, è un portiere, ma ci sono portieri che non sono portieri. Sono tutti ragazzi senegalesi e del Bangladesh. Chi non paga il condominio
li ha messi dentro per scalare le quote condominiali. Per risparmiare sulle pulizie
ha chiamato dei pulisci scale. Adesso sono passati a due: se lavori ti defalco i
debiti del condominio! Non avevano mai preso la scopa in mano! Se andiamo
avanti così finiamo malissimo. Se guardi a come hanno dipinto l’atrio. Non puoi
fare una cosa in economia facendo finta di scalarla dai debiti di qualcuno, perché sono degli incompetenti. È un’idiozia! Antonio, m, 1940, italiano, residente
A questo va aggiunto che gli otto ascensori sono stati ridotti a due e,
anche in questo caso, si è preferito rinunciare a un efficace servizio di manutenzione (Img. 4.5). Marisa, la moglie dell’ormai ex-portiere Michele, spiega:
Adesso l’amministratore ha licenziato la ditta che fa le manutenzioni. E chi la fa
la manutenzione? Un elettricista! Io l’altra volta sono rimasta bloccata 45 minuti
dentro. Quando c’era Michele ha lavorato una vita: stacca e attacca la corrente,
l’ascensore ti ci riporta o a terra o al piano. Invece si è fermato tra l’ottavo e il nono
piano. Il portiere ha detto: “Non so qual è l’interruttore!” Marisa, f, 1967, italiana,
ex-residente
108
4.5. Le attività della nuova associazione di senegalesi dell’Hotel House (2009)
Ma forse la trasformazione più evidente è data dal fatto che lo spaccio
quotidiano di droga è gradualmente passato ad invadere gli spazi comuni
del condominio in modo sempre più visibile, sino a causare frequenti scontri e, cosa impensabile solo pochi anni prima, i primi omicidi per il controllo
e la suddivisione del territorio. La stessa moschea è rimasta chiusa per diversi mesi a causa di un incendio accidentale.
In mezzo ad un declino così radicale forse, però, è proprio la religione ad
aver costituito un baluardo. Alla moschea si è affiancata una chiesa evangelica africana che si è via via “istituzionalizzata”, finendo per insediarsi in
maniera stabile nel locale dove si trovava la caldaia. Nel frattempo è anche
partito un piccolo progetto istituzionale Regione Marche-Comune di Porto
Recanati, chiamato “La via dell’integrazione” inteso come avvio di un piano
di riqualificazione del quartiere Hotel House. Un progetto, però, che non
prevede alcun coinvolgimento dall’interno del condominio, nessuna attivazione delle risorse endogene e nessuna presa d’atto delle specificità del
contesto. Un intervento top-down che ha finito soprattutto per finanziare la
videosorveglianza di alcuni spazi pubblici del condominio e per aiutare le
attività di alcune associazioni di volontariato. In particolar modo sono stati
ristrutturati i due locali comunali al piano terra del condominio che hanno
visto così rafforzare il loro ruolo di sede di corsi di lingua italiana per le donne e di sostegno scolastico e animazione per bambini; non a caso, questi,
continuano ad essere molto frequentati.
Un segnale ancora più concreto di dinamismo del luogo è emerso dal
fatto che ai vecchi “mediatori” come Ali, Michele o Antonio si sono sostituiti
nuovi possibili mediatori come Massamba, senegalese, che ha dato vita ad
un’associazione molto attiva all’interno del condominio. Sono rimasti anche
alcuni protagonisti di un lavoro carsico di multiculturalismo quotidiano e
prosaico. Un esempio è rappresentato dalla madre di Michele, che mi ha
ospitato per alcune settimane nell’estate del 2009, rimasta ad abitare all’Hotel House nonostante la partenza del figlio:
Io sto qui. Dove la trovi una casa divisa così bene, gli appartamenti sono belli, spaziosi. Ecco lo vedi?! Dimmi dove senti casino qua dentro! Mi dispiace che
Michele va via ma io sto a casa mia. Io tutto sto casino non lo vedo sinceramente no, no! Qui specialmente dove sto io… Sono stata qui trent’anni, non vado
via neanche per cento milioni! A me mi chiamano tutti mamma. Io con tutti ci
scherzo: “Buongiorno, buonasera mamma!” Io brontolo, urlo. Ma io tutto questo
marcio non lo vedo. Ci sono quelli che bevono, ma io mi ricordo quando c’era
mio padre quanta gente si ubriacava tra gli italiani! Quando non lavoravano
bevevano, si menavano. Io penso che il buono e il cattivo c’è dappertutto! Qui
non mi hanno mai fatto niente! Rosaria, f, 1938, italiana, residente
Quando l’ho lasciato per la seconda volta, alla fine dell’estate del 2009,
l’Hotel House era dunque un territorio in declino radicale ma ciononostante
aveva ancora alcune risorse endogene importanti, pur se in continua rielaborazione. Queste potenzialità endogene latenti le ho poi ritrovate prepotentemente nell’estate del 2012, al mio secondo ritorno. Il momento decisivo di svolta è avvenuto, per uno scherzo del destino, l’11 settembre 2011,
nel decennale del tragico e ben più famoso 9/11.
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|capitolo 4|
La notte dell’11 settembre 2011, alcuni abitanti, dopo anni di progressivo e graduale peggioramento delle condizioni interne del condominio,
trovano la forza per riunirsi in un nuovo comitato e riprendere la battaglia,
questa volta anche in senso fisico, contro la minoranza interna e, più in generale, contro lo stigma e l’abbandono del luogo. Questo è il lungo ma denso racconto di uno dei nuovi protagonisti di questa fase di mobilitazione,
tuttora in corso:
L’11 settembre 2011 il cambiamento cominciò lì. Adesso vedi il cambiamento,
non vedi nessuno in giro a fare cazzate, si è calmato. Anche gli italiani che vengono qua dicono che c’è stato cambiamento. E’ passato un anno e a settembre,
l’11 faremo una grande festa. Abbiamo cercato di mandare via l’amministratore
che era qui, è stato difficile ma ce l’abbiamo fatta. Molti avevano comprato casa
per 60.000 euro, hanno perso il lavoro e perdere anche la casa così non piace a
nessuno. Per fortuna hanno mandato qui il nuovo amministratore che è una
brava persona e cerca di andare avanti con noi. Adesso nel consiglio ci siamo
uno per etnia.
Prima ti svegliavi per andare a lavorare e vedevi che la notte avevano fatto casino, il sangue negli ascensori e per le scale… così non si poteva, basta vivere
queste cose. Ci hanno abbandonato. Se noi nel 2011 non avessimo reagito così
potevano anche chiudere l’Hotel House. L’11 settembre quindici ragazzi tunisini
tutto il giorno stavano lì al bar a parlare, poi si sono messi a rompere i vetri, i
vetri tutti rotti e dopo abbiamo detto basta. Uno si è affacciato per chiedere di
smetterla con questo casino ma gli hanno risposto: “Se qui dentro ci sono degli
uomini, che vengano giù!”. Siamo scesi in più di 300 persone, tutti verso di loro
con dei bastoni…
Io sono qua dal 1992, ero tra quelli più piccoli nel 1992 qui. L’Hotel House era
l’Hotel House, era calmo, funzionava tutto, c’era il portiere 24 ore su 24. Siamo
in Europa! Abbiamo creato un comitato dopo l’11 settembre. Nel comitato ci
sono senegalesi, bangladesi, pakistani, ci sono tutti! Con questi giovani abbiamo creato un bel gruppo che passa la notte qui (in portineria) da tanti mesi.
Dall’11 settembre un gruppo controlla il giorno, l’altro la notte. Non c’è lavoro,
non c’è niente; la gente vede che il cambiamento può averlo, abbiamo cominciato a parlare con il Comune anche grazie all’amministratore. Il prossimo mese
c’è una riunione in Comune con tutte le istituzioni, il Presidente dell’associazione
senegalese. Abbiamo fatto riunioni, proposte con il Comune che non l’hanno rispettate fino adesso. Abbiamo parlato di sicurezza, perché noi siamo una zona
isolata qui. Abbiamo parlato di un marciapiede da qui alla strada che porta al
centro, un sottopassaggio e hanno detto che costa troppi soldi… Ma almeno
un pulman possiamo averlo?! Non c’è pulman e anche in quello della scuola i
bambini devono viaggiare in piedi! Io ho detto basta con le parole, solo le parole
non servono a niente. Almeno fai questo oggi e poi domani se hai la possibilità
di fare qualcos’altro lo fai; ma solo parole, promesse che non vengono rispettate,
non servono.
