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8 Studi di Anglistica
Studi di Anglistica collana diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni A10 129/8 8 Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie Università degli Studi “G. d'Annunzio” di Chieti-Pescara Eleonora Sasso William Morris tra utopia e medievalismo Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1361–8 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: ottobre 2007 Indice Ringraziamenti 7 Introduzione 9 Capitolo I William Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 1.1. Morris e la costruzione di un nuovo modello di artista 19 1.2. Verso una topologia ideale 39 1.3. Morris e le istanze del medesimo 58 1.4. Il regno del fuoco 74 Capitolo II Tempo, temporalità e storia 2.1. Modelli di temporalità in News from Nowhere 2.2.Quasi come uno storico vittoriano 91 104 Capitolo III L’eterogeneità dello spazio utopico 3.1. Dalla struttura triadica temporale alla triplice visione spaziale 3.2. Cromatismo spaziale: la funzione modellizzante del colore 3.3. Uomo e ambiente: Morris e le strutture del sentire 132 157 Bibliografia 173 Indice dei nomi 199 125 Ringraziamenti Questo volume nasce nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Anglistica presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, ove ho avuto il privilegio di conoscere il Prof. Francesco Marroni, Direttore del Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie e della Collana “Studi di Anglistica”. Rivolgo a lui, al maestro di rara sensibilità estetica e al fine conoscitore della cultura anglosassone, la mia più profonda e sincera gratitudine. Senza il suo incoraggiamento a proseguire sulla via del confronto letterario, senza gli insegnamenti di rigore scientifico ed onestà intellettuale, non avrei trovato lo stimolo giusto e la forza necessaria per portare a termine questo lavoro che cerca di applicare la raffinata arte dell’interpretazione. Vorrei anche esprimere la mia riconoscenza al Prof. Andrea Mariani, per avermi coinvolta nelle sue attività scientifiche, offrendomi opportunità di crescita culturale. Un ringraziamento particolare va al Prof. Gianni Oliva, il quale, avendo creduto nelle mie capacità di traduttrice, mi ha consentito di ampliare la conoscenza del mondo vittoriano. A Roberto Andreotti, Direttore di Alias, sono grata per le occasioni di approfondimento critico-letterario sulle pagine della pregevole rivista. Per l’interesse e l’incoraggiamento nei confronti della mia attività di ricerca, desidero rivolgere il mio sentito ringraziamento ai Proff. Silvia Bigliazzi, Mariaconcetta Costantini, Peter Faulkner, Vita Fortunati, Coral Ann Howells, David Latham, Franco Marucci, Clara Mucci e Biancamaria Rizzardi. Fra i vari studiosi con i quali ho avuto l’onore di confrontarmi, non posso dimenticare Roger Ebbatson, Regenia Gagnier, George Gopen e Jude Nixon, ai quali devo alcuni interessanti suggerimenti bibliografici. 8 Ringraziamenti Un profondo grazie va inoltre al Dipartimento di Scienze Linguistiche e Letterarie, e in particolare a Emanuela Ettorre e Miriam Sette per l’affetto e il sostegno dimostrati nel corso degli anni. Vorrei anche esprimere la mia stima sincera a Paola Partenza, Marilena Saracino e Enrichetta Soccio. Non ultimo, il mio grato pensiero va alla William Morris Society, un’associazione tesa alla divulgazione internazionale del prezioso patrimonio estetico-culturale morrisiano, per me fonte inesauribile di stimoli bibliografico-letterari. Dedico questo libro ai miei genitori e a mio fratello Stefano. Pescara, maggio 2007 Introduzione If a man will begin with certainties, he shall end in doubts; but if he will be content to begin with doubts, he shall end in certainties. — Francis Bacon, The Advancement of Learning Die Zeit hat in Wirklichkeit keine Einschnitte, es gibt kein Gewitter oder Drommetengetön beim Beginn eines neuen Monats oder Jahres, und selbst bei dem eines neuen Säkulums sind es nur wir Menschen, die schiessen und läuten. — Thomas Mann, Der Zauberberg Tramontate le speranze di progresso di un secolo, alla sensibilità artistica di uno scrittore non rimane che prendere atto delle qualità intellettuali e morali che sanciscono i caratteri costitutivi dell’episteme contemporanea. L’impossibilità di un recupero della totalità perduta risulta racchiusa in un mondo che pare incapace di applicare quei principi di vita, atti a delineare i confini di uno spazio mentale ideologicamente gratificante. L’alba di un nuovo viaggio letterario si presenta come una tela bianca su cui dipingere i segni del passato e del presente, non già per sancire la loro definitiva separatezza, ma per collegarli, pur tra dubbi e incertezze assiologici. Si tratta di una superficie con una voce e una memoria che, priva di restrizioni dialogiche, si estende lungo l’asse immaginario della mente dell’artista in grado di affermare istanze di rinascita. Quello che si spalanca agli occhi di William Morris – poeta, scrittore, artigiano, rappresentante socialista volto a trascinarsi nella sua incessante e instancabile missione etica – è un abisso temporale, locus di una rovina morale, da cui riemergere con la convinzione che l’unica virtù verso cui tendere sia la speranza. 10 Introduzione In tale atteggiamento, e alla luce delle vicende storicosociali che lo vedono già profondamente impegnato nella lotta contro la tensione distruttiva e denigratoria vittoriana, Morris sembra in parte collegarsi a un altro personaggio della liminarità, un uomo consegnato alla soglia esistenziale del nuovo millennio che si trova segregato in una realtà che impone una redifinizione dell’orizzonte estetico-letterario. Qui si allude a Italo Calvino a cui spetta dare un ordine alla confusione ontologica, non meno dell’artista preraffaellita, suggerendo che l’elaborazione di un messaggio identitario è innanzi tutto conseguenza della crisi spirituale della coscienza collettiva. E tanta apertura, o se si vuole chiusura, verso il mondo esterno viene messa in evidenza dalla peculiare intertestualità tra quelle due opere, caratterizzate da una compatta tramatura semantica intorno al motivo dell’innovazione, che, significativamente, sembrano postulare l’immagine di un’anima sensibile intenzionata a restare se stessa, innalzando barriere contro chi tenta di stabilire una forma di trasgressione artistico-formale. Nel 1988 esce la prima edizione delle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio di Calvino, una summa di valori ideali – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità – che rappresentano la raison d’être di ogni modello letterario, la formula estetica umanamente vitale e insieme la chiave di lettura privilegiata dallo scrittore per recuperare l’autenticità dei sentimenti nell’arte narrativa. Emblematicamente, un secolo prima Morris è impegnato nella stesura del romanzo utopico, News from Nowhere 1 (1890, d’ora in poi NFN), che sancisce il trionfo del suo umano sentire, visto che le parole attribuite al protagonista della vicenda sono in realtà le parole della sua coscienza. A partire dal primo enunciato calviniano, lo scrittore vittoriano dà vita a una poetica della leggerezza che si espleta come “sottrazione di peso alle figure […] 1 Tuttle le citazioni relative a questo romanzo faranno riferimento all’edizione William Morris, News from Nowhere or An Epoch of Rest. Being Some Chapters From a Utopian Romance, ed. David Leopold, Oxford, Oxford University Press, 2003. Introduzione 11 alle città […] alla struttura del [romanzo] e al linguaggio” 2 , connotando in termini positivi il valore della leggerezza. Per cui, se pensiamo al fatto che Morris attribuisca un enorme valore modellizzante al passato medievale e a quegli scrittori in grado di attivare un fitto dialogismo con l’episteme del quattordicesimo secolo, allora troviamo conferma nell’ideale moderno secondo cui le opere del passato assurgono a pietra di paragone in termini di leggerezza. E questo, non perché vuole rifugiarsi nel sogno irrazionale, ma per “guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che […] cerc[a] non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…” (LA, p. 12). Ciò che si delinea è una levità che, così come viene veicolata nella scrittura, ripercorre i meandri della mente, della pensosità morrisiana intesa a costruire un’idea di lavoro piacevole, quasi a volerne garantire il divertimento derivante dalla sua valenza artistico-creativa. Di nuovo, quello che s’impone è la centralità del termine leggero che, da un punto di vista attanziale, risulta perfettamente in parallelo con quanto enucleato da Calvino, laddove i personaggi nowheriani si presentano come “raggi luminosi, immagini ottiche […] entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce” (LA, p. 17). La totalità umana, diviene una totalità luminosa – e questa utopia solare si rispecchia nella fisiognomica, più precisamente nell’abbigliamento ridotto all’essenziale, indice esponenziale dell’estetica professata da Morris. 2 Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 2001, p. 7. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine procedute dalla sigla LA. È appena il caso di ricordare che tale raccolta di saggi letterari è il risultato di un assiduo lavoro intrapreso al fine di onorare l’invito a partecipare alle Charles Eliot Norton Poetry Lectures, ciclo di conferenze tenute all’Università di Harvard. Purtroppo, la morte colse Calvino proprio mentre stava completando le sue lezioni ed ecco il motivo per cui delle sei comunicazioni sono rimaste solo cinque. 12 Introduzione Ma, ancor di più, è nel modo di muoversi nel nuovo mondo che si registra la gravità senza peso resa attraverso le immagini figurali del battello che scorre sulle acque del Tamigi, come della carrozza trainata da un cavallo grigio. Ad agire è la stessa volontà calviniana tesa ad alleviare “l’insostenibile peso del vivere” (LA, p. 30) con “immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta […], la trasparenza dell’aria” (Ivi, pp. 31-32). Un’altra ipotesi di lettura è quella della rapidità riferita alla scrittura e al suo tempo narrativo, sempre e comunque racchiuso dalla carica semantica di un oggetto, “legame verbale […] che stabilisce una continuità tra diverse forme d’attrazione” (LA, p. 40). Ammettendo un simile approccio, NFN diventa la trascrizione temporale di eventi storici ricondotti entro i limiti di correlativi oggettivi (abito, moneta, ponte) miranti a dare un’idea circa il dinamismo assiologico presente nell’utopia morrisiana. La congiunzione di tre istanze temporali, oltre a scandire un ritmo sostenuto, presuppone una velocità mentale che implica “prontezza di adattamento, agilità dell’espressione e del pensiero” (LA, p. 47). È questa un’apologia della rapidità che Calvino esprime molto chiaramente quando, tra le altre cose, asserisce il primato del ragionamento veloce volto a “comunicare qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza” (LA, p. 53). Così nei romanzi d’avventura, nelle fiabe e, aggiungerei, nelle utopie, quello che conta è un’energia interiore connessa alla “rapidità dello stile e del pensiero […] [nonché all’]agilità, mobilità, disinvoltura; tutte qualità che s’accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo certe volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte” (Ibid.). Particolare rilievo simbolico assume il paradigma dell’esattezza che diventa molto più che una trama ben definita o l’ideazione di immagini visuali nitide e incisive: essa acquista lo spessore temporale dell’ordine medievale3 in cui si convergono e si ac3 Sulla funzione ordinatrice del periodo medievale si veda quanto scritto da Alice Chandler: “A single, central desire – to feel at home in an ordered yet Introduzione 13 cavallano fittamente suggestioni e visioni gotiche che nel momento stesso in cui sanciscono la loro indelebilità nella memoria di Morris, parlano di qualcos’altro. Parlano una lingua incentrata sulla forma e sul dettaglio che apre squarci di verità sulla condizione disforica ottocentesca facendo dell’“opera letteraria […] una di queste minime proporzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo” (LA, p. 78). E allora, così come Calvino fa assurgere la città a “simbolo complesso […] [per] esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze […] [e] concentrare su un unico simbolo le [sue] riflessioni, le [sue] esperienze, le [sue] congetture” (LA, p. 80), allo stesso modo Morris, maestro incontrastato nell’arte meticolosa del floral pattern, raffigura una città-giardino, modello di perfezione e armonia urbanistico-sociale. Quello che risalta ad una prima lettura è la connotazione fortemente visuale di NFN che stabilisce una precisa connessione con la visibilità moderna, vale a dire “immaginazione come repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere” (LA, p. 102). Più precisamente, l’utopia morrisiana, oltre a stabilire un legame realistico con la società vittoriana, mostra un nessun luogo idilliaco e alternativo come risultato di un immaginario alimentato alle atmosfere di Scott, Keats e soprattutto di Wordsworth. A questa visualizzazione corrisponde la messinscena di tematiche rossettiane, mediante quel rapporto ossessivo-repulsivo che lega il maestro al suo discepolo in parte rispecchiando quanto affermato da Calvino: “[l’]iconologia fantastica è diventata il mio modo abituale di esprimere la mia grande passione per la pittura organically vital universe. […] The Middle Ages were idealized as a period of faith, order, joy, munificence, and creativity […] became a metaphor both for a specific social order and, somewhat more vaguely, for a metaphysically harmonious world view (Alice Chandler, A Dream of Order. The Medieval Ideal in Nineteenth-Century English Literature, London, Routledge and Kegan Paul, 1982, p. 1). 14 Introduzione […] partendo da quadri famosi della storia dell’arte” (LA, p. 106). Per di più, NFN si presenta visivamente come un’“esperienza di confine”, essendo Morris “ora visionario ora realista, ora l’uno e l’altro insieme sempre come trascinato dalla forza della natura” (LA, p. 107), e questo perché “Tutte le ‘realtà’ e le ‘fantasie’ possono prendere forma solo attraverso la scrittura, […] [in cui] esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale” (LA, p. 110). Passando al valore della molteplicità, notiamo come NFN possa essere definito “romanzo come conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo” (LA, p. 116), proprio perché il mondo nowheriano si offre come “‘sistema di sistemi’, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato” (ibid.). In questo caso, allora la tripartizione topologica utopica è veramente un differire da qualsivoglia altro romanzo del genere, una strategia di differimento coadiuvata da una “inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che corrono a determinare ogni evento” (ibid.). Al lettore è deferito un susseguirsi di ambientazioni – cittàgiardino, fiume, Casa Rossa, campagna, “casa grigia” – che nel contesto di un romanzo costruito sulla deformazione del reale, appare come l’unico itinerario ermeneutico possibile: “ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventano infinite. Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti” (LA, p. 117). Ed è su questo elemento, con forte marca polisemantica, che si costruisce la denuncia metaforica di una condizione drammatica: “ciò che conta non è il suo chiudersi in una figura armoniosa, ma è la forza centrifuga che da esso si sprigiona, la pluralità dei linguaggi come garanzia d’una verità non parziale” (LA, p. 127). Ora, Morris dà corpo proprio a questa idea, tessendo insieme diversi saperi e codici (urbanistico, architettonico, cromatico) in una visione plurima del mondo fantastico a cui perviene. Se è Introduzione 15 giusto dire che per lo scrittore vittoriano si dà una “idea di tempo determinato dalla volontà, in cui il futuro si presenti irrevocabile come il passato e infine l’idea […] di un tempo plurimo e ramificato in cui ogni presente si biforca in due futuri” (LA, p. 130), allora quello che rimane è “[l]a conoscenza come molteplicità”, “il filo che lega le opere maggiori” (LA, p. 126), quasi a enfatizzare il fatto che “[o]ggi non è pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima” (LA, p. 127). Il procedimento ermeneutico da cui muove l’esplorazione delle opere morrisiane fa leva sui criteri di unicità e originalità rintracciabili non solo nella personalità poliedrica dello scrittore preraffaellita, ma anche e soprattutto nelle sue scelte esteticoletterarie. Perché la decorazione invece della pittura? Perché un’utopia ibrida invece di una rappresentazione ideale monologica in linea con le topologie classiche? Perché una forte intertestualità wordsworthiana invece dell’attestata influenza keatsiana? Se da un lato si può dire che la sua posizione ideologica nella confraternita assumi un ruolo dominante relativamente tardi, dall’altro mi pare innegabile che, grazie alla teoria della dinamica dei sistemi culturali lotmaniani e alla natura dialogica dell’idea bachtiniana, si possa distinguere una peculiarità rivoluzionaria non ancora indagata nelle sue plurime accezioni. Basti solo pensare alla tradizione utopistica del diciannovesimo secolo, nella fattispecie a Hawthorne, Butler e Bellamy, per rendersi conto che, facendo leva sulla dialettica hegeliana, Morris dispiega una funzione assiologicamente perfetta e irripetibile. Per non dire poi della scelta evocativa del fiume, topologia privilegiata ove non solo avviene la vera e inconsapevole rigenerazione umana, ma si configura una semiosfera capace di stabilire un rapporto dialogico tra la città e la campagna. Ancora più sorprendente appare la rivisitazione morrisiana del Medioevo sotto il segno di un primitivismo elementare, intriso di una mitologia nordica che si manifesta attraverso una poetica della semplicità volta ad assicurare la fratellanza umana. Adottando la prospettiva archeologica foucaultiana è possibile rintracciare un’estetica emulativa delle istanze medievali, quasi una ricerca donchisciottesca delle similitudini con il passato ar- 16 Introduzione caico. A rafforzare il contrasto tra pulsioni di vita e di morte intervengono la stregoneria, la dragonologia e il totemismo capaci di restituire l’immagine di un universo folklorico ove l’archetipo del fuoco assume plurime valenze ritualistiche. Non può nemmeno sfuggire come ad un’attenta lettura temporale di NFN si registri una frammentazione in tre diacronie interne a partire da tre codici semantici relativi all’abbigliamento, all’architettura e alla numismatica. L’evocazione di una simile dissolvenza dimensionale, se da un lato rimanda al primato estetico del Ponte Vecchio di Firenze come espressione di armonia, dall’altro mette in risalto la legge evolutiva spenceriana incentrata su un processo di differenziazione che va dall’indefinito al coerente, dalla felicità utopica all’infelicità vittoriana. In tale prospettiva, mi pare oltremodo significativo il ruolo assunto dal vecchio Hammond, storico ufficiale di Nowhere, una sorta di Angelus Novus benjaminiano, il quale dà corpo al convincimento del tutto negativo che nella realtà passata i miti di progresso hanno solo portato sofferenza e distruzione. Pertanto, assumendo la prospettiva utopica dell’hic et nunc di Fromm, non resta che prendere atto del rapporto positivo che Morris instaura con la storia, in termini di rispetto e agnizione letteraria. Nel caso di NFN, non si può fare a meno di notare come a un’articolazione temporale triadica corrisponda una tripartizione topologica (ponte-giardino-slums) che, in combinazione con il potere evocativo del colore, dà vita a un movimento di focalizzazione tematica derivante dalla commistione di plurime dimensioni assiologiche. Dall’incontro-scontro di un ideale di bellezza architettonica medievale con l’epitome degradato e degradante del mondo vittoriano, deriva la città-giardino nowheriana che si colloca sotto il segno di un desiderio di rigenerazione tanto impellente da evocare fantasticamente l’isotopia di un verde così come la concepisce Goethe, vale a dire percezione della mente. Ponendo l’accento sulla simbologia dei colori, s’intende collocare in primo piano la forza suggestiva del mattone rosso e della pietra grigia, correlativi oggettivi del credo estetico morrisiano tesi a veicolare i paradigmi della semplicità e della bellezza. In questo senso, quello che s’impone alla nostra attenzione è Introduzione 17 l’idea di una cromia come metafora spaziale e allo stesso tempo trait d’union del binomio uomo/ambiente. Non si tratta semplicemente di colori squillanti di derivazione preraffaellita, ma, con l’ausilio del modello figurativo greimasiano è possibile dimostrare la continuità tra gli abiti medievali e il setting utopico, ove la figuralità umana si presenta come decorazione unica e irripetibile dell’ambiente. Apparentemente legata all’episteme vittoriana, la scrittura morrisiana sembra garantire una continuità etico-culturale con la prospettiva modernista, il cui senso rimanda ad un’interpretazione profetica d’immenso valore ontologico. Per dirla con De Fusco: La possibilità di un cambiamento di funzione delle macchine è […] chiaramente ammessa unitamente alla considerazione della morte dell’arte – tema centrale dell’estetica moderna – o quanto meno della morte di un certo tipo d’arte per dar vita ad un altro. In tal senso la sua s’è dimostrata una vera profezia. In particolare, ammettendo il cambiamento di funzione nell’uso delle macchine, Morris inizia quel tentativo di qualificazione del prodotto industriale che costituisce un altro fondamento del Movimento Moderno4. Nonostante l’incomprensione del suo messaggio rivoluzionario, nonostante il modo assurdo con cui le voci autorevoli del tempo sottovalutano ampiamente la dimensione visionaria dei suoi scritti socio-politici, Morris ha forse qualcosa che agli uomini vittoriani è negato. La ricorrente e mai appagata esigenza artistica di far sì che l’immagine e l’idea trovassero un’adeguata rappresentazione verbale, mette a nudo l’anima moderna5 mor4 Renato De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 35. 5 Per un’analisi dettagliata dell’ideologia morrisiana e della sua valenza innovativa, si veda quanto scritto da Marroni: “La nuova cultura che la sua voce rappresenta è quella caratterizzata da un dovere morale che, superando il cerchio dell’individuale egoismo, si confronta con il tema della giustizia sociale nel quadro di un equilibrato sfruttamento delle risorse, e tenendo conto di un progresso che non significa disinteresse per le sorti del pianeta. In questo senso, oggi, alla luce delle nuove esigenze dello spirito, alla luce anche di un’economia globale che ignora i grandi problemi di una parte dell’umanità, Morris può dirsi nostro contemporaneo. Per molti versi, il suo romanticismo 18 Introduzione risiana che sancisce il permanere di un’inquietudine interiore, un questioning in grado di incarnare i dilemmi, le preoccupazioni di una mente in cui genialità, socialismo e umanesimo sembrano dialogare in modo euforico e positivo. appartiene anche al terzo millennio, a coloro che si battono per uno sviluppo sostenibile, contro la globalizzazione intesa come negazione della creatività, come negazione del desiderio” (Francesco Marroni, Miti e mondi vittoriani, Roma, Carocci, 2003, pp. 224-225). Capitolo I William Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 1.1. Morris e la costruzione di un nuovo modello di artista. Nel quadro del pensiero vittoriano, l’opera di William Morris rappresenta la risposta, ideologicamente convinta e politicamente consapevole, al crescente processo di depersonalizzazione e reificazione del soggetto. Come è noto, sulla scia di una rivoluzione industriale che afferma l’ideologia trionfante delle fabbriche e dei suoi capitani d’industria, s’impone l’idea che il progresso sia un dato incontestabile, la naturale e positiva evoluzione dell’uomo e dei suoi progetti intesi come rappresentazione visibile di un più grande disegno divino. Dinanzi a tale ottimismo, William Morris ha il coraggio di affermare la necessità di un ritorno all’uomo, di un ritorno alla valenza ontologica che escluda qualsiasi forma di schiavitù e sudditanza allo strapotere della macchina. Pertanto, configurando un orizzonte assiologico alternativo, il pensiero morrisiano, seppur sottoposto a un continuo bombardamento eidetico da parte del movimento preraffaellita fondato nel 1848 (e qui si intende la formula ritorno alla natura = semplicità = bellezza = medievalismo), reagisce con movimenti prospettici di notevole indipendenza intellettuale. Con l’ausilio di un universo finzionale isomorfo alla sua dimensione etica, nonché alla sua visione esegetico-culturale dell’abissamento assiologico in atto nella società del “Century of Commerce”, il Victorian Sage tenta di restituire autenticità e dignità alla figura umana, ormai vittima di un processo di disgregazione e caduta nell’abisso ideologico-sociale contestuale. In proposito vale quanto ha notato lucidamente E. P. Thompson: 20 Capitolo I Morris’ greatness is to be found not so much in his rejection of the ideals and practice of an “age of shoddy”; in this he was accompanied by Carlyle and by Ruskin, as well as by other contemporaries. It is to be found, rather, in his discovery that there existed within the corrupt society of the present the forces which could revolutionize the future1. Sulla base di un simile scenario sociale di grado zero (“age of shoddy”; “the corrupt society”), caratterizzato da un disorganizzato habitus mentale, l’artigiano vittoriano per antonomasia, soprannominato “Topsy” dai suoi confratelli, postula una tipologia della cultura ottocentesca depositaria di un modello naturalistico del mondo in termini di reazione eticamente costruttiva e innovativa. Risulta evidente che, sul piano della “Dinamica dei sistemi culturali”, l’atteggiamento idealistico minoritario di William Morris si presenta come “assunzione del ruolo dominante da parte di una sottostruttura, che […] acquista il diritto di parlare a nome dell’oggetto culturale dato e […] che elimina tutto ciò che si contrappone a questa sottostruttura in quanto extrasistematico […]”2. Se procediamo a osservare tale fenomeno nell’ambito del preraffaellismo, colto nel suo senso più ampio, è facile rilevare come l’attività marcatamente innovativa di Morris – sottostruttura pensante della confraternita – possa acquisire uno spessore semantico e una qualificazione assiologica tesi a mettere in rilievo l’unicità della sua manifestazione artistica. A partire dall’intensa produzione lirica, caratterizzata da The Defense of Guenevere (1856), The Earthly Paradise (186870) e Love is Enough (1871), non meno degli short romances apparsi in The Oxford and Cambridge Magazine, insieme alla narrativa dell’impegno (The Pilgrims of Hope, 1885; A Dream of John Ball, 1886; NFN, 1890), come anche ai saggi politici e agli ultimi romanzi di matrice storico-mitica (The House of the Wolfings, 1888; The Roots of the Mountains, 1889; The Wood 1 E. P. Thompson, William Morris. Romantic to Revolutionary, London, Merlin Press, 1976, p. 175. 2 Jurij M. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di Simonetta Salvestroni, Venezia, Marsilio, 1985, p. 132. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 21 Beyond the World, 1894; The Well at the World’s End, 1896; The Water of the Wounrous Isles, 1897), tutto l’universo artistico morrisiano sembra essere collocato sotto la cifra di un’originalità ancora da studiare e con cui l’arte misura la grandezza di uno scrittore. Se è vero che “[…] all good things which exist are the fruits of originality […]”3, così come afferma John Stuart Mill nel terzo capitolo del suo On Liberty, allora la fondazione della società Morris, Marshall, Faulkner & Co., la valenza indipendentistico-reazionaria della Socialist League e la qualità grafematica della Kelmscott Press rimandano alla piena validità delle raffigurazioni ideologiche morrisiane. Alla luce della sua crescita culturale e del processo di immedesimazione in qualsivoglia percorso creativo, conseguiti attraverso il perseguimento delle vocazioni a lungo coltivate, il valore4 del carattere modellizzante insito nella formula estetica di Morris va ricercato nella “natura dialogica dell’idea” espressa da Bachtin: “L’idea […] è interindividuale e intersoggettiva, e la sfera del suo essere non è la coscienza individuale, ma la comunione dialogica tra le coscienze. L’idea è un fatto vivo, che si crea nel punto di incontro dialogico di due o più coscienze”5. Di qui l’importanza assunta dall’interscambio assiologico presente nel circolo preraffaellita in grado di “innescare l’attivazione dell’idea” in Morris, che si concretizza nella transcodificazione artistica di una valutazione espressa, oltre ad essere veicolata 3 John Stuart Mill, “Of Individuality, As One of the Elements of WellBeing”, in On Liberty and Other Essays, ed. John Gray, Oxford and New York, Oxford University Press, 1991, p. 73. 4 Si veda, in proposito, Florence S. Boos che molto giustamente osserva: “As Morris’ poetry bridged the span between the mid-Victorian Gothic realism of The Defense of Guenevere, the self-questioning epic doubt of The Earthly Paradise, the appeal to a metaphysics of narrative imminence in Sigurd, and the allegorical realism of The Pilgrims of Hope, so one or more of these apects of his work will likely reemerge in another century” (“18961996: Morris’ Poetry at the Fin de Millénaire”, Victorian Poetry, 34, 3, 1996, p. 298). 5 Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968, p. 116. 22 Capitolo I dalla fitta intertestualità delle sue opere. Più precisamente, grazie all’intensa amicizia con Dante Gabriel Rossetti, figura carismatica della P.R.B., l’immaginazione del craftsman risulta fortemente stimolata, attivando una serie di associazioni che implicano un filtro culturale della sua percezione del mondo, un dinamismo intellettuale capace di focalizzare i concetti epistemologici e di stabilire equivalenze con l’ideologia rossettiana. In questo senso, sotto la spinta della “Fleshly School” volta a collocare in primo piano la sensualità femminile con l’ausilio di un cromatismo vibrante, ma soprattutto simbolico – si pensi a Beata Beatrix (1863), Sibylla Palmerifera (1866-70), Lady Lilith (1868), per non dire poi della serie di ritratti dedicati alla bellezza archetipa di Jane Burden6 (Mariana, 1868-70; La Pia de’ Tolomei, 1868-1880; Proserpina, 1874; Astante Syriaca, 1875-1877; Sogno a occhi aperti, 1880) –, Morris rinnova la sua espressione visuale, configurando i canoni estetici del movimento nell’arte decorativa7. Ne segue che il dettato dell’artificio artigianale si struttura come materia di raffigurazione artistica innovativa rispetto all’approccio metodologico della 6 Sul ruolo avuto da Jane Burden nello sviluppo artistico rossettiano, Elizabeth Prettejohn ha scritto: “She is often taken to reconcile the opposites, to unite the spiritual with the sensuous, to heal the rupture in Rossetti’s nature […] The images of women can be organised into a neat tripartite scheme: Siddal versus Cornforth, with Burden as synthesis. In this scheme, the women lost theirs own identities to become mere signs of different aspects of Rossetti’s identity” (Elizabeth Prettejohn, Rossetti and his Circle, New York, Stewart, Tabori and Chang, 1997, p. 10). 7 Come è noto, le “Decorative Arts” costituiscono un paradigma fondamentale alla base delle riflessioni teoriche morrisiane: “[…] everything made by man’s hands has a form, which must be either beautiful or ugly; beautiful if it is in accord with Nature, and helps her; ugly if it is discordant with Nature, and thwarts her […] Now it is one of the chief uses of decoration, the chief part of its alliance with nature […]: forms and intricacies that do not necessarily imitate nature, but in which the hand of the craftsman is guided to work in the way the she does, till the web, the cup or the knife, look as natural, nay as lovely, as the green field, the river bank, or the mountain flint” (William Morris, “The Lesser Arts”, in News from Nowhere and Other Writings, ed. Clive Wilmer, Harmondsworth, Penguin, 1998, pp. 234-235). W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 23 composizione pittorica di Rossetti, secondo il disegno bachtiniano che sussume lo sviluppo ideologico-verbale “solo entrando in reali rapporti dialogici con altre idee altrui”8. Con un procedimento tipicamente medievale, quello che s’impone subito è una sorta di espansione iconica del dettaglio vegetale che diviene la prima materia di un’esperienza armoniosa la cui unicità e irripetibilità è sancita dall’antitesi con la volgarizzazione dell’arte mercificata. Ed è significativo che per pervenire alla rappresentazione visibile della propria identità culturale, Morris “[…] stampava i suoi tessuti di lino con matrici di legno intagliate a mano, colorate coi verdi bosco e i rossi cupi delle miniature gotiche […]”9 che, facendo leva sull’equazione arte = società, s’incentrano sull’euforica esaltazione della funzione armonizzante dell’arte: […] The Aim of Art is to increase the happiness of men, by giving them beauty and interest of incident to amuse their leisure, and prevent them wearying even of rest, and by giving them hope and bodily pleasure in their work; or, shortly, to make man’s work happy and his rest fruitful10. Assumendo una prospettiva euforica, il fondatore delle Arts and Crafts ipotizza un’umanità capace di riconquistare un rapporto positivo con il lavoro e con se stessa, culminante nella 8 9 85. Bachtin, op. cit., p. 116. Elisabetta Planca, “I sogni gotici di Morris”, Arte, 274 (giugno 1996), p. 10 William Morris, “The Aims of Art”, in Signs of Change, McLean, Virginia, IndyPublish.com, 2002, p. 62. In un altro punto, dopo aver assunto l’ipotesi strutturale del binomio assiologico arte/società, Morris scrive: “Less than forty years ago – about thirty – I first saw the city of Rouen, then still in its outward aspect a piece of the Middle Ages: no words can tell you how its mingled beauty, history, and romance took hold on me; I can only say that, looking back on my past life, I find it was the greatest pleasure I have ever had: and now it is a pleasure which non one can ever have again: it is lost to the world for ever” (p. 63). Pubblicato nel 1889, cioè tre anni prima della prefazione a The Stones of Venice di Ruskin, Signs of Change istituisce con l’opera ruskiniana di matrice polemica un rapporto dialogico molto significativo, essendo entrambe depositarie di una denuncia radicale della disarmonia del mondo vittoriano. 24 Capitolo I messinscena di una formula estetica improntata alla ipersemantizzazione della felicità che, a ben guardare, sottende il primato di una connessione sintagmatico-concettuale strutturata attorno ai complessi semici di bellezza/divertimento/speranza/piacere. Non a caso, facendosi fautore di una svolta radicale raffigurata artisticamente, quasi a voler sancire una nuova impostazione assiologica, egli mette a nudo l’impraticabilità ideologica della “Division of Labour”, tipica del processo di industrializzazione, implicante l’antitesi toil vs. art. Per dirla con Coleman: “[…] since to Morris, life without art was life without reason, he sought to reunite art and work in a collective process which he saw as the construction, the making together, of a world fit to live in”11. Insieme a un’opera di decodifica del reale volta a segnalare il disvalore di un mondo privo di un orizzonte unificante, le parole di Coleman, costruite parallelisticamente, attualizzano una continuità ontologica che, evidenziando il nesso art/reason, estromettono definitivamente la negazione di ogni umana frustrazione per fare luogo a una condizione esistenziale “fit to live in”. Tale connessione paradigmatica è funzionalmente rafforzata dalla visione di Christopher Shaw, secondo il quale: “Like Marx, Morris regarded the contemporary organisation of industry as a source of illness and premature death”12 e per di più “symbolically and actually, the division of labour restrained human history in a cul-de-sac. […] Spontaneous, expressive, creative work was the central activity of human life: capitalist organisation prevented the discovery of our true natures”13. Più precisamente, i sintagmi illness e premature death connotano negativamente l’articolazione epistemica industriale che, in quanto dimensione costitutiva della società, rimanda semanticamente a una disarmonia distruttiva. A questa isotopia di 11 Roger Coleman, “Design and Technology in Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 2 (Spring 1991), p. 30. 12 Christopher Shaw, “William Morris and the Division of Labour: The Idea of Work in News from Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 9, 3 (Autumn 1991), p. 22. 13 Ivi, p. 23. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 25 morte corrisponde una transizione strategica di marca disforica sempre più esplicita (death → cul-de-sac → prevented the discovery of our true natures), intesa a stabilire una separazione netta tra la “capitalist organization” e la “human life”14 collocata sotto la cifra di un ideale olistico. Un esempio illuminante di tale squilibrio assiologico è rappresentato dal poema narrativo The Pilgrims of Hope (1885-86) e, in particolare, dalla sezione di apertura “The Message of the March Wind” che, pur nella strutturazione semantica del triangolo amoroso (Richard-moglie-Arthur), mette molto bene in rilievo il significato che assume il termine hope nella pratica della versificazione. Come è noto, si tratta di un romance sociopolitico ove si tematizza la lotta contro il capitalismo, assumendo la Comune di Parigi del 187115 a (pre)testo per veicolare ai lettori le coordinate morali della nuova “golden age” auspicata da Morris. 13 There is wind in the twilight; in the white road before us 14 The straw from the ox-yard is blowing about; 15 The moon’s rim is rising, a star glitters o’er us, 16 And the vane on the spire-top is swinging […] 14 Si rimanda alle acute osservazioni di Paul Thompson che, in proposito, scrive: “The essential basis of Morris’s future is twofold: on the one hand the simplification of basic needs – which in many cases are fulfilled by mechanisation, powered by electricity, so allowing reduction of hours of necessary work to half-time; while on the other, the rest of time goes into pursuing leisure work for creative self-expression” (Paul Thompson, “Why William Morris Matters Today: Human Creativity and the Future World Environment”, in Kelmscott Lecture 1990, London, William Morris Society, 1991, p. 12). 15 Nel saggio “The Hopes of Civilization” leggiamo, significativamente, che “France also kept up the revolutionary insurrectionary tradition, the result of something like hope still fermenting among the proletariat: […] the defeats and disgraces of this war developed, on the one hand, […] but on the other made way for revolutionary hope to spring again, from which resulted the attempt to establish society on the basis of the freedom of labour, which we call the Commune of Paris of 1871” (William Morris, “The Hopes of Civilization”, in News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 322). 26 Capitolo I 25 Hark, the wind in the elm-boughs! From London it bloweth, 26 And telleth of gold, and of hope and unrest; 27 Of power that helps not; of wisdom that knoweth, 28 But teacheth not aught of the worst and the best. […] 65 For it beareth the message: “Rise up on the morrow 66 And go on your ways toward the doubt and the strife: 67 Join hope to our hope and blend sorrow with sorrow, 68 And seek for men’s love in the short days of life”16. Lo schema logico della prima strofa presenta una spazializzazione che a partire dal v. 13 si fa metafora dell’interpretazione storica del presente in cui ad emergere è un’immagine naturalistica investita dalle dinamiche cinetiche del vento, non solo elemento di non-disgiunzione tra la campagna e la città (Londra), ma anche vettore di tensioni socio-ambientali disforiche e distruttive. Appare evidente che i vv. 13-16 rimandano all’inquietudine esistenziale dell’uomo epitomizzata dal movimento vorticoso del vento (“the straw from the ox-yard is blowing about; / […] And the vane on the spire-top is swinging in doubt”) adottando, a livello visuale, il mélange cromatico del crepuscolo, come anche l’isotopia del bianco presente nella strada di campagna e implicitamente nella luna crescente, sia pure intriso di intermittenze gialle e luminose (“the straw from the ox-yard is blowing about”; “a star glitters o’er us”). In questa prospettiva, non possiamo ignorare come il binomio oppositivo terra/cielo determini la marca duale dell’isotopia verticale della verbalizzazione (13is blowing about; 14glitters o’er us; 15is swinging in doubt), come risultato di una pathetic fallacy messa in atto dalla stretta continuità fonica dei lessemi wind [wi:], twilight [-wai:], white [wai:] che determina l’evoluzione assiologica cielo → terra → uomo, ancora più evidente nell’iterazione fonologica della sibilante [s] al v. 15 (“The moon’s rim is rising, a star glitters o’er us”). 16 William Morris, Selected Poems, edited with an intorduction by Peter Faulkner, New York, Routledge, 2002, pp. 134, 136. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 27 Passando alle altre due strofe notiamo come, pur sempre nella centralità ipogrammatica del lessema wind17, il poeta veicola al lettore il cambiamento del codice sensoriale, non più marcatamente visivo, ma uditivo-concettuale. Nell’immaginazione poetica morrisiana il messaggio portato dal vento di marzo si trasforma in solenne metafora di denuncia relativa allo squallore e degrado morale della città, intesa come catalizzatore di distorsioni iperboliche della integritas etico-comportamentale. Se è vero che “[n]ella letteratura ‘realtà’ non significa riproduzione della vita, ma interesse per un contenuto politico ‘essenziale’”18, allora l’orizzonte assiologico postulato da Morris mira a dare risalto a una voce segnata dal rimpianto per l’armonia perduta e tutto questo non senza pervenire alla valenza progettuale di un telos in grado di rivelare il primato dell’amore e della fratellanza. A partire dal v. 25, e in particolare dall’iniziale occorrimento sintagmatico imperativo (“Hark, the wind in the elmboughs!”), appare sempre più evidente l’emergenza di un discorso tropico ossimorico, che – segnalato da una costruzione frastica paratattica intrisa di una fitta elencazione lessematica (“of gold, and of hope and unrest”) –, rimanda all’idea del fallimento etico-sociale rappresentato dal “great city’s glare”, vale a dire da Londra19. Alla luce di un messaggio ancorato a uno 17 A proposito della valenza simbolica del vento, si rimanda a quanto scrive Carole Silver: “Drawn by a wind which, like Shelley’s West Wind, is destroyer and preserver both, [Richard] comes to try to right wrongs and to destroy the evil force that corrupts song, art, beauty, and love for the sake of gold […] so [he] enters the flood of the city to help create ‘the eyes without blindness, the heart without guile’” (Carole Silver, The Romance of William Morris, Athens, Ohio, Ohio University Press, 1982, p. 122). 18 Jurij M. Lotman, Il testo e la storia. L’“Evgenij Onegin” di Puškin, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 71. 19 È forse qui utile ricordare quanto afferma Malcolm Bradbury in merito alla topologia londinese: “[…] in the age of the ‘impression’ London also offered many other shades: the foggy urban world of the crime and detective fiction […], but also the crepuscular mists of the urban nocturne, painting in prose […]. Then there was the green London that William Morris prospects in News from Nowhere (1890), a reformist Utopian work in which, in the arca- 28 Capitolo I spazio di incertezza assiologica (“doubt”; “strife”), quello che s’impone alla nostra attenzione è l’idea di una comunanza umanitaria in termini psicologico-emotivi, incentrata sulla circolarità tautologica dei lessemi hope e sorrow. In questo senso, vale quanto afferma Morris nella sua lecture “The Hopes of Civilization” che, dopo essere stata presentata in occasione dell’Hammersmith Branch all’interno della Socialist League nel 1885, viene pubblicata nella raccolta Signs of Change (1888): Times of change, disruption, and revolution are naturally times of hope also, and not seldom the hopes of something better to come are the first tokens that tell people that revolution is at hand, though commonly such tokens are no more believed than Cassandra’s prophecies, or are even taken in a contrary sense by those who have anything to lose; since they look upon them as signs of the prosperity of the times, and the long endurance of that state of things which is so kind to them20. Dietro una simile ridefinizione epistemica dei codici sociocomportamentali sottesi all’organizzazione nazionale, si cela la convinzione edonistica di Oscar Wilde che dichiara: “Beauty is the only thing that time cannot harm. Philosophies fall away like sand, and creeds follow one another like the withered leaves of autumn; but what is beautiful is a joy for all seasons and a possession for all eternity”21. Da questo punto di vista, l’accento viene posto sul paradigma estetico della bellezza attorno al quale si organizzano e strutturano i temi principali della poetica morrisiana. Se la sua ricerca letteraria rinvia alle categorie fondamentali della Brotherhood, stabilendo così il primato dian twentieth century, the fogs, poverty, and industrial problems of present London have somehow gone: […] London, like so much else in the decade, was mirrored, doubled: the great world capital empire and trade was also the heartland of poverty, crime and anarchy, representing at once civilization, art and artifice, and its secret sharer, darkness and disorder” (Malcolm Bradbury, The Modern British Novel, Harmondsworth, Penguin, 1994, pp. 53-54). 