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8 Studi di Anglistica

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8 Studi di Anglistica
Studi di Anglistica
collana diretta da
Leo Marchetti e Francesco Marroni
A10
129/8
8
Volume pubblicato con il contributo
del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie
Università degli Studi “G. d'Annunzio” di Chieti-Pescara
Eleonora Sasso
William Morris
tra utopia e medievalismo
Copyright © MMVII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1361–8
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 2007
Indice
Ringraziamenti
7
Introduzione
9
Capitolo I
William Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
1.1. Morris e la costruzione di un nuovo modello di artista
19
1.2. Verso una topologia ideale
39
1.3. Morris e le istanze del medesimo
58
1.4. Il regno del fuoco
74
Capitolo II
Tempo, temporalità e storia
2.1. Modelli di temporalità in News from Nowhere
2.2.Quasi come uno storico vittoriano
91
104
Capitolo III
L’eterogeneità dello spazio utopico
3.1. Dalla struttura triadica temporale alla triplice visione
spaziale
3.2. Cromatismo spaziale: la funzione modellizzante del
colore
3.3. Uomo e ambiente: Morris e le strutture del sentire
132
157
Bibliografia
173
Indice dei nomi
199
125
Ringraziamenti
Questo volume nasce nell’ambito del Dottorato di Ricerca
in Anglistica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di
Chieti-Pescara, ove ho avuto il privilegio di conoscere il Prof.
Francesco Marroni, Direttore del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie e della Collana “Studi di Anglistica”. Rivolgo a lui, al maestro di rara sensibilità estetica e al fine conoscitore della cultura anglosassone, la mia più profonda e sincera
gratitudine. Senza il suo incoraggiamento a proseguire sulla via
del confronto letterario, senza gli insegnamenti di rigore scientifico ed onestà intellettuale, non avrei trovato lo stimolo giusto e
la forza necessaria per portare a termine questo lavoro che cerca
di applicare la raffinata arte dell’interpretazione.
Vorrei anche esprimere la mia riconoscenza al Prof. Andrea
Mariani, per avermi coinvolta nelle sue attività scientifiche, offrendomi opportunità di crescita culturale.
Un ringraziamento particolare va al Prof. Gianni Oliva, il
quale, avendo creduto nelle mie capacità di traduttrice, mi ha
consentito di ampliare la conoscenza del mondo vittoriano.
A Roberto Andreotti, Direttore di Alias, sono grata per le
occasioni di approfondimento critico-letterario sulle pagine della pregevole rivista.
Per l’interesse e l’incoraggiamento nei confronti della mia
attività di ricerca, desidero rivolgere il mio sentito ringraziamento ai Proff. Silvia Bigliazzi, Mariaconcetta Costantini, Peter
Faulkner, Vita Fortunati, Coral Ann Howells, David Latham,
Franco Marucci, Clara Mucci e Biancamaria Rizzardi.
Fra i vari studiosi con i quali ho avuto l’onore di confrontarmi, non posso dimenticare Roger Ebbatson, Regenia Gagnier,
George Gopen e Jude Nixon, ai quali devo alcuni interessanti
suggerimenti bibliografici.
8
Ringraziamenti
Un profondo grazie va inoltre al Dipartimento di Scienze
Linguistiche e Letterarie, e in particolare a Emanuela Ettorre e
Miriam Sette per l’affetto e il sostegno dimostrati nel corso degli anni. Vorrei anche esprimere la mia stima sincera a Paola
Partenza, Marilena Saracino e Enrichetta Soccio.
Non ultimo, il mio grato pensiero va alla William Morris
Society, un’associazione tesa alla divulgazione internazionale
del prezioso patrimonio estetico-culturale morrisiano, per me
fonte inesauribile di stimoli bibliografico-letterari.
Dedico questo libro ai miei genitori e a mio fratello Stefano.
Pescara, maggio 2007
Introduzione
If a man will begin with certainties, he shall end
in doubts; but if he will be content to begin with
doubts, he shall end in certainties.
— Francis Bacon, The Advancement of Learning
Die Zeit hat in Wirklichkeit keine Einschnitte, es
gibt kein Gewitter oder Drommetengetön beim
Beginn eines neuen Monats oder Jahres, und
selbst bei dem eines neuen Säkulums sind es nur
wir Menschen, die schiessen und läuten.
— Thomas Mann, Der Zauberberg
Tramontate le speranze di progresso di un secolo, alla sensibilità artistica di uno scrittore non rimane che prendere atto
delle qualità intellettuali e morali che sanciscono i caratteri costitutivi dell’episteme contemporanea. L’impossibilità di un recupero della totalità perduta risulta racchiusa in un mondo che
pare incapace di applicare quei principi di vita, atti a delineare i
confini di uno spazio mentale ideologicamente gratificante.
L’alba di un nuovo viaggio letterario si presenta come una tela
bianca su cui dipingere i segni del passato e del presente, non
già per sancire la loro definitiva separatezza, ma per collegarli,
pur tra dubbi e incertezze assiologici. Si tratta di una superficie
con una voce e una memoria che, priva di restrizioni dialogiche,
si estende lungo l’asse immaginario della mente dell’artista in
grado di affermare istanze di rinascita. Quello che si spalanca
agli occhi di William Morris – poeta, scrittore, artigiano, rappresentante socialista volto a trascinarsi nella sua incessante e
instancabile missione etica – è un abisso temporale, locus di una
rovina morale, da cui riemergere con la convinzione che l’unica
virtù verso cui tendere sia la speranza.
10
Introduzione
In tale atteggiamento, e alla luce delle vicende storicosociali che lo vedono già profondamente impegnato nella lotta
contro la tensione distruttiva e denigratoria vittoriana, Morris
sembra in parte collegarsi a un altro personaggio della liminarità, un uomo consegnato alla soglia esistenziale del nuovo millennio che si trova segregato in una realtà che impone una redifinizione dell’orizzonte estetico-letterario. Qui si allude a Italo
Calvino a cui spetta dare un ordine alla confusione ontologica,
non meno dell’artista preraffaellita, suggerendo che l’elaborazione
di un messaggio identitario è innanzi tutto conseguenza della
crisi spirituale della coscienza collettiva. E tanta apertura, o se
si vuole chiusura, verso il mondo esterno viene messa in evidenza dalla peculiare intertestualità tra quelle due opere, caratterizzate da una compatta tramatura semantica intorno al motivo
dell’innovazione, che, significativamente, sembrano postulare
l’immagine di un’anima sensibile intenzionata a restare se stessa, innalzando barriere contro chi tenta di stabilire una forma di
trasgressione artistico-formale.
Nel 1988 esce la prima edizione delle Lezioni americane.
Sei proposte per il prossimo millennio di Calvino, una summa
di valori ideali – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità – che rappresentano la raison d’être di ogni modello
letterario, la formula estetica umanamente vitale e insieme la
chiave di lettura privilegiata dallo scrittore per recuperare
l’autenticità dei sentimenti nell’arte narrativa. Emblematicamente, un secolo prima Morris è impegnato nella stesura del
romanzo utopico, News from Nowhere 1 (1890, d’ora in poi
NFN), che sancisce il trionfo del suo umano sentire, visto che le
parole attribuite al protagonista della vicenda sono in realtà le
parole della sua coscienza. A partire dal primo enunciato calviniano, lo scrittore vittoriano dà vita a una poetica della leggerezza che si espleta come “sottrazione di peso alle figure […]
1
Tuttle le citazioni relative a questo romanzo faranno riferimento
all’edizione William Morris, News from Nowhere or An Epoch of Rest. Being
Some Chapters From a Utopian Romance, ed. David Leopold, Oxford, Oxford University Press, 2003.
Introduzione
11
alle città […] alla struttura del [romanzo] e al linguaggio” 2 ,
connotando in termini positivi il valore della leggerezza. Per
cui, se pensiamo al fatto che Morris attribuisca un enorme valore modellizzante al passato medievale e a quegli scrittori in grado di attivare un fitto dialogismo con l’episteme del quattordicesimo secolo, allora troviamo conferma nell’ideale moderno
secondo cui le opere del passato assurgono a pietra di paragone
in termini di leggerezza. E questo, non perché vuole rifugiarsi
nel sogno irrazionale, ma per “guardare il mondo con un’altra
ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica.
Le immagini di leggerezza che […] cerc[a] non devono lasciarsi
dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…”
(LA, p. 12).
Ciò che si delinea è una levità che, così come viene veicolata
nella scrittura, ripercorre i meandri della mente, della pensosità
morrisiana intesa a costruire un’idea di lavoro piacevole, quasi a
volerne garantire il divertimento derivante dalla sua valenza artistico-creativa. Di nuovo, quello che s’impone è la centralità
del termine leggero che, da un punto di vista attanziale, risulta
perfettamente in parallelo con quanto enucleato da Calvino,
laddove i personaggi nowheriani si presentano come “raggi luminosi, immagini ottiche […] entità impalpabili che si spostano
tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra
occhi e voce” (LA, p. 17). La totalità umana, diviene una totalità luminosa – e questa utopia solare si rispecchia nella fisiognomica, più precisamente nell’abbigliamento ridotto all’essenziale,
indice esponenziale dell’estetica professata da Morris.
2
Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
Milano, Mondadori, 2001, p. 7. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine procedute dalla sigla
LA. È appena il caso di ricordare che tale raccolta di saggi letterari è il risultato di un assiduo lavoro intrapreso al fine di onorare l’invito a partecipare alle
Charles Eliot Norton Poetry Lectures, ciclo di conferenze tenute all’Università
di Harvard. Purtroppo, la morte colse Calvino proprio mentre stava completando le sue lezioni ed ecco il motivo per cui delle sei comunicazioni sono
rimaste solo cinque.
12
Introduzione
Ma, ancor di più, è nel modo di muoversi nel nuovo mondo
che si registra la gravità senza peso resa attraverso le immagini
figurali del battello che scorre sulle acque del Tamigi, come
della carrozza trainata da un cavallo grigio. Ad agire è la stessa
volontà calviniana tesa ad alleviare “l’insostenibile peso del vivere” (LA, p. 30) con “immagini di leggerezza: gli uccelli, una
voce femminile che canta […], la trasparenza dell’aria” (Ivi, pp.
31-32).
Un’altra ipotesi di lettura è quella della rapidità riferita alla
scrittura e al suo tempo narrativo, sempre e comunque racchiuso
dalla carica semantica di un oggetto, “legame verbale […] che
stabilisce una continuità tra diverse forme d’attrazione” (LA, p.
40). Ammettendo un simile approccio, NFN diventa la trascrizione temporale di eventi storici ricondotti entro i limiti di correlativi oggettivi (abito, moneta, ponte) miranti a dare un’idea
circa il dinamismo assiologico presente nell’utopia morrisiana.
La congiunzione di tre istanze temporali, oltre a scandire un
ritmo sostenuto, presuppone una velocità mentale che implica
“prontezza di adattamento, agilità dell’espressione e del pensiero” (LA, p. 47).
È questa un’apologia della rapidità che Calvino esprime
molto chiaramente quando, tra le altre cose, asserisce il primato
del ragionamento veloce volto a “comunicare qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza” (LA, p. 53). Così nei
romanzi d’avventura, nelle fiabe e, aggiungerei, nelle utopie,
quello che conta è un’energia interiore connessa alla “rapidità
dello stile e del pensiero […] [nonché all’]agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta
alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il
filo certe volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte” (Ibid.).
Particolare rilievo simbolico assume il paradigma dell’esattezza
che diventa molto più che una trama ben definita o l’ideazione
di immagini visuali nitide e incisive: essa acquista lo spessore
temporale dell’ordine medievale3 in cui si convergono e si ac3
Sulla funzione ordinatrice del periodo medievale si veda quanto scritto
da Alice Chandler: “A single, central desire – to feel at home in an ordered yet
Introduzione
13
cavallano fittamente suggestioni e visioni gotiche che nel momento stesso in cui sanciscono la loro indelebilità nella memoria di Morris, parlano di qualcos’altro. Parlano una lingua incentrata sulla forma e sul dettaglio che apre squarci di verità sulla condizione disforica ottocentesca facendo dell’“opera letteraria
[…] una di queste minime proporzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo” (LA, p. 78). E allora, così come Calvino fa
assurgere la città a “simbolo complesso […] [per] esprimere la
tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze
[…] [e] concentrare su un unico simbolo le [sue] riflessioni, le
[sue] esperienze, le [sue] congetture” (LA, p. 80), allo stesso
modo Morris, maestro incontrastato nell’arte meticolosa del floral pattern, raffigura una città-giardino, modello di perfezione e
armonia urbanistico-sociale.
Quello che risalta ad una prima lettura è la connotazione fortemente visuale di NFN che stabilisce una precisa connessione
con la visibilità moderna, vale a dire “immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato
né forse sarà ma che avrebbe potuto essere” (LA, p. 102). Più
precisamente, l’utopia morrisiana, oltre a stabilire un legame
realistico con la società vittoriana, mostra un nessun luogo idilliaco e alternativo come risultato di un immaginario alimentato
alle atmosfere di Scott, Keats e soprattutto di Wordsworth. A
questa visualizzazione corrisponde la messinscena di tematiche
rossettiane, mediante quel rapporto ossessivo-repulsivo che lega
il maestro al suo discepolo in parte rispecchiando quanto affermato da Calvino: “[l’]iconologia fantastica è diventata il mio
modo abituale di esprimere la mia grande passione per la pittura
organically vital universe. […] The Middle Ages were idealized as a period of
faith, order, joy, munificence, and creativity […] became a metaphor both for
a specific social order and, somewhat more vaguely, for a metaphysically
harmonious world view (Alice Chandler, A Dream of Order. The Medieval
Ideal in Nineteenth-Century English Literature, London, Routledge and Kegan Paul, 1982, p. 1).
14
Introduzione
[…] partendo da quadri famosi della storia dell’arte” (LA, p.
106).
Per di più, NFN si presenta visivamente come un’“esperienza di
confine”, essendo Morris “ora visionario ora realista, ora l’uno
e l’altro insieme sempre come trascinato dalla forza della natura” (LA, p. 107), e questo perché “Tutte le ‘realtà’ e le ‘fantasie’ possono prendere forma solo attraverso la scrittura, […] [in
cui] esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale” (LA, p. 110).
Passando al valore della molteplicità, notiamo come NFN
possa essere definito “romanzo come conoscenza, e soprattutto
come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del
mondo” (LA, p. 116), proprio perché il mondo nowheriano si
offre come “‘sistema di sistemi’, in cui ogni sistema singolo
condiziona gli altri e ne è condizionato” (ibid.). In questo caso,
allora la tripartizione topologica utopica è veramente un differire da qualsivoglia altro romanzo del genere, una strategia di differimento coadiuvata da una “inestricabile complessità, o per
meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei
che corrono a determinare ogni evento” (ibid.).
Al lettore è deferito un susseguirsi di ambientazioni – cittàgiardino, fiume, Casa Rossa, campagna, “casa grigia” – che nel
contesto di un romanzo costruito sulla deformazione del reale,
appare come l’unico itinerario ermeneutico possibile: “ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che
lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti” (LA, p. 117). Ed è su questo elemento, con forte marca polisemantica, che si costruisce la
denuncia metaforica di una condizione drammatica: “ciò che
conta non è il suo chiudersi in una figura armoniosa, ma è la
forza centrifuga che da esso si sprigiona, la pluralità dei linguaggi come garanzia d’una verità non parziale” (LA, p. 127).
Ora, Morris dà corpo proprio a questa idea, tessendo insieme
diversi saperi e codici (urbanistico, architettonico, cromatico) in
una visione plurima del mondo fantastico a cui perviene. Se è
Introduzione
15
giusto dire che per lo scrittore vittoriano si dà una “idea di tempo determinato dalla volontà, in cui il futuro si presenti irrevocabile come il passato e infine l’idea […] di un tempo plurimo e
ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri” (LA, p.
130), allora quello che rimane è “[l]a conoscenza come molteplicità”, “il filo che lega le opere maggiori” (LA, p. 126), quasi
a enfatizzare il fatto che “[o]ggi non è pensabile una totalità che
non sia potenziale, congetturale, plurima” (LA, p. 127).
Il procedimento ermeneutico da cui muove l’esplorazione
delle opere morrisiane fa leva sui criteri di unicità e originalità
rintracciabili non solo nella personalità poliedrica dello scrittore
preraffaellita, ma anche e soprattutto nelle sue scelte esteticoletterarie. Perché la decorazione invece della pittura? Perché
un’utopia ibrida invece di una rappresentazione ideale monologica in linea con le topologie classiche? Perché una forte intertestualità wordsworthiana invece dell’attestata influenza keatsiana? Se da un lato si può dire che la sua posizione ideologica
nella confraternita assumi un ruolo dominante relativamente
tardi, dall’altro mi pare innegabile che, grazie alla teoria della
dinamica dei sistemi culturali lotmaniani e alla natura dialogica
dell’idea bachtiniana, si possa distinguere una peculiarità rivoluzionaria non ancora indagata nelle sue plurime accezioni. Basti solo pensare alla tradizione utopistica del diciannovesimo
secolo, nella fattispecie a Hawthorne, Butler e Bellamy, per
rendersi conto che, facendo leva sulla dialettica hegeliana, Morris dispiega una funzione assiologicamente perfetta e irripetibile. Per non dire poi della scelta evocativa del fiume, topologia
privilegiata ove non solo avviene la vera e inconsapevole rigenerazione umana, ma si configura una semiosfera capace di stabilire un rapporto dialogico tra la città e la campagna.
Ancora più sorprendente appare la rivisitazione morrisiana
del Medioevo sotto il segno di un primitivismo elementare, intriso di una mitologia nordica che si manifesta attraverso una
poetica della semplicità volta ad assicurare la fratellanza umana.
Adottando la prospettiva archeologica foucaultiana è possibile
rintracciare un’estetica emulativa delle istanze medievali, quasi
una ricerca donchisciottesca delle similitudini con il passato ar-
16
Introduzione
caico. A rafforzare il contrasto tra pulsioni di vita e di morte intervengono la stregoneria, la dragonologia e il totemismo capaci
di restituire l’immagine di un universo folklorico ove l’archetipo
del fuoco assume plurime valenze ritualistiche.
Non può nemmeno sfuggire come ad un’attenta lettura temporale di NFN si registri una frammentazione in tre diacronie
interne a partire da tre codici semantici relativi all’abbigliamento,
all’architettura e alla numismatica. L’evocazione di una simile
dissolvenza dimensionale, se da un lato rimanda al primato estetico del Ponte Vecchio di Firenze come espressione di armonia,
dall’altro mette in risalto la legge evolutiva spenceriana incentrata su un processo di differenziazione che va dall’indefinito al
coerente, dalla felicità utopica all’infelicità vittoriana. In tale
prospettiva, mi pare oltremodo significativo il ruolo assunto dal
vecchio Hammond, storico ufficiale di Nowhere, una sorta di
Angelus Novus benjaminiano, il quale dà corpo al convincimento del tutto negativo che nella realtà passata i miti di progresso
hanno solo portato sofferenza e distruzione. Pertanto, assumendo la prospettiva utopica dell’hic et nunc di Fromm, non resta
che prendere atto del rapporto positivo che Morris instaura con
la storia, in termini di rispetto e agnizione letteraria.
Nel caso di NFN, non si può fare a meno di notare come a
un’articolazione temporale triadica corrisponda una tripartizione topologica (ponte-giardino-slums) che, in combinazione con
il potere evocativo del colore, dà vita a un movimento di focalizzazione tematica derivante dalla commistione di plurime dimensioni assiologiche. Dall’incontro-scontro di un ideale di bellezza architettonica medievale con l’epitome degradato e degradante del mondo vittoriano, deriva la città-giardino nowheriana
che si colloca sotto il segno di un desiderio di rigenerazione tanto impellente da evocare fantasticamente l’isotopia di un verde
così come la concepisce Goethe, vale a dire percezione della
mente. Ponendo l’accento sulla simbologia dei colori, s’intende
collocare in primo piano la forza suggestiva del mattone rosso e
della pietra grigia, correlativi oggettivi del credo estetico morrisiano tesi a veicolare i paradigmi della semplicità e della bellezza. In questo senso, quello che s’impone alla nostra attenzione è
Introduzione
17
l’idea di una cromia come metafora spaziale e allo stesso tempo
trait d’union del binomio uomo/ambiente. Non si tratta
semplicemente di colori squillanti di derivazione preraffaellita,
ma, con l’ausilio del modello figurativo greimasiano è possibile
dimostrare la continuità tra gli abiti medievali e il setting
utopico, ove la figuralità umana si presenta come decorazione
unica e irripetibile dell’ambiente.
Apparentemente legata all’episteme vittoriana, la scrittura
morrisiana sembra garantire una continuità etico-culturale con
la prospettiva modernista, il cui senso rimanda ad un’interpretazione
profetica d’immenso valore ontologico. Per dirla con De Fusco:
La possibilità di un cambiamento di funzione delle macchine è […]
chiaramente ammessa unitamente alla considerazione della morte
dell’arte – tema centrale dell’estetica moderna – o quanto meno della
morte di un certo tipo d’arte per dar vita ad un altro. In tal senso la sua
s’è dimostrata una vera profezia. In particolare, ammettendo il cambiamento di funzione nell’uso delle macchine, Morris inizia quel tentativo di qualificazione del prodotto industriale che costituisce un altro
fondamento del Movimento Moderno4.
Nonostante l’incomprensione del suo messaggio rivoluzionario,
nonostante il modo assurdo con cui le voci autorevoli del tempo
sottovalutano ampiamente la dimensione visionaria dei suoi
scritti socio-politici, Morris ha forse qualcosa che agli uomini
vittoriani è negato. La ricorrente e mai appagata esigenza artistica di far sì che l’immagine e l’idea trovassero un’adeguata
rappresentazione verbale, mette a nudo l’anima moderna5 mor4
Renato De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Roma-Bari,
Laterza, 2000, p. 35.
5
Per un’analisi dettagliata dell’ideologia morrisiana e della sua valenza
innovativa, si veda quanto scritto da Marroni: “La nuova cultura che la sua
voce rappresenta è quella caratterizzata da un dovere morale che, superando il
cerchio dell’individuale egoismo, si confronta con il tema della giustizia sociale nel quadro di un equilibrato sfruttamento delle risorse, e tenendo conto
di un progresso che non significa disinteresse per le sorti del pianeta. In questo
senso, oggi, alla luce delle nuove esigenze dello spirito, alla luce anche di
un’economia globale che ignora i grandi problemi di una parte dell’umanità,
Morris può dirsi nostro contemporaneo. Per molti versi, il suo romanticismo
18
Introduzione
risiana che sancisce il permanere di un’inquietudine interiore,
un questioning in grado di incarnare i dilemmi, le preoccupazioni di una mente in cui genialità, socialismo e umanesimo
sembrano dialogare in modo euforico e positivo.
appartiene anche al terzo millennio, a coloro che si battono per uno sviluppo
sostenibile, contro la globalizzazione intesa come negazione della creatività,
come negazione del desiderio” (Francesco Marroni, Miti e mondi vittoriani,
Roma, Carocci, 2003, pp. 224-225).
Capitolo I
William Morris,
fenomenologia utopica e primitivismo medievale
1.1. Morris e la costruzione di un nuovo modello di artista.
Nel quadro del pensiero vittoriano, l’opera di William Morris
rappresenta la risposta, ideologicamente convinta e politicamente consapevole, al crescente processo di depersonalizzazione e
reificazione del soggetto. Come è noto, sulla scia di una rivoluzione industriale che afferma l’ideologia trionfante delle fabbriche e dei suoi capitani d’industria, s’impone l’idea che il progresso sia un dato incontestabile, la naturale e positiva evoluzione dell’uomo e dei suoi progetti intesi come rappresentazione visibile di un più grande disegno divino. Dinanzi a tale ottimismo, William Morris ha il coraggio di affermare la necessità
di un ritorno all’uomo, di un ritorno alla valenza ontologica che
escluda qualsiasi forma di schiavitù e sudditanza allo strapotere
della macchina. Pertanto, configurando un orizzonte assiologico
alternativo, il pensiero morrisiano, seppur sottoposto a un continuo bombardamento eidetico da parte del movimento preraffaellita fondato nel 1848 (e qui si intende la formula ritorno alla
natura = semplicità = bellezza = medievalismo), reagisce con
movimenti prospettici di notevole indipendenza intellettuale.
Con l’ausilio di un universo finzionale isomorfo alla sua dimensione etica, nonché alla sua visione esegetico-culturale
dell’abissamento assiologico in atto nella società del “Century
of Commerce”, il Victorian Sage tenta di restituire autenticità e
dignità alla figura umana, ormai vittima di un processo di disgregazione e caduta nell’abisso ideologico-sociale contestuale.
In proposito vale quanto ha notato lucidamente E. P. Thompson:
20
Capitolo I
Morris’ greatness is to be found not so much in his rejection of the
ideals and practice of an “age of shoddy”; in this he was accompanied
by Carlyle and by Ruskin, as well as by other contemporaries. It is to
be found, rather, in his discovery that there existed within the corrupt
society of the present the forces which could revolutionize the future1.
Sulla base di un simile scenario sociale di grado zero (“age of
shoddy”; “the corrupt society”), caratterizzato da un disorganizzato habitus mentale, l’artigiano vittoriano per antonomasia,
soprannominato “Topsy” dai suoi confratelli, postula una tipologia della cultura ottocentesca depositaria di un modello naturalistico del mondo in termini di reazione eticamente costruttiva
e innovativa. Risulta evidente che, sul piano della “Dinamica
dei sistemi culturali”, l’atteggiamento idealistico minoritario di
William Morris si presenta come “assunzione del ruolo dominante da parte di una sottostruttura, che […] acquista il diritto di
parlare a nome dell’oggetto culturale dato e […] che elimina
tutto ciò che si contrappone a questa sottostruttura in quanto extrasistematico […]”2. Se procediamo a osservare tale fenomeno nell’ambito del preraffaellismo, colto nel suo senso più ampio, è facile rilevare come l’attività marcatamente innovativa di
Morris – sottostruttura pensante della confraternita – possa acquisire uno spessore semantico e una qualificazione assiologica
tesi a mettere in rilievo l’unicità della sua manifestazione artistica. A partire dall’intensa produzione lirica, caratterizzata da
The Defense of Guenevere (1856), The Earthly Paradise (186870) e Love is Enough (1871), non meno degli short romances
apparsi in The Oxford and Cambridge Magazine, insieme alla
narrativa dell’impegno (The Pilgrims of Hope, 1885; A Dream
of John Ball, 1886; NFN, 1890), come anche ai saggi politici e
agli ultimi romanzi di matrice storico-mitica (The House of the
Wolfings, 1888; The Roots of the Mountains, 1889; The Wood
1
E. P. Thompson, William Morris. Romantic to Revolutionary, London,
Merlin Press, 1976, p. 175.
2
Jurij M. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture
pensanti, a cura di Simonetta Salvestroni, Venezia, Marsilio, 1985, p. 132.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
21
Beyond the World, 1894; The Well at the World’s End, 1896;
The Water of the Wounrous Isles, 1897), tutto l’universo artistico morrisiano sembra essere collocato sotto la cifra di
un’originalità ancora da studiare e con cui l’arte misura la grandezza di uno scrittore. Se è vero che “[…] all good things which
exist are the fruits of originality […]”3, così come afferma John
Stuart Mill nel terzo capitolo del suo On Liberty, allora la fondazione della società Morris, Marshall, Faulkner & Co., la valenza indipendentistico-reazionaria della Socialist League e la
qualità grafematica della Kelmscott Press rimandano alla piena
validità delle raffigurazioni ideologiche morrisiane.
Alla luce della sua crescita culturale e del processo di immedesimazione in qualsivoglia percorso creativo, conseguiti attraverso il perseguimento delle vocazioni a lungo coltivate, il valore4 del carattere modellizzante insito nella formula estetica di
Morris va ricercato nella “natura dialogica dell’idea” espressa
da Bachtin: “L’idea […] è interindividuale e intersoggettiva, e
la sfera del suo essere non è la coscienza individuale, ma la comunione dialogica tra le coscienze. L’idea è un fatto vivo, che
si crea nel punto di incontro dialogico di due o più coscienze”5.
Di qui l’importanza assunta dall’interscambio assiologico presente nel circolo preraffaellita in grado di “innescare l’attivazione
dell’idea” in Morris, che si concretizza nella transcodificazione
artistica di una valutazione espressa, oltre ad essere veicolata
3
John Stuart Mill, “Of Individuality, As One of the Elements of WellBeing”, in On Liberty and Other Essays, ed. John Gray, Oxford and New
York, Oxford University Press, 1991, p. 73.
4
Si veda, in proposito, Florence S. Boos che molto giustamente osserva:
“As Morris’ poetry bridged the span between the mid-Victorian Gothic realism of The Defense of Guenevere, the self-questioning epic doubt of The
Earthly Paradise, the appeal to a metaphysics of narrative imminence in
Sigurd, and the allegorical realism of The Pilgrims of Hope, so one or more of
these apects of his work will likely reemerge in another century” (“18961996: Morris’ Poetry at the Fin de Millénaire”, Victorian Poetry, 34, 3, 1996,
p. 298).
5
Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968,
p. 116.
22
Capitolo I
dalla fitta intertestualità delle sue opere. Più precisamente, grazie all’intensa amicizia con Dante Gabriel Rossetti, figura carismatica della P.R.B., l’immaginazione del craftsman risulta fortemente stimolata, attivando una serie di associazioni che implicano un filtro culturale della sua percezione del mondo, un dinamismo intellettuale capace di focalizzare i concetti epistemologici e di stabilire equivalenze con l’ideologia rossettiana.
In questo senso, sotto la spinta della “Fleshly School” volta a
collocare in primo piano la sensualità femminile con l’ausilio di
un cromatismo vibrante, ma soprattutto simbolico – si pensi a
Beata Beatrix (1863), Sibylla Palmerifera (1866-70), Lady Lilith (1868), per non dire poi della serie di ritratti dedicati alla
bellezza archetipa di Jane Burden6 (Mariana, 1868-70; La Pia
de’ Tolomei, 1868-1880; Proserpina, 1874; Astante Syriaca,
1875-1877; Sogno a occhi aperti, 1880) –, Morris rinnova la
sua espressione visuale, configurando i canoni estetici del movimento nell’arte decorativa7. Ne segue che il dettato
dell’artificio artigianale si struttura come materia di raffigurazione artistica innovativa rispetto all’approccio metodologico della
6
Sul ruolo avuto da Jane Burden nello sviluppo artistico rossettiano, Elizabeth Prettejohn ha scritto: “She is often taken to reconcile the opposites, to
unite the spiritual with the sensuous, to heal the rupture in Rossetti’s nature
[…] The images of women can be organised into a neat tripartite scheme:
Siddal versus Cornforth, with Burden as synthesis. In this scheme, the women
lost theirs own identities to become mere signs of different aspects of Rossetti’s identity” (Elizabeth Prettejohn, Rossetti and his Circle, New York,
Stewart, Tabori and Chang, 1997, p. 10).
7
Come è noto, le “Decorative Arts” costituiscono un paradigma fondamentale alla base delle riflessioni teoriche morrisiane: “[…] everything made
by man’s hands has a form, which must be either beautiful or ugly; beautiful if
it is in accord with Nature, and helps her; ugly if it is discordant with Nature,
and thwarts her […] Now it is one of the chief uses of decoration, the chief
part of its alliance with nature […]: forms and intricacies that do not necessarily imitate nature, but in which the hand of the craftsman is guided to work in
the way the she does, till the web, the cup or the knife, look as natural, nay as
lovely, as the green field, the river bank, or the mountain flint” (William Morris,
“The Lesser Arts”, in News from Nowhere and Other Writings, ed. Clive
Wilmer, Harmondsworth, Penguin, 1998, pp. 234-235).
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
23
composizione pittorica di Rossetti, secondo il disegno bachtiniano
che sussume lo sviluppo ideologico-verbale “solo entrando in
reali rapporti dialogici con altre idee altrui”8. Con un procedimento tipicamente medievale, quello che s’impone subito è una
sorta di espansione iconica del dettaglio vegetale che diviene la
prima materia di un’esperienza armoniosa la cui unicità e irripetibilità è sancita dall’antitesi con la volgarizzazione dell’arte mercificata. Ed è significativo che per pervenire alla rappresentazione
visibile della propria identità culturale, Morris “[…] stampava i
suoi tessuti di lino con matrici di legno intagliate a mano, colorate coi verdi bosco e i rossi cupi delle miniature gotiche […]”9
che, facendo leva sull’equazione arte = società, s’incentrano
sull’euforica esaltazione della funzione armonizzante dell’arte:
[…] The Aim of Art is to increase the happiness of men, by giving
them beauty and interest of incident to amuse their leisure, and prevent them wearying even of rest, and by giving them hope and bodily
pleasure in their work; or, shortly, to make man’s work happy and his
rest fruitful10.
Assumendo una prospettiva euforica, il fondatore delle Arts
and Crafts ipotizza un’umanità capace di riconquistare un rapporto positivo con il lavoro e con se stessa, culminante nella
8
9
85.
Bachtin, op. cit., p. 116.
Elisabetta Planca, “I sogni gotici di Morris”, Arte, 274 (giugno 1996), p.
10
William Morris, “The Aims of Art”, in Signs of Change, McLean, Virginia, IndyPublish.com, 2002, p. 62. In un altro punto, dopo aver assunto
l’ipotesi strutturale del binomio assiologico arte/società, Morris scrive: “Less
than forty years ago – about thirty – I first saw the city of Rouen, then still in
its outward aspect a piece of the Middle Ages: no words can tell you how its
mingled beauty, history, and romance took hold on me; I can only say that,
looking back on my past life, I find it was the greatest pleasure I have ever
had: and now it is a pleasure which non one can ever have again: it is lost to
the world for ever” (p. 63). Pubblicato nel 1889, cioè tre anni prima della prefazione a The Stones of Venice di Ruskin, Signs of Change istituisce con
l’opera ruskiniana di matrice polemica un rapporto dialogico molto significativo, essendo entrambe depositarie di una denuncia radicale della disarmonia
del mondo vittoriano.
24
Capitolo I
messinscena di una formula estetica improntata alla ipersemantizzazione della felicità che, a ben guardare, sottende il primato
di una connessione sintagmatico-concettuale strutturata attorno
ai complessi semici di bellezza/divertimento/speranza/piacere.
Non a caso, facendosi fautore di una svolta radicale raffigurata
artisticamente, quasi a voler sancire una nuova impostazione
assiologica, egli mette a nudo l’impraticabilità ideologica della
“Division of Labour”, tipica del processo di industrializzazione,
implicante l’antitesi toil vs. art. Per dirla con Coleman: “[…]
since to Morris, life without art was life without reason, he
sought to reunite art and work in a collective process which he
saw as the construction, the making together, of a world fit to
live in”11. Insieme a un’opera di decodifica del reale volta a segnalare il disvalore di un mondo privo di un orizzonte unificante, le parole di Coleman, costruite parallelisticamente, attualizzano una continuità ontologica che, evidenziando il nesso
art/reason, estromettono definitivamente la negazione di ogni
umana frustrazione per fare luogo a una condizione esistenziale
“fit to live in”. Tale connessione paradigmatica è funzionalmente rafforzata dalla visione di Christopher Shaw, secondo il
quale: “Like Marx, Morris regarded the contemporary organisation of industry as a source of illness and premature death”12 e
per di più “symbolically and actually, the division of labour restrained human history in a cul-de-sac. […] Spontaneous, expressive, creative work was the central activity of human life:
capitalist organisation prevented the discovery of our true natures”13. Più precisamente, i sintagmi illness e premature death
connotano negativamente l’articolazione epistemica industriale
che, in quanto dimensione costitutiva della società, rimanda semanticamente a una disarmonia distruttiva. A questa isotopia di
11
Roger Coleman, “Design and Technology in Nowhere”, The Journal of
the William Morris Society, 2 (Spring 1991), p. 30.
12
Christopher Shaw, “William Morris and the Division of Labour: The
Idea of Work in News from Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 9, 3 (Autumn 1991), p. 22.
13
Ivi, p. 23.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
25
morte corrisponde una transizione strategica di marca disforica
sempre più esplicita (death → cul-de-sac → prevented the discovery of our true natures), intesa a stabilire una separazione
netta tra la “capitalist organization” e la “human life”14 collocata sotto la cifra di un ideale olistico.
Un esempio illuminante di tale squilibrio assiologico è rappresentato dal poema narrativo The Pilgrims of Hope (1885-86)
e, in particolare, dalla sezione di apertura “The Message of the
March Wind” che, pur nella strutturazione semantica del triangolo amoroso (Richard-moglie-Arthur), mette molto bene in rilievo il significato che assume il termine hope nella pratica della
versificazione. Come è noto, si tratta di un romance sociopolitico ove si tematizza la lotta contro il capitalismo, assumendo la Comune di Parigi del 187115 a (pre)testo per veicolare ai
lettori le coordinate morali della nuova “golden age” auspicata
da Morris.
13 There is wind in the twilight; in the white road before us
14 The straw from the ox-yard is blowing about;
15 The moon’s rim is rising, a star glitters o’er us,
16 And the vane on the spire-top is swinging […]
14
Si rimanda alle acute osservazioni di Paul Thompson che, in proposito,
scrive: “The essential basis of Morris’s future is twofold: on the one hand the
simplification of basic needs – which in many cases are fulfilled by mechanisation, powered by electricity, so allowing reduction of hours of necessary
work to half-time; while on the other, the rest of time goes into pursuing leisure work for creative self-expression” (Paul Thompson, “Why William Morris
Matters Today: Human Creativity and the Future World Environment”, in
Kelmscott Lecture 1990, London, William Morris Society, 1991, p. 12).
15
Nel saggio “The Hopes of Civilization” leggiamo, significativamente,
che “France also kept up the revolutionary insurrectionary tradition, the result
of something like hope still fermenting among the proletariat: […] the defeats
and disgraces of this war developed, on the one hand, […] but on the other
made way for revolutionary hope to spring again, from which resulted the attempt to establish society on the basis of the freedom of labour, which we call
the Commune of Paris of 1871” (William Morris, “The Hopes of Civilization”, in News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 322).
26
Capitolo I
25 Hark, the wind in the elm-boughs! From London it
bloweth,
26 And telleth of gold, and of hope and unrest;
27 Of power that helps not; of wisdom that knoweth,
28 But teacheth not aught of the worst and the best. […]
65 For it beareth the message: “Rise up on the morrow
66 And go on your ways toward the doubt and the strife:
67 Join hope to our hope and blend sorrow with sorrow,
68 And seek for men’s love in the short days of life”16.
Lo schema logico della prima strofa presenta una spazializzazione che a partire dal v. 13 si fa metafora dell’interpretazione
storica del presente in cui ad emergere è un’immagine naturalistica investita dalle dinamiche cinetiche del vento, non solo elemento di non-disgiunzione tra la campagna e la città (Londra),
ma anche vettore di tensioni socio-ambientali disforiche e distruttive. Appare evidente che i vv. 13-16 rimandano all’inquietudine
esistenziale dell’uomo epitomizzata dal movimento vorticoso
del vento (“the straw from the ox-yard is blowing about; / […]
And the vane on the spire-top is swinging in doubt”) adottando,
a livello visuale, il mélange cromatico del crepuscolo, come anche l’isotopia del bianco presente nella strada di campagna e
implicitamente nella luna crescente, sia pure intriso di intermittenze gialle e luminose (“the straw from the ox-yard is blowing
about”; “a star glitters o’er us”). In questa prospettiva, non possiamo ignorare come il binomio oppositivo terra/cielo determini
la marca duale dell’isotopia verticale della verbalizzazione (13is
blowing about; 14glitters o’er us; 15is swinging in doubt), come
risultato di una pathetic fallacy messa in atto dalla stretta continuità fonica dei lessemi wind [wi:], twilight [-wai:], white [wai:]
che determina l’evoluzione assiologica cielo → terra → uomo,
ancora più evidente nell’iterazione fonologica della sibilante [s]
al v. 15 (“The moon’s rim is rising, a star glitters o’er us”).
16
William Morris, Selected Poems, edited with an intorduction by Peter
Faulkner, New York, Routledge, 2002, pp. 134, 136.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
27
Passando alle altre due strofe notiamo come, pur sempre nella centralità ipogrammatica del lessema wind17, il poeta veicola
al lettore il cambiamento del codice sensoriale, non più marcatamente visivo, ma uditivo-concettuale. Nell’immaginazione
poetica morrisiana il messaggio portato dal vento di marzo si
trasforma in solenne metafora di denuncia relativa allo squallore
e degrado morale della città, intesa come catalizzatore di distorsioni iperboliche della integritas etico-comportamentale. Se è
vero che “[n]ella letteratura ‘realtà’ non significa riproduzione
della vita, ma interesse per un contenuto politico ‘essenziale’”18,
allora l’orizzonte assiologico postulato da Morris mira a dare
risalto a una voce segnata dal rimpianto per l’armonia perduta e
tutto questo non senza pervenire alla valenza progettuale di un
telos in grado di rivelare il primato dell’amore e della fratellanza. A partire dal v. 25, e in particolare dall’iniziale occorrimento sintagmatico imperativo (“Hark, the wind in the elmboughs!”), appare sempre più evidente l’emergenza di un discorso tropico ossimorico, che – segnalato da una costruzione
frastica paratattica intrisa di una fitta elencazione lessematica
(“of gold, and of hope and unrest”) –, rimanda all’idea del fallimento etico-sociale rappresentato dal “great city’s glare”, vale
a dire da Londra19. Alla luce di un messaggio ancorato a uno
17
A proposito della valenza simbolica del vento, si rimanda a quanto
scrive Carole Silver: “Drawn by a wind which, like Shelley’s West Wind, is
destroyer and preserver both, [Richard] comes to try to right wrongs and to
destroy the evil force that corrupts song, art, beauty, and love for the sake of
gold […] so [he] enters the flood of the city to help create ‘the eyes without
blindness, the heart without guile’” (Carole Silver, The Romance of William
Morris, Athens, Ohio, Ohio University Press, 1982, p. 122).
18
Jurij M. Lotman, Il testo e la storia. L’“Evgenij Onegin” di Puškin, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 71.
19
È forse qui utile ricordare quanto afferma Malcolm Bradbury in merito
alla topologia londinese: “[…] in the age of the ‘impression’ London also offered many other shades: the foggy urban world of the crime and detective
fiction […], but also the crepuscular mists of the urban nocturne, painting in
prose […]. Then there was the green London that William Morris prospects in
News from Nowhere (1890), a reformist Utopian work in which, in the arca-
28
Capitolo I
spazio di incertezza assiologica (“doubt”; “strife”), quello che
s’impone alla nostra attenzione è l’idea di una comunanza umanitaria in termini psicologico-emotivi, incentrata sulla circolarità tautologica dei lessemi hope e sorrow. In questo senso, vale
quanto afferma Morris nella sua lecture “The Hopes of Civilization” che, dopo essere stata presentata in occasione dell’Hammersmith
Branch all’interno della Socialist League nel 1885, viene pubblicata nella raccolta Signs of Change (1888):
Times of change, disruption, and revolution are naturally times of
hope also, and not seldom the hopes of something better to come are
the first tokens that tell people that revolution is at hand, though
commonly such tokens are no more believed than Cassandra’s
prophecies, or are even taken in a contrary sense by those who have
anything to lose; since they look upon them as signs of the prosperity
of the times, and the long endurance of that state of things which is so
kind to them20.
Dietro una simile ridefinizione epistemica dei codici sociocomportamentali sottesi all’organizzazione nazionale, si cela la
convinzione edonistica di Oscar Wilde che dichiara: “Beauty is
the only thing that time cannot harm. Philosophies fall away
like sand, and creeds follow one another like the withered
leaves of autumn; but what is beautiful is a joy for all seasons
and a possession for all eternity”21. Da questo punto di vista,
l’accento viene posto sul paradigma estetico della bellezza attorno al quale si organizzano e strutturano i temi principali della
poetica morrisiana. Se la sua ricerca letteraria rinvia alle categorie fondamentali della Brotherhood, stabilendo così il primato
dian twentieth century, the fogs, poverty, and industrial problems of present
London have somehow gone: […] London, like so much else in the decade,
was mirrored, doubled: the great world capital empire and trade was also the
heartland of poverty, crime and anarchy, representing at once civilization, art
and artifice, and its secret sharer, darkness and disorder” (Malcolm Bradbury,
The Modern British Novel, Harmondsworth, Penguin, 1994, pp. 53-54).
20
William Morris, News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 309.