Noi lavoriamo qui, siamo in regola con i contributi da 15 anni, non è poco. Almeno mi devi rendere qualcosa, i servizi pubblici. Adesso dobbiamo incontrare
la Regione. Stiamo cercando di motivare tutti a pagare le rate del condominio…
l’anno prossimo prima di giugno vogliamo chiudere tutto quanto. Quando uno
entra gli chiediamo: “Dove vai? Chi ti ospita? Perché entri?” Non è possibile che…
Così si fa per cercare di cambiare totalmente l’Hotel House. Dopo, se chiudiamo
qua, l’Hotel House torna quasi come prima. Perché non puoi mettere dentro qua
qualsiasi persona… dobbiamo tornare come prima: chi è pulito sta con noi, chi
fa le cose che non si devono fare va fuori altrimenti non finirà mai…
Con l’aiuto di tutte le autorità qua, in collaborazione con i carabinieri che vengono qua a prendere informazioni, siamo collegati con un’associazione nazionale
111
in Senegal. Con questo comitato, ce la faremo. Un giorno che questo comitato
fallisce, l’Hotel House è finito. Io se qualcuno dice o fa cazzate, io mi incazzo…
io ho fatto qua quasi venti anni e non permetto a nessuno di rovinarlo… venti
anni è una storia! Rasul, m, 1976, senegalese, residente
Anche grazie all’attivismo del nuovo amministratore di condominio
che appare interessato alla ricostruzione e al futuro del luogo, la nuova mobilitazione è riuscita ad avere visibilità nei mass-media locali. Ciò che colpisce è che, nonostante l’assoluta continuità con l’esperienza precedente,
questa mobilitazione dall’interno sembra aver stupito non poco gli attori
istituzionali, come le forze dell’ordine, che dovrebbero invece essere esperti conoscitori delle risorse del territorio:
7x4 news – http://www.youtube.com/watch?v=uJG5vjh2zic
Hotel House di Portorecanati, il risveglio delle coscienze – 14 ottobre 2011
L’Hotel House di Porto Recanati sembra cambiare volto. Da una situazione di continua illegalità e omertà siamo passati da un mese a questa parte ad un sorprendente risveglio delle coscienze di quella parte di cittadini onesti stanchi dei continui episodi di delinquenza. Il Comandante dei Carabinieri di Civitanova Marche:
“In questi ultimi giorni certo la nostra vigilanza è cresciuta perché ci sono stati dei
comportamenti assolutamente inediti che forse neanche avevamo previsto che si
potessero verificare. Cos’è successo. Sostanzialmente un risveglio delle coscienze
dei cittadini che popolano l’Hotel House, onesti, quelli che vanno a lavorare tutte le
mattine all’alba, quelli che vivono in Italia con regolarità, quelli che non commettono reati, quelli che si rompono la schiena per contribuire un po’ alla vita di questo
Paese. E proprio da questi giovani, da questi uomini e donne, sono partiti dei segnali
come dire di protesta”.
Alla chiusura di questo libro (dicembre 2012), la situazione resta chiaramente lontana dalla tranquillità. I problemi dell’Hotel House sono tantissimi ed è difficile ricucire e ricostruire tutto quello che è stato distrutto negli
anni precedenti. Ancora una volta però è emersa tutta la ricchezza delle
risorse endogene e il fatto che luoghi come l’Hotel House, lungi dall’essere
territori immutabili e di obbligata marginalità, siano piuttosto dei campi
di conflitto dove si intrecciano e confrontano quotidianamente risorse e
vincoli interni ed esterni.
Questa nuova mobilitazione interna sarà l’ennesima, forse l’ultima, occasione persa? La risposta resta aperta e va al di là dei limiti temporali di
questo libro, anche se la storia di questo luogo e, più in generale, la (non)
politica italiana in tema di immigrazione, non forniscono rassicurazioni.
112
|capitolo 5|
Capitolo 5
Conclusioni.
Cosa imparare dall’Hotel House?
L’Hotel House è un enorme condominio di architettura razionalista composto da 480 appartamenti, situato nella parte meridionale della cittadina
di Porto Recanati nel sud delle Marche. Luogo peculiare per la sua conformazione urbanistica, nettamente separato dal resto della (piccola) città, oltre che per la sua demografia: da luogo di soggiorno di italiani vacanzieri
di ceto medio si è trasformato a partire dagli anni ‘90 in luogo di concentrazione di una popolazione di lavoratori immigrati provenienti da quaranta
differenti Paesi. Come abbiamo visto, il condominio è diventato un luogo di
concentrazione di una ethclass (Gordon 1964), vale a dire una minoranza, sia
etnico-nazionale che sociale, creata dalla posizione subordinata nel mercato
del lavoro e nel mercato della casa.
Tradizionalmente i luoghi di concentrazione di minoranze come l’Hotel House sono considerati territori dominati da disorganizzazione sociale,
isolamento socio-culturale e marginalità economica. Ma, a livello empirico,
questi luoghi sono ben più di un semplice riflesso delle disuguaglianze sociali
(Dangschat 2009). Potremmo dire che le condizioni macro forniscono risorse e soprattutto vincoli; ma partendo da quest’intreccio di risorse-vincoli, i
soggetti di minoranza, individualmente e a livello di gruppi, operano le loro
scelte interstiziali. Il che spiega anche perché mutano i modelli di residenza
dei differenti gruppi nazionali a Porto Recanati, non tutti concentrati all’Hotel House. Gli immigrati, infatti, riempiono e risignificano in maniera spesso
fortemente creativa spazi svuotati da altri. Quindi siamo di fronte a due processi socio-spaziali che si autoalimentano: da un lato la marginalizzazione di
una minoranza e la costruzione progressiva di un vuoto urbano; dall’altro lo
riempimento interstiziale sia fisico che simbolico (Brighenti, a cura di, 2013).
L’Hotel House è uno straordinario esempio di questo tipo di processi.
Il progetto architettonico ha finito per esser completamente disconnesso
dal suo scopo iniziale, virando verso nuovi utilizzi. Non a caso il condominio
è stato uno degli use cases scelti dall’architetto Stefano Boeri nel suo celebre volume con Koolhaas sulle incerte relazioni tra mutamenti territoriali e
forme di auto-organizzazione (Koolhaas et al. 2001). L’enorme condominio
si è rivelato un contesto ricco di capitale spaziale, cioè denso di territori, di
pratiche e di significati spaziali che permettono ai suoi abitanti di procurarsi
113
risorse simboliche o materiali. Questo processo di riuso ha investito in primo
luogo gli spazi domestici, ma anche alcuni spazi pubblici, come il piano terra dell’edificio dove sono stati aperti numerosi esercizi commerciali ed è stata creata una sorta di piazzetta. Questi territori sono diventati spazi liminali
di quotidiano incontro tra le molteplici “differenze” presenti, contribuendo a
rafforzare sia le connessioni interculturali che l’attaccamento al luogo.
Le risorse sociali interne del condominio sono emerse proprio in occasione di due conflitti intercorsi con la minoranza di abitanti e utenti del luogo dedita ad attività devianti, in primis al traffico di sostanze stupefacenti. In
entrambe le occasioni sono nate mobilitazioni di piccoli gruppi di abitanti,
organizzati in un comitato, per combattere contemporaneamente contro la
minoranza interna, la stigmatizzazione sociale e l’abbandono istituzionale
del condominio. Queste forme di aggregazione sono state favorite da una
significativa trasformazione socio-demografica che ha contraddistinto gli
ultimi anni dell’Hotel House, vale a dire il crescente radicamento di famiglie di immigrati che, nel giro di pochissimo tempo, hanno acquistato un
grande numero di appartamenti (ad agosto 2007, ben 241 su 480). Dopo
essere stato per anni una sorta di porto di primomigranti senza famiglia, il
condominio è diventato sempre più un luogo abitato da donne, giovani e
bambini. Tale radicamento ha comportato una vera e propria metamorfosi
per quanto riguarda il senso e la responsabilità verso il luogo. Per usare le
parole di uno dei residenti più attivi, ora “una cosa seria è diventata”. Un altro
ruolo decisivo, in tal senso, è stato giocato dalla moschea che è una delle
principali strutture interne del condominio capace di ri-configurare i confini
sociali e costruire forme di appartenenza sovranazionale. Da ultimo, significativo è stato il lavoro di una serie di “mediatori” interni, parte dei quali di
nazionalità italiana.