20 William Morris, News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 309. 21 Oscar Wilde, “The English Renaissance of Art”, 1882, in Essays and Lectures, Whitefish, MT, Kessinger Publishing, 2004, p. 68. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 29 del bello inteso come strumento progettuale di rivolta nella sua transcodificazione del mondo, assistiamo nuovamente all’agone artistico-culturale con i procedimenti di revisione rossettiani. A voler dar credito a un simile approccio, l’interpretazione dei postulati estetici morrisiani appare un’operazione dicotomica, in quanto risulta orientata a tesaurizzare i segnali modellizzanti provenienti dal “faro” del preraffaellismo e al tempo stesso, ben lontana dal processo di imitatio, implica sempre una forte carica di rielaborazione stilistica. Il parallelismo semantico-formale tra le due diverse proiezioni iconiche (pittura/decorazione) viene ulteriormente intensificato da una ricca gamma di exempla22 ai vari livelli della stratificazione culturale che non solo assicurano l’unicità dell’ars morrisiana, ma attualizzano una transizione dalla pittura alla decorazione. Così, se alla matrice artistica simbolico-sensoriale tipica della figuralità femminile rossettiana fa riscontro la truth to nature caratterizzante i papers e i chintz23 di Morris, la coppia antinomica dionsiaco/apollineo (ebrezza/sogno) trova una precisa corrispondenza omologica nell’antitesi tipologicocaratteriale tra il maestro (Rossetti) e il discepolo (Morris): 22 Qui va notato come Morris, secondo una mediazione emulativa, avesse cercato di attuare il decentramento socio-culturale della rivista fondata da Dante Gabriel Rossetti The Germ: Thoughts Towards Art and Poetry (1850), quasi a voler sancire il primato della rigenerazione morale insita in The Oxford and Cambridge Magazine (1856; OCM), ponendo in primo piano la continuità assiologica tra passato e presente, nonché tra sogno e realtà (si veda, a tal riguardo, Amanda Hodgson, The Romances of William Morris, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 13-18). Un altro caso di esplicita scelta strategica atta a mettere in campo la sua emancipazione individualistica è rintracciabile nella costruzione della Red House (1859) che costituisce una sorta di alternativa artistico-familiare alla Tudor House di Rossetti, luogo d’incontro bohèmien per antonomasia, o per meglio dire “focus of masculine artistic cameraderie” (Prettejohn, op. cit., p. 18). 23 Come è noto, la società vittoriana era ossessionata dal decoro delle proprie abitazioni, fino al punto di coniare l’espressione “chintz aesthetic” così come spiega Matthew Sweet nel suo Inventing the Victorians, London, Faber and Faber, 2001, pp. 121-135, facendo assurgere Morris e Ruskin a “The real heavyweights of the period […] who established themselves as champions in the campaign to rid British homes of Frenchfied frill and clutter” (p. 134). 30 Capitolo I [Il dionisiaco] è il fluire di un poderoso sentimento universale che erompe incontenibilmente e ottenebra la mente come un vino fortissimo. È ebbrezza nel senso più nobile del termine. […] Si tratta quindi di una estroversione di quei sentimenti e sensazioni ancorati indifferenziatamente all’elemento del sentire che noi definiamo sensazioni affettive. Pertanto in questo stato esplodono prevalentemente pulsioni cieche che si esprimono con alterazioni della sfera fisica. Per contro l’apollineo è una percezione delle immagini interne della bellezza, della misura e dei sentimenti contenuti entro debite proporzioni. Il paragone del sogno indica chiaramente il carattere dello stato apollineo: è uno stato di introspezione, di contemplazione interna del mondo onirico delle idee eterne, cioè uno stato di introversione24. Dal pensiero filosofico nietzschiano, in seguito chiarito e interpretato da Jung, possiamo derivare, insieme ai ritratti psicologici delle due personalità preraffaellite (vale a dire il binarismo tipoligico estroverso/introverso), la necessità di assumere una prospettiva estetica che, portata in superficie, riesce a penetrare le loro pulsioni artistiche antitetiche. Evidentemente, quello che risultava gratificante per Rossetti25, non poteva esserlo in toto per Morris che, consapevole della pulsione dionisiaca (si pensi anche all’uso ed abuso di laudano che, tra l’altro, causò la morte di Elizabeth Siddal nel 1862) dell’universo sotteso ai fenomeni visibili del suo master, scorge in tale dynamis creatrice lo stimolo più attivo della ricerca di un suo itinerarium intellectus. In questo senso vale la pena riportare quanto scrive A. L. Le Quesne: 24 Carl Gustav Jung, Tipi psicologici, trad. Stafania Bonarelli, Roma, Newton e Compton, 2003, pp. 121-122. 25 A proposito dell’influenza rossettiana, risulta molto interessante quanto scritto da Stephen Coote: “The power of Rossetti’s personality exerted an ever stronger attraction for [Morris]. Through his study of Dante and his love affair with Lizzie Siddal, Rossetti had developed his own distinctive style within the Pre-Rphaelite movement. His love of Malory was also sympathetic to the young men, and when he told Morris, ‘if a man had any poetry in him he should paint, for it has all been said and written, and they have hardly begun to paint it’, Morris was won over” (Stephen Coote, “The Brotherhood”, in William Morris: his Life and Work, London, Garamond, 1990, p. 29). W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 31 Rossetti, with his interest in medievalism, and in a brotherhood, was bound to be deeply congenial to Morris […] he also moved [him] in an art-for-art’s-sake direction. Yet the emphasis on the decorative in his paintings also ultimately acted as an inspiration for Morris to make good design more widely available, through objects rather than through paintings. Aestheticism had a negative political impetus – it was an act of rebellion against an ugly age26. Quella che cambia è l’indole – due voci interconnesse, due prospettive sul mondo che si incontrano e dialogano nel dispiegarsi di una comune sensibilità preraffaellita. È questa la polifonia di cui si nutre tutta l’opera morrisiana, e che per molti versi si dà come continua rappresentazione onirica di un “earthly paradise”, così come avviene per “the idle singer of an empty day. / […] Dreamer of dreams” presente nell’Apology del poema narrativo composto nel 1868-70. In tal modo, dietro la rappresentazione di sé come tipo apollineo – un uomo contemplativo, immaginativo in grado di percepire le “immagini interne della bellezza, della misura e dei sentimenti contenuti entro debite proporzioni” –, Morris cerca di rendere la cifrazione decorativa dell’artigiano che, creando oggetti di stile naturalistico qualitativamente sorprendenti, interpreta la fusione con la natura come nessuno può fare. Qui è interessante notare come quasi tutti i fabric designs pongano in primo piano il mondo vegetale tipicamente inglese dell’Essex e del Kent, e in particolare la semplicità della flora selvatica familiare, mirante ad attualizzare una continuità affettiva tra il pubblico vittoriano e tali scenari euforici che preconizzano il recupero dei valori della vita. Così, diversamente dalla connotazione eterotipica wordsworthiana, evidente in “London, 1802” (“[…] To think that now our life is only drest / For show – mean handiwork of craftsman […]”, vv. 3-4) 27, il preraffaellita cerca di trovare un punto di ancoraggio 26 A. L. Le Quesne et al., Victorian Thinkers. Carlyle, Ruskin, Arnold, Morris, Oxford-New York, Oxford University Press, 1993, p. 348. 27 The Complete Poetical Works of William Wordsworth, 1801-1805, 10 voll., Boston and New York, Houghton Mifflin Company, 1911, IV vol., p. 101. 32 Capitolo I positivo in un arte di derivazione medievale che si alimenta all’idea espressa da Goethe secondo il quale “If the artist is not also a craftsman, the artist is nothing, but calamity”28. È questa la strategia di funzionalizzazione adottata da Morris che, scagliandosi contro l’ethos vittoriano, nella fattispecie contro la produzione di massa e la dequalificazione della produzione artistica, impone l’evidenza di quella che Marroni definisce “lotta contro la disarmonia”29. A tal riguardo, ha ragione Paul Thompson quando osserva che: Morris believed that the intellectual arts were sustained by the decorative arts, which in turn reflected the conditions of the craftsmen of each period. […] Social conditions had made real craftsmanship from the working class impossible. […] Not only was craftsmanship almost extinct, but the terrible living and working conditions of the working classes had almost killed their aesthetic sensitivity30. Dinanzi a quella che sembra una condizione dedalica, si fa strada la forza antitetica al degrado, allo squallore e all’oppressiva autorità della Royal Academy contro cui l’homo faber vittoriano lancia la pregnanza cromatica delle tinte vegetali utilizzate per realizzare i suoi floral patterns. In questo senso, non solo Morris risulta in grado di innescare un processo di creazione ar28 Johann Wolfgang Von Goethe, lettera del 21 settembre 1771 inviata a Johann Gottfried Röderer in Barker Fairly, Goethe: Selected Letters, Oxford, Basil Blackwell, 1949, vol. I, pp. 8-9. 29 Francesco Marroni, Disarmonie vittoriane. Rivisitazioni del canone della narrativa inglese dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2002, p. 13. Nell’introduzione “L’ethos vittoriano e la disarmonia del mondo” Marroni offre una disambiguazione della logica epistemologica sottesa a tale conflitto: “Una lotta che significa l’ossessiva riaffermazione del primato di un ordine grazie al quale costruire i paradigmi etico-comportamentali da proporre alle classi irrequiete della nazione – una nazione sempre profondamente consapevole sia dell’inevitabilità del cambiamento, sia del conseguente senso di crisi derivante dalla necessità di continui aggiustamenti e rifocalizzazioni dell’impianto epistemico-culturale” (ibid.). 30 Paul Thompson, “Past and Present”, in The Work of William Morris, Oxford, Oxford University Press, 1991, p. 254. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 33 tistica originale, affidandosi alla grande efficacia qualitativa dell’artigianato, ma preferisce non omologarsi al linguaggio iconico contemporaneo, tanto più se si pensa che la colorazione31 prevalente nei suoi interior designs si dà come resistenza al depauperamento socio-culturale. Non a caso, contro l’assenza di vita e professionalità del processo commerciale, Morris auspica un ribaltamento della situazione e, soprattutto colloca in primo piano l’istanza eterocettiva della tintura medievale, quale manifestazione superficiale dell’esaltazione all’interno dell’atto creativo: “The art of dyeing, I am bound to say, is a difficult one, needing for its practice a good craftsman, with plenty of experience. Matching a colour by means of it is an agreeable but somewhat anxious game to play”32. In una delle sue prime carte da parati Trellis, eseguita nel 1862, come anche in Daisy, 1864, rivestimento della camera da letto della Red House, l’ornatista rivela in modo molto chiaro la sua radicale espressione visuale che, raffigurando stilizzazioni di motivi ornamentali di tipo fitomorfico, finisce per imporre la centralità delle decorazioni floreali, correlativi oggettivi della quest esistenziale morrisiana. Tale ossessiva rappresentazione di tessiture modulari ripetibili all’infinito viene indagata nella rivista The New Englander (ottobre 1870) in cui si legge: Mr. Morris is seeking still ‘the pleasure of his eyes’, as he tells us […] he loves to see better than to think, and to dream better than to feel. Hence, his devotion to detail, his preference of the foreground to the 31 Sulla valenza tecnico-innovativa del cromatismo preraffaellita si rimanda a quanto scrive Philip Ball: “Per ricavare il meglio dai loro pigmenti, i preraffaelliti copiarono le abitudini di Rubens e dei grandi maestri veneziani stendendo su fondi bianco opaco strati sottili di colori appena mescolati, per ottenere la massima luminosità […] I preraffaelliti provarono ogni tipo di miscela dei nuovi gialli e azzurri, per catturare la natura verdeggiante: cromati di bario e stronzio con blu di Prussia, oltremare sintetico o blu cobalto” (Philip Ball, Colore. Una biografia, Milano, Rizzoli, 2002, p. 176). 32 William Morris, “Of Dyeing as an Art”, in William Morris on Art and Design, ed. Christine Poulson, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996, p. 71. 34 Capitolo I remote and larger, and higher portions of the landscape; hence his greater liking for objects of external nature, than for men and women33. Da questa angolazione, ogni motivo ornamentale, che segua la traslazione regolare del modulo lungo assi paralleli (Daisy), o che presenti un’accentuazione di simmetrie interne (Trellis), o che addirittura come in Pimpernel (1876, carta da parati utilizzata per la sala da pranzo della Kelmscott House) configuri lo schema a riflessione del modulo a 180 gradi, diviene il locus in cui si stratificano e si susseguono in modo sistematico immagini di derivazione vegetale, atte a delineare un paesaggio interiore, risultato di quanto è percepito dai nostri sensi. Ed è in tale processo di grande intensità visiva che, morrisianamente, s’inscrivono i paradigmi preraffaelliti in base ai quali il disegno sussume un’ideale olistico da perseguire. Molto significativamente, sul piano della tipologia floreale34 si registra il recupero di quei “old-fashioned flowers” – nella fattispecie, caprifoglio (Honey33 Citato in Lindsay Smith, Victorian Photography, Painting and Poetry. The Enigma of Visibility in Ruskin, Morris and the Pre-Raphaelites, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 22. 34 Nell’imaginary portrait “The Story of the Unknown Church” (1856), pubblicato in The Oxford and Cambridge Magazine, Morris descrive un giardino di pura derivazione medievale, caratterizzato da una ricca profusione di fiori simbolici: “[…] in the garden were trellis covered with roses, and convolvulus […] and specially all along by the poplar trees were there trellises, but on these grew nothing but deep crimson roses; the hollyhocks too were all out in blossom at that time, great spires of pink, and orange, and red, and white, with teir soft, downy leaves. […] in many places the wild flowers had crept into the garden from without; lush green briony, with green-white blossoms, […] and deadly nightshade, La bella donna, oh! So beautiful; red berry, and purple, yellow-spiked flower, and deadly, cruel-looking, dark green leaf, all growing together in the glorious days of early autumn” (William Morris, News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 7). Si veda anche la lirica “Flora”, inscrizione annessa a una tapestry commissionata per la Morris & co.: “I broider fair her glorious gown, / And deck her on her days of mirth / With many a garland of renown. / And while Earth’s little ones are fain / And play about the Mother’s hem, / I scatter every gift I gain / From sun and wind to gladden them” (William Morris, Selected Poems, cit., p. 145). W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 35 suckle), girasole (Sunflower, 1879; Strawberry Thief), rosa (Trellis) anagallide (Pimpernel), giglio (Srtawberry Thief, 1883) – miranti a metaforizzare l’esaltazione del passato: “[…] many later Victorians […] attempted to distance themselves from the ugliness of the present – epitomized by the meretricious glare of bedding displays – by resurrecting the beautifully simple symbols of the pre-industrial past”35. Ed è emblematico che, per drammatizzare l’abbrutimento della società vittoriana, il decoratore adotti l’iterazione di quei segni naturali che, facendo leva sul senso della vista, s’incentrano sul contrasto tra ciò che è e ciò che è stato. Il fiore ribadisce il permanere della visione passata mediante la sua cromia radicata nell’immaginario comune, in grado di trascendere la realtà disforica del presente collocata sotto la cifra della banalizzazione dei sentimenti umani, nonché dell’orizzonte figurativo che si proietta dinanzi all’uomo. Per rendere perspicua tale strategia metaforizzante, può essere utile riportare il poema in blank verse di William Cowper The Task (1784), e più precisamente il libro V, “The Winter Morning Walk”, in cui leggiamo: “Tis liberty alone that gives the flower Of fleeting life its lustre and perfume, And we are weeds without it. [...]36 We build with what we deem eternal rock; A distant age asks where the fabric stood; And in the dust, sifted and searched in vain, The undiscoverable secret sleeps 37. Si tratta di versi che, riconducendo il discorso in ambito naturalistico (equazioni fiore = vita; semi = uomini), sanciscono il pri- 35 Michael Waters, The Garden in Victorian Literature, London, Scholar Press, Brookfield, Vt., Gower Pub. Co., 1988, p. 129. 36 William Cowper, The Task. A Poem, illustrated by Birket Foster, London, James Nisbet and Co. Berners Street, 1855, p. 190. 37 Ivi, p. 193. 36 Capitolo I primato della libertà38 di scelta e, nel contempo, danno corpo al convincimento non del tutto negativo che nella realtà presente, nonostante i progressi tecnologici e i miti del progresso, non vi è spazio per le illusioni di immutabilità, ma solo una flebile speranza di rinascita. L’evocazione del passato, se da un lato rimanda all’occultamento di un “underscoverable secret”, dall’altro si risolve nella finale rivelazione di una speranza, messa in evidenza oltre che dalla sostanza semantica del verso, anche da una iterazione allitterante della fricativa dentale sorda ([s]: “in the dust, sifted and searched […] / The undiscoverable secret sleeps”). È comunque evidente che il fenomeno di volgere lo sguardo al passato risulta del tutto dipendente dalle tensioni di ordine socio-economiche, tensioni che nel caso della produzione letteraria morrisiana ripropongono una della tante verità espresse da Oscar Wilde: “In a very ugly and sensible age, the arts borrow, not from life, but from each other”39. In tale prospettiva, mi pare oltremodo significativo che Morris scelga la dimensione storica del quattordicesimo secolo40, soluzione e38 A proposito della funzione aprioristica della libertà in ambito artistico, Ruth Kinna, giustamente osserva: “Looking at the history of art, Morris consistently argued that true art could only be produced in conditions of freedom […] Gothic art had broken with classical tradition and particularly with Greek art, which he associated with slavery […]. […] Morris drew a strict line between the decorative art of the early medieval age and the later art of the Renaissance […]” (Ruth Kinna, “Morris, Anti-Statism and Anarchy”, in William Morris Centenary Essays. Papers from the Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at Exeter College, Oxford 30 June-3 July 1996, ed. Peter Faulkner and Peter Preston, Exeter, University of Exeter Press, 1999, p. 226). 39 Oscar Wilde, “Pen Pencil and Poison”, in The Artistic as Critic. Critical Writings of Oscar Wilde, ed. Richard Ellmann, Vintage, New York, 1970, p. 330. 40 Non possiamo fare a meno di riportare l’acuta interpretazione critica di Frye: “William Morris is an example of a writer whose attitude to the past is one of creative repetition rather than of return. Morris admired the Middle Ages to the point of fixation, and yet the social reference of his medievalism is quite different from that of Carlyle, or even Ruskin, who so strongly influenced him. According to Morris, the Middle Ages right side up, so to speak, W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 37 spunta per conferire una marca ordinatrice alla sua visione del mondo e, in qualche modo, mirante a nascondere ogni traccia delle frustranti trasformazioni diacroniche41 del contesto vittoriano. L’universo simbolico di Morris si presenta come una tipologia sociale medievale degli individui e serve pertanto da sistema di referenza a una fenomenologia del quotidiano, grazie alla quale si istituisce una comunità di esseri umani nel rispetto di valori etico-comportamentali. Di qui l’importanza della consapevolezza di Charles Kingsley secondo cui “[…] ‘some say that the age of chivalry is past, that the spirit of romance is dead. The age of chivalry is never past, so long as there is a wrong left unredressed on earth […]’”42. Alla luce della portata semantica di tale affermazione e della crisi ontologica ottocentesca, il preraffaellita sente fortemente l’esigenza di ricostituire when we see it as a creation of artists, not in its reflected or projected form as a hierarchy; when we realize that the genuine creators of medieval culture were the builders and painters and romancers, not the warriors or the priests. For him the fourteenth century was the time when, with the Peasants’ Revolt, something like a genuine proletariat appeared on the social scene, its political attitude expressed in John Ball’s question, where were the “gentlemen” in the working society of Adam and Eve? In News from Nowhere, the “dream of John Ball” (the title of another work of Morris) comes true: the people in that happy future world are an equal society of creative workers. They have not returned to the fourteenth century: they have turned it inside out” (Northrop Frye, The Secular Scripture. A Study of the Structure of Romance, Cambridge, Massachusetts, and London, England, Harvard University Press, 1976, pp. 177-178). 41 Si rimanda a quanto scrive Raymond Chapman: “William Morris was more prerpared to accept of the past and to find in it a necessary remedy for present ills. Despite his many excursions into romantic fancy, Morris was the most realistic of those who sought for a political identity in the Middle Ages. […]. He was more specific in the identification of particular ways in which, at least it seemed to him, the past was superior to the present. He had a feeling for the total quality of life in the fourteenth century, more integrated than that of Ruskin partly because he suffered from fewer personal problems” (Raymond Chapman, The Sense of the Past in Victorian Literature, London and Sydney, Croom Helm, 1986, p. 68). 42 F. E. Kingsley (ed.), Charles Kingsley: His Letters and Memories of His Life, 2 voll., London, Macmillan and Co. and New York, 1891, vol. II, p. 344. 38 Capitolo I i paradigmi estetici in continuità tematica con le dinamiche assiologiche medievali. Dietro una simile scelta si cela soprattutto l’attacco socio-culturale all’assetto capitalistico dell’industria, così come ha sottolineato Paul Thompson nell’individuare le motivazioni di tale processo di revisione: “It was because craftsmen shared in this pleasure that the Middle Ages was the great period of popular art. They suffered neither the intellectual perfectionism nor the social slavery of the ancient world. They ‘worked for no master save the public’, for they sold their goods direct to the purchaser”43. A questo punto, va anche osservato che la sua modellizzazione improntata alle moralità medievali è indice di una ricerca tesa a rendere gli itinerari concettuali di Carlyle (Past and Present) e Ruskin44 (“The Nature of Gothic”), assimilandoli per esaltarne la loro dimensione deautomatizzante. Quanto alle riflessioni teoriche di Carlyle, le modifiche apportate da Morris, facendo dell’attacco al capitalismo e della valenza umanitaria del lavoro artigianale le argomentazioni su cui basare il suo anti-modello alternativo agli stereotipi sociali vittoriani, non fanno altro che rendere più evidente la comunanza analitico-culturale con l’esuberanza descrittiva ruskiniana45 relativa alla funzione didattico-morale del lavoro creativo. Non solo, ma come ha notato Charles Harvey: 43 Paul Thompson, The Work of William Morris, cit., p. 239. Per una lettura approfondita della relazione ideologico-cultuale tra Ruskin e Morris si veda Lawrence Goldman, From Art to Politics. John Ruskin and William Morris. The Kelmscott Lecture 2000, London, The William Morris Society, 2005, pp. 5-32, e in particolare p. 25: “Morris looked forward to the socialist revolution and Ruskin looked back to the static, ordered, medieval past – as Thomas Carlyle had before him”. 45 Su quest’affinità socio-culturale si veda quanto scritto da R. D. Atlick: “Durante la loro attività di ciritici dei costumi, Ruskin e Morris usarono il Medio Evo come modello sociale positivo, rinvenendo [...] all’iterno dell’arte medievale testimonianze di singoli lavoratori convinti di prestare la loro opera in una società a cui sentivano di appartenere” (Il Vittorianesimo, a cura di Franco Marucci, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 347). 44 W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 39 Morris was only one of many people responsive to the impassioned pleadings of Carlyle, Ruskin, Kingsley and others. What made him unique, however was the immense effort he made during his lifetime to give their ideas practical expression – and, indeed, to extend them in important ways. The vehicles for this practical expression was to be the firm of Morris, Marshall, Faulkner & Co46. 1.2. Verso una topologia ideale. Particolare attenzione merita la fenomenologia utopica sottesa alla narrazione morrisiana che, al livello intertestuale, chiama in causa in primis la valenza positiva dei meccanismi testuali adottati da Thomas More. Pur sviluppandosi su topologie diverse – lo stato ideale moriano è organizzato su un’isola secondo uno schema urbanistico geometrico47 –, Utopia (1516) e NFN sono accomunate da un concetto di egualitarismo48 inteso come nucleo semantico grazie al quale poter attivare una serie di riflessioni sulla crisi etico-morale 46 Charles Harvey, William Morris: Design and Enterprise in Victorian Britain, Manchester, Manchester University Press, 1991, p. 34. 47 Qui giova forse riportare la descrizione euforica dell’ambiente cittadino immaginato da More nel secondo libro intitolato “The Geography of Utopia”: “There are fifty-four cities on the island, spacious and magnificient, entirely identical in language, customs, and laws. So far as the location permits, all of them are built on the same plan and have the same appearance” (Thomas More, Utopia, eds. George M. Logan, and Robert M. Adams, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 43). 48 A proposito del carattere paritario sociale, mi pare molto significativo quanto si legge nella “Conclusion”: “[…] no one is poor there, there are no beggars, and though no one owns anything, everyone is rich […] Everyone can feel secure of his own livelihood and happiness, and of his whole family’s as well […]” (More, op. cit., pp. 103-104) che si confronta con: “Well, what I mean by Socialism is a condition of society in which there should be neither rich nor poor, neither master nor master’s man, neither idle nor overworked, neither brain-sick brain workers nor heart-sick hand workers, in a word, in which all men would be living in equality of condition, and would manage their affairs unwastefully, and with the full consciousness that harm to one would mean harm to all – the realization at last of the meaning the word COMMONWEALTH” (William Morris, “How I Became a Socialist”, in News from Nowhere and Other Writings, cit., p. 379). 40 Capitolo I dell’epoca di riferimento. È questo il valore letterario che si cela dietro la cifra simbolica del mondo utopico, derivante dalle incertezze ontologiche attivate dalle disarmonie sociali: “By the time Morris wrote News from Nowhere […] the utopia was thriving, as it always has during periods of turbolent social change”49, in questo senso “[…] the story re-establishes the human capacity to imagine alternatives, alternatives created in response to the social evils of the author’s time, the alienating aspects of existing […] political, and economic arrangements”50. Ad ogni modo, non è tanto importante stabilire se nel processo di disambiguazione del romanzo di Morris sia rintracciabile un dialogismo ideologico con la concezione del mondo di Utopia, quanto conferire unicità ermeneutica e originalità metodologica alla tipologia utopica di NFN. Un’emblematica conferma dell’articolazione logica sui generis sottesa alla rappresentazione morrisiana di un mondo altro ci è data da H. G. Wells: In almost every Utopia – except, perhaps, Morris’s ‘News form Nowhere’ – one sees handsome but characterless buildings, symmetrical and perfect cultivations, and a multitude of people, healthy, happy, beautifully dressed, but without any personal distinction whatever . . . . This burthens us with an incurable effect of unreality51. All’eccezionalità argomentativa relativa al romance morrisiano fa riscontro una depersonalizzazione degli ambienti e dell’umano sentire che, chiamando in causa un alto grado di perfezione estetico-fisiognomica, attualizza l’agone tra la realtà e l’ideale sul piano della verosimiglianza utopica di cui NFN è la risposta più riuscita e strutturalmente rilevante. Per la sua tramatura ermeneutica altamente strategica, organizzata con un preciso bi49 Roger Lewis, “News from Nowhere: Utopia, Arcadia, or Elysium?”, The Journal of Pre-Raphaelite Studies, 5, 1 (November 1984), p. 58. 50 Eugene D. LeMire, “Mind in Morris’s Englands”, The Journal of the William Morris Society, 2 (Spring 1991), p. 4. 51 Citato in Robert C. Elliott, The Shape of Utopia. Studies in A Literary Genre, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1970, p. 116. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 41 lanciamento del peso semantico, questo esempio narrativo di utopia “culturalista”52 fa sì che il vettore temporale medievale metta a nudo l’impatto concettuale tra l’inaridimento del reale e il meraviglioso favolistico. In questo senso, “La bruttezza diffusa della società industriale, può essere vinta, secondo Morris e Ruskin, solo attraverso un recupero della grande cultura e arte medioevale: il passato si deve integrare nel presente”53 e di conseguenza “Nel campo dell’architettura […] ogni edificio dovrà essere diverso dagli altri, esprimendo così la sua specificità. L’abitato medioevale è semplice, ma ogni abitazione è diversa […]”54. E soprattutto grazie al modo in cui l’artista si rapporta alla coppia antinomica città/campagna, rispetto alla quale ad emergere è un continuum armonico epitomizzato dal setting naturalistico del giardino55, che ancora una volta tutto sembra ri52 Vita Fortunati, “L’utopia come città e la città come utopia”, in Le aperture del testo. Studi per Maria Carmela Coco Davani, a cura di Mirella Billi, Lidia Curti, Elio Di Piazza, Daniela Corona, Palermo, Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione della Regione Siciliana, 1995, p. 184. 53 Ivi, p. 185. 54 Ibid. 55 Uno studio dettagliato dell’organizzazione spaziale di NFN non può non mettere in evidenza l’attenzione con cui Morris struttura la topologia delle singole aree londinesi, badando bene a fare del giardino il polo centrale di tutta la narrazione: “[England] is now a garden, where nothing is wasted and nothing is spoilt […]” (NFN, Ch. X, p. 62, miei i corsivi). A proposito dell’importanza associata allo spazio verde circoscritto, può essere utile sottolineare la descrizione dell’ambiente nei suoi molteplici esempi: “Both shores [of the Thames] had a line of very pretty houses, low and not large, standing back a little way from the river; […]. There was a continuous garden in front of them, going down to the water’s edge, in which the flowers were now blooming luxuriantly, and sending delicious waves of summer scent over the eddying stream” (NFN, Ch. II, p. 8, miei i corsivi); “We […] were soon in the main road that runs through Hammersmith. […] There were houses about, some on the road, some amongst the fields with pleasant lanes leading down to them, and each surrounded by a teeming garden” (NFN, Ch. IV, p. 20, miei i corsivi); “[…] we were quite clear of Piccadilly Market […]. Each house stood in a garden carefully cultivated and running over with flowers” (NFN, Ch. VII, p. 35, miei i corsivi). Secondo Michael Waters: “At its simplest, this 42 Capitolo I badire l’originalità e il coraggio della risposta morrisiana a partire dalla topologia utopica. Since the members of the socialist utopia make no distinctions between work and leisure, or between utility and beauty, “garden” is no longer used exclusively to mark off those spaces reserved for refuge and recreation. “Garden” now legitimately designates almost any feature of the humanized landscape expressive of the “generosity and abundance of life” that brings Guest “to a pitch that he had never yet reached” (MSW, p. 23) […]. […] The originality of News lies parlty in its invitation to the reader to rethink the nature of city/garden relationships within the context of a work that itself makes strange the literature in which those relationships are otherwise defined56. È lecito chiedersi come mai William Morris, scrivendo NFN, abbia voluto rappresentare una fictio narrativa la quale, azzerando i tratti topologici di qualsivoglia utopia ottocentesca – si pensi a The Blithedale Romance (1852), Erewhon (1872) e Looking Backwards (1888) – si arricchisce di qualcosa che non era previsto. Non già semplicemente campagna, né montagna né città claustrofobica e angustiante, lo scenario nowheriano diventa il vero protagonista della scena della scrittura perché risulta in grado di mettere lo scrittore/narratore dinanzi agli archetipi cosmologici del creato e alle connesse problematiche assiologiche. Per questo, abbandonata la tradizione rinascimentale a cui si è già fatto riferimento, rendendola parte della sua narrazione e includendola nei modelli semantici astratti, all’io artistico non rimane che “cercare la sua strada”. Così, se Harold Bloom, nelle sue concezioni del Canone, avesse indagato finanche la tradientails a renewed attentiveness to the importance of gardens as beautifying elements of the humanized landscape. [Guest] finds gardens everywhere and in the most unexpected places. Trafalgar Square is now the site of an apricot orchard. There are rose gardens where Endell Street once stood, gardens surround the mills dottes along the banks of the Thames, and from the end of Piccadilly to the British Museum ‘each house stood in a garden carefully cultivated, and running over with flowers’ (MSW, p. 38)” (Waters, op. cit., p. 221). 56 Ivi, p. 222. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 43 zione utopica avrebbe, senza alcun dubbio, fatto assurgere l’alto valore estetico di Morris a pietra di paragone per le generazioni di scrittori a venire. E di tale ipotesi speculativa abbiamo un suggello interpretativo in quanto scrive il critico nel suo Il Canone occidentale. I libri e le scuole delle età, che sancisce i parametri atti a stabilire la qualificazione culturale di un’opera letteraria: “Un segno di originalità capace di assicurare status canonico a un’opera letteraria è una singolarità che mai assimiliamo del tutto o che diviene un dato tale che restiamo abbagliati dalle sue idiosincrasie”57. Rimane comunque l’incolmabile distanza diacronica tra la voce influente della tradizione e quella morrisiana, di cui ancora una volta la lettura ermeneutica di Bloom dà una precisa visione in termini di darwinismo letterario, nell’accezione di lotta per la sopravvivenza: Il fardello dell’influenza deve essere retto qualora si debba raggiungere, e ripetutamente, una significativa originalità nell’ambito della ricca tradizione letteraria occidentale. La tradizione non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l’inclusione nel Canone58. Pur in assenza di un esplicito riferimento da parte dell’io ciritco, quello che ha luogo è una riflessione sul significato della ricerca artistica di Morris, sul rapporto tra la propria arte e l’ideale estetico. E soprattutto sul modo in cui il preraffaellita deve rapportarsi alla coppia tradizione/originalità quando egli tenga ben presente che “Lo scopritore di una cosa” – per dirla con Schopenhauer – “è solo colui che l’ha raccolta e serbata riconoscendone il valore, non invece colui che casualmente l’ha presa in mano una volta e di nuovo l’ha lasciata cadere, o ancora lo scopritore dell’America è Colombo, non già il primo naufrago, get- 57 Harold Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Milano, Bompiani, 2000, p. 3. 58 Ivi, p. 7. 44 Capitolo I tato un giorno dalle onde laggiù”59, mettendo in chiaro la peculiarità della sua ricerca letteraria. In quest’ottica, a rafforzare il contrasto tra l’aspetto strutturalmente rilevante di NFN e le proiezioni utopiche del diciannovesimo secolo interviene l’effetto straniante60 della topologia londinese nowheriana laddove l’incontro delle due dimensioni assiologiche città/campagna esprime l’efficacia immaginativa di quella realtà parallela configurata da Morris. Con l’adozione del pensiero semiologico lotmaniano è possibile rintracciare l’opposizione epistemica sfera organizzata (cosmica)/sfera non organizzata (caotica)61, omologa all’antitesi euforia/disforia (utopia/realtà), implicante soprattutto la ricerca di una società ideale investita di una dimensione metatemporale che va ben oltre il mero escapism dall’impasse esistenziale. In questo senso, rispetto a Valgioiosa, Erewhon e Boston, non solo Nowhere si dà come stadio terminale della triade tesi (campagna)/antitesi (città)/sintesi (città-giardino) in cui viene attualizzata la più riuscita ambientazione utopica vittoriana, ma, per di 59 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, tomo I, 1981, p. 192. 60 A tal riguardo vanno segnalati quei passi in cui all’io percettivo si offrono immagini familiari rinnovate da una patina naturalistica di elevato valore ermeneutico: “I opened my eyes to the sunlight again and looked round me, and cried out among the whispering trees and odorous blossoms, ‘Trafalgar Square!’” (NFN, Ch. VII, p. 36); “Opposite to it was a wide space of greenery, without any wall or fence of any kind. I looked through the trees and saw beyond them a pillared portico quite familiar to me – no less old a friend, in fact, than the British Museum. It rather took my breath away, amidst all the strange things I had seen[…]” (NFN, Ch. VIII, p. 43). In proposito vale quanto ha notato lucidamente Raymond Williams: “This is a combination of what is essentially restoration, turning back history and drawing on medieval and rural patterns, and what was to express itself, formally, as town-planning, the creation of urban order and control. It is an imagined old London, before industrialism and the metropolitan expansion, and a projected new London, in the contemporary sense of the garden city” (Raymond Williams, The Country and the City, London, Chatto and Windus, 1973, p. 273). 61 Cfr. Jurij M. Lotman, Boris A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 2001, p. 171. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 45 più, sotteso al viaggio dalla città eponima verso Kelmscott Manor vi è una complessa modellizzazione topologica – modellizzazione di cui Lotman enuclea uno dei suoi più complessi schemi tassonomici spaziali. Prendendo in esame l’articolazione cognitiva secondo cui la Valgioiosa di Hawthorne e la Erewhon di Butler62, accomunate per via della loro connotazione naturalistica, si oppongono assiologicamente al “cockney paradise” (Boston) di Bellamy, appare evidente come l’immaginario sintetico di Morris, depositario di uno stimolante processo di disambiguazione, possieda quella formula in grado di restituire grandezza63 e autenticità a un’opera d’arte. A questo punto, per individuare la specificità isotopica di NFN può essere utile schematizzare la suddetta struttura tripartita incentrata sulle diverse entità topologiche presenti in The Blithedale Romance (1852; in seguito BR), Erewhon (1872; E), Looking Backwards (1888; d’ora in poi LB) e NFN (1890) nel modo seguente: 62 Per una lettura originale della figura letteraria butleriana si rimanda a Roberto Andreotti, Classici elettrici, Milano, BUR, 2006, pp. 43-44: “[…] l’ossessiva caccia al dettaglio dello stile ‘pompier’, in Butler si traduce nell’ambizione ridicola di ricollocare esattamente ogni cosa a suo posto, per filo e per segno, col testo a fronte (sempre la lettera contro la tradizione). Il risultato è una fanta-Odissea da lettrici petulanti e signorini vittoriani: più risotto letterario che arrosto, più fumo che genio, e a ogni riga, chiacchiere amene vendute come prove e quelli che noi chiameremo psicologismi, come il prendere manifestazioni di langue come dei fatti di parole”. 63 A proposito dell’importanza epistemica assunta dall’opera morrisiana, vale quanto osserva acutamente E. P. Thompson: “The writing of News from Nowhere strikes one with a sense of inevitability – it is such a characteristic expression of Morris’s genius, springing so logically from his development both as a creative artist and as political theorist. […] We are aware of his interest in the writings of Fourier, his enthusiasm for More’s Utopia, and his warm response to Samuel Butler’s Erewhon. We are aware of the ever-present intention in Morris’s mind to contrast the variety and simplicity of the life of ‘Nowhere’ with the bureacratic State Socialism (or ‘managerial revolution’) of Bellamy’s Looking Backward […]” (E. P. Thompson, William Morris. Romantic to Revolutionary, cit., p. 692). 46 Capitolo I TESI BR CAMPAGNA connotazione positiva ANTITESI LB CITTÀTECNOLOGICA conotazione negativa E CAMPAGNA-MONTAGNA connotazione positiva SINTESI NFN CITTÀ GIARDINO connotazione positiva Se con BR e E indichiamo il momento astratto o intellettivo (tesi) della dialettica hegeliana ove più evidente appare il discorso intorno al tema dell’astrazione di concetti determinati, possiamo facilmente concludere che la spazializzazione utopica della campagna, oasi mentale per l’io borghese, intesa come locus di attività centrifuga rispetto alla realtà disforizzante della città, finisce per assumere una funzione di pura iniziazione al procedimento metodologico che caratterizza il divenire dell’utopia inglese. In quest’ottica, alla prima fase del processo dialettico si contrappone l’antitesi (LB), vale a dire il momento negativamente razionale, che rimanda alla dinamizzazione degli esperimenti testuali utopici, in quanto, per conferire attendibilità ermeneutica a qualsivoglia concezione artistica, va considerata l’idea in rapporto al suo opposto. Di qui l’agone intertestuale contro LB, depositario di una cornice assiologica meccanicistica e depersonalizzante, a partire dalla disseminazione di quei “pneumatic tubes” atti a favorire il processo commerciale, come anche l’efficiente sistema telefonico portatore di messaggi etico-sociali. Non già la campagna accogliente di Valgioiosa, epitomizzata dal calore umano insito nel focolare64 della fattoria in 64 Per un’analisi stimolante della simbologia del fuoco in The Blithedale Romance si rimanda all’introduzione di Francesco Marroni “Nathaniel Hawthorne e la messinscena di un fallimento: ideali, maschere e inganni del Romanzo di Valgioiosa”, in Nathaniel Hawthorne, Il romanzo di Valgioiosa, Mi- W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 47 cui agisce una congrega di sognatori, e neppure la spazialità chimerica di E – commistione paesaggistica di campagna e montagna – afferente ai campi semantici della prosperità e luminosità65, ma ad emergere è la raffigurazione iperbolica di una città tecnologica, polo negativo e disvalore che distrugge la cifra estetica dell’umano sentire. Non a caso, contro la Boston idealizzata in LB, Morris esprime tutto il suo disappunto66 laddove prevale una rappresentazione insensibile dell’anima socialista, nonché una serie di manchevolezze etico-sociali da cui non può fare altro che prendere le mosse per mettere a nudo lano, Oscar Mondadori, 2003, pp. v-xxv. Vale la pena riportare qui i passi più significativi relativi alla semantizzazione del fuoco: “It was a wood-fire, in the parlor of an old farm-house, on an April afternoon, but with the fitful gists of a wintry snow-strom roaring in the chimney. Vividly does that fireside recreate itself, as I rake away the ashes from the embers in my memory […]” (Nathaniel Hawthorne, The Blithedale Romance, with an Introduction by Tony Tanner and Explanatory Notes by John Dugdale, Oxford, Oxford University Press, 1991, p. 9); “THE PLEASANT firelight! I must still keep harping on it. The kitchen-hearth had an old fashioned breadth, depth, and spaciousness, […]. It was half-an-hour beyound dusk. The blaze fom an armfull of subsantial sticks, rendered more combustible by brush-wood and pine, flickered powerfully on the smoke-blackened walls, and so cheered our spirits that we cared not what inclemency might range and roar, on the other side of our illuminate windows” (Ivi, p. 23). 