21
Oscar Wilde, “The English Renaissance of Art”, 1882, in Essays and
Lectures, Whitefish, MT, Kessinger Publishing, 2004, p. 68.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
29
del bello inteso come strumento progettuale di rivolta nella sua
transcodificazione del mondo, assistiamo nuovamente all’agone
artistico-culturale con i procedimenti di revisione rossettiani. A
voler dar credito a un simile approccio, l’interpretazione dei postulati estetici morrisiani appare un’operazione dicotomica, in
quanto risulta orientata a tesaurizzare i segnali modellizzanti
provenienti dal “faro” del preraffaellismo e al tempo stesso, ben
lontana dal processo di imitatio, implica sempre una forte carica
di rielaborazione stilistica. Il parallelismo semantico-formale tra
le due diverse proiezioni iconiche (pittura/decorazione) viene
ulteriormente intensificato da una ricca gamma di exempla22 ai
vari livelli della stratificazione culturale che non solo assicurano
l’unicità dell’ars morrisiana, ma attualizzano una transizione
dalla pittura alla decorazione. Così, se alla matrice artistica
simbolico-sensoriale tipica della figuralità femminile rossettiana
fa riscontro la truth to nature caratterizzante i papers e i chintz23
di Morris, la coppia antinomica dionsiaco/apollineo (ebrezza/sogno)
trova una precisa corrispondenza omologica nell’antitesi tipologicocaratteriale tra il maestro (Rossetti) e il discepolo (Morris):
22
Qui va notato come Morris, secondo una mediazione emulativa, avesse
cercato di attuare il decentramento socio-culturale della rivista fondata da
Dante Gabriel Rossetti The Germ: Thoughts Towards Art and Poetry (1850),
quasi a voler sancire il primato della rigenerazione morale insita in The Oxford and Cambridge Magazine (1856; OCM), ponendo in primo piano la continuità assiologica tra passato e presente, nonché tra sogno e realtà (si veda, a
tal riguardo, Amanda Hodgson, The Romances of William Morris, Cambridge,
Cambridge University Press, 1987, pp. 13-18). Un altro caso di esplicita scelta
strategica atta a mettere in campo la sua emancipazione individualistica è rintracciabile nella costruzione della Red House (1859) che costituisce una sorta
di alternativa artistico-familiare alla Tudor House di Rossetti, luogo
d’incontro bohèmien per antonomasia, o per meglio dire “focus of masculine
artistic cameraderie” (Prettejohn, op. cit., p. 18).
23
Come è noto, la società vittoriana era ossessionata dal decoro delle proprie abitazioni, fino al punto di coniare l’espressione “chintz aesthetic” così
come spiega Matthew Sweet nel suo Inventing the Victorians, London, Faber
and Faber, 2001, pp. 121-135, facendo assurgere Morris e Ruskin a “The real
heavyweights of the period […] who established themselves as champions in
the campaign to rid British homes of Frenchfied frill and clutter” (p. 134).
30
Capitolo I
[Il dionisiaco] è il fluire di un poderoso sentimento universale che erompe incontenibilmente e ottenebra la mente come un vino fortissimo. È ebbrezza nel senso più nobile del termine. […] Si tratta quindi
di una estroversione di quei sentimenti e sensazioni ancorati indifferenziatamente all’elemento del sentire che noi definiamo sensazioni
affettive. Pertanto in questo stato esplodono prevalentemente pulsioni
cieche che si esprimono con alterazioni della sfera fisica.
Per contro l’apollineo è una percezione delle immagini interne della
bellezza, della misura e dei sentimenti contenuti entro debite proporzioni. Il paragone del sogno indica chiaramente il carattere dello stato
apollineo: è uno stato di introspezione, di contemplazione interna del
mondo onirico delle idee eterne, cioè uno stato di introversione24.
Dal pensiero filosofico nietzschiano, in seguito chiarito e interpretato da Jung, possiamo derivare, insieme ai ritratti psicologici delle due personalità preraffaellite (vale a dire il binarismo
tipoligico estroverso/introverso), la necessità di assumere una
prospettiva estetica che, portata in superficie, riesce a penetrare
le loro pulsioni artistiche antitetiche. Evidentemente, quello che
risultava gratificante per Rossetti25, non poteva esserlo in toto
per Morris che, consapevole della pulsione dionisiaca (si pensi
anche all’uso ed abuso di laudano che, tra l’altro, causò la morte
di Elizabeth Siddal nel 1862) dell’universo sotteso ai fenomeni
visibili del suo master, scorge in tale dynamis creatrice lo
stimolo più attivo della ricerca di un suo itinerarium intellectus.
In questo senso vale la pena riportare quanto scrive A. L. Le
Quesne:
24
Carl Gustav Jung, Tipi psicologici, trad. Stafania Bonarelli, Roma,
Newton e Compton, 2003, pp. 121-122.
25
A proposito dell’influenza rossettiana, risulta molto interessante quanto
scritto da Stephen Coote: “The power of Rossetti’s personality exerted an ever
stronger attraction for [Morris]. Through his study of Dante and his love affair
with Lizzie Siddal, Rossetti had developed his own distinctive style within the
Pre-Rphaelite movement. His love of Malory was also sympathetic to the
young men, and when he told Morris, ‘if a man had any poetry in him he
should paint, for it has all been said and written, and they have hardly begun
to paint it’, Morris was won over” (Stephen Coote, “The Brotherhood”, in
William Morris: his Life and Work, London, Garamond, 1990, p. 29).
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
31
Rossetti, with his interest in medievalism, and in a brotherhood, was
bound to be deeply congenial to Morris […] he also moved [him] in
an art-for-art’s-sake direction. Yet the emphasis on the decorative in
his paintings also ultimately acted as an inspiration for Morris to make
good design more widely available, through objects rather than
through paintings. Aestheticism had a negative political impetus – it
was an act of rebellion against an ugly age26.
Quella che cambia è l’indole – due voci interconnesse, due prospettive sul mondo che si incontrano e dialogano nel dispiegarsi
di una comune sensibilità preraffaellita. È questa la polifonia di
cui si nutre tutta l’opera morrisiana, e che per molti versi si dà
come continua rappresentazione onirica di un “earthly paradise”, così come avviene per “the idle singer of an empty day. /
[…] Dreamer of dreams” presente nell’Apology del poema narrativo composto nel 1868-70. In tal modo, dietro la rappresentazione di sé come tipo apollineo – un uomo contemplativo, immaginativo in grado di percepire le “immagini interne della bellezza, della misura e dei sentimenti contenuti entro debite proporzioni” –, Morris cerca di rendere la cifrazione decorativa
dell’artigiano che, creando oggetti di stile naturalistico qualitativamente sorprendenti, interpreta la fusione con la natura come
nessuno può fare. Qui è interessante notare come quasi tutti i
fabric designs pongano in primo piano il mondo vegetale tipicamente inglese dell’Essex e del Kent, e in particolare la semplicità della flora selvatica familiare, mirante ad attualizzare una
continuità affettiva tra il pubblico vittoriano e tali scenari euforici che preconizzano il recupero dei valori della vita. Così, diversamente dalla connotazione eterotipica wordsworthiana, evidente in “London, 1802” (“[…] To think that now our life is
only drest / For show – mean handiwork of craftsman […]”, vv.
3-4) 27, il preraffaellita cerca di trovare un punto di ancoraggio
26
A. L. Le Quesne et al., Victorian Thinkers. Carlyle, Ruskin, Arnold,
Morris, Oxford-New York, Oxford University Press, 1993, p. 348.
27
The Complete Poetical Works of William Wordsworth, 1801-1805, 10
voll., Boston and New York, Houghton Mifflin Company, 1911, IV vol., p.
101.
32
Capitolo I
positivo in un arte di derivazione medievale che si alimenta
all’idea espressa da Goethe secondo il quale “If the artist is not
also a craftsman, the artist is nothing, but calamity”28. È questa
la strategia di funzionalizzazione adottata da Morris che, scagliandosi contro l’ethos vittoriano, nella fattispecie contro la
produzione di massa e la dequalificazione della produzione artistica, impone l’evidenza di quella che Marroni definisce “lotta
contro la disarmonia”29. A tal riguardo, ha ragione Paul Thompson quando osserva che:
Morris believed that the intellectual arts were sustained by the decorative arts, which in turn reflected the conditions of the craftsmen of
each period. […] Social conditions had made real craftsmanship from
the working class impossible. […] Not only was craftsmanship almost
extinct, but the terrible living and working conditions of the working
classes had almost killed their aesthetic sensitivity30.
Dinanzi a quella che sembra una condizione dedalica, si fa
strada la forza antitetica al degrado, allo squallore e all’oppressiva
autorità della Royal Academy contro cui l’homo faber vittoriano lancia la pregnanza cromatica delle tinte vegetali utilizzate
per realizzare i suoi floral patterns. In questo senso, non solo
Morris risulta in grado di innescare un processo di creazione ar28
Johann Wolfgang Von Goethe, lettera del 21 settembre 1771 inviata a
Johann Gottfried Röderer in Barker Fairly, Goethe: Selected Letters, Oxford,
Basil Blackwell, 1949, vol. I, pp. 8-9.
29
Francesco Marroni, Disarmonie vittoriane. Rivisitazioni del canone della narrativa inglese dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2002, p. 13. Nell’introduzione
“L’ethos vittoriano e la disarmonia del mondo” Marroni offre una disambiguazione della logica epistemologica sottesa a tale conflitto: “Una lotta che
significa l’ossessiva riaffermazione del primato di un ordine grazie al quale
costruire i paradigmi etico-comportamentali da proporre alle classi irrequiete
della nazione – una nazione sempre profondamente consapevole sia
dell’inevitabilità del cambiamento, sia del conseguente senso di crisi derivante
dalla necessità di continui aggiustamenti e rifocalizzazioni dell’impianto epistemico-culturale” (ibid.).
30
Paul Thompson, “Past and Present”, in The Work of William Morris,
Oxford, Oxford University Press, 1991, p. 254.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
33
tistica originale, affidandosi alla grande efficacia qualitativa
dell’artigianato, ma preferisce non omologarsi al linguaggio iconico contemporaneo, tanto più se si pensa che la colorazione31 prevalente nei suoi interior designs si dà come resistenza al
depauperamento socio-culturale. Non a caso, contro l’assenza di
vita e professionalità del processo commerciale, Morris auspica
un ribaltamento della situazione e, soprattutto colloca in primo
piano l’istanza eterocettiva della tintura medievale, quale manifestazione superficiale dell’esaltazione all’interno dell’atto creativo: “The art of dyeing, I am bound to say, is a difficult one,
needing for its practice a good craftsman, with plenty of experience. Matching a colour by means of it is an agreeable but
somewhat anxious game to play”32. In una delle sue prime carte
da parati Trellis, eseguita nel 1862, come anche in Daisy, 1864,
rivestimento della camera da letto della Red House, l’ornatista
rivela in modo molto chiaro la sua radicale espressione visuale
che, raffigurando stilizzazioni di motivi ornamentali di tipo fitomorfico, finisce per imporre la centralità delle decorazioni
floreali, correlativi oggettivi della quest esistenziale morrisiana.
Tale ossessiva rappresentazione di tessiture modulari ripetibili
all’infinito viene indagata nella rivista The New Englander (ottobre 1870) in cui si legge:
Mr. Morris is seeking still ‘the pleasure of his eyes’, as he tells us […]
he loves to see better than to think, and to dream better than to feel.
Hence, his devotion to detail, his preference of the foreground to the
31
Sulla valenza tecnico-innovativa del cromatismo preraffaellita si rimanda a quanto scrive Philip Ball: “Per ricavare il meglio dai loro pigmenti, i preraffaelliti copiarono le abitudini di Rubens e dei grandi maestri veneziani
stendendo su fondi bianco opaco strati sottili di colori appena mescolati, per
ottenere la massima luminosità […] I preraffaelliti provarono ogni tipo di miscela dei nuovi gialli e azzurri, per catturare la natura verdeggiante: cromati di
bario e stronzio con blu di Prussia, oltremare sintetico o blu cobalto” (Philip
Ball, Colore. Una biografia, Milano, Rizzoli, 2002, p. 176).
32
William Morris, “Of Dyeing as an Art”, in William Morris on Art and
Design, ed. Christine Poulson, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996, p.
71.
34
Capitolo I
remote and larger, and higher portions of the landscape; hence his
greater liking for objects of external nature, than for men and
women33.
Da questa angolazione, ogni motivo ornamentale, che segua la
traslazione regolare del modulo lungo assi paralleli (Daisy), o
che presenti un’accentuazione di simmetrie interne (Trellis), o
che addirittura come in Pimpernel (1876, carta da parati utilizzata per la sala da pranzo della Kelmscott House) configuri lo
schema a riflessione del modulo a 180 gradi, diviene il locus in
cui si stratificano e si susseguono in modo sistematico immagini
di derivazione vegetale, atte a delineare un paesaggio interiore,
risultato di quanto è percepito dai nostri sensi. Ed è in tale processo di grande intensità visiva che, morrisianamente, s’inscrivono i
paradigmi preraffaelliti in base ai quali il disegno sussume
un’ideale olistico da perseguire. Molto significativamente, sul
piano della tipologia floreale34 si registra il recupero di quei
“old-fashioned flowers” – nella fattispecie, caprifoglio (Honey33
Citato in Lindsay Smith, Victorian Photography, Painting and Poetry.
The Enigma of Visibility in Ruskin, Morris and the Pre-Raphaelites, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 22.
34
Nell’imaginary portrait “The Story of the Unknown Church” (1856),
pubblicato in The Oxford and Cambridge Magazine, Morris descrive un
giardino di pura derivazione medievale, caratterizzato da una ricca profusione
di fiori simbolici: “[…] in the garden were trellis covered with roses, and convolvulus […] and specially all along by the poplar trees were there trellises,
but on these grew nothing but deep crimson roses; the hollyhocks too were all
out in blossom at that time, great spires of pink, and orange, and red, and
white, with teir soft, downy leaves. […] in many places the wild flowers had
crept into the garden from without; lush green briony, with green-white blossoms, […] and deadly nightshade, La bella donna, oh! So beautiful; red berry,
and purple, yellow-spiked flower, and deadly, cruel-looking, dark green leaf,
all growing together in the glorious days of early autumn” (William Morris,
News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 7). Si veda anche la lirica
“Flora”, inscrizione annessa a una tapestry commissionata per la Morris &
co.: “I broider fair her glorious gown, / And deck her on her days of mirth /
With many a garland of renown. / And while Earth’s little ones are fain / And
play about the Mother’s hem, / I scatter every gift I gain / From sun and wind
to gladden them” (William Morris, Selected Poems, cit., p. 145).
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
35
suckle), girasole (Sunflower, 1879; Strawberry Thief), rosa
(Trellis) anagallide (Pimpernel), giglio (Srtawberry Thief,
1883) – miranti a metaforizzare l’esaltazione del passato: “[…]
many later Victorians […] attempted to distance themselves
from the ugliness of the present – epitomized by the meretricious glare of bedding displays – by resurrecting the beautifully
simple symbols of the pre-industrial past”35. Ed è emblematico
che, per drammatizzare l’abbrutimento della società vittoriana,
il decoratore adotti l’iterazione di quei segni naturali che, facendo leva sul senso della vista, s’incentrano sul contrasto tra
ciò che è e ciò che è stato. Il fiore ribadisce il permanere della
visione passata mediante la sua cromia radicata nell’immaginario
comune, in grado di trascendere la realtà disforica del presente
collocata sotto la cifra della banalizzazione dei sentimenti umani, nonché dell’orizzonte figurativo che si proietta dinanzi
all’uomo. Per rendere perspicua tale strategia metaforizzante,
può essere utile riportare il poema in blank verse di William
Cowper The Task (1784), e più precisamente il libro V, “The
Winter Morning Walk”, in cui leggiamo:
“Tis liberty alone that gives the flower
Of fleeting life its lustre and perfume,
And we are weeds without it. [...]36
We build with what we deem eternal rock;
A distant age asks where the fabric stood;
And in the dust, sifted and searched in vain,
The undiscoverable secret sleeps 37.
Si tratta di versi che, riconducendo il discorso in ambito naturalistico (equazioni fiore = vita; semi = uomini), sanciscono il pri-
35
Michael Waters, The Garden in Victorian Literature, London, Scholar
Press, Brookfield, Vt., Gower Pub. Co., 1988, p. 129.
36
William Cowper, The Task. A Poem, illustrated by Birket Foster, London, James Nisbet and Co. Berners Street, 1855, p. 190.
37
Ivi, p. 193.
36
Capitolo I
primato della libertà38 di scelta e, nel contempo, danno corpo al
convincimento non del tutto negativo che nella realtà presente,
nonostante i progressi tecnologici e i miti del progresso, non vi
è spazio per le illusioni di immutabilità, ma solo una flebile speranza di rinascita. L’evocazione del passato, se da un lato rimanda all’occultamento di un “underscoverable secret”, dall’altro si
risolve nella finale rivelazione di una speranza, messa in evidenza oltre che dalla sostanza semantica del verso, anche da una
iterazione allitterante della fricativa dentale sorda ([s]: “in the
dust, sifted and searched […] / The undiscoverable secret
sleeps”). È comunque evidente che il fenomeno di volgere lo
sguardo al passato risulta del tutto dipendente dalle tensioni di
ordine socio-economiche, tensioni che nel caso della produzione letteraria morrisiana ripropongono una della tante verità espresse da Oscar Wilde: “In a very ugly and sensible age, the
arts borrow, not from life, but from each other”39. In tale prospettiva, mi pare oltremodo significativo che Morris scelga la
dimensione storica del quattordicesimo secolo40, soluzione e38
A proposito della funzione aprioristica della libertà in ambito artistico,
Ruth Kinna, giustamente osserva: “Looking at the history of art, Morris consistently argued that true art could only be produced in conditions of freedom
[…] Gothic art had broken with classical tradition and particularly with Greek
art, which he associated with slavery […]. […] Morris drew a strict line between the decorative art of the early medieval age and the later art of the Renaissance […]” (Ruth Kinna, “Morris, Anti-Statism and Anarchy”, in William
Morris Centenary Essays. Papers from the Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at Exeter College, Oxford 30 June-3
July 1996, ed. Peter Faulkner and Peter Preston, Exeter, University of Exeter
Press, 1999, p. 226).
39
Oscar Wilde, “Pen Pencil and Poison”, in The Artistic as Critic. Critical
Writings of Oscar Wilde, ed. Richard Ellmann, Vintage, New York, 1970, p.
330.
40
Non possiamo fare a meno di riportare l’acuta interpretazione critica di
Frye: “William Morris is an example of a writer whose attitude to the past is
one of creative repetition rather than of return. Morris admired the Middle
Ages to the point of fixation, and yet the social reference of his medievalism
is quite different from that of Carlyle, or even Ruskin, who so strongly influenced him. According to Morris, the Middle Ages right side up, so to speak,
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
37
spunta per conferire una marca ordinatrice alla sua visione del
mondo e, in qualche modo, mirante a nascondere ogni traccia
delle frustranti trasformazioni diacroniche41 del contesto vittoriano. L’universo simbolico di Morris si presenta come una tipologia sociale medievale degli individui e serve pertanto da
sistema di referenza a una fenomenologia del quotidiano, grazie
alla quale si istituisce una comunità di esseri umani nel rispetto
di valori etico-comportamentali. Di qui l’importanza della consapevolezza di Charles Kingsley secondo cui “[…] ‘some say
that the age of chivalry is past, that the spirit of romance is
dead. The age of chivalry is never past, so long as there is a
wrong left unredressed on earth […]’”42. Alla luce della portata
semantica di tale affermazione e della crisi ontologica ottocentesca, il preraffaellita sente fortemente l’esigenza di ricostituire
when we see it as a creation of artists, not in its reflected or projected form as
a hierarchy; when we realize that the genuine creators of medieval culture
were the builders and painters and romancers, not the warriors or the priests.
For him the fourteenth century was the time when, with the Peasants’ Revolt,
something like a genuine proletariat appeared on the social scene, its political
attitude expressed in John Ball’s question, where were the “gentlemen” in the
working society of Adam and Eve? In News from Nowhere, the “dream of
John Ball” (the title of another work of Morris) comes true: the people in that
happy future world are an equal society of creative workers. They have not
returned to the fourteenth century: they have turned it inside out” (Northrop
Frye, The Secular Scripture. A Study of the Structure of Romance, Cambridge,
Massachusetts, and London, England, Harvard University Press, 1976, pp.
177-178).
41
Si rimanda a quanto scrive Raymond Chapman: “William Morris was
more prerpared to accept of the past and to find in it a necessary remedy for
present ills. Despite his many excursions into romantic fancy, Morris was the
most realistic of those who sought for a political identity in the Middle Ages.
[…]. He was more specific in the identification of particular ways in which, at
least it seemed to him, the past was superior to the present. He had a feeling
for the total quality of life in the fourteenth century, more integrated than that
of Ruskin partly because he suffered from fewer personal problems” (Raymond Chapman, The Sense of the Past in Victorian Literature, London and
Sydney, Croom Helm, 1986, p. 68).
42
F. E. Kingsley (ed.), Charles Kingsley: His Letters and Memories of His
Life, 2 voll., London, Macmillan and Co. and New York, 1891, vol. II, p. 344.
38
Capitolo I
i paradigmi estetici in continuità tematica con le dinamiche assiologiche medievali. Dietro una simile scelta si cela soprattutto
l’attacco socio-culturale all’assetto capitalistico dell’industria,
così come ha sottolineato Paul Thompson nell’individuare le
motivazioni di tale processo di revisione: “It was because craftsmen shared in this pleasure that the Middle Ages was the great
period of popular art. They suffered neither the intellectual perfectionism nor the social slavery of the ancient world. They
‘worked for no master save the public’, for they sold their goods
direct to the purchaser”43. A questo punto, va anche osservato
che la sua modellizzazione improntata alle moralità medievali è
indice di una ricerca tesa a rendere gli itinerari concettuali di
Carlyle (Past and Present) e Ruskin44 (“The Nature of Gothic”),
assimilandoli per esaltarne la loro dimensione deautomatizzante. Quanto alle riflessioni teoriche di Carlyle, le modifiche apportate da Morris, facendo dell’attacco al capitalismo e della
valenza umanitaria del lavoro artigianale le argomentazioni su
cui basare il suo anti-modello alternativo agli stereotipi sociali
vittoriani, non fanno altro che rendere più evidente la comunanza analitico-culturale con l’esuberanza descrittiva ruskiniana45
relativa alla funzione didattico-morale del lavoro creativo. Non
solo, ma come ha notato Charles Harvey:
43
Paul Thompson, The Work of William Morris, cit., p. 239.
Per una lettura approfondita della relazione ideologico-cultuale tra
Ruskin e Morris si veda Lawrence Goldman, From Art to Politics. John
Ruskin and William Morris. The Kelmscott Lecture 2000, London, The William
Morris Society, 2005, pp. 5-32, e in particolare p. 25: “Morris looked forward
to the socialist revolution and Ruskin looked back to the static, ordered, medieval past – as Thomas Carlyle had before him”.
45
Su quest’affinità socio-culturale si veda quanto scritto da R. D. Atlick:
“Durante la loro attività di ciritici dei costumi, Ruskin e Morris usarono il
Medio Evo come modello sociale positivo, rinvenendo [...] all’iterno dell’arte
medievale testimonianze di singoli lavoratori convinti di prestare la loro opera
in una società a cui sentivano di appartenere” (Il Vittorianesimo, a cura di
Franco Marucci, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 347).
44
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
39
Morris was only one of many people responsive to the impassioned
pleadings of Carlyle, Ruskin, Kingsley and others. What made him
unique, however was the immense effort he made during his lifetime
to give their ideas practical expression – and, indeed, to extend them
in important ways. The vehicles for this practical expression was to be
the firm of Morris, Marshall, Faulkner & Co46.
1.2. Verso una topologia ideale. Particolare attenzione merita la fenomenologia utopica sottesa alla narrazione morrisiana
che, al livello intertestuale, chiama in causa in primis la valenza
positiva dei meccanismi testuali adottati da Thomas More. Pur
sviluppandosi su topologie diverse – lo stato ideale moriano è
organizzato su un’isola secondo uno schema urbanistico geometrico47 –, Utopia (1516) e NFN sono accomunate da un concetto
di egualitarismo48 inteso come nucleo semantico grazie al quale
poter attivare una serie di riflessioni sulla crisi etico-morale
46
Charles Harvey, William Morris: Design and Enterprise in Victorian
Britain, Manchester, Manchester University Press, 1991, p. 34.
47
Qui giova forse riportare la descrizione euforica dell’ambiente cittadino
immaginato da More nel secondo libro intitolato “The Geography of Utopia”:
“There are fifty-four cities on the island, spacious and magnificient, entirely
identical in language, customs, and laws. So far as the location permits, all of
them are built on the same plan and have the same appearance” (Thomas
More, Utopia, eds. George M. Logan, and Robert M. Adams, Cambridge,
Cambridge University Press, 2002, p. 43).
48
A proposito del carattere paritario sociale, mi pare molto significativo
quanto si legge nella “Conclusion”: “[…] no one is poor there, there are no
beggars, and though no one owns anything, everyone is rich […] Everyone
can feel secure of his own livelihood and happiness, and of his whole family’s
as well […]” (More, op. cit., pp. 103-104) che si confronta con: “Well, what I
mean by Socialism is a condition of society in which there should be neither
rich nor poor, neither master nor master’s man, neither idle nor overworked,
neither brain-sick brain workers nor heart-sick hand workers, in a word, in
which all men would be living in equality of condition, and would manage
their affairs unwastefully, and with the full consciousness that harm to one
would mean harm to all – the realization at last of the meaning the word
COMMONWEALTH” (William Morris, “How I Became a Socialist”, in
News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 379).
40
Capitolo I
dell’epoca di riferimento. È questo il valore letterario che si cela
dietro la cifra simbolica del mondo utopico, derivante dalle incertezze ontologiche attivate dalle disarmonie sociali: “By the
time Morris wrote News from Nowhere […] the utopia was
thriving, as it always has during periods of turbolent social
change”49, in questo senso “[…] the story re-establishes the
human capacity to imagine alternatives, alternatives created in
response to the social evils of the author’s time, the alienating
aspects of existing […] political, and economic arrangements”50. Ad ogni modo, non è tanto importante stabilire se nel
processo di disambiguazione del romanzo di Morris sia rintracciabile un dialogismo ideologico con la concezione del mondo
di Utopia, quanto conferire unicità ermeneutica e originalità
metodologica alla tipologia utopica di NFN. Un’emblematica
conferma dell’articolazione logica sui generis sottesa alla rappresentazione morrisiana di un mondo altro ci è data da H. G.
Wells:
In almost every Utopia – except, perhaps, Morris’s ‘News form Nowhere’ – one sees handsome but characterless buildings, symmetrical
and perfect cultivations, and a multitude of people, healthy, happy,
beautifully dressed, but without any personal distinction whatever . . .
. This burthens us with an incurable effect of unreality51.
All’eccezionalità argomentativa relativa al romance morrisiano
fa riscontro una depersonalizzazione degli ambienti e dell’umano
sentire che, chiamando in causa un alto grado di perfezione estetico-fisiognomica, attualizza l’agone tra la realtà e l’ideale
sul piano della verosimiglianza utopica di cui NFN è la risposta
più riuscita e strutturalmente rilevante. Per la sua tramatura ermeneutica altamente strategica, organizzata con un preciso bi49
Roger Lewis, “News from Nowhere: Utopia, Arcadia, or Elysium?”, The
Journal of Pre-Raphaelite Studies, 5, 1 (November 1984), p. 58.
50
Eugene D. LeMire, “Mind in Morris’s Englands”, The Journal of the
William Morris Society, 2 (Spring 1991), p. 4.
51
Citato in Robert C. Elliott, The Shape of Utopia. Studies in A Literary
Genre, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1970, p. 116.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
41
lanciamento del peso semantico, questo esempio narrativo di
utopia “culturalista”52 fa sì che il vettore temporale medievale
metta a nudo l’impatto concettuale tra l’inaridimento del reale e
il meraviglioso favolistico. In questo senso, “La bruttezza diffusa della società industriale, può essere vinta, secondo Morris e
Ruskin, solo attraverso un recupero della grande cultura e arte
medioevale: il passato si deve integrare nel presente”53 e di conseguenza “Nel campo dell’architettura […] ogni edificio dovrà
essere diverso dagli altri, esprimendo così la sua specificità.
L’abitato medioevale è semplice, ma ogni abitazione è diversa
[…]”54. E soprattutto grazie al modo in cui l’artista si rapporta
alla coppia antinomica città/campagna, rispetto alla quale ad
emergere è un continuum armonico epitomizzato dal setting naturalistico del giardino55, che ancora una volta tutto sembra ri52
Vita Fortunati, “L’utopia come città e la città come utopia”, in Le aperture del testo. Studi per Maria Carmela Coco Davani, a cura di Mirella Billi,
Lidia Curti, Elio Di Piazza, Daniela Corona, Palermo, Assessorato dei Beni
Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana,
1995, p. 184.
53
Ivi, p. 185.
54
Ibid.
55
Uno studio dettagliato dell’organizzazione spaziale di NFN non può
non mettere in evidenza l’attenzione con cui Morris struttura la topologia delle
singole aree londinesi, badando bene a fare del giardino il polo centrale di tutta la narrazione: “[England] is now a garden, where nothing is wasted and
nothing is spoilt […]” (NFN, Ch. X, p. 62, miei i corsivi). A proposito
dell’importanza associata allo spazio verde circoscritto, può essere utile sottolineare la descrizione dell’ambiente nei suoi molteplici esempi: “Both shores
[of the Thames] had a line of very pretty houses, low and not large, standing
back a little way from the river; […]. There was a continuous garden in front
of them, going down to the water’s edge, in which the flowers were now
blooming luxuriantly, and sending delicious waves of summer scent over the
eddying stream” (NFN, Ch. II, p. 8, miei i corsivi); “We […] were soon in the
main road that runs through Hammersmith. […] There were houses about,
some on the road, some amongst the fields with pleasant lanes leading down
to them, and each surrounded by a teeming garden” (NFN, Ch. IV, p. 20, miei
i corsivi); “[…] we were quite clear of Piccadilly Market […]. Each house
stood in a garden carefully cultivated and running over with flowers” (NFN,
Ch. VII, p. 35, miei i corsivi). Secondo Michael Waters: “At its simplest, this
42
Capitolo I
badire l’originalità e il coraggio della risposta morrisiana a partire dalla topologia utopica.
Since the members of the socialist utopia make no distinctions between work and leisure, or between utility and beauty, “garden” is no
longer used exclusively to mark off those spaces reserved for refuge
and recreation. “Garden” now legitimately designates almost any feature of the humanized landscape expressive of the “generosity and
abundance of life” that brings Guest “to a pitch that he had never yet
reached” (MSW, p. 23) […]. […] The originality of News lies parlty in
its invitation to the reader to rethink the nature of city/garden relationships within the context of a work that itself makes strange the literature in which those relationships are otherwise defined56.
È lecito chiedersi come mai William Morris, scrivendo
NFN, abbia voluto rappresentare una fictio narrativa la quale,
azzerando i tratti topologici di qualsivoglia utopia ottocentesca
– si pensi a The Blithedale Romance (1852), Erewhon (1872) e
Looking Backwards (1888) – si arricchisce di qualcosa che non
era previsto. Non già semplicemente campagna, né montagna né
città claustrofobica e angustiante, lo scenario nowheriano diventa il vero protagonista della scena della scrittura perché risulta
in grado di mettere lo scrittore/narratore dinanzi agli archetipi
cosmologici del creato e alle connesse problematiche assiologiche. Per questo, abbandonata la tradizione rinascimentale a cui
si è già fatto riferimento, rendendola parte della sua narrazione
e includendola nei modelli semantici astratti, all’io artistico non
rimane che “cercare la sua strada”. Così, se Harold Bloom, nelle
sue concezioni del Canone, avesse indagato finanche la tradientails a renewed attentiveness to the importance of gardens as beautifying
elements of the humanized landscape. [Guest] finds gardens everywhere and
in the most unexpected places. Trafalgar Square is now the site of an apricot
orchard. There are rose gardens where Endell Street once stood, gardens surround the mills dottes along the banks of the Thames, and from the end of
Piccadilly to the British Museum ‘each house stood in a garden carefully cultivated, and running over with flowers’ (MSW, p. 38)” (Waters, op. cit., p.
221).
56
Ivi, p. 222.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
43
zione utopica avrebbe, senza alcun dubbio, fatto assurgere l’alto
valore estetico di Morris a pietra di paragone per le generazioni
di scrittori a venire. E di tale ipotesi speculativa abbiamo un
suggello interpretativo in quanto scrive il critico nel suo Il Canone occidentale. I libri e le scuole delle età, che sancisce i parametri atti a stabilire la qualificazione culturale di un’opera letteraria: “Un segno di originalità capace di assicurare status canonico a un’opera letteraria è una singolarità che mai assimiliamo del tutto o che diviene un dato tale che restiamo abbagliati dalle sue idiosincrasie”57. Rimane comunque l’incolmabile
distanza diacronica tra la voce influente della tradizione e quella
morrisiana, di cui ancora una volta la lettura ermeneutica di
Bloom dà una precisa visione in termini di darwinismo letterario, nell’accezione di lotta per la sopravvivenza:
Il fardello dell’influenza deve essere retto qualora si debba raggiungere, e ripetutamente, una significativa originalità nell’ambito della ricca
tradizione letteraria occidentale. La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra
genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza
letteraria ovvero l’inclusione nel Canone58.
Pur in assenza di un esplicito riferimento da parte dell’io ciritco,
quello che ha luogo è una riflessione sul significato della ricerca
artistica di Morris, sul rapporto tra la propria arte e l’ideale estetico. E soprattutto sul modo in cui il preraffaellita deve rapportarsi alla coppia tradizione/originalità quando egli tenga ben
presente che “Lo scopritore di una cosa” – per dirla con Schopenhauer – “è solo colui che l’ha raccolta e serbata riconoscendone il valore, non invece colui che casualmente l’ha presa in
mano una volta e di nuovo l’ha lasciata cadere, o ancora lo scopritore dell’America è Colombo, non già il primo naufrago, get-
57
Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Milano, Bompiani, 2000, p. 3.
58
Ivi, p. 7.
44
Capitolo I
tato un giorno dalle onde laggiù”59, mettendo in chiaro la peculiarità della sua ricerca letteraria. In quest’ottica, a rafforzare il
contrasto tra l’aspetto strutturalmente rilevante di NFN e le
proiezioni utopiche del diciannovesimo secolo interviene
l’effetto straniante60 della topologia londinese nowheriana laddove l’incontro delle due dimensioni assiologiche città/campagna
esprime l’efficacia immaginativa di quella realtà parallela configurata da Morris.
Con l’adozione del pensiero semiologico lotmaniano è possibile rintracciare l’opposizione epistemica sfera organizzata
(cosmica)/sfera non organizzata (caotica)61, omologa all’antitesi
euforia/disforia (utopia/realtà), implicante soprattutto la ricerca
di una società ideale investita di una dimensione metatemporale
che va ben oltre il mero escapism dall’impasse esistenziale. In
questo senso, rispetto a Valgioiosa, Erewhon e Boston, non solo
Nowhere si dà come stadio terminale della triade tesi (campagna)/antitesi (città)/sintesi (città-giardino) in cui viene attualizzata la più riuscita ambientazione utopica vittoriana, ma, per di
59
A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, a cura di G. Colli, Milano,
Adelphi, tomo I, 1981, p. 192.
60
A tal riguardo vanno segnalati quei passi in cui all’io percettivo si offrono immagini familiari rinnovate da una patina naturalistica di elevato valore ermeneutico: “I opened my eyes to the sunlight again and looked round me,
and cried out among the whispering trees and odorous blossoms, ‘Trafalgar
Square!’” (NFN, Ch. VII, p. 36); “Opposite to it was a wide space of greenery, without any wall or fence of any kind. I looked through the trees and saw
beyond them a pillared portico quite familiar to me – no less old a friend, in
fact, than the British Museum. It rather took my breath away, amidst all the
strange things I had seen[…]” (NFN, Ch. VIII, p. 43). In proposito vale
quanto ha notato lucidamente Raymond Williams: “This is a combination of
what is essentially restoration, turning back history and drawing on medieval
and rural patterns, and what was to express itself, formally, as town-planning,
the creation of urban order and control. It is an imagined old London, before
industrialism and the metropolitan expansion, and a projected new London, in
the contemporary sense of the garden city” (Raymond Williams, The Country
and the City, London, Chatto and Windus, 1973, p. 273).
61
Cfr. Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 2001, p. 171.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
45
più, sotteso al viaggio dalla città eponima verso Kelmscott
Manor vi è una complessa modellizzazione topologica – modellizzazione di cui Lotman enuclea uno dei suoi più complessi
schemi tassonomici spaziali. Prendendo in esame l’articolazione
cognitiva secondo cui la Valgioiosa di Hawthorne e la Erewhon
di Butler62, accomunate per via della loro connotazione naturalistica, si oppongono assiologicamente al “cockney paradise”
(Boston) di Bellamy, appare evidente come l’immaginario
sintetico di Morris, depositario di uno stimolante processo di
disambiguazione, possieda quella formula in grado di restituire
grandezza63 e autenticità a un’opera d’arte.
A questo punto, per individuare la specificità isotopica di
NFN può essere utile schematizzare la suddetta struttura
tripartita incentrata sulle diverse entità topologiche presenti in
The Blithedale Romance (1852; in seguito BR), Erewhon (1872;
E), Looking Backwards (1888; d’ora in poi LB) e NFN (1890)
nel modo seguente:
62
Per una lettura originale della figura letteraria butleriana si rimanda a
Roberto Andreotti, Classici elettrici, Milano, BUR, 2006, pp. 43-44: “[…]
l’ossessiva caccia al dettaglio dello stile ‘pompier’, in Butler si traduce
nell’ambizione ridicola di ricollocare esattamente ogni cosa a suo posto, per
filo e per segno, col testo a fronte (sempre la lettera contro la tradizione). Il
risultato è una fanta-Odissea da lettrici petulanti e signorini vittoriani: più risotto letterario che arrosto, più fumo che genio, e a ogni riga, chiacchiere amene vendute come prove e quelli che noi chiameremo psicologismi, come il
prendere manifestazioni di langue come dei fatti di parole”.
63
A proposito dell’importanza epistemica assunta dall’opera morrisiana,
vale quanto osserva acutamente E. P. Thompson: “The writing of News from
Nowhere strikes one with a sense of inevitability – it is such a characteristic
expression of Morris’s genius, springing so logically from his development
both as a creative artist and as political theorist. […] We are aware of his interest in the writings of Fourier, his enthusiasm for More’s Utopia, and his
warm response to Samuel Butler’s Erewhon. We are aware of the ever-present
intention in Morris’s mind to contrast the variety and simplicity of the life of
‘Nowhere’ with the bureacratic State Socialism (or ‘managerial revolution’)
of Bellamy’s Looking Backward […]” (E. P. Thompson, William Morris. Romantic to Revolutionary, cit., p. 692).
46
Capitolo I
TESI
BR
CAMPAGNA
connotazione positiva
ANTITESI
LB
CITTÀTECNOLOGICA
conotazione negativa
E
CAMPAGNA-MONTAGNA
connotazione positiva
SINTESI
NFN
CITTÀ GIARDINO
connotazione positiva
Se con BR e E indichiamo il momento astratto o intellettivo (tesi) della dialettica hegeliana ove più evidente appare il discorso
intorno al tema dell’astrazione di concetti determinati, possiamo
facilmente concludere che la spazializzazione utopica della
campagna, oasi mentale per l’io borghese, intesa come locus di
attività centrifuga rispetto alla realtà disforizzante della città,
finisce per assumere una funzione di pura iniziazione al procedimento metodologico che caratterizza il divenire dell’utopia
inglese. In quest’ottica, alla prima fase del processo dialettico si
contrappone l’antitesi (LB), vale a dire il momento negativamente razionale, che rimanda alla dinamizzazione degli esperimenti testuali utopici, in quanto, per conferire attendibilità ermeneutica a qualsivoglia concezione artistica, va considerata
l’idea in rapporto al suo opposto. Di qui l’agone intertestuale
contro LB, depositario di una cornice assiologica meccanicistica
e depersonalizzante, a partire dalla disseminazione di quei
“pneumatic tubes” atti a favorire il processo commerciale, come
anche l’efficiente sistema telefonico portatore di messaggi etico-sociali. Non già la campagna accogliente di Valgioiosa, epitomizzata dal calore umano insito nel focolare64 della fattoria in
64
Per un’analisi stimolante della simbologia del fuoco in The Blithedale
Romance si rimanda all’introduzione di Francesco Marroni “Nathaniel Hawthorne e la messinscena di un fallimento: ideali, maschere e inganni del Romanzo di Valgioiosa”, in Nathaniel Hawthorne, Il romanzo di Valgioiosa, Mi-
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
47
cui agisce una congrega di sognatori, e neppure la spazialità
chimerica di E – commistione paesaggistica di campagna e
montagna – afferente ai campi semantici della prosperità e luminosità65, ma ad emergere è la raffigurazione iperbolica di una
città tecnologica, polo negativo e disvalore che distrugge la cifra estetica dell’umano sentire. Non a caso, contro la Boston idealizzata in LB, Morris esprime tutto il suo disappunto66 laddove prevale una rappresentazione insensibile dell’anima socialista, nonché una serie di manchevolezze etico-sociali da cui
non può fare altro che prendere le mosse per mettere a nudo
lano, Oscar Mondadori, 2003, pp. v-xxv. Vale la pena riportare qui i passi più
significativi relativi alla semantizzazione del fuoco: “It was a wood-fire, in the
parlor of an old farm-house, on an April afternoon, but with the fitful gists of
a wintry snow-strom roaring in the chimney. Vividly does that fireside recreate itself, as I rake away the ashes from the embers in my memory […]”
(Nathaniel Hawthorne, The Blithedale Romance, with an Introduction by
Tony Tanner and Explanatory Notes by John Dugdale, Oxford, Oxford University Press, 1991, p. 9); “THE PLEASANT firelight! I must still keep harping on it. The kitchen-hearth had an old fashioned breadth, depth, and spaciousness, […]. It was half-an-hour beyound dusk. The blaze fom an armfull
of subsantial sticks, rendered more combustible by brush-wood and pine,
flickered powerfully on the smoke-blackened walls, and so cheered our spirits
that we cared not what inclemency might range and roar, on the other side of
our illuminate windows” (Ivi, p. 23).
65
Nel primo capitolo significativamente intitolato “Waste Lands” leggiamo: “[…] the country was timbered, but not too heavily; it was admirably
suited for agriculture; it also contained millions on millions of acres of the
most beautifully grassed country in the world, and of the best suited for all
manner of sheep and cattle […]” (Samuel Butler, Erewhon, ed. Peter Mudford, Harmondsworth, Penguin, 1974, p. 40) che acquista maggiore chiarezza
esemplificativa nel capitolo quinto “First Impressions”: “The country was
highly cultivated, every ledge being planted with chestnuts, walnuts, and appletrees from which the apples were now gathering. Goats were abundant; also a
kind of small black cattle, in the marshes near the river, which was now fast
widening, and running between larger flats from which the hills receded more
and more” (Ivi, p. 80).
66
Per un’indagine dettagliata della critica morrisiana a Looking Backwards si veda l’introduzione di David Leopold a William Morris, News from
Nowhere or an Epoch of Rest. Being Some Chapters from a Utopian Romance, cit., pp. xix-xiii.
48
Capitolo I
l’incapacità dell’io testuale di offrire una perfetta congiunzione
tra le due accezione etimologiche dell’utopia (ou-topos; eutopos):
Fondamentalmente [Morris] desiderava mostrare la sua visione del socialsmo per mezzo diverso di scrivere e di ritrarre l’utopia. Il fallimento di Bellamy, secondo Morris, non era semplicemente dovuto ad
un’erronea visione del socialismo; era più seriamente, un difetto di
temperamento dovuto all’incapacità di concepire il socialismo se non
nei termini prosaici propri delle classi medie professionali. “L’unico
modo giusto di leggere un’utopia”, diceva Morris, “è considerarla come l’espressione della natura del suo autore”67.
Nell’ultimo stadio, denominato positivamente razionale, si ristabiliscono gli equilibri e, ancor più, si concentra il senso di
una conciliazione degli opposti che, nella testualizzazione morrisiana, manifesta la reductio ad unum di due dimensioni antitetiche (campagna/città). In tal modo, si perviene alla tematizzazione di un’alleanza determinatasi dopo singolari tentativi di
estremizzazione – alleanza che, dalla prospettiva del metalinguaggio dello spazio, implica il superamento sia dell’astrazione
naturalistica (si fa riferimento a BR e E) sia della disumana visione urbana che NFN riesce a sintetizzare in un estremo slancio immaginativo. Andando oltre la contraddizione e, di conseguenza, superando gli opposti scenico-attanziali, l’utopia morrisiana, pur sempre nella sua astratta ideologicità, perviene a una
concettualizzazione più concreta rispetto alle raffigurazioni spaziali da cui si è partiti, proprio perché NFN le contiene entrambe.