In entrambe le situazioni, però, i comitati si sono trovati di fronte istituzioni e un contesto sociale poco attenti e poco disponibili a fornire un
supporto dall’esterno. Il risultato è stato che il possibile consolidamento del
nuovo Hotel House si è rivelato una grande occasione persa, sfociata nella
perdita di status sociale dei promotori della partecipazione e nel rafforzamento di un’identità reattiva nei confronti dell’esterno. Infatti questi processi endogeni pur nella loro peculiarità sono fragili e ambivalenti e, se non
supportati, rischiano appunto di favorire una reazione di disillusione e di
conseguente maggiore chiusura.
Su questa situazione di empasse sono poi arrivate le conseguenze della
crisi economica che hanno finito per accelerare e rendere più radicale il processo di caduta del luogo.
Il quadro è, dunque, articolato e indica la presenza di fattori contestuali
che possono incidere a vari livelli: a livello di quartiere, come per esempio
la disponibilità o meno di risorse economiche e servizi, o alcune caratteristiche socio-demografiche come la composizione etnica e la classe sociale; a
livello individuale, come l’età, lo status occupazionale e la relazione affettiva
nei confronti del quartiere; a livello più strutturale, come il mercato del lavoro o quello immobiliare e il framework politico-istituzionale.
114
|capitolo 5|
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di analizzare in profondità un
luogo di concentrazione di minoranze, non tanto per descrivere tutte le caratteristiche del caso di studio, quanto al fine di individuare le specifiche
condizioni che possono manifestarsi anche in altri contesti (Small 2004).
L’intenzione è stata di evitare di cadere in una descrizione meramente idiografica (Zukin 2011), in quell’empirismo, impressionistico e descrittivo, che
troppo spesso ha caratterizzato gli studi di comunità e le analisi socio-ecologiche sulla segregazione urbana (Mingione 1989). Al contrario il tentativo
è stato quello di raccogliere l’invito bourdieusiano a capire cosa c’è di generale (cioè presente anche in altri contesti) nei processi particolari che si
studiano.
I principali fattori condizionali
Nel corso di questo lavoro abbiamo cercato di porre all’attenzione la
complessa interazione fra relazioni interne all’Hotel House e relazioni con
l’esterno, ovvero all’intreccio tra fattori endogeni e esogeni. Si tratta ora di
mettere in luce ed analizzare i fattori contestuali che sono risultati più rilevanti con l’intento di andare al di là del caso di studio e costruire dei concetti
e degli interrogativi che possano “educare all’attenzione”, cioè suggerire un
diverso modo di guardare i casi di concentrazione residenziale di minoranze. Ovviamente sono tutti fattori che si intrecciano e influenzano vicendevolmente, ma tutti hanno una loro autonomia strutturante che incide sulla
vita quotidiana dei luoghi.
1. Il primo fattore e il primo interrogativo che l’analisi del caso di studio
Hotel House invita a porre è: quali sono le condizioni economiche degli abitanti del luogo? Come abbiamo visto all’Hotel House il fatto fondamentale
che per molti anni ci siano stati molti servizi condominiali e le strutture abbiano ricevuto un’ordinaria, anche se basilare, manutenzione, è dovuto soprattutto alle condizioni economiche di una parte degli abitanti, in particolare ex-vacanzieri e alcune famiglie di immigrati, che avevano le possibilità
economiche di pagare i servizi e le alte spese di gestione dell’enorme condominio. Fattori determinanti sono stati la presenza di un esiguo ceto medio italiano, l’assenza di situazioni di povertà estrema, grazie all’abbondanza
di lavoro nel periodo precedente la crisi economica: la grande maggioranza
dei residenti ha infatti lavorato per anni (con ritmi elevatissimi) nelle tante
fabbriche del distretto calzaturiero o in edilizia, nel settore terziario (backstage di ristoranti e discoteche e vendita ambulante) e nel settore primario
(pesca e agricoltura). Anche grazie all’economia informale (compravendita
dei prodotti più svariati e servizi di ogni tipo) gli immigrati hanno saputo
mobilitare notevoli risorse economiche.
Si può dire che per anni si è avuto un tipo di integrazione economica
subalterna nei lavori cosiddetti “3D” – dirty, dangerous and demanding (sporchi, pericolosi e pesanti). L’inserimento lavorativo (subalterno) degli abitanti dell’Hotel House è stato un forte elemento di distinzione rispetto per
esempio ad alcune banlieues francesi in cui vi sono tassi di disoccupazione
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elevatissimi, per non parlare di alcuni ghetti afroamericani che sono stati
rinominati iperghetti proprio perché a tutte le altre forme di esclusione si è
aggiunta anche quella lavorativa (Wacquant 2008).
Questo modello di accoglienza di “braccia ma non persone”, che confina
gli immigrati sempre nei lavori di serie B e che rischia di bloccare e non valorizzare il capitale umano, in particolare quello dei tanti giovani di origine
immigrata, ha mostrato tutta la sua fragilità proprio in occasione dell’attuale
crisi economica. è ovvio, infatti, che la disoccupazione rischia di diventare
“un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche di integrazione”
(Fitoussi, Laurent e Maurice 2004).
2. Un secondo fattore fondamentale è rappresentato dalle relazioni con
le istituzioni. Relazioni che, come evidenziato da Wacquant (2008), non sono
né statiche né uniformi, cioè variano nel tempo, all’interno del quartiere e
al variare dei funzionari pubblici (dalle forze dell’ordine agli operatori sociali,
dalle scuole ai trasporti, dalle istituzioni locali a quelle nazionali).
L’importanza del ruolo giocato dalle istituzioni sull’esito delle condizioni
di vita di questi quartieri è stata evidenziata da molti studiosi (Logan e Molotch 1987; Marcuse 2005). Nel caso dell’Hotel House abbiamo visto come
la percezione di abbandono istituzionale abbia finito per depotenziare le
risorse endogene e rafforzare l’uso del luogo come “discarica” simbolica e, a
volte, materiale. La presenza o assenza delle istituzioni è fortemente favorita
dal riconoscimento dei diritti di cittadinanza e, in particolare, del diritto di
voto (Cap. 4). Come in altri contesti, per esempio il South End di Boston
analizzato da Small (2004), la forza politica di un quartiere può contrastare
con efficacia l’abbandono istituzionale.
In sintesi, l’invito è ad adottare una prospettiva sulla marginalità urbana
che ponga al centro il ruolo delle istituzioni (e nel caso specifico, sia delle
politiche di immigrazione che delle politiche per gli immigrati – cfr. Balbo
2009). Un ruolo ambivalente e tutto da costruire, come si evince da altri
contesti dove non è mancata una politica urbana in tal senso, come gli Stati
Uniti dove negli ultimi anni vengono criticate le politiche mirate soltanto a
“indorare il ghetto” (cioè più cosmetiche che efficaci) e, soprattutto, la Francia, dove a partire dagli anni ‘90 la questione sociale è stata semplicemente
“spazializzata”, cioè l’azione si è progressivamente spostata dagli abitanti ai
luoghi, piuttosto che concentrarsi sulla loro relazione.
3. Un terzo fattore rilevante, che ha contribuito a fare dell’Hotel House un luogo a suo modo ricco, è il capitale sociale e spaziale costruito dai
suoi abitanti. Gli attori sociali sono degli attori spaziali, cioè soggetti sempre
immersi nello spazio e che, perciò, lo subiscono ma allo stesso tempo cercano di riconfigurarlo, ri-territorializzandosi materialmente e simbolicamente (Cap. 2). Il capitale spaziale creato è il frutto di un lavoro di progressivo
addomesticamento, di un insieme di pratiche diffuse fatto di microstorie
cristallizzate nell’architettura, di microtrasformazioni, manomissioni, appropriazioni spaziali (Garcia Canclini 2009); un riuso poliedrico dato dalla miscela di conservazione e sovversione e dal reciproco gioco di influenze tra
preesistenze fisiche e nuove consuetudini (Lanzani 2003). La dinamica di
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|capitolo 5|
inserimento interstiziale che ha avuto luogo non è solo un abitare in senso
tecnico e razionale, ma un farsi spazio, un abitare in senso fenomenologico che unisce aspetti simbolici, emozionali e pratici. Un analogo uso degli
spazi che si impone sull’anonimato delle forme architettoniche è stato rilevato anche in altri grandi complessi architettonici come il Corviale a Roma
(Careri 2006) o la Corneuve a Parigi (De Biase 2011). Tutto questo mostra
l’importanza di politiche volte all’empowerment delle capacità spaziali (uso,
appropriazione, modificazione, circolazione: Lynch 1981) degli abitanti sui
loro quartieri e sulla loro città. L’enfasi sullo spazio non significa determinismo o riduzionismo spaziale (Tissot e Poupeau 2005; Maloutas 2009). Si
tratta, invece, di adottare una grammatica spaziale più densa e elaborata,
capace di mettere al centro il rapporto con gli spazi della vita quotidiana e
la complessità di questo rapporto. La necessità cioè di analizzare i territori
e i quartieri per la qualità e quantità di spazi identitari e di spazi di incontro
che vengono costruiti.