65 Nel primo capitolo significativamente intitolato “Waste Lands” leggiamo: “[…] the country was timbered, but not too heavily; it was admirably suited for agriculture; it also contained millions on millions of acres of the most beautifully grassed country in the world, and of the best suited for all manner of sheep and cattle […]” (Samuel Butler, Erewhon, ed. Peter Mudford, Harmondsworth, Penguin, 1974, p. 40) che acquista maggiore chiarezza esemplificativa nel capitolo quinto “First Impressions”: “The country was highly cultivated, every ledge being planted with chestnuts, walnuts, and appletrees from which the apples were now gathering. Goats were abundant; also a kind of small black cattle, in the marshes near the river, which was now fast widening, and running between larger flats from which the hills receded more and more” (Ivi, p. 80). 66 Per un’indagine dettagliata della critica morrisiana a Looking Backwards si veda l’introduzione di David Leopold a William Morris, News from Nowhere or an Epoch of Rest. Being Some Chapters from a Utopian Romance, cit., pp. xix-xiii. 48 Capitolo I l’incapacità dell’io testuale di offrire una perfetta congiunzione tra le due accezione etimologiche dell’utopia (ou-topos; eutopos): Fondamentalmente [Morris] desiderava mostrare la sua visione del socialsmo per mezzo diverso di scrivere e di ritrarre l’utopia. Il fallimento di Bellamy, secondo Morris, non era semplicemente dovuto ad un’erronea visione del socialismo; era più seriamente, un difetto di temperamento dovuto all’incapacità di concepire il socialismo se non nei termini prosaici propri delle classi medie professionali. “L’unico modo giusto di leggere un’utopia”, diceva Morris, “è considerarla come l’espressione della natura del suo autore”67. Nell’ultimo stadio, denominato positivamente razionale, si ristabiliscono gli equilibri e, ancor più, si concentra il senso di una conciliazione degli opposti che, nella testualizzazione morrisiana, manifesta la reductio ad unum di due dimensioni antitetiche (campagna/città). In tal modo, si perviene alla tematizzazione di un’alleanza determinatasi dopo singolari tentativi di estremizzazione – alleanza che, dalla prospettiva del metalinguaggio dello spazio, implica il superamento sia dell’astrazione naturalistica (si fa riferimento a BR e E) sia della disumana visione urbana che NFN riesce a sintetizzare in un estremo slancio immaginativo. Andando oltre la contraddizione e, di conseguenza, superando gli opposti scenico-attanziali, l’utopia morrisiana, pur sempre nella sua astratta ideologicità, perviene a una concettualizzazione più concreta rispetto alle raffigurazioni spaziali da cui si è partiti, proprio perché NFN le contiene entrambe. Significativamente, in posizione intermedia, tra gli antonimi, si colloca la città-giardino verso cui il narratore alza lo sguardo per cercare di fare dello spazio familiare un qualcosa che risulta coinvolto nella metamorfosi utopica del tutto, tanto più se si 67 Krisham Kumar, “News from Nowhere: il rinnovarsi dell’utopia”, in Corrado et al., William Morris “News from Nowhere” cent’anni dopo, Napoli, Guida Editori, 1992, p. 78. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 49 pensa che la colorazione prevalente dello scenario londinese è “shabby” (NFN, p. 4) “grimy and miserable” (NFN, p. 126) caratterizzata da “grimy sootiness” (NFN, p. 8) e “degradation” (NFN, p. 57). La risposta morrisiana è tutta compresa nella messinscena di un mondo a dimensione umana che, come si è visto, nella sua precisa combinazione logico-semantica, modellizza la possibilità di un dialogo ontologicamente gratificante tra la natura e l’uomo: Many writers have commented by now on the “tree-hugging” qualities of Morris’ belief in a communion between the natural world and its inhabitants (recall that Ellen actually embraces a tree toward the end of News from Nowhere), and the ecological urgency of his political ideals seem much clearer now tha it did to Morris’ own socialist descendants half a century ago68. A questo punto, va anche osservato che la topografia nowheriana è indice di una ricerca tesa a rendere il componimento narrativo quanto più sorprendente e, allo stesso tempo, coerente nei suoi valori semantici. Non solo la città assume la fisionomia di un eden policromatico, laddove i giardini formano un unicum armonico, per di più, nell’attualizzazione degli snodi narrativi, il fiume si configura come area proairetica di non-disgiunzione tra la città (Londra) e la campagna (Kelmscott Manor). Protagonista della scena non è più l’agglomerato urbano plasmato all’interno di un territorio semantico che appartiene esclusivamente alla sfera della utopian fantasy, ma ora a stimolare la mente percettiva del lettore è l’entità equorea, astratta e concreta ad un tempo del fiume, che come un limbo destinale segna il passaggio da IN e ES2 – passaggio che è anche una cornice assiologica esterna a se stante (ES1): 68 Boos, op. cit., p. 297. 50 Capitolo I ES2 ES1 IN Proprio perché il vettore dell’orientamento semantico-strutturale dell’ambiente nowheriano si allontana spazialmente dalla cittàgiardino (IN), via via che l’azione volge all’epilogo, attraverso il fiume (ES1) fino a Kelmscott Manor (ES2), possiamo concludere che ci troviamo dinanzi a un convergere di contesti utopici relativizzati secondo l’asse orizzontale della superficie liquida del Tamigi. Si tratta di due diverse dimensioni cosmiche che, attualizzando l’opposizione semica QS/QL – dove QS è il primo quadro ontologico di matrice utopica a cui perviene Morris nel processo di trasfigurazione del reale, e QL è il mondo collocato al di là del fiume, l’ultimo tentativo di categorizzazione del percepito utopico –, danno particolare risalto e concretezza alla vera essenza di ES1. Non a caso, se da un lato la topologia del fiume si dà metaforicamente come segno esponenziale della rigenerazione vittoriana, veicolando insieme a IN il cambiamento delle coordinate storico-sociali, dall’altro essa rientra nella terminologia lotmaniana di semiosfera con cui si concettualizza la teoria di incontro/scontro dei sistemi semiotici (città/campagna). Dietro un simile tentativo di disambiguazione si cela la poetica di William Wordsworth, ampiamente assorbita dal testo morrisiano: W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 51 140 Not in Utopia, – subterranean fields, – 141 Or some secreted island, Heaven knows where! 142 But in the very world, which is the world 143 Of all of us, – the place where, in the end, 144 We find our happiness, or not at all!69 Dall’insegnamento wordsworthiano70, Morris deriva il convincimento che i propri ideali, anche quando risultano controcorrente e si presentano in forma di spettacolarizzazione visionaria, vanno perseguiti senza il timore di scontrarsi con la totalità disforica del mondo reale e, per questo, egli mira a ridisegnare il proprio itinerario mentale secondo modalità strategico-finzionali più vicine alla sensibilità contemporanea. È evidente che, dietro l’apparente semplicità del loro dettato, i versi nascondono il contrasto tra reale e irreale in termini di vita e non-vita, configurando al tempo stesso la voce poetica di “a man speaking to 69 William Wordsworth, The Prelude: 1799, 1805, 1850, ed. Jonathan Wordsworth, M. H. Abrams, and Stephen Gill, New York and London, Norton, 1979, vv. 140-144. 70 Sull’influsso romantico esercitato sulla formazione del gruppo preraffaellita risulta molto interessante quanto scritto da Eric Warner e Graham Hough: “[…] whereas Wordsworth and Coleridge were among the chief influences on Ruskin, it was Keats who presided over the later nineteenth century. […] Keats’s poetry was characterized by elements of an intense medievalism and fine, jewel-like details which spoke directly to young artists seeking a retreat from an ugly and industrial age. […] Keats created a world of intense aesthetic splendour which execised a powerful influence on Rossetti’s lovesoaked dreams […]” (Strangeness and Beauty. An Anthology of Aesthetic Criticism 1840-1910. Ruskin to Swinburne, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, vol. I, pp. 5-6). Su questo tema si veda anche quanto scrive Clive Wilmer: “From the Romanticism of Keats and Scott, Morris had learnt the power and value of dreams. Pre-Raphaelite art had seemed to take his dreams of an ideal rural England and the Middle Ages and make them palpable – in paint or sensuous verse” (Clive Wilmer, “Introduction” a William Morris, News from Nowhere and Other Writings, cit., p. xxvii). Da ultimo, può risultare utile riportare quanto osserva Coote riguardo l’atteggiamento della confraternita nei confronti dell’ambiente letterario coevo: “Their use of contemporary and Romantic poets also shows them in revolt against the commercialism of the age. Tennyson offered them a world beautified by reminiscences of chivalry and the ideals of art […]” (Coote, op. cit., p. 25). 52 Capitolo I men” tesa a mettere in rilievo l’assurdità della dislocazione spaziale utopica (“subterranean fields”; “secreted island”). I segmenti poetici posteriori alla congiunzione disgiuntiva But segnano il trionfo del paradigma familiare che, con un grado di estrema essenzialità, veicola al lettore il senso di una fratellanza in cui è coinvolta tutta l’umanità (“[…] the world / Of all of us”). Più precisamente, la doppia articolazione di tale estratto poetico trova un preciso riscontro anche sul piano lessematico nell’opposizione misterioso/familiare: la parte descrittiva vede un prevalere di termini astratti (subterranean; secreted) tesi ad attualizzare le immagini di una realtà parallela con la scelta di un linguaggio enumerativo, enfatizzato da una continuità fonica fricativa ove il suono della sibilante sembra intensificare ulteriormente l’istanza irrealistica degli ambienti marginalizzati. Ne consegue che la centralità ipogrammatica della versificazione wordsworthiana è espressa nella seconda parte della modellizzazione antinomica, in cui si registrano circolarità tautologiche (“But in the very world, which is the world / Of all of us”) atte a postulare l’isotopia relativa alla felicità esistenziale. E indubbiamente, se si assume questo punto di vista, vale l’osservazione di Rowland McMaster: Morris communicates the sense of pleasure not as statical, abstract, and theoretical, but as vivid, experienced, earthy; and unlike the Romantics (except Wordsworth, perhaps), he does not see pleasure as exotic, bizarre, removed from the ordinary, but as normal. News from Nowhere, utopian though it may be, is a paean to “the present pleasure of ordinary daily life71. È questo un esempio che forse più di ogni altro – soprattutto alla luce dell’organizzazione formale di NFN – può risultare utile per comprendere la visionarietà realistica morrisiana, e per vedere fino a che punto il preraffaellita riesce immaginativamente 71 Rowland McMaster, “Tensions in Paradise: Anarchism, Civilisation, and Pleasure in Morris’s News from Nowhere”, English Studies in Canada, 17, 1 (March 1991), p. 82-83. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 53 a mediare tra la sua concezione virtualmente positiva della vita e l’esigenza di andare al di là di un simile sguardo idealistico. In tale prospettiva, il fiume, collocato sotto il sema bellezzaluminosità, appare il supremo tentativo utopico di testualizzare, su un ampio spettro cosmico, la duplice pulsione ontologica verso le polarità natura/umanità. Tutto concorre a creare un ambiente esterno fornito di uno scenario acquatico significativamente incontaminato a cui il narratore fa riferimento in termini di “beautiful”, “interesting” (NFN, p. 159) e “lovely river” (NFN, p. 122): “There was still the Thames sparkling under the sun, and near high water, as last night I had seen it gleaming under the moon” (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 5); e ancora di più: “Where there are salmon, there are likely to be salmon-nets, Tay or Thames […]” (Ivi, p. 7). Dall’evocazione del fiume72, discende una forma di conversione emotivo72 Nell’immaginario morrisiano, il fiume assume un’evidente funzionalità simbolica che risulta fortemente euforica. Tra i molteplici esempi di codificazione naturalistica qui vorrei ricordare The Earthly Paradise e, in particolare, la lirica “June” ove ad emergere è l’isotopia della felicità connessa all’assiologia positiva del corso d’acqua: “O June, O June, […] / Wilt thou not make us happy on this day? […] What better place than this then could we find / By this sweet stream that knows not of the sea, / […] / This little stream whose hamlets scarce have names, / This far-off, lonely mother of the Thames?” (William Morris, Selected Poems, cit., p. 92). Va anche segnalata l’equazione fiume = luminosità, presente non solo in NFN ma anche in The Story Of The Glittering Plain (1890), al fine di stabilire anche in modo visuale il primato dell’elemento equoreo negli snodi diegetici del romance: “[…] I came out of the hall, and saw […] the glittering river running down amid most, and the sheep and kine and horses feeding up and down on either side the water: and I looked up at the fells and saw how deep blue they stood up against the snowy peaks, and I thought of all our deeds on the deep sea, and the merry nights, in yonder abode of men […]” (The Story of The Glittering Plain, Ch. XXII, “They Go From The Isle Of Ransom And Come To Cleveland By The Sea”, in The Collected Works of William Morris, with introductions by his daughter May Morris, New York, Russell & Russell, 1966, vol. XIV, pp. 319-320). Per di più, sulla prosperità derivante da questa fonte di sostentamento, a cui Morris dedica non poche pagine in NFN, soprattutto in relazione alla fauna acquatica, si rimanda alla descrizone della comunità barbarica presente in The House of The Wolfings (1888) che vive in comunione 54 Capitolo I psicologica, un’empatia, un dialogo che dà voce alle esigenze dell’animo umano presentandolo in uno stato di felicità raggiunta, vale a dire in un continuo confrontarsi con i segni euforici di una natura amica: As we went higher up the river, there was less difference between the Thames of that day and Thames as I remembered it; for setting aside the hideous vulgarity of the cockney villas of the well-to-do, stockbrokers and other such, which in older time marred the beauty of the bough-hung banks, even this beginning of the country Thames was always beautiful; and as we slipped between the lovely summer greenery, I almost felt my youth come back to me, and as if I were on one of those water excursions which used to enjoy so much in the days when I was too happy to think that there could be much amiss anywhere. […] but so blended together by the bright sun and beautiful surroundings, including the bright blue river, which it looked down upon, that even amidst the beautiful buildings of that new happy time it had a strange charm about it (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court. And a Praiser of Past Times”, pp. 124-5). Il segmento incipitario, oltre ad istituire il parallelismo temporale tra ora e allora73, interviene come cerniera assiologicocon la natura, seguendo il ciclo vitale delle stagioni: “[…] they fished the river’s eddies also with net and with line; […]. The river ran from South to North, and both on the East side and on the West were there Houses of the Folk, and their habitations were shouldered up nigh unto the wood, so that ever betwixt them and the river was there a space of tillage and pasture” (The House of The Wolfings, Ch. I, “The Dwellings Of Mid-Mark”, in ibid., pp. 45). 73 Su questa linea si inserisce il giudizio di Vita Fortunati che, per molti aspetti, si offre come sintesi esemplare dell’innovazione apportata da NFN: “Si coglie ancora una volta quel salto qualitativo dell’Utopia di Morris rappresentato appunto dalla determinazione storica della sua negazione. Non si tratta più di un’isola fantastica, né di una nazione, magari di una mitica ‘New Zealand’, ma il nuovo mondo, la nuova Londra coincide con la precisa negazione della vecchia” (Vita Fortunati, La letteratura utopica inglese. Morfologia e grammatica di un genere letterario, Ravenna, Longo, 1979, pp. 129-130). W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 55 lessicale, postulando in questo modo il paradigma della bellezza su due assi temporali che si sovrappongono nella mente del narratore intradiegetico. Ne deriva l’annullamento dell’opposizione bellezza vs. degradazione omologa all’opposizione presente vs. passato, quasi a voler comprovare la possibilità di un recupero della totalità perduta. La costruzione delle frasi successive (“and as we slipped […], and as if I were”) pone l’enfasi proprio sugli effetti propedeutici derivanti dal corso d’acqua, che, grazie all’iterazione della congiunzione and, acuisce la meraviglia percettiva dell’io narrativo. In questo senso, a conferire coesione argomentativa interviene un’isotopia verticale di tipo grammaticale (“I almost felt my youth come back to me”; “I were on one of those water excursions”; “I was too happy to think”, miei i corsivi) che, presentando tre occorrimenti del pronome personale “I”, ribadisce il primato della soggettualità utopica di cui l’iterazione allitterativa della nasale [m] inscritta, più specificativamente nel possessivo “my”, è espansione fonica dell’affettività dell’evento edenico. Sul piano della sovradeterminazione psicologico-emotiva, si può notare come il campo semantico della felicità, in sintonia tematica con il paesaggio della positività, si articoli in due manifestazioni personali laddove il Tamigi diviene icona di uno spazio domestico che si sdoppia tra passato (“I almost felt my youth come back to me […] in the days when I was too happy to think that there could be much amiss anywhere”) e presente (“[…] the bright blue river […] of that new happy time it had a strange charm about it”). Ed è da questo elemento, con forte marca metonimica, che si dispiega la funzione ontologicamente rilevante del “bright blue river”, volto a sottolineare l’eccezionalità della visione e nel contempo in grado di imporsi come spazio semantico privilegiato entro il quale ha luogo la rigenerazione dell’anima. A tal riguardo, vale quanto ha notato acutamente Boos in un saggio significativamente intitolato “An Aesthetic Ecocommunist: Morris the Red and Morris the Green”, scritto in occasione del centenario della morte di Morris: 56 Capitolo I Morris […] spoke clearly of the need for a proper harmony of people and the natural order they live in, warned us about the forces which blight and mutilate that harmony, and called fiercely in the last two decades of his life for resistance. […] His fundemantal insights were […] [founded] in the conviction that human happiness lies in our ability to live in (literal) symbiosis with our environment – understanding it, preserving it, transforming it and sometimes resisting it, in loving artistic ways74. Vero è che ogni aspetto del romanzo è organizzato in modo nient’affatto casuale, a partire dal metalinguaggio topologico che, depositario della denuncia delle dinamiche disgreganti della società, delinea una serie di dislocazioni i cui itinerari portano fuori da Londra, per culminare nella centralità spaziale del fiume, nel punto (Oxfordshire) in cui le sue acque incontaminate risplendono di una luce e colorazione simbolica. È un’armonia cromatica, quella veicolata da NFN, che, nel caso del Tamigi wildiano si attiva solo nella placidità magica della notte (“The Thames nocturne of blue and gold / Changed to a harmony in grey”, “Impression du Matin”, 1881)75 per restituire poi al mattino la sua vera cifra estetica esemplificata dal colore grigio, correlativo oggettivo di una condizione ecologica disforica. In questo senso, alla luce di quel particolare effetto visivo derivante dalla luminosità diffusa dell’acqua, ottenuta con la valorizzazione della chiarezza intrinseca dei toni cromatici – così come la intendeva Edmund Spenser nella lirica “Prothalamion” del 1596 (“Walk’d forth to ease my pain / Along the shore of silverstreaming Thames / Whose rutty bank, the which his river hems, / Was painted all with variable flowers”, vv. 10-13)76 –, 74 Florence S. Boos, “An Aesthetic Ecocommunist: Morris the Red and Morris the Green”, in William Morris Centenary Essays. Papers from the Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at Exeter College, Oxford 30 June-3 July 1996, cit., pp. 44-45. 75 Oscar Wilde, Poems, H. S. Nichols, New York, Modern Library, 1940, p. 77. 76 Edmund Spenser, Selected Poetry of Edmund Spenser, ed. William Nelson, New York, The Modern Library, 1964, p. 573. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 57 quello che si spalanca dinanzi ai nostri occhi è una visione77 favolistica del medium equoreo utopico. Emblematicamente, è proprio l’orizzontalità del corso d’acqua, e non già la città, a postulare “la verità del domani”78, un “sylvan Thames”79 la cui tipologizzazione è così intensa da rimandare alla connotazione antropomorfica arnoldiana (“And the sweet, tranquil Thames”, “Philomela”, 1853)80 ove scorgiamo l’indicatore prolettico di un futuro processo di umanizzazione del reale: West London has become a wood, the Thames is refilled with fish, the countryside has become a diverse landscape like his favourite northern France, with corn grown in orchards. This renewed landscape was the ultimate fulfilment of all the lesser changes Morris argued for, especially in the urban environment: “we must turn this land from the grimy back-yard of a workshop into a garden”81. Diversamente dall’acqua pesante e tenebrosa della metapoetica di Edgar Allan Poe, “autentico supporto materiale della morte”82, l’elemento equoreo morrisiano attiva una rêverie cosmica positiva intrisa di profondi psicologismi individuali e/o collettivi. Tale psichismo hydrant è rintracciabile nel battelliere Dick (“playing waterman for spree”, NFN, p. 7), vittima del com77 In proposito Roger Coleman ha giustamente osservato: “Morris was a visionary, not a clairvoyant, and News from Nowhere is neither prediction nor prescription; instead it offered a vision of the future as Morris would have liked to see it, and finishes – ‘Yes, surely! And if others can see it as I have seen it, then it may be called a vision rather than a dream’” (Coleman, op. cit., p. 28). 78 Massimo Baldini, Il linguaggio delle utopie. Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica, Roma, Edizioni Studium, 1974, p. 9. 79 Peter Faulkner, “William Morrris and the Idea of Enlgand”, in Kelmscott Lecture 1991, London, William Morris Society, 1991, p. 20. 80 Matthew Arnold, The Works of Matthew Arnold, ed. Martin Corner, Hertfordshire, Wordsworth Editions Ltd, 1995, p. 220. 81 Paul Thompson, “Why William Morris Matters Today: Human Creativity and the Future World Environment”, in Kelmscott Lecture 1990, cit., p. 13. 82 Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, Milano, Red Edizioni, 2006, p. 77. 58 Capitolo I plesso di Caronte e incaricato di traghettare lo stanger nell’al di là utopico, come anche nella ninfa di Runnymede, Ellen, che “ofelizza” le acque nowheriane in un sogno d’amore (“As it cleared the arch, a figure as bright and gay-clad as the boat rose up in it; […] I saw with joy that it was none other than the fairy godmother from the abundant garden on Runnymede – Ellen, to wit”, NFN, p. 155). Ma è soprattutto nel protagonista William Guest che riconosciamo il complesso di Swinburne83, un’“esaltazione delle acque” favorita da una nuotata mattutina nel Tamigi, momento di estasi poetica e seduzione sognatrice (“I jumped in without any words and he paddled away quietly as I peeled for my swim […] and so utterly astonished was I by what I saw […]”, NFN, p. 6). Alla luce di questi variegati stati psicologici che caratterizzano Dick (Caronte), Ellen (Ofelia) e William (Swinburne), non è azzardato postulare un complesso poetizzante dell’acqua che si offre come risposta celata nel testo morrisiano alle disarmonie vittoriane. L’acqua, per dirla con Tristan Tzara, diviene il più fedele “specchio delle voci”84 umane depositarie di una liquidità psichico-linguistica, segno vitale di una realtà totalizzante. 1.3. Morris e le istanze del medesimo. Nel processo creativo di William Morris assistiamo alla ricerca delle similitudini con l’episteme medievale, in una continua oscillazione tra la decifrazione euforica di un mondo finzionale somigliante all’ordine delle cose passate e la delusione delle analogie, implicante la discontinuità tra Ottocento e Trecento. Se il sistema degli elementi morrisiani rinvia ai modelli medievali in termini 83 Per una chiara esemplificazione di tale complesso psico-fisico, si veda quanto scritto da Bachelard: “Il complesso di Swinburne, ne siamo certi, verrà riconosciuto da ciascun nuotatore. Sarà soprattutto riconosciuto da tutti quei nuotatori che narrano le proprie nuotate, che trasformano le proprie nuotate in poesia, perché si tratta del complesso poetizzante del nuoto” (ibid., p. 190). 84 Citato in ibidem, p. 213. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 59 di una “nostalgia for an idealised chivalric order”85, lo spazio del sapere culturale preraffaellita si costituisce attraverso ciò che Foucault chiama “le istanze del medesimo”86: convenentia, aemulatio, analogia e simpatia. Assumendo la prospettiva della “convenienza”, intesa come somiglianza legata allo spazio, è possibile ipotizzare una vicinanza tra i mondi di Chaucer e Malory87 e il macrocosmo dello scrittore preraffaellita, tra la Londra raffigurata in The Canterbury Tales e la Londra ecologica di The Earthly Paradise, tra il reame incantato de Le Morte D’Arthur – un Bildungsroman arturiano costituito da plurime tipologie spaziali (casate, campi di battaglia e cappelle) – e la sanguinaria ambientazione cavalleresca di The Defense of Guenevere, secondo una mescolanza delle saghe e delle leggende capace di rivelare una “parentela oscura”88. Pertanto, la mitologica Danimarca di Beowulf, l’insegnamento morale offerto nella Camelot di Sir Gawain and the Green Knight e la ricerca spirituale condotta nel regno di Upmeads (ove si oppongono la Terra dell’Abbondanza alla terra selvaggia), 85 John Simons, From Medieval to Medievalism, New York, St. Martin’s Press, 1992, p. 109. 86 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, BUR, 2004, p. 38. 87 Per una lettura approfondita dell’influenza che il macrotesto maloriano esercitò sull’immaginazione letteraria di Morris si rimanda a Laura Corner Lambdin, Camelot in the Nineteenth Century: Arthurian Characters in the Poems of Tennyson, Arnold, Morris, and Swinburne, Westport, Greenwood Press, 2000, p. 74: “Morris’s four Arthurian poems, although they often deviate in details from their source, are true to the spirit of Malory’s Morte. As an undergraduate at Oxford, Morris bought Robert Southey’s 1817 edition of the Morte, and it quickly became the most important book in the world to him. The poems are all original because Morris exposed and examined the motivations Malory mentioned, but did not amplify. Like most writers, Morris uses his source as a springboard from which to elaborate his own ideas and concerns, which, in this case, develop around the fine line between human love in its highest form and and this same love as it dissolves into sin”. 88 Foucault, op. cit., p. 32. 60 Capitolo I presente in The Well at the World’s End89, sono “convenienti” al punto che il mondo medievale assume la funzione di “convenienza” universale delle cose morrisiane. Nondimeno, la rappresentazione del mondo vittoriano si offre come emulazione di un assetto sociale esaltato da Morris nel saggio “Architecture and History”: “We shall have much more to do with the developed Middle Ages, with the work of which our Society is chiefly concerned, than with any other period”90. Sottesa a questa forma di similitudine, scorgiamo una reduplicazione speculare priva di contatto spaziale, atta a rimandare alla struttura sociale del quattordicesimo secolo, basata sui valori dell’onore, del coraggio e del sacrificio. Per dirla con Elizabeth Fay: Despite the Arthurianism of early Victorians […] Victorian medievalism was rather more concerned to contrast feudalism with commercial society and, from Carlyle and Marx to William Morris, began to focus on the later fourteenth century and that period’s struggle to adjust codes of honour to economic change91. Visti da lontano, i lavoratori morrisiani sono l’emulo degli artigiani medievali; come l’intelletto dell’uomo vittoriano riflette imperfettamente la saggezza92 dei cavalieri, così Morris cerca di colmare quello che Angela Jane Weisl definisce “unpassable 89 William Morris, The Well at the World’s End, introduction by Nicholas Salmon, Stroud, Gloucestershire, Sutton Publishing, 1996. Tutte le citazioni faranno riferimento a questa edizione, di cui saranno indicate le pagine precedute dalla sigla WWE. 90 William Morris, “Architecture and History” 1884, in On Architecture, ed. Chris Miele, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996, p. 104. 91 Elizabeth Fay, Romantic Medievalism: History and the Romantic Literary Ideal, Basingstoke, Palgrave, 2002, p. 3. 92 “In the Middle Ages, the intelligence lay with the great craftsmen class, – and that again, I think, was a decided advantage, both for them and for us; since it has given us, amongst other treasures not so famous, but scarcely less glorious, the poems of Shakespeare” (William Morris, “The Development of Modern Society”, in On History, ed. Nicholas Salmon, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996, p. 122). W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 61 abyss”93, adottando una nuova definizione dell’individuo che proietta l’immagine di un uomo in grado di incarnare una “knighthood modernized”94. E in questo confronto vis à vis, l’emulo si impossessa dell’originale, in un continuo raddoppiamento del simile, teso a mettere in rilievo la concentricità del processo emulativo: “[The Victorian Period] sought to make the Middle Ages in its own image, […] an image of the Middle Ages in which change and innovation take pride of place”95. Tutto questo emerge anche dall’immenso potere dell’analogia che stabilisce similitudini sottili con il mondo medievale, facendo del “gothic peasant”, il campo universale di applicazione, nonché punto d’irradiazione di tutte le analogie possibili. Così, nel tematizzare l’associazione tra arte, moralità, politica e religione, Morris aspira in primo luogo a pervenire a una rappresentazione verbale dell’uomo capace di “resolve an unbearable instability between original and copy”96. Di questo contadino medievale, lo scrittore preraffaellita riesce a tracciare non già le scene cruenti di gesta rivoluzionare, ma il suo aspetto ornamentale, epitomizzato dal “linen cloth” di John Ball, che rinvia all’idea deautomizzante espressa nel saggio “The Lesser Arts of Life” (1882), ove leggiamo: “Garments should veil the human form, [...] expressive of the endless beauty of motion”97. Quindi, se la rivolta morrisiana scaturisce da un emblema del Medioevo – l’abito – , è da ritenere che il rapporto che il profeta vittoria93 Angela Jane Weisl, The Persistence of Medievalism, New York, Palgrave, 2003, p. 8: “The contemporary presence of medievalism has the surprising result of questioning the assumption that between now and the Middle Ages lies an ‘unpassable abyss’, a divide of time, distance, and often language. Catherine Brown claims that ‘everyone who has ever read a medieval book [...] has felt this foreignness intimately in his or her suddenly awkward flesh’”. 94 Fay, op. cit., p. 109. 95 Marina S. Brownlee, The New Medievalism, Baltimore, Maryland, The John’s Hopkins University Press, 1991, pp. 8, 12. 96 Kathleen Biddick, The Shock of Medievalism, Durham, North Carolina, Duke University Press, 1998, p. 39. 97 William Morris, On Art and Design, cit., p. 90. 62 Capitolo I no98 instaura con l’episteme trecentesca è perlomeno ambivalente. Non a caso, l’arte del vestire, l’ultima delle arti minori discussa “with some trepidation” nel saggio del 1882, chiama in causa una filosofia di vita in linea con i dettami della civiltà medievale e al contempo intrisa di una forza innovatrice che va interpretata come recupero del “pleasure of the eyes in common life”. In breve, come ha sottolineato Kathleen Biddick: Morris (following Ruskin) publicized a universalizing, public rhetoric of medieval peasants and their handicrafts that produced medieval peasants as the belated examples of Morris and Company ornament [...]99. The “Gothic peasant” that haunts Morris and justice and makes their work possible can now be made out as an extremely effective optical device for medievalism, a looking glass whose magic is to mirror back work and community as phantasmatically whole again, untroubled by gender and sexuality100. L’interesse morrisiano per l’architettura e il design del quattordicesimo secolo, senza dimenticare i manoscritti miniati101 capaci di visualizzare la totalità umana in atmosfere gotiche, la ricerca cioè di un nuovo linguaggio visivo, volto a catturare la bellezza delle cose medievali, suggerisce l’idea di una simpatia, di un’attrazione viscerale verso la cultura del “comfort” e del 98 Cfr. Harold Bloom, Genius: A Mosaic of One Hundred Exemplary Creative Minds, New York, Warner Books, 2003, p. 705: “Perhaps Lawrence, [...] should be regarded as the last of the Victorian prophets: Carlyle, Ruskin, Newman, Arnold, Mill, Huxley, Morris, Butler”. 99 Biddick, op. cit., p. 39. 100 Ibid., p. 55. 101 A tal riguardo si rimanda a Michaela Braesel, “The Influence of Medieval Illuminated Manuscripts on the Pre-Raphaelites and the Early Poetry of William Morris”, The Journal of William Morris Studies, 15, 4 (Summer 2004), p. 50: “Morris referred to these miniatures in his poems because through their detailed naturalism they provided him with inspiration for finding poetic similes. He regarded those miniatures not as illuminations, but as pictures their own right, whose messages he translated – with variations – from a visual into a verbal medium”. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 63 “self-respect”102. Dietro l’accostamento alle chiese gotiche francesi, secondo un principio di mobilità esteriore e visibile, si cela un moto interno creativo, un’assimilazione dei dettami estetici medievali che altera l’identità vittoriana ormai priva di individualità estranee al modello di riferimento. Si tratta di un atteggiamento che implica lo stravolgimento delle tassonomie architettoniche vittoriane che, per il “leader in design”103, vuol dire “freedom of hand and mind subordinated to the co-operative harmony which made the freedom possibile. That is the spirit of Gothic Architecture ...”104. In questa prospettiva, la filosofia architettonica morrisiana porta con sé in superficie il primato della dignità – gli edifici esteticamente piacevoli hanno un referente esatto nella scala dei valori socio-culturali. A Gothic building has walls that it is not ashamed of; and in those walls you may cut windows wherever you please; and, if you please may decorate them to show that you are not ashamed of them; your windows, which you must have, become one of the great beauties of your house, and you have no longer to make a lesion in logic in order not to sit pitchy darkness in your own house, [...]: your window, I say, is no longer a concession to human weakness, an ugly necessity (generally ugly enough in all consicence) but a glory of the Art of Building105. Un’ulteriore testimonianza della “simpatia” morrisiana verso l’assiologia positiva del Medioevo, è apportata dall’applicazione emotivo-affettiva delle regole architettoniche gotiche da parte del capo mastro Walter, protagonista dello short romance “The 102 William Morris, “The Hopes of Civilization”, in Signs of Change, cit., p. 56: “The workmen of the Middle Ages lived in more comfort and selfrespect that ours do, even though they were subjected to the class rule of men who were looked on as another order of beings than they”. 103 Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Design: From William Morris to Walter Gropius, New Haven and London, Yale University Press, 2005: “At the end of the eighties, as was shown, Morris was the leader in design, Norman Shaw in architecture” (p. 125). 104 William Morris, “Gothic Architecture”, in On Architecture, cit., p. 150. 105 Ibid., p. 156. 64 Capitolo I Story of the Unknown Church”, intento in una decorazione tombale dedicata alla commemorazione delle persone a lui care e ormai scomparse, i cui risvolti sentimentali rimandano al saggio “The Churches of North France: The Shadows of Amiens”. Anche qui è lo scenario religioso delle decorazioni, dei dipinti e delle vetrate policromatiche presenti nelle chiese gotiche a introdurre il lettore in una realtà introspettiva perché, come afferma Frederick Kirchhoff, “[o]ld curches had for Morris as boy and man a very special message, speaking a language his whole nature craved to hear […] they were never quaint or queer but expressed in their lovely dignity and stillness the state of mind he always aimed at but seldom achieved”106. Alla sovranità della “simpatia” per le costruzioni religiose di origine gotica, fa da contrappunto “l’antipatia” ruskiniana racchiusa nella differenza ostinata del suo atteggiamento verso la freddezza veicolata dagli ambienti interni ecclesiastici. In tal modo, il delicato equilibrio tra “simpatia” e “antipatia” consente di preservare le singolarità vittoriane, assicurando l’originalità del medievalismo morrisiano rispetto al Gothic Revival più propriamente ruskiniano: Morris’s English Gothic church, however, falls into a category neglected by Ruskin, who remarked in Seven Lamps of Architecture that “I could have wished to have given more examples from our early English Gothic; but I have always found it impossible to work in the cold interiors of our cathedrals ...”. Ruskin also comments that “a building cannot be considered as in its prime until four or five centuries have passed over it ...”. The ‘unknown curch’, then, is – or was – an English Gothic church destroyed two hundred years ago, in its Ruskinian ‘prime’, and any penumbra of it has vanished from recent memory107. 106 Frederick Kirchhoff, William Morris: The Construction of a Male Self, 1858-1872, Athens, Ohio University Press, 1990, p. 17. 107 Florence S. Boos, “The Structure of Morris’s Tales for the Oxford and Cambridge Magazine”, Victorian Periodicals Review, 20, 1 (Spring 1987), p. 6. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 65 In questa prospettiva, non possiamo ignorare come convenientia, aemulatio, analogia e simpatia determinino il ripiegamento su sé stesso dell’universo morrisiano, volto a duplicarsi, a riflettersi a concatenarsi affinché le cose vittoriane possano essere somiglianti alle cose medievali. È questo disseppellimento delle similitudini con il passato che viene segnalato sulla superficie delle cose, una segnatura mirante a mettere in luce il valore intrinseco dell’insieme delle conoscenze medievali. Tale configurazione epistemica offre una chiara esemplificazione del concetto di archeologia letteraria, intesa come ricerca della relazione tra passato e presente, tra invisibile e visibile, che ben si presta alla decifrazione del mondo vittoriano così come viene configurato da Morris nel romanzo utopico NFN. A volere dare credito a un simile approccio, l’opera narrativa del fondatore della Society for the Protection of Ancient Buildings (SPAB, 1877) presenta al lettore un viaggio archeologico alla ricerca dei resti monumentali del passato, finalizzato alla conservazione, allo studio e all’interpretazione di oggetti e rovine repertoriati nel “nowhere” londinese. Dietro la rappresentazione di sé come osservatore, o meglio archeologo – qui si pensi all’ammissione autoriale del suo “archeological naturalhistory side” (NFN, p. 12) –, Morris cerca di ristabilire il legame tra le parole e le cose in virtù della struttura topologica della sua “imaginary homeland” così come mette in chiaro Foucault: “le utopie […] si schiudono […] in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro accesso è chimerico. […] È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: sono nella direzione giusta del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula […]”108. Alla luce di questa visione dell’archeologia in termini di studio degli eventi discorsivi, alla luce dell’incontro epistemico tra testi letterari e territori archeologici, possiamo affermare che parte del sapere vittoriano si colloca nelle performances verbali 108 Foucault, op. cit., pp. 7-8. 66 Capitolo I degli scritti critico-sociali morrisiani (tra cui ricordiamo “The Prospects of Architecture in Civilization”109, 1881, “Vandalism in Italy”, 1882, “Architecture and History”, 1884, contro il restauro dei monumenti antichi), nonché nell’interazione dialogica dei suoi personaggi utopici che sancisce il primato del dato medievale. Grazie a un raffinato escamotage diegetico, la Londra del ventunesimo secolo e il suo paesaggio circostante risultano molto simili a un microcosmo trecentesco, a partire dai codici architettonico, numismatico e decorativo, in grado di rivelare i segni della somiglianza (ponti, case, monete, abiti, giardini), vale a dire l’affinità tra le cose vittoriane e le cose medievali. In questa prospettiva, il viaggio morrisiano conduce a un pensiero localizzato nello spazio, a parole che si collocano in un luogo, al fine di creare un sistema di elementi dominato dall’ordine, ove a prevalere è un costante riferimento ai modelli estetici del passato. Proprio come un Don Chisciotte110 contemporaneo, il protagonista della visione nowheriana, William Guest, assurge a “eroe del Medesimo”111, non tanto per il setting familiare in cui è ambientata la vicenda, quanto per le identità che si stabiliscono con le figure epistemologiche tipiche del quattordicesimo secolo – per Morris l’osservazione dei segni utopici (cose e parole) diviene un cammino alla ricerca delle similitudini con l’epoca medievale. Emblematici sono le descrizioni e i dialoghi all’insegna della formula estetica preraffaellita, basata sui paradigmi di bellezza, semplicità, eleganza, che, senza varcare mai la soglia della differenza e facendo affidamento sulle istanze del medesimo, 109 “No one […] can fail to know what neglect of art has done to this great treasure of mankind: the earth which was beautiful before man lived on it, which for many ages grew in beauty as men grew in numbers and power, is now growing uglier day by day, and there the swiftest where civilization is the mightest [...]” (William Morris, “The Prospects of Architecture in Civilization”, in On Architecture, cit., p. 70). 110 Dal punto di vista della fenomenologia equorea, l’intertestualità con la realtà donchisciottesca risulta ancora più evidente se confrontiamo il “bright blue river” londinese con le acque limpide del fiume Ebro. 111 Foucault, op. cit., p. 61. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 67 mostrano come l’avventura di “Don” Morris porti a pieno compimento un processo culminante nell’individuazione delle somiglianze segrete sotto i segni. Qui può essere interessante notare come, nella prima rappresentazione visibile dell’ordine, il ponte di Hammersmith, così come l’insieme degli edifici, siano costruiti in modo completamente aderente ai canoni architettonici del quattordicesimo secolo e comunque con similitudini di grande espilicitazione tematica: “I had perhaps dreamed of such a bridge […]; for not even the Ponte Vecchio at Florence came anywhere near it” (NFN, p. 7); “On the other, the south side, of the road was an octagonal building with a high roof, not unlike the Baptistry at Florence in outline [...]” (NFN, p. 21). Parimenti, il campo semantico del vestiario, rintracciato nelle descrizioni attanziali del barcaiolo Dick (“His dress would have served very well as a costume for a picture of fourteenth-century life”, NFN, p. 7), dello spazzino Boffin (“[...] he will dress so showily, and get as much gold on him as a baron of the Middle Ages”, NFN, p. 19) e degli abitanti nowheriani in genere (“[...] their dress was somewhat between that of the ancient classical costume and the simpler forms of the fourteenth-century garments, [...]”, NFN, p. 13), determinando un effetto di specularità assiologica, suggerisce al lettore la necessità di una connessione epistemica, preannunciata nel saggio “Architecture and History” del 1884 dove Morris con un tono didattico afferma: “Let us admit we are living in the time of barbarism betwixt two periods of order, the order of the past and the order of the future”112. Ma c’è di più. L’indagine archeologica della segnatura nowheriana rivela a un tempo le identità (rispetto al medioevo) e paradossalmente le differenze (con il diciannovesimo secolo), quasi a voler sancire l’atteggiamento di denuncia dell’io narrante, deluso dalla frustrante divaricazione spazio-temporale tra lo scenario disforico vittoriano a cui è abituato e l’armonia della 112 121. William Morris, “Architecture and History”, in On Architecture, cit., p. 68 Capitolo I realtà futura “old-fashioned”. Nonostante la tematizzazione dell’uguaglianza funga da innesco al movimento verso la ricerca di una modalità di comunicazione con il mondo medievale, è indubbio che il pattern dialogico, una volta avviato, finisce quasi sempre per affermare il fallimento del sistema delle positività vittoriane. Ad essere veicolata è l’immagine negativa di degrado e squallore rintracciata a partire dagli indici di non-somiglianza e più precisamente dal confronto delle attività del mangiare e del bere che attualizzano l’antitesi scarsa qualità/eccellenza, omologa all’opposizione spreco/parsimonia: [...] as at our breakfast, everything was cooked and served with a daintiness which showed that those who had prepared it were interested in it; but there was no excess either of quantity or of gourmandise; everything was simple, though so excellent of its kind; and it was made clear to us that this was no feast, only an ordinary meal. The glass, crockery, and plate were very beautiful to my eyes, used to the study of mediaeval art; but a nineteenth century club-haunter would, I daresay, have found them rough and lacking in finish; the crockery being lead-glazed pot-ware. though beautifully ornamented; the only porcelain being here and there a piece of old oriental ware. The glass, again, though elegant and quaint, and very varied in form, was somewhat bubbled and hornier in texture than the commercial articles of the nineteenth century. The furniture and general fittings of the hall were much of a piece with the table-gear, beautiful in form and highly ornamental, but without the commercial ‘finish’ of the joiners and cabinet-makers of our time. Withal, there was a total absence of what the nineteenth century calls ‘comfort’ – that is, stuffy inconvenience; so that, even apart from the delightful excitement of the day I had never eaten my dinner so pleasantly before (NFN, Ch. XVI, “Dinner in the Hall of Bloomsbury Market”, p. 87). L’esplicita differenziazione temporale tra l’ornamento culinario medievale e la commercializzazione ottocentesca del prodotto attualizza l’idea di un’alimentazione che risulta in grado di postulare la discontinuità assiologica propria della società vittoriana, priva della raffinata semplicità trecentesca. Diversamente dall’atmosfera carnevalesca tipica dei banchetti pantagruelici, la rappresentazione morrisiana della cultura del mangiare e del bere trae spesso stimolo e motivo di ispirazione dalla aureas me- W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 69 diocritas oraziana, evitando qualsivoglia esagerazione “either of quantity or of gourmandise” (NFN 87). In contrasto con la politica industriale dell’eccesso, implicante la sovrabbondanza e lo spreco da parte delle cosiddette “cultivated people”– totalmente disinteressate all’arte culinaria perché “too low for their lofty intelligence” – , Morris auspica il ritorno a uno stile di vita salutare, “a return to work with heart”113, per soddisfare le esigenze del produttore e del consumatore. Sempre pronto a gustare una cena saporita, accompagnata da un buon bicchiere di vino114, lo scrittore preraffaellita restituisce al cibo una forma di creatività che appartiene alle arti minori. La messinscena di dettagli culinari al limite della decorazione, suggerisce un’associazione simbolica tra la creazione letteraria e un insopprimibile desiderio di cimentarsi nella preparazione di pasti succulenti, secondo una voracità artistica che rientra in un principio del piacere chiaramente espresso dall’io autoriale: “I am a ‘literary man’, […], yet I am a pretty good cook myself” (NFN 52). La ricorrente esigenza artistica di far sì che il consumo collettivo di cibo trovasse un’adeguata collocazione sociale, fece di Morris e dei prearaffelliti in genere, i rappresentanti di una fenomenologia culturale tesa al piacere del corpo e dello spirito: [...] for every P.R.B. to drink a cup or two of tea or coffe, or a glass or two of beer, in the company of other P.R.B.’s, with or without the accompaniment of tobacco (without it for Dante Rossetti, who ever smoked at all), was a heart-relished luxury. . . Those were the days of youth; and each man, even if he did not project great things of his own, revelled in poetry or sunned himself in art115. 113 Esther Schmidt, Victorian Kitchens and Baths, Forward by Bruce Bradbury, Layton, Utah, Gibbs Smith Publisher, 2005, p. 21. 114 Cfr. William Michael Rossetti, Some Reminiscences, 2 voll., London, Brown Langham, 1906, Vol. I, p. 215: “He relished a good glass of wine, and was by no means averse from a savoury dinner, and an ample one”. 115 Stanley Weintraub, A Victorian Biography. Four Rossettis, New York, Weybright and Talley, 1977, p. 32. 70 Capitolo I Ponendo l’accento su una lessicalizzazione iperbolica, mirante a collocare in primo piano il concetto medievale di “luxury”, Morris innesca un vettore ideologico che fa leva sulla valenza edonistica dell’incontro tra la gratificazione corporea del cibo e la funzione estetizzante della decorazione d’interni. Nell’offrire una versione old-fashioned della sala da pranzo nel quartiere di Bloomsbury (“beautifully ornamented”; “The furniture and general fittings of the hall were […]beautiful in form and highly ornamental, but without the commercial ‘finish’ of the joiners and cabinet-makers of our time”), la regola apollinea del controllo e della misura – la cui eccezione appare nel saggio “The Beauty of Life” (“You may hung your walls with tapestry instead of whitewash or paper; or you may cover them with mosaic, or have them frescoed by a great painter: all this is not luxury, if it be done for beauty’s sake, and not for show: it does not break our golden rule”116) –, rende ancora più evidente lo scarto sensoriale tra un pasto consumato nel “century of commerce” e l’epoca medievale del “delightful excitement”. Se vogliamo, la transizione estetico-temporale dall’iscrizione dorata risalente al 1962 presente nella locanda di Hammersmith (“Guests and neighbours, on the site of this Guest-hall once stood the lecture-room of the Hammersmith Socialists. Drink a glass to the memory!”, NFN, p. 14) agli arazzi mitologici di Bloomsbury (“queer old-world myths”, NFN, p. 86), vale a dire la regressione da un’istanza passata all’atemporalità del mito, può essere interpretata come un’involuzione verso uno stadio primitivo delle attività del mangiare e del bere. D’altro canto, cos’è la semplicità, segno esponenziale delle sequenze descrittive morrisiane, se non il significato denotativo del lessema “primitivo”? Quale senso attribuire alle plurime espansioni paradigmatiche della “plainness of life”? Come viene attualizzato il ritorno a uno stadio elementare della società umana? La costruzione morfosintattica incalzante delle lessie relative agli utensili nowheriani mette in primo piano la cifra simbolica 116 Morris, On Art and Design, cit., p. 124. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 71 del medievalismo morrisiano, insita in un’aggettivazione marcatamente primitiva: “rough and lacking in “finish”’ → “hornier in texture than the commercial articles of the nineteenth century” → “without the commercial finish […] of our time” → “total absence of […] comfort”. Ciò che l’io autoriale cerca di evocare è l’immagine di una società ridotta ai minimi termini, in grado di ascoltare il battito pulsante del mondo primordiale e di adattarsi ai cicli vitali di rinnovamento della natura, ravvisando nelle pratiche della pesca e della falciatura un riferimento a una mitologia antica (il raccolto → il mietitore → il tramonto → la notte). L’evocazione dei valori terreni, se da un lato conferma la costante opposizione tra città e campagna, dall’altro mette in risalto la valenza ordinatrice insita nella produzione e nel consumo di cibo tipica del nowhere morrisiano. È questo lo spazio semantico entro il quale ha luogo il momento di visione idilliaca nella zona rurale di Runnymede117, che si omologa alla suddetta distinzione topologica, a partire dalla semantizzazione della pratica della pesca: Everything to eat and drink, though it was somewhat different to what we had had in London, was better than good, but the old man eyed rather sulkily the chief dish on the table, on which lay a leash of fine perch, and said: “H’m, perch! I am sorry we can’t do better for you, guests. The time was when we might have had a good piece of salmon up from London for you; but the times have grown mean and petty”. “Yes, but you might have had it now”, said the girl, giggling, “if you had known that they were coming”. 117 Sull’importanza storica di Runnymede, qui associata all’incontro simbolico tra towns-people e country people, si rimanda a quanto scrive John Payne: “Runnymede – the meadow of council – was a traditional meeting place even before Magna Carta. […] What happened at Runnymede was a truce; it marks merely a stage in the persistent three-way medieval struggle for political power between the church, the crown and the great land-owners. Yet it has always had enormous symbolic value” (Journey Up the Thames. William Morris and Modern England, Nottingham, Five Leaves Publications, 2000, p. 57). 72 Capitolo I “It’s our fault for not bringing it with us, neighbours”, said Dick, good-humouredly. “But if the times have grown petty, at any rate the perch haven’t; that fellow in the middle there must have weighed a good two pounds when he was showing his dark stripes and red fins to the minnows yonder. And as to the salmon, why, neighbour, my friend here, who comes from the outlands, was quite surprised yesterday morning when I told him we had plenty of salmon at Hammersmith. I am sure I have heard nothing of the times worsening” (NFN, pp. 128-129). Al di là dell’immutabilità del pesce persico (“if the times have grown petty, at any rate the perch haven’t”), come epitome di abbondanza e voracità, si assiste a una distinzione tipologica di questa primitiva risorsa alimentare, in quanto l’attenzione dell’osservatore privilegiato si concentra sul binomio oppositivo pesce comune (campagna)/ pesce di alta qualità (città). Seppur non paragonabili per diffusione, comportamento e aspetto (si pensi alla colorazione verde-olivastra del pesce persico e alla livrea blu acciaio del salmone), il consumo delle loro carni prelibate rientra nell’ottica morrisiana della salutare moderazione e del buongusto. Ed è significativo che per manifestare le tendenze culinarie nowheriane, Morris faccia leva sulla perca fluviatilis che sottende l’immagine di un mondo civilizzato, depositario di una visione euforica e unitaria. Il medievalismo primitivo fin qui rintracciato trova un’ulteriore significativa esemplificazione nel capitolo “The Feast’s Beginning – The End” ove i contadini della nuova società medievale si radunano in una piccola chiesa per festeggiare l’umile lavoro della falciatura. Quello che risalta ad una lettura più ravvicinata è la connotazione fortemente naturalistica che investe i partecipanti al banchetto di eco medievale (“the crowd of handsome, happy-looking men and women that were set down to table [...] looked [...] like a bed of tulips in the sun”, NFN, p. 180), stabilendo una precisa associazione cromatica tra il soggetto umano e la visione floreale. Più precisamente, l’immaginario idilliaco associato a una simile rappresentazione meta-artistica del cibo, oltre a stabilire un legame sintagmatico tra l’arte decorativa, l’architettura e la pittura, mostra come i W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 73 protagonisti utopici siano confinati in una realtà primitiva basata sui valori basilari di nascita, morte, lavoro, nutrimento e crescita, pronti a consumare il prodotto delle proprie fatiche agricole. Va da sé che nella poetica morrisiana sono proprio questi paradigmi comportamentali a delineare i modelli di semplicità e ordine, tesi a recuperare l’essenza primordiale della vita: […] As to our dinner, we are going to have our feast in the church. I wish, for your sake, it were as big and handsome as that of the old Roman town to the west, or the forest town to the north; but, however, it will hold us all; and though it is a little thing, it is beautiful in its way’. This was somewhat new to me, this dinner in a church, and I thought of the church-ales of the Middle Ages; but I said nothing, and presently we came out into the road which ran through the village. […] We went into the church, which was a simple little building with one little aisle divided from the nave by three round arches, a chancel, and a rather roomy transept for so small a building, the window mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth century type. There was no modern architectural decoration in it; it looked, indeed, as if none had been attempted since the Puritans whitewashed the medieval saints and histories on the wall. It was, however, gaily dressed up for this latter-day festival, with festoons of flowers from arch to arch, and great pitchers of flowers standing about on the floor; while under the west window hung two cross scythes, their blades polished white, and gleaming from out of the flowers that wreathed them. But its best ornament was the crowd of handsome, happy-looking men and women that were set down to table, and who, with their bright faces and rich hair over their gay holiday raiment, looked, as the Persian poet puts it, like a bed of tulips in the sun. Though the church was a small one, there was plenty of room; for a small church makes a biggish house; and on this evening there was no need to set cross tables along the transepts; though doubtless these would be wanted next day, when the learned men of whom Dick has been speaking should be come to take their more humble part in the haymaking (NFN, pp. 179-180). Ad emergere è l’interazione delle arti che, collocando in primo piano la decorazione culinaria, consente all’immaginazione narrativa di delineare un paesaggio esteriore volto a testimonia- 74 Capitolo I re “the development of man’s ideas, to the continuity of history”118 e a “teaching us the evolution of society”119. L’antitesi moderno/antico, attivata da una serie di riferimenti architettonico-temporali (“I thought of the church-ales of the Middle Ages”; “the window mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth century type”; “the medieval saints and histories on the wall”) ribadisce la necessità di un cambiamento radicale a tutti i livelli della sfera sociale. Alla luce della reduplicazione naturalistica (“festoons of flowers from arch to arch, and great pitchers of flowers standing about on the floor”) e della metaforizzazione di stampo socialista, operate dall’architettura, risulta evidente il significato da annettere alla poetica della semplicità morrisiana. All’origine di una simile totalità assiologica vi è il recupero dell’umiltà insita nelle piccole cose – un semplice pasto consumato in un ambiente senza pretese – , che richiama alla mente l’assiologia positiva del “world in a grain of sand” di Blake. 1.4. Il regno del fuoco. Al centro delle opere morrisiane vi è una riflessione decostruttiva sul concetto di medievalismo che, nel caso specifico, risulta associato alle pratiche discorsive utopiche in grado di prendere corpo negli scambi dialogici dei personaggi. Affermando il primato della soggettualità, determinante nella rappresentazione delle strutture epistemologiche, Morris sembra dare forma a un nuovo tipo di medievalismo, una scienza dei discorsi umani, di cui Marina S. Brownlee offre una chiara esemplificazione: The new medievalism is a science not of things and deeds, but of discourses; it is an art, not of facts, but of encodings of facts. Such priorities are quite consonant with those of medieval intellectual life itself, whose curriculum was dominated during a span of nearly 1,000 years 118 119 Morris, On Architecture, cit., p. 99. Ibidem. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 75 by the three ‘arts of discourse’ [artes sermocinales] of the trivium: grammar, rhetoric, and logic120. Con lo studio delle diverse ideologie attanziali, teso a far apparire le regole di formazione dei concetti, e con l’appropriazione dei discorsi medievali, lo scrittore preraffaellita si trova di fronte all’analisi delle formazioni sociali che rivelano la pratica di un discorso rivoluzionario e innovativo. A prevalere su tutto è un dialogismo funzionale all’annullamento dei valori capitalistici (si pensi alle performances verbali di Ellen, la “fata del rigoglioso giardino di Runnymede” in NFN, atte a rimandare a un esistenzialismo primitivo e selvaggio121), in un percorso à rebours della civiltà umana che attesta il primato della “strange wild beauty” (NFN, p. 137). Attraverso l’analisi delle fratture archeologiche e delle trasformazioni epistemiche, apportate dalle pratiche discorsive dei personaggi morrisiani, è possibile rintracciare il campo delle positività vittoriane, a favore di un primitivismo socio-comportamentale che va inteso come autorealizzazione del soggetto parlante all’interno della sua dimensione assiologica. Se Ellen, con il suo amore per la terra, manifestato dall’attività della falciatura e dall’immagine metonimica dei suoi piedi nudi abbronzati122, riesce a epitomizzare il mito ctonio, nonché il richiamo orfico della natura, allora anche la Si120 Brownlee, op. cit., p. 227. “Clara was cheerful and natural, but a little more subdued, I thought; and she at least was not sorry to be gone, and often looked shyly and timidly at Ellen and her strange wild beauty. [...] Also the banks of the forest that we passed through had lost their courtly game-keeperish trimness, and were as wild and beautiful as need be, though the trees were clearly well seen to” (NFN, p. 137). 122 “We went up a paved path between the roses, and straight into a very pretty room, panelled and carved, and as clean as a new pin; but the chief ornament of which was a young woman, light-haired and grey-eyed, but with her face and hands and bare feet tanned quite brown with the sun. […] She was lying on a sheep-skin near the window, but jumped up as soon as we entered, and when she saw the guests behind the old man, she clapped her hands and cried out with pleasure, and when she got us into the middle of the room, fairly danced round us in delight of our company” (NFN, pp. 127-128). 121 76 Capitolo I gnora dell’Abbondanza123, presente nella fantasia per adulti WWE, sotto le spoglie di una guardiana di capre che si aggira in una terra selvaggia, sancisce la vittoria del primitivismo medievale sul progresso tecnologico ottocentesco. Emblematica è, in questa direzione, la raffigurazione tribale del popolo morrisiano che, in preda ad impulsi aggregativi, mette in pratica il comportamento ritualistico degli uomini primitivi riuniti in cerchio dinanzi al più prometeico degli elementi. Più precisamente, l’archetipo del fuoco si dà, rispetto alla coppia antinomica euforia/disforia, come un momento di estasi sognante che porta gli abitanti del bosco di Kensington in NFN124, non diversamente dai commensali di Higham-on-the-Way in WWE125, intenti a celebrare 123 “[...] I am but a poor thrall, a goatherd dwelling with a mistress in a nook of this wildwood: I have never a piece of bread; but as to the goats’ milk, that thou shalt have at once’. So I called one of my goats to me, for I knew them all, and milked her into a wooden bowl that I carried slung about me, and gave the old woman to drink: and she kissed my hand and drank and spake again, but no longer in a whining voice, like a beggar bidding alms in the street, but frank and free” (WWE, pp. 178-179). 124 “Romantic as this Kensington wood was, however, it was not lonely. We came on many groups both coming and going, or wandering in the edges of the wood. Amongst these were many children from six or eight years old up to sixteen or seventeend. They seemed to me to be especially fine specimens of their race, and were clearly enjoying themselves to the utmost; some of them were hanging about little tents pitched on the greensward, and by some of these fires were burning, with pots hanging over them gipsy fashion. Dick explained to me that there were scattered houses in the forest, and indeed we caught a glimpse of one or two. He said they were mostly quite small, such as used to be called cottages when there were slaves in the land, but they were pleasant enough and fitting for the wood” (NFN, p. 24). 125 “Now when the Abbot was set down, men made a clear ring round about the bale, and there came into the said ring twelve young men, each clad in nought save a goat-skin, and with garlands of leaves and flowers about their middles: they had with them a wheel done about with straw and hemp payed with pitch and brimstone. They set fire to the same, and then trundled it blazing round about the bale twelve times. Then came to them twelve damsels clad in such-like guise as the young men: then both bands, the young men and the maidens, drew near to the bale, which was now burning low, and stood about it, and joined hands, and so danced round it a while, and meantime the fiddles played an uncouth tune merrily: then they sundered, and each couple W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 77 la festa di Mezza Estate, alla riflessione sull’idea di fratellanza. Alla psicologia positiva del fuoco di Bachelard, in quanto essere sociale126, in termini di calore condiviso, fa riscontro l’interpretazione umana127 di Frazer relativa alla funzione dei boschi ove si accendono i fuochi di gioia morrisiani. Tutto rimanda a una fenomenologia primitiva, o, se vogliamo, a una fenomenologia dell’affettività che: “fabbrica essere oggettivi, mediante i fantasmi proiettati dalla fantasia, le immagini mediante i desideri, le esperienze materiali mediante le esperienze somatiche e il fuoco mediante l’amore”128. È da questa raffigurazione vitale del fuoco che trae origine la scelta filantropica di Morris di immaginare un mondo in cui riscaldarsi alla fiamma debole della speranza, nell’estremo tentativo di rinascita morale. In attesa di un segno salvifico, proprio come i fuochi della speranza129 di Tolkien che divampano sulle catene montuose della Terra di Mezzo, l’umanità utopica del “dreamer of dreams” preraffaellita risulta caratterizzata dalla duplice primitività del fuoco e dell’amore. Al di là del sostentamento nutritivo offerto dal “cooking fire” – espediente diegetico di arricchimento affabulatorio per la scena corale dei romance morrisiani (“the men had lighted fires and were cooking the venison […] with drinking of wine and pleasant talk and the telling of tales and singing of of men and maids leapt backward and forward over the fire; and when they had all leapt, came forward men with buckets of water which they cast over the dancers till it ran down them in streams” (WWE, p. 35). 126 Gaston Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1975, p. 134. 127 Ibid., p. 158. 128 Ibid., p. 162. 129 J. R. R. Tolkien, The Lord of the Rings, New York, Houghton Mifflin, 2005, p. 747: “[…] Gandalf cried aloud to his horse. ‘On, Shadowfax! We must hasten. Time is short. See! The beacons of Gondor are a light, calling for aid. War is kindled. See, there is the fire on Amon Din, and flame on Eilenach; and there they go speeding west: Nardol, Erelas, Min-Rimman, Colenhad, and the Halifirien on the borders of Rohan”. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine precedute dalla sigla LR. 78 Capitolo I minstrelsy”130), implicante sempre e comunque una valenza difensiva – s’impone il campo semantico del “fire of love”, inteso come trionfo della fratellanza umana131. Si pensi alla distanza stabilita tra l’uomo e la bestia feroce in WWE, in virtù della combustione alchemica del fuoco che in qualche modo rimanda alla luminosità della stella di Eärendil in LR, donata dalla dama dei boschi Galadriel a Frodo Beggings, in grado di guidare l’eroe tolkieniano nelle tenebre mortifere e allo stesso di respingere il male in tutte le sue forme animalesche. Ma più di questo, ciò che emerge è un’inesauribile rete di intrecci, parallelismi e convergenze che, facendo leva sull’isotopia cosmologica del fuoco, rivela l’importanza diegetica della stregoneria sottesa al primitivismo medievale. Alla bellezza incantatrice della Signora dell’Abbondanza132 (WWE) corrisponde il potere dissimulatore 130 William Morris, The Water of the Wondrous Isles, introduction by Lin Carter, London, Ballantine, 1971, p. 136. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine precedute dalla sigla WWI. Si rimanda anche e soprattutto a The Wood Beyond the World, in particolare ai rituali della tribù Bear: “So they sat all together upon the grass round about the embers of the fire, and ate curds and cheese, and drank milk in abundance; and as the night grew on them they quickened the fire, that they might have light. This wild folk talked merrily amongst themselves, with laughter enough and friendly jests, but to the new-comers they were fewspoken […]” (William Morris, The Wood Beyond the World, introduction by Tom Shippey, Oxford, Oxford University Press, 1980, p. 130. Tutte le citazioni successive faranno riferimento a questa edizione di cui saranno indicate le pagine precedute dalla sigla WBW). 131 Sull’idea di fratellanza, vale la pena riportare quanto afferma Nancy D. Mann: “The Water of the Wondrous Isles centers more than any of the other romances, on the problem of creating and maintaining community, and here Morris has expressed most fully his sense of both the difficulties and the necessity of human fellowship; for in this book the community finally transcends the family to become at once an artificial, deliberate creation and a superbly natural fulfilment of human needs” (Nancy D. Mann, “Eros and Community in the Fiction of William Morris”, Nineteenth-Century Fiction, 34, 3, December 1979, p. 319). 132 Il binomio fuoco/stregoneria assume una connotazione sentimentale in WWE, là dove La Signora dell’Abbondanza si fa portatrice del “fire of love”: “She stayed, and turned and faced him at that word; and love so consumed W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 79 della vergine magica133 (WBW), come anche la saggezza preternaturale della strega Habundia (WWI), reduplicazioni attanziali di una tipologia benefica di magia basata sulla manipolazione del fuoco. Un esempio illuminante di tale pratica occulta è offerto dall’incantesimo in WWI che serve ad invocare l’aiuto della “wood mother” Habundia: Maybe if thou come often to the wood, we shall whiles happen on each other; but if thou have occasion for me, and wouldst see me at once, come hither, and make fire, and burn a hair of my head therein, and I will be with thee: here is for thee a tress of mine hair; now thou art clad, thou mayst take a knife from thy pouch and shear it from off me. Even so did Birdalone, and set the tress in her pouch; and therewith they kissed and embraced each other, and Birdalone went her ways home to the house, but Habundia went back into the wood as she had come (WWI, pp. 19-20). Then she turned back wild with terror, and sought where erst she had missed it, and found neither boat nor the world’s end. [...] for now indeed she felt herself in the trap; and she said that all her past life of hope and desire and love and honour was all for nought, and that she was but born to die miserably in that foul ruin of an isle envenomed with the memories of bygone cruelty and shame. [...] Therewith she cast off her helm and hauberk first, and her weapons, and her pouch with the treasure that could buy nought for her now, and thereafter all her raiment, till she was as naked as when she first came aland there that other time. Again she moaned, and put up her hand to her bosom and felt a little gold box lying there betwixt the fragrant hills of her breasts, which hung to a thin golden thread about her neck; […] and then opened the said golden box and drew thence the tress which Habundia the wood-wife had given to her those years agone, and all trembling she drew two hairs from it, as erst she did on the Isle of her, that all sportive words failed her; yea and it was as if mirth and lightheartedness were swallowed up in the fire of her love; and all thought of other folk departed from him as he felt her tears of love and joy upon his face, and she kissed and embraced him there in the wilderness” (WWE, p. 221). 133 Dopo aver convinto il popolo degli orsi di essere l’incarnazione della loro divinità, “The Maid” favorisce la loro evoluzione da tribù selvaggia a regno barbarico utopico, attraverso l’utilizzo del ferro, la cui forgiatura richiede il calore incandescente del fuoco. 80 Capitolo I Nothing, and struck fire and kindled tinder and burnt the said hairs, and then hung the golden box with the tress therein about her neck again; and she said: O wood-mother, if only thou couldst know of me and see me, thou wouldst help me! (WWI, pp. 294-295). Sotto la spinta del suo animo desiderante, Birdalone si serve della “magia imitativa”134, ove ad agire è il principio della somiglianza tra l’azione compiuta e l’avvenimento atteso, impadronendosi di una ciocca di capelli della sua salvatrice fatata, per poi dare fuoco a questi annessi cutanei, con l’intento di lanciare il sortilegio “dell’appartenenza”135. Vittime dei complessi di Prometeo e di Novalis136, intesi come stati ossessivi primari verso la conoscenza e una condizione di benessere condivisa, le streghe morrisiane soffrono di una profonda malinconia – corrispondente, secondo Perraud, al “bagno del Diavolo”137 – perché incapaci di rinunciare alle proprie illusioni. Se è innegabile che il desiderio umano rappresenta la causa scatenante della magia naturalis presente nelle high fantasies degli anni 1894-1897, allora appare evidente che nella sua visione del fuoco magico la sorceress Habundia aspira non tanto a rivivere le ore trascorse con la sua pupilla Birdalone, quanto a rinascere dalle sue ceneri. Evocando l’immortalità della fenice, in linea con il Prospero di Shakespeare (“I will believe […] / There is one tree, the phoenix’ throne; one Phoenix / At this hour reigning there”138), Morris sembra denunciare l’instabilità mentale dell’io femminile, colto in uno stato di “onnipotenza dei pensieri”139, secondo cui per rinnovarsi e soddisfare i propri desideri è necessario ricorrere ad azioni di natura magica, facendo affidamento sulla potenza del134 Cfr. Sigmund Freud, Totem e Tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici, Milano, Oscar Mondadori, 2005, p. 96. 135 Ibidem, p. 97. 136 Foucault, op. cit., pp. 160-166. 137 Citato in P. G. Maxwell-Stuart, Storia della caccia alle streghe, Roma, Newton & Compton, 2005, p. 89. 138 William Shakespeare, La tempesta, introduzione e traduzione di Gabriele Baldini, testo inglese a fronte, Milano, BUR, 2002, p. 216. 139 Freud, op. cit., p. 101. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 81 lo spirito umano. Proprio per rendere perspicua l’idea di malinconia al femminile, derivante da un narcisismo intellettuale, lo scrittore vittoriano si affida alla credenza primitiva di onnipotenza magica che colloca il soggetto testuale a stretto contatto con un fuoco purificatore di derivazione alchemica. Tale identificazione archetipica riesce a trovare un ancoraggio positivo nella figura di “Hall-Sun”, custode della fiamma sacra all’interno della comunità barbarica di The House of the Wolfings, simbolo di fratellanza e unione tra gli uomini, per poi ripiombare nell’assoluto pessimismo e senso di abbandono con “The Lady of the Land” descritta in The Earthly Paradise. Disposta al sacrificio virginale di una vita solitaria, a favore di un bene più grande, Hall-Sun sceglie il calore condiviso con il suo popolo, adoratore di un fuoco destinale attraverso il quale la sacerdotessa predestinata riesce e profetizzare la verità futura: But over the days there hung by chains and pulleys fastened to a tiebeam of the roof high aloft a wondrous lamp fashioned of glass; yet of no such glass as the folk made then and there, but of a fair and clear green like an emerald, and all done with figures and knots in gold, and strange beasts, and a warrior slaying a dragon, and the sun rising on the earth: nor did any tale tell whence this lamp came, but it was held as an ancient and holy thing by all the Mark-men, and the kindred of the Wolf had it in charge to keep a light burning in it night and day for ever; and they appointed a maiden of their own kindred to that office; which damsel must needs be unwedded, since no wedded woman dwelling under that roof could be a Wolfing woman, but would needs be of the houses wherein the Wolfings wedded. This lamp which burned ever was called the Hall-Sun, and the woman who had charge of it, and who was the fairest that might be found was called after it the Hall-Sun also140. Quello che si spalanca dinanzi agli occhi del lettore è uno scenario simbolico intriso di medievalismo la cui marca primitiva raggiunge il suo diapason esemplificativo con la raffigurazione decorativa dell’uccisione del drago (“a wondrous lamp 140 William Morris, The House of the Wolfings, West Valley City, UT, Waking Lion Press, 2006, p. 8. 82 Capitolo I fashioned of glass […] and all done with figures […] and a warrior slaying a dragon, and the sun rising on the earth”) e il conseguente trionfo della luce sulle tenebre. Alimentata da una fonte eterna di calore, la fiaccola dell’umanità reduplicherà all’infinito l’annullamento del fuoco fisico rappresentato dal draco malefico, personificazione di malizia, cupidigia e distruzione, non diversamente dallo scontro pagano-mitologico tra Beowulf e Grendel. Incapace di superare questa impasse esistenziale, la Lady of the Land, protagonista di una delle liriche ad ambientazione greca incluse in The Earthly Paradise, si ritrova invece intrappolata nelle scaglie mostruose di un leviatano, del quale assume le sembianze al tramonto. Questo “fork-tongued dragon” caratterizzato da “smoking hair” e “strident roars”, che visivamente si presenta come specularità imperfetta di una sofferenza medusea, mette in scena una poetica del drago, cui Tolkien attinse141 per dare vita a Smaug142 in The Hobbit e configu141 Per una chiara analisi dell’eredità morrisiana rintracciabile nelle opere di Tolkien si rimanda a Tom Shippey, “Introduction” to William Morris, The Wood Beyond the World, Oxford, Oxford University Press, 1980, p. xvii: “J. R. R. Tolkien remembered The Roots of the Mountains when he created Gollum; probably The Wood Beyond the World was an element in the making of Lothlórien, or better still Fangorn, where also characters wander in a network of lies and glimpses and coincidences presided over by a White Wizard, Gandalf, and his counterfeit Saruman […]”. A tal riguardo, si veda anche John Garth, Tolkien and the Great War: The Threshold of Middle-earth, New York, Houghton Mifflin, 2003; Brian Rosebury, Tolkien: A Cultural Phenomenon, 2nd Edition, New York, Palgrave Macmillan, 2004; Colin Duriez, Tolkien and C. S. Lewis: The Gift of Friendship, Mahwah, New Jersey, Paulist Press, 2003. 142 Nella finzione narrativa di J. R. R. Tolkien, Smaug, noto come “Smaug The Golden”, corrisponde a un drago dorato dai riflessi ramati, la cui cupidigia lo spinge a rubare un tesoro di pietre preziose e di mithril, che custodisce sotto il suo ventre. Reso invulnerabile dallo scudo di pietre incastonate nel suo corpo, Smaug, qualora fosse rimasto in vita, avrebbe disseminato il terrore nella terra di mezzo, capace di spingersi nelle zone più remote, inaccessibili all’occhio di Sauron. Secondo Tolkien, il nome Smaug corrisponde al germanico “smjúga” (“to squeeze through a hole”), ma per la sua omofonia con il lessema “smog”, potrebbe anche rimandare a una dimensione ecologica di carattere disforico, insita nella natura malefica del drago. Per una disamina del W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 83 rare un regno del fuoco ove a prevalere è il terrore della solitudine. Ma da questa instabilità emotiva deriva la persistente visione di una stregoneria in termini salvifici, secondo cui le arti magiche di Habundia e Hall-Sun – paragonabili all’uso di incantesimi da parte di Gandalf e ai suoi fuochi d’artificio zoomorfici143 – sembrano esorcizzare il potere distruttivo del fuoco incarnato da un “hideaous [fearful] dragon”. Attingendo al folklore nordico di derivazione scandinava, e in particolare alla figura di Sigurd, l’uccisore di draghi evocante l’eroe solare dell’Edda, Morris e in seguito Tolkien ci trasmettono immagini primitive di valenza mistica che confermano la teoria freudiana di “incantesimo dell’arte”144 riconducibile all’imposizione della volontà dell’artista/incantatore su altre volontà umane, al fine di soddisfare la sete di immaginario e ridurre la distanza con il desideratum. Attraverso la mediazione dei suoi personaggi, è facile notare il fascino con cui Morris osserva il mondo primitivo e le sue forme di aggregazione comunitaria, sotto il segno di una fratellanza promossa dal “confratello” preraffaellita nella vita reale. Non solo è possibile rintracciare una dimensione totemica del circolo aritistico cui Morris appartiene, in termini identitari di coesione intellettuale, ma possiamo notare come le energie primitive che emanano le singole individualità artistiche rivelino specifici totem di appartenenza. Il fatto che i membri più importanti del clan preraffaellita possedessero degli animali totemici, considerati sia come guardiani spirituali, sia come fonti d’ispirazione letterarie, è la riprova di una sensibilità artistica primitiva che, drago tolkieniano si rimanda a Christopher Tolkien, Il Medioevo e il fantastico di Tolkien, a cura di Gianfranco de Turris, traduzione di Carlo Donà, Milano, Luni Editrice, 2000. 143 “It spouted green and scarlet flames. Out flew a red-golden dragon – not life-size, but terribly life-like: fire came from his jaws, and whizzed three times over the heads of the crowd. […] The dragon passed like an express train, turned a somer-sault and burst over by water with a deafening explosion” (LR, pp. 27-28). 144 Freud, op. cit., p. 107. 84 Capitolo I per il tramite di oggetti materiali, veicola l’esigenza di tornare alle origini, a un’archè assoluta e incontaminata. Da questa regressione primordiale, Dante Gabriel Rossetti deriva rituali di immedesimazione totemica, al limite della venerazione per il suo fedele vombato custodito in cattività, la cui morte, occorsa il 6 novembre 1869, fu compianta dall’intero gruppo di artisti. Non a caso il sistema del totemismo preraffaellita si basava su relazioni di reciproca attenzione e protezione tra uomo e totem, culminanti in codici comportamentali di tipo zoomorfico, al punto di celebrare una cerimonia funebre nel caso in cui un animale totem fosse stato trovato morto. Se da un lato BurneJones può essere considerato lo scopritore di una forma di vita animale così rara, grazie soprattutto ai suoi scherzosi disegni a matita (The Wombat at Home; The Wombat Abroad; The Wombat Saved), dall’altro Christina Rossetti ha il primato di aver citato il vombato nelle sue produzioni liriche, facendo riferimento alle qualità ispiratrici dell’animale: “when wombat do inspire, I strike my disused lyre”145. Particolare rilievo simbolico assunse il vombato a Tudor House: My brother had asked, as he pretty often did, several friends to dinner; he himself never smoked, but for the satisfaction of his guests he had provided a box of superior cigars. The dinner over, he proceeded to produce the box. The box was there, but the cigars were gone: the wombat had made a meal of the entire assortment146. Dinanzi all’animale totem la fissazione orale della confraternita preraffaellita, caratterizzata dai vizi del fumo e del mangiare in eccesso, sembra intensificarsi e racchiudere il senso di una condotta di vita all’insegna del piacere sfrenato. Al di là della tenera comicità trasudante da questo resoconto familiare, la particolarità con cui il vombato consuma segretamente i rotoli di tabacco rimanda inesorabilmente a una sintomatologia orale. Si tratta di una voracità sociale, o se si vuole tribale, che in parte si 145 146 Citato in W. M. Rossetti, op. cit., p. 286. Ibid., p. 287. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 85 riflette nella personalità aggressivo-repulsiva di Rossetti, intesa come segno esponenziale di un individualismo primitivo. A caratterizzare il processo creativo di William Holman Hunt, vi è la violazione del primo divieto tabù: non uccidere l’animale totem. Se con il dipinto The Scapegoat (1854-1855) indichiamo la consumazione del pasto sacrificale, possiamo facilmente comprendere che in sostanza gli impulsi umani più primitivi hanno origine nei circoli artistici più privilegiati. A conferma della simbologia religiosa dell’opera pittorica huntiana, riportiamo le parole di Tim Barringer: It refers to the Jewish ritual of atonement for the sins of the people described in the book of Leviticus. Two goats were selected: the first was sacrificed in the temple, but the second “shall be presented alive before the Lord, to make an atonement with him, and let him go for a scapegoat into the wilderness . . . and the goat shall bear upon him all their iniquities unto a land not inhabited (16.10-22)”. In Holman Hunt’s mind this scene is immediately registered as a symbolic prefiguration of Christ’s passion, and particularly of a memorable passage of Isaiah147. Il senso di una perdita di contatto con la realtà civilizzata viene rafforzato dalla serie di disegni raffiguranti la zona rurale di Ewell e in particolare “Rectory Farm”, abitazione agricola degli zii di Hunt. Ed è proprio in virtù di tale focalizzazione dettagliata sulla cucina e sui polli appesi a testa in giù destinati ad esseri macellalti e poi mangiati dalla sua famiglia, che Hunt entra in contatto con la perversione collegata ai volatili del “piccolo Árpád”148, così come viene illustrata da Freud nel saggio “Il ritor- 147 Tim Barringer, Reading the Pre-Raphaelites, New Haven and London, Yale University Press, 1999, p. 128. 148 Il caso del piccolo Árpád si basa sulla paura di castrazione derivante da un incidente occorso in un pollaio dove il bambino subisce un attacco da un pollo che lo becca proprio sull’area genitale. In seguito a tale evento sconvolgente, il piccolo Árpád adottò dei comportamenti stravaganti, interessandosi in maniera patologica ai polli e assumendo comportamenti zoomorfici. Ma ancora più interessante fu il suo atteggiamento ambivalente nei confronti del 86 Capitolo I no del totemismo nei bambini”. Alla luce dei molteplici rimandi ornitologici da parte dei componenti della confraternita preraffaellita, non è azzardato postulare una cifra estetica degli uccelli depositari di qualità identitarie. Si pensi alla passione narcisistica di Morris per merli, corvi, pettirossi, aironi, picchi, esemplificata nella sua arte decorativa (Trellis; Vine and Acanthus; Dove and Rose; Brother Rabbit; Bird and Anemone; Bullerswood; Woodpecker; Strawberry Thief), che culmina nell’identificazione con il suo totem ereditario: “[he] would imitate an eagle with considerable skill and humor, climbing on to a chair and, after sudden pause, coming down with a soft flop”149. Pur essendo proiettato in una dimensione comportamentale al limite dell’animalesco, Morris non dimentica l’istinto alla protezione nei confronti del suo animale sacro, in linea con il dovere ecologico di difendere la bellezza della natura, così come viene messo in luce da sua figlia May: You can picture my Father going out in the early morning and watching the rascally trushes at work on the fruit-beds and telling the gardener who growls, ‘I’d like to wring their necks!’ that no bird in the garden must be touched. There were certainly more birds than strawberries in spite of attempt at protection150. È da questa raffigurazione simbolica delle fragole che trae origine non tanto un immaginario luminoso derivante dalle leggende nordiche, quanto uno scenario intriso di amore e rispetto per gli altri. Proprio come l’ossessione di Otello per le fragole ricamate sul fazzoletto di Desdemona, l’atto di Rossetti di imboccare Jane Burden151 con deliziosi frutti rossi durante feste suo animale totem: “odio smisurato e altrettanto smisurato amore” (Freud, op. cit., p. 154). 149 Citato in Jill Duchess of Hamilton, Penny Hart and John Simmons (eds.), The Gardens of William Morris, New York, Stewart, Tabori and Chang, 1998, p. 65. 150 Ibid. 151 Un episodio significativo della fase orale rossettiana e delle sue attività gratificanti è fornito da Stanley Weintraub: “Edmund Gosse remembered […] W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 87 mondane152, non fa altro che testimoniare la sua fissazione orale. Facendo assurgere la bocca di Jane a zona erogena privilegiata, per non parlare della rappresentazione di Fanny Cornforth in Bocca Baciata153, l’artista preraffaellita infrange il divieto di intraprendere rapporti sessuali con gli appartenenti al totem dell’altro sesso. In questo senso, fragole, mele, melograni154, e seeing Janey ‘in her ripest beauty’ sitting on the painting throne at the Browns in a long, out-of-fashion gown of ivory velvet while Gabriel ‘squatted on a stool at her feet’, and someone else recorded seeing him at a party at his solicitor’s, Virtue Tebbs, feeding Mrs. Morris strawberries. ‘He was carefully scraping off the cream, which was bad for her, and then solemnly presenting her with the strawberries in a spoon’” (Weintraub, op. cit., p. 175). 