Significativamente, in posizione intermedia, tra gli antonimi,
si colloca la città-giardino verso cui il narratore alza lo sguardo
per cercare di fare dello spazio familiare un qualcosa che risulta
coinvolto nella metamorfosi utopica del tutto, tanto più se si
67
Krisham Kumar, “News from Nowhere: il rinnovarsi dell’utopia”, in
Corrado et al., William Morris “News from Nowhere” cent’anni dopo, Napoli, Guida Editori, 1992, p. 78.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
49
pensa che la colorazione prevalente dello scenario londinese è
“shabby” (NFN, p. 4) “grimy and miserable” (NFN, p. 126) caratterizzata da “grimy sootiness” (NFN, p. 8) e “degradation”
(NFN, p. 57). La risposta morrisiana è tutta compresa nella
messinscena di un mondo a dimensione umana che, come si è
visto, nella sua precisa combinazione logico-semantica, modellizza la possibilità di un dialogo ontologicamente gratificante tra
la natura e l’uomo:
Many writers have commented by now on the “tree-hugging” qualities
of Morris’ belief in a communion between the natural world and its
inhabitants (recall that Ellen actually embraces a tree toward the end
of News from Nowhere), and the ecological urgency of his political
ideals seem much clearer now tha it did to Morris’ own socialist descendants half a century ago68.
A questo punto, va anche osservato che la topografia nowheriana è indice di una ricerca tesa a rendere il componimento narrativo quanto più sorprendente e, allo stesso tempo, coerente nei
suoi valori semantici. Non solo la città assume la fisionomia di
un eden policromatico, laddove i giardini formano un unicum
armonico, per di più, nell’attualizzazione degli snodi narrativi,
il fiume si configura come area proairetica di non-disgiunzione
tra la città (Londra) e la campagna (Kelmscott Manor). Protagonista della scena non è più l’agglomerato urbano plasmato
all’interno di un territorio semantico che appartiene esclusivamente alla sfera della utopian fantasy, ma ora a stimolare la
mente percettiva del lettore è l’entità equorea, astratta e concreta ad un tempo del fiume, che come un limbo destinale segna il
passaggio da IN e ES2 – passaggio che è anche una cornice
assiologica esterna a se stante (ES1):
68
Boos, op. cit., p. 297.
50
Capitolo I
ES2
ES1
IN
Proprio perché il vettore dell’orientamento semantico-strutturale
dell’ambiente nowheriano si allontana spazialmente dalla cittàgiardino (IN), via via che l’azione volge all’epilogo, attraverso
il fiume (ES1) fino a Kelmscott Manor (ES2), possiamo concludere che ci troviamo dinanzi a un convergere di contesti utopici
relativizzati secondo l’asse orizzontale della superficie liquida
del Tamigi. Si tratta di due diverse dimensioni cosmiche che,
attualizzando l’opposizione semica QS/QL – dove QS è il primo quadro ontologico di matrice utopica a cui perviene Morris
nel processo di trasfigurazione del reale, e QL è il mondo collocato al di là del fiume, l’ultimo tentativo di categorizzazione del
percepito utopico –, danno particolare risalto e concretezza alla
vera essenza di ES1. Non a caso, se da un lato la topologia del
fiume si dà metaforicamente come segno esponenziale della rigenerazione vittoriana, veicolando insieme a IN il cambiamento
delle coordinate storico-sociali, dall’altro essa rientra nella terminologia lotmaniana di semiosfera con cui si concettualizza la
teoria di incontro/scontro dei sistemi semiotici (città/campagna).
Dietro un simile tentativo di disambiguazione si cela la poetica
di William Wordsworth, ampiamente assorbita dal testo morrisiano:
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
51
140 Not in Utopia, – subterranean fields, –
141 Or some secreted island, Heaven knows where!
142 But in the very world, which is the world
143 Of all of us, – the place where, in the end,
144 We find our happiness, or not at all!69
Dall’insegnamento wordsworthiano70, Morris deriva il convincimento che i propri ideali, anche quando risultano controcorrente e si presentano in forma di spettacolarizzazione visionaria,
vanno perseguiti senza il timore di scontrarsi con la totalità disforica del mondo reale e, per questo, egli mira a ridisegnare il
proprio itinerario mentale secondo modalità strategico-finzionali più
vicine alla sensibilità contemporanea. È evidente che, dietro
l’apparente semplicità del loro dettato, i versi nascondono il
contrasto tra reale e irreale in termini di vita e non-vita, configurando al tempo stesso la voce poetica di “a man speaking to
69
William Wordsworth, The Prelude: 1799, 1805, 1850, ed. Jonathan
Wordsworth, M. H. Abrams, and Stephen Gill, New York and London, Norton, 1979, vv. 140-144.
70
Sull’influsso romantico esercitato sulla formazione del gruppo preraffaellita risulta molto interessante quanto scritto da Eric Warner e Graham
Hough: “[…] whereas Wordsworth and Coleridge were among the chief influences on Ruskin, it was Keats who presided over the later nineteenth century.
[…] Keats’s poetry was characterized by elements of an intense medievalism
and fine, jewel-like details which spoke directly to young artists seeking a retreat from an ugly and industrial age. […] Keats created a world of intense
aesthetic splendour which execised a powerful influence on Rossetti’s lovesoaked dreams […]” (Strangeness and Beauty. An Anthology of Aesthetic
Criticism 1840-1910. Ruskin to Swinburne, Cambridge, Cambridge University
Press, 1983, vol. I, pp. 5-6). Su questo tema si veda anche quanto scrive Clive
Wilmer: “From the Romanticism of Keats and Scott, Morris had learnt the
power and value of dreams. Pre-Raphaelite art had seemed to take his dreams
of an ideal rural England and the Middle Ages and make them palpable – in
paint or sensuous verse” (Clive Wilmer, “Introduction” a William Morris,
News from Nowhere and Other Writings, cit., p. xxvii). Da ultimo, può risultare utile riportare quanto osserva Coote riguardo l’atteggiamento della confraternita nei confronti dell’ambiente letterario coevo: “Their use of contemporary and Romantic poets also shows them in revolt against the commercialism
of the age. Tennyson offered them a world beautified by reminiscences of
chivalry and the ideals of art […]” (Coote, op. cit., p. 25).
52
Capitolo I
men” tesa a mettere in rilievo l’assurdità della dislocazione spaziale utopica (“subterranean fields”; “secreted island”). I segmenti poetici posteriori alla congiunzione disgiuntiva But segnano il trionfo del paradigma familiare che, con un grado di
estrema essenzialità, veicola al lettore il senso di una fratellanza
in cui è coinvolta tutta l’umanità (“[…] the world / Of all of
us”). Più precisamente, la doppia articolazione di tale estratto
poetico trova un preciso riscontro anche sul piano lessematico
nell’opposizione misterioso/familiare: la parte descrittiva vede
un prevalere di termini astratti (subterranean; secreted) tesi ad
attualizzare le immagini di una realtà parallela con la scelta di
un linguaggio enumerativo, enfatizzato da una continuità fonica
fricativa ove il suono della sibilante sembra intensificare ulteriormente l’istanza irrealistica degli ambienti marginalizzati. Ne
consegue che la centralità ipogrammatica della versificazione
wordsworthiana è espressa nella seconda parte della modellizzazione antinomica, in cui si registrano circolarità tautologiche
(“But in the very world, which is the world / Of all of us”) atte a
postulare l’isotopia relativa alla felicità esistenziale. E indubbiamente, se si assume questo punto di vista, vale l’osservazione di
Rowland McMaster:
Morris communicates the sense of pleasure not as statical, abstract,
and theoretical, but as vivid, experienced, earthy; and unlike the Romantics (except Wordsworth, perhaps), he does not see pleasure as
exotic, bizarre, removed from the ordinary, but as normal. News from
Nowhere, utopian though it may be, is a paean to “the present pleasure
of ordinary daily life71.
È questo un esempio che forse più di ogni altro – soprattutto alla luce dell’organizzazione formale di NFN – può risultare utile
per comprendere la visionarietà realistica morrisiana, e per vedere fino a che punto il preraffaellita riesce immaginativamente
71
Rowland McMaster, “Tensions in Paradise: Anarchism, Civilisation,
and Pleasure in Morris’s News from Nowhere”, English Studies in Canada,
17, 1 (March 1991), p. 82-83.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
53
a mediare tra la sua concezione virtualmente positiva della vita
e l’esigenza di andare al di là di un simile sguardo idealistico. In
tale prospettiva, il fiume, collocato sotto il sema bellezzaluminosità, appare il supremo tentativo utopico di testualizzare,
su un ampio spettro cosmico, la duplice pulsione ontologica
verso le polarità natura/umanità. Tutto concorre a creare un ambiente esterno fornito di uno scenario acquatico significativamente incontaminato a cui il narratore fa riferimento in termini
di “beautiful”, “interesting” (NFN, p. 159) e “lovely river”
(NFN, p. 122): “There was still the Thames sparkling under the
sun, and near high water, as last night I had seen it gleaming
under the moon” (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 5); e ancora di più: “Where there are salmon, there are likely to be
salmon-nets, Tay or Thames […]” (Ivi, p. 7). Dall’evocazione
del fiume72, discende una forma di conversione emotivo72
Nell’immaginario morrisiano, il fiume assume un’evidente funzionalità
simbolica che risulta fortemente euforica. Tra i molteplici esempi di codificazione naturalistica qui vorrei ricordare The Earthly Paradise e, in particolare,
la lirica “June” ove ad emergere è l’isotopia della felicità connessa
all’assiologia positiva del corso d’acqua: “O June, O June, […] / Wilt thou not
make us happy on this day? […] What better place than this then could we
find / By this sweet stream that knows not of the sea, / […] / This little stream
whose hamlets scarce have names, / This far-off, lonely mother of the
Thames?” (William Morris, Selected Poems, cit., p. 92). Va anche segnalata
l’equazione fiume = luminosità, presente non solo in NFN ma anche in The
Story Of The Glittering Plain (1890), al fine di stabilire anche in modo visuale
il primato dell’elemento equoreo negli snodi diegetici del romance: “[…] I
came out of the hall, and saw […] the glittering river running down amid
most, and the sheep and kine and horses feeding up and down on either side
the water: and I looked up at the fells and saw how deep blue they stood up
against the snowy peaks, and I thought of all our deeds on the deep sea, and
the merry nights, in yonder abode of men […]” (The Story of The Glittering
Plain, Ch. XXII, “They Go From The Isle Of Ransom And Come To Cleveland By The Sea”, in The Collected Works of William Morris, with introductions by his daughter May Morris, New York, Russell & Russell, 1966, vol.
XIV, pp. 319-320). Per di più, sulla prosperità derivante da questa fonte di
sostentamento, a cui Morris dedica non poche pagine in NFN, soprattutto in
relazione alla fauna acquatica, si rimanda alla descrizone della comunità barbarica presente in The House of The Wolfings (1888) che vive in comunione
54
Capitolo I
psicologica, un’empatia, un dialogo che dà voce alle esigenze
dell’animo umano presentandolo in uno stato di felicità raggiunta, vale a dire in un continuo confrontarsi con i segni euforici di
una natura amica:
As we went higher up the river, there was less difference between the
Thames of that day and Thames as I remembered it; for setting aside
the hideous vulgarity of the cockney villas of the well-to-do, stockbrokers and other such, which in older time marred the beauty of the
bough-hung banks, even this beginning of the country Thames was
always beautiful; and as we slipped between the lovely summer
greenery, I almost felt my youth come back to me, and as if I were on
one of those water excursions which used to enjoy so much in the
days when I was too happy to think that there could be much amiss
anywhere. […] but so blended together by the bright sun and beautiful
surroundings, including the bright blue river, which it looked down
upon, that even amidst the beautiful buildings of that new happy time
it had a strange charm about it (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court.
And a Praiser of Past Times”, pp. 124-5).
Il segmento incipitario, oltre ad istituire il parallelismo temporale tra ora e allora73, interviene come cerniera assiologicocon la natura, seguendo il ciclo vitale delle stagioni: “[…] they fished the river’s eddies also with net and with line; […]. The river ran from South to
North, and both on the East side and on the West were there Houses of the
Folk, and their habitations were shouldered up nigh unto the wood, so that
ever betwixt them and the river was there a space of tillage and pasture” (The
House of The Wolfings, Ch. I, “The Dwellings Of Mid-Mark”, in ibid., pp. 45).
73
Su questa linea si inserisce il giudizio di Vita Fortunati che, per molti
aspetti, si offre come sintesi esemplare dell’innovazione apportata da NFN:
“Si coglie ancora una volta quel salto qualitativo dell’Utopia di Morris rappresentato appunto dalla determinazione storica della sua negazione. Non si tratta
più di un’isola fantastica, né di una nazione, magari di una mitica ‘New Zealand’, ma il nuovo mondo, la nuova Londra coincide con la precisa negazione
della vecchia” (Vita Fortunati, La letteratura utopica inglese. Morfologia e
grammatica di un genere letterario, Ravenna, Longo, 1979, pp. 129-130).
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
55
lessicale, postulando in questo modo il paradigma della bellezza
su due assi temporali che si sovrappongono nella mente del narratore intradiegetico. Ne deriva l’annullamento dell’opposizione
bellezza vs. degradazione omologa all’opposizione presente vs.
passato, quasi a voler comprovare la possibilità di un recupero
della totalità perduta. La costruzione delle frasi successive
(“and as we slipped […], and as if I were”) pone l’enfasi proprio sugli effetti propedeutici derivanti dal corso d’acqua, che,
grazie all’iterazione della congiunzione and, acuisce la meraviglia percettiva dell’io narrativo. In questo senso, a conferire coesione argomentativa interviene un’isotopia verticale di tipo
grammaticale (“I almost felt my youth come back to me”; “I
were on one of those water excursions”; “I was too happy to
think”, miei i corsivi) che, presentando tre occorrimenti del pronome personale “I”, ribadisce il primato della soggettualità
utopica di cui l’iterazione allitterativa della nasale [m] inscritta,
più specificativamente nel possessivo “my”, è espansione fonica
dell’affettività dell’evento edenico. Sul piano della sovradeterminazione psicologico-emotiva, si può notare come il campo
semantico della felicità, in sintonia tematica con il paesaggio
della positività, si articoli in due manifestazioni personali laddove il Tamigi diviene icona di uno spazio domestico che si
sdoppia tra passato (“I almost felt my youth come back to me
[…] in the days when I was too happy to think that there could
be much amiss anywhere”) e presente (“[…] the bright blue river […] of that new happy time it had a strange charm about
it”). Ed è da questo elemento, con forte marca metonimica, che
si dispiega la funzione ontologicamente rilevante del “bright
blue river”, volto a sottolineare l’eccezionalità della visione e
nel contempo in grado di imporsi come spazio semantico privilegiato entro il quale ha luogo la rigenerazione dell’anima. A tal
riguardo, vale quanto ha notato acutamente Boos in un saggio
significativamente intitolato “An Aesthetic Ecocommunist:
Morris the Red and Morris the Green”, scritto in occasione del
centenario della morte di Morris:
56
Capitolo I
Morris […] spoke clearly of the need for a proper harmony of people
and the natural order they live in, warned us about the forces which
blight and mutilate that harmony, and called fiercely in the last two
decades of his life for resistance. […] His fundemantal insights were
[…] [founded] in the conviction that human happiness lies in our ability to live in (literal) symbiosis with our environment – understanding
it, preserving it, transforming it and sometimes resisting it, in loving
artistic ways74.
Vero è che ogni aspetto del romanzo è organizzato in modo
nient’affatto casuale, a partire dal metalinguaggio topologico
che, depositario della denuncia delle dinamiche disgreganti della società, delinea una serie di dislocazioni i cui itinerari portano fuori da Londra, per culminare nella centralità spaziale del
fiume, nel punto (Oxfordshire) in cui le sue acque incontaminate risplendono di una luce e colorazione simbolica. È un’armonia
cromatica, quella veicolata da NFN, che, nel caso del Tamigi
wildiano si attiva solo nella placidità magica della notte (“The
Thames nocturne of blue and gold / Changed to a harmony in
grey”, “Impression du Matin”, 1881)75 per restituire poi al mattino la sua vera cifra estetica esemplificata dal colore grigio,
correlativo oggettivo di una condizione ecologica disforica. In
questo senso, alla luce di quel particolare effetto visivo derivante dalla luminosità diffusa dell’acqua, ottenuta con la valorizzazione della chiarezza intrinseca dei toni cromatici – così come
la intendeva Edmund Spenser nella lirica “Prothalamion” del
1596 (“Walk’d forth to ease my pain / Along the shore of silverstreaming Thames / Whose rutty bank, the which his river
hems, / Was painted all with variable flowers”, vv. 10-13)76 –,
74
Florence S. Boos, “An Aesthetic Ecocommunist: Morris the Red and
Morris the Green”, in William Morris Centenary Essays. Papers from the
Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at
Exeter College, Oxford 30 June-3 July 1996, cit., pp. 44-45.
75
Oscar Wilde, Poems, H. S. Nichols, New York, Modern Library, 1940,
p. 77.
76
Edmund Spenser, Selected Poetry of Edmund Spenser, ed. William Nelson, New York, The Modern Library, 1964, p. 573.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
57
quello che si spalanca dinanzi ai nostri occhi è una visione77 favolistica del medium equoreo utopico. Emblematicamente, è
proprio l’orizzontalità del corso d’acqua, e non già la città, a
postulare “la verità del domani”78, un “sylvan Thames”79 la cui
tipologizzazione è così intensa da rimandare alla connotazione
antropomorfica arnoldiana (“And the sweet, tranquil Thames”,
“Philomela”, 1853)80 ove scorgiamo l’indicatore prolettico di un
futuro processo di umanizzazione del reale:
West London has become a wood, the Thames is refilled with fish, the
countryside has become a diverse landscape like his favourite northern
France, with corn grown in orchards. This renewed landscape was the
ultimate fulfilment of all the lesser changes Morris argued for, especially in the urban environment: “we must turn this land from the
grimy back-yard of a workshop into a garden”81.
Diversamente dall’acqua pesante e tenebrosa della metapoetica
di Edgar Allan Poe, “autentico supporto materiale della morte”82, l’elemento equoreo morrisiano attiva una rêverie cosmica
positiva intrisa di profondi psicologismi individuali e/o collettivi. Tale psichismo hydrant è rintracciabile nel battelliere Dick
(“playing waterman for spree”, NFN, p. 7), vittima del com77
In proposito Roger Coleman ha giustamente osservato: “Morris was a
visionary, not a clairvoyant, and News from Nowhere is neither prediction nor
prescription; instead it offered a vision of the future as Morris would have
liked to see it, and finishes – ‘Yes, surely! And if others can see it as I have
seen it, then it may be called a vision rather than a dream’” (Coleman, op. cit.,
p. 28).
78
Massimo Baldini, Il linguaggio delle utopie. Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica, Roma, Edizioni Studium, 1974, p. 9.
79
Peter Faulkner, “William Morrris and the Idea of Enlgand”, in Kelmscott Lecture 1991, London, William Morris Society, 1991, p. 20.
80
Matthew Arnold, The Works of Matthew Arnold, ed. Martin Corner,
Hertfordshire, Wordsworth Editions Ltd, 1995, p. 220.
81
Paul Thompson, “Why William Morris Matters Today: Human Creativity and the Future World Environment”, in Kelmscott Lecture 1990, cit., p. 13.
82
Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, Milano, Red Edizioni, 2006, p. 77.
58
Capitolo I
plesso di Caronte e incaricato di traghettare lo stanger nell’al di
là utopico, come anche nella ninfa di Runnymede, Ellen, che
“ofelizza” le acque nowheriane in un sogno d’amore (“As it
cleared the arch, a figure as bright and gay-clad as the boat rose
up in it; […] I saw with joy that it was none other than the fairy
godmother from the abundant garden on Runnymede – Ellen, to
wit”, NFN, p. 155). Ma è soprattutto nel protagonista William
Guest che riconosciamo il complesso di Swinburne83, un’“esaltazione
delle acque” favorita da una nuotata mattutina nel Tamigi, momento di estasi poetica e seduzione sognatrice (“I jumped in without any words and he paddled away quietly as I peeled for my
swim […] and so utterly astonished was I by what I saw […]”,
NFN, p. 6). Alla luce di questi variegati stati psicologici che caratterizzano Dick (Caronte), Ellen (Ofelia) e William (Swinburne), non è azzardato postulare un complesso poetizzante
dell’acqua che si offre come risposta celata nel testo morrisiano
alle disarmonie vittoriane. L’acqua, per dirla con Tristan Tzara,
diviene il più fedele “specchio delle voci”84 umane depositarie
di una liquidità psichico-linguistica, segno vitale di una realtà
totalizzante.
1.3. Morris e le istanze del medesimo. Nel processo creativo di William Morris assistiamo alla ricerca delle similitudini
con l’episteme medievale, in una continua oscillazione tra la
decifrazione euforica di un mondo finzionale somigliante
all’ordine delle cose passate e la delusione delle analogie, implicante la discontinuità tra Ottocento e Trecento. Se il sistema
degli elementi morrisiani rinvia ai modelli medievali in termini
83
Per una chiara esemplificazione di tale complesso psico-fisico, si veda
quanto scritto da Bachelard: “Il complesso di Swinburne, ne siamo certi, verrà
riconosciuto da ciascun nuotatore. Sarà soprattutto riconosciuto da tutti quei
nuotatori che narrano le proprie nuotate, che trasformano le proprie nuotate in
poesia, perché si tratta del complesso poetizzante del nuoto” (ibid., p. 190).
84
Citato in ibidem, p. 213.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
59
di una “nostalgia for an idealised chivalric order”85, lo spazio
del sapere culturale preraffaellita si costituisce attraverso ciò
che Foucault chiama “le istanze del medesimo”86: convenentia,
aemulatio, analogia e simpatia.
Assumendo la prospettiva della “convenienza”, intesa come
somiglianza legata allo spazio, è possibile ipotizzare una vicinanza tra i mondi di Chaucer e Malory87 e il macrocosmo dello
scrittore preraffaellita, tra la Londra raffigurata in The Canterbury Tales e la Londra ecologica di The Earthly Paradise, tra il
reame incantato de Le Morte D’Arthur – un Bildungsroman arturiano costituito da plurime tipologie spaziali (casate, campi di
battaglia e cappelle) – e la sanguinaria ambientazione cavalleresca di The Defense of Guenevere, secondo una mescolanza delle
saghe e delle leggende capace di rivelare una “parentela oscura”88. Pertanto, la mitologica Danimarca di Beowulf, l’insegnamento
morale offerto nella Camelot di Sir Gawain and the Green
Knight e la ricerca spirituale condotta nel regno di Upmeads (ove si oppongono la Terra dell’Abbondanza alla terra selvaggia),
85
John Simons, From Medieval to Medievalism, New York, St. Martin’s
Press, 1992, p. 109.
86
Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, BUR, 2004, p. 38.
87
Per una lettura approfondita dell’influenza che il macrotesto maloriano
esercitò sull’immaginazione letteraria di Morris si rimanda a Laura Corner
Lambdin, Camelot in the Nineteenth Century: Arthurian Characters in the
Poems of Tennyson, Arnold, Morris, and Swinburne, Westport, Greenwood
Press, 2000, p. 74: “Morris’s four Arthurian poems, although they often deviate in details from their source, are true to the spirit of Malory’s Morte. As an
undergraduate at Oxford, Morris bought Robert Southey’s 1817 edition of the
Morte, and it quickly became the most important book in the world to him.
The poems are all original because Morris exposed and examined the motivations Malory mentioned, but did not amplify. Like most writers, Morris uses
his source as a springboard from which to elaborate his own ideas and concerns, which, in this case, develop around the fine line between human love in
its highest form and and this same love as it dissolves into sin”.
88
Foucault, op. cit., p. 32.
60
Capitolo I
presente in The Well at the World’s End89, sono “convenienti”
al punto che il mondo medievale assume la funzione di “convenienza” universale delle cose morrisiane.
Nondimeno, la rappresentazione del mondo vittoriano si offre come emulazione di un assetto sociale esaltato da Morris nel
saggio “Architecture and History”: “We shall have much more
to do with the developed Middle Ages, with the work of which
our Society is chiefly concerned, than with any other period”90.
Sottesa a questa forma di similitudine, scorgiamo una reduplicazione speculare priva di contatto spaziale, atta a rimandare
alla struttura sociale del quattordicesimo secolo, basata sui valori dell’onore, del coraggio e del sacrificio. Per dirla con Elizabeth Fay:
Despite the Arthurianism of early Victorians […] Victorian medievalism was rather more concerned to contrast feudalism with commercial
society and, from Carlyle and Marx to William Morris, began to focus
on the later fourteenth century and that period’s struggle to adjust
codes of honour to economic change91.
Visti da lontano, i lavoratori morrisiani sono l’emulo degli artigiani medievali; come l’intelletto dell’uomo vittoriano riflette
imperfettamente la saggezza92 dei cavalieri, così Morris cerca di
colmare quello che Angela Jane Weisl definisce “unpassable
89
William Morris, The Well at the World’s End, introduction by Nicholas
Salmon, Stroud, Gloucestershire, Sutton Publishing, 1996. Tutte le citazioni
faranno riferimento a questa edizione, di cui saranno indicate le pagine precedute dalla sigla WWE.
90
William Morris, “Architecture and History” 1884, in On Architecture,
ed. Chris Miele, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996, p. 104.
91
Elizabeth Fay, Romantic Medievalism: History and the Romantic Literary Ideal, Basingstoke, Palgrave, 2002, p. 3.
92
“In the Middle Ages, the intelligence lay with the great craftsmen class,
– and that again, I think, was a decided advantage, both for them and for us;
since it has given us, amongst other treasures not so famous, but scarcely less
glorious, the poems of Shakespeare” (William Morris, “The Development of
Modern Society”, in On History, ed. Nicholas Salmon, Sheffield, Sheffield
Academic Press, 1996, p. 122).
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
61
abyss”93, adottando una nuova definizione dell’individuo che
proietta l’immagine di un uomo in grado di incarnare una “knighthood
modernized”94. E in questo confronto vis à vis, l’emulo si impossessa dell’originale, in un continuo raddoppiamento del simile,
teso a mettere in rilievo la concentricità del processo emulativo:
“[The Victorian Period] sought to make the Middle Ages in its
own image, […] an image of the Middle Ages in which change
and innovation take pride of place”95.
Tutto questo emerge anche dall’immenso potere dell’analogia
che stabilisce similitudini sottili con il mondo medievale, facendo del “gothic peasant”, il campo universale di applicazione,
nonché punto d’irradiazione di tutte le analogie possibili. Così,
nel tematizzare l’associazione tra arte, moralità, politica e religione, Morris aspira in primo luogo a pervenire a una rappresentazione verbale dell’uomo capace di “resolve an unbearable
instability between original and copy”96. Di questo contadino
medievale, lo scrittore preraffaellita riesce a tracciare non già le
scene cruenti di gesta rivoluzionare, ma il suo aspetto ornamentale, epitomizzato dal “linen cloth” di John Ball, che rinvia
all’idea deautomizzante espressa nel saggio “The Lesser Arts of
Life” (1882), ove leggiamo: “Garments should veil the human
form, [...] expressive of the endless beauty of motion”97. Quindi,
se la rivolta morrisiana scaturisce da un emblema del Medioevo
– l’abito – , è da ritenere che il rapporto che il profeta vittoria93
Angela Jane Weisl, The Persistence of Medievalism, New York, Palgrave, 2003, p. 8: “The contemporary presence of medievalism has the surprising result of questioning the assumption that between now and the Middle
Ages lies an ‘unpassable abyss’, a divide of time, distance, and often language. Catherine Brown claims that ‘everyone who has ever read a medieval
book [...] has felt this foreignness intimately in his or her suddenly awkward
flesh’”.
94
Fay, op. cit., p. 109.
95
Marina S. Brownlee, The New Medievalism, Baltimore, Maryland, The
John’s Hopkins University Press, 1991, pp. 8, 12.
96
Kathleen Biddick, The Shock of Medievalism, Durham, North Carolina,
Duke University Press, 1998, p. 39.
97
William Morris, On Art and Design, cit., p. 90.
62
Capitolo I
no98 instaura con l’episteme trecentesca è perlomeno
ambivalente. Non a caso, l’arte del vestire, l’ultima delle arti
minori discussa “with some trepidation” nel saggio del 1882,
chiama in causa una filosofia di vita in linea con i dettami della
civiltà medievale e al contempo intrisa di una forza innovatrice
che va interpretata come recupero del “pleasure of the eyes in
common life”. In breve, come ha sottolineato Kathleen Biddick:
Morris (following Ruskin) publicized a universalizing, public rhetoric
of medieval peasants and their handicrafts that produced medieval
peasants as the belated examples of Morris and Company ornament
[...]99.
The “Gothic peasant” that haunts Morris and justice and makes their
work possible can now be made out as an extremely effective optical
device for medievalism, a looking glass whose magic is to mirror back
work and community as phantasmatically whole again, untroubled by
gender and sexuality100.
L’interesse morrisiano per l’architettura e il design del quattordicesimo secolo, senza dimenticare i manoscritti miniati101
capaci di visualizzare la totalità umana in atmosfere gotiche, la
ricerca cioè di un nuovo linguaggio visivo, volto a catturare la
bellezza delle cose medievali, suggerisce l’idea di una simpatia,
di un’attrazione viscerale verso la cultura del “comfort” e del
98
Cfr. Harold Bloom, Genius: A Mosaic of One Hundred Exemplary
Creative Minds, New York, Warner Books, 2003, p. 705: “Perhaps Lawrence,
[...] should be regarded as the last of the Victorian prophets: Carlyle, Ruskin,
Newman, Arnold, Mill, Huxley, Morris, Butler”.
99
Biddick, op. cit., p. 39.
100
Ibid., p. 55.
101
A tal riguardo si rimanda a Michaela Braesel, “The Influence of Medieval Illuminated Manuscripts on the Pre-Raphaelites and the Early Poetry of
William Morris”, The Journal of William Morris Studies, 15, 4 (Summer
2004), p. 50: “Morris referred to these miniatures in his poems because
through their detailed naturalism they provided him with inspiration for finding poetic similes. He regarded those miniatures not as illuminations, but as
pictures their own right, whose messages he translated – with variations –
from a visual into a verbal medium”.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
63
“self-respect”102. Dietro l’accostamento alle chiese gotiche francesi, secondo un principio di mobilità esteriore e visibile, si cela
un moto interno creativo, un’assimilazione dei dettami estetici
medievali che altera l’identità vittoriana ormai priva di individualità estranee al modello di riferimento. Si tratta di un atteggiamento che implica lo stravolgimento delle tassonomie architettoniche vittoriane che, per il “leader in design”103, vuol dire
“freedom of hand and mind subordinated to the co-operative
harmony which made the freedom possibile. That is the spirit of
Gothic Architecture ...”104. In questa prospettiva, la filosofia architettonica morrisiana porta con sé in superficie il primato della dignità – gli edifici esteticamente piacevoli hanno un referente esatto nella scala dei valori socio-culturali.
A Gothic building has walls that it is not ashamed of; and in those
walls you may cut windows wherever you please; and, if you please
may decorate them to show that you are not ashamed of them; your
windows, which you must have, become one of the great beauties of
your house, and you have no longer to make a lesion in logic in order
not to sit pitchy darkness in your own house, [...]: your window, I say,
is no longer a concession to human weakness, an ugly necessity (generally ugly enough in all consicence) but a glory of the Art of Building105.
Un’ulteriore testimonianza della “simpatia” morrisiana verso
l’assiologia positiva del Medioevo, è apportata dall’applicazione
emotivo-affettiva delle regole architettoniche gotiche da parte
del capo mastro Walter, protagonista dello short romance “The
102
William Morris, “The Hopes of Civilization”, in Signs of Change, cit.,
p. 56: “The workmen of the Middle Ages lived in more comfort and selfrespect that ours do, even though they were subjected to the class rule of men
who were looked on as another order of beings than they”.
103
Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Design: From William Morris
to Walter Gropius, New Haven and London, Yale University Press, 2005: “At
the end of the eighties, as was shown, Morris was the leader in design, Norman Shaw in architecture” (p. 125).
104
William Morris, “Gothic Architecture”, in On Architecture, cit., p. 150.
105
Ibid., p. 156.
64
Capitolo I
Story of the Unknown Church”, intento in una decorazione
tombale dedicata alla commemorazione delle persone a lui care
e ormai scomparse, i cui risvolti sentimentali rimandano al saggio “The Churches of North France: The Shadows of Amiens”.
Anche qui è lo scenario religioso delle decorazioni, dei dipinti e
delle vetrate policromatiche presenti nelle chiese gotiche a introdurre il lettore in una realtà introspettiva perché, come afferma Frederick Kirchhoff, “[o]ld curches had for Morris as boy
and man a very special message, speaking a language his whole
nature craved to hear […] they were never quaint or queer but
expressed in their lovely dignity and stillness the state of mind
he always aimed at but seldom achieved”106. Alla sovranità della “simpatia” per le costruzioni religiose di origine gotica, fa da
contrappunto “l’antipatia” ruskiniana racchiusa nella differenza
ostinata del suo atteggiamento verso la freddezza veicolata dagli
ambienti interni ecclesiastici. In tal modo, il delicato equilibrio
tra “simpatia” e “antipatia” consente di preservare le singolarità
vittoriane, assicurando l’originalità del medievalismo morrisiano rispetto al Gothic Revival più propriamente ruskiniano:
Morris’s English Gothic church, however, falls into a category neglected by Ruskin, who remarked in Seven Lamps of Architecture that
“I could have wished to have given more examples from our early
English Gothic; but I have always found it impossible to work in the
cold interiors of our cathedrals ...”. Ruskin also comments that “a
building cannot be considered as in its prime until four or five centuries have passed over it ...”. The ‘unknown curch’, then, is – or was –
an English Gothic church destroyed two hundred years ago, in its
Ruskinian ‘prime’, and any penumbra of it has vanished from recent
memory107.
106
Frederick Kirchhoff, William Morris: The Construction of a Male Self,
1858-1872, Athens, Ohio University Press, 1990, p. 17.
107
Florence S. Boos, “The Structure of Morris’s Tales for the Oxford and
Cambridge Magazine”, Victorian Periodicals Review, 20, 1 (Spring 1987), p.
6.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
65
In questa prospettiva, non possiamo ignorare come convenientia,
aemulatio, analogia e simpatia determinino il ripiegamento su
sé stesso dell’universo morrisiano, volto a duplicarsi, a riflettersi a concatenarsi affinché le cose vittoriane possano essere somiglianti alle cose medievali. È questo disseppellimento delle
similitudini con il passato che viene segnalato sulla superficie
delle cose, una segnatura mirante a mettere in luce il valore intrinseco dell’insieme delle conoscenze medievali. Tale configurazione epistemica offre una chiara esemplificazione del concetto di archeologia letteraria, intesa come ricerca della relazione
tra passato e presente, tra invisibile e visibile, che ben si presta
alla decifrazione del mondo vittoriano così come viene configurato da Morris nel romanzo utopico NFN.
A volere dare credito a un simile approccio, l’opera narrativa
del fondatore della Society for the Protection of Ancient Buildings (SPAB, 1877) presenta al lettore un viaggio archeologico
alla ricerca dei resti monumentali del passato, finalizzato alla
conservazione, allo studio e all’interpretazione di oggetti e rovine repertoriati nel “nowhere” londinese. Dietro la rappresentazione di sé come osservatore, o meglio archeologo – qui si
pensi all’ammissione autoriale del suo “archeological naturalhistory side” (NFN, p. 12) –, Morris cerca di ristabilire il legame tra le parole e le cose in virtù della struttura topologica della
sua “imaginary homeland” così come mette in chiaro Foucault:
“le utopie […] si schiudono […] in uno spazio meraviglioso e
liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi
facili, anche se il loro accesso è chimerico. […] È per questo
che le utopie consentono le favole e i discorsi: sono nella
direzione giusta del linguaggio, nella dimensione fondamentale
della fabula […]”108.
Alla luce di questa visione dell’archeologia in termini di studio
degli eventi discorsivi, alla luce dell’incontro epistemico tra testi letterari e territori archeologici, possiamo affermare che parte del sapere vittoriano si colloca nelle performances verbali
108
Foucault, op. cit., pp. 7-8.
66
Capitolo I
degli scritti critico-sociali morrisiani (tra cui ricordiamo “The
Prospects of Architecture in Civilization”109, 1881, “Vandalism
in Italy”, 1882, “Architecture and History”, 1884, contro il restauro
dei monumenti antichi), nonché nell’interazione dialogica dei suoi
personaggi utopici che sancisce il primato del dato medievale.
Grazie a un raffinato escamotage diegetico, la Londra del
ventunesimo secolo e il suo paesaggio circostante risultano molto simili a un microcosmo trecentesco, a partire dai codici architettonico, numismatico e decorativo, in grado di rivelare i segni
della somiglianza (ponti, case, monete, abiti, giardini), vale a
dire l’affinità tra le cose vittoriane e le cose medievali. In questa
prospettiva, il viaggio morrisiano conduce a un pensiero localizzato nello spazio, a parole che si collocano in un luogo, al fine di creare un sistema di elementi dominato dall’ordine, ove a
prevalere è un costante riferimento ai modelli estetici del passato. Proprio come un Don Chisciotte110 contemporaneo, il protagonista della visione nowheriana, William Guest, assurge a “eroe del Medesimo”111, non tanto per il setting familiare in cui è
ambientata la vicenda, quanto per le identità che si stabiliscono
con le figure epistemologiche tipiche del quattordicesimo secolo – per Morris l’osservazione dei segni utopici (cose e parole)
diviene un cammino alla ricerca delle similitudini con l’epoca
medievale. Emblematici sono le descrizioni e i dialoghi all’insegna
della formula estetica preraffaellita, basata sui paradigmi di bellezza, semplicità, eleganza, che, senza varcare mai la soglia della differenza e facendo affidamento sulle istanze del medesimo,
109
“No one […] can fail to know what neglect of art has done to this great
treasure of mankind: the earth which was beautiful before man lived on it,
which for many ages grew in beauty as men grew in numbers and power, is
now growing uglier day by day, and there the swiftest where civilization is the
mightest [...]” (William Morris, “The Prospects of Architecture in Civilization”, in On Architecture, cit., p. 70).
110
Dal punto di vista della fenomenologia equorea, l’intertestualità con la
realtà donchisciottesca risulta ancora più evidente se confrontiamo il “bright
blue river” londinese con le acque limpide del fiume Ebro.
111
Foucault, op. cit., p. 61.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
67
mostrano come l’avventura di “Don” Morris porti a pieno compimento un processo culminante nell’individuazione delle somiglianze segrete sotto i segni.
Qui può essere interessante notare come, nella prima rappresentazione visibile dell’ordine, il ponte di Hammersmith, così come l’insieme degli edifici, siano costruiti in modo completamente aderente ai canoni architettonici del quattordicesimo
secolo e comunque con similitudini di grande espilicitazione
tematica: “I had perhaps dreamed of such a bridge […]; for not
even the Ponte Vecchio at Florence came anywhere near it”
(NFN, p. 7); “On the other, the south side, of the road was an
octagonal building with a high roof, not unlike the Baptistry at
Florence in outline [...]” (NFN, p. 21). Parimenti, il campo semantico del vestiario, rintracciato nelle descrizioni attanziali del
barcaiolo Dick (“His dress would have served very well as a
costume for a picture of fourteenth-century life”, NFN, p. 7),
dello spazzino Boffin (“[...] he will dress so showily, and get as
much gold on him as a baron of the Middle Ages”, NFN, p. 19)
e degli abitanti nowheriani in genere (“[...] their dress was
somewhat between that of the ancient classical costume and the
simpler forms of the fourteenth-century garments, [...]”, NFN,
p. 13), determinando un effetto di specularità assiologica, suggerisce al lettore la necessità di una connessione epistemica,
preannunciata nel saggio “Architecture and History” del 1884
dove Morris con un tono didattico afferma: “Let us admit we
are living in the time of barbarism betwixt two periods of order,
the order of the past and the order of the future”112.
Ma c’è di più. L’indagine archeologica della segnatura nowheriana rivela a un tempo le identità (rispetto al medioevo) e
paradossalmente le differenze (con il diciannovesimo secolo),
quasi a voler sancire l’atteggiamento di denuncia dell’io narrante, deluso dalla frustrante divaricazione spazio-temporale tra lo
scenario disforico vittoriano a cui è abituato e l’armonia della
112
121.
William Morris, “Architecture and History”, in On Architecture, cit., p.
68
Capitolo I
realtà futura “old-fashioned”. Nonostante la tematizzazione
dell’uguaglianza funga da innesco al movimento verso la ricerca di una modalità di comunicazione con il mondo medievale, è
indubbio che il pattern dialogico, una volta avviato, finisce quasi sempre per affermare il fallimento del sistema delle positività
vittoriane. Ad essere veicolata è l’immagine negativa di degrado
e squallore rintracciata a partire dagli indici di non-somiglianza e più
precisamente dal confronto delle attività del mangiare e del bere
che attualizzano l’antitesi scarsa qualità/eccellenza, omologa
all’opposizione spreco/parsimonia:
[...] as at our breakfast, everything was cooked and served with a daintiness which showed that those who had prepared it were interested in
it; but there was no excess either of quantity or of gourmandise; everything was simple, though so excellent of its kind; and it was made
clear to us that this was no feast, only an ordinary meal. The glass,
crockery, and plate were very beautiful to my eyes, used to the study
of mediaeval art; but a nineteenth century club-haunter would, I daresay, have found them rough and lacking in finish; the crockery being
lead-glazed pot-ware. though beautifully ornamented; the only porcelain being here and there a piece of old oriental ware. The glass, again,
though elegant and quaint, and very varied in form, was somewhat
bubbled and hornier in texture than the commercial articles of the
nineteenth century. The furniture and general fittings of the hall were
much of a piece with the table-gear, beautiful in form and highly ornamental, but without the commercial ‘finish’ of the joiners and cabinet-makers of our time. Withal, there was a total absence of what the
nineteenth century calls ‘comfort’ – that is, stuffy inconvenience; so
that, even apart from the delightful excitement of the day I had never
eaten my dinner so pleasantly before (NFN, Ch. XVI, “Dinner in the
Hall of Bloomsbury Market”, p. 87).
L’esplicita differenziazione temporale tra l’ornamento culinario
medievale e la commercializzazione ottocentesca del prodotto
attualizza l’idea di un’alimentazione che risulta in grado di postulare la discontinuità assiologica propria della società vittoriana, priva della raffinata semplicità trecentesca. Diversamente
dall’atmosfera carnevalesca tipica dei banchetti pantagruelici, la
rappresentazione morrisiana della cultura del mangiare e del bere trae spesso stimolo e motivo di ispirazione dalla aureas me-
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
69
diocritas oraziana, evitando qualsivoglia esagerazione “either of
quantity or of gourmandise” (NFN 87). In contrasto con la politica industriale dell’eccesso, implicante la sovrabbondanza e lo
spreco da parte delle cosiddette “cultivated people”– totalmente
disinteressate all’arte culinaria perché “too low for their lofty
intelligence” – , Morris auspica il ritorno a uno stile di vita salutare, “a return to work with heart”113, per soddisfare le esigenze
del produttore e del consumatore. Sempre pronto a gustare una
cena saporita, accompagnata da un buon bicchiere di vino114, lo
scrittore preraffaellita restituisce al cibo una forma di creatività
che appartiene alle arti minori. La messinscena di dettagli culinari al limite della decorazione, suggerisce un’associazione
simbolica tra la creazione letteraria e un insopprimibile desiderio di cimentarsi nella preparazione di pasti succulenti, secondo
una voracità artistica che rientra in un principio del piacere
chiaramente espresso dall’io autoriale: “I am a ‘literary man’,
[…], yet I am a pretty good cook myself” (NFN 52). La ricorrente esigenza artistica di far sì che il consumo collettivo di cibo
trovasse un’adeguata collocazione sociale, fece di Morris e dei
prearaffelliti in genere, i rappresentanti di una fenomenologia
culturale tesa al piacere del corpo e dello spirito:
[...] for every P.R.B. to drink a cup or two of tea or coffe, or a glass or
two of beer, in the company of other P.R.B.’s, with or without the accompaniment of tobacco (without it for Dante Rossetti, who ever
smoked at all), was a heart-relished luxury. . . Those were the days of
youth; and each man, even if he did not project great things of his
own, revelled in poetry or sunned himself in art115.