4. Il quarto fattore condizionale che emerge con grande forza è l’intersezionalità, il fatto cioè che troppo spesso luoghi simili sono rappresentati
come territori caratterizzati dalla differenza etnica come se questa fosse l’unica differenza costitutiva, tralasciando criteri di differenziazione fondamentali come età, genere, classe sociale, appartenenza religiosa, lingua, oltre che
senso del luogo e uso dello spazio. Cioè dimenticando che ci sono molteplici fattori di identificazione e assi di differenziazione che si intrecciano tra
loro; sistemi di differenza e di dominio (Essed 1991) mobili e interconnessi
(si pensi alla sovrapposizione fra appartenenza nazionale e genere). Il modo
in cui ci si presenta agli altri è sempre provvisorio e contestuale: ci sono
contesti, situazioni, pratiche sociali (e istituzionali) che possono favorire aggregazioni, contrapposizioni e forme identitarie differenti. Nel caso di studio
considerato, la proliferazione di luoghi terzi, l’apertura di una moschea e la
costituzione di un comitato multiculturale hanno permesso di facilitare la
strutturazione di forme di appartenenza legate al territorio, alla fede religiosa e al ciclo di vita piuttosto che all’identità nazionale.
La costruzione di confini e differenze è uno dei processi cognitivi fondamentali per produrre senso e riconoscimento e, più in generale, per dare
forma alla relazione con il mondo. Occorre perciò “prendere sul serio la differenza” (Clifford 2002) e, soprattutto, l’intreccio tra i fattori di differenziazione, senza cadere nel “feticismo della differenza”. Occorre interrogarsi quindi
su quali siano gli intrecci identitari più rilevanti in ogni specifico contesto,
quali vettori di differenziazione contribuiscano in maniera più efficace all’
empowerment o, al contrario, alla marginalizzazione di soggetti e gruppi sociali (Valentine 2008).
5. Un quinto fattore condizionale emerso dallo studio dell’Hotel House
potrebbe essere definito il grado di urbanità. Jacobs (2009) intendeva l’urbanità non come i teorici postmoderni, che l’hanno poi ridotta a frammentazione e mobilità, ma come un capitale sociale bridging, che si apre all’esterno. Per Mongin (2005) l’esprit de la ville non è altro che la capacità della
città di essere uno spazio allo stesso tempo aperto e chiuso, un luogo che
117
offre la duplice possibilità di unire le persone e, allo stesso tempo, di tenerle separate. Questo dipende dall’equilibrio tra possibilità di ritagliarsi spazi
comunitari e spazi liminali o di mobilità e connessione con l’esterno; dalla
compresenza, per dirla con Lofland (1998), di tutti e tre i “regni” [domains]
urbani: cioè il regno privato, quello delle relazioni familiari e parentali, il regno comunitario o parochial, caratterizzato dalle relazioni interpersonali tra
conoscenti e vicini che condividono un’appartenenza comunitaria, e il regno pubblico, contraddistinto dalla prevalenza di interazioni con soggetti
sconosciuti.
L’Hotel House, questo grande “paese” sviluppato in verticale, è diventato
un luogo abitato in parte da una popolazione più o meno fissa e stabile, e
da un’altra che cambia continuamente: una doppia caratteristica che da un
lato assicura la rete tipica di un paese, dall’altro un tendenziale anonimato
tipicamente urbano. Quest’apparente ambivalenza è magistralmente rappresentata dal colpo d’occhio offerto dalla struttura del condominio e dalla
popolazione residente viste in sovrapposizione: l’edificio, caratterizzato da
un’architettura così regolare, così uguale a se stessa, dall’identica ripetizione
di un numero di nuclei abitativi che sembra tendere all’infinito in ogni direzione; la popolazione, che manifesta la sua differenza in tutto, dalla pigmentazione della pelle alla provenienza nazionale, dagli usi e costumi agli odori
e ai suoni. Per molti dei suoi abitanti, il condominio è diventato una sorta di
villaggio urbano, caratterizzato da spazi di identità e comunitari forti ma con
un continuo accesso alla differenza e alla serendipity. Il caso di studio suggerisce dunque che questi territori vanno analizzati anche per la loro capacità
di mantenere in (instabile) equilibrio spazi comunitari e spazi liminali.
6. Un sesto fattore condizionale di grande rilevanza è dato dai processi di stigmatizzazione territoriale e, più in generale, dalle dinamiche di costruzione di senso del luogo. Questo è uno dei principali fattori che mostra
come la relazione di questi luoghi con l’esterno giochi un ruolo costitutivo
sui processi endogeni. Abbiamo visto come vivere all’Hotel House e andare
nel centro di Porto Recanati significhi scoprire di portare addosso un marchio indelebile (Cap. 4). Nel caso degli immigrati, in quanto stranieri e spesso relativamente poveri, si tratta di un triplice marchio: spaziale, culturale ed
economico. Questa stigmatizzazione incide profondamente sia sul senso di
attaccamento al luogo, e conseguentemente sulla predisposizione alla partecipazione e alla responsabilità, sia sul tipo di relazioni interne. Il senso comune stigmatizzante diventa filtro percettivo per i residenti che reagiscono
ad esso prendendo le distanze dal proprio luogo di residenza e ripiegando
nella sfera familiare (De Rudder 1989; Avenel 2004; Wacquant 2007) o facendo ricadere lo stigma sulle minoranze interne (Cancellieri 2003).
In particolari condizioni e in specifici momenti è però proprio la condivisione dello stigma a portare alla creazione di un sentimento comune, alla
condivisione di un mondo marginalizzato che può innescare possibilità di
mobilitazione politica. Come mostrato da Toubon e Messamah (1990: 626)
con riferimento al quartiere della Goutte-d’Or a Parigi:
118
|capitolo 5|
Le discriminazioni e le forme di dominazione della società di accoglienza
così come sono vissute nel quartiere, i processi di designazione negativa
dei comportamenti del quartiere e dei suoi abitanti hanno fatto nascere per
reazione un vissuto collettivo che ha finito in questo caso per trascendere le
fratture inter e intra-etniche.
Questo può avvenire perché i soggetti non sono vittime o recettori passivi ma a loro volta si appropriano delle definizioni prodotte dalla maggioranza (Bourgois 1996) e le restituiscono “masticate” e manipolate attraverso
un processo allo stesso tempo deliberato e inconsapevole (Gruzinski 1994).
7. Un ulteriore fattore condizionale è rappresentato dalla storia del quartiere. Ogni territorio ha una singolare storia locale spesso piuttosto complessa che incide sulla sua evoluzione. Katz (2010) ha sottolineato come sia
fondamentale rimettere il tempo al centro della ricerca etnografica superando i limiti della prospettiva tradizionale a-temporale che si limita a fotografare una realtà sociale senza mettere al centro le traiettorie storiche e la
cosiddetta path-dependence. Recentemente alcuni autori hanno cercato di
colmare questo vuoto (Venkatesh 2000; Anderson 2004; Small 2004), intendendo il proprio lavoro di osservazione partecipante come un’analisi inserita in un percorso storico precedente.
L’Hotel House, per esempio, ha una storia di quartiere autosufficiente e
stigmatizzato, una storia di luogo di scambio di merci illegali. è sempre stato
un luogo “altro” già prima dell’arrivo degli immigrati. Sottolineare l’importanza della storia non significa certo considerarla come qualcosa di immutabile: l’analisi diacronica permette di evidenziare come questi territori non
siano affatto contesti immutabili e irrimediabilmente perduti, al contrario
di come vengono troppo spesso rappresentati. Essi sono arene quotidiane
dove si intrecciano, incontrano e scontrano differenti usi e sensi del luogo;
e in queste arene le immagini della storia e l’habitus dei luoghi contano
(Dangschat 2009; Small e Feldman 2012).