152 A tal proposito, Pamela Todd afferma: “Lavish dinner parties [...] became the occasions of conflict and display. William followed Gabriel’s party with a banquet of his own for eighteen guests at Queen Square on 27 May to celebrate the publication of his Earthly Paradise. Gabriel responded by erecting a large marquee in his garden, which he described as ‘an approach to a private Eden’, and inviting Janey, William, Philip Webb, Georgie and Ned to a formal dinner. The food on offer at these usually took the form of a clear soup, cold salmon served with cucumber and a sharp sauce, a saddle of mutton with jelly, or roast chicken or quails with potatoes and Brussels sprouts, followed by meringues and ices or jelly and fresh fruit, and finally a savoury […] all washed down with copious amounts of champagne, Sauternes and burgundy” (Pamela Todd, The Pre-Raphaelites at Home, London, Pavilion Books, 2001, p. 118). 153 Secondo Elizabeth Prettejohn: “The phrase is excerpted from a line in the Decameron, by the fourteenth-century Italian writer Giovanni Boccaccio: ‘The mouth that has been kissed does not lose its savour, indeed it renews itself just as the moon does’. [...] the full line of Boccaccio suggests that the promiscuous kiss may lead to bliss rather than disaster – a daring message indeed for England in 1859” (Elizabeth Prettejohn, Rossetti and his Circle, New York, Stewart, Tabori and Chang, 1997, p. 15). 154 L’importanza simbolica del melograno è espressa dal dipinto Giotto Painting Dante’s Portrait (1852), una delle opere rossettiane che recano l’influenza dell’arte italiana. La qualità ispiratrice di questo frutto è indagata da D. M. R. Bentley: “emblem of [Dante’s] immortality, both artistic and heavenly, which the artist who devotes all his faculties (hand and soul) to the production of good works can hope to achieve good works” (“Rossetti’s ‘Hand and Soul’”, English Studies in Canada, 3, 4, Winter 1977, p. 452). Per uno studio dettagliato sull’eredità italiana della famiglia Rossetti si rimanda a 88 Capitolo I frutta fresca in genere che al periodo consisteva nel tipico dessert155 da servire a tavola, assumono una valenza trasgressiva associata alla passione sessuale e all’insoddisfazione artistica. Non a caso dietro l’adorazione perpetua di Jane Morris da parte di D. G. Rossetti, si cela il conflitto tra impulsi sessuali e restrizioni sociali. Incapace di scendere a patti con la società, l’artista si ritrova imprigionato nella fase orale che lo spinge a reduplicare ad libitum l’esperienza tabù, vale a dire a contemplare su tela la bellezza archetipa di Jane con in mano il frutto proibito. Ed è questo il punto nodale su cui i dipinti Proserpina, Bocca Baciata e Venus Verticordia convergono, sancendo il permanere dell’angoscia del contatto, vale a dire quel délire de toucher associato alle pulsioni sessuali. A parte la sua pericolosa tendenza narcisistica156, evidente nel tentativo di spingere i confratelli all’emulazione della sua persona, Rossetti, designato il re dei preraffaelliti, incarna il tabù dei dominanti: un dominante da proteggere da tutti i pericoli immaginabili e a sua volta un essere spaventoso da cui difendersi. In un’ottica di condizionamento, contrassegnata da costrizioni e violenze psicologiche, Rossetti sembra “portatore di una misteriosa forza magica […] [che] reca morte e rovina a colui che non sia protetto a sua volta da una simile carica”157. E si spiega la dipendenza maniacale di Morris, seguace del credo Francesco Marroni, “Living with Dante and Petrarch. Monna Innominata by Christina Rossetti”, Journal of Anglo-Italian Studies, 7 (2002), pp. 113-131. 155 A proposito della frutta e della sua funzione sociale si veda Judith Flanders: “Dessert at this period meant fresh fruit and nuts, not the sweet puddings, cakes, or other dishes that are today called dessert” (Inside the Victorian Home: A Portrait of Domestic Life in Victorian England, New York, Norton, 2004, p. 243). 156 Vale la pena riportare quanto ricorda il fratello Wiliam Michael: “Apart from [Dante Gabriel’s] mental gifts […] the quality most innate in him appears to have been dominance: Hoc volo, sic jubeo, sit pro ratione voluntas. […]; he was imperative, vehement, at times angrily passionate; but his anger was sudden and passing impulse, and to sulk or bear a grudge was not in him at all” (W. M. Rossetti, op. cit., p. 19). 157 Freud, op. cit., p. 52. W. Morris, fenomenologia utopica e primitivismo medievale 89 estetico rossettiano, che amplificando l’importanza del suo maestro, subisce danni irreparabili nella formazione del suo carattere. A tal riguardo, Jack Lindsay afferma: Rossetti then was in one sense a thoroughly bad influence on Morris, helping to bring him to the point where he could say, “I can’t enter into politico-questions with any interest”. But we can also argue [...] that Morris had to concentrate his forces on the aesthetic level before he could dare to confront the existing world with steady accusing eyes and a broadly based convinction in the transformative powers of art and work; and in this sense Rossetti’s effect was valuable at the phase between 1856 and 1870158. Eppure, all’assoggettamento di una mente debole come quella di Morris fa riscontro una vivacità intellettuale senza precedenti che si riversa in un mondo fantastico di natura primordiale ove è possibile conquistare la felicità attraverso una società di uomini e di istituzioni collettivamente create. Nell’analisi delle istanze comportamentali presenti nell’universo medievale morrisiano si apprende che in esse le varie forze istintuali esercitano l’influsso determinante per unire gli uomini secondo esigenze di autoconservazione. La formazione culturale del medievalista preraffaellita si poggia dunque su pulsioni sociali provenienti dall’unificazione di componenti egoistiche ed erotiche, senza però volgere le spalle all’idea di comunità umana. 158 Jack Lindsay, William Morris: His Life and Work, London, Constable, 1975, p. 78. Capitolo II Tempo, temporalità e storia There is a history in all men’s lives, Figuring the nature of the times deceased, The which observed, a man may prophesy, With a near aim, of the main chance of things As yet not come to life, which in their seeds And weak beginnings lie intreasurèd. – William Shakespeare, Henry IV 2.1. Modelli di temporalità in News from Nowhere. Persistente topos della narrativa morrisiana è quello relativo all’importanza della storia che costituisce il perno ermeneutico insostituibile dei componimenti dell’artista, la cui immaginazione si muove quasi esclusivamente nel campo diacronico dell’evento. Vero è che dietro tale strategia testuale si cela il desiderio di operare una rivisitazione esegetica che, dichiarando il primato del passato, finisce per suffragare l’idea di una strutturazione semantica intesa come recupero di un’assiologia positiva. Alla luce di quanto scrive Coleridge: “If men could learn from history what lessons it might teach us! But passion and party blind our eyes, and the light which experience gives is a lantern on the stern, which shines only on the waves behind us!”1, Morris sente fortemente i limiti del periodo vittoriano che 1 The Collected Works of Samuel Taylor Coleridge. Table Talk, 2 voll., recorded by Henry Nelson Coleridge (and John Taylor Coleridge), edited by Carl Woodring, Princeton, Princeton University Press, 1990, vol. I, p. 260. Per un’indagine accurata dei pensieri storico-filosofici di Coleridge si rimanda al saggio di E. P. Thompson “A Compendium of Cliché. The Poet as Essayst” in 92 Capitolo II gli sembra depositario di un universo immobile e senza luce, il cui impianto ideologico può riacquistare vitalità solo attraverso un rapporto dialogico con la storia. Seppur non completamente omologabile alla corrente storicista, Morris si offre al lettore come interprete del sistema dinamico del reale inteso in termini di veritas filia temporis, chiamando in causa il concetto di continuità, vale a dire che ogni momento storico è strettamente correlato ai successivi, quasi una geminatio temporale. In questa prospettiva, il romanzo utopico NFN si offre a un’indagine retroattiva molto stimolante, a partire da un orizzonte medievale atto a rappresentare una connessione euforica tra passato, presente e futuro, una dimensione unificante che rimanda alla non-disgiunzione eliotiana storia/tempo: “A people without history / Is not redeemed from time, for history is a pattern / Of timeless moments. So, while the light fails / On a winter’s afternoon, in a secluded chapel / History is now and England”2 (“Little Gidding”, 1942, pt. 5). Non a caso, proprio l’ultimo capitolo di NFN, topologicamente, offre la rappresentazione di un io narrativo che ha ormai stabilito un nesso euforico con la storia ritrovandosi in una chiesa (“This was somewhat new to me, this dinner in a church, and I thought of the church-ales of the Middle Ages […]”, NFN, p. 179), correlativo oggettivo della cosmologia culturale eliotiana, che si dà come soglia temporale tra i due mondi ove il protagonista riconosce la necessità di: “Go on living […] striving, with whatsoever pain and labour needs must be, to build up little by little the new day of fellowship, and rest, and happiness” (NFN, “The Feast’s Beginning – The End”, p. 182). D’altra parte, che esista un nesso, sia pure afferente al rimosso politico, tra utopia e storia appare evidente quando si nocui, tra le altre cose, afferma che: “Coleridge is always writing ‘from [his] inmost soul’, he offers himself as ‘a teacher of moral wisdom’” (The Romantics. Wordsworth, Coleridge, Thelwall, foreword by Dorothy Thompson, London, Merlin Press, 1997, p. 148). 2 T. S. Eliot, Four Quartets, New York, Harcourt, Brace & World, Inc., 1943, p. 38. Tempo, temporalità e storia 93 ti la natura intrinseca di questa forma di prolessi narrativa che come mette in chiaro Fortunati: “[…] è radicata nella storia […] porta i segni del suo tempo, degli eventi che l’hanno determinata e le soluzioni proposte […] una coraggiosa proposta di modifica del reale” 3 . Di qui l’implicita rivolta morrisiana contro l’appiattimento e la depersonalizzazione prodotti nel suo tempo storico a cui contrappone la qualificazione etico-sociale del Medioevo e, nella fattispecie, del quattordicesimo secolo che costituisce la dislocazione temporale ideale ove si attualizza una rigenerazione a tutti i livelli dell’umano sentire. Rispetto a tale forma di palingenesi, Krisham Kumar ha notato che: Anche Morris naturalmente si ispirò al Medioevo per la sua Utopia. E seguì More anche nel suo uso della storia: la storia vista non solo come deposito di valori e di usanze, ma come una viva e attiva presenza nel presente, come una forza “romantica”. […] La storia viene usata sia per il recupero di certe forme – la configurazione delle città, il disegno di edifici e di abiti, per esempio – sia per collocare la società futura in prospettiva. […] Morris da buon marxista quale è, concepisce la società futura costruita con i materiali del passato4. A mio parere, oltre a una temporalità medievale intesa positivamente come reazione al peso del vivere vittoriano, qui l’assioma della priorità del passato rimanda in primo luogo alla teoria dell’“inversione storica” di Bachtin quando osserva che “[o]gni rivelazione delle contraddizioni sociali allarga inevitabilmente il tempo nel futuro. Quanto più profondamente esse sono rivelate, tanto più matura, quindi, e sostanziale e ampia può essere la pienezza del tempo nelle immagini dell’artista”5. Si tratta perciò di un pensiero artistico che “localizza nel passato categorie come il fine, l’ideale, la giustizia, la perfezione, lo 3 Fortunati, La letteratura utopica inglese, cit., p. 17. Krisham Kumar, “News from Nowhere: il rinnovarsi dell’utopia”, in Corrado et al., William Morris “News from Nowhere” cent’anni dopo, cit., p. 84 e sgg. 5 Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1999, p. 294. 4 94 Capitolo II stato armonico dell’uomo e della società […]”6 proprio perché individua in questa dimensione uno spessore morale altrimenti assente nell’episteme contemporanea. Similmente all’elaborazione delle forme del tempo bachtiniane, Morris investe il “c’è stato” di ponderabilità concreta al fine di innescare la riemersione di quanto si riteneva per sempre sepolto: solo allora l’ideale acquista spessore realistico che si concretizza nell’Età dell’oro così come viene rappresentata in NFN. Se procediamo a determinare lo schema logico-temporale del secondo capitolo “A Morning Bath” è facile rilevare come la diegesi possa essere suddivisa in tre diacronie interne: A) 1300 B) C) 2003 1890 t1 (futuro proiettato nel passato) sogno 2 sogno 3 realtà t (futuro) t (presente) Sulla scorta dei segmenti enucleati possiamo fare una prima considerazione circa gli indicatori temporali così come si presentano al lettore: quanto alle assiologie utopiche del futuro (A, B), esse si completano a vicenda, delineando così un tempo immaginario futuro che rinvia però a un periodo medievale – una sorta di paradosso temporale, in cui t1 e t2 coesistono al fine di costruire lungo un asse verticale la denuncia metaforica di una mancanza come assenza di valori, ora visibile grazie al vettore storico. Passando a C, notiamo che la lessia presa in considerazione, con la sua forte sottolineatura vittoriana s’inserisce nella condizione del presente autoriale, in cui la forte marginalizzazione di t3 da parte del barcaiolo Dick si fa espressione di una divergenza dei soggetti attoriali (William e Dick), ma è anche escamotage finzionale atto a sovrapporre l’istanza del presente con quella del passato, a confonderle e a confrontarle senza porsi domande a cui non si riuscirebbe a trovare risposta. 6 Ibid. Tempo, temporalità e storia 95 Certo è che il risveglio in un mondo altro dispiega una valenza di incertezza che va ben oltre il tema della suspension of disbelief come appare evidente nel passo relativo all’isotopia del vestiario (t1): His dress was not like any modern work-a-day clothes I had seen, but would have served very well as a costume for a picture of fourteenthcentury life: it was of dark blue cloth, simple enough, but of fine web, and without a stain on it. He had a brown leather belt around his waist, and I noticed that its clasp was of damascened steel beautifully wrought. In short, he seemed to be like some specially manly and refined young gentleman, playing waterman for spree, and I concluded that this was the case (NFN, “A Morning Bath”, p. 7). È tutta qui la modellizzazione temporale che, sia pure per il tramite degli oggetti (“a costume for a picture of fourteenthcentury life”; “a brown leather belt”; “its clasp […] of damascened steel beautifully wrought”), configura una possibilità dialogica tra le diverse e conflittuali fasi dell’evoluzione storica anglosassone. Ma è chiaro che nell’associazione e continuità dei paradigmi di bellezza, semplicità, ordine, eleganza e raffinatezza rileviamo, insieme ai Leitmotive della formula estetica morrisiana, come l’indumento qui descritto rimandi a un’atmosfera magica e sognante tipica del quattordicesimo secolo che diviene lo scenario privilegiato della mente visionaria utopica in questione. Ad adempiere una fondamentale funzione ipogrammatica troviamo il sintagma “His dress was not like any modern […]” che, rimandando al lessema “costume”, rafforza l’isotopia della dissolvenza temporale. In tal modo, il brano s’incentra sulla descrizione dettagliata della veste medievale, una sequenza di occorrimenti aggettivali che danno grande enfasi all’idea di pleasure grazie anche alla proposizione conclusiva (“some specially manly and refined young gentleman, playing waterman for spree”) ove si dispiega la funzione semioticamente importante del nesso lavoro/divertimento. Chiaramente, si tratta di un espediente stilistico che, riconducendo al discorso di David Lodge in ambito digressivo (“I vestiti sono i principali indicatori d’epoca nella narrativa […] e informazioni sul tipo di abbigliamento che 96 Capitolo II la gente indossava nel passato possono essere frutto di una ricerca storica […]”7), sancisce l’inizio della rêverie. Dopo il passaggio sineddochico verso la focalizzazione dei dettagli dell’abito appartenente a Dick, l’entrata sulla scena di un ponte non è affatto casuale – dietro quell’espressione architettonica8 di iperbolismo fiabesco si cela un segmento di tempo (t2) tutt’altro che di facile comprensione: […] Then the bridge! I had perhaps dreamed of such a bridge, but never seen such an one out of an illuminated manuscript; for not even the Ponte Vecchio at Florence came anywhere near it. It was of stone arches, splendidly solid, and as graceful as they were strong; high enough also to let ordinary river traffic easily. Over the parapet showed quaint and fanciful little buildings, which I supposed to be booths or shops, beset with painted and gilded vanes and spirelets. The stone was a little weathered but showed no marks of the grimy sootiness which I was used to on every London building more than a year old. In short, to me a wonder of a bridge. “[…] it was built or at least opened, in 2003. […]”. The date shut my mouth as if a key had been turned in a padlock fixed to my lips; for I saw that something inexplicable had happened, and that if I said much, I should be mixed up in a game of cross questions and crooked answers (NFN, pp. 7-8). Con un procedimento tipico del meraviglioso favolistico, quello che s’impone è una sorta di epifenomeno in grado di proiettare il soggetto testuale in uno scenario le cui unicità e irripetibilità sono sancite dalla massa monumentale del ponte. Ed è significativo che per mettere in scena una tipologia armonica di costruzione civile l’io narrativo adotti una similitudine che, facendo leva sul senso della vista e sulle conoscenze artistiche di chi fa 7 David Lodge, L’arte della narrativa, Milano, Bompiani, 2001, p. 171. In un saggio del 1881 “The Prospects of Architecture in Civilization” Morris esprime la sua predilezione per l’architettura, una delle forme d’arte più rappresentative della società: “The word Architecture has, I suppose, to most of you the meaning of the art of building nobly and ornamentally. Now, I believe the practice of this art to be one of the most important things which man can turn his hand to […]” (William Morris, “The Prospects of Architecture in Civilization”, in On Architecture, cit., p. 64). 8 Tempo, temporalità e storia 97 l’esperienza della visione, s’incentra sul contrasto tra ciò che è e ciò a cui potrebbe essere paragonato (“for not even the Ponte Vecchio at Florence came anywhere near it”). E nel sintagma “a wonder of a bridge” viene attualizzata l’isotopia semantica del sogno realistico, insieme all’elemento ovvio della specularità, di un mondo che rimanda inevitabilmente alla topologia disforica ottocentesca. Per dirla con Bachelard: “[l]a rêverie [ha la capacità] di metterci in contatto con l’universo. Nella nostra rêverie si forma un mondo, un mondo che è il nostro mondo. E da questo mondo fantasticato e sognato apprendiamo le possibilità di accrescimento del nostro essere in un universo che è il nostro”9. Pertanto, analogamente all’episodio del medieval costume (t1), nel medesimo capitolo, si dà vita a un’altra microdescrizione che si colloca sotto il segno del codice architettonico, una rappresentazione tanto efficace da evocare un’altra dimensione temporale (t2), sempre e comunque relativa all’utopia nowheriana: “[…] it was built or at least opened, in 2003”. Stabilendo un nesso intertestuale evidente con l’immaginario romantico wordsworthiano, Morris mira a rinnovare la spettacolarizzazione derivante dalla simbologia del ponte presente emblematicamente nella lirica “Upon Westminster Bridge” (Sept. 3, 1802, d’ora in poi UWB) e, nella fattispecie, in quei versi di grande suggestione: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 9 15. EARTH has not anything to show more fair; Dull would he be of soul who could pass by A sight so touching in its majesty. This city now doth like a garment wear The beauty of the morning: silent, bare, Ships, towers, domes, theatres, and temples lie Open unto the fields, and to the sky, – All bright and glittering in the smokeless air. Never did sun more beautifully steep In his first splendour valley, rock, or hill; Ne’er saw I, never felt, a calm so deep! Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo libri, 1972 p. 98 Capitolo II 12 The river glideth at his own sweet will: 13 Dear God! the very houses seem asleep; 14 And all that mighty heart is lying still!10 Quello che si evidenzia ad una lettura di microlivello è il rapporto simmetrico tra la lessia morrisiana e la versificazione di Wordsworth, secondo un reperimento di confluenze, parallelismi e analogie lessicali atte a stabilire una continuità semanticoconcettuale. Al codice equoreo nowheriano, che coglie il corso d’acqua londinese nella quotidianità del suo fluire naturale, corrisponde lo scorrere dolce del Tamigi wordsworthiano: “Let ordinary river traffic through easily” (NFN, pp. 7-8) = “The river glideth at his own sweet will” (UWB, v. 12) Pur presentando elementi dissimili del paesaggio circostante, dovuto in primo luogo alla diversa dislocazione spaziale dei due osservatori privilegiati, in un movimento che va dal basso verso l’alto per NFN e dall’alto verso il basso per UWB, entrambi gli scenari sono marcati da un’eccezionalità visiva che culmina nell’immagine dorata per il vittoriano e nell’immensità degli spazi aperti per il poeta romantico: “Over the parapet showed quaint and fanciful little buildings, which I supposed to be booths or shops, beset with painted and gilded vanes and spirelets” (NFN, p. 8) = “Ships, towers, domes, theatres, and temples lie / Open unto the fields, and to the sky, –” (UWB, vv. 6-7). In un processo d’intensificazione del datum paesaggistico, i segmenti presi in considerazione deferiscono al lettore l’idea che in quel contesto euforico si dia una possibilità di risolvere in una modellizzazione armonica del mondo l’antinomia caos/ cosmo. In questo senso, a rafforzare la coesione tematica tra NFN e UWB, interviene la qualificazione ecologica che, seppur 10 The Complete Poetical Works of William Wordsworth, 1801-1805, 10 voll., Boston and New York, Houghton Mifflin Company, 1911, IV vol., p. 89. Tempo, temporalità e storia 99 afferente a due diversi codici di riferimento (urbanistico e atmosferico), costituisce un tentativo di sistematizzazione dell’epoca vittoriana in uno slancio immaginativo di marca utopica. Ad ogni modo, non è tanto importante stabilire la modalità dello stravolgimento assiologico adottata dai due artisti, quanto ricordare la loro ricerca di un ideale estetico in grado di vincere in modo definitivo l’agone contro la disarmonia: “no marks of the grimy sootiness” (NFN, p. 8) = “All bright and glittering in the smokeless air.” (UWB, v. 8) Se è innegabile che Morris collochi la sua visione in una stagione aurea, conferendo un respiro più ampio e universale a quella che sembra la materializzazione delle speranze umane, allora appare evidente come nella lirica wordsworthiana il ponte, per via del suo effetto positivamente straniante, sancisca la pienezza dell’essere. E, quasi a voler rendere linguisticamente perspicuo lo stupore dinanzi al locus epifanizzato e epifanizzante, viene presentata l’iterazione avverbiale di marca temporale “never”, che, nel momento stesso in cui sottolinea l’unicità del frammento descrittivo, paradossalmente ne presuppone una lettura fondata sulla rappresentazione iperbolica del continuum utopico. “[…] I had perhaps dreamed of such a bridge, but never seen such an one out of an illuminated manuscript” (NFN, p. 7) = “Never did sun more beautifully steep” (UWB, v. 9); “Ne’er saw I, never felt, a calm so deep!” (UWB, v. 11) Tale eccesso immaginativo ha la forza suggestiva sufficiente a trasformare un episodio banale in un momento significativo capace di suscitare nell’animo dell’io esperiente associazioni inspiegabili e incredibili possibilità ermeneutiche. A prevalere è la tonalità storica di un momento climactico orientato su coordinate estetico-sociali, la cui presentazione giunge come conferma narrativa di quanto dichiarato nell’articolo “Architecture and History” (1884): 100 Capitolo II Ancient architecture bears witness to the development of man’s ideas, to the continuity of history, and, so doing, affords neverceasing instruction, nay education, to the passing generations, not only telling us what the aspirations of men passed away, but also what we may hope for in the time to come11. Nel sintagma “the continuity of history” si perviene alla tematizzazione storica determinatasi grazie alla testimonianza architettonica12 – elemento unificante che, dalla prospettiva del metalinguaggio dello spazio, implica l’opposizione passato vs futuro (“the aspirations of men passed away” vs “what we may hope for in the time to come”). Non a caso più avanti nel saggio, Morris si sofferma a meditare su tale polarizzazione temporale: Let us admit that we are living in the time of barbarism betwixt two periods of order, the order of the past and the order of the future, and then, though there may be some of us who think (as I do) that the end of that barbarism is drawing near, and others that it is far distant, yet we can both of us, I the hopeful and you the unhopeful, work together to preserve what relics of the old order are yet left us for the instruction, the pleasure, the hope of the new13. E in questo interrogarsi lo speaker finisce per rendersi conto che rispetto alla visione pessimistica degli “unhopeful”, egli mostra una fiducia incondizionata nel futuro – rispetto al “time of barbarism” e ai suoi fenomeni di “destruction or brutification of ancient monument of art”14, Morris si fa portavoce di un messaggio di continuità e speranza, suggerendo un’associazione simbolica tra storia, architettura e società così come metterà in 11 William Morris, “Architecture and History”, 1884, in On Architecture, cit., p. 99. 12 In particolare, commentando l’entrata in scena dell’architettura nella vita di Morris, Manieri Elia scrive: “L’architettura […] è […] vista e assunta come una missione verso la società, […]. Un impegno sociale e morale, ben al di là di ogni limite disciplinare e incompatibile con ogni residuo confessionale” (Mario Manieri Elia, William Morris e l’ideologia dell’architettura moderna, Bari, Laterza, 1976, p. 61). 13 Ivi, p. 121. 14 Ibid. Tempo, temporalità e storia 101 chiaro quattro anni più tardi (1888): “History taught us the evolution of architecture, it is now teaching us the evolution of society; […]”15. Di particolare rilievo simbolico appare l’ultimo indice temporale del capitolo “A Morning Bath” (t3) e, ancor di più, il codice monetario a cui viene associato, utile per rendersi conto che, rispetto a tanti fenomeni vittoriani, gli abitanti di Nowhere mostrano un savoir vivre che gli uomini comuni non hanno – rispetto alle leggi socio-economiche ottocentesche gli umili personaggi morrisiani sanno ciò che all’uomo del presente non è dato sapere. Non solo in termini di valori etico-comportamentali rendendo visibile l’abisso ontologico in cui l’uomo vittoriano è precipitato, così come viene espresso da Izaak Walton “[…] a blessing that money cannot buy”16, ma anche perché quello che resta a livello diegetico è la sensazione di un mistero insoluto e insolubile, quasi una resa dinanzi alla complessità dell’universo utopico: As to your coins, they are curious, but not very old; they seem to be all of the reign of Victoria; you might give them to some scantilyfurnished museum. Ours has enough of such coins, besides a fair number of earlier ones, many of which are beautiful, whereas these nineteenth century ones are so beastly ugly, ain’t they? We have a piece of Edward III., with the king in a ship, and little leopards and fleurs-de-lys all along the gunwale, so delicately worked (NFN, pp. 910). In questa selezione narrativa viene presentata in termini molto precisi l’antitesi passato/presente che appare omologabile ad altre coppie antinomiche: Edoardo/Vittoria, bello/brutto. E non15 William Morris, “The Revival of Architecture”, in On Architecture, cit., p. 138. 16 Izaak Walton, The Compleat Angler, ed. John Buxton, with an introduction by John Buchan, Oxford, Oxford University Press, 1988, p. 223: “Look to your health; and if you have it, praise God, and value it next to a good conscience; for health is the second blessing that we mortals are capable of; a blessing that money cannot buy”. 102 Capitolo II dimeno significativo che la coppia passato/presente trovi un’esatta corrispondenza nella lavorazione dei metalli, comprovando così anche sul piano delle scelte artigianali, l’opposizione tematico-temporale. Oltre al riferimento alla bellezza connessa alla forgiatura monetaria medievale (“We have a piece of Edward III., with the king in a ship, and little leopards and fleursde-lys all along the gunwale, so delicately worked”) che s’impone come alternativa al grado di decadimento ottocentesco (“these nineteenth century ones are so beastly ugly”), troviamo una più implicita e raffinata verbalizzazione dell’antinomia medievale/vittoriano, con una connotazione storica incentrata su Edoardo III17 il quale, contestualmente irradia di prospettiva cavalleresca la lessia monetaria. L’aspetto strutturalmente rilevante di “A Morning Bath” è rappresentato dalla opposizione tra il sogno e la realtà, tra t1 e t2 da una parte e t3 dall’altra, con la corrispondente adibizione di due blocchi diacronicamente antitetici. Il primo blocco temporale è costituito dalla coppia 1300/2003 che colloca in primo piano l’incoerenza assiologica secondo cui uomini vestiti con indumenti medievali passeggiano su un ponte del ventunesimo secolo; il secondo blocco costituito dal generico inquadramento vittoriano, presenta una densità informativa che attualizza l’agone tra l’istanza del presente e quella di un futuro spurio poiché inscritto in un concatenamento logico medievale. È possibile rintracciare in questo fenomeno temporale la legge spenceriana presente ne L’ipotesi dello sviluppo (1852) che postula 17 A proposito di Edoardo III (1327-1377), qui va ricordata l’istituzione dell’ordine cavalleresco della Giarrettiera (1348), una sorta di confraternita militare tesa a riflettere la nostalgia per il regno mitico di re Artù. Secondo la leggenda, la caratteristica principale del nobilissimo ordine rimanda alla giarrettiera di velluto azzurro scuro, listata d’oro, con fibbia e puntale d’oro, con il motto “Honni soit qui mal y pense”, portato sotto il ginocchio sinistro dei cavalieri. All’origine di tale usanza vi è l’incidente relativo alla contessa di Salisbury, amante del re, alla quale durante una festa cadde il legaccio di una calza prontamente raccolto da Edoardo che porgendoglielo proferì il motto sopra citato. Tempo, temporalità e storia 103 un’idea di evoluzione concepita come un’integrazione di materia accompagnata da dispersione di moto, in cui la materia passa da una omogeneità indefinita, incoerente, a una eterogeneità definita, coerente18. Come ha ipotizzato Herbert Spencer, una determinata realtà x va soggetta da un istante di tempo t1 ad un altro istante tn e tale progresso si spiega nei termini di un processo di differenziazione e coerentizzazione della realtà considerata secondo lo schema: x in t1 indefinito incoerente x in tn → → definito coerente Alla luce dell’analisi evolutiva che caratterizza le teorie dell’esponente della filosofia positivista, non è azzardato applicare tale criterio dinamico alle strutture a priori della ricerca morrisiana. Se interpretiamo t1 come la somma di A (1300) e B (2003), comprendiamo che, in sostanza, sono l’incoerenza e l’indefinito i veri protagonisti di Nowhere. Per cui, l’ultima istanza temporale che, come appare evidente nello schema, riproduce la determinatezza del diciannovesimo secolo, va interpretata non nel senso di una “[…] complete equality which we now recognise as the bond of all happy human society” (NFN, p. 154), ma più drammaticamente come una dichiarazione che segna l’ingresso in scena dell’infelicità etico-sociale (qui si pensi alle parole di Ellen rivolte a William nell’explicit del romanzo: “you cannot be of us; you belong so entirely to the unhappi18 Per un’analisi approfondita dell’idea di progresso spenceriana, si rimanda al sesto capitolo di On Social Evolution in cui si legge: “The only obvious respect in which all kinds of Progress are alike, is that they are modes of change; and hence, in some characteristic of changes in general, the desired solution will probably be found. We may suspect a priori that in some law of change lies the explanation of this universal transformation of the homogeneous in the heterogeneous” (Herbert Spencer, On Social Evolution, ed. J. D. Y. Peel, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1983, p. 47). 104 Capitolo II ness of the past that our happiness even would weary you”, NFN, p. 181). x in t1 (1300-2003) indefinito incoerente something inexplicable: -beautifully wrought -splendidly solid -a wonder of bridge x in tn (1890) → → definito coerente reign of Victoria: → beastly ugly 2.2. Quasi come uno storico vittoriano. In un’ottica di meditazione, contrassegnata dall’interscambio dialogico intenso e premonitore, fa irruzione il vecchio Hammond, storico ufficiale di episodi singolativi passati, depositario di un potere ermeneutico verso cui il protagonista ora si protende, ora si allontana. Proaireticamente i capitoli “Questions and Answers” (X) e “How the Change Came” (XVII), in cui l’anziano bibliotecario restituisce ordine ad una realtà confusa, fungono da perni dell’azione e del pensiero storico. Molto giustamente James Buzard, parlando della personalità dilemmatica di Hammond, ha osservato: The old sage characterizes himself […] transforming the metonymic relationship of a man living amidst books into the synecdochic one of a man who “is” […] the vital member of the library’s collection, one whose mind contains in its small compass all that the national library has to tell […]. […] Hammond appear[s] the very embodiment of that well-worn analogy which holds that “history is to the nation … as memory is to the individual”: his society’s history “is” his individual memory. He endows British culture with affect, makes it an “object of Tempo, temporalità e storia 105 pathos”, by alchemizing in the cauldron of his mind history (what happened) into memory (what happened to us)19. Qui va subito precisato che sebbene egli “[…] know[s] more of all that has happened within the last two hundred years than anybody else does” (NFN, “Concerning Love”, p. 46), non si tratta di un sapere freddo e distaccato, in quanto il grado di introiezione del testo storico è così grande (“‘I am much tied to the past, my past’”, NFN, Ivi, p. 47) che, nel momento in cui William lo invita a ripercorrere il flusso temporale degli eventi, Hammond non può fare a meno di “[…] fancy [him]self as living in any period of which we may be speaking” (NFN, “Questions and Answers”, p. 55). In quest’ottica, diversamente dalla valenza utilitaristica butleriana (“It has been said that though God cannot alter the past, historians can; it is perhaps because they can be useful to Him in this respect that He tolerates their existence”20), rintracciamo una forte eco shakespeariana nell’onestà del memorialista vittoriano: After my death I wish no other herald, No other speaker of my living actions, To keep mine honour from corruption, Than such an honest chronicler as Griffith21. 19 James Buzard, “Ethnography as Interruption: News from Nowhere, Narrative, and the Modern Romance of Authority”, Victorian Studies, 40, 3 (Spring 1997), p. 457. 20 Samuel Butler, Erewhon Revisited, introduction by Desmond MacCarthy, London, Melbourne and Toronto, Dent, 1979, p. 293. 21 William Shakespeare, Henry VIII, 1613, in Complete Works, edited with a glossary by W. J. Craig, Oxford, Oxford University Press, 1974, pp. 658-659. Nell’introduzione alla versione italiana di Enrico VIII, Anna Luisa Zazo scrive: “Il poeta, l’incantatore, la ‘meraviglia del nostro teatro’ si è trasformato in cronista: o, se si vuole, in storico, ma le molte inesattezze che l’opera contiene rendono cauti nell’usare tale espressione” (William Shakespeare, Enrico VIII, traduzione di Vittorio Gabrieli, saggio introduttivo di Anna Luisa Zazo, Milano, Mondadori, 2001, p. XIV). 106 Capitolo II Non solo Hammond rappresenta il polo del realismo, ma nelle sue parole vi è anche la percezione di un’affettività mirante a conquistare il centro morale della storia britannica che, fuor di metafora, significa riappropriazione di una dignità culturale, e insieme estromissione di quei fantasmi del passato che hanno trasformato Londra in un intrico di tensioni civili disforiche distruttive. Non è quindi ipotesi peregrina ravvisare in tale figuralità maschile un riferimento all’Angelus Novus di Benjamin che, forse più di ogni altro simbolo, epitomizza l’impotenza dinanzi alla radicale crisi del passato: C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta22. Come custode dell’interpretazione sociale, Hammond dimostra di incarnare la frustrante inazione vittoriana che fino a quel momento sembrava aver raggiunto il grado zero: dopo aver preso coscienza dell’insicurezza ontologica ottocentesca e aver messo in scena lo stato patologico della mentalità passata, questo aiutante narrativo può compiacersi dello status armonico del locus utopico. Con la stessa visionarietà apocalittica dell’angelo della storia, l’anziano cronista afferma la cruda verità degli eventi, individuando almeno cinque nuclei tematici relativi a “Questions and Answers”: 22 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 80. Tempo, temporalità e storia 107 1. Sistematizzazione meccanica dell’istruzione: il presunto bisnonno di William delinea, secondo una retrospezione temporalmente definita, il periodo in cui il sistema d’istruzione era incentrato su un processo di restrizione informativa ai limiti del ritegno nell’offerta didattica 23 , culminante nella confusione mentale di chi elargiva un insegnamento oppressivo e dispotico. 2. Dislocazione spaziale disforica: i bassifondi sono lo spazio semantico entro il quale ha luogo il momento di visione analettico che si omologa alla coppia degradazione/tortura, relativa appunto ai quartieri umili connessi all’assetto socioculturale del diciannovesimo secolo. 3. Miseria derivante dalla lotta di classe: in un procedimento teso a restringere l’ambito di focalizzazione, gli attacchi critici da parte di Hammond danno grande enfasi all’idea di malcontento e disperazione dinanzi ai crimini capitalistici, grazie anche alla commemorazione dell’Abolizione della Miseria, una festa atta a celebrare la libertà degli oppressi e la fine dello schiavismo perpetuato da parte degli oppressori. 4. Commercializzazione della cultura: l’evocazione del passato, se da un lato promette un’integrità e pienezza del soggetto culturale futuro, dall’altro si risolve nella rivelazione del cinismo tipico degli uomini acculturati presenti a Oxford come a Cambridge, mettendo in risalto in modo drammatico la corruzione accademica dell’epoca vittoriana. 5. Decadimento architettonico insieme alla riduzione dell’indice produzione-lavoro: è evidente che il fenomeno dell’industrializzazione risulta la causa principale del fatto che le nuove costruzioni risultino prive di qualsivoglia at23 “[…] pinched ‘education’ for most people into a niggardly dole of not very accurate information; something to be swallowed by the beginner in the art of living whether he liked it or not, […]: and which had been chewed and digested over and over again by people who didn’t care about it in order to serve it out to other people who didn’t care about it’” (NFN, pp. 54-55). 108 Capitolo II tenzione per l’estetica e l’armonia con l’ambiente circostante ormai degradato e in rovina. D’altra parte, anche la manodopera subisce la pressione di un sistema teso a ridurre i salari e a privare la gente di campagna dei loro stessi prodotti agricoli. Alla luce di tale excursus analettico, la scelta di recuperare demarcatori temporali specifici (“at the end of the nineteenth century”; “toward the end of the nineteenth century”; “the first half of the twentieth century”; “before the end of the nineteenth century”; “on May-day”; “on that day”; “on that occasion”; “on a sunny afternoon of autumn”; “since the fourteenth century”; “this summer”) rientra in una strategia ben precisa mirante sia a colmare i gaps temporali riguardanti la combinazione anaforica ora/allora, sia a segnalare esplicitamente lo scarto assiologico futuro/passato. Qui vale la pena riportare le lessie ove si registra l’utilizzo di analessi definite completive, vale a dire in grado di risolvere lo iato temporale, e allo stesso tempo parziali, laddove a un flashback fa seguito un salto in avanti: 1. In the nineteenth century, society was so miserably poor, owing to the systematised robbery on which it was founded, that real education was impossible for anybody. The whole theory of their so-called education was that it was necessary to shove a little information into a child, even if it were by means of torture, and accompanied by twaddle which it was well known was of no use, or else he would lack information lifelong: the hurry of poverty forbade anything else. All that is past; we are no longer hurried, and the information lies ready to each one’s hand when his own inclinations impel him to seek it. In this as in other matters we have become wealthy: we can afford to give ourselves time to grow’ (NFN, p. 55). Al livello di macrostrutture, la doppia articolazione sottesa al testo trova un preciso riscontro sul piano lessematico nell’opposizione poor/wealthy (“society was so miserably poor”/“we have become wealthy”), come anche nella doppia istanza narrativa coadiuvata da indicazioni determinate (“In the nineteenth century […] real education was impossible for any- Tempo, temporalità e storia 109 body” / “All that is past; we are no longer hurried, and the information lies ready to each one’s hand […] we can afford to give ourselves time to grow’”). E indubbiamente, se si assume il punto di vista del lettore morrisiano, ha ragione Ady Mineo quando osserva il processo olistico dell’educazione in NFN: History is not a popular subject […]; it has also lost its ideological power after the complete overturning of the old system when tradition was based on blood, property and religion. Rather history can be valuable to the new people as a memento of past injustice and struggle, to prevent them from being tempted to restore the old order […]”24. Così, nel tematizzare l’autodistruzione del secolo diciannovesimo in tutte le sue manifestazioni, Morris mira in primo luogo a pervenire a una rappresentazione paradigmatica capace di dare voce alle cose più umili e semplici e a conquistare un futuro che assicuri una restitutio ad integrum della società. Di questo futuro implicante una ricomposizione dei frammenti dell’esperienza vittoriana, danno una particolare esemplificazione i segmenti collocati sotto il segno di un’urbanizzazione qualitativamente deprecabile da una parte, e di una rivincita folclorica dall’altra: 2. Time was when if you mounted a good horse and rode straight away from my door here at a round trot for an hour and a half, you would still be in the thick of London, and the greater part of that would be ‘slums’, as they were called; that is to say, places of torture for innocent men and women; or worse, stews for rearing and breeding men and women in such degradation that that torture should seem to them mere ordinary and natural life (NFN, p. 57). 3. Once a year, on May-day, we hold a solemn feast in those easterly communes of London to commemorate The Clearing of Misery, as it is called. On that day we have music and dancing, and merry games and happy feasting on the site of some of the worst of the old slums, 24 Ady Mineo, “The Reverse of Salem House: the Holistic Process of Education in News from Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 11, 1 (Autumn 1994), p. 13. 