113
Esther Schmidt, Victorian Kitchens and Baths, Forward by Bruce
Bradbury, Layton, Utah, Gibbs Smith Publisher, 2005, p. 21.
114
Cfr. William Michael Rossetti, Some Reminiscences, 2 voll., London,
Brown Langham, 1906, Vol. I, p. 215: “He relished a good glass of wine, and
was by no means averse from a savoury dinner, and an ample one”.
115
Stanley Weintraub, A Victorian Biography. Four Rossettis, New York,
Weybright and Talley, 1977, p. 32.
70
Capitolo I
Ponendo l’accento su una lessicalizzazione iperbolica, mirante a
collocare in primo piano il concetto medievale di “luxury”,
Morris innesca un vettore ideologico che fa leva sulla valenza
edonistica dell’incontro tra la gratificazione corporea del cibo e
la funzione estetizzante della decorazione d’interni. Nell’offrire
una versione old-fashioned della sala da pranzo nel quartiere di
Bloomsbury (“beautifully ornamented”; “The furniture and
general fittings of the hall were […]beautiful in form and highly
ornamental, but without the commercial ‘finish’ of the joiners
and cabinet-makers of our time”), la regola apollinea del controllo e della misura – la cui eccezione appare nel saggio “The
Beauty of Life” (“You may hung your walls with tapestry instead of whitewash or paper; or you may cover them with mosaic, or have them frescoed by a great painter: all this is not
luxury, if it be done for beauty’s sake, and not for show: it does
not break our golden rule”116) –, rende ancora più evidente lo
scarto sensoriale tra un pasto consumato nel “century of commerce” e l’epoca medievale del “delightful excitement”. Se vogliamo, la transizione estetico-temporale dall’iscrizione dorata
risalente al 1962 presente nella locanda di Hammersmith
(“Guests and neighbours, on the site of this Guest-hall once
stood the lecture-room of the Hammersmith Socialists. Drink a
glass to the memory!”, NFN, p. 14) agli arazzi mitologici di
Bloomsbury (“queer old-world myths”, NFN, p. 86), vale a dire
la regressione da un’istanza passata all’atemporalità del mito,
può essere interpretata come un’involuzione verso uno stadio
primitivo delle attività del mangiare e del bere. D’altro canto,
cos’è la semplicità, segno esponenziale delle sequenze descrittive morrisiane, se non il significato denotativo del lessema “primitivo”? Quale senso attribuire alle plurime espansioni paradigmatiche della “plainness of life”? Come viene attualizzato il
ritorno a uno stadio elementare della società umana?
La costruzione morfosintattica incalzante delle lessie relative
agli utensili nowheriani mette in primo piano la cifra simbolica
116
Morris, On Art and Design, cit., p. 124.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
71
del medievalismo morrisiano, insita in un’aggettivazione marcatamente primitiva: “rough and lacking in “finish”’ → “hornier
in texture than the commercial articles of the nineteenth century” → “without the commercial finish […] of our time” →
“total absence of […] comfort”. Ciò che l’io autoriale cerca di
evocare è l’immagine di una società ridotta ai minimi termini,
in grado di ascoltare il battito pulsante del mondo primordiale e
di adattarsi ai cicli vitali di rinnovamento della natura, ravvisando nelle pratiche della pesca e della falciatura un riferimento
a una mitologia antica (il raccolto → il mietitore → il tramonto → la notte). L’evocazione dei valori terreni, se da un lato
conferma la costante opposizione tra città e campagna,
dall’altro mette in risalto la valenza ordinatrice insita nella produzione e nel consumo di cibo tipica del nowhere morrisiano. È
questo lo spazio semantico entro il quale ha luogo il momento
di visione idilliaca nella zona rurale di Runnymede117, che si
omologa alla suddetta distinzione topologica, a partire dalla semantizzazione della pratica della pesca:
Everything to eat and drink, though it was somewhat different to
what we had had in London, was better than good, but the old man
eyed rather sulkily the chief dish on the table, on which lay a leash of
fine perch, and said:
“H’m, perch! I am sorry we can’t do better for you, guests. The time
was when we might have had a good piece of salmon up from London
for you; but the times have grown mean and petty”.
“Yes, but you might have had it now”, said the girl, giggling, “if you
had known that they were coming”.
117
Sull’importanza storica di Runnymede, qui associata all’incontro simbolico tra towns-people e country people, si rimanda a quanto scrive John
Payne: “Runnymede – the meadow of council – was a traditional meeting
place even before Magna Carta. […] What happened at Runnymede was a
truce; it marks merely a stage in the persistent three-way medieval struggle for
political power between the church, the crown and the great land-owners. Yet
it has always had enormous symbolic value” (Journey Up the Thames. William
Morris and Modern England, Nottingham, Five Leaves Publications, 2000, p.
57).
72
Capitolo I
“It’s our fault for not bringing it with us, neighbours”, said Dick,
good-humouredly.
“But if the times have grown petty, at any rate the perch haven’t;
that fellow in the middle there must have weighed a good two pounds
when he was showing his dark stripes and red fins to the minnows
yonder. And as to the salmon, why, neighbour, my friend here, who
comes from the outlands, was quite surprised yesterday morning when
I told him we had plenty of salmon at Hammersmith. I am sure I have
heard nothing of the times worsening” (NFN, pp. 128-129).
Al di là dell’immutabilità del pesce persico (“if the times
have grown petty, at any rate the perch haven’t”), come epitome
di abbondanza e voracità, si assiste a una distinzione tipologica
di questa primitiva risorsa alimentare, in quanto l’attenzione
dell’osservatore privilegiato si concentra sul binomio oppositivo
pesce comune (campagna)/ pesce di alta qualità (città). Seppur
non paragonabili per diffusione, comportamento e aspetto (si
pensi alla colorazione verde-olivastra del pesce persico e alla
livrea blu acciaio del salmone), il consumo delle loro carni prelibate rientra nell’ottica morrisiana della salutare moderazione e
del buongusto. Ed è significativo che per manifestare le tendenze culinarie nowheriane, Morris faccia leva sulla perca fluviatilis che
sottende l’immagine di un mondo civilizzato, depositario di una
visione euforica e unitaria.
Il medievalismo primitivo fin qui rintracciato trova
un’ulteriore significativa esemplificazione nel capitolo “The
Feast’s Beginning – The End” ove i contadini della nuova società medievale si radunano in una piccola chiesa per festeggiare l’umile lavoro della falciatura. Quello che risalta ad una lettura più ravvicinata è la connotazione fortemente naturalistica che
investe i partecipanti al banchetto di eco medievale (“the crowd
of handsome, happy-looking men and women that were set
down to table [...] looked [...] like a bed of tulips in the sun”,
NFN, p. 180), stabilendo una precisa associazione cromatica tra
il soggetto umano e la visione floreale. Più precisamente,
l’immaginario idilliaco associato a una simile rappresentazione
meta-artistica del cibo, oltre a stabilire un legame sintagmatico
tra l’arte decorativa, l’architettura e la pittura, mostra come i
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
73
protagonisti utopici siano confinati in una realtà primitiva basata sui valori basilari di nascita, morte, lavoro, nutrimento e crescita, pronti a consumare il prodotto delle proprie fatiche
agricole. Va da sé che nella poetica morrisiana sono proprio
questi paradigmi comportamentali a delineare i modelli di
semplicità e ordine, tesi a recuperare l’essenza primordiale della
vita:
[…] As to our dinner, we are going to have our feast in the church. I
wish, for your sake, it were as big and handsome as that of the old
Roman town to the west, or the forest town to the north; but, however,
it will hold us all; and though it is a little thing, it is beautiful in its
way’.
This was somewhat new to me, this dinner in a church, and I
thought of the church-ales of the Middle Ages; but I said nothing, and
presently we came out into the road which ran through the village.
[…]
We went into the church, which was a simple little building with
one little aisle divided from the nave by three round arches, a chancel,
and a rather roomy transept for so small a building, the window
mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth century type. There was
no modern architectural decoration in it; it looked, indeed, as if none
had been attempted since the Puritans whitewashed the medieval
saints and histories on the wall. It was, however, gaily dressed up for
this latter-day festival, with festoons of flowers from arch to arch, and
great pitchers of flowers standing about on the floor; while under the
west window hung two cross scythes, their blades polished white, and
gleaming from out of the flowers that wreathed them. But its best ornament was the crowd of handsome, happy-looking men and women
that were set down to table, and who, with their bright faces and rich
hair over their gay holiday raiment, looked, as the Persian poet puts it,
like a bed of tulips in the sun. Though the church was a small one,
there was plenty of room; for a small church makes a biggish house;
and on this evening there was no need to set cross tables along the
transepts; though doubtless these would be wanted next day, when the
learned men of whom Dick has been speaking should be come to take
their more humble part in the haymaking (NFN, pp. 179-180).
Ad emergere è l’interazione delle arti che, collocando in
primo piano la decorazione culinaria, consente all’immaginazione
narrativa di delineare un paesaggio esteriore volto a testimonia-
74
Capitolo I
re “the development of man’s ideas, to the continuity of history”118 e a “teaching us the evolution of society”119. L’antitesi
moderno/antico, attivata da una serie di riferimenti architettonico-temporali (“I thought of the church-ales of the Middle Ages”;
“the window mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth century type”; “the medieval saints and histories on the wall”) ribadisce la necessità di un cambiamento radicale a tutti i livelli della sfera sociale. Alla luce della reduplicazione naturalistica
(“festoons of flowers from arch to arch, and great pitchers of
flowers standing about on the floor”) e della metaforizzazione
di stampo socialista, operate dall’architettura, risulta evidente il
significato da annettere alla poetica della semplicità morrisiana.
All’origine di una simile totalità assiologica vi è il recupero
dell’umiltà insita nelle piccole cose – un semplice pasto consumato in un ambiente senza pretese – , che richiama alla mente
l’assiologia positiva del “world in a grain of sand” di Blake.
1.4. Il regno del fuoco. Al centro delle opere morrisiane vi è
una riflessione decostruttiva sul concetto di medievalismo che,
nel caso specifico, risulta associato alle pratiche discorsive utopiche in grado di prendere corpo negli scambi dialogici dei personaggi. Affermando il primato della soggettualità, determinante nella rappresentazione delle strutture epistemologiche, Morris
sembra dare forma a un nuovo tipo di medievalismo, una scienza dei discorsi umani, di cui Marina S. Brownlee offre una chiara esemplificazione:
The new medievalism is a science not of things and deeds, but of discourses; it is an art, not of facts, but of encodings of facts. Such priorities are quite consonant with those of medieval intellectual life itself,
whose curriculum was dominated during a span of nearly 1,000 years
118
119
Morris, On Architecture, cit., p. 99.
Ibidem.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
75
by the three ‘arts of discourse’ [artes sermocinales] of the trivium:
grammar, rhetoric, and logic120.
Con lo studio delle diverse ideologie attanziali, teso a far apparire le regole di formazione dei concetti, e con l’appropriazione dei discorsi medievali, lo scrittore preraffaellita si trova di fronte
all’analisi delle formazioni sociali che rivelano la pratica di un
discorso rivoluzionario e innovativo. A prevalere su tutto è un
dialogismo funzionale all’annullamento dei valori capitalistici (si
pensi alle performances verbali di Ellen, la “fata del rigoglioso
giardino di Runnymede” in NFN, atte a rimandare a un esistenzialismo primitivo e selvaggio121), in un percorso à rebours della civiltà umana che attesta il primato della “strange wild beauty”
(NFN, p. 137). Attraverso l’analisi delle fratture archeologiche e
delle trasformazioni epistemiche, apportate dalle pratiche discorsive dei personaggi morrisiani, è possibile rintracciare il
campo delle positività vittoriane, a favore di un primitivismo
socio-comportamentale che va inteso come autorealizzazione
del soggetto parlante all’interno della sua dimensione assiologica. Se Ellen, con il suo amore per la terra, manifestato
dall’attività della falciatura e dall’immagine metonimica dei
suoi piedi nudi abbronzati122, riesce a epitomizzare il mito ctonio, nonché il richiamo orfico della natura, allora anche la Si120
Brownlee, op. cit., p. 227.
“Clara was cheerful and natural, but a little more subdued, I thought;
and she at least was not sorry to be gone, and often looked shyly and timidly
at Ellen and her strange wild beauty. [...] Also the banks of the forest that we
passed through had lost their courtly game-keeperish trimness, and were as
wild and beautiful as need be, though the trees were clearly well seen to”
(NFN, p. 137).
122
“We went up a paved path between the roses, and straight into a very
pretty room, panelled and carved, and as clean as a new pin; but the chief ornament of which was a young woman, light-haired and grey-eyed, but with
her face and hands and bare feet tanned quite brown with the sun. […] She
was lying on a sheep-skin near the window, but jumped up as soon as we entered, and when she saw the guests behind the old man, she clapped her hands
and cried out with pleasure, and when she got us into the middle of the room,
fairly danced round us in delight of our company” (NFN, pp. 127-128).
121
76
Capitolo I
gnora dell’Abbondanza123, presente nella fantasia per adulti
WWE, sotto le spoglie di una guardiana di capre che si aggira in
una terra selvaggia, sancisce la vittoria del primitivismo medievale sul progresso tecnologico ottocentesco. Emblematica è, in
questa direzione, la raffigurazione tribale del popolo morrisiano
che, in preda ad impulsi aggregativi, mette in pratica il comportamento ritualistico degli uomini primitivi riuniti in cerchio dinanzi al più prometeico degli elementi. Più precisamente,
l’archetipo del fuoco si dà, rispetto alla coppia antinomica euforia/disforia, come un momento di estasi sognante che porta gli
abitanti del bosco di Kensington in NFN124, non diversamente dai
commensali di Higham-on-the-Way in WWE125, intenti a celebrare
123
“[...] I am but a poor thrall, a goatherd dwelling with a mistress in a
nook of this wildwood: I have never a piece of bread; but as to the goats’
milk, that thou shalt have at once’. So I called one of my goats to me, for I
knew them all, and milked her into a wooden bowl that I carried slung about
me, and gave the old woman to drink: and she kissed my hand and drank and
spake again, but no longer in a whining voice, like a beggar bidding alms in
the street, but frank and free” (WWE, pp. 178-179).
124
“Romantic as this Kensington wood was, however, it was not lonely.
We came on many groups both coming and going, or wandering in the edges
of the wood. Amongst these were many children from six or eight years old
up to sixteen or seventeend. They seemed to me to be especially fine specimens of their race, and were clearly enjoying themselves to the utmost; some
of them were hanging about little tents pitched on the greensward, and by
some of these fires were burning, with pots hanging over them gipsy fashion.
Dick explained to me that there were scattered houses in the forest, and indeed
we caught a glimpse of one or two. He said they were mostly quite small, such
as used to be called cottages when there were slaves in the land, but they were
pleasant enough and fitting for the wood” (NFN, p. 24).
125
“Now when the Abbot was set down, men made a clear ring round
about the bale, and there came into the said ring twelve young men, each clad
in nought save a goat-skin, and with garlands of leaves and flowers about their
middles: they had with them a wheel done about with straw and hemp payed
with pitch and brimstone. They set fire to the same, and then trundled it blazing round about the bale twelve times. Then came to them twelve damsels
clad in such-like guise as the young men: then both bands, the young men and
the maidens, drew near to the bale, which was now burning low, and stood
about it, and joined hands, and so danced round it a while, and meantime the
fiddles played an uncouth tune merrily: then they sundered, and each couple
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
77
la festa di Mezza Estate, alla riflessione sull’idea di fratellanza.
Alla psicologia positiva del fuoco di Bachelard, in quanto essere sociale126, in termini di calore condiviso, fa riscontro
l’interpretazione umana127 di Frazer relativa alla funzione dei
boschi ove si accendono i fuochi di gioia morrisiani. Tutto rimanda a una fenomenologia primitiva, o, se vogliamo, a una fenomenologia dell’affettività che: “fabbrica essere oggettivi, mediante i fantasmi proiettati dalla fantasia, le immagini mediante
i desideri, le esperienze materiali mediante le esperienze somatiche e il fuoco mediante l’amore”128. È da questa raffigurazione
vitale del fuoco che trae origine la scelta filantropica di Morris
di immaginare un mondo in cui riscaldarsi alla fiamma debole
della speranza, nell’estremo tentativo di rinascita morale. In attesa di un segno salvifico, proprio come i fuochi della speranza129 di Tolkien che divampano sulle catene montuose della
Terra di Mezzo, l’umanità utopica del “dreamer of dreams” preraffaellita risulta caratterizzata dalla duplice primitività del fuoco e dell’amore. Al di là del sostentamento nutritivo offerto dal
“cooking fire” – espediente diegetico di arricchimento affabulatorio per la scena corale dei romance morrisiani (“the men had
lighted fires and were cooking the venison […] with drinking of
wine and pleasant talk and the telling of tales and singing of
of men and maids leapt backward and forward over the fire; and when they
had all leapt, came forward men with buckets of water which they cast over
the dancers till it ran down them in streams” (WWE, p. 35).
126
Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco,
Bari, Dedalo, 1975, p. 134.
127
Ibid., p. 158.
128
Ibid., p. 162.
129
J. R. R. Tolkien, The Lord of the Rings, New York, Houghton Mifflin,
2005, p. 747: “[…] Gandalf cried aloud to his horse. ‘On, Shadowfax! We
must hasten. Time is short. See! The beacons of Gondor are a light, calling for
aid. War is kindled. See, there is the fire on Amon Din, and flame on
Eilenach; and there they go speeding west: Nardol, Erelas, Min-Rimman,
Colenhad, and the Halifirien on the borders of Rohan”. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine
precedute dalla sigla LR.
78
Capitolo I
minstrelsy”130), implicante sempre e comunque una valenza difensiva – s’impone il campo semantico del “fire of love”, inteso
come trionfo della fratellanza umana131. Si pensi alla distanza
stabilita tra l’uomo e la bestia feroce in WWE, in virtù della
combustione alchemica del fuoco che in qualche modo rimanda
alla luminosità della stella di Eärendil in LR, donata dalla dama
dei boschi Galadriel a Frodo Beggings, in grado di guidare
l’eroe tolkieniano nelle tenebre mortifere e allo stesso di respingere il male in tutte le sue forme animalesche. Ma più di questo,
ciò che emerge è un’inesauribile rete di intrecci, parallelismi e
convergenze che, facendo leva sull’isotopia cosmologica del
fuoco, rivela l’importanza diegetica della stregoneria sottesa al
primitivismo medievale. Alla bellezza incantatrice della Signora
dell’Abbondanza132 (WWE) corrisponde il potere dissimulatore
130
William Morris, The Water of the Wondrous Isles, introduction by Lin
Carter, London, Ballantine, 1971, p. 136. Tutte le citazioni successive faranno
riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine precedute dalla
sigla WWI. Si rimanda anche e soprattutto a The Wood Beyond the World, in
particolare ai rituali della tribù Bear: “So they sat all together upon the grass
round about the embers of the fire, and ate curds and cheese, and drank milk
in abundance; and as the night grew on them they quickened the fire, that they
might have light. This wild folk talked merrily amongst themselves, with
laughter enough and friendly jests, but to the new-comers they were fewspoken […]” (William Morris, The Wood Beyond the World, introduction by
Tom Shippey, Oxford, Oxford University Press, 1980, p. 130. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate
le pagine precedute dalla sigla WBW).
131
Sull’idea di fratellanza, vale la pena riportare quanto afferma Nancy D.
Mann: “The Water of the Wondrous Isles centers more than any of the other
romances, on the problem of creating and maintaining community, and here
Morris has expressed most fully his sense of both the difficulties and the necessity of human fellowship; for in this book the community finally transcends the family to become at once an artificial, deliberate creation and a superbly natural fulfilment of human needs” (Nancy D. Mann, “Eros and Community in the Fiction of William Morris”, Nineteenth-Century Fiction, 34, 3,
December 1979, p. 319).
132
Il binomio fuoco/stregoneria assume una connotazione sentimentale in
WWE, là dove La Signora dell’Abbondanza si fa portatrice del “fire of love”:
“She stayed, and turned and faced him at that word; and love so consumed
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
79
della vergine magica133 (WBW), come anche la saggezza preternaturale della strega Habundia (WWI), reduplicazioni attanziali di una tipologia benefica di magia basata sulla manipolazione del fuoco. Un esempio illuminante di tale pratica occulta
è offerto dall’incantesimo in WWI che serve ad invocare l’aiuto
della “wood mother” Habundia:
Maybe if thou come often to the wood, we shall whiles happen on
each other; but if thou have occasion for me, and wouldst see me at
once, come hither, and make fire, and burn a hair of my head therein,
and I will be with thee: here is for thee a tress of mine hair; now thou
art clad, thou mayst take a knife from thy pouch and shear it from off
me.
Even so did Birdalone, and set the tress in her pouch; and therewith
they kissed and embraced each other, and Birdalone went her ways
home to the house, but Habundia went back into the wood as she had
come (WWI, pp. 19-20).
Then she turned back wild with terror, and sought where erst she had
missed it, and found neither boat nor the world’s end. [...] for now indeed she felt herself in the trap; and she said that all her past life of
hope and desire and love and honour was all for nought, and that she
was but born to die miserably in that foul ruin of an isle envenomed
with the memories of bygone cruelty and shame. [...] Therewith she
cast off her helm and hauberk first, and her weapons, and her pouch
with the treasure that could buy nought for her now, and thereafter all
her raiment, till she was as naked as when she first came aland there
that other time. Again she moaned, and put up her hand to her bosom
and felt a little gold box lying there betwixt the fragrant hills of her
breasts, which hung to a thin golden thread about her neck; […] and
then opened the said golden box and drew thence the tress which
Habundia the wood-wife had given to her those years agone, and all
trembling she drew two hairs from it, as erst she did on the Isle of
her, that all sportive words failed her; yea and it was as if mirth and lightheartedness were swallowed up in the fire of her love; and all thought of other
folk departed from him as he felt her tears of love and joy upon his face, and
she kissed and embraced him there in the wilderness” (WWE, p. 221).
133
Dopo aver convinto il popolo degli orsi di essere l’incarnazione della
loro divinità, “The Maid” favorisce la loro evoluzione da tribù selvaggia a regno barbarico utopico, attraverso l’utilizzo del ferro, la cui forgiatura richiede
il calore incandescente del fuoco.
80
Capitolo I
Nothing, and struck fire and kindled tinder and burnt the said hairs,
and then hung the golden box with the tress therein about her neck
again; and she said: O wood-mother, if only thou couldst know of me
and see me, thou wouldst help me! (WWI, pp. 294-295).
Sotto la spinta del suo animo desiderante, Birdalone si serve
della “magia imitativa”134, ove ad agire è il principio della somiglianza tra l’azione compiuta e l’avvenimento atteso, impadronendosi di una ciocca di capelli della sua salvatrice fatata,
per poi dare fuoco a questi annessi cutanei, con l’intento di lanciare il sortilegio “dell’appartenenza”135. Vittime dei complessi
di Prometeo e di Novalis136, intesi come stati ossessivi primari
verso la conoscenza e una condizione di benessere condivisa, le
streghe morrisiane soffrono di una profonda malinconia – corrispondente, secondo Perraud, al “bagno del Diavolo”137 – perché
incapaci di rinunciare alle proprie illusioni. Se è innegabile che
il desiderio umano rappresenta la causa scatenante della magia
naturalis presente nelle high fantasies degli anni 1894-1897,
allora appare evidente che nella sua visione del fuoco magico la
sorceress Habundia aspira non tanto a rivivere le ore trascorse
con la sua pupilla Birdalone, quanto a rinascere dalle sue ceneri.
Evocando l’immortalità della fenice, in linea con il Prospero di
Shakespeare (“I will believe […] / There is one tree, the phoenix’ throne; one Phoenix / At this hour reigning there”138), Morris
sembra denunciare l’instabilità mentale dell’io femminile, colto
in uno stato di “onnipotenza dei pensieri”139, secondo cui per
rinnovarsi e soddisfare i propri desideri è necessario ricorrere ad
azioni di natura magica, facendo affidamento sulla potenza del134
Cfr. Sigmund Freud, Totem e Tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, Milano, Oscar Mondadori, 2005, p. 96.
135
Ibidem, p. 97.
136
Foucault, op. cit., pp. 160-166.
137
Citato in P. G. Maxwell-Stuart, Storia della caccia alle streghe, Roma,
Newton & Compton, 2005, p. 89.
138
William Shakespeare, La tempesta, introduzione e traduzione di Gabriele Baldini, testo inglese a fronte, Milano, BUR, 2002, p. 216.
139
Freud, op. cit., p. 101.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
81
lo spirito umano. Proprio per rendere perspicua l’idea di malinconia al femminile, derivante da un narcisismo intellettuale, lo
scrittore vittoriano si affida alla credenza primitiva di onnipotenza magica che colloca il soggetto testuale a stretto contatto
con un fuoco purificatore di derivazione alchemica.
Tale identificazione archetipica riesce a trovare un ancoraggio positivo nella figura di “Hall-Sun”, custode della fiamma
sacra all’interno della comunità barbarica di The House of the
Wolfings, simbolo di fratellanza e unione tra gli uomini, per poi
ripiombare nell’assoluto pessimismo e senso di abbandono con
“The Lady of the Land” descritta in The Earthly Paradise. Disposta al sacrificio virginale di una vita solitaria, a favore di un
bene più grande, Hall-Sun sceglie il calore condiviso con il suo
popolo, adoratore di un fuoco destinale attraverso il quale la sacerdotessa predestinata riesce e profetizzare la verità futura:
But over the days there hung by chains and pulleys fastened to a tiebeam of the roof high aloft a wondrous lamp fashioned of glass; yet of
no such glass as the folk made then and there, but of a fair and clear
green like an emerald, and all done with figures and knots in gold, and
strange beasts, and a warrior slaying a dragon, and the sun rising on
the earth: nor did any tale tell whence this lamp came, but it was held
as an ancient and holy thing by all the Mark-men, and the kindred of
the Wolf had it in charge to keep a light burning in it night and day for
ever; and they appointed a maiden of their own kindred to that office;
which damsel must needs be unwedded, since no wedded woman
dwelling under that roof could be a Wolfing woman, but would needs
be of the houses wherein the Wolfings wedded.
This lamp which burned ever was called the Hall-Sun, and the
woman who had charge of it, and who was the fairest that might be
found was called after it the Hall-Sun also140.
Quello che si spalanca dinanzi agli occhi del lettore è uno
scenario simbolico intriso di medievalismo la cui marca primitiva raggiunge il suo diapason esemplificativo con la raffigurazione decorativa dell’uccisione del drago (“a wondrous lamp
140
William Morris, The House of the Wolfings, West Valley City, UT,
Waking Lion Press, 2006, p. 8.
82
Capitolo I
fashioned of glass […] and all done with figures […] and a warrior slaying a dragon, and the sun rising on the earth”) e il conseguente trionfo della luce sulle tenebre. Alimentata da una fonte eterna di calore, la fiaccola dell’umanità reduplicherà
all’infinito l’annullamento del fuoco fisico rappresentato dal
draco malefico, personificazione di malizia, cupidigia e distruzione,
non diversamente dallo scontro pagano-mitologico tra Beowulf
e Grendel. Incapace di superare questa impasse esistenziale, la
Lady of the Land, protagonista di una delle liriche ad ambientazione greca incluse in The Earthly Paradise, si ritrova invece
intrappolata nelle scaglie mostruose di un leviatano, del quale
assume le sembianze al tramonto. Questo “fork-tongued
dragon” caratterizzato da “smoking hair” e “strident roars”, che
visivamente si presenta come specularità imperfetta di una sofferenza medusea, mette in scena una poetica del drago, cui Tolkien attinse141 per dare vita a Smaug142 in The Hobbit e configu141
Per una chiara analisi dell’eredità morrisiana rintracciabile nelle opere
di Tolkien si rimanda a Tom Shippey, “Introduction” to William Morris, The
Wood Beyond the World, Oxford, Oxford University Press, 1980, p. xvii: “J.
R. R. Tolkien remembered The Roots of the Mountains when he created
Gollum; probably The Wood Beyond the World was an element in the making
of Lothlórien, or better still Fangorn, where also characters wander in a network of lies and glimpses and coincidences presided over by a White Wizard,
Gandalf, and his counterfeit Saruman […]”. A tal riguardo, si veda anche John
Garth, Tolkien and the Great War: The Threshold of Middle-earth, New York,
Houghton Mifflin, 2003; Brian Rosebury, Tolkien: A Cultural Phenomenon,
2nd Edition, New York, Palgrave Macmillan, 2004; Colin Duriez, Tolkien and
C. S. Lewis: The Gift of Friendship, Mahwah, New Jersey, Paulist Press,
2003.
142
Nella finzione narrativa di J. R. R. Tolkien, Smaug, noto come “Smaug
The Golden”, corrisponde a un drago dorato dai riflessi ramati, la cui cupidigia lo spinge a rubare un tesoro di pietre preziose e di mithril, che custodisce
sotto il suo ventre. Reso invulnerabile dallo scudo di pietre incastonate nel suo
corpo, Smaug, qualora fosse rimasto in vita, avrebbe disseminato il terrore
nella terra di mezzo, capace di spingersi nelle zone più remote, inaccessibili
all’occhio di Sauron. Secondo Tolkien, il nome Smaug corrisponde al germanico “smjúga” (“to squeeze through a hole”), ma per la sua omofonia con il
lessema “smog”, potrebbe anche rimandare a una dimensione ecologica di
carattere disforico, insita nella natura malefica del drago. Per una disamina del
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
83
rare un regno del fuoco ove a prevalere è il terrore della solitudine. Ma da questa instabilità emotiva deriva la persistente visione di una stregoneria in termini salvifici, secondo cui le arti
magiche di Habundia e Hall-Sun – paragonabili all’uso di incantesimi da parte di Gandalf e ai suoi fuochi d’artificio zoomorfici143 – sembrano esorcizzare il potere distruttivo del fuoco
incarnato da un “hideaous [fearful] dragon”. Attingendo al folklore nordico di derivazione scandinava, e in particolare alla figura di Sigurd, l’uccisore di draghi evocante l’eroe solare
dell’Edda, Morris e in seguito Tolkien ci trasmettono immagini
primitive di valenza mistica che confermano la teoria freudiana
di “incantesimo dell’arte”144 riconducibile all’imposizione della
volontà dell’artista/incantatore su altre volontà umane, al fine di
soddisfare la sete di immaginario e ridurre la distanza con il
desideratum.
Attraverso la mediazione dei suoi personaggi, è facile notare
il fascino con cui Morris osserva il mondo primitivo e le sue
forme di aggregazione comunitaria, sotto il segno di una fratellanza promossa dal “confratello” preraffaellita nella vita reale.
Non solo è possibile rintracciare una dimensione totemica del
circolo aritistico cui Morris appartiene, in termini identitari di
coesione intellettuale, ma possiamo notare come le energie primitive che emanano le singole individualità artistiche rivelino
specifici totem di appartenenza. Il fatto che i membri più importanti del clan preraffaellita possedessero degli animali totemici,
considerati sia come guardiani spirituali, sia come fonti d’ispirazione
letterarie, è la riprova di una sensibilità artistica primitiva che,
drago tolkieniano si rimanda a Christopher Tolkien, Il Medioevo e il fantastico
di Tolkien, a cura di Gianfranco de Turris, traduzione di Carlo Donà, Milano,
Luni Editrice, 2000.
143
“It spouted green and scarlet flames. Out flew a red-golden dragon –
not life-size, but terribly life-like: fire came from his jaws, and whizzed three
times over the heads of the crowd. […] The dragon passed like an express
train, turned a somer-sault and burst over by water with a deafening explosion” (LR, pp. 27-28).
144
Freud, op. cit., p. 107.
84
Capitolo I
per il tramite di oggetti materiali, veicola l’esigenza di tornare alle
origini, a un’archè assoluta e incontaminata. Da questa regressione
primordiale, Dante Gabriel Rossetti deriva rituali di immedesimazione totemica, al limite della venerazione per il suo fedele
vombato custodito in cattività, la cui morte, occorsa il 6 novembre 1869, fu compianta dall’intero gruppo di artisti.
Non a caso il sistema del totemismo preraffaellita si basava
su relazioni di reciproca attenzione e protezione tra uomo e totem, culminanti in codici comportamentali di tipo zoomorfico,
al punto di celebrare una cerimonia funebre nel caso in cui un
animale totem fosse stato trovato morto. Se da un lato BurneJones può essere considerato lo scopritore di una forma di vita
animale così rara, grazie soprattutto ai suoi scherzosi disegni a
matita (The Wombat at Home; The Wombat Abroad; The Wombat
Saved), dall’altro Christina Rossetti ha il primato di aver citato il
vombato nelle sue produzioni liriche, facendo riferimento alle
qualità ispiratrici dell’animale: “when wombat do inspire, I strike
my disused lyre”145. Particolare rilievo simbolico assunse il
vombato a Tudor House:
My brother had asked, as he pretty often did, several friends to dinner;
he himself never smoked, but for the satisfaction of his guests he had
provided a box of superior cigars. The dinner over, he proceeded to
produce the box. The box was there, but the cigars were gone: the
wombat had made a meal of the entire assortment146.
Dinanzi all’animale totem la fissazione orale della confraternita
preraffaellita, caratterizzata dai vizi del fumo e del mangiare in
eccesso, sembra intensificarsi e racchiudere il senso di una condotta di vita all’insegna del piacere sfrenato. Al di là della tenera comicità trasudante da questo resoconto familiare, la particolarità con cui il vombato consuma segretamente i rotoli di tabacco rimanda inesorabilmente a una sintomatologia orale. Si
tratta di una voracità sociale, o se si vuole tribale, che in parte si
145
146
Citato in W. M. Rossetti, op. cit., p. 286.
Ibid., p. 287.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
85
riflette nella personalità aggressivo-repulsiva di Rossetti, intesa
come segno esponenziale di un individualismo primitivo.
A caratterizzare il processo creativo di William Holman
Hunt, vi è la violazione del primo divieto tabù: non uccidere
l’animale totem. Se con il dipinto The Scapegoat (1854-1855)
indichiamo la consumazione del pasto sacrificale, possiamo facilmente comprendere che in sostanza gli impulsi umani più
primitivi hanno origine nei circoli artistici più privilegiati. A
conferma della simbologia religiosa dell’opera pittorica huntiana, riportiamo le parole di Tim Barringer:
It refers to the Jewish ritual of atonement for the sins of the people described in the book of Leviticus. Two goats were selected: the first
was sacrificed in the temple, but the second “shall be presented alive
before the Lord, to make an atonement with him, and let him go for a
scapegoat into the wilderness . . . and the goat shall bear upon him all
their iniquities unto a land not inhabited (16.10-22)”. In Holman
Hunt’s mind this scene is immediately registered as a symbolic prefiguration of Christ’s passion, and particularly of a memorable passage of Isaiah147.
Il senso di una perdita di contatto con la realtà civilizzata viene
rafforzato dalla serie di disegni raffiguranti la zona rurale di
Ewell e in particolare “Rectory Farm”, abitazione agricola degli
zii di Hunt. Ed è proprio in virtù di tale focalizzazione dettagliata sulla cucina e sui polli appesi a testa in giù destinati ad esseri
macellalti e poi mangiati dalla sua famiglia, che Hunt entra in
contatto con la perversione collegata ai volatili del “piccolo Árpád”148, così come viene illustrata da Freud nel saggio “Il ritor-
147
Tim Barringer, Reading the Pre-Raphaelites, New Haven and London,
Yale University Press, 1999, p. 128.
148
Il caso del piccolo Árpád si basa sulla paura di castrazione derivante da
un incidente occorso in un pollaio dove il bambino subisce un attacco da un
pollo che lo becca proprio sull’area genitale. In seguito a tale evento sconvolgente, il piccolo Árpád adottò dei comportamenti stravaganti, interessandosi
in maniera patologica ai polli e assumendo comportamenti zoomorfici. Ma
ancora più interessante fu il suo atteggiamento ambivalente nei confronti del
86
Capitolo I
no del totemismo nei bambini”. Alla luce dei molteplici rimandi
ornitologici da parte dei componenti della confraternita preraffaellita, non è azzardato postulare una cifra estetica degli uccelli
depositari di qualità identitarie. Si pensi alla passione narcisistica di Morris per merli, corvi, pettirossi, aironi, picchi, esemplificata nella sua arte decorativa (Trellis; Vine and Acanthus; Dove
and Rose; Brother Rabbit; Bird and Anemone; Bullerswood; Woodpecker; Strawberry Thief), che culmina nell’identificazione con il
suo totem ereditario: “[he] would imitate an eagle with considerable skill and humor, climbing on to a chair and, after sudden
pause, coming down with a soft flop”149. Pur essendo proiettato
in una dimensione comportamentale al limite dell’animalesco,
Morris non dimentica l’istinto alla protezione nei confronti del
suo animale sacro, in linea con il dovere ecologico di difendere
la bellezza della natura, così come viene messo in luce da sua
figlia May:
You can picture my Father going out in the early morning and watching the rascally trushes at work on the fruit-beds and telling the gardener who growls, ‘I’d like to wring their necks!’ that no bird in the
garden must be touched. There were certainly more birds than strawberries in spite of attempt at protection150.
È da questa raffigurazione simbolica delle fragole che trae origine non tanto un immaginario luminoso derivante dalle leggende nordiche, quanto uno scenario intriso di amore e rispetto
per gli altri. Proprio come l’ossessione di Otello per le fragole
ricamate sul fazzoletto di Desdemona, l’atto di Rossetti di imboccare Jane Burden151 con deliziosi frutti rossi durante feste
suo animale totem: “odio smisurato e altrettanto smisurato amore” (Freud, op.
cit., p. 154).
149
Citato in Jill Duchess of Hamilton, Penny Hart and John Simmons
(eds.), The Gardens of William Morris, New York, Stewart, Tabori and
Chang, 1998, p. 65.
150
Ibid.
151
Un episodio significativo della fase orale rossettiana e delle sue attività
gratificanti è fornito da Stanley Weintraub: “Edmund Gosse remembered […]
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
87
mondane152, non fa altro che testimoniare la sua fissazione orale. Facendo assurgere la bocca di Jane a zona erogena privilegiata, per non parlare della rappresentazione di Fanny Cornforth
in Bocca Baciata153, l’artista preraffaellita infrange il divieto di
intraprendere rapporti sessuali con gli appartenenti al totem
dell’altro sesso. In questo senso, fragole, mele, melograni154, e
seeing Janey ‘in her ripest beauty’ sitting on the painting throne at the Browns
in a long, out-of-fashion gown of ivory velvet while Gabriel ‘squatted on a
stool at her feet’, and someone else recorded seeing him at a party at his
solicitor’s, Virtue Tebbs, feeding Mrs. Morris strawberries. ‘He was carefully
scraping off the cream, which was bad for her, and then solemnly presenting
her with the strawberries in a spoon’” (Weintraub, op. cit., p. 175).
152
A tal proposito, Pamela Todd afferma: “Lavish dinner parties [...] became the occasions of conflict and display. William followed Gabriel’s party
with a banquet of his own for eighteen guests at Queen Square on 27 May to
celebrate the publication of his Earthly Paradise. Gabriel responded by erecting a large marquee in his garden, which he described as ‘an approach to a
private Eden’, and inviting Janey, William, Philip Webb, Georgie and Ned to
a formal dinner. The food on offer at these usually took the form of a clear
soup, cold salmon served with cucumber and a sharp sauce, a saddle of mutton with jelly, or roast chicken or quails with potatoes and Brussels sprouts,
followed by meringues and ices or jelly and fresh fruit, and finally a savoury
[…] all washed down with copious amounts of champagne, Sauternes and
burgundy” (Pamela Todd, The Pre-Raphaelites at Home, London, Pavilion
Books, 2001, p. 118).
153
Secondo Elizabeth Prettejohn: “The phrase is excerpted from a line in
the Decameron, by the fourteenth-century Italian writer Giovanni Boccaccio:
‘The mouth that has been kissed does not lose its savour, indeed it renews itself just as the moon does’. [...] the full line of Boccaccio suggests that the
promiscuous kiss may lead to bliss rather than disaster – a daring message indeed for England in 1859” (Elizabeth Prettejohn, Rossetti and his Circle, New
York, Stewart, Tabori and Chang, 1997, p. 15).
154
L’importanza simbolica del melograno è espressa dal dipinto Giotto
Painting Dante’s Portrait (1852), una delle opere rossettiane che recano
l’influenza dell’arte italiana. La qualità ispiratrice di questo frutto è indagata
da D. M. R. Bentley: “emblem of [Dante’s] immortality, both artistic and
heavenly, which the artist who devotes all his faculties (hand and soul) to the
production of good works can hope to achieve good works” (“Rossetti’s
‘Hand and Soul’”, English Studies in Canada, 3, 4, Winter 1977, p. 452). Per
uno studio dettagliato sull’eredità italiana della famiglia Rossetti si rimanda a
88
Capitolo I
frutta fresca in genere che al periodo consisteva nel tipico dessert155 da servire a tavola, assumono una valenza trasgressiva
associata alla passione sessuale e all’insoddisfazione artistica.
Non a caso dietro l’adorazione perpetua di Jane Morris da parte
di D. G. Rossetti, si cela il conflitto tra impulsi sessuali e restrizioni sociali. Incapace di scendere a patti con la società, l’artista
si ritrova imprigionato nella fase orale che lo spinge a reduplicare ad libitum l’esperienza tabù, vale a dire a contemplare su
tela la bellezza archetipa di Jane con in mano il frutto proibito.
Ed è questo il punto nodale su cui i dipinti Proserpina, Bocca
Baciata e Venus Verticordia convergono, sancendo il permanere dell’angoscia del contatto, vale a dire quel délire de toucher
associato alle pulsioni sessuali.
A parte la sua pericolosa tendenza narcisistica156, evidente
nel tentativo di spingere i confratelli all’emulazione della sua
persona, Rossetti, designato il re dei preraffaelliti, incarna il tabù dei dominanti: un dominante da proteggere da tutti i pericoli
immaginabili e a sua volta un essere spaventoso da cui difendersi. In un’ottica di condizionamento, contrassegnata da costrizioni e violenze psicologiche, Rossetti sembra “portatore di una
misteriosa forza magica […] [che] reca morte e rovina a colui
che non sia protetto a sua volta da una simile carica”157. E si
spiega la dipendenza maniacale di Morris, seguace del credo
Francesco Marroni, “Living with Dante and Petrarch. Monna Innominata by
Christina Rossetti”, Journal of Anglo-Italian Studies, 7 (2002), pp. 113-131.
155
A proposito della frutta e della sua funzione sociale si veda Judith
Flanders: “Dessert at this period meant fresh fruit and nuts, not the sweet puddings, cakes, or other dishes that are today called dessert” (Inside the Victorian Home: A Portrait of Domestic Life in Victorian England, New York,
Norton, 2004, p. 243).
156
Vale la pena riportare quanto ricorda il fratello Wiliam Michael:
“Apart from [Dante Gabriel’s] mental gifts […] the quality most innate in him
appears to have been dominance: Hoc volo, sic jubeo, sit pro ratione voluntas.
[…]; he was imperative, vehement, at times angrily passionate; but his anger
was sudden and passing impulse, and to sulk or bear a grudge was not in him
at all” (W. M. Rossetti, op. cit., p. 19).
157
Freud, op. cit., p. 52.
W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale
89
estetico rossettiano, che amplificando l’importanza del suo maestro, subisce danni irreparabili nella formazione del suo carattere. A tal riguardo, Jack Lindsay afferma:
Rossetti then was in one sense a thoroughly bad influence on Morris,
helping to bring him to the point where he could say, “I can’t enter
into politico-questions with any interest”. But we can also argue [...]
that Morris had to concentrate his forces on the aesthetic level before
he could dare to confront the existing world with steady accusing eyes
and a broadly based convinction in the transformative powers of art
and work; and in this sense Rossetti’s effect was valuable at the phase
between 1856 and 1870158.
Eppure, all’assoggettamento di una mente debole come quella
di Morris fa riscontro una vivacità intellettuale senza precedenti
che si riversa in un mondo fantastico di natura primordiale ove
è possibile conquistare la felicità attraverso una società di uomini e di istituzioni collettivamente create. Nell’analisi delle istanze comportamentali presenti nell’universo medievale morrisiano si apprende che in esse le varie forze istintuali esercitano
l’influsso determinante per unire gli uomini secondo esigenze di
autoconservazione. La formazione culturale del medievalista
preraffaellita si poggia dunque su pulsioni sociali provenienti
dall’unificazione di componenti egoistiche ed erotiche, senza
però volgere le spalle all’idea di comunità umana.