8. L’ultimo fattore sul quale il presente lavoro invita a porre particolare
attenzione è il sentimento individuale e collettivo di attaccamento al luogo.
“Vent’anni sono una storia” ha detto Rasul (Cap. 4) ricordando la traiettoria storica del proprio attaccamento al luogo. La sfera emozionale gioca un
ruolo fondamentale nelle pratiche che riguardano un luogo; di conseguenza, lasciar fuori dalla riflessione le emozioni, significa lasciar fuori i soggetti
(Sandercock 2004). Come si è visto, i significati e le emozioni differenti che i
diversi attori e gruppi attribuiscono allo spazio fanno la differenza (Gotham
2003; Small 2004): essi implicano differenti costrizioni e possibilità situazionali, sono veri e propri codici performativi (Butler 1990). Non tutti vedono
lo stesso quartiere attraverso gli stessi occhi. Si può dire che i soggetti comprendono le proprie vite e i propri quartieri entro narrazioni costituite da
trame complesse, da spazi-tempi in divenire, e che perciò essi non agiscono
tanto in modo perfettamente razionale e per sé vantaggioso ma cercando
di accordarsi razionalmente il più possibile a tali narrazioni (Small 2004). L’attaccamento e il senso del luogo sono sono processi sui quali incidono, oltre
ai fattori di stigmatizzazione spaziale, la proprietà degli immobili, la famiglia,
119
la coorte, il ciclo di vita e, più in generale, la stabilità residenziale (Sampson,
Morenoff e Gannon-Rowley 2002). Come si è visto si tratta di un campo di
battaglia fondamentale, perché il grado di attaccamento a un luogo può
essere correlato con la responsabilità e la cura nei confronti dello stesso.
In conclusione, l’invito che viene da questo lavoro è di adoperarsi per
una ricerca e una politica quotidiana di questi luoghi che sia “omeopatica”
e contestuale, capace cioè di partire dall’ascolto degli abitanti e dall’analisi
della loro relazione con i luoghi. Si tratta di superare la tendenza ad adottare
approcci top-down, a-spaziali e a-temporali: incuranti, cioè, delle specificità
locali e contestuali e dei processi in corso tra gli attori in campo1. Questi approcci hanno sostanzialmente fatto sì che la concentrazione spaziale delle
minoranze si trasformasse, in maniera automatica e riduttiva, in esclusione
sociale e lo spazio in una sorta di gabbia che imprigiona chi lo abita, un
semplice fattore costrittivo (Gotham 2003). È come se operasse una sorta di
scatola nera (Jencks e Mayer 1990; Small 2004) che, a partire da determinate
condizioni di concentrazione residenziale, attribuisce effetti sociali disgreganti senza fare riferimento a quando, come e perché abbia luogo questa
correlazione.
Naturalmente occorre anche guardarsi dal rischio opposto di costruire
rappresentazioni romantiche, che descrivono più i desideri dei ricercatori
che le dinamiche sociali di questi luoghi, adottando una sorta di “orientalismo urbano” (Wacquant 2002). Non bisogna, infatti, rimanere intrappolati
nella sterile contrapposizione tra, da un lato, lavori teorici – a volte narrazioni retoriche con la tesi che deduttivamente anticipa e guida i dati empirici
– e, dall’altro, lavori empirici particolaristici che non si pongono l’obiettivo di
una riflessione più ampia, teoricamente, sociologicamente e politicamente
più densa (cfr. Appendice metodologica).
In questo libro si è voluto mettere al centro il fatto che tali territori sono
dei “campi” aperti, frutto di intrecci contestuali di storie, geografie, demografie, economie e politiche; che sono soggetti a mutamenti sia al variare dei
processi socio-economici esterni sia a causa delle evoluzioni interne (Fava
2008).
Come ricorda Donzelot (2006), la politique de la ville francese fallisce perché si fonda sull’idea che esista una città ideale che occorre ristabire, assorbendo le sue anomalie attuali. Si tratta di una lettura statica della città, la
pura proiezione di una rappresentazione ideale, di una volontà di controllo.
Fare una politica della città e, più in generale, dei luoghi, significa invece
dispiegarne le forze e le potenzialità, partendo dagli attori, dalle battaglie e
dalle forze e potenzialità in atto in uno specifico luogo.
1 Troppo spesso, soprattutto in ambito americano, le ricerche su questo tipo di territori sono state dominate da economisti, demografi e sociologi orientati alla statistica
che hanno lavorato con i dati di censimento o di survey. Mentre le ricerche antropologiche sono state ignorate o al massimo selezionate per essere usate in modo
ornamentale. Un esempio italiano di ricerca di questo tipo è il rapporto curato dalla
Caritas nel 2007.
120
|capitolo 5|
Per fare ciò, serve un lavoro che ponga al centro l’intreccio tra i fattori
condizionali che operano per la produzione di uno spazio. Consapevoli del
fatto che attori, battaglie e trasformazioni sono in divenire e, quindi, se rafforzati possono contrastare o, al contrario, supportare la marginalità o l’empowerment sociale di un luogo e dei suoi abitanti.
121
|Appendice|
appendice
metodologica
Avevo sentito parlare per la prima volta dell’Hotel House nel 2002, mentre
ero impegnato in una ricerca sull’immigrazione nei comuni delle Marche
per conto dell’Università di Urbino. Mi ero ritrovato a Porto Recanati, comune con l’incidenza percentuale più alta dell’intera regione ed ero rimasto
sorpreso dal fatto che negli spazi pubblici della città non era visibile la presenza degli immigrati. Avevo interrogato il locale responsabile dei servizi
sociali sul perché di questa assenza e la risposta, che ancora ricordo bene,
fu: “Sono tutti là!”, indicando la parte Sud della città dove si trova, appunto,
l’Hotel House. In quel momento nacque in me la grande curiosità di esplorare, capire e conoscere quel luogo; curiosità che è riemersa d’improvviso
un paio di anni dopo, più precisamente nell’ottobre del 2004, quando si
sono aperte le condizioni per iniziare un più lungo lavoro di ricerca, la mia
tesi di dottorato.
Prima di entrare fisicamente all’Hotel House, ho cercato di reperire qualche informazione preliminare attraverso lo studio degli articoli della stampa
locale, individuando, in particolare, alcuni soggetti che avessero quotidianamente a che fare con il posto. I nomi reperiti in tal modo sono poi stati
i primi soggetti che ho intervistato: un avvocato che ha tra i suoi clienti
moltissimi residenti dell’Hotel House, l’amministratore del condominio e,
come primo contatto interno, il portinaio storico dell’Hotel House, il signor
Michele. Nei primissimi giorni ho avuto la fortuna di assistere alla proiezione
di un film documentario sull’Hotel House che era stato realizzato, durante i
sei mesi precedenti, da un giovane antropologo. Tale occasione, da un lato,
mi permise di avere un primo sguardo approfondito sul residence, dall’altro mi consentì di conoscere diversi testimoni privilegiati che “ruotavano”
intorno al condominio. Pochi giorni dopo la proiezione del film, il portiere
Michele mi fece conoscere un residente italiano che viveva lì da più di dieci
anni, il signor Antonio, che si è rivelato poi il principale informatore per i
mesi a venire, quello con cui ho fatto i più lunghi, interessanti e intensi colloqui informali.
Inoltre, proprio grazie al giovane antropologo documentarista, venni in
contatto con un gruppo di senegalesi: in particolare una signora, Diara, che
accolse la mia domanda di ospitalità e mi mise a dormire per diversi mesi
123
nell’appartamento che condivideva con alcuni suoi connazionali. Questa è
stata la mia prima base d’appoggio stabile all’Hotel House. Ricordo ancora
con una certa emozione il momento in cui ho ricevuto una copia della chiave e poco dopo mi sono riposato nel “mio” divano-letto: la mia prima notte
da abitante. Per alcuni mesi questa è stata la mia stanza. A fine maggio sono
andato via per una quindicina di giorni e, quando sono tornato ai primi di
giugno, Diara si era trasferita in un altro appartamento dove dormiva insieme ad altre quattro donne. Io mi sono così ritrovato a condividere una
piccola stanza del suo appartamento insieme ad altre due persone. Erano
stati messi tre materassi a terra e, alla sera, per arrivare a stendermi sul mio,
era uno slalom: prima tra i letti posti nel soggiorno, poi una volta dentro la
stanza per cercare di non pestare i materassi che erano al mio fianco. Era
arrivata l’estate e con essa il grande afflusso di senegalesi che provengono
da altre città per lavorare come venditori ambulanti lungo la spiaggia: tutto
questo aveva reso affollatissimi alcuni appartamenti del condominio. Così
ho deciso di cercarmi un’altra sistemazione. Grazie al signor Michele trovai
una stanzetta nell’appartamento di un ragazzo di Ercolano (in provincia di
Napoli) che svolgeva la mansione di ascensorista all’interno del condominio. Questa nuova sistemazione mi permise di avere a disposizione uno spazio di riflessione decisamente più ampio e appartato.