110 Capitolo II the traditional memory of which we have kept. On that occasion the custom is for the prettiest girls to sing some of the old revolutionary songs, and those which were the groans of the discontent, once so hopeless, on the very spots where those terrible crimes of classmurder were committed day by day for so many years (Ibid.) La differenziazione semantico-temporale dei due brani viene ulteriormente intensificata da una ricca gamma di allitterazioni e iterazioni fonologiche ([s]: “music and dancing, and merry games and happy feasting on the site of some of the worst of the old slums”; [o]: “On that occasion the custom is […] to sing some of the old revolutionary songs, and those which were the groans of the discontent, once so hopeless, on the very spots where those […]”) che attualizzano una transizione dalla torture alla feast: una transizione fonoprosodica che sembra degradare ulteriormente il valore dell’ambiente descritto e suggerire il paradossale accostamento di fanciulle vestite a festa colte nell’atto del canto e del ballo in quei luoghi una volta di tetro squallore. Dopo la clamorosa rivolta contro la criminalità sociale vi è, nell’interpretazione storica di Hammond, ancora spazio per una denuncia culturale che, focalizzando sulla centralità strutturale e ipogrammatica del termine commercial, segna il passaggio verso una conoscenza reale perseguita per amore della conoscenza, senza fini lucrativi: 4. “Well, [Oxford] has reverted to some of its best traditions; so you may imagine how far it is from its nineteenth-century position. It is real learning, knowledge cultivated for its own sake – the Art of Knowledge, in short – which is followed there, not the Commercial learning of the past. Though perhaps you do not know that in the nineteenth century Oxford and its less interesting sister Cambridge became definitely commercial. They (and especially Oxford) were the breeding places of a peculiar class of parasites, who called themselves cultivated people; they were indeed cynical enough, as the so-called educated classes of the day generally were; but they affected an exaggeration of cynicism in order that they might be thought knowing and worldly-wise (NFN, p. 60). Tempo, temporalità e storia 111 In questo caso è invertito l’ordine descrittivo della dialettica passato/futuro poiché vediamo drammatizzata la visione utopica che precede la disarmonia oxfordiana in cui appare sempre più evidente l’emergenza di uno stato patologico, segnalato da una semantica da laboratorio parassitario (“breeding places”; “parasites”; “they affected they affected”). Sotteso all’immaginario negativo accademico, vi sarebbe la poetica dell’essere di Wordsworth, una sorta di fede nella capacità dell’uomo di cultura di muoversi in direzione della natura. Non a caso, contro la ricorrente immagine dello studioso incapace di andare al di là di un’apparenza nullificante, Morris, sulla scia dell’insegnamento presente nel libro terzo del Prelude, delinea una possibile ancorché vaga idea di progresso morale della comunità accademica. Sia che si tratti della Cambridge romantica o della Cambridge vittoriana, ad emergere è una modellizzazione del centro culturale britannico in cui su tutto prevale l’indifferenza della natura insieme all’incapacità degli uomini acculturati a rendere la vera essenza della conoscenza che, come ha scritto Johnson, sta nel fatto che: “Integrity without knowledge is weak and useless, and knowledge without integrity is dangerous and dreadful”25. Ed è proprio su questo punto che notiamo la divaricazione tra la modalità dell’avere della società industriale imprigionata nel passato in cui il tempo è dominatore assoluto e la modalità dell’essere connessa all’hic et nunc morrisiano, implicando le considerazioni di Fromm per cui l’atto creativo, le idee, e le manifestazioni dell’essere (amore, gioia, intuizione della verità) si pongono soltanto nell’immediatezza dell’evento: Si può sperimentare anche il futuro come se fosse l’hic et nunc, e ciò accade allorché una condizione futura sia anticipata nella propria esperienza con tale pienezza, da essere il futuro soltanto “obiettivamente”, vale a dire quale fatto esteriore, non già per l’esperienza soggettiva. Hanno questa natura le utopie genuinamente tali […] l[e] qual[i] 25 Samuel Johnson, The History of Rasselas, Prince of Abissinia, ed. D. J. Enright, Harmondsworth, Penguin, 1985, p. 91. 112 Capitolo II non ha[nno] bisogno della realizzazione “nel futuro” perché la sua esperienza diventi reale26. Per Morris il futuro ha un senso solo in quanto spazio in cui mettere in scena l’essere che, più di ogni altra facoltà umana, gli fornisce fiducia “genuina” in grado di innescare quel processo che porta l’uomo a rispettare il tempo e non a sottometterglisi come avviene qualora a predominare sia la modalità dell’avere. Ma è chiaro che il meccanismo memoriale, proiettando la centralità disforica dello squilibrio assiologico vittoriano – o meglio, collocando il passato in subordine rispetto al futuro –, rappresenta la negatività di uno scenario ove la miseria è la condizione umana derivante da una progettualità schiava del tempo: 5. […] toward the end of the nineteenth century the villages were almost destroyed, […]. Houses were allowed to fall into decay and actual ruin; trees were cut down for the sake of the few shillings which the poor sticks would fetch; the building became inexpressibly mean and hideous. Labour was scarce; but wages fell nevertheless. […] The country produce which passed through the hands of the husbandmen never got so far as their mouths. Incredible shabbiness and niggardly pinching reigned over the fields and acres which, in spite of the rude and careless husbandry of the times, were so kind and bountiful (NFN, p. 61). Anche in questa lessia si registra il paradigma dell’oppressiva spazialità associato alle costruzioni “allowed to fall into decay and actual ruin” come anche a una vita naturale che si fa morte (“trees were cut down for the sake of the few shillings”) rinviando al nucleo semico fondamentale dello squallore ambientale (“the building became inexpressibly mean and hideous”; “Incredible shabbiness and niggardly pinching reigned over the fields”). La raffigurazione di uno scenario di grado zero diviene una cosa sola con la presentazione della terribile verità implici26 Eric Fromm, Avere o essere?, Milano Mondadori, 1999, p. 200. Tempo, temporalità e storia 113 tamente espressa nella rievocazione di un passato ormai superato. Come ha notato acutamente Hodgson: The […] reason why it is […] necessary for an artist to work from an understanding of the past is that only by doing so is he made free of the sordid, transient trappings of nineteenth-century capitalist society. Art should not slavishly mirror the miseries of the present time, but should deal instead with the eternal truths which must be studied in a wider context of past and future27. Proprio per questa ragione, si segnala un’iterazione rivelatrice che colloca il paradigma temporale “nineteenth century” come meta costitutiva del protendersi attoriale al fine di incrementare l’effetto deautomatizzante di una dimensione ontologica relegata nella sua non-condizione di miseria. Pertanto, in una sorta di crescendo, al lettore viene presentata una circolarità tautologica che, nel momento stesso in cui sottolinea la marca anaforica delle numerosissime retrospezioni nell’ottocento vittoriano, emblematicamente ne presuppone una lettura fondata su implicazioni etico-assiologiche. XIX secolo occorrimento temporale occorrimento lessematico 1. In the nineteenth century society was so miserably poor […] (p. 55). 1. […] [London] is more like ancient Babylon now than the ‘modern Babylon’ of the nineteenth century was (p. 56). 2. […] you come on the Docks, which are works of the nineteenth century […] (p. 58). 2. […] in the nineteenth century Oxford and its less interesting sister Cambridge became definitely commercial (p. 60). 3. […] toward the end of the nineteenth century the villages were almost destroyed […] (p. 61). 27 Hodgson, op. cit., p. 131. 3. […] factories for making things that nobody wants, which was the chief business of the nineteenth century (p. 64). 114 Capitolo II Se l’intero capitolo risulta marcato da un iterativismo derivante in primo luogo dalla coincidenza che accomuna “nineteenth century” e “degradation”, la parte conclusiva segna una radicale stratificazione temporale, la cui progressione nel testo viene marcata da ellissi quasi indeterminate (once → then → now). Intanto notiamo come il legame tra l’assiologia di once e la dimensione ideale di now sia messo in primo piano dalla valenza positiva dell’immaginario ad esse connesso. Apparentemente slegati dalla diacronia esterna di mezzo (then), l’Inghilterra di un tempo e il mondo ecologico utopico sono messi in rapporto non solo dall’equazione clearing = garden, ma in particolare nell’esplicita dichiarazione: “Like the mediaevals, we like everything trim and clean, and orderly and bright; as people always do when they have any sense of architectural power; because then they know that they can have what they want, and they won’t stand any nonsense from Nature in their dealings with her” (NFN, p. 63). A conferma dell’elevato grado di funzionalità di tale campo semantico, va ricordato sul piano dell’intertestualità il poema narrativo di Morris, The Earthly Paradise (1868-70) in cui nel “Prologue: The Wanderers”, leggiamo: “And dream of London, small and white and clean, / The clear Thames bordered by its gardens green”28. Pur sviluppandosi su topologie diverse – nell’isola greca i cantastorie fuggono dagli orrori del tempo, laddove William Guest si ritrova nella Londra-giardino del ventunesimo secolo – EP e NFN sono accomunati dal concetto di evasione in un mondo migliore, un locus di convergenza e confronto tra ora e allora: England was once a country of clearings amongst the woods and wastes, with a few towns interspersed, which were fortresses for the feudal army, markets for the folk, gathering places for craftsmen. It then became a country of huge and foul workshops and fouler gambling-dens, surrounded by an ill-kept, poverty-stricken farm, pillaged by the masters of the workshops. It is now a garden, where nothing is 28 William Morris, The Earthly Paradise, London, Longmans, Green and Co, 1912, vol. I, p. 12. Tempo, temporalità e storia 115 wasted and nothing is spoilt, with the necessary dwellings, sheds, and workshops scattered up and down the country, all trim and neat and pretty (NFN, p. 62, corsivi miei). Qual è il rapporto che l’io narrativo/io lirico intrattiene con tale visione? E che tipo di empatia lo lega al paesaggio che lo circonda? Morris si colloca in una posizione di estraneità – topologica sì, ma anche psicologica. Quasi una volontaria scelta di autoisolamento e di esilio dalle cose del mondo vittoriano. Subendo una crisi di appartenenza alla realtà disforica e sempre uguale dell’ottocento, egli si distacca29 dalle manifestazioni industriali di schiavismo e lesionismo, immerso com’è nel dubbio e nell’incertezza, con l’unica possibilità di trovare un ancoraggio positivo nella sua forza creativa tesa a plasmare antimondi d’evasione. Morris è uno scrittore che trae stimolo e motivo d’ispirazione da quello che accade (o è accaduto), un evento negativo di cui è stato archiviato il suo svolgimento. Non solo, il socialista è sempre pronto a estrapolare una lezione altamente significativa dal dato storico, per cui la negazione o il non darsi di un’azione moralmente giusta produce riflessioni di grande suggestività. Si pensi alla strage di Trafalgar Square del 13 novembre 1887 riattualizzata nel capitolo “How the Change Came”, in cui la descrizione dello scontro a fuoco drammatizza il rimpianto per un’azione orribile ma necessaria, compiuta ai danni di innocenti dimostranti e che è motivo di dolore per l’io esperiente: “I was near the edge of the crowd, towards the soldiers”, says this eyewitness, “and I saw three little machines being wheeled out in front of the ranks, which I knew for mechanical guns. I cried out, “Throw 29 Per un approfondimento sulla nozione di estraneità si rinvia a quanto afferma Annamaria Sportelli: “La separazione è erranza, è erranza prima ancora di essere abbandono o destinazione, identificazione o smarrimento. […]. Dislocazione che struttura e destruttura il Centro, sebbene fuggire da esso, “fleeing from the Centre” è ‘condurlo’ con sé in altra Zona” (Annamaria Sportelli, Interpreti dell’estraneità su T. E. Lawrence ed altri scrittori del Novecento, Urbino, Quattro Venti, 1990, p. 19). 116 Capitolo II yourselves down! they are going to fire!” But no one scarcely could throw himself down, […]; and then – It was as if the earth had opened, and hell had come up bodily amidst us. It is no use trying to describe the scene that followed. […] the dead and dying covered the ground, and the shrieks and wails and cries of horror filled all the air, till it seemed as if there was nothing else in the world but murder and death (NFN, p. 100). È questo uno scenario intriso di negatività, proprio perché l’unica certezza è la morte garantita dalla presenza di una nonentità (mechanical guns) che, inutile sottolinearlo, rimanda alla violenza di cui, per molti aspetti, Morris sente l’esigenza. Il segno più evidente di tale dimensione apocalittica si manifesta intorno alla similitudine infernale (“It was as if the earth had opened, and hell had come up bodily amidst us”) che è presente nel testo per afferire alla dannazione umana in relazione all’insensatezza del massacro fratricida. Ne segue uno scenario fantasmatizzante caratterizzato da un codice sensoriale (vista e udito) omologato alla configurazione di un orrore senza fine, un procedimento intriso di realismo fantastico. Qui, comunque, per la prima volta entra in scena direttamente l’osservatore (Hammond), sia pure nella forma debole dell’anonimo componente della folla significativamente associato all’isotopia della sopravvivenza che svolge una funzione ipogrammatica del processo creativo morrisiano. È al vecchio saggio che spetta l’operazione di decodifica di un testo invisibile a William, che per la sua emersione verbale richiede una sensibilità in grado di andare al di là della superficie delle cose, di trascendere quella realtà di morte che conduce alla condanna di una razionalità senz’anima. La vicenda dell’eccidio britannico rivela parecchie affinità con l’iconografia di Francisco Goya, e più precisamente con il dipinto Fucilazione (1808) che offre una drammatizzazione disperata e artisticamente molto suggestiva (si pensi alla prospettiva obliqua, al moto delle forme ottenuto grazie a una pennellata sintetica) di un romanticismo storico intriso di realismo capace di documentare l’atrocità della repressione senza omettere la verità. Non diversamente dal liberale spagnolo che protende le braccia al cielo in un gesto di eroica Tempo, temporalità e storia 117 resistenza, Hammond si fa testimone di una storia come disastro e massacro, vivendo la sua condizione di vittima terrorizzata dinanzi a quei soldati/poliziotti senza volto e senza anima, veri e propri strumenti di morte. Ed è proprio su questo punto che notiamo la comunanza strutturale tra Morris e Goya, quasi a voler sancire la transitorietà del tempo laddove non c’è spazio per il bello e per il giusto, ma solo una messinscena dell’autenticità dell’uomo e la conseguente negazione della storia intesa come narrazione di vicende umane degne di memoria. Il momento dello scoppio della rivolta viene ricordato non solo per quello che effettivamente è avvenuto, ma per quel segnale latente, quel messaggio di libertà e uguaglianza che giunge ora fragoroso, scuotendo le mura di una non più solida costruzione sociale. L’immaginazione morrisiana passa quasi sempre attraverso la negatività dell’esperienza, che diviene la maniera più esplicita per rappresentare un universo alternativo sul cui palcoscenico l’essere umano è un esule aggrappato alla speranza di trovare una risposta ai suoi interrogativi. A favore dell’esautorazione degli oppressori, conseguente alla dinamica delle vicende sociali, Morris decide di percorrere la strada dell’eroismo per restituire all’uomo uno spazio morale che pareva ormai negato dalla consuetudine capitalista. In questa direzione, egli perviene alla conclusione che dopo una simile caduta etico-morale si apre un bivio ontologico che oppone la schiavitù all’uguaglianza, la codardia all’eroismo, la disperazione all’armonia interiore: The end, it was seen clearly, must be either absolute slavery for all but the privileged, or a system of life founded on equality and Communism. The sloth, the hopelessness, and, if I may say so, the cowardice of the last century, had given place to the eager, restless heroism of a declared revolutionary period (NFN, p. 110). Sfidando la verosimiglianza letteraria, Morris è consapevole di disorientare il lettore vittoriano, ma sa che solo in questo modo potrà avere luogo quel rinnovamento ideologico da lui auspicato. È, quello di Morris, un processo di revisione della società ottocentesca che si basa soprattutto sul tempo e sulla rottura del- 118 Capitolo II le certezze assiologiche che caratterizzano il mondo borghese – l’accostamento di date e secoli diacronicamente lontani è una peculiarità dell’artista che, in questo modo, si pone sul piano di chi opera una vera rivoluzione dell’assetto socio-politico. Emblematico in questo senso è il volontario slittamento in avanti di sessantacinque anni (1952) dell’evento famoso come “Bloody Sunday” (1887) la cui potenzialità espressiva sottende una forte carica semantica negativa. La licenza storico-finzionale propugnata da Morris vuol dire ricerca di una nuova dinamica, di nuovi ritmi temporali, di nuove immagini – il tempo, restituito all’utopia, torna ad essere filtro culturale delle disarmonie del mondo vittoriano. Per dirla con Fellman: “Utopian distance was part of utopian desire”30 e, a tal riguardo, ancora più chiaramente il critico osserva che: When in 1890, more than two years after events, [Morris] came to reinterpret Bloody Sunday once more in the writing of News from Nowhere, he would begin his revolution not in the Nineteenth Century but in distant 1952, when the workers had had sixty-two more years to build an educated and well-organized revolutionary party. In addition, he continued his purifying vanguardism by leaping forward several centuries within the romance to a final resting place – a shimmeringly distant and perfect communist land, from the point of view of which 1952, not to mention 1887, was a dim and distant bad memory. Utopian distance was part of utopian desire31. In breve, che l’organizzazione sociale morrisiana non debba essere intesa come risultato di un’attività bellicosa dispotica, così come viene esemplificato dal motto orwelliano “War is peace. Freedom is slavery. Ignorance is strength”32, è inutile sottolinearlo. 30 Michael Fellman, “Bloody Sunday and News from Nowhere”, The Journal of the William Morris Society, 8, 4 (Spring 1990), p. 13. 31 Ivi, p. 12. 32 George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Harmondsworth, Penguin, 1973, p. 7. Per una lucida analisi si rinvia all’introduzione della versione italiana di Stefano Manferlotti: “[…] è la parabola apocalittica delle grandi paure orwelliane – il totalitarismo, la falsificazione e la perdita di memoria storica indotta dai mezzi d’informazione, la corruzione del linguaggio, l’annullamento Tempo, temporalità e storia 119 La guerra morrisiana, antitetica a qualsiasi totalitarismo, è la risposta a una modellizzazione del mondo che gli sembra ormai privo di un’autentica tensione rappresentativa. O, per meglio dire, è il risultato di una reazione mirante a escludere una modalità classista dell’umano agire basata su un consapevole sfruttamento – consapevolezza che mette a nudo il desiderio dell’artista di ritrovare un equilibrio tutt’altro che di facile e pacifica acquisizione. Non solo: è dalle arti e dall’architettura gotica che lo scrittore trae l’ispirazione per postulare una narrativa in grado di porsi come monito identitario. Vale qui riportare l’interessante considerazione di James Sambrook: [Morris’s] Socialism grew out of his views upon the relationship between art and society which originated in his reading Ruskin at Oxford, but he went far beyond Ruskin in claiming that the regeneration of art could come about only after the overthrow of the capitalist, competitive economic structure which underlay contemporary ugliness and squalor. […] his complementary imaginative work, News from Nowhere (1890), which beautifully and wistfully paints a Rousseau/Godwinesque – anarchist – pastoral – arts-and-crafts ideal society, is only a compensatory dream, not far removed in tone and function from his medieval romances33. Del resto, nel rifiuto morrisiano di una concezione monologizzante che, in maniera più o meno frustrante, conferisca staticità al discorso socio-culturale, riconosciamo una mentalità molto prossima a quella modernista, un progetto che implicitamente fa dell’incomunicabilità la sua lettura dell’universo vittoriano. È questo un atteggiamento che ritroviamo nell’episodio del “General Strike”, quando il saccheggio che colpisce Oxford Street è associato non già alle classi elevate della società, ma erroneamente ai poveri affamati dell’East End, distorcendo l’informazione e dell’identità individuale – convogliate in una raggelante descrizione di società del futuro contro cui combatte, ancora una volta, l’ultimo eroe” (George Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2003, p. VIII). 33 James Sambrook, “The Rossetti and other Contemporary Poets”, in The Penguin History of Literature. The Victorians, ed. Arthur Pollard, London, Penguin, 1993, p. 455. 120 Capitolo II mettendo in primo piano il manifestarsi complesso e contraddittorio delle cose del mondo. Per non dire poi del fraintendimento relativo al possesso di dinamite da parte dei ribelli di Trafalgar Square che finisce per diventare la trascrizione di una scelta di condanna da parte della forza armata londinese per cui ora anche il rimorso ha una ragione in più di esistere: l’assenza di comunicazione si omologa all’assenza di pace e fratellanza. Le parole del governo allora diventano testimonianza vivente della colpa, visto che sono ricondotte entro i limiti di un messaggio di per sé privo di fondamenta: […] a band of young men of the upper classes armed themselves and coolly went marauding in the streets, taking what suited them of such eatables and portables that they came across in the shops which had ventured to open. This operation they carried out in Oxford Street, then a great street of shops of all kinds. The Government, […], thought this a fine opportunity for showing their impartiality in the maintenance of ‘order’ and sent to arrest these hungry rich youths; who, however, surprised the police by a valiant resistance, so that all but three escaped. The Government did not gain the reputation for impartiality which they expected from this move; for they forgot that there were no evening papers; and the account of the skirmish spread wide indeed but in a distorted form; for it was mostly told simply as an exploit of the starving people from the East-end; and everybody thought it was but natural for the Government to put them down when and where they could” (NFN, p. 139). Indubbiamente, a prevalere è il binomio strutturale ordine/disordine (understanding/misunderstanding) che, configurando i poli entro i quali si dibatte la coscienza civile, mette in evidenza come solo attraverso la comunicazione chiara e diretta, sia dato costruire il senso. In questa prospettiva, la mancata esposizione della verità funzionale alla strategia politica sortisce l’effetto di un’arma a doppio taglio che, nonostante la sua integrità iniziale, implica la chiusura verso il mondo esterno, il mancato contatto tra i ricchi e i poveri. A tal riguardo mi sembra oltremodo significativo quanto scritto da Turghenieff: “non vi erano pensieri nobili senza eco e solo gli uomini vivevano Tempo, temporalità e storia 121 incompresi, chè ignoravano se stessi quello che volevano o erano indegni di essere compresi…”34. Alla luce dell’immagine del mancato mantenimento dell’ordine, risulta evidente il significato da annettere alle parole “History is to reverse contemporary judgements” (NFN, p. 61). Parole che sono caratterizzate da una cifra di rassegnazione, giacché l’io narrativo dichiara che “We can now see that most of these claims were of themselves not worth either demanding or resisting; but they were looked on at that time as most important, and they were at least tokens of revolt against the miserable system of life which was then beginning to tumble to pieces” (NFN, p. 109). Era possibile evitare quello che era inevitabile? Se è vero che molte delle rivendicazioni erano gestibili senza necessità alcuna di un massacro che passò alla storia, com’è che le cose precipitarono all’improvviso? Effettivamente, come sottolinea Morris, l’incomunicabilità dilagante a tutti i livelli della stratificazione sociale implica una revisione dei rapporti umani. Paradossalmente, una simile disgiunzione assume una marca destinale totalmente diversa nel caso delle congetture riguardanti il congegno esplosivo – i.e. dinamite – epitome del progresso tecnologico e, se vogliamo, nell’ottica della storia benjaminiana, tempesta destabilizzante che tutto annulla: The reason for this was that they dreaded the use by apparently unarmed men of an explosive called dynamite of which many loud boasts were made by the workers on the eve of these events; although it turned out to be of little use as a material for war in the way that was expected. Of course the officers of the soldiery fanned this fear to the utmost, so that the rank and file probably thought on that occasion that they were being led into a desperate battle with men who were really armed, and whose weapon was the more dreadful, because it was concealed. After that massacre, however, it was at all times doubtful if the regular soldiers would fire upon an unarmed or half-armed crowd” (NFN, p. 142). 34 Ivan Turghenieff, Rudin, Torino, Bietti, 1963, p. 82 122 Capitolo II Nel segmento incipitario si perviene alla tematizzazione della paura determinatasi grazie a una singolare invenzione esplosiva – paura che, dalla prospettiva del codice proairetico, implica l’opposizione soldati vs popolo e che va interpretata come opposizione codardia/coraggio. Il punto di vista – e non potrebbe essere diversamente – è quello interno dell’osservatore anziano che, adesso, dal riparo della sua condizione di sopravvissuto si oppone al carattere paradossale della debolezza militare. Del resto, la semantizzazione insistita dello stato di turbamento (“they dreaded the use by apparently unarmed men”; “the officers of the soldiery fanned this fear to the utmost”; “whose weapon was the more dreadful, because it was concealed”) non fa altro che riprendere quanto già annunciato e confermare la tonalità emotivo-psicologica di un quadro fatto più di ombre che di luci in cui, nella presentazione di un ambiente abitato dal soggetto umano in balia delle sue pulsioni primordiali così come mette in chiaro Morris “Our present system of Society is based on a state of perpetual war” 35 . Per questa ragione, la configurazione della folla come popolo in rivolta, anziché aprirsi a una visione storica di mera violenza, finisce per rivelare la condizione di uomini che, dinanzi al manifestarsi del male, si rendono conto di vivere nella più assoluta barbarie, di aver raggiunto il grado zero della dimensione sociale. Emblematico in questo senso, appare il romanzo A Dream of John Ball (18867) in cui la battaglia tra i contadini e gli uomini armati dello sceriffo reduplica il desiderio di libertà e l’abolizione della distinzione ricchi/poveri presente in NFN. Sotto la spinta di un animo desiderante, la fratellanza socialista trova una rappresentazione più romantica della tensione oppressi (unarmed men)/oppressori (armed men), rispetto alla quale il rilievo isotopico assunto dal sintagma “hope in the time to come” dà vita a un movimento di focalizzazione tematica che converge sul lessema “peace”: 35 William Morris, “How We Live and How We Might Live”, in Signs of Change, cit., p. 3. Tempo, temporalità e storia 123 […] then the road- hedge on the right seemed alive with armed men, […]; every bowman also leapt our orchard-hedge sword or axe in hand, and with a great shout, billmen, archers, and all, ran in on them; half-armed, yea, and half-naked some of them; […]. So was all mingled together, and for a minute or two was a confused clamour over which rose a clatter like the riveting of iron plates, or the noise of the street of coppersmiths at Florence; […] but some cast down their weapons and threw up their hands and cried for peace and ransom; and some stood and fought desperately, and slew some till they were hammered down by many strokes, and of these were the bailiffs and tipstaves, and the lawyers and their men, who could not run and hoped for no mercy36. 36 William Morris, A Dream of John Ball and A King’s Lesson, London, New York & Toronto, Longmans, Green, and Co., 1903, pp. 85-86. Capitolo III L’eterogeneità dello spazio utopico 3.1. Dalla struttura triadica temporale alla triplice visione spaziale. Il dettato estetico di Morris non potrebbe essere più chiaro ed esplicito. Apparentemente, il rifiuto della modernità e del progresso non potrebbe essere più perentorio, ma in realtà, anche alla luce della spazialità nowheriana, la voce narrativa intende dire che non è, quella, una città-giardino che determina un immediato scarto tra chi osserva e il mondo presente. Topologicamente, l’evocazione della città (spazio umano dominato sia dal caos della modernità vittoriana, sia dal cosmo utopico), riconfermando la distanza che separa lo scrittore dal moderno, sancisce l’isolamento di chi pare sottrarsi alla vita e alle innovazioni del progresso tecnologico. Da questo punto di vista, l’io narrativo proietta sulla realtà circostante la propria immaginazione, attivando una tripartizione della tipologia ambientale che, così come avviene per l’articolazione temporale (XIV, XIX e XXI secolo), diviene la sommatoria di un ideale armonico inteso come recupero dell’unità dei due mondi, inanimato e animato, cielo e terra, spirito e corpo, vale a dire l’indivisibilità della vita. Si tratta di una quest esistenziale che non ha nulla di precostituito e nulla che possa essere considerato il risultato di una tecnologia tesa a dominare e perfezionare la natura – anzi, potremmo ipotizzare che lo spazio “evento” morrisiano va al di là della città stessa, “una città invisibile” che trova la sua raison d’être nella dignità psicologico-culturale della campagna. Sul piano logico-discorsivo, i due microcosmi (città/campagna) sono strettamente collegati nel percorso isotopico dominante di una vicenda depositaria di un nómos inteso come ritorno alla 126 Capitolo III dimensione personale e semplice della vita campestre1. Quella che viene registrata è una tensione nostalgica tra l’homo faber, immerso nella routine culturale di una vita frenetica cittadina, fatta di affari, relazioni sociali, riunioni politiche come nel caso di Morris, e la sensibilità panica di un artista che “ama la campagna per la quiete, la serenità e la libertà che gli offre”2. Infatti, se da un lato la cornice arcadica invita a riflessioni sul mistero della vita e su tematiche di ordine morale, dall’altro queste anime in pena esibiscono la loro conflittualità, quali esseri inermi spinti da una forza cieca atti a compiere azioni e proiezioni esegetiche che servono solo a dimostrare la loro debolezza. Ma prima di passare alla dislocazione spaziale naturista e a quell’armonia interiore tanto ricercata da Morris, lo sguardo dell’osservatore restringe il suo campo visivo e si concentra sulla morfologia della città utopica. Di qui un arricchimento tematico-suggestivo della scena che, focalizzando su una triplice spazialità, mostra anche il laboratorio mentale dello scrittore. Non si tratta di un agglomerato civile qualsiasi, ma della Londra del ventunesimo secolo, o per meglio dire, dove l’io narrativo riflette e medita sulla metamorfosi estetica urbanistica. Nel sintagma “then the bridge” (NFN, p. 7) si rivela per la prima volta il vero soggetto della scena: il ponte, in una sorta di disvelamento metaspaziale, parla della sua struttura che è anche gusto medievale sottoposto alla nostra vista. Proprio come avviene ne Le città invisibili di Calvino: “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei corrimano delle scale, nelle 1 È interessante notare come, già molti secoli prima, Orazio sembri provare la stessa frustrante tensione verso la campagna. A tal riguardo, vanno segnalati certi versi delle Satire, in cui, nel Libro secondo, parte sesta leggiamo: “O rus, quando ego te adspiciam quandoque licebit / nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis / ducere sollicitae iucunda oblivia vitae?” (“Quando ti rivedrò, campagna mia? / Quando, ora dai libri degli antichi / ora dal sonno e dal dolce far niente, / trarrò l’oblio della vita affannosa?”, in Orazio, Tutte le opere. Odi, Epodi, Carme secolare, Satire, Epistole, Arte Poetica, a cura di Mario Scaffidi Abbate, traduzioni di Renato Ghiotto e Mario Scaffidi Abbate, testo latino a fronte, edizione integrale, Roma, Newton, 2002, p. 362 e sgg.). 2 Ivi, p. 32. L’eterogeneità dello spazio utopico 127 antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”3. Pur registrando meticolosamente quanto di strano e di inusitato sta avvenendo sotto i suoi occhi, l’io testuale mette in primo piano l’incontro con un modello topologico tipico del quattordicesimo secolo, facendo in tal modo dell’evento un’autentica epifania sulla natura poliedrica del setting utopico. Di ampia derivazione medievale, il Ponte Vecchio4 di Firenze (S1) assurge a epitome incontrastato del primo locus, in cui ad emergere è l’isotopia del bello (“stone arches, splendidly solid, and as graceful as they were strong”; “painted and gilded vanes”; “dignified and stately”) e, ancor più, l’idea di una magica simultaneità che, ancora prima di fornire i termini di paragone definitivi, mira a sottolineare la mobilità di uno scenario che si fa portavoce dell’inquietudine estetica morrisiana. E in questo caso specifico, Trafalgar Square (Su) offre al lettore un’informazione non altrimenti esplicitamente disponibile per il processo interpretativo: Each house stood in a garden carefully cultivated and running over with flowers. […]: there were a great many cherry-trees, now all laden with fruit; and several times as we passed by a garden we were offered baskets of fine fruit by children and young girls. Amidst all these gardens and houses it was of course impossible to trace the sites of the old streets: but it seemed to me that the main roadways were the same as of old. We came presently into a large open space, sloping somewhat toward the south, the sunny site of which had been taken advantage of for planting an orchard, mainly, as I could see, of apricot trees, in the midst of which was a pretty gay little structure of wood, painted and gilded that looked like a refreshment-stall. From the southern side of the said orchard ran a long road chequered over with the shadow of tall old pear trees, at the end of which showed the high tower of the Parliament House, or Dung Market. A strange sensation came over 3 Italo Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 10-11. Qui vale la pena sottolineare l’origine medievale del ponte più antico di Firenze, la cui esistenza è già attestata nel X secolo. In seguito, dopo essere stato distrutto da una piena nel 1333 venne ricostruito nella forma attuale nel 1345 dall’architetto e scultore Neri di Fioravanti, all’epoca capomastro del Comune di Firenze. 4 128 Capitolo III me; I shut my eyes to keep out the sight of the sun glittering on this fair abode of gardens, and for a moment there passed before them a phantasmagoria of another day. A great space surrounded by tall ugly houses, with an ugly church at the corner and a nondescript ugly cupolaed building at my back; the roadway thronged with a sweltering and excited crowd, dominated by omnibuses crowded with spectators. In the midst a paved be-fountained square, populated only by a few men dressed in blue and a good many singularly ugly bronze images (one on top of a tall column). The said square guarded up to the edge of the roadway by a four-fold line of big men clad in blue, and across the southern roadway the helmets of a band of horse-soldiers, dead white in the greyness of the chilly November afternoon – I opened my eyes to the sunlight again and looked round me, and cried out among the whispering trees and odorous blossoms, “Trafalgar Square!” (NFN, Ch. VII, “Trafalgar Square”, pp. 35-36). È chiaro che tale descrizione non solo giunge come conferma semantico-strutturale del binomio bello/brutto, ma in pari tempo, mira a collocare in primo piano un concetto molto semplice, vale a dire quello della convergenza. Che i protagonisti della suggestione visiva siano il palazzo del Parlamento o una chiesa all’angolo di un edificio a cupola non ha importanza, quello che conta, invece, è il convergere di una dimensione utopica, caratterizzata dalla costante spaziale del giardino, verso la dimensione vittoriana capace di suscitare nell’animo dello scrittore solo un immaginario dominato dal paradigma del brutto. Nell’universo simbolico di Morris esistono costanti decorative che, come un segnale di riconoscimento della sua coscienza poetica, stanno a indicare la modalità d’ispirazione e, più precisamente, le forme di attivazione del processo creativo. L’espressione topologica ricorrente più frequente è quella del giardino, in quanto, così come spiega egli stesso nel saggio “Making the Best of it” (1880): “In great towns, gardens, both private and public, are positive necessities if the citizens are to live reasonable and healthy lives in body and mind”5. Nel caso della sezione narrativa dedicata a Trafalgar Square, non si può fare a meno di notare il rilievo isotopico assunto dalla figura naturale del 5 98. William Morris, “Making the Best of it”, in On Art and Design, cit., p. L’eterogeneità dello spazio utopico 129 giardino che, in combinazione con una sinestesia insistita e una forte carica sensoriale, dà vita a una focalizzazione tematica che converge sul paradigma solare esemplificato dagli occorrimenti “sunny site”, “sun glittering”, “sunlight”, in grado di amplificare i colori e gli odori presenti nel frutteto del “large open space”. A questo ambiente variopinto si oppone l’improvvisa fantasmagoria di un mondo altro (S2), caratterizzato da una configurazione spaziale disforica evidente nell’iterazione aggettivale ugly (“tall ugly houses, with an ugly church”; “a nondescript ugly cupolaed building at my back”; “many singularly ugly bronze images”) che, segnando un ribaltamento assiologico, diviene il ponte linguistico capace di attivare il cambiamento di scenario. Ma le caratteristiche urbanistiche fin qui riportate non afferiscono semplicemente al campo semantico del brutto: esse determinano la differenza e lo scarto qualitativo rispetto a chi assiste alla scena. Persino a livello cromatico va notato un processo di reificazione e banalizzazione dell’apparato architettonico che ipostatizza la centralità del bronzo e del blu veicolata attraverso la figuralità umana, sia essa materializzazione statuaria che incarnazione militare. Paradossalmente, la tonalità preferita da Morris – verso cui egli esprime tutta la sua propensione: “[…] surely blue must be called the holiday [colour], and those who long most fro bright colours may please themselves most with it; for if you duly guard against getting it cold if it tend towards red, or rank if it tend towards green, you need not to be much afraid of its brightness. […] so blue is especially a pigment and an enamel colour; the world is rich in insoluble blues, many of which are practically indestructible” 6 – acquista una connotazione negativa, visto che a dominare quale colore freddo e insensibile alle pene umane è proprio il blu delle divise spersonalizzanti degli uomini di ordine pubblico. A questo punto, per individuare le coordinate assiologicofigurative necessarie al fine di orientarsi nella varietà archetipica nowheriana, può essere utile schematizzare la struttura se6 Ivi, p. 107. 130 Capitolo III manticamente incentrata sull’attrazione-repulsione dei due poli bello/brutto: S1 bello Su S2 brutto Se con S2 indichiamo lo spazio eterotipico ottocentesco che sta per il non darsi dell’azione utopica, possiamo facilmente capire come NFN si apra e si chiuda ai valori antitetici del brutto, facendo riferimento a un cambiamento che non accade. Pertanto, organizzata secondo una precisa modellizzazione contrastiva, la realtà nowheriana si oppone alla spettralità di una folla sudata e frettolosa (“the roadway thronged with a sweltering and excited crowd, dominated by omnibuses crowded with spectators”) come anche alla presenza di non-entità che rimandano alla morte di qualsivoglia speranza umana (qui si ripensi al cromatismo metonimico visualizzato a Trafalgar Square: “the helmets of a band of horse-soldiers, dead white in the greyness of the chilly November afternoon”). Non a caso, proprio la disarmonia della folla offre la rappresentazione topologica di S2 che ha ormai stabilito un nesso di prossimità con il negativo. Emblematico è in questa direzione quanto riportato nel decimo capitolo “Questions and Answers”: “Time was when if you mounted a good horse and rode straight away from my door here at a round trot for an hour and a half, you would still be in the thick of London, and the greater part of that would be L’eterogeneità dello spazio utopico 131 ‘slums’, as they were called; that is to say, places of torture for innocent men and women; or worse, stews for rearing and breeding men and women in such degradation that that torture should seem to them mere ordinary and natural life” […] Our forefathers, in the first clearing of the slums, were not in a hurry to pull down the houses in what was called at the end of the nineteenth century the business quarter of town, and what later got to be known as the Swindling Kens. You see, these houses, though they stood hideously thick on the ground, were roomy and fairly solid in building, and clean, because they were not used for living in, but as mere gambling booths; so the poor people from the cleared slums took them for lodgings and dwelt there, till the folk of those days had time to think of something better for them; so the buildings were pulled down so gradually that people got used to living thicker on the ground there than in most places; therefore it remains the most populous part of London, or perhaps of all these islands. […] However, this crowding, if it may be called so, does not go further than a street called Aldgate, a name that perhaps you may have heard of (NFN, pp. 57-58). La citazione mette in chiaro il rapporto dinamico che il termine slums stabilisce nella strutturazione del romanzo tra i personaggi e lo spazio, o se si vuole, tra povertà e degradazione. Se il destino umano vittoriano è un destino di sofferenza, se il caos cittadino qui ritratto, non dissimile dalla connotazione mortifera eliotiana (“Unreal City, / Under the brown fog of winter dawn, / A crowd flowed over London Bridge, so many, / I had not thought death had undone so many, / Sighs, short and infrequent, were exhaled,” 7 ) avrà ragione dell’armonia sociale regnante nella campagna, cosa resta degli sforzi compiuti dagli animi moralmente impegnati per rendere il mondo migliore? Morris offre più di una risposta, controbilanciando tale abissamento etico-sociale con l’aiuto di uno spazio paratopico ove alla “madding crowd”, così come la definisce Thomas Gray nella sua Elegy Written in a Country Churchyard (1715), fa riscontro una “handsome healthy-looking people” (NFN, p. 21). Del resto, sul piano del significato, il sintagma “living thicker” è il segno di una resa totale da parte del soggetto, ma il dato che subi7 T. S. Eliot, The Waste Land and Other Poems, London, Faber and Faber, 1973, p. 29. 132 Capitolo III to balza agli occhi è il rapporto di dipendenza che tale condizione intrattiene con l’annullamento di qualsivoglia dimensione ecologico-naturale, laddove s’impone la presenza minacciosa dell’industria: “[…] how all this was changed from last night! The soap-works with their smoke-vomiting chimneys were gone; the engineer's works gone; the lead-works gone; and no sound of riveting and hammering came down the west wind from Thorneycroft’s” (NFN, p. 7). Come mette in chiaro questo segmento descrittivo, l’azione utopica risulta tanto più efficace e idealista in quanto, nel momento in cui regala quadri ideologici alternativi, egli lascia che una parte del mondo vittoriano sopravviva, per ricordarci quello che eravamo, e che ora non siamo più. Il che può essere sintetizzato nel grafico spaziale che, adottando un codice architettonico, rappresenta i tre referenti topologici quali riferimenti paradigmatici dell’imagery morrisiana: Ponte Vecchio Cittàgiardino Slums 3.2. Cromatismo spaziale: la funzione modellizzante del colore. È chiaro che il fenomeno della ipersemantizzazione dello scenario nowheriano risulta del tutto dipendente dalla cromia preraffaellita, derivante dall’impianto ideologico dell’artista che proietta la carica vibrante del suo universo cromatico sugli am- L’eterogeneità dello spazio utopico 133 bienti, dando loro una vitalità che ha la dimensione estetica del sogno. Ciò che il pittore vede e capisce grazie alla manifestazione sineddochica del colore è la bellezza del cosmo, l’assoluta mancanza di una qualche forma di degrado e di conseguenza la fiducia nella capacità modellizzante dell’arte. Così, per dirla con Constable, “There is nothing ugly; […] for let the form of an object be what it may – light, shade, and perspective will always make it beautiful”8. La voce narrante morrisiana mostra come intorno a lui i fantasmi e le rovine del passato che depositano silenziosamente le tracce del loro quotidiano esistere, cominciano a riprendere vita, spinti in primo luogo dall’esperienza visiva del colore, medium spazio-temporale tra questo e quel mondo. Al di là delle strategie di visualizzazione adottate da Morris, quello che risulta evidente è che il colore – proprio perché emotivamente incluso nel confronto dialogico diretto tra l’io testuale a la sua controparte (un tu-testuale che quasi sempre si manifesta in plurime personalità utopiche) – diviene elemento di innesco di movimenti di riflessione. Grazie ad essi, l’immaginazione dell’artista avvia una serie di associazioni che implicano un movimento di ricerca delle ragioni della propria identità eticoculturale, un movimento che risente della concezione goethiana del colore, così come viene indagata da Carlo Argan: La natura-oggetto e la persona-soggetto sono in realtà vive e in movimento, e ciò che si vuole cogliere è la relazione tra i due ritmi di moto, bisogna vedere come l’occhio si comporti nel corso di una percezione che non è mai, in nessun caso, istantanea. L’analisi è dunque sempre l’analisi di un processo della mente. […] I colori non sono cose della natura, ma della mente. Per mezzo dei colori gli uomini non soltanto rendono percepibile il mondo, ma agiscono in esso allo scopo di rendere più armonico il rapporto con l’ambiente. Anche questi interventi avevano dei precedenti: il giardi- 8 C. R. Leslie, Memoirs of the Life of John Constable, Ithaca, NY, U.S. A., Cornell University Press, 1980, p. 215. 