158
Jack Lindsay, William Morris: His Life and Work, London, Constable,
1975, p. 78.
Capitolo II
Tempo, temporalità e storia
There is a history in all men’s lives,
Figuring the nature of the times deceased,
The which observed, a man may prophesy,
With a near aim, of the main chance of things
As yet not come to life, which in their seeds
And weak beginnings lie intreasurèd.
– William Shakespeare, Henry IV
2.1. Modelli di temporalità in News from Nowhere.
Persistente topos della narrativa morrisiana è quello relativo
all’importanza della storia che costituisce il perno ermeneutico
insostituibile dei componimenti dell’artista, la cui immaginazione si muove quasi esclusivamente nel campo diacronico
dell’evento. Vero è che dietro tale strategia testuale si cela il desiderio di operare una rivisitazione esegetica che, dichiarando il
primato del passato, finisce per suffragare l’idea di una strutturazione semantica intesa come recupero di un’assiologia positiva. Alla luce di quanto scrive Coleridge: “If men could learn
from history what lessons it might teach us! But passion and
party blind our eyes, and the light which experience gives is a
lantern on the stern, which shines only on the waves behind
us!”1, Morris sente fortemente i limiti del periodo vittoriano che
1
The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge. Table Talk, 2 voll.,
recorded by Henry Nelson Coleridge (and John Taylor Coleridge), edited by
Carl Woodring, Princeton, Princeton University Press, 1990, vol. I, p. 260. Per
un’indagine accurata dei pensieri storico-filosofici di Coleridge si rimanda al
saggio di E. P. Thompson “A Compendium of Cliché. The Poet as Essayst” in
92
Capitolo II
gli sembra depositario di un universo immobile e senza luce, il
cui impianto ideologico può riacquistare vitalità solo attraverso
un rapporto dialogico con la storia.
Seppur non completamente omologabile alla corrente storicista, Morris si offre al lettore come interprete del sistema dinamico del reale inteso in termini di veritas filia temporis,
chiamando in causa il concetto di continuità, vale a dire che ogni momento storico è strettamente correlato ai successivi, quasi una geminatio temporale. In questa prospettiva, il romanzo
utopico NFN si offre a un’indagine retroattiva molto stimolante,
a partire da un orizzonte medievale atto a rappresentare una
connessione euforica tra passato, presente e futuro, una dimensione unificante che rimanda alla non-disgiunzione eliotiana
storia/tempo: “A people without history / Is not redeemed from
time, for history is a pattern / Of timeless moments. So, while
the light fails / On a winter’s afternoon, in a secluded chapel /
History is now and England”2 (“Little Gidding”, 1942, pt. 5).
Non a caso, proprio l’ultimo capitolo di NFN, topologicamente,
offre la rappresentazione di un io narrativo che ha ormai stabilito un nesso euforico con la storia ritrovandosi in una chiesa
(“This was somewhat new to me, this dinner in a church, and I
thought of the church-ales of the Middle Ages […]”, NFN, p.
179), correlativo oggettivo della cosmologia culturale eliotiana,
che si dà come soglia temporale tra i due mondi ove il protagonista riconosce la necessità di: “Go on living […] striving, with
whatsoever pain and labour needs must be, to build up little by
little the new day of fellowship, and rest, and happiness” (NFN,
“The Feast’s Beginning – The End”, p. 182).
D’altra parte, che esista un nesso, sia pure afferente al rimosso politico, tra utopia e storia appare evidente quando si nocui, tra le altre cose, afferma che: “Coleridge is always writing ‘from [his] inmost soul’, he offers himself as ‘a teacher of moral wisdom’” (The Romantics.
Wordsworth, Coleridge, Thelwall, foreword by Dorothy Thompson, London,
Merlin Press, 1997, p. 148).
2
T. S. Eliot, Four Quartets, New York, Harcourt, Brace & World, Inc.,
1943, p. 38.
Tempo, temporalità e storia
93
ti la natura intrinseca di questa forma di prolessi narrativa che
come mette in chiaro Fortunati: “[…] è radicata nella storia […]
porta i segni del suo tempo, degli eventi che l’hanno determinata e le soluzioni proposte […] una coraggiosa proposta di modifica del reale” 3 . Di qui l’implicita rivolta morrisiana contro
l’appiattimento e la depersonalizzazione prodotti nel suo tempo
storico a cui contrappone la qualificazione etico-sociale del
Medioevo e, nella fattispecie, del quattordicesimo secolo che
costituisce la dislocazione temporale ideale ove si attualizza una
rigenerazione a tutti i livelli dell’umano sentire. Rispetto a tale
forma di palingenesi, Krisham Kumar ha notato che:
Anche Morris naturalmente si ispirò al Medioevo per la sua Utopia. E
seguì More anche nel suo uso della storia: la storia vista non solo come deposito di valori e di usanze, ma come una viva e attiva presenza
nel presente, come una forza “romantica”. […] La storia viene usata
sia per il recupero di certe forme – la configurazione delle città, il disegno di edifici e di abiti, per esempio – sia per collocare la società futura in prospettiva. […] Morris da buon marxista quale è, concepisce
la società futura costruita con i materiali del passato4.
A mio parere, oltre a una temporalità medievale intesa positivamente come reazione al peso del vivere vittoriano, qui
l’assioma della priorità del passato rimanda in primo luogo alla
teoria dell’“inversione storica” di Bachtin quando osserva che
“[o]gni rivelazione delle contraddizioni sociali allarga inevitabilmente il tempo nel futuro. Quanto più profondamente esse
sono rivelate, tanto più matura, quindi, e sostanziale e ampia
può essere la pienezza del tempo nelle immagini dell’artista”5.
Si tratta perciò di un pensiero artistico che “localizza nel passato categorie come il fine, l’ideale, la giustizia, la perfezione, lo
3
Fortunati, La letteratura utopica inglese, cit., p. 17.
Krisham Kumar, “News from Nowhere: il rinnovarsi dell’utopia”, in
Corrado et al., William Morris “News from Nowhere” cent’anni dopo, cit., p.
84 e sgg.
5
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1999, p. 294.
4
94
Capitolo II
stato armonico dell’uomo e della società […]”6 proprio perché
individua in questa dimensione uno spessore morale altrimenti
assente nell’episteme contemporanea. Similmente all’elaborazione
delle forme del tempo bachtiniane, Morris investe il “c’è stato”
di ponderabilità concreta al fine di innescare la riemersione di
quanto si riteneva per sempre sepolto: solo allora l’ideale acquista spessore realistico che si concretizza nell’Età dell’oro così
come viene rappresentata in NFN.
Se procediamo a determinare lo schema logico-temporale
del secondo capitolo “A Morning Bath” è facile rilevare come
la diegesi possa essere suddivisa in tre diacronie interne:
A) 1300
B)
C)
2003
1890
t1 (futuro proiettato nel passato)
sogno
2
sogno
3
realtà
t (futuro)
t (presente)
Sulla scorta dei segmenti enucleati possiamo fare una prima
considerazione circa gli indicatori temporali così come si presentano al lettore: quanto alle assiologie utopiche del futuro (A,
B), esse si completano a vicenda, delineando così un tempo
immaginario futuro che rinvia però a un periodo medievale –
una sorta di paradosso temporale, in cui t1 e t2 coesistono al fine
di costruire lungo un asse verticale la denuncia metaforica di
una mancanza come assenza di valori, ora visibile grazie al vettore storico. Passando a C, notiamo che la lessia presa in
considerazione, con la sua forte sottolineatura vittoriana
s’inserisce nella condizione del presente autoriale, in cui la forte
marginalizzazione di t3 da parte del barcaiolo Dick si fa
espressione di una divergenza dei soggetti attoriali (William e
Dick), ma è anche escamotage finzionale atto a sovrapporre
l’istanza del presente con quella del passato, a confonderle e a
confrontarle senza porsi domande a cui non si riuscirebbe a
trovare risposta.
6
Ibid.
Tempo, temporalità e storia
95
Certo è che il risveglio in un mondo altro dispiega una valenza di incertezza che va ben oltre il tema della suspension of
disbelief come appare evidente nel passo relativo all’isotopia
del vestiario (t1):
His dress was not like any modern work-a-day clothes I had seen, but
would have served very well as a costume for a picture of fourteenthcentury life: it was of dark blue cloth, simple enough, but of fine web,
and without a stain on it. He had a brown leather belt around his waist,
and I noticed that its clasp was of damascened steel beautifully
wrought. In short, he seemed to be like some specially manly and refined young gentleman, playing waterman for spree, and I concluded
that this was the case (NFN, “A Morning Bath”, p. 7).
È tutta qui la modellizzazione temporale che, sia pure per il
tramite degli oggetti (“a costume for a picture of fourteenthcentury life”; “a brown leather belt”; “its clasp […] of damascened
steel beautifully wrought”), configura una possibilità dialogica
tra le diverse e conflittuali fasi dell’evoluzione storica anglosassone. Ma è chiaro che nell’associazione e continuità dei paradigmi di bellezza, semplicità, ordine, eleganza e raffinatezza rileviamo, insieme ai Leitmotive della formula estetica morrisiana, come l’indumento qui descritto rimandi a un’atmosfera magica e sognante tipica del quattordicesimo secolo che diviene lo
scenario privilegiato della mente visionaria utopica in questione. Ad adempiere una fondamentale funzione ipogrammatica
troviamo il sintagma “His dress was not like any modern […]”
che, rimandando al lessema “costume”, rafforza l’isotopia della
dissolvenza temporale. In tal modo, il brano s’incentra sulla descrizione dettagliata della veste medievale, una sequenza di occorrimenti aggettivali che danno grande enfasi all’idea di pleasure
grazie anche alla proposizione conclusiva (“some specially
manly and refined young gentleman, playing waterman for
spree”) ove si dispiega la funzione semioticamente importante del
nesso lavoro/divertimento. Chiaramente, si tratta di un espediente stilistico che, riconducendo al discorso di David Lodge in
ambito digressivo (“I vestiti sono i principali indicatori d’epoca
nella narrativa […] e informazioni sul tipo di abbigliamento che
96
Capitolo II
la gente indossava nel passato possono essere frutto di una ricerca storica […]”7), sancisce l’inizio della rêverie.
Dopo il passaggio sineddochico verso la focalizzazione dei
dettagli dell’abito appartenente a Dick, l’entrata sulla scena di
un ponte non è affatto casuale – dietro quell’espressione architettonica8 di iperbolismo fiabesco si cela un segmento di tempo
(t2) tutt’altro che di facile comprensione:
[…] Then the bridge! I had perhaps dreamed of such a bridge, but
never seen such an one out of an illuminated manuscript; for not even
the Ponte Vecchio at Florence came anywhere near it. It was of stone
arches, splendidly solid, and as graceful as they were strong; high
enough also to let ordinary river traffic easily. Over the parapet
showed quaint and fanciful little buildings, which I supposed to be
booths or shops, beset with painted and gilded vanes and spirelets.
The stone was a little weathered but showed no marks of the grimy
sootiness which I was used to on every London building more than a
year old. In short, to me a wonder of a bridge. “[…] it was built or at
least opened, in 2003. […]”.
The date shut my mouth as if a key had been turned in a padlock
fixed to my lips; for I saw that something inexplicable had happened,
and that if I said much, I should be mixed up in a game of cross questions and crooked answers (NFN, pp. 7-8).
Con un procedimento tipico del meraviglioso favolistico, quello
che s’impone è una sorta di epifenomeno in grado di proiettare
il soggetto testuale in uno scenario le cui unicità e irripetibilità
sono sancite dalla massa monumentale del ponte. Ed è significativo che per mettere in scena una tipologia armonica di costruzione civile l’io narrativo adotti una similitudine che, facendo
leva sul senso della vista e sulle conoscenze artistiche di chi fa
7
David Lodge, L’arte della narrativa, Milano, Bompiani, 2001, p. 171.
In un saggio del 1881 “The Prospects of Architecture in Civilization”
Morris esprime la sua predilezione per l’architettura, una delle forme d’arte
più rappresentative della società: “The word Architecture has, I suppose, to
most of you the meaning of the art of building nobly and ornamentally. Now, I
believe the practice of this art to be one of the most important things which
man can turn his hand to […]” (William Morris, “The Prospects of Architecture in Civilization”, in On Architecture, cit., p. 64).
8
Tempo, temporalità e storia
97
l’esperienza della visione, s’incentra sul contrasto tra ciò che è e
ciò a cui potrebbe essere paragonato (“for not even the Ponte
Vecchio at Florence came anywhere near it”). E nel sintagma “a
wonder of a bridge” viene attualizzata l’isotopia semantica del
sogno realistico, insieme all’elemento ovvio della specularità, di
un mondo che rimanda inevitabilmente alla topologia disforica
ottocentesca. Per dirla con Bachelard: “[l]a rêverie [ha la capacità] di metterci in contatto con l’universo. Nella nostra rêverie
si forma un mondo, un mondo che è il nostro mondo. E da questo mondo fantasticato e sognato apprendiamo le possibilità di
accrescimento del nostro essere in un universo che è il nostro”9.
Pertanto, analogamente all’episodio del medieval costume (t1),
nel medesimo capitolo, si dà vita a un’altra microdescrizione
che si colloca sotto il segno del codice architettonico, una rappresentazione tanto efficace da evocare un’altra dimensione
temporale (t2), sempre e comunque relativa all’utopia nowheriana: “[…] it was built or at least opened, in 2003”.
Stabilendo un nesso intertestuale evidente con l’immaginario
romantico wordsworthiano, Morris mira a rinnovare la spettacolarizzazione derivante dalla simbologia del ponte presente emblematicamente nella lirica “Upon Westminster Bridge” (Sept.
3, 1802, d’ora in poi UWB) e, nella fattispecie, in quei versi di
grande suggestione:
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
9
15.
EARTH has not anything to show more fair;
Dull would he be of soul who could pass by
A sight so touching in its majesty.
This city now doth like a garment wear
The beauty of the morning: silent, bare,
Ships, towers, domes, theatres, and temples lie
Open unto the fields, and to the sky, –
All bright and glittering in the smokeless air.
Never did sun more beautifully steep
In his first splendour valley, rock, or hill;
Ne’er saw I, never felt, a calm so deep!
Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo libri, 1972 p.
98
Capitolo II
12 The river glideth at his own sweet will:
13 Dear God! the very houses seem asleep;
14 And all that mighty heart is lying still!10
Quello che si evidenzia ad una lettura di microlivello è il
rapporto simmetrico tra la lessia morrisiana e la versificazione
di Wordsworth, secondo un reperimento di confluenze, parallelismi
e analogie lessicali atte a stabilire una continuità semanticoconcettuale. Al codice equoreo nowheriano, che coglie il corso
d’acqua londinese nella quotidianità del suo fluire naturale, corrisponde lo scorrere dolce del Tamigi wordsworthiano:
“Let ordinary river traffic through easily” (NFN, pp. 7-8) = “The river
glideth at his own sweet will” (UWB, v. 12)
Pur presentando elementi dissimili del paesaggio circostante,
dovuto in primo luogo alla diversa dislocazione spaziale dei due
osservatori privilegiati, in un movimento che va dal basso verso
l’alto per NFN e dall’alto verso il basso per UWB, entrambi gli
scenari sono marcati da un’eccezionalità visiva che culmina
nell’immagine dorata per il vittoriano e nell’immensità degli
spazi aperti per il poeta romantico:
“Over the parapet showed quaint and fanciful little buildings, which I
supposed to be booths or shops, beset with painted and gilded vanes
and spirelets” (NFN, p. 8) = “Ships, towers, domes, theatres, and temples lie / Open unto the fields, and to the sky, –” (UWB, vv. 6-7).
In un processo d’intensificazione del datum paesaggistico, i
segmenti presi in considerazione deferiscono al lettore l’idea
che in quel contesto euforico si dia una possibilità di risolvere
in una modellizzazione armonica del mondo l’antinomia caos/
cosmo. In questo senso, a rafforzare la coesione tematica tra
NFN e UWB, interviene la qualificazione ecologica che, seppur
10
The Complete Poetical Works of William Wordsworth, 1801-1805, 10
voll., Boston and New York, Houghton Mifflin Company, 1911, IV vol., p.
89.
Tempo, temporalità e storia
99
afferente a due diversi codici di riferimento (urbanistico e atmosferico), costituisce un tentativo di sistematizzazione dell’epoca
vittoriana in uno slancio immaginativo di marca utopica. Ad
ogni modo, non è tanto importante stabilire la modalità dello
stravolgimento assiologico adottata dai due artisti, quanto ricordare la loro ricerca di un ideale estetico in grado di vincere in
modo definitivo l’agone contro la disarmonia:
“no marks of the grimy sootiness” (NFN, p. 8) = “All bright and glittering in the smokeless air.” (UWB, v. 8)
Se è innegabile che Morris collochi la sua visione in una stagione aurea, conferendo un respiro più ampio e universale a quella
che sembra la materializzazione delle speranze umane, allora
appare evidente come nella lirica wordsworthiana il ponte, per
via del suo effetto positivamente straniante, sancisca la pienezza
dell’essere. E, quasi a voler rendere linguisticamente perspicuo
lo stupore dinanzi al locus epifanizzato e epifanizzante, viene
presentata l’iterazione avverbiale di marca temporale “never”,
che, nel momento stesso in cui sottolinea l’unicità del frammento descrittivo, paradossalmente ne presuppone una lettura fondata sulla rappresentazione iperbolica del continuum utopico.
“[…] I had perhaps dreamed of such a bridge, but never seen such an
one out of an illuminated manuscript” (NFN, p. 7) = “Never did sun
more beautifully steep” (UWB, v. 9); “Ne’er saw I, never felt, a calm
so deep!” (UWB, v. 11)
Tale eccesso immaginativo ha la forza suggestiva sufficiente a
trasformare un episodio banale in un momento significativo capace di suscitare nell’animo dell’io esperiente associazioni inspiegabili e incredibili possibilità ermeneutiche. A prevalere è
la tonalità storica di un momento climactico orientato su coordinate estetico-sociali, la cui presentazione giunge come conferma narrativa di quanto dichiarato nell’articolo “Architecture
and History” (1884):
100
Capitolo II
Ancient architecture bears witness to the development of man’s ideas,
to the continuity of history, and, so doing, affords neverceasing instruction, nay education, to the passing generations, not only telling us
what the aspirations of men passed away, but also what we may hope
for in the time to come11.
Nel sintagma “the continuity of history” si perviene alla tematizzazione storica determinatasi grazie alla testimonianza architettonica12 – elemento unificante che, dalla prospettiva del metalinguaggio dello spazio, implica l’opposizione passato vs futuro
(“the aspirations of men passed away” vs “what we may hope
for in the time to come”). Non a caso più avanti nel saggio,
Morris si sofferma a meditare su tale polarizzazione temporale:
Let us admit that we are living in the time of barbarism betwixt two
periods of order, the order of the past and the order of the future, and
then, though there may be some of us who think (as I do) that the end
of that barbarism is drawing near, and others that it is far distant, yet
we can both of us, I the hopeful and you the unhopeful, work together
to preserve what relics of the old order are yet left us for the instruction, the pleasure, the hope of the new13.
E in questo interrogarsi lo speaker finisce per rendersi conto che
rispetto alla visione pessimistica degli “unhopeful”, egli mostra
una fiducia incondizionata nel futuro – rispetto al “time of barbarism” e ai suoi fenomeni di “destruction or brutification of
ancient monument of art”14, Morris si fa portavoce di un messaggio di continuità e speranza, suggerendo un’associazione
simbolica tra storia, architettura e società così come metterà in
11
William Morris, “Architecture and History”, 1884, in On Architecture,
cit., p. 99.
12
In particolare, commentando l’entrata in scena dell’architettura nella vita di Morris, Manieri Elia scrive: “L’architettura […] è […] vista e assunta
come una missione verso la società, […]. Un impegno sociale e morale, ben al
di là di ogni limite disciplinare e incompatibile con ogni residuo confessionale” (Mario Manieri Elia, William Morris e l’ideologia dell’architettura moderna, Bari, Laterza, 1976, p. 61).
13
Ivi, p. 121.
14
Ibid.
Tempo, temporalità e storia
101
chiaro quattro anni più tardi (1888): “History taught us the evolution of architecture, it is now teaching us the evolution of society; […]”15.
Di particolare rilievo simbolico appare l’ultimo indice temporale del capitolo “A Morning Bath” (t3) e, ancor di più, il codice monetario a cui viene associato, utile per rendersi conto
che, rispetto a tanti fenomeni vittoriani, gli abitanti di Nowhere
mostrano un savoir vivre che gli uomini comuni non hanno –
rispetto alle leggi socio-economiche ottocentesche gli umili personaggi morrisiani sanno ciò che all’uomo del presente non è
dato sapere. Non solo in termini di valori etico-comportamentali
rendendo visibile l’abisso ontologico in cui l’uomo vittoriano è
precipitato, così come viene espresso da Izaak Walton “[…] a
blessing that money cannot buy”16, ma anche perché quello che
resta a livello diegetico è la sensazione di un mistero insoluto e
insolubile, quasi una resa dinanzi alla complessità dell’universo
utopico:
As to your coins, they are curious, but not very old; they seem to be
all of the reign of Victoria; you might give them to some scantilyfurnished museum. Ours has enough of such coins, besides a fair
number of earlier ones, many of which are beautiful, whereas these
nineteenth century ones are so beastly ugly, ain’t they? We have a
piece of Edward III., with the king in a ship, and little leopards and
fleurs-de-lys all along the gunwale, so delicately worked (NFN, pp. 910).
In questa selezione narrativa viene presentata in termini molto
precisi l’antitesi passato/presente che appare omologabile ad
altre coppie antinomiche: Edoardo/Vittoria, bello/brutto. E non15
William Morris, “The Revival of Architecture”, in On Architecture, cit.,
p. 138.
16
Izaak Walton, The Compleat Angler, ed. John Buxton, with an introduction by John Buchan, Oxford, Oxford University Press, 1988, p. 223: “Look to
your health; and if you have it, praise God, and value it next to a good conscience; for health is the second blessing that we mortals are capable of; a
blessing that money cannot buy”.
102
Capitolo II
dimeno significativo che la coppia passato/presente trovi
un’esatta corrispondenza nella lavorazione dei metalli, comprovando così anche sul piano delle scelte artigianali, l’opposizione
tematico-temporale. Oltre al riferimento alla bellezza connessa
alla forgiatura monetaria medievale (“We have a piece of Edward III., with the king in a ship, and little leopards and fleursde-lys all along the gunwale, so delicately worked”) che
s’impone come alternativa al grado di decadimento ottocentesco
(“these nineteenth century ones are so beastly ugly”), troviamo
una più implicita e raffinata verbalizzazione dell’antinomia medievale/vittoriano, con una connotazione storica incentrata su
Edoardo III17 il quale, contestualmente irradia di prospettiva cavalleresca la lessia monetaria.
L’aspetto strutturalmente rilevante di “A Morning Bath” è
rappresentato dalla opposizione tra il sogno e la realtà, tra t1 e t2
da una parte e t3 dall’altra, con la corrispondente adibizione di
due blocchi diacronicamente antitetici. Il primo blocco temporale è costituito dalla coppia 1300/2003 che colloca in primo piano l’incoerenza assiologica secondo cui uomini vestiti con indumenti medievali passeggiano su un ponte del ventunesimo
secolo; il secondo blocco costituito dal generico inquadramento
vittoriano, presenta una densità informativa che attualizza
l’agone tra l’istanza del presente e quella di un futuro spurio
poiché inscritto in un concatenamento logico medievale. È possibile rintracciare in questo fenomeno temporale la legge spenceriana presente ne L’ipotesi dello sviluppo (1852) che postula
17
A proposito di Edoardo III (1327-1377), qui va ricordata l’istituzione
dell’ordine cavalleresco della Giarrettiera (1348), una sorta di confraternita
militare tesa a riflettere la nostalgia per il regno mitico di re Artù. Secondo la
leggenda, la caratteristica principale del nobilissimo ordine rimanda alla giarrettiera di velluto azzurro scuro, listata d’oro, con fibbia e puntale d’oro, con il
motto “Honni soit qui mal y pense”, portato sotto il ginocchio sinistro dei cavalieri. All’origine di tale usanza vi è l’incidente relativo alla contessa di
Salisbury, amante del re, alla quale durante una festa cadde il legaccio di una
calza prontamente raccolto da Edoardo che porgendoglielo proferì il motto
sopra citato.
Tempo, temporalità e storia
103
un’idea di evoluzione concepita come un’integrazione di materia accompagnata da dispersione di moto, in cui la materia passa
da una omogeneità indefinita, incoerente, a una eterogeneità definita, coerente18. Come ha ipotizzato Herbert Spencer, una determinata realtà x va soggetta da un istante di tempo t1 ad un altro istante tn e tale progresso si spiega nei termini di un processo
di differenziazione e coerentizzazione della realtà considerata
secondo lo schema:
x in t1
indefinito
incoerente
x in tn
→
→
definito
coerente
Alla luce dell’analisi evolutiva che caratterizza le teorie
dell’esponente della filosofia positivista, non è azzardato applicare tale criterio dinamico alle strutture a priori della ricerca
morrisiana. Se interpretiamo t1 come la somma di A (1300) e B
(2003), comprendiamo che, in sostanza, sono l’incoerenza e
l’indefinito i veri protagonisti di Nowhere. Per cui, l’ultima istanza temporale che, come appare evidente nello schema, riproduce la determinatezza del diciannovesimo secolo, va interpretata non nel senso di una “[…] complete equality which we
now recognise as the bond of all happy human society” (NFN,
p. 154), ma più drammaticamente come una dichiarazione che
segna l’ingresso in scena dell’infelicità etico-sociale (qui si pensi alle parole di Ellen rivolte a William nell’explicit del romanzo: “you cannot be of us; you belong so entirely to the unhappi18
Per un’analisi approfondita dell’idea di progresso spenceriana, si rimanda al sesto capitolo di On Social Evolution in cui si legge: “The only obvious respect in which all kinds of Progress are alike, is that they are modes of
change; and hence, in some characteristic of changes in general, the desired
solution will probably be found. We may suspect a priori that in some law of
change lies the explanation of this universal transformation of the homogeneous in the heterogeneous” (Herbert Spencer, On Social Evolution, ed. J. D.
Y. Peel, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1983, p. 47).
104
Capitolo II
ness of the past that our happiness even would weary you”,
NFN, p. 181).
x in t1 (1300-2003)
indefinito
incoerente
something inexplicable:
-beautifully wrought
-splendidly solid
-a wonder of bridge
x in tn (1890)
→
→
definito
coerente
reign of Victoria:
→
beastly ugly
2.2. Quasi come uno storico vittoriano. In un’ottica di
meditazione, contrassegnata dall’interscambio dialogico intenso
e premonitore, fa irruzione il vecchio Hammond, storico ufficiale di episodi singolativi passati, depositario di un potere ermeneutico verso cui il protagonista ora si protende, ora si allontana. Proaireticamente i capitoli “Questions and Answers” (X) e
“How the Change Came” (XVII), in cui l’anziano bibliotecario
restituisce ordine ad una realtà confusa, fungono da perni
dell’azione e del pensiero storico. Molto giustamente James Buzard,
parlando della personalità dilemmatica di Hammond, ha osservato:
The old sage characterizes himself […] transforming the metonymic
relationship of a man living amidst books into the synecdochic one of
a man who “is” […] the vital member of the library’s collection, one
whose mind contains in its small compass all that the national library
has to tell […]. […] Hammond appear[s] the very embodiment of that
well-worn analogy which holds that “history is to the nation … as
memory is to the individual”: his society’s history “is” his individual
memory. He endows British culture with affect, makes it an “object of
Tempo, temporalità e storia
105
pathos”, by alchemizing in the cauldron of his mind history (what
happened) into memory (what happened to us)19.
Qui va subito precisato che sebbene egli “[…] know[s] more of
all that has happened within the last two hundred years than
anybody else does” (NFN, “Concerning Love”, p. 46), non si
tratta di un sapere freddo e distaccato, in quanto il grado di introiezione del testo storico è così grande (“‘I am much tied to
the past, my past’”, NFN, Ivi, p. 47) che, nel momento in cui
William lo invita a ripercorrere il flusso temporale degli eventi,
Hammond non può fare a meno di “[…] fancy [him]self as living in any period of which we may be speaking” (NFN, “Questions and Answers”, p. 55). In quest’ottica, diversamente dalla
valenza utilitaristica butleriana (“It has been said that though
God cannot alter the past, historians can; it is perhaps because
they can be useful to Him in this respect that He tolerates their
existence”20), rintracciamo una forte eco shakespeariana nell’onestà
del memorialista vittoriano:
After my death I wish no other herald,
No other speaker of my living actions,
To keep mine honour from corruption,
Than such an honest chronicler as Griffith21.
19
James Buzard, “Ethnography as Interruption: News from Nowhere, Narrative, and the Modern Romance of Authority”, Victorian Studies, 40, 3
(Spring 1997), p. 457.
20
Samuel Butler, Erewhon Revisited, introduction by Desmond MacCarthy, London, Melbourne and Toronto, Dent, 1979, p. 293.
21
William Shakespeare, Henry VIII, 1613, in Complete Works, edited
with a glossary by W. J. Craig, Oxford, Oxford University Press, 1974, pp.
658-659. Nell’introduzione alla versione italiana di Enrico VIII, Anna Luisa
Zazo scrive: “Il poeta, l’incantatore, la ‘meraviglia del nostro teatro’ si è trasformato in cronista: o, se si vuole, in storico, ma le molte inesattezze che
l’opera contiene rendono cauti nell’usare tale espressione” (William Shakespeare, Enrico VIII, traduzione di Vittorio Gabrieli, saggio introduttivo di Anna Luisa Zazo, Milano, Mondadori, 2001, p. XIV).
106
Capitolo II
Non solo Hammond rappresenta il polo del realismo, ma nelle
sue parole vi è anche la percezione di un’affettività mirante a
conquistare il centro morale della storia britannica che, fuor di
metafora, significa riappropriazione di una dignità culturale, e
insieme estromissione di quei fantasmi del passato che hanno
trasformato Londra in un intrico di tensioni civili disforiche distruttive. Non è quindi ipotesi peregrina ravvisare in tale figuralità maschile un riferimento all’Angelus Novus di Benjamin che,
forse più di ogni altro simbolo, epitomizza l’impotenza dinanzi
alla radicale crisi del passato:
C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo
sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.
L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine e le rovescia ai suoi piedi.
Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto.
Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali,
ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo
spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il
progresso è questa tempesta22.
Come custode dell’interpretazione sociale, Hammond dimostra
di incarnare la frustrante inazione vittoriana che fino a quel
momento sembrava aver raggiunto il grado zero: dopo aver preso coscienza dell’insicurezza ontologica ottocentesca e aver
messo in scena lo stato patologico della mentalità passata, questo aiutante narrativo può compiacersi dello status armonico del
locus utopico. Con la stessa visionarietà apocalittica dell’angelo
della storia, l’anziano cronista afferma la cruda verità degli eventi, individuando almeno cinque nuclei tematici relativi a
“Questions and Answers”:
22
Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi,
1995, p. 80.
Tempo, temporalità e storia
107
1. Sistematizzazione meccanica dell’istruzione: il presunto bisnonno di William delinea, secondo una retrospezione temporalmente definita, il periodo in cui il sistema d’istruzione
era incentrato su un processo di restrizione informativa ai
limiti del ritegno nell’offerta didattica 23 , culminante nella
confusione mentale di chi elargiva un insegnamento oppressivo e dispotico.
2. Dislocazione spaziale disforica: i bassifondi sono lo spazio
semantico entro il quale ha luogo il momento di visione analettico che si omologa alla coppia degradazione/tortura,
relativa appunto ai quartieri umili connessi all’assetto socioculturale del diciannovesimo secolo.
3. Miseria derivante dalla lotta di classe: in un procedimento
teso a restringere l’ambito di focalizzazione, gli attacchi critici da parte di Hammond danno grande enfasi all’idea di
malcontento e disperazione dinanzi ai crimini capitalistici,
grazie anche alla commemorazione dell’Abolizione della
Miseria, una festa atta a celebrare la libertà degli oppressi e
la fine dello schiavismo perpetuato da parte degli oppressori.
4. Commercializzazione della cultura: l’evocazione del passato, se da un lato promette un’integrità e pienezza del soggetto culturale futuro, dall’altro si risolve nella rivelazione del
cinismo tipico degli uomini acculturati presenti a Oxford
come a Cambridge, mettendo in risalto in modo drammatico
la corruzione accademica dell’epoca vittoriana.
5. Decadimento architettonico insieme alla riduzione
dell’indice produzione-lavoro: è evidente che il fenomeno
dell’industrializzazione risulta la causa principale del fatto
che le nuove costruzioni risultino prive di qualsivoglia at23
“[…] pinched ‘education’ for most people into a niggardly dole of not
very accurate information; something to be swallowed by the beginner in the
art of living whether he liked it or not, […]: and which had been chewed and
digested over and over again by people who didn’t care about it in order to
serve it out to other people who didn’t care about it’” (NFN, pp. 54-55).
108
Capitolo II
tenzione per l’estetica e l’armonia con l’ambiente circostante ormai degradato e in rovina. D’altra parte, anche la manodopera subisce la pressione di un sistema teso a ridurre i
salari e a privare la gente di campagna dei loro stessi prodotti agricoli.
Alla luce di tale excursus analettico, la scelta di recuperare demarcatori temporali specifici (“at the end of the nineteenth century”; “toward the end of the nineteenth century”; “the first half
of the twentieth century”; “before the end of the nineteenth century”; “on May-day”; “on that day”; “on that occasion”; “on a
sunny afternoon of autumn”; “since the fourteenth century”;
“this summer”) rientra in una strategia ben precisa mirante sia a
colmare i gaps temporali riguardanti la combinazione anaforica
ora/allora, sia a segnalare esplicitamente lo scarto assiologico
futuro/passato. Qui vale la pena riportare le lessie ove si registra
l’utilizzo di analessi definite completive, vale a dire in grado di
risolvere lo iato temporale, e allo stesso tempo parziali, laddove
a un flashback fa seguito un salto in avanti:
1.
In the nineteenth century, society was so miserably poor, owing to the
systematised robbery on which it was founded, that real education was
impossible for anybody. The whole theory of their so-called education
was that it was necessary to shove a little information into a child,
even if it were by means of torture, and accompanied by twaddle
which it was well known was of no use, or else he would lack information lifelong: the hurry of poverty forbade anything else. All that is
past; we are no longer hurried, and the information lies ready to each
one’s hand when his own inclinations impel him to seek it. In this as
in other matters we have become wealthy: we can afford to give ourselves time to grow’ (NFN, p. 55).
Al livello di macrostrutture, la doppia articolazione sottesa al
testo trova un preciso riscontro sul piano lessematico
nell’opposizione poor/wealthy (“society was so miserably
poor”/“we have become wealthy”), come anche nella doppia
istanza narrativa coadiuvata da indicazioni determinate (“In the
nineteenth century […] real education was impossible for any-
Tempo, temporalità e storia
109
body” / “All that is past; we are no longer hurried, and the information lies ready to each one’s hand […] we can afford to
give ourselves time to grow’”). E indubbiamente, se si assume il
punto di vista del lettore morrisiano, ha ragione Ady Mineo
quando osserva il processo olistico dell’educazione in NFN:
History is not a popular subject […]; it has also lost its ideological
power after the complete overturning of the old system when tradition
was based on blood, property and religion. Rather history can be valuable to the new people as a memento of past injustice and struggle, to
prevent them from being tempted to restore the old order […]”24.
Così, nel tematizzare l’autodistruzione del secolo diciannovesimo in tutte le sue manifestazioni, Morris mira in primo luogo
a pervenire a una rappresentazione paradigmatica capace di dare
voce alle cose più umili e semplici e a conquistare un futuro che
assicuri una restitutio ad integrum della società. Di questo futuro implicante una ricomposizione dei frammenti dell’esperienza
vittoriana, danno una particolare esemplificazione i segmenti
collocati sotto il segno di un’urbanizzazione qualitativamente
deprecabile da una parte, e di una rivincita folclorica dall’altra:
2.
Time was when if you mounted a good horse and rode straight away
from my door here at a round trot for an hour and a half, you would
still be in the thick of London, and the greater part of that would be
‘slums’, as they were called; that is to say, places of torture for innocent men and women; or worse, stews for rearing and breeding men
and women in such degradation that that torture should seem to them
mere ordinary and natural life (NFN, p. 57).
3.
Once a year, on May-day, we hold a solemn feast in those easterly
communes of London to commemorate The Clearing of Misery, as it
is called. On that day we have music and dancing, and merry games
and happy feasting on the site of some of the worst of the old slums,
24
Ady Mineo, “The Reverse of Salem House: the Holistic Process of
Education in News from Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 11, 1 (Autumn 1994), p. 13.
110
Capitolo II
the traditional memory of which we have kept. On that occasion the
custom is for the prettiest girls to sing some of the old revolutionary
songs, and those which were the groans of the discontent, once so
hopeless, on the very spots where those terrible crimes of classmurder were committed day by day for so many years (Ibid.)
La differenziazione semantico-temporale dei due brani viene
ulteriormente intensificata da una ricca gamma di allitterazioni
e iterazioni fonologiche ([s]: “music and dancing, and merry
games and happy feasting on the site of some of the worst of the
old slums”; [o]: “On that occasion the custom is […] to sing
some of the old revolutionary songs, and those which were the
groans of the discontent, once so hopeless, on the very spots
where those […]”) che attualizzano una transizione dalla torture
alla feast: una transizione fonoprosodica che sembra degradare
ulteriormente il valore dell’ambiente descritto e suggerire il paradossale accostamento di fanciulle vestite a festa colte nell’atto
del canto e del ballo in quei luoghi una volta di tetro squallore.
Dopo la clamorosa rivolta contro la criminalità sociale vi è,
nell’interpretazione storica di Hammond, ancora spazio per una
denuncia culturale che, focalizzando sulla centralità strutturale e
ipogrammatica del termine commercial, segna il passaggio verso una conoscenza reale perseguita per amore della conoscenza,
senza fini lucrativi:
4.
“Well, [Oxford] has reverted to some of its best traditions; so you may
imagine how far it is from its nineteenth-century position. It is real
learning, knowledge cultivated for its own sake – the Art of Knowledge, in short – which is followed there, not the Commercial learning
of the past. Though perhaps you do not know that in the nineteenth
century Oxford and its less interesting sister Cambridge became definitely commercial. They (and especially Oxford) were the breeding
places of a peculiar class of parasites, who called themselves cultivated people; they were indeed cynical enough, as the so-called educated classes of the day generally were; but they affected an exaggeration of cynicism in order that they might be thought knowing and
worldly-wise (NFN, p. 60).
Tempo, temporalità e storia
111
In questo caso è invertito l’ordine descrittivo della dialettica
passato/futuro poiché vediamo drammatizzata la visione utopica
che precede la disarmonia oxfordiana in cui appare sempre più
evidente l’emergenza di uno stato patologico, segnalato da una
semantica da laboratorio parassitario (“breeding places”; “parasites”; “they affected they affected”). Sotteso all’immaginario
negativo accademico, vi sarebbe la poetica dell’essere di
Wordsworth, una sorta di fede nella capacità dell’uomo di cultura di muoversi in direzione della natura. Non a caso, contro la
ricorrente immagine dello studioso incapace di andare al di là di
un’apparenza nullificante, Morris, sulla scia dell’insegnamento
presente nel libro terzo del Prelude, delinea una possibile ancorché vaga idea di progresso morale della comunità accademica. Sia che si tratti della Cambridge romantica o della Cambridge vittoriana, ad emergere è una modellizzazione del centro
culturale britannico in cui su tutto prevale l’indifferenza della
natura insieme all’incapacità degli uomini acculturati a rendere
la vera essenza della conoscenza che, come ha scritto Johnson,
sta nel fatto che: “Integrity without knowledge is weak and useless, and knowledge without integrity is dangerous and dreadful”25. Ed è proprio su questo punto che notiamo la divaricazione tra la modalità dell’avere della società industriale imprigionata nel passato in cui il tempo è dominatore assoluto e la modalità dell’essere connessa all’hic et nunc morrisiano, implicando le considerazioni di Fromm per cui l’atto creativo, le idee, e
le manifestazioni dell’essere (amore, gioia, intuizione della verità) si pongono soltanto nell’immediatezza dell’evento:
Si può sperimentare anche il futuro come se fosse l’hic et nunc, e ciò
accade allorché una condizione futura sia anticipata nella propria esperienza con tale pienezza, da essere il futuro soltanto “obiettivamente”, vale a dire quale fatto esteriore, non già per l’esperienza soggettiva. Hanno questa natura le utopie genuinamente tali […] l[e] qual[i]
25
Samuel Johnson, The History of Rasselas, Prince of Abissinia, ed. D. J.
Enright, Harmondsworth, Penguin, 1985, p. 91.
112
Capitolo II
non ha[nno] bisogno della realizzazione “nel futuro” perché la sua esperienza diventi reale26.
Per Morris il futuro ha un senso solo in quanto spazio in cui
mettere in scena l’essere che, più di ogni altra facoltà umana,
gli fornisce fiducia “genuina” in grado di innescare quel processo che porta l’uomo a rispettare il tempo e non a sottometterglisi come avviene qualora a predominare sia la modalità
dell’avere. Ma è chiaro che il meccanismo memoriale, proiettando la centralità disforica dello squilibrio assiologico vittoriano – o meglio, collocando il passato in subordine rispetto al futuro –, rappresenta la negatività di uno scenario ove la miseria è
la condizione umana derivante da una progettualità schiava del
tempo:
5.
[…] toward the end of the nineteenth century the villages were almost
destroyed, […]. Houses were allowed to fall into decay and actual
ruin; trees were cut down for the sake of the few shillings which the
poor sticks would fetch; the building became inexpressibly mean and
hideous. Labour was scarce; but wages fell nevertheless. […] The
country produce which passed through the hands of the husbandmen
never got so far as their mouths. Incredible shabbiness and niggardly
pinching reigned over the fields and acres which, in spite of the rude
and careless husbandry of the times, were so kind and bountiful (NFN,
p. 61).
Anche in questa lessia si registra il paradigma dell’oppressiva
spazialità associato alle costruzioni “allowed to fall into decay
and actual ruin” come anche a una vita naturale che si fa morte
(“trees were cut down for the sake of the few shillings”) rinviando al nucleo semico fondamentale dello squallore ambientale (“the building became inexpressibly mean and hideous”;
“Incredible shabbiness and niggardly pinching reigned over the
fields”). La raffigurazione di uno scenario di grado zero diviene
una cosa sola con la presentazione della terribile verità implici26
Eric Fromm, Avere o essere?, Milano Mondadori, 1999, p. 200.
Tempo, temporalità e storia
113
tamente espressa nella rievocazione di un passato ormai superato. Come ha notato acutamente Hodgson:
The […] reason why it is […] necessary for an artist to work from an
understanding of the past is that only by doing so is he made free of
the sordid, transient trappings of nineteenth-century capitalist society.
Art should not slavishly mirror the miseries of the present time, but
should deal instead with the eternal truths which must be studied in a
wider context of past and future27.
Proprio per questa ragione, si segnala un’iterazione rivelatrice
che colloca il paradigma temporale “nineteenth century” come
meta costitutiva del protendersi attoriale al fine di incrementare
l’effetto deautomatizzante di una dimensione ontologica relegata nella sua non-condizione di miseria. Pertanto, in una sorta di
crescendo, al lettore viene presentata una circolarità tautologica
che, nel momento stesso in cui sottolinea la marca anaforica
delle numerosissime retrospezioni nell’ottocento vittoriano,
emblematicamente ne presuppone una lettura fondata su implicazioni etico-assiologiche.
XIX secolo
occorrimento temporale
occorrimento lessematico
1. In the nineteenth century society
was so miserably poor […] (p. 55).
1. […] [London] is more like ancient Babylon now than the ‘modern Babylon’ of the nineteenth century was (p. 56).
2. […] you come on the Docks,
which are works of the nineteenth
century […] (p. 58).
2. […] in the nineteenth century
Oxford and its less interesting sister Cambridge became definitely
commercial (p. 60).
3. […] toward the end of the nineteenth century the villages were
almost destroyed […] (p. 61).
27
Hodgson, op. cit., p. 131.
3. […] factories for making things
that nobody wants, which was the
chief business of the nineteenth
century (p. 64).
114
Capitolo II
Se l’intero capitolo risulta marcato da un iterativismo derivante
in primo luogo dalla coincidenza che accomuna “nineteenth
century” e “degradation”, la parte conclusiva segna una radicale
stratificazione temporale, la cui progressione nel testo viene
marcata da ellissi quasi indeterminate (once → then → now).