Nel corso del biennio di ricerca ho alternato la raccolta di interviste strutturate e non, storie di vita, interviste con testimoni privilegiati, documenti
(atti pubblici, articoli della stampa locale, fotografie) e, soprattutto, ho condiviso parte dei rituali di vita quotidiana del condominio, a iniziare dalle manifestazioni che hanno scandito la fase di mobilitazione e di protesta contro
l’abbandono dell’area da parte delle istituzioni. In particolare, nella prima
fase ho cercato di adeguarmi allo stile di vita dei senegalesi che mi ospitavano e con loro ho partecipato ai pasti collettivi a terra con le mani e all’affollamento delle loro stanze, alle loro lunghe chiacchierate, alla visione di
foto, film, video e programmi della tv senegalese (vedi Cap. 2). Ovviamente
in questi casi la lingua ha rappresentato un ostacolo importante, anche se
gran parte dei soggetti parlavano italiano abbastanza bene e in molti casi
riuscivamo comunicare in francese.
Nella prima fase altri setting che ho trovato “fecondi” e significativi sono
stati il principale supermercato dove transitano individui di tutti i gruppi nazionali, la portineria (altro straordinario luogo di passaggio), il bar di Danilo e
la piazzetta antistante l’ingresso: tutti luoghi dove ho conosciuto molte delle persone che si sono rivelate importanti per la ricerca. Inoltre, nel corso del
lavoro ho sempre cercato di prendere contatto con tutti coloro che erano
più o meno direttamente coinvolti nella vita locale. Mi riferisco per esempio
ad un’insegnante che tiene un corso di italiano per adulti, ad una professoressa che fa sostegno a bambini immigrati, al responsabile e ad alcuni operatori della rete di associazioni di volontariato che operano al piano terra, al
sindaco e al vice-sindaco della città, ai politici dell’opposizione, i giornalisti e
i sindacalisti, oltre che a una serie di studenti e di studiosi impegnati in altre
ricerche universitarie.
124
|Appendice|
In una seconda fase del mio lavoro ho iniziato a ritagliarmi una crescente libertà d’azione all’interno del condominio “emancipandomi” sempre più
dai miei principali informatori e allargando notevolmente la mia cerchia di
relazioni. Ogni periodo di osservazione partecipante ha comportato la conoscenza di persone e situazioni nuove. Ho condiviso alcune dinamiche con
i ragazzi del condominio (per esempio le partite di cricket), ho conosciuto e
avuto lunghi colloqui informali con molti italiani vacanzieri e con diversi italiani residenti da lungo tempo, ho vissuto giornate intere con alcuni ragazzi
senegalesi, “individualisti” in conflitto con la tradizione comunitaria senegalese, ho conosciuto diversi signori del Bangladesh che mi hanno invitato più
volte a mangiare da loro, ho ricostruito la storia del condominio attraverso
documenti e testimonianze, ho fatto intensa e continuata osservazione partecipante in occasione delle due principali feste musulmane, vale a dire il
Ramadan e la festa del montone (l’Ayd), partecipando a cerimonie rituali
(per esempio l’uccisione del montone e la preghiera collettiva in moschea)
e condividendo i momenti di festa.
In tutte queste occasioni ho generalmente incontrato grande apertura
da parte degli abitanti del condominio, soprattutto dopo aver a più riprese mostrato il mio desiderio di ascoltare le loro storie e imparare dalle loro
esperienze. Le prove tangibili del progressivo instaurarsi di un rapporto di
fiducia sono state quotidiane: “Magari se era un’altra persona con un modo
di fare differente non mi sarei neanche fatto intervistare”. O addirittura un
signore senegalese, che pure percepivo come particolarmente freddo nei
miei confronti, il quale mi ha detto: “Tu pratichi veramente l’integrazione,
non come quelli che la fanno solo a parole”.
Queste risposte sono dovute al fatto che l’Hotel House è un luogo di
“senza voce”, cioè abitato da soggetti poco abituati ad essere ascoltati: le
vite quotidiane dei loro abitanti sono ordinariamente invisibili per la grande maggioranza del tempo, per poi improvvisamente diventare ipervisibili
nella sfera pubblica in seguito a episodi di cronaca, ma sempre sotto forma
di panico morale attraverso una retorica incentrata su degrado e pericolo
(Brighenti 2010). Perciò, quando incontrano un interlocutore che considerano realmente interessato e disposto ad ascoltare, gli abitanti hanno mediamente un grande desiderio di raccontare la proprio esperienza quotidiana.
Allo stesso tempo, essi hanno anche mostrato un atteggiamento di crescente chiusura nei confronti di tutti quei soggetti che, come ad esempio
ad alcuni giornalisti della stampa nazionale, hanno cercato di descrivere il
condominio in maniera frettolosa, riproducendo i soliti immaginari.
Il lavoro etnografico può tramutarsi nella possibilità offerta agli attori sociali di ascolto, riconoscimento sociale e persino di legittimazione. A questo
proposito Bertaux (1999: 76) rivolge ai ricercatori quest’appello:
Sbarazzatevi dei sensi di colpa, perché non siete ladri di vite ma suscitate
delle testimonianze […] conferite al soggetto un “riconoscimento sociale”
che forse non gli viene accordato altrove. Interpellandolo mostrate che egli
sa delle cose che voi, pur essendo un “universitario”, non sapete. Cose che “la
società” non sa.
125
Con lo strutturarsi delle relazioni di fiducia ho visto, non a caso, prevalere
nei soggetti sociali più che il timore dell’invasione del ricercatore nelle loro
vite intime, la richiesta opposta di maggior condivisione. In questo senso, le
principali rimostranze che ho ricevuto sono proprio relative ai periodi in cui
ero poco presente ed erano tutte del tipo: “Che fine hai fatto? Sei sparito?”.
Quindi non è tanto l’invasione ad essere stigmatizzata ma è proprio la mancata condivisione.
Condivisione resa per me ardua dalla necessità e volontà di attraversare
più gruppi e più confini sociali, che mi ha portato ad essere sempre inadempiente verso i singoli gruppi, un po’ traditore, un po’ assente. È ovvio
che questo mio continuo andirivieni mi ha anche reso più facile non correre
i rischi dell’eccessivo coinvolgimento che, come testimoniava Whyte (1943),
può trasformarti da osservatore non partecipante a partecipante non osservatore. Tutte queste dimensioni sono facce del classico continuum distacco/
coinvolgimento all’interno del quale il ricercatore deve quotidianamente
trovare un precario e difficile equilibrio.
La mia presenza sul campo1 è stata frammentata ma continua, fatta di
periodi brevi (due-tre giorni) e più lunghi (qualche settimana) che si sono
succeduti per due anni fino all’ottobre del 2006, quando ho deciso di chiudere il mio lavoro di ricerca. Da allora, però, non ho mai lasciato veramente
del tutto il condominio. Sono periodicamente tornato per salutare e restare
aggiornato sull’evoluzione del luogo.
In particolare sono ritornato per due brevi periodi di ricerca. Nell’estate del 2009 sono stato ospitato per alcune settimane dalla madre dell’ormai ex-portiere Michele, e nell’estate del 2012, ospitato, questa volta fuori
dall’Hotel House, da un giovane formatore che abita a pochi chilometri dal
condominio. In entrambi i casi ho alternato la raccolta di documenti e statistiche a colloqui informali e interviste semi-strutturate. Nel corso di questi
ritorni sul campo, ho potuto osservare e analizzare i grandi cambiamenti
occorsi nel frattempo e, come sottolinea Small (2004), ho potuto mettere in
luce l’importanza della dimensione e della traiettoria storica.
La forza dell’etnografia
L’etnografo è interessato a comprendere l’altro, a prendere parte in prima
persona ai riti e ai rituali della vita quotidiana per analizzare i codici interpretativi e familiarizzare con le risorse e i vincoli di un territorio sociale.