134 Capitolo III naggio e la pedagogia, come educazione della natura, sono i temi prediletti della cultura […]9. In breve, il movimento è sempre contro la disgregazione del nesso uomo/ambiente: i colori diventano in qualche modo alleati della memoria narrativa che, proprio contro i rischi di alienazione, cerca di ricostruire il passato in sintonia con i disegni del presente. Non solo, la ricerca di “rendere più armonico [questo] rapporto” chiama in causa anche un confronto con gli oggetti del passato che, messi alla prova dal confronto con l’assiologia utopica, rivelano uno scarto qualitativo di gran lunga inferiore a qualsiasi materializzazione nowheriana. I colori protagonisti dello spazio morrisiano – non meno dei personaggi attanziali – hanno l’abilità della pittura, il cui fine è di elaborare “sogni situati tra materia e luce”10, la messinscena di un’esaltazione iperbolica del mondo circostante. Con l’ausilio del verde, del rosso e del grigio, Morris tenta di restituire una fisicità positiva all’anticampo vittoriano, anche se alla fine è costretto ad arrendersi dinanzi al fallimento insito nel ritorno alla realtà disforica del diciannovesimo secolo. Se è giusto dire che per la voce attoriale non si dà rivisitazione del passato industriale inteso come ritorno a una totalità euforica, allora quello che rimane è l’ancoraggio alla natura, il cui correlativo oggettivo è epitomizzato dall’isotopia del verde – tinta che si alimenta all’idea di non-disgiunzione, visto che “Mescolando il giallo […] con il blu […] si ottiene […] il verde, che non è affatto un tono intermedio, ma ha una propria, nettissima qualità timbrica. Con la sua perfetta medianità, dedotta dalla mescolanza perfettamente equilibrata delle due entità più lontane […]. Perciò è il colore simbolo del naturale […]”11. Così Morris, che definisce il verde 9 Johann Wolfgang Goethe, La teoria dei colori, a cura di Renato Troncon, introduzione di Giulio Carlo Argan, Milano, Il Saggiatore, 2000, p. XI e sgg. 10 Gaston Bachelard, Il diritto di sognare, Bari, Dedalo, 1974, p. 35. 11 Goethe, op. cit., pp. XVI-XVII. L’eterogeneità dello spazio utopico 135 un “work-a-day colour” 12 , porta in superficie la metafora spaziale annessa a tale colore secondario di cui è disseminata la topologia utopica: Though green (at all events in England) is the colour widest used by Nature, yet there is not so much bright green used by her as many people seem to think; the most of it being used for a week or two in spring, when the leafage is small, and blended with the greys and other negative colours of the twigs; when “leaves grow large and long”, as the ballad has it, they also grow grey. I believe it has been noted by Mr. Ruskin, and it certainly seems true, that the pleasure we take in the young spring foliage comes largely from its tenderness of tone rather than its brightness of hue […]13. A partire dal bosco di Kensington assistiamo ad una raffigurazione sognante del verde che, pur nella semplicità della sua strutturazione semantica e fonoprosodica, mette molto bene in rilievo il significato che assume il termine tenderness nella pratica della cromatizzazione. Si rileva subito l’ampio utilizzo della sibilante e della figura fonica fricativa corrispondente, secondo una struttura cadenzata e ritmata tesa all’annullamento di qualsivoglia indurimento fonico, che inscrive l’unità di lettura nell’equazione verde = pleasure = freshness = tenderness, capace di sussumere tutta la “condition of dreamy pleasure”: It was exceedingly pleasant in the dappled shadow, for the day was growing as hot as need be, and the coolness and shade soothed my excited mind into a condition of dreamy pleasure, so that I felt as if I should like to go on for ever through that balmy freshness. My companion seemed to share in my feelings, and let the horse go slower and slower as he sat inhaling the green forest scents, chief amongst which was the smell of the trodden bracken near the way-side. Romantic as this Kensington wood was, however, it was not lonely (NFN, Ch. V, “Children on the Road”, pp. 23-24). L’iperbole – “exceedingly pleasant”; “dreamy pleasure”; “balmy freshness” – è sì funzionale al tessuto fonico, ma anche, come 12 William Morris, “Making the Best of it”, in On Art and Design, cit., p. 106. 13 Ivi, p. 106. 136 Capitolo III appare evidente, una pertinenza semantica: i codici sensoriali vengono acuiti con l’intento di vivere l’esperienza irripetibile di un confronto con immagini esterne alla realtà nowheriana. Pertanto finora a prevalere è la forza di determinazione del verde mirante a istituire una dimensione deautomatizzante nella stessa messa a fuoco di un Blake (“Walk upon England’s mountains green? […] // I will not cease from mental fight, / Nor shall my sword sleep in my hand, / Till we have built Jerusalem, / In England’s green and pleasant land”, “And did those feet in ancient time”, 1804-10)14 o di uno Stevenson (“I will make a place fit for you and me / Of green days in forests and blue days at sea”, “I will make you brooches and toys for your delight”, 1896)15. Ma, nonostante l’evocazione di una foresta incantata, resta il panorama irreale del British Museum, evocato dalla immaginazione morrisiana, a sottrarsi in maniera quintessenziale al modello di mondo vittoriano, una wasteland che, in quest’ottica di migliorismo ontologico, riesce a redimere. E indubbiamente, se si assume il punto di vista del protagonista, scorgiamo una volontà cosmica pronta a indicare l’universo esemplare in cui valga la pena credere. Sotteso a una simile lessia, vi sarebbe l’“happy garden-state” di Andrew Marvell, una sorta di fede nella capacità mentale dell’uomo di muoversi in direzioni creative, verso altri mondi felici “Annihilating all that’s made / To a green thought in a green shade”16 (“The Garden”, 1681). We crossed the road into a short narrow lane between the gardens, and came out again into a wide road, on one side of which was a great and long building, turning its gables away from the highway, which I saw at once was another public group. Opposite to it was a wide space of greenery, without any wall or fence of any kind. I looked through the trees and saw beyond them a pillared portico quite familiar to me – no 14 William Blake, Milton, in The Complete Writings, ed. Geoffrey Keynes, London, Oxford, New York, Oxford University Press, 1969, p. 481. 15 Robert Louis Stevenson, Songs of Travel, Whitefish, MT, Kessinger Publishing, 2004, p. 9. 16 Andrew Marvell, The Poems and Letters of Andrew Marvell, ed. H. M. Margoliouth, Oxford, Clarendon Press, 1952, p. 49. L’eterogeneità dello spazio utopico 137 less old a friend, in fact, than the British Museum. It rather took my breath away, amidst all the strange things I had seen; but I held my tongue and let Dick speak. Said he: “Yonder is the British Museum, where my great-grandfather mostly lives; so I won’t say much about it. The building on the left is the Museum Market, and I think we had better turn in there for a minute or two; for Greylocks will be wanting his rest and his oats; and I suppose you will stay with my kinsman the greater part of the day; and to say the truth, there may be some one there whom I particularly want to see, and perhaps have a long talk with”. He blushed and sighed, not altogether with pleasure, I thought; so of course I said nothing, and he turned the horse under an archway which brought us into a very large paved quadrangle, with a big sycamore tree in each corner and a plashing fountain in the midst. Near the foundation were a few market stalls, with awnings over them of gay striped linen cloth, about which some people, mostly women and children, were moving quietly, looking at the goods exposed there. The ground floor of the building round the quadrangle was occupied by a wide arcade or cloister, whose fanciful but strong architecture I could not enough admire (NFN, Ch. VIII, “An Old Friend”, p. 43). Diversamente dalla denuncia sociale kiplinghiana (“Our England is a garden, and such gardens are not made / By singing: –‘Oh, how beautiful!’ and sitting in the shade, / While better men than we go out and start their / working lives / At grubbing weeds from gravel paths with broken dinner-knives”, “The Glory of the Garden”, 1911)17, nella densità tropica dei segmenti volti a connotare Su si realizza un disegno semantico-strutturale veicolato dalla cromia naturale del verde, in grado di mettere in discussione qualsivoglia forma di clôture fisico-mentale (“a wide space of greenery, without any wall or fence of any kind”). È anche interessante notare che, rispetto alla visione del ponte, con l’immissione di un filtro visivo cromatico (“I looked through the trees”), aumenta l’empatia con il locus amoenus e sancisce un codice affettivo nell’antropomorfizzazione del museo (“and saw beyond them a pillared portico quite familiar to me – no less old a friend, in fact, than the British Museum”). Non so- 17 Rudyard Kipling, Selected Poems, London, Penguin, 1999, p. 148 138 Capitolo III lo, ma le dominanti strategiche del sicomoro 18 e della fontana gorgogliante afferiscono al campo dell’emblematica, e più precisamente a una simbologia di vita e fecondità, una vera e propria resurrezione dell’umano sentire. Quanto alla resa estetica, le modifiche apportate da Morris, facendo del panorama anglosassone lo spazio in cui la sua immaginazione mette a nudo le carenze urbanistiche, rafforzano la procedura di sostituzione e classificazione e rendono più evidente la cifrazione percettiva del colore, soprattutto rispetto a quelle forme naturali intrinsecamente disforiche: [I]t does not make a bad holiday to get a quiet pony and ride about there on a sunny afternoon of autumn, and look over the river and the craft passing up and down, and on to Shooters’ Hill and the Kentish uplands, and then turn round to the wide green sea of the Essex marshland, with the great domed line of the sky, and the sun shining down in one flood of peaceful light over the long distance. There is a place called Canning’s Town, and further out, Silvertown, where the pleasant meadows are at their pleasantest: doubtless they were once slums, and wretched enough” (NFN, Ch. X, “Questions and Answers”, p. 59). Insieme al congiungimento metaforico della palude al mare, appare sempre più evidente l’emergenza di un’isotopia favolistica 19 , che – segnalata dalla sovrapposizione semantica cie18 Vale qui riportare l’interessante origine di questo albero ricco di suggestioni positive: “Gli Egizi consideravano il sicomoro (Ficus sycomorus) l’Albero della vita […]. […] a Menfi si trovava un sicomoro a sud del tempio di Ptah. Secondo la tradizione vi abitava la dea Hathor, rappresentata come sorgente dal tronco nell’atto di nutrire con quei frutti i defunti. […] Scene di questo genere sono riprodotte anche sulle situle, o vasi rituali in metallo usati nella pratica culturale e associati al latte […] all’acqua, alla fecondità e all’idea di resurrezione” (Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano, Mondadori, 1998, pp. 116-117). 19 Sul ruolo assunto dalla favola nell’immaginario morrisiano si veda quanto scritto da Alexander MacDonald: “We do not usually think of sorrow and pain when we think of fairy tales, at least not at first. Morris’s allusions to fairy tales bring these feelings to our conscious awareness. ‘Seven Swans’ may be an allusion to the story of the Six Swans who are really the lost brothers of the heroine, and perhaps the almost correct title suggests the struggle for L’eterogeneità dello spazio utopico 139 lo/cupola –, rimanda all’idea di una sinestesia cromatica (“one flood of peaceful light”) di cui rileviamo anche il nesso allitterativo in grado di accrescere l’incanto sensoriale. È innegabile che la cromia configuri una delle più ovvie rappresentazioni di un modello armonico che ricorre frequentemente nel macrotesto letterario morrisiano, ma quello che appare meno ovvio è l’autoindividuazione dello scrittore nello spettro cromatico preraffaellita che risulta in grado di rispondere non solo alle sue esigenze di esteta, ma anche di offrire un perfetto dialogismo tra l’uomo e la natura. Sia chiaro: dietro questa tendenza alla perfezione e alla bellezza, riconosciamo una sorta di venerazione per gli oggetti ben fatti, la quale richiede una disambiguazione testuale capace di far emergere la gerarchia delle priorità epistemico-assiologiche. E in questo senso la confessione del battelliere Dick mi pare illuminante per spiegare l’ordine fittizio in cui ogni dislocazione spaziale viene ritratta: “I must tell you, though, that my great-grandfather sometimes tells me I am a little cracked on this subject of fine building; and indeed I do think that the energies of mankind are chiefly of use to them for such work; for in that direction I can see no end to the work, while in many others a limit does seem possible” (NFN, p. 28). Nel segmento narrativo, costituito da un eufemismo di derivazione architettonica (“I am a little cracked on this subject of fine building”), notiamo che, attraverso la marcatura grafica (“I do think”), si colloca in primo piano il pensiero ideologico morrisiano circa l’useful work mirante a veicolare le innumerevoli possibilità di autorappresentazione su questo palcoscenico metartistico. Pertanto, ponendosi contro una visione cristallizzata integration of male and female. ‘Faithful Henry’ is possibly an allusion to ‘Faithful John’, the story of a servant to a young king. Henry Johnson is Boffin’s real name and Henry Morsom the name of the old man they meet while travelling up the Thames. This sort of substitution had the effect of weaving the stories together and at the same time establishing, as it were, the unresolved tension of something ‘wrong’ within the text” (Alexander MacDonald, “The Liveliness of News from Nowhere: Structure, Language and Allusion”, The Journal of the William Morris Society, 10, 2, Spring 1993, p. 25). 140 Capitolo III della società, e soprattutto asserendo il primato del colore, l’artista recupera una simile spinta salvifica nella carica vitale del rosso in virtù del suo “[…] senso di gravità, dignità, benevolenza, grazia; l’austerità dell’età avanzata e la gentilezza della gioventù possono pararsi dello stesso colore […]”20. In particolare, sin dai primi capitoli non possiamo fare a meno di registrare come all’eccezionalità del setting utopico corrisponda una simbologia del mattone rosso altrettanto eccezionale, indice esponenziale della concezione morrisiana tesa a mettere in rilievo l’unicità dell’esperienza artistica: Both shores had a line of very pretty houses, low and not large, standing back a little way from the river; they were mostly built of red brick and roofed with tiles, and looked, above all, comfortable, and as if they were, so to say, alive, and sympathetic with the life of the dwellers in them (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 8). It was very handsomely built of red brick with a lead roof; and high up above the windows there ran a frieze of figure subjects in baked clay, very well executed, and designed with a force and directness which I had never noticed in modern work before (NFN, Ch. III, “The Guest House and Breakfast Therein”, p. 12). They were all pretty in design, and as solid as might be, but countrified in appearance, like yeomen's dwellings; some of them of red brick like those by the river, but more of timber and plaster, which were by the necessity of their construction so like medieval houses of the same materials that I fairly felt as if I were alive in the fourteenth century (Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 20). But however, what with the beasts and the men, and the scattered redtiled roofs and the big hayricks, it does not make a bad holiday to get a quiet pony and ride about there on a sunny afternoon of autumn, and look over the river and the craft passing up and down, and on to Shooters’ Hill and the Kentish uplands, and then turn round to the wide green sea of the Essex marshland, with the great domed line of the sky, and the sun shining down in one flood of peaceful light over the long distance (NFN, Ch. X, “Questions and Answers”, p. 59). 20 Goethe, op. cit., p. xvii. L’eterogeneità dello spazio utopico 141 […] park: but these drew back still further from the river at the end of the reach to make way for a little town of quaint and pretty houses, some new, some old, dominated by the long walls and sharp gables of a great red-brick pile of building, partly of the latest Gothic, partly of the style of Dutch William, but so blended together by the bright sun and beautiful surroundings, including the bright blue river, which it looked down upon, that even amidst the beautiful buildings of that new happy time it had a strange charm about it (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court and A Praiser of Past Times”, pp. 124-125). Adottando una costruzione prettamente medievale, Morris dimostra ancora una volta di preferire l’ambientazione idilliaca tipica del Gothic Revival che, nella fattispecie, viene esemplificata da timpani aguzzi e tegole rosse, esteriorizzazioni architettoniche delle proprie inclinazioni artistiche, nonché caratteri peculiari della Red House21. Come è noto, nel 1859 Morris si fece costruire dal suo amico architetto Philip Webb22 il primo esempio di casa moderna, il cui spirito medievale insieme a una ricercata armonia tra gli interni e gli esterni la fa assurgere a pietra di paragone per gli anni a seguire. Particolare attenzione merita il reticolo sintagmatico costituito dalle lessie prese in considerazione, attorno al quale gravitano isotopicamente le funzioni sinonimiche che chiamano in causa i lessemi afferenti alla bellezza come all’armonia uomo/ambiente: comfortable, sympa21 Per la sua qualità old-fashioned e la sua funzionalità artistica di rifugio intellettuale, la Red House può essere paragonata alla “casetta rossa” di D’Annunzio, che tanto significato assume nel processo creativo dello scrittore decadente. A tal riguardo, si veda, di chi scrive, “William Morris and Gabriele D’Annunzio: Kindred Spirits?”, Es. Revista de filologìa inglesa, 27 (20062007), pp. 189-200. 22 Forse qui giova chiarire i principi stabiliti da Webb nella costruzione della Casa Rossa: “La preoccupazione per l’onestà strutturale ed il desiderio di integrare gli edifici nel loro ambiente e nella cultura locale. Egli raggiunse questi scopi mediante una progettazione funzionale, un ambientamento ricco di sensibilità e l’impegno di materiali locali, uniti a un profondo rispetto per i metodi costruttivi tradizionali. Come Morris, suo primo cliente e collega per tutta la vita, Webb nutrì un rispetto quasi mistico per la sacralità dell’artigianato e per la terra su cui vita e architettura in definitiva si fondavano” (Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli Editore, 1982, p. 40). 142 Capitolo III thetic, handsomely, well executed, force, directness, pretty, blended together. Quanto al sintagma “sympathetic with the life of the dwellers in them” va segnalato il rapporto di parallelismo tautologico con “so blended together by the bright sun and beautiful surroundings” che appare ulteriormente rafforzato dalla connotazione luminosa del sole e del “bright blue river”. Non è azzardato dire che dietro la concatenazione logico-discorsiva delle unità di lettura vi è anche una riflessione sul significato da dare al concetto di casa funzionale alle richieste psicologicocomportamentali dell’uomo (qui si rimanda alla Casa Rossa intesa come laboratorio sperimentale oltre che cenacolo intellettuale per il gruppo di Morris) che, nel caso specifico sembra rispettare l’ideale di comfort, seguendo un’evoluzione semantica atta a stabilire la connessione di ordine moderno mattone rosso/forza. Sulla base di una formula estetica che si alimenta all’idea di solidità, assume grande rilievo l’associazione epistemico-temporale a quelle costruzioni tipiche del quattordicesimo secolo, una sorta di indicazione ideologica culminante nella non-disgiunzione red brick/Gothic, marcata dal segno di una felicità raggiunta, seppur sempre circondata da un alone di fascino misterioso. È da questa raffigurazione del tutto positiva del rosso che trae origine l’estrema compattezza tra S1 e Su in termini suggestivamente mitopoietici, laddove la cifra simbolica del mattone rimanda all’ars artigianale di Efesto, dio del fuoco e dei metalli, ma soprattutto del focolare. E di tale simmetria semantica abbiamo un suggello allegorico nel matrimonio tra Vulcano e Afrodite, vale a dire tra l’abilità artistica del forgiatore di metalli e la bellezza, paradigmi fondamentali della visione d’insieme morrisiana. Apparentemente legato al modello interpretativo del mattone rosso, Morris esibisce sul palcoscenico utopico anche la dimensione semplicistica della pietra grigia che serve a dimostrare quanto affermato nel saggio “The Art of the People” (1879): “So I will say that I believe there are two virtues much needed in modern life, if it is ever to become sweet; and I am quite sure that they are absolutely necessary in the sowing the seed of an art which is to be made by the people and for the people, as a L’eterogeneità dello spazio utopico 143 happiness to the maker and the user. These virtues are honesty and simplicity of life”23. Di qui l’entrata in scena di Kelmscott Manor situata nell’Oxfordshire, alter ego architettonico della Red House (Kent) per via del suo aspetto vernacolare e il senso di appartenenza alla vita rurale, esemplificato dall’assenza di elettricità e acqua corrente. Ciò che lo scrittore, ormai nel declino degli anni, cerca di evocare è la stessa immagine che Ruskin delinea in The Stones of Venice e, a tal riguardo, ha ragione Attilio Brilli quando afferma che: Se da un lato Ruskin profetizza un’architettura “organica”, proiettata nel futuro con tutte le implicazioni artistiche, sociali e religiose che comporta, dall’altro il termine di paragone invocato sono quei marmi consunti, della Venezia medievale, incastonata di ori e di paste vitree, centinata e conclusa in cuspidi da maestranza sapienti, di una città cioè plasmata dalla mano dell’uomo24. Si tratta di un ritorno al passato che, riconducendo il discorso in ambito cromatico, sancisce il primato della semplicità artistica e, nel contempo, dà corpo al convincimento del tutto negativo che nella realtà presente, con i suoi miti di progresso, con le sue smanie capitalistiche e i suoi obiettivi tecnologici, non vi è più spazio per l’artificialità e la costruzione in serie. È questa l’area semantica entro la quale ha luogo la selvatichezza, il primo elemento morale del gotico ruskiniano che si colloca sotto il segno di dignità e onorabilità rispetto all’esecuzione architettonica grossolana e, se vogliamo, talmente imperfetta da “restitu[ire] all’opera quella nobiltà dell’intelletto che scaturisce da un’epoca” 25 . Se è vero che nell’opera morrisiana il tricromo grigio si dà come simbolo cupo della realtà assiologica del diciannovesimo secolo (“Seeing so many people made me notice their looks the more; and I must say my taste cultivated in the sombre greyness, or rather brownness, of the nineteenth century, was rather apt to condemn the gaiety and brightness of the 23 William Morris, On Art and Design, cit., p. 180. John Ruskin, Le Pietre di Venezia, Milano, Mondadori, 2000, p. x. 25 Ivi, p. 105. 24 144 Capitolo III raiment […]”, NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to Hammersmith”, p. 119), è altrettanto vero che in NFN il grigio sta a indicare che la vita umana – in termini di non-disgiunzione spirito/materia – è molto di più del mero squallore etico-ecologico, ma grazie al paradigma della manodopera, la dualità cromatica soccombe sotto il peso di un’interpretazione artigianale per attualizzare un perfetto orizzonte topologico. Per maggiore chiarezza riportiamo una serie di citazioni utili nella focalizzazione euforica della tonalità neutra: “I remember, a beautiful place for a house: but a starveling of a nineteenth century house stood there: I am glad they are re-building: it’s all stone too, though it need not have been in this part of the country: my word, though, they are making a neat job of it: but I wouldn’t have made it all ashlar” (NFN, Ch. XXVI, “The Obstinate Refusers”, p. 149). I was taken ashore again at Godstow, to see the remains of the old nunnery, pretty nearly in the same condition as I had remembered them; and from the high bridge over the cut close by, I could see, even in the twilight, how beautiful the little village with its grey stone houses had become; for we had now come into the stone-country, in which every house must be either built, walls and roof, of grey stone or be a blot on the landscape (NFN, Ch. XXVII, “The Upper Waters”, p. 160). There I stood in a dreamy mood, and rubbed my eyes as if I were not wholly awake, and half expected to see the gay-clad company of beautiful men and women change to two or three spindle-legged backbowed men and haggard, hollow-eyed, ill-favoured women, who once wore down the soil of this land with their heavy hopeless feet, from day to day, and season to season, and year to year. But no change came as yet, and my heart swelled with joy as I thought of all the beautiful grey villages, from the river to the plain to the uplands, which I could picture to myself so well, all peopled now with this happy and lovely folk, who had cast away riches and attained to wealth (NFN, Ch. XXX, “The Journey’s End”, p. 172). Diversamente dall’impossibilità ontologica di una visione di rinascita insita nella filosofia hegeliana (“Quando la filosofia dipinge il suo grigio sul grigio, allora una forma della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, L’eterogeneità dello spazio utopico 145 ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”26), qui il grigio configura una possibilità di restituire rappresentazioni euforiche che appartengono sempre alla dimensione del sogno e che purtroppo non trovano riscontro alcuno nell’ora presente. È tutto qui il paradosso esperito dal suddetto colore che, proprio nel momento in cui pare essere espressione visiva della dipartita, risulta inscritto nelle costruzioni in grado di costituire un epifenomeno della nuova condizione personale dell’uomo. Sulla scorta dei segmenti riportati possiamo fare una considerazione circa un crescendo logico-formale relativo alla centralità diegetica della “casa grigia” che, con l’avvicinarsi dell’explicit, diviene icona di uno spazio domestico sempre più autentico, nonché antitetico alla totalità amorfa vittoriana. Ciò che si delinea è un atteggiamento positivo costruttivo del narratore, a partire dall’idea singolativa di architettura in pietra (“I am glad they are rebuilding: it’s all stone too”), per poi passare a una proiezione totalizzante di un vero e proprio “stone-country”, ove l’effetto chiaroscurale del crepuscolo rende ancora più trascendente il locus utopico. Il conclusivo sintagma della seconda citazione “every house must be either built, walls and roof, of grey stone or be a blot on the landscape” costituisce una clausola del modus operandi costruttivo che si collega isotopicamente all’incredulità dell’io esperiente (“There I stood in a dreamy mood, and rubbed my eyes as if I were not wholly awake”) colto in uno stato di ansia dovuta alla paura, non priva di fondamenta, di vedere tramutata quell’arcadia in un limbo di anime perse (“three spindle-legged back-bowed men and haggard, hollow-eyed, ill-favoured women, who once wore down the soil of this land with their heavy hopeless feet”). Su questa consapevolezza da parte della voce attoriale si fonda la proiezione emotiva del colore, così come viene espressa da Ruskin: 26 G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di Giuliano Marini, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 17. 146 Capitolo III […] The front of St. Mark’s became rather a shrine at which to dedicate the splendour of miscellaneous spoil, than the organized expression of any fixed architectural law or religious emotion. It is on its value as a piece of perfect and unchangeable colouring, that the claims of this edifice to our respect are finally rested; and a deaf man might as well pretend to pronounce judgement on the merits of a full orchestra, as an architect in the composition of form only, to discern the beauty of St. Mark’s27. Del resto, è proprio l’unicità della sensibilità morrisiana a postulare un “cromatismo perfetto e immutabile” riferito in particolare ai suoi edifici immaginari che tendono a trasformare un ambiente innaturale in un ecosistema naturale. Parafrasando Longfellow, la casa grigia s’impone come “The lily of [Nowhere] blossoming in stone” (Henry Wadsworth Longfellow, “Giotto’s Tower”, 1866)28, nel senso che essa sancisce la possibilità di attutire i risultati esiziali della vita presente, e ancor più di ritrovare una qualche comune emozione in una raffigurazione cromaticamente viva. Di qui la messa in scena di una casa tutta intesa ad affermare lo scambio emotivo-affettivo con la natura, in cui prevale l’incontro rivelatore con le cose semplici della vita, una sintesi esemplare ricca di valore semantico, quasi a voler sancire l’importanza di un significante che diviene involucro trasudante bellezza in grado di riecheggiare gli attimi di felicità ormai sepolti: We crossed the road, and again almost without my will my hand raised the latch of a door in the wall, and we stood presently on a stone path which led up to the old house to which fate in the shape of Dick had so strangely brought me in this new world of men. My com27 John Ruskin, The Stones of Venice, ed. J. G. Links, London, Pallas, 2001, p. 135. Sull’interazione fra colore e suono si veda L’arcobaleno infranto di Andrea Mariani quando afferma che: “[…] luce e colore non riguardano solo la sfera della dimensione visiva, ma anche di quella uditiva/sonora; soprattutto la luce e il colore che ci giungono attraverso un testo poetico e, quindi, attraverso il suono (implicito, in genere ma intrinseco) delle parole” (Andrea Mariani, L’arcobaleno infranto. La funzione del colore in Whitman, Dickinson, Frost e Merwin, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997, p. 8). 28 H. W. Longfellow, The Complete Poetical Works of Henry Wadsworth Longfellow, New York, Buccaneer Books, 1993, p. 291. L’eterogeneità dello spazio utopico 147 panion gave a sigh of pleased surprise and enjoyment; nor did I wonder, for the garden between the wall and the house was redolent of the June flowers, and the roses were rolling over one another with that delicious super-abundance of small well-tended gardens which at first sight takes away all thought from the beholder save that of beauty. The blackbirds were singing their loudest, the doves were cooing on the roof-ridge, the rooks in the high elms-trees beyond were garrulous among the young leaves, and the swifts wheeled whining about the gables. And the house itself was a fit guardian for all the beauty of this heart of summer. Once again Ellen echoed my thoughts as she said: “Yes, friend, this is what I came out for to see; this many-gabled old house built by the simplest of country-folk of the long-past times, regardless of all the turmoil that was going on in cities and courts, is lovely still amidst all the beauty which these latter days have created; and I do not wonder at our friends tending it carefully and making much of it. It seems to me as if it had waited for these happy days, and held in it the gathered crumbs of happiness of the confused and turbulent past” (NFN, Ch. XXXI “An Old House Amongst New Folk”, p. 173). Anche qui è lo scenario idilliaco a introdurre subito il lettore in una realtà sognante e edenica. Al segmento iniziale, in cui si segnala la presenza liminale del sentiero lastricato di pietre (“We crossed the road, and again almost without my will my hand raised the latch of a door in the wall, and we stood presently on a stone path which led up to the old house”), fa riscontro la descrizione paesaggistica. Ad essere veicolata è l’immagine del colore implicito che, a partire dal giardino con i suoi fiori profumati investe tutto il mondo interiore dello scrittore. Il grigio che tutto afferma e tutto riduce a una gioiosa e gradevole uniformità, viene associato a un contesto in cui gli elementi naturali si armonizzano e si amplificano – i merli, i colombi, le cornacchie, i rondoni29. Significativamente, gli unici esemplari di 29 Qui vale la pena riportare quelle utili informazioni mitico-simboliche rintracciate abilmente da Cattabiani: “[il merlo] [c]omincia a cantare con il periodo degli amori, tra il finire dell’inverno e l’inizio della primavera, come ricorda il proverbio: ‘Quando canta il merlo siamo fuori dell’inverno’ […] Questi proverbi esprimevano, in una società prevalentemente contadina, un senso di rivincita dei sottoposti nei confronti dei loro padroni ai quali, durante l’inverno e il gelo, si erano dovuti sottomettere per avere alloggio e cibo mentre l’arrivo della primavera avrebbero potuto, in teoria, abbandonarli” (Alfre- 148 Capitolo III volatili sono caratterizzati da una cromia chiaroscurale, la cui fusione non fa altro che riportare al paradigma centrale del grigio (qui si ricorda che accanto al merlo, principalmente di colore nero, esiste un altro tipo albino, per di più al bianco simbolico della colomba, fa riscontro il nero della cornacchia e del rondone). Un diffuso senso di gioia investe, insieme ai protagonisti, anche la natura: la casa, ricettacolo di bellezze estive e briciole di felicità si rispecchia nella ricchezza emotiva degli animi dei suoi abitanti. Alla drammatica condizione del passato (“all the turmoil that was going on in cities and courts”) che rinvia al gorgo cittadino, fa da contrappunto la proiezione epicurea di un indicatore antropomorfico di un futuro caratterizzato dall’equazione semplicità = felicità. Non diversamente dalla facciata esteriore, l’ingresso nella casa di campagna è un processo di immedesimazione nel semantizzante grigiore dell’arredamento. Anche in questa scena modellizzante si registra la presenza dell’ipogramma bellezza associato a ornamenti e arazzi che non hanno più la vitalità cromatica di un tempo: Everywhere there was but little furniture, and that only the most necessary, and of the simplest forms. The extravagant love of ornament which I had noted in this people elsewhere seemed here to have given do Cattabiani, Volario. Simboli, miti e misteri degli esseri alati: uccelli, insetti e creature fantastiche, Milano, Mondadori, 2001, p. 357); “Ad Afrodite venne equiparata la dea romana Venere che ereditò fra i vari attributi le colombe. […] L’associazione della colomba a Venere è costante in tutta l’arte occidentale. Sugli affreschi della Favola di Amore e Psiche alla Farnesina, disegnati da Raffaello nel 1517 ed eseguiti quasi interamente da Guido da Udine e Giulio Romano, appare in varie scene. […] Era considerata da Greci e Romani anche l’emblema dell’armonia cosmica, della pace, della purezza dei costumi, della semplicità e della fedeltà coniugale” (Ivi, pp. 313-314); “La cornacchia nera o taccola (Corvus monedula), che dimora nei campanili, nelle torri e nei castelli in rovina, si distingue per alcuni tratti originali. […] Nella cristianità la sua nerezza, paragonata a quella dell’Amata del Cantico dei Cantici, non poteva non evocare gli stessi simboli del personaggio biblico. Nella Cerca del Graal figurò la Chiesa: ‘Per il nero uccello […] si deve intendere la Santa Chiesa” (Ivi, pp. 305, 308); “Diversamente dalla rondine non canta, ma lancia stridii acuti, facendo uno strepito quasi assordante quando è in gruppo. In città preferisce fare il nido in buchi e fessure di campanili e di altri edifici elevati” (Ivi, p. 348). L’eterogeneità dello spazio utopico 149 place to the feeling that the house itself and its associations was the ornament of the country life amidst which it had been left stranded from old times, and that to re-ornament it would but take away its use as a piece of natural beauty. We sat down at last in a room over the wall which Ellen had caressed, and which was still hung with old tapestry, originally of no artistic value, but now faded into pleasant grey tones which harmonised thoroughly well with the quiet of the place, and which would have been ill supplanted by brighter and more striking decoration (Ch. XXXI, “An Old House Amongst New Folk”, pp. 174-175). Nel primo movimento ad essere collocata in primo piano è la “golden rule” espressa da Morris nel saggio “The Beauty of Life” (1880) ove consiglia di “Have nothing in your houses that you do not know to be useful, or believe to be beautiful”30 che risulta perfettamente integrata nella semplicità e utilità veicolate nella proposizione iniziale. Quello che emerge è una presa di posizione ideologica che viene attualizzata dalla funzione climactica della casa esplicitamente assunta quale “ornament of the country life”, già di per sé un “piece of natural beauty”. A proposito del codice ermeneutico, va detto che la doppia articolazione spaziale (in/es) metaforicamente allude all’istituzione di un’armonia interiore esteriorizzata nella tranquillità degli arredamenti che, nella fattispecie, implica la relazione direttamente proporzionale tra antichità e valore artistico. In questo senso, non possiamo fare altro che prendere atto della funzionalità della casa in termini di Genius loci che trae il suo continuum assiologico dalla tonalità neutra per antonomasia, così come viene enunciato da Ruskin: “Può darsi che l’immenso monotono grigio della natura e del tempo sia un colore migliore di quello che mano d’uomo possa dipingere”31. Tutto concorre a creare un ambiente esterno favorevole al conforto morale apportato dalla bellezza estraniante dell’architettura utopica che raggiunge il suo diapason esemplificativo nella 30 William Morris, “The Beauty of Life”, in On Art and Design, cit., p. 123. 31 John Ruskin, Le pietre di Venezia, cit., p. 68. 150 Capitolo III chiesa medievale presente nel capitolo “The Feast’s Beginning – The End”: We went into the church, which was a simple little building with one little aisle divided from the nave by three rounded arches, a chancel, and a rather roomy transept for so small a building, the windows mostly of the graceful Oxfordshire fourteenth-century type. There was no modern architectural decoration in it; it looked, indeed, as if none had been attempted since the Puritans whitewashed the mediaeval saints and histories on the wall. It was, however, gaily dressed up for this latter-day festival, with festoons of flowers from arch to arch and great pitchers of flowers standing about on the floor; while under the west window hung two cross scythes, their blades polished white, and gleaming from out of the flowers that wreathed them. […] Though the church was a small one, there was plenty of room; for a small church makes a biggish house; and on this evening there was no need to set cross tables along the transepts; though doubtless these would be wanted next day, when the learned men of whom Dick has been speaking should be come to take their more humble part in the haymaking (NFN, Ch. XXXII ,“The Feast’s Beginning – The End”, p. 179). Il ritmo descrittivo del passo, scandito dalla figura sintattica dell’enumerazione, si lega all’elaborazione di sistemi interpretativi antitetici enucleabili nei paradigmi oppositivi di moderno vs. antico, grande vs. piccolo. La risposta dell’io narrativo al degrado degli edifici moderni è tutta compresa nel sintagma “There was no modern architectural decoration in it; it looked, indeed, as if none had been attempted” che in effetti caratterizza l’intera espressione creativa morrisiana, in quanto eliminato il datum decorativo di diversa derivazione temporale, la genuinità riemerge emblematicamente nell’evocazione dell’immagine metaforica delle due falci incrociate. In un processo d’intensificazione del momento utopico, l’epitome della classe contadina assume la valenza di uno specchio scintillante che riflette le ghirlande di fiori sistemate a festa, deferendo al lettore l’idea che anche in quel contesto rurale si possano avere configurazioni di semplice bellezza. In particolare, Morris stabilisce un rapporto assiologicamente non gerarchico tra gli elementi chiamati in causa e per di più arriva a impostare l’equazione dimensionale piccola chie- L’eterogeneità dello spazio utopico 151 sa = grande casa. Per cui, come ha scritto De Fusco, questa prospettiva trae origine gran parte dalla modernità che caratterizza l’opera morrisiana: Morris estende l’idea dell’arte a tutto il mondo della vita: essa non riguarda solo la pittura, la scultura e l’architettura, bensì anche le forme e i colori di tutti gli oggetti d’uso, la sistemazione dei campi, la rete stradale, l’amministrazione delle città. Da questa visione estensiva e qualificatrice dell’arte prende l’avvio quel metodo unitario che nel Movimento Moderno informerà ogni settore della progettazione, dal disegno del più modesto manufatto all’urbanistica. L’incarnazione di questo unitario principio è offerta dalla stessa architettura ove la si intenda secondo la sua celebre definizione per cui “essa rappresenta l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto”32. Ma prima di concludere l’indagine sull’isotopia del grigio, vale la pena soffermarsi sull’animale che più di ogni altro in NFN può risultare utile per comprendere i vari aspetti dell’universo morrisiano, e per vedere fino a che punto lo scrittore riesce immaginativamente a mediare tra la sua concezione ottimistica della vita e l’esigenza di restare ancorato a un presente, o a un passato, che reca inscritto in sé le pene inflitte dall’episteme vittoriana. Una gioia spensierata trova la sua espressione più efficace in Greylocks, il cavallo grigio che traina la carrozza su cui Guest attraversa questa “terra di mezzo”. E, nella nominazione metonimica (Greylocks = ciocche grigie, riccioli grigi), il cavallo, con la sua andatura gioiosa (“we jogged along merrily eastward”, NFN, Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 22; “Greylocks had taken to his jog-trot”, NFN, Ch. VII, “An Old Friend”, p. 41), con la sua connotazione positiva sempre afferente al campo semantico della bellezza seppur velato di ironia (“What a beautiful creature!” said I to Dick as we entered. “What, old Greylocks?” said he, with a sly grin. “No, no”, said I; “Goldylocks, – the lady”, NFN, Ch. VI, “A Little Shopping”, pp. 30-31), appare il supremo tentativo morrisiano di testualizzare il ritorno alla natura. Non a caso, il colore della criniera del 32 De Fusco, op. cit., p. 34. 152 Capitolo III cavallo, oltre a rimandare al sema della vecchiaia, si trasforma in solenne metafora della speranza dell’uomo33 e, soprattutto, in rappresentazione del suo apparire nelle prime sezioni del romanzo dominate dalla City, l’animale si dà come anticipazione ermeneutica della dimensione arcadica verso cui tende il protagonista. È chiaro che Greylocks, non contrassegna semplicemente il viaggio utopico (“Shall we have out Greylocks and trot back to Hammersmith?”, NFN, Ch. XVII, “How the Change Came”, p. 89) allo stesso modo della guida equina freudiana (“Itzig, dove vai?” “Non chiederlo a me, chiedilo al cavallo”, Sigmund Freud, lettera a Wilhelm Fliess, 7 luglio 1898)34, ma esso incarna cromaticamente il destino dell’uomo. Un’ulteriore testimonianza della grande coesione ontologica di Greylocks con lo spazio viene offerta dalla sua fragilità e, direi, umanità – il cavallo subisce un processo di antropomorfizzazione evidente nelle sue esigenze fisiche e, in particolare, nell’aggettivazione personalizzata (“Greylocks will be wanting his rest and his oats”, NFN, Ch. VIII, “An Old Friend”, p. 43), laddove rintracciamo un’eco salingeriana di marca umanistica: “Take most people, they’re crazy about cars. […] I don’t even like old cars […] I’d rather have a goddam horse. A horse is at least human, for God’s sake”35. In questo senso, è nel capitolo diciannovesimo “The Drive Back to Hammersmith” che, grazie all’intervento di bambini giocosi, vediamo drammatizzate la docilità e affettività 33 Si rinvia alle interessanti considerazioni di Di Piazza sulle raffigurazioni di animali nel romanzo vittoriano e più precisamente al quarto capitolo “Il bestiario coloniale degli ibridi” in cui scrive: “Nel romanzo d’avventura, gli animali seguivano una costruzione figurativa tendenzialmente scientifica, benché fedele al criterio allegorico del tempo. […] gli animali non erano soltanto parte di un paesaggio esteriore ma anche gli elementi di un discorso dichiaratamente ideologico” (Elio Di Piazza, L’avventura bianca. Testo e colonialismo nell’Inghilterra del secondo Ottocento, Bari, Adriatica, 1999, p. 179). 