Intanto notiamo come il legame tra l’assiologia di once e la dimensione ideale di now sia messo in primo piano dalla valenza
positiva dell’immaginario ad esse connesso. Apparentemente
slegati dalla diacronia esterna di mezzo (then), l’Inghilterra di
un tempo e il mondo ecologico utopico sono messi in rapporto
non solo dall’equazione clearing = garden, ma in particolare
nell’esplicita dichiarazione: “Like the mediaevals, we like everything trim and clean, and orderly and bright; as people always
do when they have any sense of architectural power; because
then they know that they can have what they want, and they
won’t stand any nonsense from Nature in their dealings with
her” (NFN, p. 63). A conferma dell’elevato grado di funzionalità di tale campo semantico, va ricordato sul piano dell’intertestualità
il poema narrativo di Morris, The Earthly Paradise (1868-70) in
cui nel “Prologue: The Wanderers”, leggiamo: “And dream of
London, small and white and clean, / The clear Thames bordered by its gardens green”28. Pur sviluppandosi su topologie
diverse – nell’isola greca i cantastorie fuggono dagli orrori del
tempo, laddove William Guest si ritrova nella Londra-giardino
del ventunesimo secolo – EP e NFN sono accomunati dal concetto di evasione in un mondo migliore, un locus di convergenza e confronto tra ora e allora:
England was once a country of clearings amongst the woods and
wastes, with a few towns interspersed, which were fortresses for the
feudal army, markets for the folk, gathering places for craftsmen. It
then became a country of huge and foul workshops and fouler gambling-dens, surrounded by an ill-kept, poverty-stricken farm, pillaged
by the masters of the workshops. It is now a garden, where nothing is
28
William Morris, The Earthly Paradise, London, Longmans, Green and
Co, 1912, vol. I, p. 12.
Tempo, temporalità e storia
115
wasted and nothing is spoilt, with the necessary dwellings, sheds, and
workshops scattered up and down the country, all trim and neat and
pretty (NFN, p. 62, corsivi miei).
Qual è il rapporto che l’io narrativo/io lirico intrattiene con tale
visione? E che tipo di empatia lo lega al paesaggio che lo circonda? Morris si colloca in una posizione di estraneità –
topologica sì, ma anche psicologica. Quasi una volontaria scelta
di autoisolamento e di esilio dalle cose del mondo vittoriano.
Subendo una crisi di appartenenza alla realtà disforica e sempre
uguale dell’ottocento, egli si distacca29 dalle manifestazioni industriali di schiavismo e lesionismo, immerso com’è nel dubbio
e nell’incertezza, con l’unica possibilità di trovare un ancoraggio positivo nella sua forza creativa tesa a plasmare antimondi
d’evasione.
Morris è uno scrittore che trae stimolo e motivo d’ispirazione da
quello che accade (o è accaduto), un evento negativo di cui è
stato archiviato il suo svolgimento. Non solo, il socialista è
sempre pronto a estrapolare una lezione altamente significativa
dal dato storico, per cui la negazione o il non darsi di un’azione
moralmente giusta produce riflessioni di grande suggestività. Si
pensi alla strage di Trafalgar Square del 13 novembre 1887 riattualizzata nel capitolo “How the Change Came”, in cui la descrizione dello scontro a fuoco drammatizza il rimpianto per
un’azione orribile ma necessaria, compiuta ai danni di innocenti
dimostranti e che è motivo di dolore per l’io esperiente:
“I was near the edge of the crowd, towards the soldiers”, says this eyewitness, “and I saw three little machines being wheeled out in front of
the ranks, which I knew for mechanical guns. I cried out, “Throw
29
Per un approfondimento sulla nozione di estraneità si rinvia a quanto afferma Annamaria Sportelli: “La separazione è erranza, è erranza prima ancora
di essere abbandono o destinazione, identificazione o smarrimento. […]. Dislocazione che struttura e destruttura il Centro, sebbene fuggire da esso, “fleeing from the Centre” è ‘condurlo’ con sé in altra Zona” (Annamaria Sportelli,
Interpreti dell’estraneità su T. E. Lawrence ed altri scrittori del Novecento,
Urbino, Quattro Venti, 1990, p. 19).
116
Capitolo II
yourselves down! they are going to fire!” But no one scarcely could
throw himself down, […]; and then – It was as if the earth had opened,
and hell had come up bodily amidst us. It is no use trying to describe
the scene that followed. […] the dead and dying covered the ground,
and the shrieks and wails and cries of horror filled all the air, till it
seemed as if there was nothing else in the world but murder and death
(NFN, p. 100).
È questo uno scenario intriso di negatività, proprio perché
l’unica certezza è la morte garantita dalla presenza di una nonentità (mechanical guns) che, inutile sottolinearlo, rimanda alla
violenza di cui, per molti aspetti, Morris sente l’esigenza. Il segno più evidente di tale dimensione apocalittica si manifesta intorno alla similitudine infernale (“It was as if the earth had opened, and hell had come up bodily amidst us”) che è presente nel
testo per afferire alla dannazione umana in relazione all’insensatezza
del massacro fratricida. Ne segue uno scenario fantasmatizzante
caratterizzato da un codice sensoriale (vista e udito) omologato
alla configurazione di un orrore senza fine, un procedimento
intriso di realismo fantastico.
Qui, comunque, per la prima volta entra in scena direttamente l’osservatore (Hammond), sia pure nella forma debole
dell’anonimo componente della folla significativamente associato all’isotopia della sopravvivenza che svolge una funzione
ipogrammatica del processo creativo morrisiano. È al vecchio
saggio che spetta l’operazione di decodifica di un testo invisibile a William, che per la sua emersione verbale richiede una sensibilità in grado di andare al di là della superficie delle cose, di
trascendere quella realtà di morte che conduce alla condanna di
una razionalità senz’anima. La vicenda dell’eccidio britannico
rivela parecchie affinità con l’iconografia di Francisco Goya, e
più precisamente con il dipinto Fucilazione (1808) che offre
una drammatizzazione disperata e artisticamente molto suggestiva (si pensi alla prospettiva obliqua, al moto delle forme ottenuto grazie a una pennellata sintetica) di un romanticismo storico intriso di realismo capace di documentare l’atrocità della repressione senza omettere la verità. Non diversamente dal liberale spagnolo che protende le braccia al cielo in un gesto di eroica
Tempo, temporalità e storia
117
resistenza, Hammond si fa testimone di una storia come disastro
e massacro, vivendo la sua condizione di vittima terrorizzata
dinanzi a quei soldati/poliziotti senza volto e senza anima, veri
e propri strumenti di morte. Ed è proprio su questo punto che
notiamo la comunanza strutturale tra Morris e Goya, quasi a voler sancire la transitorietà del tempo laddove non c’è spazio per
il bello e per il giusto, ma solo una messinscena dell’autenticità
dell’uomo e la conseguente negazione della storia intesa come
narrazione di vicende umane degne di memoria.
Il momento dello scoppio della rivolta viene ricordato non
solo per quello che effettivamente è avvenuto, ma per quel segnale latente, quel messaggio di libertà e uguaglianza che giunge ora fragoroso, scuotendo le mura di una non più solida costruzione sociale. L’immaginazione morrisiana passa quasi
sempre attraverso la negatività dell’esperienza, che diviene la
maniera più esplicita per rappresentare un universo alternativo
sul cui palcoscenico l’essere umano è un esule aggrappato alla
speranza di trovare una risposta ai suoi interrogativi.
A favore dell’esautorazione degli oppressori, conseguente
alla dinamica delle vicende sociali, Morris decide di percorrere
la strada dell’eroismo per restituire all’uomo uno spazio morale
che pareva ormai negato dalla consuetudine capitalista. In questa direzione, egli perviene alla conclusione che dopo una simile
caduta etico-morale si apre un bivio ontologico che oppone la
schiavitù all’uguaglianza, la codardia all’eroismo, la disperazione all’armonia interiore:
The end, it was seen clearly, must be either absolute slavery for all but
the privileged, or a system of life founded on equality and Communism. The sloth, the hopelessness, and, if I may say so, the cowardice
of the last century, had given place to the eager, restless heroism of a
declared revolutionary period (NFN, p. 110).
Sfidando la verosimiglianza letteraria, Morris è consapevole di
disorientare il lettore vittoriano, ma sa che solo in questo modo
potrà avere luogo quel rinnovamento ideologico da lui auspicato. È, quello di Morris, un processo di revisione della società
ottocentesca che si basa soprattutto sul tempo e sulla rottura del-
118
Capitolo II
le certezze assiologiche che caratterizzano il mondo borghese –
l’accostamento di date e secoli diacronicamente lontani è una
peculiarità dell’artista che, in questo modo, si pone sul piano di
chi opera una vera rivoluzione dell’assetto socio-politico. Emblematico in questo senso è il volontario slittamento in avanti di
sessantacinque anni (1952) dell’evento famoso come “Bloody
Sunday” (1887) la cui potenzialità espressiva sottende una forte
carica semantica negativa. La licenza storico-finzionale propugnata da Morris vuol dire ricerca di una nuova dinamica, di
nuovi ritmi temporali, di nuove immagini – il tempo, restituito
all’utopia, torna ad essere filtro culturale delle disarmonie del
mondo vittoriano. Per dirla con Fellman: “Utopian distance was
part of utopian desire”30 e, a tal riguardo, ancora più chiaramente il critico osserva che:
When in 1890, more than two years after events, [Morris] came to reinterpret Bloody Sunday once more in the writing of News from Nowhere, he would begin his revolution not in the Nineteenth Century
but in distant 1952, when the workers had had sixty-two more years to
build an educated and well-organized revolutionary party. In addition,
he continued his purifying vanguardism by leaping forward several
centuries within the romance to a final resting place – a shimmeringly
distant and perfect communist land, from the point of view of which
1952, not to mention 1887, was a dim and distant bad memory.
Utopian distance was part of utopian desire31.
In breve, che l’organizzazione sociale morrisiana non debba essere intesa come risultato di un’attività bellicosa dispotica, così
come viene esemplificato dal motto orwelliano “War is peace.
Freedom is slavery. Ignorance is strength”32, è inutile sottolinearlo.
30
Michael Fellman, “Bloody Sunday and News from Nowhere”, The
Journal of the William Morris Society, 8, 4 (Spring 1990), p. 13.
31
Ivi, p. 12.
32
George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Harmondsworth, Penguin, 1973,
p. 7. Per una lucida analisi si rinvia all’introduzione della versione italiana di
Stefano Manferlotti: “[…] è la parabola apocalittica delle grandi paure orwelliane – il totalitarismo, la falsificazione e la perdita di memoria storica indotta
dai mezzi d’informazione, la corruzione del linguaggio, l’annullamento
Tempo, temporalità e storia
119
La guerra morrisiana, antitetica a qualsiasi totalitarismo, è la risposta a una modellizzazione del mondo che gli sembra ormai
privo di un’autentica tensione rappresentativa. O, per meglio
dire, è il risultato di una reazione mirante a escludere una modalità classista dell’umano agire basata su un consapevole sfruttamento – consapevolezza che mette a nudo il desiderio
dell’artista di ritrovare un equilibrio tutt’altro che di facile e pacifica acquisizione. Non solo: è dalle arti e dall’architettura gotica che lo scrittore trae l’ispirazione per postulare una narrativa
in grado di porsi come monito identitario. Vale qui riportare
l’interessante considerazione di James Sambrook:
[Morris’s] Socialism grew out of his views upon the relationship between art and society which originated in his reading Ruskin at Oxford, but he went far beyond Ruskin in claiming that the regeneration
of art could come about only after the overthrow of the capitalist,
competitive economic structure which underlay contemporary ugliness and squalor. […] his complementary imaginative work, News
from Nowhere (1890), which beautifully and wistfully paints a Rousseau/Godwinesque – anarchist – pastoral – arts-and-crafts ideal society, is only a compensatory dream, not far removed in tone and function from his medieval romances33.
Del resto, nel rifiuto morrisiano di una concezione monologizzante che, in maniera più o meno frustrante, conferisca staticità
al discorso socio-culturale, riconosciamo una mentalità molto
prossima a quella modernista, un progetto che implicitamente fa
dell’incomunicabilità la sua lettura dell’universo vittoriano. È
questo un atteggiamento che ritroviamo nell’episodio del “General Strike”, quando il saccheggio che colpisce Oxford Street è
associato non già alle classi elevate della società, ma erroneamente ai poveri affamati dell’East End, distorcendo l’informazione e
dell’identità individuale – convogliate in una raggelante descrizione di società
del futuro contro cui combatte, ancora una volta, l’ultimo eroe” (George Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2003, p. VIII).
33
James Sambrook, “The Rossetti and other Contemporary Poets”, in The
Penguin History of Literature. The Victorians, ed. Arthur Pollard, London,
Penguin, 1993, p. 455.
120
Capitolo II
mettendo in primo piano il manifestarsi complesso e contraddittorio delle cose del mondo. Per non dire poi del fraintendimento
relativo al possesso di dinamite da parte dei ribelli di Trafalgar
Square che finisce per diventare la trascrizione di una scelta di
condanna da parte della forza armata londinese per cui ora anche il rimorso ha una ragione in più di esistere: l’assenza di comunicazione si omologa all’assenza di pace e fratellanza. Le
parole del governo allora diventano testimonianza vivente della
colpa, visto che sono ricondotte entro i limiti di un messaggio di
per sé privo di fondamenta:
[…] a band of young men of the upper classes armed themselves and
coolly went marauding in the streets, taking what suited them of such
eatables and portables that they came across in the shops which had
ventured to open. This operation they carried out in Oxford Street,
then a great street of shops of all kinds. The Government, […],
thought this a fine opportunity for showing their impartiality in the
maintenance of ‘order’ and sent to arrest these hungry rich youths;
who, however, surprised the police by a valiant resistance, so that all
but three escaped. The Government did not gain the reputation for
impartiality which they expected from this move; for they forgot that
there were no evening papers; and the account of the skirmish spread
wide indeed but in a distorted form; for it was mostly told simply as
an exploit of the starving people from the East-end; and everybody
thought it was but natural for the Government to put them down when
and where they could” (NFN, p. 139).
Indubbiamente, a prevalere è il binomio strutturale ordine/disordine (understanding/misunderstanding) che, configurando i poli entro i quali si dibatte la coscienza civile, mette in
evidenza come solo attraverso la comunicazione chiara e diretta, sia dato costruire il senso. In questa prospettiva, la mancata
esposizione della verità funzionale alla strategia politica sortisce
l’effetto di un’arma a doppio taglio che, nonostante la sua integrità iniziale, implica la chiusura verso il mondo esterno, il
mancato contatto tra i ricchi e i poveri. A tal riguardo mi sembra oltremodo significativo quanto scritto da Turghenieff: “non
vi erano pensieri nobili senza eco e solo gli uomini vivevano
Tempo, temporalità e storia
121
incompresi, chè ignoravano se stessi quello che volevano o erano indegni di essere compresi…”34.
Alla luce dell’immagine del mancato mantenimento
dell’ordine, risulta evidente il significato da annettere alle parole “History is to reverse contemporary judgements” (NFN, p.
61). Parole che sono caratterizzate da una cifra di rassegnazione, giacché l’io narrativo dichiara che “We can now see that most of
these claims were of themselves not worth either demanding or
resisting; but they were looked on at that time as most important, and they were at least tokens of revolt against the miserable system of life which was then beginning to tumble to
pieces” (NFN, p. 109). Era possibile evitare quello che era inevitabile? Se è vero che molte delle rivendicazioni erano gestibili
senza necessità alcuna di un massacro che passò alla storia,
com’è che le cose precipitarono all’improvviso? Effettivamente,
come sottolinea Morris, l’incomunicabilità dilagante a tutti i livelli della stratificazione sociale implica una revisione dei rapporti umani. Paradossalmente, una simile disgiunzione assume
una marca destinale totalmente diversa nel caso delle congetture
riguardanti il congegno esplosivo – i.e. dinamite – epitome del
progresso tecnologico e, se vogliamo, nell’ottica della storia
benjaminiana, tempesta destabilizzante che tutto annulla:
The reason for this was that they dreaded the use by apparently unarmed men of an explosive called dynamite of which many loud
boasts were made by the workers on the eve of these events; although
it turned out to be of little use as a material for war in the way that was
expected. Of course the officers of the soldiery fanned this fear to the
utmost, so that the rank and file probably thought on that occasion that
they were being led into a desperate battle with men who were really
armed, and whose weapon was the more dreadful, because it was concealed. After that massacre, however, it was at all times doubtful if the
regular soldiers would fire upon an unarmed or half-armed crowd”
(NFN, p. 142).
34
Ivan Turghenieff, Rudin, Torino, Bietti, 1963, p. 82
122
Capitolo II
Nel segmento incipitario si perviene alla tematizzazione della
paura determinatasi grazie a una singolare invenzione esplosiva
– paura che, dalla prospettiva del codice proairetico, implica
l’opposizione soldati vs popolo e che va interpretata come opposizione codardia/coraggio. Il punto di vista – e non potrebbe
essere diversamente – è quello interno dell’osservatore anziano
che, adesso, dal riparo della sua condizione di sopravvissuto si
oppone al carattere paradossale della debolezza militare. Del
resto, la semantizzazione insistita dello stato di turbamento
(“they dreaded the use by apparently unarmed men”; “the officers of the soldiery fanned this fear to the utmost”; “whose
weapon was the more dreadful, because it was concealed”) non
fa altro che riprendere quanto già annunciato e confermare la
tonalità emotivo-psicologica di un quadro fatto più di ombre
che di luci in cui, nella presentazione di un ambiente abitato dal
soggetto umano in balia delle sue pulsioni primordiali così come mette in chiaro Morris “Our present system of Society is
based on a state of perpetual war” 35 . Per questa ragione, la
configurazione della folla come popolo in rivolta, anziché
aprirsi a una visione storica di mera violenza, finisce per
rivelare la condizione di uomini che, dinanzi al manifestarsi del
male, si rendono conto di vivere nella più assoluta barbarie, di
aver raggiunto il grado zero della dimensione sociale. Emblematico
in questo senso, appare il romanzo A Dream of John Ball (18867) in cui la battaglia tra i contadini e gli uomini armati dello
sceriffo reduplica il desiderio di libertà e l’abolizione della
distinzione ricchi/poveri presente in NFN. Sotto la spinta di un
animo desiderante, la fratellanza socialista trova una rappresentazione
più romantica della tensione oppressi (unarmed men)/oppressori
(armed men), rispetto alla quale il rilievo isotopico assunto dal
sintagma “hope in the time to come” dà vita a un movimento di
focalizzazione tematica che converge sul lessema “peace”:
35
William Morris, “How We Live and How We Might Live”, in Signs of
Change, cit., p. 3.
Tempo, temporalità e storia
123
[…] then the road- hedge on the right seemed alive with armed men,
[…]; every bowman also leapt our orchard-hedge sword or axe in
hand, and with a great shout, billmen, archers, and all, ran in on them;
half-armed, yea, and half-naked some of them; […]. So was all mingled together, and for a minute or two was a confused clamour over
which rose a clatter like the riveting of iron plates, or the noise of the
street of coppersmiths at Florence; […] but some cast down their
weapons and threw up their hands and cried for peace and ransom;
and some stood and fought desperately, and slew some till they were
hammered down by many strokes, and of these were the bailiffs and
tipstaves, and the lawyers and their men, who could not run and hoped
for no mercy36.
36
William Morris, A Dream of John Ball and A King’s Lesson, London,
New York & Toronto, Longmans, Green, and Co., 1903, pp. 85-86.
Capitolo III
L’eterogeneità dello spazio utopico
3.1. Dalla struttura triadica temporale alla triplice visione spaziale. Il dettato estetico di Morris non potrebbe essere
più chiaro ed esplicito. Apparentemente, il rifiuto della modernità e del progresso non potrebbe essere più perentorio, ma in
realtà, anche alla luce della spazialità nowheriana, la voce
narrativa intende dire che non è, quella, una città-giardino che
determina un immediato scarto tra chi osserva e il mondo
presente. Topologicamente, l’evocazione della città (spazio
umano dominato sia dal caos della modernità vittoriana, sia dal
cosmo utopico), riconfermando la distanza che separa lo
scrittore dal moderno, sancisce l’isolamento di chi pare sottrarsi
alla vita e alle innovazioni del progresso tecnologico. Da questo
punto di vista, l’io narrativo proietta sulla realtà circostante la
propria immaginazione, attivando una tripartizione della
tipologia ambientale che, così come avviene per l’articolazione
temporale (XIV, XIX e XXI secolo), diviene la sommatoria di
un ideale armonico inteso come recupero dell’unità dei due
mondi, inanimato e animato, cielo e terra, spirito e corpo, vale a
dire l’indivisibilità della vita.
Si tratta di una quest esistenziale che non ha nulla di precostituito e nulla che possa essere considerato il risultato di una
tecnologia tesa a dominare e perfezionare la natura – anzi, potremmo ipotizzare che lo spazio “evento” morrisiano va al di là
della città stessa, “una città invisibile” che trova la sua raison
d’être nella dignità psicologico-culturale della campagna. Sul
piano logico-discorsivo, i due microcosmi (città/campagna) sono strettamente collegati nel percorso isotopico dominante di
una vicenda depositaria di un nómos inteso come ritorno alla
126
Capitolo III
dimensione personale e semplice della vita campestre1. Quella
che viene registrata è una tensione nostalgica tra l’homo faber,
immerso nella routine culturale di una vita frenetica cittadina,
fatta di affari, relazioni sociali, riunioni politiche come nel caso
di Morris, e la sensibilità panica di un artista che “ama la campagna per la quiete, la serenità e la libertà che gli offre”2. Infatti,
se da un lato la cornice arcadica invita a riflessioni sul mistero
della vita e su tematiche di ordine morale, dall’altro queste anime in pena esibiscono la loro conflittualità, quali esseri inermi
spinti da una forza cieca atti a compiere azioni e proiezioni esegetiche che servono solo a dimostrare la loro debolezza.
Ma prima di passare alla dislocazione spaziale naturista e a
quell’armonia interiore tanto ricercata da Morris, lo sguardo
dell’osservatore restringe il suo campo visivo e si concentra sulla morfologia della città utopica. Di qui un arricchimento tematico-suggestivo della scena che, focalizzando su una triplice
spazialità, mostra anche il laboratorio mentale dello scrittore.
Non si tratta di un agglomerato civile qualsiasi, ma della Londra
del ventunesimo secolo, o per meglio dire, dove l’io narrativo
riflette e medita sulla metamorfosi estetica urbanistica. Nel sintagma “then the bridge” (NFN, p. 7) si rivela per la prima volta
il vero soggetto della scena: il ponte, in una sorta di disvelamento metaspaziale, parla della sua struttura che è anche gusto medievale sottoposto alla nostra vista. Proprio come avviene ne Le
città invisibili di Calvino: “La città non dice il suo passato, lo
contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle
vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle
1
È interessante notare come, già molti secoli prima, Orazio sembri provare la stessa frustrante tensione verso la campagna. A tal riguardo, vanno segnalati certi versi delle Satire, in cui, nel Libro secondo, parte sesta leggiamo:
“O rus, quando ego te adspiciam quandoque licebit / nunc veterum libris, nunc
somno et inertibus horis / ducere sollicitae iucunda oblivia vitae?” (“Quando ti
rivedrò, campagna mia? / Quando, ora dai libri degli antichi / ora dal sonno e
dal dolce far niente, / trarrò l’oblio della vita affannosa?”, in Orazio, Tutte le
opere. Odi, Epodi, Carme secolare, Satire, Epistole, Arte Poetica, a cura di
Mario Scaffidi Abbate, traduzioni di Renato Ghiotto e Mario Scaffidi Abbate,
testo latino a fronte, edizione integrale, Roma, Newton, 2002, p. 362 e sgg.).
2
Ivi, p. 32.
L’eterogeneità dello spazio utopico
127
antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”3.
Pur registrando meticolosamente quanto di strano e di inusitato
sta avvenendo sotto i suoi occhi, l’io testuale mette in primo
piano l’incontro con un modello topologico tipico del quattordicesimo secolo, facendo in tal modo dell’evento un’autentica epifania sulla natura poliedrica del setting utopico. Di ampia derivazione medievale, il Ponte Vecchio4 di Firenze (S1) assurge a
epitome incontrastato del primo locus, in cui ad emergere è
l’isotopia del bello (“stone arches, splendidly solid, and as
graceful as they were strong”; “painted and gilded vanes”;
“dignified and stately”) e, ancor più, l’idea di una magica simultaneità che, ancora prima di fornire i termini di paragone definitivi, mira a sottolineare la mobilità di uno scenario che si fa portavoce dell’inquietudine estetica morrisiana. E in questo caso
specifico, Trafalgar Square (Su) offre al lettore un’informazione
non altrimenti esplicitamente disponibile per il processo interpretativo:
Each house stood in a garden carefully cultivated and running over
with flowers. […]: there were a great many cherry-trees, now all laden
with fruit; and several times as we passed by a garden we were offered
baskets of fine fruit by children and young girls. Amidst all these gardens and houses it was of course impossible to trace the sites of the
old streets: but it seemed to me that the main roadways were the same
as of old.
We came presently into a large open space, sloping somewhat toward
the south, the sunny site of which had been taken advantage of for
planting an orchard, mainly, as I could see, of apricot trees, in the
midst of which was a pretty gay little structure of wood, painted and
gilded that looked like a refreshment-stall. From the southern side of
the said orchard ran a long road chequered over with the shadow of
tall old pear trees, at the end of which showed the high tower of the
Parliament House, or Dung Market. A strange sensation came over
3
Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 10-11.
Qui vale la pena sottolineare l’origine medievale del ponte più antico di
Firenze, la cui esistenza è già attestata nel X secolo. In seguito, dopo essere
stato distrutto da una piena nel 1333 venne ricostruito nella forma attuale nel
1345 dall’architetto e scultore Neri di Fioravanti, all’epoca capomastro del
Comune di Firenze.
4
128
Capitolo III
me; I shut my eyes to keep out the sight of the sun glittering on this
fair abode of gardens, and for a moment there passed before them a
phantasmagoria of another day. A great space surrounded by tall ugly
houses, with an ugly church at the corner and a nondescript ugly cupolaed building at my back; the roadway thronged with a sweltering
and excited crowd, dominated by omnibuses crowded with spectators.
In the midst a paved be-fountained square, populated only by a few
men dressed in blue and a good many singularly ugly bronze images
(one on top of a tall column). The said square guarded up to the edge
of the roadway by a four-fold line of big men clad in blue, and across
the southern roadway the helmets of a band of horse-soldiers, dead
white in the greyness of the chilly November afternoon –
I opened my eyes to the sunlight again and looked round me, and
cried out among the whispering trees and odorous blossoms, “Trafalgar Square!” (NFN, Ch. VII, “Trafalgar Square”, pp. 35-36).
È chiaro che tale descrizione non solo giunge come conferma
semantico-strutturale del binomio bello/brutto, ma in pari tempo, mira a collocare in primo piano un concetto molto semplice,
vale a dire quello della convergenza. Che i protagonisti della
suggestione visiva siano il palazzo del Parlamento o una chiesa
all’angolo di un edificio a cupola non ha importanza, quello che
conta, invece, è il convergere di una dimensione utopica, caratterizzata dalla costante spaziale del giardino, verso la dimensione vittoriana capace di suscitare nell’animo dello scrittore solo
un immaginario dominato dal paradigma del brutto.
Nell’universo simbolico di Morris esistono costanti decorative che, come un segnale di riconoscimento della sua coscienza
poetica, stanno a indicare la modalità d’ispirazione e, più precisamente, le forme di attivazione del processo creativo. L’espressione
topologica ricorrente più frequente è quella del giardino, in
quanto, così come spiega egli stesso nel saggio “Making the
Best of it” (1880): “In great towns, gardens, both private and
public, are positive necessities if the citizens are to live reasonable and healthy lives in body and mind”5. Nel caso della sezione narrativa dedicata a Trafalgar Square, non si può fare a meno
di notare il rilievo isotopico assunto dalla figura naturale del
5
98.
William Morris, “Making the Best of it”, in On Art and Design, cit., p.
L’eterogeneità dello spazio utopico
129
giardino che, in combinazione con una sinestesia insistita e una
forte carica sensoriale, dà vita a una focalizzazione tematica che
converge sul paradigma solare esemplificato dagli occorrimenti
“sunny site”, “sun glittering”, “sunlight”, in grado di amplificare i colori e gli odori presenti nel frutteto del “large open
space”. A questo ambiente variopinto si oppone l’improvvisa
fantasmagoria di un mondo altro (S2), caratterizzato da una configurazione spaziale disforica evidente nell’iterazione aggettivale ugly (“tall ugly houses, with an ugly church”; “a nondescript
ugly cupolaed building at my back”; “many singularly ugly
bronze images”) che, segnando un ribaltamento assiologico, diviene il ponte linguistico capace di attivare il cambiamento di
scenario.
Ma le caratteristiche urbanistiche fin qui riportate non afferiscono semplicemente al campo semantico del brutto: esse determinano la differenza e lo scarto qualitativo rispetto a chi assiste alla scena. Persino a livello cromatico va notato un processo
di reificazione e banalizzazione dell’apparato architettonico che
ipostatizza la centralità del bronzo e del blu veicolata attraverso
la figuralità umana, sia essa materializzazione statuaria che incarnazione militare. Paradossalmente, la tonalità preferita da
Morris – verso cui egli esprime tutta la sua propensione: “[…]
surely blue must be called the holiday [colour], and those who
long most fro bright colours may please themselves most with
it; for if you duly guard against getting it cold if it tend towards
red, or rank if it tend towards green, you need not to be much
afraid of its brightness. […] so blue is especially a pigment and
an enamel colour; the world is rich in insoluble blues, many of
which are practically indestructible” 6 – acquista una connotazione negativa, visto che a dominare quale colore freddo e insensibile alle pene umane è proprio il blu delle divise spersonalizzanti degli uomini di ordine pubblico.
A questo punto, per individuare le coordinate assiologicofigurative necessarie al fine di orientarsi nella varietà archetipica nowheriana, può essere utile schematizzare la struttura se6
Ivi, p. 107.
130
Capitolo III
manticamente incentrata sull’attrazione-repulsione dei due poli
bello/brutto:
S1
bello
Su
S2
brutto
Se con S2 indichiamo lo spazio eterotipico ottocentesco che sta
per il non darsi dell’azione utopica, possiamo facilmente capire
come NFN si apra e si chiuda ai valori antitetici del brutto, facendo riferimento a un cambiamento che non accade. Pertanto,
organizzata secondo una precisa modellizzazione contrastiva, la
realtà nowheriana si oppone alla spettralità di una folla sudata e
frettolosa (“the roadway thronged with a sweltering and excited
crowd, dominated by omnibuses crowded with spectators”) come anche alla presenza di non-entità che rimandano alla morte
di qualsivoglia speranza umana (qui si ripensi al cromatismo
metonimico visualizzato a Trafalgar Square: “the helmets of a
band of horse-soldiers, dead white in the greyness of the chilly
November afternoon”). Non a caso, proprio la disarmonia della
folla offre la rappresentazione topologica di S2 che ha ormai
stabilito un nesso di prossimità con il negativo. Emblematico è
in questa direzione quanto riportato nel decimo capitolo “Questions and Answers”:
“Time was when if you mounted a good horse and rode straight away
from my door here at a round trot for an hour and a half, you would
still be in the thick of London, and the greater part of that would be
L’eterogeneità dello spazio utopico
131
‘slums’, as they were called; that is to say, places of torture for innocent men and women; or worse, stews for rearing and breeding men
and women in such degradation that that torture should seem to them
mere ordinary and natural life” […]
Our forefathers, in the first clearing of the slums, were not in a hurry
to pull down the houses in what was called at the end of the nineteenth
century the business quarter of town, and what later got to be known
as the Swindling Kens. You see, these houses, though they stood
hideously thick on the ground, were roomy and fairly solid in building, and clean, because they were not used for living in, but as mere
gambling booths; so the poor people from the cleared slums took them
for lodgings and dwelt there, till the folk of those days had time to
think of something better for them; so the buildings were pulled down
so gradually that people got used to living thicker on the ground there
than in most places; therefore it remains the most populous part of
London, or perhaps of all these islands. […] However, this crowding,
if it may be called so, does not go further than a street called Aldgate,
a name that perhaps you may have heard of (NFN, pp. 57-58).
La citazione mette in chiaro il rapporto dinamico che il termine
slums stabilisce nella strutturazione del romanzo tra i personaggi e lo spazio, o se si vuole, tra povertà e degradazione. Se il destino umano vittoriano è un destino di sofferenza, se il caos cittadino qui ritratto, non dissimile dalla connotazione mortifera
eliotiana (“Unreal City, / Under the brown fog of winter dawn, /
A crowd flowed over London Bridge, so many, / I had not
thought death had undone so many, / Sighs, short and infrequent, were exhaled,” 7 ) avrà ragione dell’armonia sociale regnante nella campagna, cosa resta degli sforzi compiuti dagli
animi moralmente impegnati per rendere il mondo migliore?
Morris offre più di una risposta, controbilanciando tale abissamento etico-sociale con l’aiuto di uno spazio paratopico ove alla “madding crowd”, così come la definisce Thomas Gray nella
sua Elegy Written in a Country Churchyard (1715), fa riscontro
una “handsome healthy-looking people” (NFN, p. 21). Del resto, sul piano del significato, il sintagma “living thicker” è il segno di una resa totale da parte del soggetto, ma il dato che subi7
T. S. Eliot, The Waste Land and Other Poems, London, Faber and Faber,
1973, p. 29.
132
Capitolo III
to balza agli occhi è il rapporto di dipendenza che tale condizione intrattiene con l’annullamento di qualsivoglia dimensione
ecologico-naturale, laddove s’impone la presenza minacciosa
dell’industria: “[…] how all this was changed from last night!
The soap-works with their smoke-vomiting chimneys were
gone; the engineer's works gone; the lead-works gone; and no
sound of riveting and hammering came down the west wind
from Thorneycroft’s” (NFN, p. 7). Come mette in chiaro questo
segmento descrittivo, l’azione utopica risulta tanto più efficace
e idealista in quanto, nel momento in cui regala quadri ideologici alternativi, egli lascia che una parte del mondo vittoriano sopravviva, per ricordarci quello che eravamo, e che ora non siamo più. Il che può essere sintetizzato nel grafico spaziale che,
adottando un codice architettonico, rappresenta i tre referenti
topologici quali riferimenti paradigmatici dell’imagery morrisiana:
Ponte
Vecchio
Cittàgiardino
Slums
3.2. Cromatismo spaziale: la funzione modellizzante del
colore. È chiaro che il fenomeno della ipersemantizzazione dello scenario nowheriano risulta del tutto dipendente dalla cromia
preraffaellita, derivante dall’impianto ideologico dell’artista che
proietta la carica vibrante del suo universo cromatico sugli am-
L’eterogeneità dello spazio utopico
133
bienti, dando loro una vitalità che ha la dimensione estetica del
sogno. Ciò che il pittore vede e capisce grazie alla manifestazione sineddochica del colore è la bellezza del cosmo, l’assoluta
mancanza di una qualche forma di degrado e di conseguenza la
fiducia nella capacità modellizzante dell’arte. Così, per dirla
con Constable, “There is nothing ugly; […] for let the form of
an object be what it may – light, shade, and perspective will always make it beautiful”8. La voce narrante morrisiana mostra
come intorno a lui i fantasmi e le rovine del passato che depositano silenziosamente le tracce del loro quotidiano esistere, cominciano a riprendere vita, spinti in primo luogo dall’esperienza visiva del colore, medium spazio-temporale tra questo e quel
mondo.
Al di là delle strategie di visualizzazione adottate da Morris,
quello che risulta evidente è che il colore – proprio perché emotivamente incluso nel confronto dialogico diretto tra l’io testuale
a la sua controparte (un tu-testuale che quasi sempre si manifesta in plurime personalità utopiche) – diviene elemento di innesco di movimenti di riflessione. Grazie ad essi, l’immaginazione
dell’artista avvia una serie di associazioni che implicano un
movimento di ricerca delle ragioni della propria identità eticoculturale, un movimento che risente della concezione goethiana
del colore, così come viene indagata da Carlo Argan:
La natura-oggetto e la persona-soggetto sono in realtà vive e in movimento, e ciò che si vuole cogliere è la relazione tra i due ritmi di moto,
bisogna vedere come l’occhio si comporti nel corso di una percezione
che non è mai, in nessun caso, istantanea. L’analisi è dunque sempre
l’analisi di un processo della mente. […]
I colori non sono cose della natura, ma della mente. Per mezzo dei
colori gli uomini non soltanto rendono percepibile il mondo, ma
agiscono in esso allo scopo di rendere più armonico il rapporto con
l’ambiente. Anche questi interventi avevano dei precedenti: il giardi-
8
C. R. Leslie, Memoirs of the Life of John Constable, Ithaca, NY, U.S. A.,
Cornell University Press, 1980, p. 215.
134
Capitolo III
naggio e la pedagogia, come educazione della natura, sono i temi prediletti della cultura […]9.
In breve, il movimento è sempre contro la disgregazione del
nesso uomo/ambiente: i colori diventano in qualche modo alleati della memoria narrativa che, proprio contro i rischi di alienazione, cerca di ricostruire il passato in sintonia con i disegni del
presente. Non solo, la ricerca di “rendere più armonico [questo]
rapporto” chiama in causa anche un confronto con gli oggetti
del passato che, messi alla prova dal confronto con l’assiologia
utopica, rivelano uno scarto qualitativo di gran lunga inferiore a
qualsiasi materializzazione nowheriana. I colori protagonisti
dello spazio morrisiano – non meno dei personaggi attanziali –
hanno l’abilità della pittura, il cui fine è di elaborare “sogni situati tra materia e luce”10, la messinscena di un’esaltazione iperbolica del mondo circostante. Con l’ausilio del verde, del
rosso e del grigio, Morris tenta di restituire una fisicità positiva
all’anticampo vittoriano, anche se alla fine è costretto ad arrendersi dinanzi al fallimento insito nel ritorno alla realtà disforica
del diciannovesimo secolo. Se è giusto dire che per la voce attoriale non si dà rivisitazione del passato industriale inteso come
ritorno a una totalità euforica, allora quello che rimane è
l’ancoraggio alla natura, il cui correlativo oggettivo è epitomizzato dall’isotopia del verde – tinta che si alimenta all’idea di
non-disgiunzione, visto che “Mescolando il giallo […] con il
blu […] si ottiene […] il verde, che non è affatto un tono intermedio, ma ha una propria, nettissima qualità timbrica. Con la
sua perfetta medianità, dedotta dalla mescolanza perfettamente
equilibrata delle due entità più lontane […]. Perciò è il colore
simbolo del naturale […]”11. Così Morris, che definisce il verde
9
Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, introduzione di Giulio Carlo Argan, Milano, Il Saggiatore, 2000, p. XI e
sgg.
10
Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Bari, Dedalo, 1974, p. 35.
11
Goethe, op. cit., pp. XVI-XVII.
L’eterogeneità dello spazio utopico
135
un “work-a-day colour” 12 , porta in superficie la metafora
spaziale annessa a tale colore secondario di cui è disseminata la
topologia utopica:
Though green (at all events in England) is the colour widest used by
Nature, yet there is not so much bright green used by her as many
people seem to think; the most of it being used for a week or two in
spring, when the leafage is small, and blended with the greys and
other negative colours of the twigs; when “leaves grow large and
long”, as the ballad has it, they also grow grey. I believe it has been
noted by Mr. Ruskin, and it certainly seems true, that the pleasure we
take in the young spring foliage comes largely from its tenderness of
tone rather than its brightness of hue […]13.
A partire dal bosco di Kensington assistiamo ad una raffigurazione sognante del verde che, pur nella semplicità della sua
strutturazione semantica e fonoprosodica, mette molto bene in
rilievo il significato che assume il termine tenderness nella pratica della cromatizzazione. Si rileva subito l’ampio utilizzo della sibilante e della figura fonica fricativa corrispondente, secondo una struttura cadenzata e ritmata tesa all’annullamento di
qualsivoglia indurimento fonico, che inscrive l’unità di lettura
nell’equazione verde = pleasure = freshness = tenderness, capace di sussumere tutta la “condition of dreamy pleasure”:
It was exceedingly pleasant in the dappled shadow, for the day was
growing as hot as need be, and the coolness and shade soothed my excited mind into a condition of dreamy pleasure, so that I felt as if I
should like to go on for ever through that balmy freshness. My companion seemed to share in my feelings, and let the horse go slower and
slower as he sat inhaling the green forest scents, chief amongst which
was the smell of the trodden bracken near the way-side.
Romantic as this Kensington wood was, however, it was not lonely
(NFN, Ch. V, “Children on the Road”, pp. 23-24).
L’iperbole – “exceedingly pleasant”; “dreamy pleasure”; “balmy
freshness” – è sì funzionale al tessuto fonico, ma anche, come
12
William Morris, “Making the Best of it”, in On Art and Design, cit., p.
106.
13
Ivi, p. 106.
136
Capitolo III
appare evidente, una pertinenza semantica: i codici sensoriali
vengono acuiti con l’intento di vivere l’esperienza irripetibile di
un confronto con immagini esterne alla realtà nowheriana. Pertanto finora a prevalere è la forza di determinazione del verde
mirante a istituire una dimensione deautomatizzante nella stessa
messa a fuoco di un Blake (“Walk upon England’s mountains
green? […] // I will not cease from mental fight, / Nor shall my
sword sleep in my hand, / Till we have built Jerusalem, / In
England’s green and pleasant land”, “And did those feet in ancient time”, 1804-10)14 o di uno Stevenson (“I will make a place
fit for you and me / Of green days in forests and blue days at
sea”, “I will make you brooches and toys for your delight”,
1896)15.
Ma, nonostante l’evocazione di una foresta incantata, resta il
panorama irreale del British Museum, evocato dalla immaginazione morrisiana, a sottrarsi in maniera quintessenziale al modello di mondo vittoriano, una wasteland che, in quest’ottica di
migliorismo ontologico, riesce a redimere. E indubbiamente, se
si assume il punto di vista del protagonista, scorgiamo una volontà cosmica pronta a indicare l’universo esemplare in cui valga la pena credere. Sotteso a una simile lessia, vi sarebbe
l’“happy garden-state” di Andrew Marvell, una sorta di fede
nella capacità mentale dell’uomo di muoversi in direzioni creative, verso altri mondi felici “Annihilating all that’s made / To a
green thought in a green shade”16 (“The Garden”, 1681).
We crossed the road into a short narrow lane between the gardens, and
came out again into a wide road, on one side of which was a great and
long building, turning its gables away from the highway, which I saw
at once was another public group. Opposite to it was a wide space of
greenery, without any wall or fence of any kind. I looked through the
trees and saw beyond them a pillared portico quite familiar to me – no
14
William Blake, Milton, in The Complete Writings, ed. Geoffrey Keynes,
London, Oxford, New York, Oxford University Press, 1969, p. 481.
15
Robert Louis Stevenson, Songs of Travel, Whitefish, MT, Kessinger
Publishing, 2004, p. 9.
16
Andrew Marvell, The Poems and Letters of Andrew Marvell, ed. H. M.
Margoliouth, Oxford, Clarendon Press, 1952, p. 49.
L’eterogeneità dello spazio utopico
137
less old a friend, in fact, than the British Museum. It rather took my
breath away, amidst all the strange things I had seen; but I held my
tongue and let Dick speak. Said he:
“Yonder is the British Museum, where my great-grandfather mostly
lives; so I won’t say much about it. The building on the left is the Museum Market, and I think we had better turn in there for a minute or
two; for Greylocks will be wanting his rest and his oats; and I suppose
you will stay with my kinsman the greater part of the day; and to say
the truth, there may be some one there whom I particularly want to
see, and perhaps have a long talk with”.
He blushed and sighed, not altogether with pleasure, I thought; so of
course I said nothing, and he turned the horse under an archway which
brought us into a very large paved quadrangle, with a big sycamore
tree in each corner and a plashing fountain in the midst. Near the
foundation were a few market stalls, with awnings over them of gay
striped linen cloth, about which some people, mostly women and children, were moving quietly, looking at the goods exposed there. The
ground floor of the building round the quadrangle was occupied by a
wide arcade or cloister, whose fanciful but strong architecture I could
not enough admire (NFN, Ch. VIII, “An Old Friend”, p. 43).