Il metodo etnografico nasce in antropologia tra ‘800 e ‘900 e si afferma
con Malinowski e Radcliffe-Brown in contrapposizione a chi faceva antropologia “da tavolino”. In Italia tale metodo si sviluppò grazie soprattutto al
napoletano Ernesto De Martino (1977) che studiò i guaritori, i fenomeni di
1 Con l’espressione “presenza sul campo” mi riferisco non alla tradizionale visione che
considera il campo come un’area delimitata in cui poter studiare attori sociali che
si comportano in modo coerente e omogeneo, quanto invece al rapporto diretto
con gli attori sociali, attraverso un’osservazione e una partecipazione il più possibile
approfondita alla processualità delle loro pratiche e dei loro spazi di vita.
126
|Appendice|
possessione e trance dei “tarantati” e l’esorcismo.
In sociologia il metodo etnografico si è affermato con la scuola di Chicago (Anderson 1923; Thrasher 1927; Cressey 1932). Robert Park per primo
aveva osservato come i metodi pazienti dell’osservazione che gli antropologi
hanno utilizzato nello studio sulla vita e sui costumi degli Indiani dell’America del Nord potrebbero essere impiegati in modo ancora più fecondo nello
studio sui costumi, le credenze, la pratica sociale e le concezioni generali
della vita prevalenti nei quartieri di Little Italy nella zona inferiore di North
Side a Chicago, o ancora per registrare i costumi più sofisticati degli abitanti
di Greenwich Village e del quartiere di Washington Square a New York. (Park,
Burgess e McKenzie 1925)
Oggi il metodo etnografico è un metodo di ricerca sempre più praticato
in sociologia e antropologia, ma anche in altre discipline come la geografia
umana e l’urbanistica. Anche in Italia sono usciti alcuni importanti manuali
sull’etnografia (Dal Lago e De Biasi, a cura di, 2002; Cardano 2003; Gobo
2003; Marzano 2006) e stiamo assistendo ad una vera e propria new wave
di studi etnografici (Cancellieri 2012b), tanto ricca quanto scarsamente valorizzata. La tecnica di ricerca usata principalmente dagli etnografi è la cosiddetta osservazione partecipante in cui il ricercatore instaura un rapporto
diretto con gli attori sociali, interagendo e partecipando ai loro rituali quotidiani. In primo luogo, allo scopo di osservare e analizzare ciò che le persone
fanno e il senso e i significati prodotti nel corso delle interazioni della vita
quotidiana; in secondo luogo, per indagare la relazione dialettica tra rappresentazioni e pratiche, cioè le convergenze e le divergenze tra ciò che la
gente dice su quanto fa e ciò che effettivamente fa (Barth 1969).
Il metodo etnografico si fonda sull’osservazione; ma è un’osservazione
molto diversa da quella dello stereotipo dell’osservazione scientifica in cui
si cerca una netta separazione tra osservatore e (s)oggetto osservato. La
ricerca etnografica ha superato, infatti, la concezione positivista largamente
diffusa che per fare ricerca scientifica serva “solo una mente senza corpo e
senza sangue” (Gouldner 1980: 716). Oggi siamo nella fase che è stata chiamata la fine della “dottrina dell’immacolata percezione” o “la fine dell’innocenza” (Van Maanen 1995).
è ormai condiviso il fatto che “ogni osservazione è sempre intervento”
(Melucci 1998: 298) e che i soggetti con cui ci mettiamo in relazione interagiscono con noi. L’osservazione è un tipo particolare di relazione sociale
che interviene comunque nel campo e lo modifica. Pertanto, è impossibile essere distaccati e oggettivi, i resoconti sono sempre costruiti, ma ciò
non vale solo per l’etnografia. E anzi l’etnografia si propone proprio come
un approccio che, probabilmente più degli altri, riflette su questa relazione. L’etnografia, infatti, ha avuto la forza, nel corso degli ultimi decenni, di
affrontare queste critiche e di costruire, attraverso una profonda messa in
127
discussione2 (la cosiddetta “svolta riflessiva”), una nuova solidità.
Si può fare etnografia partendo da posizioni teoriche ed epistemologiche molto diverse, ma quello che le accomuna tutte è la passione per il
micro, per l’osservazione e la partecipazione all’azione e all’interazione sociale. Lo sguardo etnografico è attento alle banalità, agli aspetti ordinari,
routinari, abitudinari (per esempio mangiare, dormire, socializzare, produrre
rappresentazioni, provare emozioni) che, anche se apparentemente poco
importanti e tradizionalmente ignorati, nel loro complesso sorreggono l’impalcatura della vita sociale.
La ricerca etnografica è una prospettiva di ricerca empirica, che propone
un forte richiamo alla materialità e alla pluri-sensorialità dell’esistenza, alla
concretezza dei corpi e degli spazi. Essa predispone dunque alla serendipity
e alla scoperta di fenomeni imprevisti e permette di avere come dati empirici non solo dati statistici e documenti ma anche storie, paure, desideri,
racconti, immagini, rumori, odori e sapori, avvicinandosi così alle interazioni
dei soggetti nella loro totalità. Il metodo etnografico è, per questo, lo strumento più in sintonia con il cosiddetto sensorial, emotional and spatial turn
(vedi Cap. 2).
Questo, però, non significa che lo sguardo etnografico si debba limitare
ai fenomeni micro-sociali della vita quotidiana né soprattutto che debba
considerare questi processi come qualcosa di “autentico” da idealizzare.
Come sottolinea Felski (2000), the everyday is not a safe haven but rather a
never ending task. La vita quotidiana è un intreccio tra dinamiche micro,
meso e macro che troppo spesso i lavori etnografici, per modestia o, all’opposto, per superbia (“piccolo è bello”), non analizzano a fondo. Lo sguardo
etnografico invece raggiunge le sue massime potenzialità proprio quando
si pone questo obiettivo e quando, in particolare, si propone di analizzare
risorse, vincoli e potenzialità delle vite quotidiane dei soggetti e delle loro
relazioni con i luoghi.
2 Anzi in diversi casi si è andati troppo in avanti in questo percorso perché, come reazione all’idea positivista che l’etnografo è un soggetto che registra una realtà che sta
“là fuori”, indipendente dall’osservatore, si è arrivati ad una concezione iper-interpretativa e ad una crescente sfiducia nella capacità di fornire descrizioni e spiegazioni.
In tal modo, però, la riflessività rischia di risolversi in una spirale senza fine perché,
come ha sottolineato Melucci (1998), ad ogni livello di riflessività può essere sempre
aperta una nuova dimensione riflessiva, un nuovo meta-livello.
128
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|Postfazione|
postfazione
Adriano Cancellieri ha scritto un libro interessante. Dedicato a un caso
singolare ed esemplare. L’Hotel House è, infatti, sicuramente “singolare”. Un
edificio enorme, distanziato da una città del lungomare marchigiano molto
nota, Porto Recanati. Dove si concentra una grande e composita umanità multietnica e multiculturale. Un pezzo di mondo arrivato qui da noi, vicino
a noi, in pochi anni. A partire dagli anni Novanta e, con velocità crescente,
dopo il 2000. Un residence “singolare”, l’Hotel House, costruito negli anni
Sessanta per favorire e promuovere il turismo. Offrendo un grande complesso di appartamenti e ambienti a famiglie di diversa provenienza - prevalentemente italiana. In affitto e in proprietà.
Un progetto ri-definito in fretta. Nel senso: che ha cambiato “fine”. Dapprima perché l’area immobiliare, abitata solo pochi mesi l’anno, è stata destinata ad altri “fini”. Perlopiù emergenziali. All’accoglienza delle popolazioni
colpite dal terremoto, oppure dei collaboratori di giustizia. Poi, per la concorrenza crescente di altre aree turistiche. Per prima quella della riviera e
delle isole della Croazia. Così, da grande Centro Turistico e Vacanze si è trasformato in una Città, aperta al mondo. Dopo gli anni Novanta, in seguito
all’impetuosa onda dello sviluppo economico di piccola impresa, che ha
mobilitato e attratto grandi flussi di immigrati. Da diverse parti del mondo. Davvero “diverse”, perché all’Hotel House risiedono gruppi di persone
e famiglie di provenienza molto “diversa”. Non esiste un gruppo nazionale
dominante. Senegalesi, bangladesi, pakistani, maghrebini, nigeriani. Sono
censite circa quaranta nazionalità. Ci sono anche un centinaio di italiani.