Diversamente dalla denuncia sociale kiplinghiana (“Our England
is a garden, and such gardens are not made / By singing: –‘Oh,
how beautiful!’ and sitting in the shade, / While better men than
we go out and start their / working lives / At grubbing weeds
from gravel paths with broken dinner-knives”, “The Glory of
the Garden”, 1911)17, nella densità tropica dei segmenti volti a
connotare Su si realizza un disegno semantico-strutturale veicolato dalla cromia naturale del verde, in grado di mettere in discussione qualsivoglia forma di clôture fisico-mentale (“a wide
space of greenery, without any wall or fence of any kind”). È
anche interessante notare che, rispetto alla visione del ponte,
con l’immissione di un filtro visivo cromatico (“I looked
through the trees”), aumenta l’empatia con il locus amoenus e
sancisce un codice affettivo nell’antropomorfizzazione del museo
(“and saw beyond them a pillared portico quite familiar to me –
no less old a friend, in fact, than the British Museum”). Non so-
17
Rudyard Kipling, Selected Poems, London, Penguin, 1999, p. 148
138
Capitolo III
lo, ma le dominanti strategiche del sicomoro 18 e della fontana
gorgogliante afferiscono al campo dell’emblematica, e più precisamente a una simbologia di vita e fecondità, una vera e propria
resurrezione dell’umano sentire. Quanto alla resa estetica, le
modifiche apportate da Morris, facendo del panorama anglosassone lo spazio in cui la sua immaginazione mette a nudo le carenze urbanistiche, rafforzano la procedura di sostituzione e
classificazione e rendono più evidente la cifrazione percettiva
del colore, soprattutto rispetto a quelle forme naturali intrinsecamente disforiche:
[I]t does not make a bad holiday to get a quiet pony and ride about
there on a sunny afternoon of autumn, and look over the river and the
craft passing up and down, and on to Shooters’ Hill and the Kentish
uplands, and then turn round to the wide green sea of the Essex marshland, with the great domed line of the sky, and the sun shining down
in one flood of peaceful light over the long distance. There is a place
called Canning’s Town, and further out, Silvertown, where the pleasant meadows are at their pleasantest: doubtless they were once slums,
and wretched enough” (NFN, Ch. X, “Questions and Answers”, p.
59).
Insieme al congiungimento metaforico della palude al mare, appare sempre più evidente l’emergenza di un’isotopia favolistica 19 , che – segnalata dalla sovrapposizione semantica cie18
Vale qui riportare l’interessante origine di questo albero ricco di suggestioni positive: “Gli Egizi consideravano il sicomoro (Ficus sycomorus)
l’Albero della vita […]. […] a Menfi si trovava un sicomoro a sud del tempio
di Ptah. Secondo la tradizione vi abitava la dea Hathor, rappresentata come
sorgente dal tronco nell’atto di nutrire con quei frutti i defunti. […] Scene di
questo genere sono riprodotte anche sulle situle, o vasi rituali in metallo usati
nella pratica culturale e associati al latte […] all’acqua, alla fecondità e
all’idea di resurrezione” (Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano, Mondadori, 1998, pp. 116-117).
19
Sul ruolo assunto dalla favola nell’immaginario morrisiano si veda
quanto scritto da Alexander MacDonald: “We do not usually think of sorrow
and pain when we think of fairy tales, at least not at first. Morris’s allusions to
fairy tales bring these feelings to our conscious awareness. ‘Seven Swans’
may be an allusion to the story of the Six Swans who are really the lost brothers of the heroine, and perhaps the almost correct title suggests the struggle for
L’eterogeneità dello spazio utopico
139
lo/cupola –, rimanda all’idea di una sinestesia cromatica (“one
flood of peaceful light”) di cui rileviamo anche il nesso allitterativo in grado di accrescere l’incanto sensoriale. È innegabile che
la cromia configuri una delle più ovvie rappresentazioni di un
modello armonico che ricorre frequentemente nel macrotesto
letterario morrisiano, ma quello che appare meno ovvio è
l’autoindividuazione dello scrittore nello spettro cromatico preraffaellita che risulta in grado di rispondere non solo alle sue
esigenze di esteta, ma anche di offrire un perfetto dialogismo tra
l’uomo e la natura. Sia chiaro: dietro questa tendenza alla perfezione e alla bellezza, riconosciamo una sorta di venerazione per
gli oggetti ben fatti, la quale richiede una disambiguazione testuale capace di far emergere la gerarchia delle priorità epistemico-assiologiche. E in questo senso la confessione del battelliere Dick mi pare illuminante per spiegare l’ordine fittizio in
cui ogni dislocazione spaziale viene ritratta:
“I must tell you, though, that my great-grandfather sometimes tells me
I am a little cracked on this subject of fine building; and indeed I do
think that the energies of mankind are chiefly of use to them for such
work; for in that direction I can see no end to the work, while in many
others a limit does seem possible” (NFN, p. 28).
Nel segmento narrativo, costituito da un eufemismo di derivazione architettonica (“I am a little cracked on this subject of fine
building”), notiamo che, attraverso la marcatura grafica (“I do
think”), si colloca in primo piano il pensiero ideologico morrisiano circa l’useful work mirante a veicolare le innumerevoli
possibilità di autorappresentazione su questo palcoscenico metartistico. Pertanto, ponendosi contro una visione cristallizzata
integration of male and female. ‘Faithful Henry’ is possibly an allusion to
‘Faithful John’, the story of a servant to a young king. Henry Johnson is Boffin’s real name and Henry Morsom the name of the old man they meet while
travelling up the Thames. This sort of substitution had the effect of weaving
the stories together and at the same time establishing, as it were, the unresolved tension of something ‘wrong’ within the text” (Alexander MacDonald,
“The Liveliness of News from Nowhere: Structure, Language and Allusion”,
The Journal of the William Morris Society, 10, 2, Spring 1993, p. 25).
140
Capitolo III
della società, e soprattutto asserendo il primato del colore,
l’artista recupera una simile spinta salvifica nella carica vitale
del rosso in virtù del suo “[…] senso di gravità, dignità, benevolenza, grazia; l’austerità dell’età avanzata e la gentilezza della
gioventù possono pararsi dello stesso colore […]”20. In particolare, sin dai primi capitoli non possiamo fare a meno di registrare come all’eccezionalità del setting utopico corrisponda una
simbologia del mattone rosso altrettanto eccezionale, indice esponenziale della concezione morrisiana tesa a mettere in rilievo l’unicità dell’esperienza artistica:
Both shores had a line of very pretty houses, low and not large, standing back a little way from the river; they were mostly built of red brick
and roofed with tiles, and looked, above all, comfortable, and as if
they were, so to say, alive, and sympathetic with the life of the dwellers in them (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 8).
It was very handsomely built of red brick with a lead roof; and high up
above the windows there ran a frieze of figure subjects in baked clay,
very well executed, and designed with a force and directness which I
had never noticed in modern work before (NFN, Ch. III, “The Guest
House and Breakfast Therein”, p. 12).
They were all pretty in design, and as solid as might be, but countrified in appearance, like yeomen's dwellings; some of them of red brick
like those by the river, but more of timber and plaster, which were by
the necessity of their construction so like medieval houses of the same
materials that I fairly felt as if I were alive in the fourteenth century
(Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 20).
But however, what with the beasts and the men, and the scattered redtiled roofs and the big hayricks, it does not make a bad holiday to get a
quiet pony and ride about there on a sunny afternoon of autumn, and
look over the river and the craft passing up and down, and on to
Shooters’ Hill and the Kentish uplands, and then turn round to the
wide green sea of the Essex marshland, with the great domed line of
the sky, and the sun shining down in one flood of peaceful light over
the long distance (NFN, Ch. X, “Questions and Answers”, p. 59).
20
Goethe, op. cit., p. xvii.
L’eterogeneità dello spazio utopico
141
[…] park: but these drew back still further from the river at the end of
the reach to make way for a little town of quaint and pretty houses,
some new, some old, dominated by the long walls and sharp gables of
a great red-brick pile of building, partly of the latest Gothic, partly of
the style of Dutch William, but so blended together by the bright sun
and beautiful surroundings, including the bright blue river, which it
looked down upon, that even amidst the beautiful buildings of that
new happy time it had a strange charm about it (NFN, Ch. XXII,
“Hampton Court and A Praiser of Past Times”, pp. 124-125).
Adottando una costruzione prettamente medievale, Morris dimostra ancora una volta di preferire l’ambientazione idilliaca
tipica del Gothic Revival che, nella fattispecie, viene esemplificata da timpani aguzzi e tegole rosse, esteriorizzazioni architettoniche delle proprie inclinazioni artistiche, nonché caratteri peculiari della Red House21. Come è noto, nel 1859 Morris si fece
costruire dal suo amico architetto Philip Webb22 il primo esempio di casa moderna, il cui spirito medievale insieme a una ricercata armonia tra gli interni e gli esterni la fa assurgere a pietra di paragone per gli anni a seguire. Particolare attenzione merita il reticolo sintagmatico costituito dalle lessie prese in considerazione, attorno al quale gravitano isotopicamente le funzioni
sinonimiche che chiamano in causa i lessemi afferenti alla bellezza come all’armonia uomo/ambiente: comfortable, sympa21
Per la sua qualità old-fashioned e la sua funzionalità artistica di rifugio
intellettuale, la Red House può essere paragonata alla “casetta rossa” di
D’Annunzio, che tanto significato assume nel processo creativo dello scrittore
decadente. A tal riguardo, si veda, di chi scrive, “William Morris and Gabriele
D’Annunzio: Kindred Spirits?”, Es. Revista de filologìa inglesa, 27 (20062007), pp. 189-200.
22
Forse qui giova chiarire i principi stabiliti da Webb nella costruzione
della Casa Rossa: “La preoccupazione per l’onestà strutturale ed il desiderio
di integrare gli edifici nel loro ambiente e nella cultura locale. Egli raggiunse
questi scopi mediante una progettazione funzionale, un ambientamento ricco
di sensibilità e l’impegno di materiali locali, uniti a un profondo rispetto per i
metodi costruttivi tradizionali. Come Morris, suo primo cliente e collega per
tutta la vita, Webb nutrì un rispetto quasi mistico per la sacralità
dell’artigianato e per la terra su cui vita e architettura in definitiva si fondavano” (Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli Editore, 1982, p. 40).
142
Capitolo III
thetic, handsomely, well executed, force, directness, pretty,
blended together. Quanto al sintagma “sympathetic with the life
of the dwellers in them” va segnalato il rapporto di parallelismo
tautologico con “so blended together by the bright sun and
beautiful surroundings” che appare ulteriormente rafforzato dalla connotazione luminosa del sole e del “bright blue river”. Non
è azzardato dire che dietro la concatenazione logico-discorsiva
delle unità di lettura vi è anche una riflessione sul significato da
dare al concetto di casa funzionale alle richieste psicologicocomportamentali dell’uomo (qui si rimanda alla Casa Rossa intesa come laboratorio sperimentale oltre che cenacolo intellettuale per il gruppo di Morris) che, nel caso specifico sembra rispettare l’ideale di comfort, seguendo un’evoluzione semantica atta
a stabilire la connessione di ordine moderno mattone rosso/forza. Sulla base di una formula estetica che si alimenta
all’idea di solidità, assume grande rilievo l’associazione epistemico-temporale a quelle costruzioni tipiche del quattordicesimo
secolo, una sorta di indicazione ideologica culminante nella
non-disgiunzione red brick/Gothic, marcata dal segno di una
felicità raggiunta, seppur sempre circondata da un alone di fascino misterioso. È da questa raffigurazione del tutto positiva
del rosso che trae origine l’estrema compattezza tra S1 e Su in
termini suggestivamente mitopoietici, laddove la cifra simbolica
del mattone rimanda all’ars artigianale di Efesto, dio del fuoco
e dei metalli, ma soprattutto del focolare. E di tale simmetria
semantica abbiamo un suggello allegorico nel matrimonio tra
Vulcano e Afrodite, vale a dire tra l’abilità artistica del forgiatore di metalli e la bellezza, paradigmi fondamentali della visione
d’insieme morrisiana.
Apparentemente legato al modello interpretativo del mattone
rosso, Morris esibisce sul palcoscenico utopico anche la dimensione semplicistica della pietra grigia che serve a dimostrare
quanto affermato nel saggio “The Art of the People” (1879):
“So I will say that I believe there are two virtues much needed
in modern life, if it is ever to become sweet; and I am quite sure
that they are absolutely necessary in the sowing the seed of an
art which is to be made by the people and for the people, as a
L’eterogeneità dello spazio utopico
143
happiness to the maker and the user. These virtues are honesty
and simplicity of life”23. Di qui l’entrata in scena di Kelmscott
Manor situata nell’Oxfordshire, alter ego architettonico della
Red House (Kent) per via del suo aspetto vernacolare e il senso
di appartenenza alla vita rurale, esemplificato dall’assenza di
elettricità e acqua corrente. Ciò che lo scrittore, ormai nel declino degli anni, cerca di evocare è la stessa immagine che Ruskin
delinea in The Stones of Venice e, a tal riguardo, ha ragione Attilio Brilli quando afferma che:
Se da un lato Ruskin profetizza un’architettura “organica”, proiettata
nel futuro con tutte le implicazioni artistiche, sociali e religiose che
comporta, dall’altro il termine di paragone invocato sono quei marmi
consunti, della Venezia medievale, incastonata di ori e di paste vitree,
centinata e conclusa in cuspidi da maestranza sapienti, di una città
cioè plasmata dalla mano dell’uomo24.
Si tratta di un ritorno al passato che, riconducendo il discorso in
ambito cromatico, sancisce il primato della semplicità artistica
e, nel contempo, dà corpo al convincimento del tutto negativo
che nella realtà presente, con i suoi miti di progresso, con le sue
smanie capitalistiche e i suoi obiettivi tecnologici, non vi è più
spazio per l’artificialità e la costruzione in serie. È questa l’area
semantica entro la quale ha luogo la selvatichezza, il primo elemento morale del gotico ruskiniano che si colloca sotto il segno di dignità e onorabilità rispetto all’esecuzione architettonica
grossolana e, se vogliamo, talmente imperfetta da “restitu[ire]
all’opera quella nobiltà dell’intelletto che scaturisce da
un’epoca” 25 . Se è vero che nell’opera morrisiana il tricromo
grigio si dà come simbolo cupo della realtà assiologica del diciannovesimo secolo (“Seeing so many people made me notice
their looks the more; and I must say my taste cultivated in the
sombre greyness, or rather brownness, of the nineteenth century, was rather apt to condemn the gaiety and brightness of the
23
William Morris, On Art and Design, cit., p. 180.
John Ruskin, Le Pietre di Venezia, Milano, Mondadori, 2000, p. x.
25
Ivi, p. 105.
24
144
Capitolo III
raiment […]”, NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to Hammersmith”, p. 119), è altrettanto vero che in NFN il grigio sta a indicare che la vita umana – in termini di non-disgiunzione spirito/materia – è molto di più del mero squallore etico-ecologico,
ma grazie al paradigma della manodopera, la dualità cromatica
soccombe sotto il peso di un’interpretazione artigianale per attualizzare un perfetto orizzonte topologico.
Per maggiore chiarezza riportiamo una serie di citazioni utili
nella focalizzazione euforica della tonalità neutra:
“I remember, a beautiful place for a house: but a starveling of a nineteenth century house stood there: I am glad they are re-building: it’s
all stone too, though it need not have been in this part of the country:
my word, though, they are making a neat job of it: but I wouldn’t have
made it all ashlar” (NFN, Ch. XXVI, “The Obstinate Refusers”, p.
149).
I was taken ashore again at Godstow, to see the remains of the old
nunnery, pretty nearly in the same condition as I had remembered
them; and from the high bridge over the cut close by, I could see, even
in the twilight, how beautiful the little village with its grey stone
houses had become; for we had now come into the stone-country, in
which every house must be either built, walls and roof, of grey stone
or be a blot on the landscape (NFN, Ch. XXVII, “The Upper Waters”,
p. 160).
There I stood in a dreamy mood, and rubbed my eyes as if I were not
wholly awake, and half expected to see the gay-clad company of beautiful men and women change to two or three spindle-legged backbowed men and haggard, hollow-eyed, ill-favoured women, who once
wore down the soil of this land with their heavy hopeless feet, from
day to day, and season to season, and year to year. But no change
came as yet, and my heart swelled with joy as I thought of all the
beautiful grey villages, from the river to the plain to the uplands,
which I could picture to myself so well, all peopled now with this
happy and lovely folk, who had cast away riches and attained to
wealth (NFN, Ch. XXX, “The Journey’s End”, p. 172).
Diversamente dall’impossibilità ontologica di una visione di rinascita insita nella filosofia hegeliana (“Quando la filosofia dipinge il suo grigio sul grigio, allora una forma della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire,
L’eterogeneità dello spazio utopico
145
ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo
soltanto sul far del crepuscolo”26), qui il grigio configura una
possibilità di restituire rappresentazioni euforiche che appartengono sempre alla dimensione del sogno e che purtroppo non
trovano riscontro alcuno nell’ora presente. È tutto qui il paradosso esperito dal suddetto colore che, proprio nel momento in
cui pare essere espressione visiva della dipartita, risulta inscritto
nelle costruzioni in grado di costituire un epifenomeno della
nuova condizione personale dell’uomo. Sulla scorta dei
segmenti riportati possiamo fare una considerazione circa un
crescendo logico-formale relativo alla centralità diegetica della
“casa grigia” che, con l’avvicinarsi dell’explicit, diviene icona
di uno spazio domestico sempre più autentico, nonché antitetico
alla totalità amorfa vittoriana. Ciò che si delinea è un atteggiamento positivo costruttivo del narratore, a partire dall’idea singolativa di architettura in pietra (“I am glad they are rebuilding: it’s all stone too”), per poi passare a una proiezione
totalizzante di un vero e proprio “stone-country”, ove l’effetto
chiaroscurale del crepuscolo rende ancora più trascendente il
locus utopico. Il conclusivo sintagma della seconda citazione
“every house must be either built, walls and roof, of grey stone
or be a blot on the landscape” costituisce una clausola del
modus operandi costruttivo che si collega isotopicamente
all’incredulità dell’io esperiente (“There I stood in a dreamy
mood, and rubbed my eyes as if I were not wholly awake”) colto in uno stato di ansia dovuta alla paura, non priva di fondamenta, di vedere tramutata quell’arcadia in un limbo di anime
perse (“three spindle-legged back-bowed men and haggard, hollow-eyed, ill-favoured women, who once wore down the soil of
this land with their heavy hopeless feet”). Su questa consapevolezza da parte della voce attoriale si fonda la proiezione emotiva
del colore, così come viene espressa da Ruskin:
26
G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e
scienza dello stato in compendio, a cura di Giuliano Marini, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 17.
146
Capitolo III
[…] The front of St. Mark’s became rather a shrine at which to dedicate the splendour of miscellaneous spoil, than the organized expression of any fixed architectural law or religious emotion.
It is on its value as a piece of perfect and unchangeable colouring,
that the claims of this edifice to our respect are finally rested; and a
deaf man might as well pretend to pronounce judgement on the merits
of a full orchestra, as an architect in the composition of form only, to
discern the beauty of St. Mark’s27.
Del resto, è proprio l’unicità della sensibilità morrisiana a
postulare un “cromatismo perfetto e immutabile” riferito in
particolare ai suoi edifici immaginari che tendono a trasformare
un ambiente innaturale in un ecosistema naturale. Parafrasando
Longfellow, la casa grigia s’impone come “The lily of [Nowhere] blossoming in stone” (Henry Wadsworth Longfellow,
“Giotto’s Tower”, 1866)28, nel senso che essa sancisce la possibilità di attutire i risultati esiziali della vita presente, e ancor più
di ritrovare una qualche comune emozione in una raffigurazione
cromaticamente viva. Di qui la messa in scena di una casa tutta
intesa ad affermare lo scambio emotivo-affettivo con la natura,
in cui prevale l’incontro rivelatore con le cose semplici della
vita, una sintesi esemplare ricca di valore semantico, quasi a voler sancire l’importanza di un significante che diviene involucro
trasudante bellezza in grado di riecheggiare gli attimi di felicità
ormai sepolti:
We crossed the road, and again almost without my will my hand
raised the latch of a door in the wall, and we stood presently on a
stone path which led up to the old house to which fate in the shape of
Dick had so strangely brought me in this new world of men. My com27
John Ruskin, The Stones of Venice, ed. J. G. Links, London, Pallas,
2001, p. 135. Sull’interazione fra colore e suono si veda L’arcobaleno infranto di Andrea Mariani quando afferma che: “[…] luce e colore non riguardano
solo la sfera della dimensione visiva, ma anche di quella uditiva/sonora; soprattutto la luce e il colore che ci giungono attraverso un testo poetico e, quindi, attraverso il suono (implicito, in genere ma intrinseco) delle parole” (Andrea Mariani, L’arcobaleno infranto. La funzione del colore in Whitman, Dickinson, Frost e Merwin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p. 8).
28
H. W. Longfellow, The Complete Poetical Works of Henry Wadsworth
Longfellow, New York, Buccaneer Books, 1993, p. 291.
L’eterogeneità dello spazio utopico
147
panion gave a sigh of pleased surprise and enjoyment; nor did I wonder, for the garden between the wall and the house was redolent of the
June flowers, and the roses were rolling over one another with that delicious super-abundance of small well-tended gardens which at first
sight takes away all thought from the beholder save that of beauty.
The blackbirds were singing their loudest, the doves were cooing on
the roof-ridge, the rooks in the high elms-trees beyond were garrulous
among the young leaves, and the swifts wheeled whining about the
gables. And the house itself was a fit guardian for all the beauty of this
heart of summer.
Once again Ellen echoed my thoughts as she said: “Yes, friend, this
is what I came out for to see; this many-gabled old house built by the
simplest of country-folk of the long-past times, regardless of all the
turmoil that was going on in cities and courts, is lovely still amidst all
the beauty which these latter days have created; and I do not wonder
at our friends tending it carefully and making much of it. It seems to
me as if it had waited for these happy days, and held in it the gathered
crumbs of happiness of the confused and turbulent past” (NFN, Ch.
XXXI “An Old House Amongst New Folk”, p. 173).
Anche qui è lo scenario idilliaco a introdurre subito il lettore in
una realtà sognante e edenica. Al segmento iniziale, in cui si segnala la presenza liminale del sentiero lastricato di pietre (“We
crossed the road, and again almost without my will my hand
raised the latch of a door in the wall, and we stood presently on
a stone path which led up to the old house”), fa riscontro la descrizione paesaggistica. Ad essere veicolata è l’immagine del
colore implicito che, a partire dal giardino con i suoi fiori profumati investe tutto il mondo interiore dello scrittore. Il grigio
che tutto afferma e tutto riduce a una gioiosa e gradevole uniformità, viene associato a un contesto in cui gli elementi naturali si armonizzano e si amplificano – i merli, i colombi, le cornacchie, i rondoni29. Significativamente, gli unici esemplari di
29
Qui vale la pena riportare quelle utili informazioni mitico-simboliche
rintracciate abilmente da Cattabiani: “[il merlo] [c]omincia a cantare con il
periodo degli amori, tra il finire dell’inverno e l’inizio della primavera, come
ricorda il proverbio: ‘Quando canta il merlo siamo fuori dell’inverno’ […]
Questi proverbi esprimevano, in una società prevalentemente contadina, un
senso di rivincita dei sottoposti nei confronti dei loro padroni ai quali, durante
l’inverno e il gelo, si erano dovuti sottomettere per avere alloggio e cibo mentre l’arrivo della primavera avrebbero potuto, in teoria, abbandonarli” (Alfre-
148
Capitolo III
volatili sono caratterizzati da una cromia chiaroscurale, la cui
fusione non fa altro che riportare al paradigma centrale del grigio (qui si ricorda che accanto al merlo, principalmente di colore nero, esiste un altro tipo albino, per di più al bianco simbolico della colomba, fa riscontro il nero della cornacchia e del rondone). Un diffuso senso di gioia investe, insieme ai protagonisti, anche la natura: la casa, ricettacolo di bellezze estive e briciole di felicità si rispecchia nella ricchezza emotiva degli animi
dei suoi abitanti. Alla drammatica condizione del passato (“all
the turmoil that was going on in cities and courts”) che rinvia al
gorgo cittadino, fa da contrappunto la proiezione epicurea di un
indicatore antropomorfico di un futuro caratterizzato dall’equazione
semplicità = felicità. Non diversamente dalla facciata esteriore,
l’ingresso nella casa di campagna è un processo di immedesimazione nel semantizzante grigiore dell’arredamento. Anche in
questa scena modellizzante si registra la presenza dell’ipogramma
bellezza associato a ornamenti e arazzi che non hanno più la vitalità cromatica di un tempo:
Everywhere there was but little furniture, and that only the most necessary, and of the simplest forms. The extravagant love of ornament
which I had noted in this people elsewhere seemed here to have given
do Cattabiani, Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti
e creature fantastiche, Milano, Mondadori, 2001, p. 357); “Ad Afrodite venne
equiparata la dea romana Venere che ereditò fra i vari attributi le colombe.
[…] L’associazione della colomba a Venere è costante in tutta l’arte occidentale. Sugli affreschi della Favola di Amore e Psiche alla Farnesina, disegnati
da Raffaello nel 1517 ed eseguiti quasi interamente da Guido da Udine e Giulio Romano, appare in varie scene. […] Era considerata da Greci e Romani
anche l’emblema dell’armonia cosmica, della pace, della purezza dei costumi,
della semplicità e della fedeltà coniugale” (Ivi, pp. 313-314); “La cornacchia
nera o taccola (Corvus monedula), che dimora nei campanili, nelle torri e nei
castelli in rovina, si distingue per alcuni tratti originali. […] Nella cristianità la
sua nerezza, paragonata a quella dell’Amata del Cantico dei Cantici, non poteva non evocare gli stessi simboli del personaggio biblico. Nella Cerca del
Graal figurò la Chiesa: ‘Per il nero uccello […] si deve intendere la Santa
Chiesa” (Ivi, pp. 305, 308); “Diversamente dalla rondine non canta, ma lancia
stridii acuti, facendo uno strepito quasi assordante quando è in gruppo. In città
preferisce fare il nido in buchi e fessure di campanili e di altri edifici elevati”
(Ivi, p. 348).
L’eterogeneità dello spazio utopico
149
place to the feeling that the house itself and its associations was the
ornament of the country life amidst which it had been left stranded
from old times, and that to re-ornament it would but take away its use
as a piece of natural beauty.
We sat down at last in a room over the wall which Ellen had caressed, and which was still hung with old tapestry, originally of no artistic value, but now faded into pleasant grey tones which harmonised
thoroughly well with the quiet of the place, and which would have
been ill supplanted by brighter and more striking decoration (Ch.
XXXI, “An Old House Amongst New Folk”, pp. 174-175).
Nel primo movimento ad essere collocata in primo piano è la
“golden rule” espressa da Morris nel saggio “The Beauty of
Life” (1880) ove consiglia di “Have nothing in your houses that
you do not know to be useful, or believe to be beautiful”30 che
risulta perfettamente integrata nella semplicità e utilità veicolate
nella proposizione iniziale. Quello che emerge è una presa di
posizione ideologica che viene attualizzata dalla funzione climactica della casa esplicitamente assunta quale “ornament of
the country life”, già di per sé un “piece of natural beauty”. A
proposito del codice ermeneutico, va detto che la doppia articolazione spaziale (in/es) metaforicamente allude all’istituzione di
un’armonia interiore esteriorizzata nella tranquillità degli arredamenti che, nella fattispecie, implica la relazione direttamente
proporzionale tra antichità e valore artistico. In questo senso,
non possiamo fare altro che prendere atto della funzionalità della casa in termini di Genius loci che trae il suo continuum assiologico dalla tonalità neutra per antonomasia, così come viene
enunciato da Ruskin: “Può darsi che l’immenso monotono grigio della natura e del tempo sia un colore migliore di quello che
mano d’uomo possa dipingere”31.
Tutto concorre a creare un ambiente esterno favorevole al
conforto morale apportato dalla bellezza estraniante dell’architettura
utopica che raggiunge il suo diapason esemplificativo nella
30
William Morris, “The Beauty of Life”, in On Art and Design, cit., p.
123.
31
John Ruskin, Le pietre di Venezia, cit., p. 68.
150
Capitolo III
chiesa medievale presente nel capitolo “The Feast’s Beginning
– The End”:
We went into the church, which was a simple little building with one
little aisle divided from the nave by three rounded arches, a chancel,
and a rather roomy transept for so small a building, the windows
mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth-century type. There was
no modern architectural decoration in it; it looked, indeed, as if none
had been attempted since the Puritans whitewashed the mediaeval
saints and histories on the wall. It was, however, gaily dressed up for
this latter-day festival, with festoons of flowers from arch to arch and
great pitchers of flowers standing about on the floor; while under the
west window hung two cross scythes, their blades polished white, and
gleaming from out of the flowers that wreathed them. […] Though the
church was a small one, there was plenty of room; for a small church
makes a biggish house; and on this evening there was no need to set
cross tables along the transepts; though doubtless these would be
wanted next day, when the learned men of whom Dick has been
speaking should be come to take their more humble part in the haymaking (NFN, Ch. XXXII ,“The Feast’s Beginning – The End”, p.
179).
Il ritmo descrittivo del passo, scandito dalla figura sintattica
dell’enumerazione, si lega all’elaborazione di sistemi interpretativi antitetici enucleabili nei paradigmi oppositivi di moderno
vs. antico, grande vs. piccolo. La risposta dell’io narrativo al
degrado degli edifici moderni è tutta compresa nel sintagma
“There was no modern architectural decoration in it; it looked,
indeed, as if none had been attempted” che in effetti caratterizza
l’intera espressione creativa morrisiana, in quanto eliminato il
datum decorativo di diversa derivazione temporale, la genuinità
riemerge emblematicamente nell’evocazione dell’immagine metaforica delle due falci incrociate. In un processo d’intensificazione
del momento utopico, l’epitome della classe contadina assume
la valenza di uno specchio scintillante che riflette le ghirlande di
fiori sistemate a festa, deferendo al lettore l’idea che anche in
quel contesto rurale si possano avere configurazioni di semplice
bellezza. In particolare, Morris stabilisce un rapporto assiologicamente non gerarchico tra gli elementi chiamati in causa e per
di più arriva a impostare l’equazione dimensionale piccola chie-
L’eterogeneità dello spazio utopico
151
sa = grande casa. Per cui, come ha scritto De Fusco, questa prospettiva trae origine gran parte dalla modernità che caratterizza
l’opera morrisiana:
Morris estende l’idea dell’arte a tutto il mondo della vita: essa non riguarda solo la pittura, la scultura e l’architettura, bensì anche le forme
e i colori di tutti gli oggetti d’uso, la sistemazione dei campi, la rete
stradale, l’amministrazione delle città. Da questa visione estensiva e
qualificatrice dell’arte prende l’avvio quel metodo unitario che nel
Movimento Moderno informerà ogni settore della progettazione, dal
disegno del più modesto manufatto all’urbanistica. L’incarnazione di
questo unitario principio è offerta dalla stessa architettura ove la si intenda secondo la sua celebre definizione per cui “essa rappresenta
l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie
terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto”32.
Ma prima di concludere l’indagine sull’isotopia del grigio, vale
la pena soffermarsi sull’animale che più di ogni altro in NFN
può risultare utile per comprendere i vari aspetti dell’universo
morrisiano, e per vedere fino a che punto lo scrittore riesce immaginativamente a mediare tra la sua concezione ottimistica
della vita e l’esigenza di restare ancorato a un presente, o a un
passato, che reca inscritto in sé le pene inflitte dall’episteme vittoriana. Una gioia spensierata trova la sua espressione più efficace in Greylocks, il cavallo grigio che traina la carrozza su cui
Guest attraversa questa “terra di mezzo”. E, nella nominazione
metonimica (Greylocks = ciocche grigie, riccioli grigi), il cavallo, con la sua andatura gioiosa (“we jogged along merrily eastward”, NFN, Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 22; “Greylocks had taken to his jog-trot”, NFN, Ch. VII, “An Old
Friend”, p. 41), con la sua connotazione positiva sempre afferente al campo semantico della bellezza seppur velato di ironia
(“What a beautiful creature!” said I to Dick as we entered.
“What, old Greylocks?” said he, with a sly grin. “No, no”, said
I; “Goldylocks, – the lady”, NFN, Ch. VI, “A Little Shopping”,
pp. 30-31), appare il supremo tentativo morrisiano di testualizzare il ritorno alla natura. Non a caso, il colore della criniera del
32
De Fusco, op. cit., p. 34.
152
Capitolo III
cavallo, oltre a rimandare al sema della vecchiaia, si trasforma
in solenne metafora della speranza dell’uomo33 e, soprattutto, in
rappresentazione del suo apparire nelle prime sezioni del romanzo dominate dalla City, l’animale si dà come anticipazione
ermeneutica della dimensione arcadica verso cui tende il protagonista. È chiaro che Greylocks, non contrassegna semplicemente il viaggio utopico (“Shall we have out Greylocks and trot
back to Hammersmith?”, NFN, Ch. XVII, “How the Change
Came”, p. 89) allo stesso modo della guida equina freudiana
(“Itzig, dove vai?” “Non chiederlo a me, chiedilo al cavallo”,
Sigmund Freud, lettera a Wilhelm Fliess, 7 luglio 1898)34, ma
esso incarna cromaticamente il destino dell’uomo. Un’ulteriore
testimonianza della grande coesione ontologica di Greylocks
con lo spazio viene offerta dalla sua fragilità e, direi, umanità –
il cavallo subisce un processo di antropomorfizzazione evidente
nelle sue esigenze fisiche e, in particolare, nell’aggettivazione
personalizzata (“Greylocks will be wanting his rest and his
oats”, NFN, Ch. VIII, “An Old Friend”, p. 43), laddove rintracciamo un’eco salingeriana di marca umanistica: “Take most
people, they’re crazy about cars. […] I don’t even like old cars
[…] I’d rather have a goddam horse. A horse is at least human,
for God’s sake”35. In questo senso, è nel capitolo diciannovesimo “The Drive Back to Hammersmith” che, grazie all’intervento di
bambini giocosi, vediamo drammatizzate la docilità e affettività
33
Si rinvia alle interessanti considerazioni di Di Piazza sulle raffigurazioni di animali nel romanzo vittoriano e più precisamente al quarto capitolo “Il
bestiario coloniale degli ibridi” in cui scrive: “Nel romanzo d’avventura, gli
animali seguivano una costruzione figurativa tendenzialmente scientifica,
benché fedele al criterio allegorico del tempo. […] gli animali non erano soltanto parte di un paesaggio esteriore ma anche gli elementi di un discorso dichiaratamente ideologico” (Elio Di Piazza, L’avventura bianca. Testo e colonialismo nell’Inghilterra del secondo Ottocento, Bari, Adriatica, 1999, p.
179).
34
Sigmund Freud, lettera inviata a Wilhelm Fliess il 7 luglio 1898, in Lettere a Fliess Wilhelm, 1887-1904, ed. integrale a cura di J. M. Masson, Torino, Paolo Boringhieri, 1986, p. 357.
35
J. D. Salinger, The Catcher in the Rye, Harmondsworth, Penguin, 1975,
p. 136.
L’eterogeneità dello spazio utopico
153
di un attante animale che non ha nulla della portata storica shakespeareiana (qui si pensi alle parole di Cleopatra: “O happy horse,
to bear the weight of Anthony! / Do bravely, horse, for wot’st
thou whom thou mov’st? / The demi-Atlas of this earth, the arm
/ And burgonet of men”36, o al grido bellicoso di Riccardo III:
“A horse! A horse! My kingdom for a horse!”37):
Then I shook hands again, and we went out of the hall and into the
cloisters, and so in the street found Greylocks in the shafts waiting for
us. He was well looked after; for a little lad of about seven years old
had his hand on the rein and was solemnly looking up into his face; on
his back, withal, was a girl of fourteen, holding a three-year-old sister
on before her; while another girl, about a year older than the boy hung
on behind. The three were occupied partly with eating cherries, partly
with patting and punching Greylocks, who took all their caresses in
good part, but pricked up his ears when Dick made his appearance.
The girls got off quietly, and going up to Clara, made much of her and
snuggled up to her. And then we got into the carriage, Dick shook the
reins, and we got under way at once, Greylocks trotting soberly between the lovely trees of the London streets, that were sending floods
of fragrance into the cool evening air; for it was now getting toward
sunset (NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to Hammersmith”, pp. 118119).
Il brano, segnando l’ingresso ufficiale del cavallo, lo relega alla
funzione apparentemente periferica di mezzo di trasporto38, ma
36
William Shakespeare, Anthony and Cleopatra, in Complete Works, edited with a glossary by W. J. Craig, cit., pp. 658-659.
37
William Shakespeare, Richard III, in Ivi, p. 633.
38
Per un’analisi dettagliata del cavallo in termini di aiutante magico si veda la Morfologia della fiaba di Propp e, in particolare, quando afferma: “Noi
sappiamo che la funzione fondamentale del cavallo è quella di mediazione fra
due mondi. Egli porta l’eroe nel regno in capo al mondo. Nelle religioni il cavallo spesso porta il defunto nel regno dei morti” (Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton,
2003, p. 297). Ancora più interessante è il paragrafo sul mantello del cavallo:
“Il mantello del cavallo non è un elemento casuale, non è un fenomeno trascurabile e il fatto che i dati statistici ci dicano che il cavallo bianco o grigio non
occupa il primo posto per la frequenza con la quale viene nominato non dimostra nulla: la presenza del cavallo bianco o azzurro nella fiaba o nelle immagini connesse con il culto dei morti ci spinge a veder proprio in questa forma
quella più arcaica, ed a ritenere che gli altri mantelli siano una deformazione
154
Capitolo III
allo stesso tempo definisce la maniera in cui ha luogo la rappresentazione della sensibilità animale. Ad essere rappresentato è
un cuore sensibile laddove prevale una piacevole sottomissione
alle richieste infantili (“on his back, withal, was a girl of fourteen, holding a three-year-old sister on before her; while another
girl, about a year older than the boy hung on behind”) che
d’altra parte, implicano tenerezze accolte con piacere (“The
three were occupied partly with eating cherries, partly with patting and punching Greylocks, who took all their caresses in
good part”). Seguendo un’impostazione etico-egualitaria, dopo
il momento di piacere sensoriale si prospetta il dovere lavorativo (“but pricked up his ears when Dick made his appearance”)
che, ancora una volta, assume la connotazione edonistica prefigurata da Morris nei suoi scritti teorici, quasi una sinestesia naturalistica atta a regalare la pienezza dell’essere (“Greylocks
trotting soberly between the lovely trees of the London streets,
that were sending floods of fragrance into the cool evening air;
for it was now getting toward sunset”). Ma c’è di più. Il nesso
uomo/animale, alla luce dell’isotopia giocosa, trova una più biografica esemplificazione nelle parole di Jane Marsh, quando
nel saggio “William Morris and Victorian Manliness” afferma
che “[o]ne of the earliest images we have of William Morris is
as a small child riding his Shetland pony clad in a miniature suit
of armour”39.
Similmente allo Hughes della lirica “The Horses” (1957),
Morris opera un’immedesimazione nel cavallo, nel tentativo di
provare quello che prova l’animale e catturare percezioni e sensazioni ricche di evocazioni simboliche. Dinanzi alla voce hughesiana, la parola morrisiana sembra echeggiare conflitti e dicotomie
di matrice modernista, preconizzando il recupero di un’unità
realistica, tanto più che questa forma del cavallo concorda con l’immagine del
cavallo in forma generale e con il suo legame con il mondo dell’oltretomba”
(Ibid.).
39
Jane Marsh, “William Morris and Victorian Manliness”, in William
Morris Centenary Essays. Papers from the Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at Exeter College, Oxford 30 June-3
July 1996, cit., p. 185.
L’eterogeneità dello spazio utopico
155
armonica, ormai inaccessibile alla sensibilità del poeta degli animali:
[…] And I saw the horses:
Huge in the dense grey – ten together –
Megalith-still. They breathed, making no move,
With draped manes an tilted hind-hooves,
Making no sound.
I passed: not one snorted or jerked its head.
Grey silent fragments
Of grey silent world.
I listened in emptiness on the moor-ridge.
The curlew’s tear turned its edge on the silence.
The detail leafed from the darkness. Then the sun
Orange, red, red erupted
Silently, and splitting to its core tore and flung cloud,
Shook the gulf open, showed blue,
And the big planets hanging […]40.
Con l’iniziale coppia attanziale I/horses, o più specificatamente
I/they, il poeta introduce il lettore al nesso ontologico uomo/animale
molto più complesso di quanto non possa emergere, contrassegnato dall’isotopia del grigio che connota il cavallo al suo rivelarsi immobile e silenzioso. Emblematicamente, la precisa descrizione fisica degli animali, nella loro intensa sequenza aggettivale (“Huge in the dense grey”), afferma una convergenza semantica fonica di valori disforici e depersonalizzanti che si celano dietro un bestiario teso ad esprimere la condizione di precarietà e incertezza di tutti gli esseri terrestri. È, quella descritta,
un’immobilità che isotopicamente inscrive il cavallo in una vi40
Tom Gunn and Ted Hughes, Selected Poems, London-Boston, Faber
and Faber, 1962, pp. 47-48.
156
Capitolo III
sione di desolazione e scoramento che accomuna il paesaggio
all’io lirico – il loro sembrare una massa grigia rimanda metaforicamente alla compattezza e suggestività funebre del megalite,
blocco di pietra preistorico dalle funzioni rituali, la cui staticità
appare più evidente grazie all’iterazione fonica di suoni dentali
(“the dense grey – ten together – / Megalith-still. They breathed,
making no move, / With draped manes and tilted hind-hooves”:
[t, θ, ð]). Resta comunque un’uguaglianza sostanziale con
l’estetica morrisiana, vale a dire quella ricercata eleganza e bellezza (“draped manes and tilted hind-hooves”), nonché l’uso
eccessivo di iperbole e descrizioni dettagliate della vita naturale. L’insistita isotopia verticale di tipo grammaticale (I saw; I
passed; I listened) che, presentando tre occorrimenti afferenti a
tre diversi codici sensoriali (vista-tatto-udito), ribadiscono la
presenza dell’uomo in quanto io esperiente colto nel tentativo di
instaurare un rapporto dialogico con la natura, e soprattutto evocano il distacco del binomio I/they come momento epifanico
alla luce di uno scenario fatto di silenzio, incomunicabilità e
vuoto. Come diretta conseguenza, si assiste a un’inevitabile visione sinestetica chiaroscurale (“grey silent fragments / Of grey
silent world”) che, percorrendo l’itinerario ontologico, va da
una molteplice frammentazione alla reductio ad unum di un
mondo attualizzato dalla triade della negatività – silenziovuoto-oscurità. Nonostante la tematizzazione della frustrazione
moderna dell’uomo, emerge un modello cosmologico di speranza, il quale, per il tramite dello shifter temporale “Then”, mostra
un’isotopia solare capace di andare oltre il dato perturbante e si
offre come antitesi cinetica della condizione statica prefigurata.
Non a caso, insieme a una verbalizzazione mirante a veicolare il
movimento esplosivo dell’astro (si rimanda ai paradigmi verbali
“erupted”; “splitting” “shook”; “hanging”) si segnala un’apertura
simbolico-visiva verso un’altra oscurità, il blu infinito dell’universo
sconosciuto che fa leva su una connotazione immaginifica sempre e comunque silenziosa (“Orange, red, red erupted / Silently”),
sottolineata dalla consonanza “core tore”.
L’eterogeneità dello spazio utopico
157
3.3. Uomo e ambiente: Morris e le strutture del sentire.
In NFN, la struttura topologica in cui si afferma la centralità del
piacere estetico, risulta fortemente connessa alla tipologia ideologico-sociale dei personaggi, in un crescendo armonico culminante nell’immagine di uomini intesi come emanazione decorativa di un ambiente. È questa la continuità professata da Morris
che, rendendosi conto della necessità di trasmettere valori epistemico-culturali, impone al lettore l’evidenza di una dignità individuale verso cui non sa assumere altra strategia se non quella
della sua propensione edonistica. Ed è su questo elemento, con
forte marca metonimica, che costruisce visivamente la sostanza
ideologica del romanzo allorquando scrive: “I must say, I might
have known that people who were so fond of architecture generally, would not be backward in ornamenting themselves; all the
more as the shape of their raiment, apart from its colour was
both beautiful and reasonable – veiling the form, without either
muffling or caricaturing it” (NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to
Hammersmith”, p. 120). Qui appare evidente che all’origine del
piacere dell’io narrativo vi sono il ritorno al passato medievale e
il buon gusto estetico-decorativo che, sia pure caratterizzati da
una policromia semantica, aprono uno spazio al rapporto dialogico tra i personaggi e l’ambiente.
Dal punto di vista dell’isotopia del blu, il secondo capitolo è
fortemente marcato dalla simmetria abito/setting che modellizza
simbolicamente l’atteggiamento positivo-costruttivo del narratore, a partire dall’emergere di una comunanza cromatica
nient’affatto casuale. Attraverso l’assiologia euforica del fiume,
valorizzata da una cromia luminosa (“bright blue river”, NFN,
p. 170) indice di salubrità ecologica, si ha il ricongiungimento
programmato tra l’elemento equoreo e l’indumento medievale
appartenente al battelliere Dick, per fare in modo che il quadro
torni ad essere completo:
His dress was not like any modern work-a-day clothes I had seen, but
would have served very well as a costume for a picture of fourteenthcentury life: it was of dark blue cloth, simple enough, but of fine web,
and without a stain on it. He had a brown leather belt around his waist,
and I noticed that its clasp was of damascened steel beautifully
158
Capitolo III
wrought. In short, he seemed to be like some specially manly and refined young gentleman, playing waterman for spree, and I concluded
that this was the case (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 7).
Nella lessia, insieme all’indicazione temporale veicolata dalla
similitudine pittorica, si rilevano i campi semantici contigui della semplicità e raffinatezza che, attualizzati da un’aggettivazione
controllata, stabiliscono chiaramente le coordinate figurative
dell’universo utopico. In questa descrizione, il blu diviene
l’esplicita metafora di una bellezza che si colloca sotto il segno
di un equilibrio e un ordine di rara acquisizione – una stoffa non
di alta qualità, ma pulita e arricchita da dettagli ricercati come la
fibbia d’acciaio damaschinato, non già per vanità, ma per sancire la dignità dell’uomo in virtù della quale ottiene lo status di
gentiluomo. Una simile fenomenologia trova un’ulteriore significativa attualizzazione nella vestizione del protagonista Guest,
nel momento in cui, smessi gli abiti del mondo vittoriano, si
presenta come soggetto narrativo che ormai sembra avere accettato definitivamente l’ordine della nuova vita che lo aspetta:
When I did wake, to a beautiful sunny morning, I leapt out of bed with
my over-night apprehension still clinging to me, which vanished delightfully however in a moment as I looked around my little sleeping
chamber and saw the pale but pure-coloured figures painted on the
plaster of the wall, with verses written underneath them which I knew
somewhat over-well. I dressed speedily, in a suit of blue laid ready for
me, so handsome that I quite blushed when I had got into it, feeling as
I did so that excited pleasure of anticipation of a holiday, which, wellremembered as it was, I had not felt since I was a boy, new come
home for the summer holidays (NFN, Ch. XXI, “Going up the River”,
p. 122).
Come evidenzia l’incipit del capitolo, alla base del brano vi è la
messinscena di un momento festoso – una gita sul fiume in
compagnia di Dick e Clara vestiti elegantemente al fine di “not
[…] to make the bright day and the flowers feel ashamed of
themselves” (NFN, p. 123) –, e soprattutto l’immagine di un abito blu così bello che risulta essere causa di eccitazione, un segno artificiale che sancisce la possibilità di stabilire un nesso
L’eterogeneità dello spazio utopico
159
euforico con il passato personale (“excited pleasure of anticipation of a holiday, which, well-remembered as it was, I had not
felt since I was a boy, new come home for the summer holidays”). La stessa idea di una stagione di felicità trascorsa sul
fiume a cui corrisponda cromaticamente una veste medievale di
tonalità blu è, in effetti, un’altra costruzione funzionale: la Ellen
che vede Guest è un’apparizione quasi magica, quasi una Lady
of Shalott che, pur tra differimenti tematici, lancia un ponte tra
la bellezza essenziale tennysoniana e la figuralità variopinta
morrisiana:
As it cleared the arch, a figure as bright and gay-clad as the boat rose
up in it; a slim girl dressed in light blue silk that fluttered in the
draughty wind of the bridge. I thought I knew the figure, and sure
enough, as she turned her head to us, and showed her beautiful face, I
saw with joy that it was none other than the fairy godmother from the
abundant garden on Runnymede – Ellen, to wit (NFN, Ch. XXVII,
“The Upper Waters”, p. 155).
Resta comunque il fatto che Ellen così come viene presentata
non è una donna comune, ma, al contrario, l’espressione di una
sorta di ideale, una figura dell’alterità con cui confrontarsi in un
dialogo stimolante che nasconde la sostanziale natura amorosa
tanto cara a Morris. Di qui un processo favolistico attivato dallo
scrittore, che, pur mirando a risolvere in un’unica immagine
l’antinomia con lo squallore contemporaneo, pur volto a far
coincidere la femminilità con la leggiadria, finisce inevitabilmente per mettere a nudo la tonalità esponenziale del blu oltre a
un’esaltazione derivante dal suddetto colore che colloca il soggetto fuori dalla temporalità disforica. Vero è che, come ha sottolineato Florence S. Boos, dietro l’atteggiamento vitale di Ellen si cela il desiderio morrisiano di operare un programma esegetico che, estromettendo quasi del tutto la connotazione eterotipica cittadina, finisce per suffragare l’idea di una strutturazione attanziale intesa come vocazione alla riflessione:
Morris had already presented women of compelling psychological
depth – Guenevere, Jehane, Psyche, Gudrun, Philonoë – but News
160
Capitolo III
from Nowhere is the first English utopian work by man which confers
the role of wisdom figure or “sage” on a woman. Ellen expresses the
book’s deepest insights in the meaning and use of history, the distinctive qualities of the new society, and the means by which members of
Guest’s society will have to strive towards it41.
A ben guardare, si tratta di un’impostazione cromatica che, oltre
a trovare riscontro nel macrotesto poetico, viene esautorata anche dalle stesse dichiarazioni di Morris, il cui lavoro di scrittore
appare tutt’altro che indifferente al problema della ricerca estetica. Non a caso, prendendo in considerazione la lirica “The
Blue Closet”, appartenente a quella raccolta di poesie definite
“atmosferiche” (“The Wind”; “The Tune of Seven Towers”),
Morris dimostra di improntare la sua arte a un carattere tonale,
dal quale deriva non solo il senso di lontananza spaziale e temporale, ma anche simbolicamente il tendere verso un obiettivo
lontano. Pertanto, non si tratta tanto di concludere sbrigativamente che Morris usi colori vivaci e brillanti in grado di accrescere il senso naturalistico dell’opera, quanto di capire di quale
semplicità estetica e profondità ideologica è fatta la cromia
morrisiana. In questa prospettiva, la precisione e la ricercatezza
poetica portano con sé in superficie il primato della connotazione positiva del blu – il colore ha un referente esatto nell’ambiente.
Va da sé che dietro l’apparente linearità e semplicità topologica,
41
Florence S. Boos, “An (Almost) Egalitarian Sage. William Morris and
Nineteenth-Century Socialist-Feminism”, in Victorian Sages and Cultural
Discourse. Renegotiating Gender and Power, ed. Thaïs Morgan, New Brunswick and London, Rutgers University Press, 1990, p. 199. Non senza acume,
Boos ha indagato la natura duale di Ellen: “[…] none of Morris’s female heroes before Ellen can credibly be described as a “sage”. She is News from
Nowhere’s truest wisdom figure, not a distant erotic ideal, but the embodiment
of Morris’s self-conscious hope for the future generations. […] As the work’s
most perceptive interpretant of the new society, and an active, unrepressed
woman who desires to transmit her physical and cultural identity to future
generations, Ellen embodies the limitations as well as the strengths of Morris’s
socialist-feminism, but she alone in Nowhere fully practices Morris’s deepest
ideal of popular, living history; and she alone is the spokeswoman of the
book’s finest insights into the spirit of the new society” (Ivi, pp. 205-206).
L’eterogeneità dello spazio utopico
161
si cela una densità di significato che risulta nient’affatto priva di
uno spessore emotivo:
The Blue Closet
LADY ALICE
Alice the Queen, and Louise the Queen
Two damozels wearing purple and green,
Four lone ladies dwelling here
From day to day and year to year;
And there is none to let us go; […]
And when we die no man will know
That we are dead; but they give us leave,
Once every year on Christmas-eve,
To sing in the Closet Blue one song; […]
They sing all together
How long ago was it, how long ago,
He came to this tower with hands full of snow?
“I cannot weep for thee, poor Love Louise,
For my tears are all hidden deep under the seas;
“In a golf and blue casket she keeps all my tears,
But my eyes are no longer blue, as in old years;
“Yeas, they grow grey with time, grow small and dry,
I am so feeble now, would I might die”. […]
Will he come back again, or is he dead?
O! is he sleeping, my scarf round his head?
“O, love Louise, have you waited long?”
“O, my lord Arthur, yea”. […]
“O, love Louise, this is the key
Of the happy golden land!
O, sisters, cross the bridge with me,
My eyes are full of sand.
What matter that I cannot see,
If ye take me by the hand?”
And ever the great bell overhead,
And the tumbling seas mourn’d for the dead;
For their song cease, and they were dead.
162
Capitolo III
A volersi rifare a un ben noto retroscena biografico, Morris
sembra trascrivere verbalmente l’acquerello rossettiano, Lo studiolo blu (1856-1857) appunto, ove due donne vestite di verde e
rosso suonano un antico clavicordo42, mentre in secondo piano
si scorgono altre due donne, dalle vesti medievali di colore
diametralmente uguale alle musiciste, che cantano seguendo
uno spartito. La transcodificazione morrisiana vuol dire ricerca
di una nuova dinamica, di nuovi significati e nuove immagini –
la parola restituisce profondità diegetica all’evento. Di conseguenza, le pareti blu della stanza divengono depositarie di un
atto di mediazione ontologica che, a ben guardare, sottende
un’apertura semantica all’amore propria di una sensibilità in
grado di mettere a frutto tutte le potenzialità espressive offerte
dalla forza evocativa del colore. Si tratta di un incontro immaginifico che implica anche la ricerca di una condizione eternamente felice (“happy golden land!”), sottolineando come vi sia
una coralità sensoriale, una sinestesia paradigmatica tutta tesa a
recuperare il divario tra il mondo dei vivi e dei morti.
Ponendosi contro una visione cristallizzata della versificazione (alla rima baciata segue la rima alternata), e soprattutto
asserendo il primato della metonimia (“hands full of snow”;
“my tears are all hidden deep under the sea”; “she keeps all my
tears”; “my eyes are no longer blue”; “my scarf round his
head”; “My eyes are full of sand”; “take me by the hand”), il
poeta veicola un messaggio che, allo stesso modo delle “Correspondances” baudelaireiane, fa vibrare le corde musicali e
passa attraverso la materialità del blu non senza aver viaggiato
lungo un asse temporale finzionale e/o reale. Similmente
all’ambiguità tematica presente in The Madness of Sir Tristram
(1862) e in The Lament (1864-6) di Burne-Jones, in cui i prota42
Molto significativo il fatto che Rossetti e i preraffaelliti in genere raffigurino uno strumento medievale arcaico la cui origine viene attestata intorno
al 1404. Si tratta di una cassa armonica rettangolare appoggiata su un tavolo e
munita all’interno di corde che venivano colpite da piccole lamine di ottone
azionate da tasti allineati su una tastiera analoga a quella dell’organo. In breve, può essere considerato l’antenato del pianoforte.
L’eterogeneità dello spazio utopico
163
gonisti ritratti – dalle morbide vesti medievali sempre e comunque blu – esprimono la loro disperazione attraverso la musica43,
Morris adotta una caratterizzazione tutt’altro che chiara così
come spiega Faulkner: “The reader finds himself in a world to
whose logic he has no access, and can only respond to the intimations of romance and disaster by accepting the mood and pattern without seeking clear explanations”44.
A questo punto, va anche osservato che Ellen si fa portavoce
di una ricerca tesa a rendere il viaggio utopico quanto più indimenticabile possibile nei suoi valori semantici. Non solo il polo
femminile è rappresentato da “interest and pleasure of life” 45
(NFN, p. 157), ma l’immagine poliedrica e cangiante della protagonista rimanda dialogicamente alla musica e al canto:
Ellen kissed her new friend, and we all sat silent for a little, till she
broke out into a sweet shrill song, and held us all entranced with the
wonder of her clear voice; and the old grumbler sat looking at her lovingly. The other young people sang also in due time; and then Ellen
showed us to our beds in small cottage chambers, fragrant and clean
as the ideal of the old pastoral poets; and the pleasure of the evening
quite extinguished my fear of the last night, that I should wake up in
the old miserable world of worn-out pleasures, and hopes that were
half fears (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court and a Praiser of Past
Times”, p. 132).
43
Per una lettura sull’importanza della musica nelle opere morrisiane si
veda George D. Gopen, “The Music of the Mind. Structure and Substance in
William Morris’s The Water of the Wondrous Isles”, The Journal of William
Morris Studies, 16, 2-3 (Summer-Winter 2005), pp. 92-102.
44
Peter Faulkner, “Introduction”, in William Morris, Selected Poems, cit.,
p. 10.
45
Qui giova riportare l’unicità tipologica di Ellen rispetto all’anonimia estetico-comportamentale di Clara: “Clara, for instance, beautiful and bright as
she was, was not unlike a very pleasant and unaffected young lady; […]. But
this girl was not only beautiful with a beauty quite different from that of “a
young lady”, but was in all ways so strangely interesting; […]. Not, indeed,
that there was anything startling in what she actually said or did; but it was all
done in a new way, and always with that indefinable interest and pleasure of
life, which I had noticed more or less in everybody, but which in her was
more marked and more charming than in any one else that I had seen” (NFN,
Ch. XXVII, “The Upper Waters”, p. 157).
164
Capitolo III
Mi pare significativo che solo alla donna venga concesso il dono dell’arte musicale e che il suo canto portatore di un messaggio cifrato contenga uditivamente l’incanto utopico di una terra
idilliaca pastorale e incontaminata. Non a caso la cifrazione metonimica della purezza vocale (“held us all entranced with the
wonder of her clear voice”) rende ancora più evidente una modellizzazione improntata alle atmosfere medievali caratterizzate
da riunioni conviviali come anche da antiche usanze bucoliche.
Si tratta di una peculiarità femminile che, grazie all’evocazione
mitologica della nominazione classica (qui non possiamo fare a
meno di pensare all’influenza psicologico-comportamentale di
Elena di Troia esercitata sul polo maschile), congiunge l’isotopia dei
piaceri umani a quella dell’amore erotico, amore inteso non
come accoppiamento di due esseri opposti che reciprocamente
si attraggono, ma sublime attrazione mai consumata, seppur
sempre anelata. È chiaro che la caratterizzazione utopica attanziale ha molto in comune con la perfezione raffinata tipica
dell’iconografia femminile presente in The Golden Stairs
(1880) di Burne-Jones, ove, anche se reduplicata all’infinito secondo un asse verticale – epitome visivo della teorizzazione
morrisiana della storia intesa come spirale46 –, l’attante donna
incarna una visione utopistica che alimenta il fervido immaginario morrisiano:
We went up a paved path between the roses, and straight into a very
pretty room, panelled and carved, and as clean as a new pin; but the
chief ornament of which was a young woman, light-haired and greyeyed, but with her face and hands and bare feet tanned quite brown
with the sun. Though she was very lightly clad, that was clearly from
46
A tal riguardo Edvige Schulte ha notato che: “Yeats […] si serve della
parola gyre (o cono) come equivalente di spirale che può essere applicata, oltre che alla vita dell’uomo, anche alla pittura e alla storia, come propone Morris
in The Arts and Crafts of Today. L’artista Morris si serve della parola spiral
con riferimento alla storia, che procede con movimento a spirale e non in linea
retta. Morris avrebbe quindi per primo enunciato il principio del movimento a
spirale del progresso in uno scritto marxista, mentre Engels si limita ad un
fugace accenno in Socialism Utopian and Scientific (Edvige Schulte, Saggi,
saghe e utopie nell’opera di William Morris, Napoli, Liguori, 1990, p. 48).
L’eterogeneità dello spazio utopico
165
choice, not from poverty, though these were the first cottage-dwellers
I had come across; for her gown was of silk, and on her wrists were
bracelets that seemed to me of great value (NFN, Ch. XXII, “Hampton
Court and a Praiser of Past Times”, pp. 127-128).
Proprio come le figure leggiadre burne-jonesiane47, Ellen, che
presenta le stesse fattezze fisico-cromatiche della resa pittorica
(“a young woman, light-haired and grey-eyed”; “she was very
lightly clad, that was clearly from choice, not from poverty”),
per non dire poi della varietà tipologica degli strumenti musicali
nelle mani delle fanciulle verginali, conferma il nesso tra la dimensione estetica morrisiana e la forma d’evasione intesa come
“utopia of pure beauty and harmony”48. Per di più, al di là del
suo essere “the chief ornament” di “a very pretty room, panelled
and carved, and as clean as a new pin”, confermando ulteriormente il binomio uomo/ambiente attualizzato da Morris, Ellen
si offre come modello esemplare di abbigliamento in grado di
enucleare ancora più chiaramente la maniera morrisiana di leggere il mondo, un’affermazione di identità edonistica. Indubbiamente sotteso alla sua scrittura, vi sarebbe il migliorismo utopistico, una sorta di volontà sociale sempre pronta ad indicare
lo scarto proairetico tra la donna ideale e il resto del mondo ove
appunto viene presentata la contraddizione tra l’apparenza cittadina e l’aspetto di chi è in armonia con la natura:
I noticed by the way that Clara must really rather have felt the contrast
between herself as a town madam and this piece of summer country
that we all admired so, for she had rather dressed after Ellen that
morning as to thinness and scantiness, and went barefoot also, except
47
Sul rapporto interattivo tra i due preraffaelliti, vale qui quanto scritto da
Elizabeth Prettejohn: “The apparent defeatism of this view has been contrasted with the belief of Burne-Jones’s lifelong friend William Morris, in political action aimed at making utopia a social reality. Indeed, it might be argued that Burne-Jones’s pictures were anti-activist. By satisfying spectators’
imaginations with dreams of beauty, they dulled the urge to take action for
social change. On the other hand, the pictures might be seen as a form of protest against contemporary social reality, criticising the real world by symbolising one more beautiful” (Prettejohn, op. cit., p. 62).
48
Ibid.
166
Capitolo III
for light sandals (NFN, Ch. XXIII, “An Early Morning by Runnymede”, p. 134).
Emerge, in breve, l’antinomia semantica town madam/country
madam che, omologa al binomio oppositivo artificialità/semplicità,
appare attualizzata nell’immagine delle vesti leggere ed essenziali. Sia che si chiami Clara o Ellen, la donna per Morris non
può fare a meno di esteriorizzare il suo rinnovamento ideologico anche in termini di abbigliamento atto a porre in primo piano
il ritorno alla natura. Quanto alla problematica naturalistica, va
detto che la scelta di andare “barefoot also, except for light sandals” dà ampio risalto al contatto con la terra, un depauperamento ricco di evocazioni significative e che, soprattutto, pone
al centro della quest esistenziale quella madre terra verso cui
prova un’esultanza intrisa di gioia intensa (“O me! O me! How
I love the earth, and the seasons, and weather, and all things that
deal with it, and all that grows out of it, – as this has done!”,
NFN, Ch. XXXI, “An Old House Amongst New Folk”, p. 174).
È questa la verità empirica a cui giunge lo scrittore, così come
afferma nel saggio “The Lesser Arts of Life” (1882):
But nowadays, and for years past, a lady may dress quite simply and
beautifully, and yet not be noticed as having anything peculiar or theatrical in her costume. Extravagances of fashion have not been lacking
to us, but no one has been compelled to adopt them; every one might
dress herself in the way which her own good sense told her suited her
best49.
E, in questo senso, il romanzo utopico, con meno di duecento
pagine dedicate alla descrizione del nuovo mondo, appare il supremo tentativo morrisiano di testualizzare, su un ampio spettro
cromatico, quanto teorizzato nei suoi scritti utili per comprendere i vari aspetti del macrotesto e per inscrivere le opere in un
preciso contesto tematico. Ora, se Morris, sempre attento a recuperare l’individualità dei suoi personaggi, adotta il termine
semplicità proprio per esaltare la dimensione deautomatizzante
49
William Morris, “The Lesser Arts of Life”, in On Art and Design, cit.,
pp. 89-90.
L’eterogeneità dello spazio utopico
167
del suo dettato artistico, ciò non vuol dire che manchino esemplificazioni di una ricercata eleganza. Paradossalmente, lo spazzino Boffin si offre come eccezione socio-comportamentale, in
quanto, pur nella legittimità utopica dell’eccesso iperbolico, finisce per porsi come una sorta di alternativa al buongusto comune:
I looked over my shoulder, and saw something flash and gleam in the
sunlight that lay across the hall; so I turned round, and at my ease saw
a splendid figure slowly sauntering over the pavement; a man whose
surcoat was embroidered most copiously as well as elegantly, so that
the sun flashed back from him as if he had been clad in golden armour. The man himself was tall, dark-haired, and exceedingly handsome, and though his face was less kindly in expression than that of
the others, he moved with that somewhat haughty mien which great
beauty is apt to give to both men and women. […] He was a man in
the prime of life, but looked as happy as a child who has just got a
new toy (NFN, Ch. III, “The Guest House and Breakfast Therein”, p.
18).
Ad emergere è un’immagine di totale luminosità, che si interseca cromaticamente con quella dell’oro e, psicologicamente, con
quella della restitutio ad integrum. A partire da un soprabito elegantemente ricamato si rileva subito l’equazione oro = sole =
bellezza, secondo una struttura associativa che inscrive la simmetria in una similitudine cavalleresca: “the sun flashed back
from him as if he had been clad in golden armour” (si veda anche “because he will dress so showily, and get as much gold on
him as a baron of the Middle Ages”, NFN, Ch. III, “The Guest
House and Breakfast Therein”, p. 19). Pertanto, priva di qualsivoglia eco simbolica, l’isotopia dell’oro non ha nulla del sottotesto iniziatico-divino presente in WBW, ove il protagonista
Golden reca inscritto nel suo nome la predestinazione al ritrovamento dell’oro filosofale. Il che equivale a dire che
l’apparenza rinvia alla felicità – l’attenzione al dettaglio visivo
indica la fine della condizione disforica dell’uomo. Per cui, come ha scritto Goethe nella “Prefazione” a La teoria dei colori:
168
Capitolo III
Colori e luce stanno in rapporto strettissimo, ma dobbiamo rappresentarci l’una e gli altri come appartenenti all’intera natura: poiché è proprio essa che, tramite loro, si svela per intero in particolar modo al
senso della vista.
La natura intera si scopre anche a un altro senso. Si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e, dal più leggero soffio fino al più selvaggio rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo, dal più veemente appassionato grido fino alle più miti parole della
ragione, sarà sempre la natura a parlare, a rivelare la propria presenza,
la propria forza, la propria vita e le proprie connessioni, cosicché un
cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato, in ciò che è udibile
potrà cogliere un infinitamente vivente50.
Per rendere più chiara e perspicua la fenomenologia dello spazio utopico ci avvaliamo del metodo greimasiano, connettendo
ai quattro archetipi cosmologici le plurime isotopie cromatiche
rintracciate nel testo:
Universo figurativo
/FUOCO/
/rosso/
/ACQUA/
/blu/
/ARIA/
/bianco/
/giallo/
/TERRA/
/verde/
/grigio/
Da un’angolazione strutturale, la deissi fuoco/terra si polarizza
sulla coppia semantica rosso/grigio, per rappresentare l’isotopia
semantica urbanistico-architettonica esemplificata dalla Casa
Rossa come dalla “casa grigia” che implica la costante topologica del giardino e della natura in generale (verde). Parallelamente, la
dualità acqua/aria, seppur evocando l’assiologia del fiume e la
salubrità dell’aria nowheriana, assume un’indubbia valenza
cromatica grazie alla paradigmatica dell’abbigliamento medievale, messa in atto sin dalle primissime pagine del romanzo. È
50
Goethe, op. cit., pp. 5-6.
L’eterogeneità dello spazio utopico
169
chiaro che Morris, sempre attento a recuperare il carattere primitivo della sua immaginazione creatrice, adotta una cosmologia utopica depositaria di profondità intime e misteriose. Non a
caso, proprio il binomio archetipico terra/fuoco 51 , che riporta
alla mente antiche procedure alchemiche – secondo cui il fuoco
con il suo principio attivo non solo “riassume tutte le azioni della natura”52, ma rappresenta il “vero proteo della valorizzazione”53 umana – postula una rêverie de la volonté morrisiana. Facendo leva su cromie vulcaniche e minerali (red bricks, grey
stone houses), appartenenti alle sostanze terrestri, l’alchimista
vittoriano realizza sogni di libertà, volontà e potenza:
La rêverie de la volonté a, en effet, pour fonction directe de nous donner confiance en nous-mêmes, confiance en notre puissance laborieuse. Elle dramatise, si l’on ose dire, notre liberté […]. Si l’on voit la
liberté au travail, dans la joie du libre travail on en éprouve la détente54.
D’altra parte, anche la continuità delle immagini dinamiche
dell’acqua e dell’aria rimandano ai principi di libertà e leggerezza che chiamano in causa l’elevazione della nuvola bianca
(“pearly white cloud”, NFN, p. 157) e la narcisistica bellezza
del corso d’acqua. Se è vero che “le nuage nous aide a rêver la
transformation” 55 è altrettanto vero che il “bright blue river”
morrisiano possiede un linguaggio che gli uomini comprendono
51
Sull’interazione immaginifica tra terra e fuoco si veda Gaston Bachelard, La terre et les rêveries de la volonté, Paris, Corti, 2004 e in particolare il
capitolo “Les cristaux. La rêverie cristalline” ove leggiamo: “Les pierreries
peuvent devenir les images d’une gerbe de feux multicolores. […] Par bien
des côtés, le phénix, l’oiseau du feu, est un bloc de pierreries volantes. […]
Ainsi les pierreries sont des flammes multicolores, des flammes mouvantes,
des flammes volantes. Un feu intime les anime, préparant les métaphores de la
vie” (pp. 290-292).
52
Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, cit., p.
196.
53
Ibid.
54
Bachelard, La terre et les rêveries de la volonté, cit., pp. 96-97.
55
Gaston Bachelard, L’Air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement, Paris, Corti, 2007, p. 240.
170
Capitolo III
naturalmente, una “still, sad music of humanity” wordsworthiana tesa a restituire alle cose il loro valore oracolare56. Nella purezza ideale del bianco aereo e del blu equoreo, l’io esperiente
nowheriano ritrova uno spirito naturale di rinnovamento, privo
di qualsivoglia lotta per la verticalità (complesso di Atlante)57 o
della psicologia violenta del mito di Serse58. Al centro di questo
caleidoscopio archetipico, si colloca una variopinta umanità
medievale, caratterizzata da vesti e paramenti di fine lavorazione artigianale in grado di sancire il valore etico del rapporto
uomo-ambiente. La possibilità di un recupero della totalità perduta marca tutte le sezioni descrittive di NFN che, mettendo in
primo piano il senso di aggregazione e la socialità degli individui, stabilisce una continuità assiologica tra la cromia ipersemantizzata e la dignità architettonica del milieu nowheriano:
As to their dress, which of course I took note of, I should say that they
were decently veiled with drapery, and not bundled up with millinery;
[…]. In short, their dress was somewhat between that of the ancient
classical costume and the simpler forms of the fourteenth-century
garments, though it was clearly not an imitation of either […]. As to
the women themselves, it was pleasant indeed to see them, they were
so kind and happy-looking in expression of face, so shapely and wellknit of body and thoroughly healthy-looking and strong. […]. They
came up to us at once merrily and without the least affectation of shyness, and all three shook hands with me as if I were a friend newly
come back from a long journey: though I could not help noticing that
they looked askance at my garments; for I had on my clothes of last
night, and at the best was never a dressy person (NFN, Ch. III, “The
Guest House and Breakfast Therein”, p. 13).
56
Cfr. Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e
rinascita, cit., p. 215.
57
Sul complesso di Atlante si veda quanto scritto da Bachelard: “Atlas est
le héros de la lutte de verticalité […]. Il représente l’attachement à des forces
spectaculaires et – caractère très particulier – à des forces énormes inoffensives, voire a des forces qui ne demandent qu’à aider le prochain” (Bachelard,
La terre et les rêveries de la volonté, cit., pp. 341, 347).
58
Come è noto, in seguito a una tremenda tempesta che devastò numerose
imbarcazioni, il re Serse ordinò di punire il mare (l’Esponto) con trecento frustrate. Tali violenze insensate rimandano a una psicologia del risentimento,
della vendetta simbolica e indiretta.
L’eterogeneità dello spazio utopico
171
Almost everybody was gaily dressed, but especially the women, who
were so well-looking, or even so handsome, that I could scarcely refrain my tongue from calling my companion’s attention to the fact.
Some faces I saw that were thoughtful, and in these I noticed great
nobility of expression, but none that had a glimmer of unhappiness,
and the greater part (we came upon a good many people) were frankly
and openly joyous (Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 20).
But its best ornament was the crowd of handsome, happy-looking men
and women that were set down to table, and who, with their bright
faces and rich hair over their gay holiday raiment, looked, as the Persian poet puts it, like a bed of tulips in the sun. (NFN, Ch.
XXXII,“The Feast’s Beginning – The End”, p. 179).
È proprio l’intreccio delle individualità a mettere a nudo la praticabilità testuale del programma ideologico morrisiano che desidera guardare all’uomo come espunzione del dato negativo
dallo spazio vitale. Che si tratti di una locanda, di un mercato o
di una chiesa, quello che lo scrittore vuole sottolineare è la felicità derivante dalle cose semplici, il fatto che l’uomo è la misura di tutte le cose assurgendo a decorazione, ornamento vivente
rispetto a un tutto perfetto eppure impalpabile. A tal riguardo ha
ragione il poeta persiano quando assimila la figuralità umana a
“un campo di tulipani sotto il sole” che, grazie all’intrinseco potere evocativo del fiore variopinto simbolo dell’amore, riesce ad
avviare quella poetica visiva in grado di restituire l’immagine di
Morris come di un uomo semplice che usa materiali semplici.
Ed è per questo che, sic et simpliciter, le sensibilità artistiche di
W. B. Yeats, Rudyard Kipling, J. R. R. Tolkien, Ken Loach, e
di molte altre voci autorevoli del passato e del presente, hanno
attinto alla poetica della rêverie morrisiana, le cui porte della
percezione si aprono su un mondo intriso di medievalismo utopico, depositario degli strumenti ideologi necessari ad attualizzare una mistica ascesa dell’uomo verso il trionfo dell’arte.
Bibliografia
La presente bibliografia non ha alcuna pretesa di essere esaustiva e comprende le opere effettivamente consultate per l’oggetto
di questo studio. In tal senso, si sono segnalati quei testi che
hanno una maggiore attinenza con l’utopia e il medievalismo
caratterizzanti il macrotesto morrisiano.
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Indice dei nomi
Abrams, M. H., 51n
Adams, Robert M., 39n
Alighieri, Dante, 30n, 87n, 88n
Andreotti, Roberto, 7, 45n
Argan, Carlo, 131
Arnold, Matthew, 31n, 57n, 59n, 62n
Atlick, R. D., 38n
Bachelard, Gaston, 57n, 58n, 77n, 97,
97n, 134n, 169n, 170n
Bachtin, Michail, 21, 21n, 23n, 93,
93n
Bacon, Francis, 9
Baldini, Gabriele, 80n
Baldini, Massimo, 57n
Ball, Philip, 33n
Barringer, Tim, 85, 85n
Bellamy, Edward, 15, 45, 45n, 48,
Looking Backwards, 42, 45, 45n,
46, 47, 47n
Benjamin, Walter, 106, 106 n
Bentley, D. M. R., 87n
Biddick, Kathleen, 61n, 62, 62n
Bigliazzi, Silvia, 7
Billi, Mirella, 41n
Blake, William, 74, 136, 136n
Bloom, Harold, 43, 43n, 62n
Boccaccio,
Giovanni,
87n,
Il
Decamerone, 87n
Boos, Florence S., 21n, 49n, 55, 56n,
64n, 159n
Bradbury, Malcolm, 27n, 28n
Bradbury, Bruce, 69n
Braesel, Michaela, 62n
Brownlee, Marina S., 61n, 74, 75n
Buchan, John, 101n
Burden, Jane, 22, 22n, 86, 87n
Burne-Jones, Edward, 84, 87n, 163,
164, 165n
Butler, Samuel, 15, 45, 45n, 47n, 62n,
105n, Erewhon, 45, 45n, 46, 47,
47n, 48
Buxton, John, 101n
Buzard, James, 104, 105n
Calvino, Italo, 10, 11, 11n, 12, 13,
126, 127n
Carlyle, Thomas, 20, 31n, 37n, 38,
38n, 39, 60, 62n, Past and
Present, 38
Carter, Lin, 78n
Cattabiani, Alfredo, 138n, 147n, 148n
Chandler, Alice, 12n, 13n
Chapman, Raymond, 37n
Chaucer,
Geoffrey,
59,
The
Canterbury Tales, 59
Coleman, Roger, 24, 24n, 57n
Coleridge, Henry Nelson, 91n
Coleridge, John Taylor, 91n
Coleridge, Samuel Taylor, 51n, 91,
91n, 92n
Colli, Giorgio, 44n
Constable, John, 133, 133n
Coote, Stephen, 30n, 51n
Cornforth, Fanny, 22n, 87
Corona, Daniela, 41n
Corrado, Adriana, 48n, 93n
Costantini, Mariaconcetta, 7
Cowper, William, 35, The Task, 35,
35n
Craig, W. J., 105n, 153n
Curti, Lidia, 41n
De Fusco, Renato, 17, 17n, 151, 151n
Di Piazza, Elio, 41n, 152n
Dugdale, John, 47n
Ebbatson, Roger, 7
Elia, Mario Manieri, 100n
200
Indice dei nomi
Eliot, Thomas Stern, 92n, “Little
Gidding”, 92, Four Quartets, 92n,
The Waste Land, 131n
Elliott, Robert C., 40n
Ettorre, Emanuela, 8
Fairly, Barker, 32n
Faulkner, Peter, 7, 26n, 36n, 57n, 163,
163n
Fay, Elizabeth, 60, 60n
Fellman, Michael, 118, 118n
Fliess, Wilhelm, 152, 152n
Fortunati, Vita, 7, 41n, 54n, 93n
Foucault, Michel, 59, 59n, 65, 66n,
80n
Fourier, Charles, 45n
Frampton, Kenneth, 141n
Freud, Sigmund, 80n, 83n, 85, 86n,
88n, 152, 152n
Fromm, Eric, 16, 111, 112n
Frost, Robert, 146n
Frye, Northrop, 36n, 37n
Gabrieli, Vittorio, 105n
Gagnier, Regenia, 7
Garth, John, 82n
Ghiotto, Renato 126n
Gill, Stephen, 51n
Goethe, Johann Wolfgang, 16, 32,
32n, 134n, 140n, 168, 168n
Gopen, George, 7, 163n
Goya, Francisco, 116, 117
Gray, Thomas, 131, Elegy Written in
a Country Churchyard, 131
Gunn, Tom, 155n
Hamilton, Jill, duchessa di, 86n
Hart, Penny, 86n
Harvey, Charles 38, 39n
Hawthorne, Nathaniel, 15, 45, 47n,
The Blithedale Romance, 42, 45
46n, 47n, 48
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich,
145n
Hodgson, Amanda, 29n, 113, 113n
Hough, Graham, 51n
Howells, Coral Ann, 7
Hughes, Ted, 154, 155n, “The
Horses”, 154-156
Hunt, William Holman, 85, The
Scapegoat, 85
Johnson, Samuel, 111, 111n, The
History of Rasselas, Prince of
Abissinia, 111, 111n
Jung, Carl Gustav, 30, 30n
Keats, John, 13, 51n
Keynes, Geoffrey, 136n
Kingsley, Charles, 37, 37n, 39
Kingsley, F. E., 37n
Kinna, Ruth, 36n
Kipling, Rudyard, 137n, 171
Kirchhoff, Frederick, 64, 64n
Klee, Paul, 106
Kumar, Krisham, 48n, 93, 93n
Latham, David, 7
Le Quesne, A. L., 30, 31n
LeMire, Eugene D., 40n
Leopold, David, 10n, 47n
Lewis, Roger, 40n
Lindsay, Jack, 89, 89n
Links, J. G., 146n
Loach, Ken, 171
Lodge, David, 95, 96n
Logan, George M., 39n
Longfellow, Henry Wadsworth, 146,
146n, “Giotto’s Tower”, 146
Lotman, Jurij M., 20n, 27n, 44n, 45
MacDoanld, Alexander, 138n, 139n
Malory, Thomas, 30n, 59, 59n, Le
Morte D’Arthur, 59, 59n
Manferlotti, Stefano, 118n
Mann, Nancy D., 78n
Mann, Thomas, 9
Marchese, Angelo, 93n
Margoliouth, H. M., 136n
Mariani, Andrea 7, 146n
Marroni, Francesco, 7, 17n, 18n, 32,
32n, 46n, 88n
Marsh, Jane, 154, 154n
Marucci, Franco, 7, 38n
Marvell, Andrew, 136, 136n
Masson, J. M., 152n
Indice dei nomi
Maxwell-Stuart, P. G., 80n
McMaster, Rowland 52, 52n
Merwin, William Stanley, 146n
Miele, Chris, 60n
Mill, John Stuart, 21, 62n, On Liberty,
21, 21n
Mineo, Ady, 109, 109n
More, Thomas, 39, 39n, 45n, Utopia,
39, 39n, 40, 45n
Morgan, Thaïs, 160n
Morris, May, 53n, 86
Morris, William, “The Aims of Art”,
23, 23n, “Architecture and History”,
60, 60n, 66, 67, 67n, “The Art of
the People”, 142-143, 143n, “The
Blue Closet”, 160-162, “The
Beauty of Life”, 30, 30n, 70, 70n,
“The Churches of North France:
The Shadows of Amines”, 64,
The Defense of Guenevere, 20,
21n, 59, “The Development of
Modern Society”, 60n, A Dream
of John Ball, 20, 21, 37n, 122, 123,
123n, “Of Dyeing as an Art”, 33,
33n, The Earthly Paradise, 20,
21n, 53n, 59, 81, 82, 87n, 114, 114n,
“Gothic Architecture”, 63, 63n, “The
Hopes of Civilization”, 25n, 28,
28n, 63, 63n, The House of the
Wolfings, 20, 54n, 81, 81n, “How
I Became a Socialist”, 39n, “The
Lesser Arts of Life”, 61, 61n, 166,
166n, Love is Enough, 20, “Making
the Best of It”, 128, 128n, News
from Nowhere, 10, 10n, 12, 13, 14,
16, 20, 22n, 24n, 25n, 28n, 34n,
37n, 39, 39n, 40, 40n, 41n, 44,
44n, 45, 46, 48, 48n, 49, 51n, 52,
52n, 53, 53n, 54, 57, 57n, 58, 65,
67-74, 75, 75n, 76, 76n, 91-122,
125-171, The Pilgrims of Hope, 20,
21n, 25, “The Prospects of
Architecture in Civilization”, 66,
66n, The Roots of the Mountains,
20, 82n, The Story of The
201
Glittering Plain, 53n, “The Story
of the Unknown Church”, 34n, 64,
Signs of Change, 23n, 28, 63n, 122n,
“Vandalism in Italy”, 66, The
Water of the Wondrous Isles, 78n,
79-80, The Well at The World’s
End, 21, 60, 60n, 76, 76n, 77n, 78,
79n, The Wood Beyond the World,
20, 21, 78n, 79, 82n, 167
Mucci, Clara, 7
Nelson, William, 56n
Nichols, H. S., 56n
Nixon, Jude, 7
Oliva, Gianni, 7
Orwell, Gorge, 118n, Nineteen
Eighty-Four, 118n
Partenza, Paola, 8
Payne, John, 71n
Peel, J. D. Y., 103n
Pevsner, Nikolaus, 63n
Planca, Elisabetta, 23n
Pollard, Arthur, 119n
Poulson, Christine, 33n
Preston, Peter, 36n
Prettejohn, Elizabeth, 22n, 29n, 87n,
165n
Propp, Vladimir Ja., 153n
Rizzardi, Biancamaria, 7
Röderer, Johann Gottfried, 32n
Rosebury, Brian, 82n
Rossetti, Christina, 84, 88n, Monna
Innominata, 88n
Rossetti, Dante Gabriel, 22, 22n, 23,
29n, 30, 30n, 31, 51n, 69, 84, 85,
86, 87n, 88, 88n, 89, 119, 160n,
Astante Syriaca, 22, Beata
Beatrix, 22, Bocca Baciata, 87,
Lady Lilith, 22, La Pia de’ Tolomei,
22, Mariana, 22, Proserpina, 22,
Sibylla Palmerifera, 22, Sogno a
occhi aperti, 22, Venus Verticordia,
88
Rossetti, William Michael, 69n, 84n,
88n
202
Indice dei nomi
Ruskin, John, 20, 23n, 29n, 31n, 34n,
37n, 38, 38n, 39, 41, 51n, 62, 62n,
64, 119, 135, 143, 143n, 145,
146n, 149, 149n, “The Nature of
Gothic”, 38, Seven Lamps pf
Architecture, 64, The Stones of
Venice, 23n, 143, 143n, 146n, 149,
149n
Salinger, Jerome David, 152n
Sambrook, James, 119, 119n
Saracino, Marilena, 8
Scaffidi Abbate, Mario, 126n
Schmidt, Esther, 69n
Schopenhauer, Arthur, 44n
Scott, Walter, 13, 51n
Schulte, Edvige, 164n
Sette, Miriam, 8
Shakespeare, William, 60n, 80, 80n,
91, 105n, 153n, Anthony and
Cleopatra, 153, 153n, Henry IV,
91, Henry VIII, 105, 105n, Richard
III, 153, 153n, The Tempest, 80,
80n
Shaw, Christopher, 24, 24n
Shippey, Tom, 78n, 82n
Siddal, Elizabeth, 22n, 30, 30n
Silver, Carole, 27n
Simmons, John, 86n
Simons, John, 59n
Smith, Lindsay, 34n
Soccio, Enrichetta, 8
Southey, Robert, 59n
Spencer, Herbert, 103, 103n
Spenser,
Edmund,
56,
56n,
“Prothaliamon”, 56
Sportelli, Annamaria, 115n
Stevenson, Robert Louis, 136, 136n
Sweet, Matthew, 29n
Swinburne, Algernon, 51n, 58, 58n, 59n
Tanner, Tony, 47n
Tennyson, Alfred, 51n, 59n, “The
Lady of Shalott”, 159
Thompson, E. P., 19, 20n, 45n, 91n
Thompson, Paul, 25n, 32, 32n, 38,
38n, 57n
Todd, Pamela, 87n
Tolkien, Christopher, 83n
Tolkien, J. R. R., 77, 77n, 82, 82n, 83,
The Hobbit, 82, The Lord of the
Rings, 77n, 78, 83n
Turghenieff, Ivan, 120, 121n
Tzara, Tristan, 58
Uspenskij, Boris A., 44n
Walton, Izaak, 101, 101n, The Compleat
Angler, 101n
Warner, Eric, 51n
Waters, Michael, 35n, 42n
Webb, Philip, 87n, 141, 141n
Weintraub, Stanley, 69n, 86n, 87n
Weisl, Angela Jane, 60, 61n
Wells, H. G., 40
Whitman, Walt, 146n
Wilde, Oscar, 28, 28n, 36, 36n, 56n
Wilmer, Clive, 22n, 51n
Wordsworth, William, 32n, 50, 51n,
52, 92n, 98, 98n, 111, The
Prelude, 51, 51n, 111, “Upon
Westminster Bridge”, 97-99
Yeats, William Butler, 164n, 171
Zazo, Anna Luisa, 105n
Studi di Anglistica
collana diretta da
Leo Marchetti e Francesco Marroni
1. Topografie per Joyce
a cura di Leo Marchetti
2. The Poetry of Matthew Arnold
Renzo D’Agnillo
3. La letteratura vittoriana e i mezzi di trasporto:
dalla nave all’astronave
a cura di Mariaconcetta Costantini, Renzo D’Agnillo, Francesco Marroni
4. Great Expectations: nel laboratorio di Charles Dickens
a cura di Francesco Marroni
5. John Ruskin: ricerca estetica e mito di Venezia
Michela Marroni
6. “Hid as worthless rite” Scrittura femminile nell’Inghilterra di re
Giacomo: Elizabeth Cary e Mary Wroth
Massimo Verzella
8. William Morris tra utopia e medievalismo
Eleonora Sasso
Finito di stampare nel mese di ottobre del 2011
dalla « Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
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