Una realtà “singolare”, che riproduce uno spazio “urbano”, caratterizzato, cioè,
da alta eterogeneità, concentrazione, densità e mobilità. In forte e stridente
contrasto con la piccola città di Porto Recanati: 12 mila abitanti sparsi a ridosso della costa. Omogenei, dal punto di vista della provenienza, e, inoltre,
stanziali. Una città orizzontale e stabile, di lunga durata, affiancata da una
città verticale, sorta in fretta, che si è popolata ancora più in fretta. Ed è sottoposta a continui cambiamenti demografici.
Per questo, però, si tratta di una storia “singolare” che può venire considerata “esemplare”. D’altronde, riproduce quanto è avvenuto altrove. In altre
località adriatiche, non lontane da Porto Recanati, alcuni residence estivi
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hanno subito una trasformazione simile. A Fermo, ad esempio. Dove gli edifici denominati “Casa Bianca” e “Lido Tre Archi” hanno conosciuto un mutamento d’uso molto simile.
Il “Mondominio”- cioè, il “Condominio globale” - dell’Hotel House, come
lo definisce argutamente Cancellieri, è, però, esemplare soprattutto perché
esemplifica bene alcuni tratti dell’immigrazione straniera “all’italiana”. La
multi-provenienza, in particolare. L’assenza di gruppi nazionali prevalenti.
I tre più numerosi – senegalesi, bangladesi e tunisini arrivano, insieme, al
50% sul totale dei presenti. Ma, poi, appare “tipica” anche una certa “casualità” delle soluzioni adottate. Perché l’Hotel House è sicuramente il prodotto delle politiche urbane e immobiliari che hanno caratterizzato quell’area.
Di segno perlopiù “adattivo”. Volte a sfruttare le opportunità del momento.
Oppure ad adeguarsi alle tendenze economiche e del mercato del lavoro,
senza governarle. Al tempo stesso, però, questo “mondominio” riflette scelte
individuali e di gruppo non programmate. Non previste. L’Hotel House è, infatti, divenuta una “città involontaria”, dal punto di vista “politico” e delle “politiche”. Che però risente delle volontà degli attori coinvolti. Gli immobiliaristi,
i proprietari degli appartamenti e delle abitazioni, gli immigrati. Da ultimo,
le istituzioni. Che poco hanno fatto per “scoraggiare” questo processo”, ma
anche per orientarlo e per regolarlo. In fondo, questa “città verticale” riproduce, in modo esemplare, il modello “adattivo” che ha caratterizzato l’Italia,
negli ultimi 15 anni. Dopo che da Paese di emigrazione si è trasformato,
all’improvviso e in fretta, in Paese di immigrazione.
Il compito di “organizzare” l’accoglienza e l’insediamento degli immigrati
è, infatti, stato svolto dalle associazioni volontarie, dalle categorie economiche, dalle imprese, dalla società e dal mercato, dagli stessi immigrati. Con
pochi programmi e progetti. Attenti, tutti quanti, a non spezzare in modo
troppo violento l’equilibrio pre-esistente. A non rompere la quiete e “l’ordine sociale”. Così, si è cercato di mantenere la distanza sociale – ma anche
reale, fisica – tra i nuovi arrivati e i residenti. Di non dare troppa visibilità
al fenomeno migratorio. Per non sollevare e alimentare l’angoscia presso
la popolazione. Sotto questo profilo, l’Hotel House appare, nuovamente,
esemplare. Vicino e lontano al tempo stesso. Tanto evidente quanto in grado di occultare, agli occhi dei residenti, la presenza, nota e massiccia, degli
stranieri. Non per caso Cancellieri ha scelto Porto Recanati per la sua ricerca:
si tratta del comune con la più alta incidenza di immigrati dell’intera regione. Eppure, arrivato in città, la prima volta, non riusciva a vederne nessuno.
E quando, incuriosito, chiese dove fossero finiti tutti gli stranieri, gli venne
risposto: “sono tutti là”, indicando con il dito la parte Sud della città. Dove si
trova appunto l’Hotel House.
L’altra città. La città degli “altri”. Quelli che, finito il lavoro, scompaiono.
Da ciò un ulteriore motivo di interesse di questo libro, . Che ci mostra e
dimostra come questo ritaglio di insediamento “urbano”, affollato dalla presenza degli immigrati, non sia un luogo di anomia e minaccia. Invivibile e
ingestibile. Per quanto tenuto distante e distinto, per quanto lontano dal
centro di Porto Recanati, in quanto non collegato da servizi pubblici. L’Hotel House appare un caso di relativa (auto) organizzazione e integrazione.
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|Postfazione|
Dove si intrecciano e si incrociano famiglie e individui di diversa cultura,
lingua, tradizione. Che alternano la – spesso difficile – ricerca di spazi di vita
quotidiana a momenti e luoghi di vita comunitaria. Intorno al cibo e alla
preghiera, soprattutto. Il Mondominio, questo enorme condominio, come
osserva Cancellieri, appare “un contesto ricco di capitale spaziale, cioè denso di territori, di pratiche e di significati spaziali che permettono ai suoi abitanti di procurarsi risorse simboliche o materiali”. Dove, peraltro, si realizzano
conflitti e mobilitazioni contro le “minoranze devianti”, dedite in particolare
allo spaccio. Dove i modelli di coabitazione e coesistenza si rinnovano di
continuo, parallelamente ai movimenti e ai mutamenti demografici.
Il saggio di Cancellieri, infine, è interessante e suggestivo anche per ragioni narrative. È un racconto etnografico, accurato e ben scritto. Racconta
alcuni anni di esperienza personale. Ricchi di episodi e di impressioni. Di
sensazioni. Fin dal momento dell’arrivo. In auto, di sera, alla ricerca di un
posto dove parcheggiare. In mezzo a uno sciame di auto e di persone. Così,
d’improvviso, “è la paura a prevalere. Temo di aver fatto un passo troppo
avventato e di venire scambiato per una spia della polizia; ho il timore che
la mia macchina possa venire smontata pezzo per pezzo come quelle che
ho davanti ai miei occhi; temo di essere considerato un ospite non gradito
(…). Devo ripartire subito!”.
Parole che mostrano, in modo efficace ed esplicito, come finire in mezzo
a un multiverso tanto caotico e “straniero” possa suscitare timore e un po’ di
angoscia anche a chi, come Cancellieri, non ha paura dello straniero. Perché
lo frequenta, da tempo, per interesse culturale e sociale.
Il racconto di Cancellieri è interessante e vivo. In grado di restituirci la
complessità, ma anche la normalità di questa realtà “all’incrocio”. Tra culture e mondi diversi. Dove basta girare un corridoio, attraversare una porta,
scendere o salire di un piano. E si scavalcano migliaia e migliaia di kilometri.
Così l’autore si diverte “a passare da un continente all’altro semplicemente
camminando pochi metri. (…) Lasciando “il Senegal” per andare “in Pakistan”. Nell’Hotel House. Dove basta prendere l’ascensore per coabitare con
pakistani, nigeriani, senegalesi, tunisini. Insieme. Tuttavia, Cancellieri non
narra l’aulica della convivenza interetnica e multiculturale. Perché coabitare
e coesistere, in queste condizioni, è difficile. Talora rischioso. Conflittuale.
Uno spazio conteso, al centro di “continue battaglie per il senso e l’uso del
luogo”.
Ma Cancellieri spiega bene, con la sua osservazione etnografica, come
le paure, le nostre paure, nascano anzitutto dalla non-conoscenza. Dalla
distanza. Dalla non-visibilità. Come, invece, anche in condizioni di concentrazione umana e urbana tanto dense, generate in modo tanto casuale, esistano regole. Modelli di organizzazione e di co-esistenza. Che si rinnovano
e mutano di continuo.
Naturalmente, questa ricerca non fornisce un atto di assoluzione alla
pratica dell’integrazione all’italiana. Affidata alla società e al caso. Alla coesistenza e alla resistenza reciproca fra “noi” e gli “altri”. Al contrario: ci dice
come la co-abitazione e l’integrazione siano faticose, ma possano funzio-
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nare. E potrebbero, anzi, funzionare meglio e proiettarsi a lungo, nel futuro,
con reciproca utilità, per “noi” e gli “altri”, se tutto ciò non fosse lasciato al
caso. Affidato alla fortuna e all’“arte di arrangiarsi”. Le nostre virtù tradizionali.
Che non è detto possano sostenerci e proteggerci ancora a lungo.
Ilvo Diamanti
aprile 2013
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