34 Sigmund Freud, lettera inviata a Wilhelm Fliess il 7 luglio 1898, in Lettere a Fliess Wilhelm, 1887-1904, ed. integrale a cura di J. M. Masson, Torino, Paolo Boringhieri, 1986, p. 357. 35 J. D. Salinger, The Catcher in the Rye, Harmondsworth, Penguin, 1975, p. 136. L’eterogeneità dello spazio utopico 153 di un attante animale che non ha nulla della portata storica shakespeareiana (qui si pensi alle parole di Cleopatra: “O happy horse, to bear the weight of Anthony! / Do bravely, horse, for wot’st thou whom thou mov’st? / The demi-Atlas of this earth, the arm / And burgonet of men”36, o al grido bellicoso di Riccardo III: “A horse! A horse! My kingdom for a horse!”37): Then I shook hands again, and we went out of the hall and into the cloisters, and so in the street found Greylocks in the shafts waiting for us. He was well looked after; for a little lad of about seven years old had his hand on the rein and was solemnly looking up into his face; on his back, withal, was a girl of fourteen, holding a three-year-old sister on before her; while another girl, about a year older than the boy hung on behind. The three were occupied partly with eating cherries, partly with patting and punching Greylocks, who took all their caresses in good part, but pricked up his ears when Dick made his appearance. The girls got off quietly, and going up to Clara, made much of her and snuggled up to her. And then we got into the carriage, Dick shook the reins, and we got under way at once, Greylocks trotting soberly between the lovely trees of the London streets, that were sending floods of fragrance into the cool evening air; for it was now getting toward sunset (NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to Hammersmith”, pp. 118119). Il brano, segnando l’ingresso ufficiale del cavallo, lo relega alla funzione apparentemente periferica di mezzo di trasporto38, ma 36 William Shakespeare, Anthony and Cleopatra, in Complete Works, edited with a glossary by W. J. Craig, cit., pp. 658-659. 37 William Shakespeare, Richard III, in Ivi, p. 633. 38 Per un’analisi dettagliata del cavallo in termini di aiutante magico si veda la Morfologia della fiaba di Propp e, in particolare, quando afferma: “Noi sappiamo che la funzione fondamentale del cavallo è quella di mediazione fra due mondi. Egli porta l’eroe nel regno in capo al mondo. Nelle religioni il cavallo spesso porta il defunto nel regno dei morti” (Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton, 2003, p. 297). Ancora più interessante è il paragrafo sul mantello del cavallo: “Il mantello del cavallo non è un elemento casuale, non è un fenomeno trascurabile e il fatto che i dati statistici ci dicano che il cavallo bianco o grigio non occupa il primo posto per la frequenza con la quale viene nominato non dimostra nulla: la presenza del cavallo bianco o azzurro nella fiaba o nelle immagini connesse con il culto dei morti ci spinge a veder proprio in questa forma quella più arcaica, ed a ritenere che gli altri mantelli siano una deformazione 154 Capitolo III allo stesso tempo definisce la maniera in cui ha luogo la rappresentazione della sensibilità animale. Ad essere rappresentato è un cuore sensibile laddove prevale una piacevole sottomissione alle richieste infantili (“on his back, withal, was a girl of fourteen, holding a three-year-old sister on before her; while another girl, about a year older than the boy hung on behind”) che d’altra parte, implicano tenerezze accolte con piacere (“The three were occupied partly with eating cherries, partly with patting and punching Greylocks, who took all their caresses in good part”). Seguendo un’impostazione etico-egualitaria, dopo il momento di piacere sensoriale si prospetta il dovere lavorativo (“but pricked up his ears when Dick made his appearance”) che, ancora una volta, assume la connotazione edonistica prefigurata da Morris nei suoi scritti teorici, quasi una sinestesia naturalistica atta a regalare la pienezza dell’essere (“Greylocks trotting soberly between the lovely trees of the London streets, that were sending floods of fragrance into the cool evening air; for it was now getting toward sunset”). Ma c’è di più. Il nesso uomo/animale, alla luce dell’isotopia giocosa, trova una più biografica esemplificazione nelle parole di Jane Marsh, quando nel saggio “William Morris and Victorian Manliness” afferma che “[o]ne of the earliest images we have of William Morris is as a small child riding his Shetland pony clad in a miniature suit of armour”39. Similmente allo Hughes della lirica “The Horses” (1957), Morris opera un’immedesimazione nel cavallo, nel tentativo di provare quello che prova l’animale e catturare percezioni e sensazioni ricche di evocazioni simboliche. Dinanzi alla voce hughesiana, la parola morrisiana sembra echeggiare conflitti e dicotomie di matrice modernista, preconizzando il recupero di un’unità realistica, tanto più che questa forma del cavallo concorda con l’immagine del cavallo in forma generale e con il suo legame con il mondo dell’oltretomba” (Ibid.). 39 Jane Marsh, “William Morris and Victorian Manliness”, in William Morris Centenary Essays. Papers from the Morris Centenary Conference Organized by the William Morris Society at Exeter College, Oxford 30 June-3 July 1996, cit., p. 185. L’eterogeneità dello spazio utopico 155 armonica, ormai inaccessibile alla sensibilità del poeta degli animali: […] And I saw the horses: Huge in the dense grey – ten together – Megalith-still. They breathed, making no move, With draped manes an tilted hind-hooves, Making no sound. I passed: not one snorted or jerked its head. Grey silent fragments Of grey silent world. I listened in emptiness on the moor-ridge. The curlew’s tear turned its edge on the silence. The detail leafed from the darkness. Then the sun Orange, red, red erupted Silently, and splitting to its core tore and flung cloud, Shook the gulf open, showed blue, And the big planets hanging […]40. Con l’iniziale coppia attanziale I/horses, o più specificatamente I/they, il poeta introduce il lettore al nesso ontologico uomo/animale molto più complesso di quanto non possa emergere, contrassegnato dall’isotopia del grigio che connota il cavallo al suo rivelarsi immobile e silenzioso. Emblematicamente, la precisa descrizione fisica degli animali, nella loro intensa sequenza aggettivale (“Huge in the dense grey”), afferma una convergenza semantica fonica di valori disforici e depersonalizzanti che si celano dietro un bestiario teso ad esprimere la condizione di precarietà e incertezza di tutti gli esseri terrestri. È, quella descritta, un’immobilità che isotopicamente inscrive il cavallo in una vi40 Tom Gunn and Ted Hughes, Selected Poems, London-Boston, Faber and Faber, 1962, pp. 47-48. 156 Capitolo III sione di desolazione e scoramento che accomuna il paesaggio all’io lirico – il loro sembrare una massa grigia rimanda metaforicamente alla compattezza e suggestività funebre del megalite, blocco di pietra preistorico dalle funzioni rituali, la cui staticità appare più evidente grazie all’iterazione fonica di suoni dentali (“the dense grey – ten together – / Megalith-still. They breathed, making no move, / With draped manes and tilted hind-hooves”: [t, θ, ð]). Resta comunque un’uguaglianza sostanziale con l’estetica morrisiana, vale a dire quella ricercata eleganza e bellezza (“draped manes and tilted hind-hooves”), nonché l’uso eccessivo di iperbole e descrizioni dettagliate della vita naturale. L’insistita isotopia verticale di tipo grammaticale (I saw; I passed; I listened) che, presentando tre occorrimenti afferenti a tre diversi codici sensoriali (vista-tatto-udito), ribadiscono la presenza dell’uomo in quanto io esperiente colto nel tentativo di instaurare un rapporto dialogico con la natura, e soprattutto evocano il distacco del binomio I/they come momento epifanico alla luce di uno scenario fatto di silenzio, incomunicabilità e vuoto. Come diretta conseguenza, si assiste a un’inevitabile visione sinestetica chiaroscurale (“grey silent fragments / Of grey silent world”) che, percorrendo l’itinerario ontologico, va da una molteplice frammentazione alla reductio ad unum di un mondo attualizzato dalla triade della negatività – silenziovuoto-oscurità. Nonostante la tematizzazione della frustrazione moderna dell’uomo, emerge un modello cosmologico di speranza, il quale, per il tramite dello shifter temporale “Then”, mostra un’isotopia solare capace di andare oltre il dato perturbante e si offre come antitesi cinetica della condizione statica prefigurata. Non a caso, insieme a una verbalizzazione mirante a veicolare il movimento esplosivo dell’astro (si rimanda ai paradigmi verbali “erupted”; “splitting” “shook”; “hanging”) si segnala un’apertura simbolico-visiva verso un’altra oscurità, il blu infinito dell’universo sconosciuto che fa leva su una connotazione immaginifica sempre e comunque silenziosa (“Orange, red, red erupted / Silently”), sottolineata dalla consonanza “core tore”. L’eterogeneità dello spazio utopico 157 3.3. Uomo e ambiente: Morris e le strutture del sentire. In NFN, la struttura topologica in cui si afferma la centralità del piacere estetico, risulta fortemente connessa alla tipologia ideologico-sociale dei personaggi, in un crescendo armonico culminante nell’immagine di uomini intesi come emanazione decorativa di un ambiente. È questa la continuità professata da Morris che, rendendosi conto della necessità di trasmettere valori epistemico-culturali, impone al lettore l’evidenza di una dignità individuale verso cui non sa assumere altra strategia se non quella della sua propensione edonistica. Ed è su questo elemento, con forte marca metonimica, che costruisce visivamente la sostanza ideologica del romanzo allorquando scrive: “I must say, I might have known that people who were so fond of architecture generally, would not be backward in ornamenting themselves; all the more as the shape of their raiment, apart from its colour was both beautiful and reasonable – veiling the form, without either muffling or caricaturing it” (NFN, Ch. XIX, “The Drive Back to Hammersmith”, p. 120). Qui appare evidente che all’origine del piacere dell’io narrativo vi sono il ritorno al passato medievale e il buon gusto estetico-decorativo che, sia pure caratterizzati da una policromia semantica, aprono uno spazio al rapporto dialogico tra i personaggi e l’ambiente. Dal punto di vista dell’isotopia del blu, il secondo capitolo è fortemente marcato dalla simmetria abito/setting che modellizza simbolicamente l’atteggiamento positivo-costruttivo del narratore, a partire dall’emergere di una comunanza cromatica nient’affatto casuale. Attraverso l’assiologia euforica del fiume, valorizzata da una cromia luminosa (“bright blue river”, NFN, p. 170) indice di salubrità ecologica, si ha il ricongiungimento programmato tra l’elemento equoreo e l’indumento medievale appartenente al battelliere Dick, per fare in modo che il quadro torni ad essere completo: His dress was not like any modern work-a-day clothes I had seen, but would have served very well as a costume for a picture of fourteenthcentury life: it was of dark blue cloth, simple enough, but of fine web, and without a stain on it. He had a brown leather belt around his waist, and I noticed that its clasp was of damascened steel beautifully 158 Capitolo III wrought. In short, he seemed to be like some specially manly and refined young gentleman, playing waterman for spree, and I concluded that this was the case (NFN, Ch. II, “A Morning Bath”, p. 7). Nella lessia, insieme all’indicazione temporale veicolata dalla similitudine pittorica, si rilevano i campi semantici contigui della semplicità e raffinatezza che, attualizzati da un’aggettivazione controllata, stabiliscono chiaramente le coordinate figurative dell’universo utopico. In questa descrizione, il blu diviene l’esplicita metafora di una bellezza che si colloca sotto il segno di un equilibrio e un ordine di rara acquisizione – una stoffa non di alta qualità, ma pulita e arricchita da dettagli ricercati come la fibbia d’acciaio damaschinato, non già per vanità, ma per sancire la dignità dell’uomo in virtù della quale ottiene lo status di gentiluomo. Una simile fenomenologia trova un’ulteriore significativa attualizzazione nella vestizione del protagonista Guest, nel momento in cui, smessi gli abiti del mondo vittoriano, si presenta come soggetto narrativo che ormai sembra avere accettato definitivamente l’ordine della nuova vita che lo aspetta: When I did wake, to a beautiful sunny morning, I leapt out of bed with my over-night apprehension still clinging to me, which vanished delightfully however in a moment as I looked around my little sleeping chamber and saw the pale but pure-coloured figures painted on the plaster of the wall, with verses written underneath them which I knew somewhat over-well. I dressed speedily, in a suit of blue laid ready for me, so handsome that I quite blushed when I had got into it, feeling as I did so that excited pleasure of anticipation of a holiday, which, wellremembered as it was, I had not felt since I was a boy, new come home for the summer holidays (NFN, Ch. XXI, “Going up the River”, p. 122). Come evidenzia l’incipit del capitolo, alla base del brano vi è la messinscena di un momento festoso – una gita sul fiume in compagnia di Dick e Clara vestiti elegantemente al fine di “not […] to make the bright day and the flowers feel ashamed of themselves” (NFN, p. 123) –, e soprattutto l’immagine di un abito blu così bello che risulta essere causa di eccitazione, un segno artificiale che sancisce la possibilità di stabilire un nesso L’eterogeneità dello spazio utopico 159 euforico con il passato personale (“excited pleasure of anticipation of a holiday, which, well-remembered as it was, I had not felt since I was a boy, new come home for the summer holidays”). La stessa idea di una stagione di felicità trascorsa sul fiume a cui corrisponda cromaticamente una veste medievale di tonalità blu è, in effetti, un’altra costruzione funzionale: la Ellen che vede Guest è un’apparizione quasi magica, quasi una Lady of Shalott che, pur tra differimenti tematici, lancia un ponte tra la bellezza essenziale tennysoniana e la figuralità variopinta morrisiana: As it cleared the arch, a figure as bright and gay-clad as the boat rose up in it; a slim girl dressed in light blue silk that fluttered in the draughty wind of the bridge. I thought I knew the figure, and sure enough, as she turned her head to us, and showed her beautiful face, I saw with joy that it was none other than the fairy godmother from the abundant garden on Runnymede – Ellen, to wit (NFN, Ch. XXVII, “The Upper Waters”, p. 155). Resta comunque il fatto che Ellen così come viene presentata non è una donna comune, ma, al contrario, l’espressione di una sorta di ideale, una figura dell’alterità con cui confrontarsi in un dialogo stimolante che nasconde la sostanziale natura amorosa tanto cara a Morris. Di qui un processo favolistico attivato dallo scrittore, che, pur mirando a risolvere in un’unica immagine l’antinomia con lo squallore contemporaneo, pur volto a far coincidere la femminilità con la leggiadria, finisce inevitabilmente per mettere a nudo la tonalità esponenziale del blu oltre a un’esaltazione derivante dal suddetto colore che colloca il soggetto fuori dalla temporalità disforica. Vero è che, come ha sottolineato Florence S. Boos, dietro l’atteggiamento vitale di Ellen si cela il desiderio morrisiano di operare un programma esegetico che, estromettendo quasi del tutto la connotazione eterotipica cittadina, finisce per suffragare l’idea di una strutturazione attanziale intesa come vocazione alla riflessione: Morris had already presented women of compelling psychological depth – Guenevere, Jehane, Psyche, Gudrun, Philonoë – but News 160 Capitolo III from Nowhere is the first English utopian work by man which confers the role of wisdom figure or “sage” on a woman. Ellen expresses the book’s deepest insights in the meaning and use of history, the distinctive qualities of the new society, and the means by which members of Guest’s society will have to strive towards it41. A ben guardare, si tratta di un’impostazione cromatica che, oltre a trovare riscontro nel macrotesto poetico, viene esautorata anche dalle stesse dichiarazioni di Morris, il cui lavoro di scrittore appare tutt’altro che indifferente al problema della ricerca estetica. Non a caso, prendendo in considerazione la lirica “The Blue Closet”, appartenente a quella raccolta di poesie definite “atmosferiche” (“The Wind”; “The Tune of Seven Towers”), Morris dimostra di improntare la sua arte a un carattere tonale, dal quale deriva non solo il senso di lontananza spaziale e temporale, ma anche simbolicamente il tendere verso un obiettivo lontano. Pertanto, non si tratta tanto di concludere sbrigativamente che Morris usi colori vivaci e brillanti in grado di accrescere il senso naturalistico dell’opera, quanto di capire di quale semplicità estetica e profondità ideologica è fatta la cromia morrisiana. In questa prospettiva, la precisione e la ricercatezza poetica portano con sé in superficie il primato della connotazione positiva del blu – il colore ha un referente esatto nell’ambiente. Va da sé che dietro l’apparente linearità e semplicità topologica, 41 Florence S. Boos, “An (Almost) Egalitarian Sage. William Morris and Nineteenth-Century Socialist-Feminism”, in Victorian Sages and Cultural Discourse. Renegotiating Gender and Power, ed. Thaïs Morgan, New Brunswick and London, Rutgers University Press, 1990, p. 199. Non senza acume, Boos ha indagato la natura duale di Ellen: “[…] none of Morris’s female heroes before Ellen can credibly be described as a “sage”. She is News from Nowhere’s truest wisdom figure, not a distant erotic ideal, but the embodiment of Morris’s self-conscious hope for the future generations. […] As the work’s most perceptive interpretant of the new society, and an active, unrepressed woman who desires to transmit her physical and cultural identity to future generations, Ellen embodies the limitations as well as the strengths of Morris’s socialist-feminism, but she alone in Nowhere fully practices Morris’s deepest ideal of popular, living history; and she alone is the spokeswoman of the book’s finest insights into the spirit of the new society” (Ivi, pp. 205-206). L’eterogeneità dello spazio utopico 161 si cela una densità di significato che risulta nient’affatto priva di uno spessore emotivo: The Blue Closet LADY ALICE Alice the Queen, and Louise the Queen Two damozels wearing purple and green, Four lone ladies dwelling here From day to day and year to year; And there is none to let us go; […] And when we die no man will know That we are dead; but they give us leave, Once every year on Christmas-eve, To sing in the Closet Blue one song; […] They sing all together How long ago was it, how long ago, He came to this tower with hands full of snow? “I cannot weep for thee, poor Love Louise, For my tears are all hidden deep under the seas; “In a golf and blue casket she keeps all my tears, But my eyes are no longer blue, as in old years; “Yeas, they grow grey with time, grow small and dry, I am so feeble now, would I might die”. […] Will he come back again, or is he dead? O! is he sleeping, my scarf round his head? “O, love Louise, have you waited long?” “O, my lord Arthur, yea”. […] “O, love Louise, this is the key Of the happy golden land! O, sisters, cross the bridge with me, My eyes are full of sand. What matter that I cannot see, If ye take me by the hand?” And ever the great bell overhead, And the tumbling seas mourn’d for the dead; For their song cease, and they were dead. 162 Capitolo III A volersi rifare a un ben noto retroscena biografico, Morris sembra trascrivere verbalmente l’acquerello rossettiano, Lo studiolo blu (1856-1857) appunto, ove due donne vestite di verde e rosso suonano un antico clavicordo42, mentre in secondo piano si scorgono altre due donne, dalle vesti medievali di colore diametralmente uguale alle musiciste, che cantano seguendo uno spartito. La transcodificazione morrisiana vuol dire ricerca di una nuova dinamica, di nuovi significati e nuove immagini – la parola restituisce profondità diegetica all’evento. Di conseguenza, le pareti blu della stanza divengono depositarie di un atto di mediazione ontologica che, a ben guardare, sottende un’apertura semantica all’amore propria di una sensibilità in grado di mettere a frutto tutte le potenzialità espressive offerte dalla forza evocativa del colore. Si tratta di un incontro immaginifico che implica anche la ricerca di una condizione eternamente felice (“happy golden land!”), sottolineando come vi sia una coralità sensoriale, una sinestesia paradigmatica tutta tesa a recuperare il divario tra il mondo dei vivi e dei morti. Ponendosi contro una visione cristallizzata della versificazione (alla rima baciata segue la rima alternata), e soprattutto asserendo il primato della metonimia (“hands full of snow”; “my tears are all hidden deep under the sea”; “she keeps all my tears”; “my eyes are no longer blue”; “my scarf round his head”; “My eyes are full of sand”; “take me by the hand”), il poeta veicola un messaggio che, allo stesso modo delle “Correspondances” baudelaireiane, fa vibrare le corde musicali e passa attraverso la materialità del blu non senza aver viaggiato lungo un asse temporale finzionale e/o reale. Similmente all’ambiguità tematica presente in The Madness of Sir Tristram (1862) e in The Lament (1864-6) di Burne-Jones, in cui i prota42 Molto significativo il fatto che Rossetti e i preraffaelliti in genere raffigurino uno strumento medievale arcaico la cui origine viene attestata intorno al 1404. Si tratta di una cassa armonica rettangolare appoggiata su un tavolo e munita all’interno di corde che venivano colpite da piccole lamine di ottone azionate da tasti allineati su una tastiera analoga a quella dell’organo. In breve, può essere considerato l’antenato del pianoforte. L’eterogeneità dello spazio utopico 163 gonisti ritratti – dalle morbide vesti medievali sempre e comunque blu – esprimono la loro disperazione attraverso la musica43, Morris adotta una caratterizzazione tutt’altro che chiara così come spiega Faulkner: “The reader finds himself in a world to whose logic he has no access, and can only respond to the intimations of romance and disaster by accepting the mood and pattern without seeking clear explanations”44. A questo punto, va anche osservato che Ellen si fa portavoce di una ricerca tesa a rendere il viaggio utopico quanto più indimenticabile possibile nei suoi valori semantici. Non solo il polo femminile è rappresentato da “interest and pleasure of life” 45 (NFN, p. 157), ma l’immagine poliedrica e cangiante della protagonista rimanda dialogicamente alla musica e al canto: Ellen kissed her new friend, and we all sat silent for a little, till she broke out into a sweet shrill song, and held us all entranced with the wonder of her clear voice; and the old grumbler sat looking at her lovingly. The other young people sang also in due time; and then Ellen showed us to our beds in small cottage chambers, fragrant and clean as the ideal of the old pastoral poets; and the pleasure of the evening quite extinguished my fear of the last night, that I should wake up in the old miserable world of worn-out pleasures, and hopes that were half fears (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court and a Praiser of Past Times”, p. 132). 43 Per una lettura sull’importanza della musica nelle opere morrisiane si veda George D. Gopen, “The Music of the Mind. Structure and Substance in William Morris’s The Water of the Wondrous Isles”, The Journal of William Morris Studies, 16, 2-3 (Summer-Winter 2005), pp. 92-102. 44 Peter Faulkner, “Introduction”, in William Morris, Selected Poems, cit., p. 10. 45 Qui giova riportare l’unicità tipologica di Ellen rispetto all’anonimia estetico-comportamentale di Clara: “Clara, for instance, beautiful and bright as she was, was not unlike a very pleasant and unaffected young lady; […]. But this girl was not only beautiful with a beauty quite different from that of “a young lady”, but was in all ways so strangely interesting; […]. Not, indeed, that there was anything startling in what she actually said or did; but it was all done in a new way, and always with that indefinable interest and pleasure of life, which I had noticed more or less in everybody, but which in her was more marked and more charming than in any one else that I had seen” (NFN, Ch. XXVII, “The Upper Waters”, p. 157). 164 Capitolo III Mi pare significativo che solo alla donna venga concesso il dono dell’arte musicale e che il suo canto portatore di un messaggio cifrato contenga uditivamente l’incanto utopico di una terra idilliaca pastorale e incontaminata. Non a caso la cifrazione metonimica della purezza vocale (“held us all entranced with the wonder of her clear voice”) rende ancora più evidente una modellizzazione improntata alle atmosfere medievali caratterizzate da riunioni conviviali come anche da antiche usanze bucoliche. Si tratta di una peculiarità femminile che, grazie all’evocazione mitologica della nominazione classica (qui non possiamo fare a meno di pensare all’influenza psicologico-comportamentale di Elena di Troia esercitata sul polo maschile), congiunge l’isotopia dei piaceri umani a quella dell’amore erotico, amore inteso non come accoppiamento di due esseri opposti che reciprocamente si attraggono, ma sublime attrazione mai consumata, seppur sempre anelata. È chiaro che la caratterizzazione utopica attanziale ha molto in comune con la perfezione raffinata tipica dell’iconografia femminile presente in The Golden Stairs (1880) di Burne-Jones, ove, anche se reduplicata all’infinito secondo un asse verticale – epitome visivo della teorizzazione morrisiana della storia intesa come spirale46 –, l’attante donna incarna una visione utopistica che alimenta il fervido immaginario morrisiano: We went up a paved path between the roses, and straight into a very pretty room, panelled and carved, and as clean as a new pin; but the chief ornament of which was a young woman, light-haired and greyeyed, but with her face and hands and bare feet tanned quite brown with the sun. Though she was very lightly clad, that was clearly from 46 A tal riguardo Edvige Schulte ha notato che: “Yeats […] si serve della parola gyre (o cono) come equivalente di spirale che può essere applicata, oltre che alla vita dell’uomo, anche alla pittura e alla storia, come propone Morris in The Arts and Crafts of Today. L’artista Morris si serve della parola spiral con riferimento alla storia, che procede con movimento a spirale e non in linea retta. Morris avrebbe quindi per primo enunciato il principio del movimento a spirale del progresso in uno scritto marxista, mentre Engels si limita ad un fugace accenno in Socialism Utopian and Scientific (Edvige Schulte, Saggi, saghe e utopie nell’opera di William Morris, Napoli, Liguori, 1990, p. 48). L’eterogeneità dello spazio utopico 165 choice, not from poverty, though these were the first cottage-dwellers I had come across; for her gown was of silk, and on her wrists were bracelets that seemed to me of great value (NFN, Ch. XXII, “Hampton Court and a Praiser of Past Times”, pp. 127-128). Proprio come le figure leggiadre burne-jonesiane47, Ellen, che presenta le stesse fattezze fisico-cromatiche della resa pittorica (“a young woman, light-haired and grey-eyed”; “she was very lightly clad, that was clearly from choice, not from poverty”), per non dire poi della varietà tipologica degli strumenti musicali nelle mani delle fanciulle verginali, conferma il nesso tra la dimensione estetica morrisiana e la forma d’evasione intesa come “utopia of pure beauty and harmony”48. Per di più, al di là del suo essere “the chief ornament” di “a very pretty room, panelled and carved, and as clean as a new pin”, confermando ulteriormente il binomio uomo/ambiente attualizzato da Morris, Ellen si offre come modello esemplare di abbigliamento in grado di enucleare ancora più chiaramente la maniera morrisiana di leggere il mondo, un’affermazione di identità edonistica. Indubbiamente sotteso alla sua scrittura, vi sarebbe il migliorismo utopistico, una sorta di volontà sociale sempre pronta ad indicare lo scarto proairetico tra la donna ideale e il resto del mondo ove appunto viene presentata la contraddizione tra l’apparenza cittadina e l’aspetto di chi è in armonia con la natura: I noticed by the way that Clara must really rather have felt the contrast between herself as a town madam and this piece of summer country that we all admired so, for she had rather dressed after Ellen that morning as to thinness and scantiness, and went barefoot also, except 47 Sul rapporto interattivo tra i due preraffaelliti, vale qui quanto scritto da Elizabeth Prettejohn: “The apparent defeatism of this view has been contrasted with the belief of Burne-Jones’s lifelong friend William Morris, in political action aimed at making utopia a social reality. Indeed, it might be argued that Burne-Jones’s pictures were anti-activist. By satisfying spectators’ imaginations with dreams of beauty, they dulled the urge to take action for social change. On the other hand, the pictures might be seen as a form of protest against contemporary social reality, criticising the real world by symbolising one more beautiful” (Prettejohn, op. cit., p. 62). 48 Ibid. 166 Capitolo III for light sandals (NFN, Ch. XXIII, “An Early Morning by Runnymede”, p. 134). Emerge, in breve, l’antinomia semantica town madam/country madam che, omologa al binomio oppositivo artificialità/semplicità, appare attualizzata nell’immagine delle vesti leggere ed essenziali. Sia che si chiami Clara o Ellen, la donna per Morris non può fare a meno di esteriorizzare il suo rinnovamento ideologico anche in termini di abbigliamento atto a porre in primo piano il ritorno alla natura. Quanto alla problematica naturalistica, va detto che la scelta di andare “barefoot also, except for light sandals” dà ampio risalto al contatto con la terra, un depauperamento ricco di evocazioni significative e che, soprattutto, pone al centro della quest esistenziale quella madre terra verso cui prova un’esultanza intrisa di gioia intensa (“O me! O me! How I love the earth, and the seasons, and weather, and all things that deal with it, and all that grows out of it, – as this has done!”, NFN, Ch. XXXI, “An Old House Amongst New Folk”, p. 174). È questa la verità empirica a cui giunge lo scrittore, così come afferma nel saggio “The Lesser Arts of Life” (1882): But nowadays, and for years past, a lady may dress quite simply and beautifully, and yet not be noticed as having anything peculiar or theatrical in her costume. Extravagances of fashion have not been lacking to us, but no one has been compelled to adopt them; every one might dress herself in the way which her own good sense told her suited her best49. E, in questo senso, il romanzo utopico, con meno di duecento pagine dedicate alla descrizione del nuovo mondo, appare il supremo tentativo morrisiano di testualizzare, su un ampio spettro cromatico, quanto teorizzato nei suoi scritti utili per comprendere i vari aspetti del macrotesto e per inscrivere le opere in un preciso contesto tematico. Ora, se Morris, sempre attento a recuperare l’individualità dei suoi personaggi, adotta il termine semplicità proprio per esaltare la dimensione deautomatizzante 49 William Morris, “The Lesser Arts of Life”, in On Art and Design, cit., pp. 89-90. L’eterogeneità dello spazio utopico 167 del suo dettato artistico, ciò non vuol dire che manchino esemplificazioni di una ricercata eleganza. Paradossalmente, lo spazzino Boffin si offre come eccezione socio-comportamentale, in quanto, pur nella legittimità utopica dell’eccesso iperbolico, finisce per porsi come una sorta di alternativa al buongusto comune: I looked over my shoulder, and saw something flash and gleam in the sunlight that lay across the hall; so I turned round, and at my ease saw a splendid figure slowly sauntering over the pavement; a man whose surcoat was embroidered most copiously as well as elegantly, so that the sun flashed back from him as if he had been clad in golden armour. The man himself was tall, dark-haired, and exceedingly handsome, and though his face was less kindly in expression than that of the others, he moved with that somewhat haughty mien which great beauty is apt to give to both men and women. […] He was a man in the prime of life, but looked as happy as a child who has just got a new toy (NFN, Ch. III, “The Guest House and Breakfast Therein”, p. 18). Ad emergere è un’immagine di totale luminosità, che si interseca cromaticamente con quella dell’oro e, psicologicamente, con quella della restitutio ad integrum. A partire da un soprabito elegantemente ricamato si rileva subito l’equazione oro = sole = bellezza, secondo una struttura associativa che inscrive la simmetria in una similitudine cavalleresca: “the sun flashed back from him as if he had been clad in golden armour” (si veda anche “because he will dress so showily, and get as much gold on him as a baron of the Middle Ages”, NFN, Ch. III, “The Guest House and Breakfast Therein”, p. 19). Pertanto, priva di qualsivoglia eco simbolica, l’isotopia dell’oro non ha nulla del sottotesto iniziatico-divino presente in WBW, ove il protagonista Golden reca inscritto nel suo nome la predestinazione al ritrovamento dell’oro filosofale. Il che equivale a dire che l’apparenza rinvia alla felicità – l’attenzione al dettaglio visivo indica la fine della condizione disforica dell’uomo. Per cui, come ha scritto Goethe nella “Prefazione” a La teoria dei colori: 168 Capitolo III Colori e luce stanno in rapporto strettissimo, ma dobbiamo rappresentarci l’una e gli altri come appartenenti all’intera natura: poiché è proprio essa che, tramite loro, si svela per intero in particolar modo al senso della vista. La natura intera si scopre anche a un altro senso. Si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e, dal più leggero soffio fino al più selvaggio rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo, dal più veemente appassionato grido fino alle più miti parole della ragione, sarà sempre la natura a parlare, a rivelare la propria presenza, la propria forza, la propria vita e le proprie connessioni, cosicché un cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato, in ciò che è udibile potrà cogliere un infinitamente vivente50. Per rendere più chiara e perspicua la fenomenologia dello spazio utopico ci avvaliamo del metodo greimasiano, connettendo ai quattro archetipi cosmologici le plurime isotopie cromatiche rintracciate nel testo: Universo figurativo /FUOCO/ /rosso/ /ACQUA/ /blu/ /ARIA/ /bianco/ /giallo/ /TERRA/ /verde/ /grigio/ Da un’angolazione strutturale, la deissi fuoco/terra si polarizza sulla coppia semantica rosso/grigio, per rappresentare l’isotopia semantica urbanistico-architettonica esemplificata dalla Casa Rossa come dalla “casa grigia” che implica la costante topologica del giardino e della natura in generale (verde). Parallelamente, la dualità acqua/aria, seppur evocando l’assiologia del fiume e la salubrità dell’aria nowheriana, assume un’indubbia valenza cromatica grazie alla paradigmatica dell’abbigliamento medievale, messa in atto sin dalle primissime pagine del romanzo. È 50 Goethe, op. cit., pp. 5-6. L’eterogeneità dello spazio utopico 169 chiaro che Morris, sempre attento a recuperare il carattere primitivo della sua immaginazione creatrice, adotta una cosmologia utopica depositaria di profondità intime e misteriose. Non a caso, proprio il binomio archetipico terra/fuoco 51 , che riporta alla mente antiche procedure alchemiche – secondo cui il fuoco con il suo principio attivo non solo “riassume tutte le azioni della natura”52, ma rappresenta il “vero proteo della valorizzazione”53 umana – postula una rêverie de la volonté morrisiana. Facendo leva su cromie vulcaniche e minerali (red bricks, grey stone houses), appartenenti alle sostanze terrestri, l’alchimista vittoriano realizza sogni di libertà, volontà e potenza: La rêverie de la volonté a, en effet, pour fonction directe de nous donner confiance en nous-mêmes, confiance en notre puissance laborieuse. Elle dramatise, si l’on ose dire, notre liberté […]. Si l’on voit la liberté au travail, dans la joie du libre travail on en éprouve la détente54. D’altra parte, anche la continuità delle immagini dinamiche dell’acqua e dell’aria rimandano ai principi di libertà e leggerezza che chiamano in causa l’elevazione della nuvola bianca (“pearly white cloud”, NFN, p. 157) e la narcisistica bellezza del corso d’acqua. Se è vero che “le nuage nous aide a rêver la transformation” 55 è altrettanto vero che il “bright blue river” morrisiano possiede un linguaggio che gli uomini comprendono 51 Sull’interazione immaginifica tra terra e fuoco si veda Gaston Bachelard, La terre et les rêveries de la volonté, Paris, Corti, 2004 e in particolare il capitolo “Les cristaux. La rêverie cristalline” ove leggiamo: “Les pierreries peuvent devenir les images d’une gerbe de feux multicolores. […] Par bien des côtés, le phénix, l’oiseau du feu, est un bloc de pierreries volantes. […] Ainsi les pierreries sont des flammes multicolores, des flammes mouvantes, des flammes volantes. Un feu intime les anime, préparant les métaphores de la vie” (pp. 290-292). 52 Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, cit., p. 196. 53 Ibid. 54 Bachelard, La terre et les rêveries de la volonté, cit., pp. 96-97. 55 Gaston Bachelard, L’Air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement, Paris, Corti, 2007, p. 240. 170 Capitolo III naturalmente, una “still, sad music of humanity” wordsworthiana tesa a restituire alle cose il loro valore oracolare56. Nella purezza ideale del bianco aereo e del blu equoreo, l’io esperiente nowheriano ritrova uno spirito naturale di rinnovamento, privo di qualsivoglia lotta per la verticalità (complesso di Atlante)57 o della psicologia violenta del mito di Serse58. Al centro di questo caleidoscopio archetipico, si colloca una variopinta umanità medievale, caratterizzata da vesti e paramenti di fine lavorazione artigianale in grado di sancire il valore etico del rapporto uomo-ambiente. La possibilità di un recupero della totalità perduta marca tutte le sezioni descrittive di NFN che, mettendo in primo piano il senso di aggregazione e la socialità degli individui, stabilisce una continuità assiologica tra la cromia ipersemantizzata e la dignità architettonica del milieu nowheriano: As to their dress, which of course I took note of, I should say that they were decently veiled with drapery, and not bundled up with millinery; […]. In short, their dress was somewhat between that of the ancient classical costume and the simpler forms of the fourteenth-century garments, though it was clearly not an imitation of either […]. As to the women themselves, it was pleasant indeed to see them, they were so kind and happy-looking in expression of face, so shapely and wellknit of body and thoroughly healthy-looking and strong. […]. They came up to us at once merrily and without the least affectation of shyness, and all three shook hands with me as if I were a friend newly come back from a long journey: though I could not help noticing that they looked askance at my garments; for I had on my clothes of last night, and at the best was never a dressy person (NFN, Ch. III, “The Guest House and Breakfast Therein”, p. 13). 56 Cfr. Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita, cit., p. 215. 57 Sul complesso di Atlante si veda quanto scritto da Bachelard: “Atlas est le héros de la lutte de verticalité […]. Il représente l’attachement à des forces spectaculaires et – caractère très particulier – à des forces énormes inoffensives, voire a des forces qui ne demandent qu’à aider le prochain” (Bachelard, La terre et les rêveries de la volonté, cit., pp. 341, 347). 58 Come è noto, in seguito a una tremenda tempesta che devastò numerose imbarcazioni, il re Serse ordinò di punire il mare (l’Esponto) con trecento frustrate. Tali violenze insensate rimandano a una psicologia del risentimento, della vendetta simbolica e indiretta. L’eterogeneità dello spazio utopico 171 Almost everybody was gaily dressed, but especially the women, who were so well-looking, or even so handsome, that I could scarcely refrain my tongue from calling my companion’s attention to the fact. Some faces I saw that were thoughtful, and in these I noticed great nobility of expression, but none that had a glimmer of unhappiness, and the greater part (we came upon a good many people) were frankly and openly joyous (Ch. IV, “A Market by the Way”, p. 20). But its best ornament was the crowd of handsome, happy-looking men and women that were set down to table, and who, with their bright faces and rich hair over their gay holiday raiment, looked, as the Persian poet puts it, like a bed of tulips in the sun. (NFN, Ch. XXXII,“The Feast’s Beginning – The End”, p. 179). È proprio l’intreccio delle individualità a mettere a nudo la praticabilità testuale del programma ideologico morrisiano che desidera guardare all’uomo come espunzione del dato negativo dallo spazio vitale. Che si tratti di una locanda, di un mercato o di una chiesa, quello che lo scrittore vuole sottolineare è la felicità derivante dalle cose semplici, il fatto che l’uomo è la misura di tutte le cose assurgendo a decorazione, ornamento vivente rispetto a un tutto perfetto eppure impalpabile. A tal riguardo ha ragione il poeta persiano quando assimila la figuralità umana a “un campo di tulipani sotto il sole” che, grazie all’intrinseco potere evocativo del fiore variopinto simbolo dell’amore, riesce ad avviare quella poetica visiva in grado di restituire l’immagine di Morris come di un uomo semplice che usa materiali semplici. Ed è per questo che, sic et simpliciter, le sensibilità artistiche di W. B. Yeats, Rudyard Kipling, J. R. R. Tolkien, Ken Loach, e di molte altre voci autorevoli del passato e del presente, hanno attinto alla poetica della rêverie morrisiana, le cui porte della percezione si aprono su un mondo intriso di medievalismo utopico, depositario degli strumenti ideologi necessari ad attualizzare una mistica ascesa dell’uomo verso il trionfo dell’arte. Bibliografia La presente bibliografia non ha alcuna pretesa di essere esaustiva e comprende le opere effettivamente consultate per l’oggetto di questo studio. In tal senso, si sono segnalati quei testi che hanno una maggiore attinenza con l’utopia e il medievalismo caratterizzanti il macrotesto morrisiano. Opere di William Morris A Dream of John Ball and A King’s Lesson, London, New York & Toronto, Longmans, Green, and Co., 1903. The Defense of Guenevere and Other Poems, ed. Robert Steele, London, A. Moring, 1904. The Collected Works of William Morris, with introductions by his daughter May Morris, New York, Russell & Russell, 1966. The Water of the Wondrous Isles, introduction by Lin Carter, London, Ballantine, 1971. Early Romances in Prose and Verse, ed. Peter Faulkner, London, Dent, 1973. The Sundering Flood, Brighton, Unicorn Bookshop, 1973. The Wood Beyond the World, Introduction by Tom Shippey, Oxford, Oxford University Press, 1980. On Architecture, ed. Chris Miele, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996. 174 Bibliografia On Art and Design, ed. Christine Poulson, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996. On History, ed. Nicholas Salmon, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1996. The Hollow Land, ed. Eugene D. LeMire, Bristol, Thoemmes Press, 1996. The Well at the World’s End, introduction by Nicholas Salmon, Stroud, Gloucestershire, Sutton Publishing, 1996. News from Nowhere and Other Writings, ed. Clive Wilmer, Harmondsworth, Penguin, 1998. Selected Poems, ed. Peter Faulkner, New York, Routledge, 2002. Signs of Change, McLean, Virginia, IndyPublish.com, 2002. News from Nowhere or An Epoch of Rest. Being Some Chapters From a Utopian Romance, ed. David Leopold, Oxford, Oxford University Press, 2003. The Roots of The Mountains, Rockville, MD, Wildside Press, 2003. The House of the Wolfings, West Valley City, UT, Waking Lion Press, 2006. The Pilgrims of Hope, Lenox, MA, Hard Press Editions, 2006. Traduzioni italiane Il bosco oltre il mondo, introduzione di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, Napoli, Akropolis, 1980. 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H., 51n Adams, Robert M., 39n Alighieri, Dante, 30n, 87n, 88n Andreotti, Roberto, 7, 45n Argan, Carlo, 131 Arnold, Matthew, 31n, 57n, 59n, 62n Atlick, R. D., 38n Bachelard, Gaston, 57n, 58n, 77n, 97, 97n, 134n, 169n, 170n Bachtin, Michail, 21, 21n, 23n, 93, 93n Bacon, Francis, 9 Baldini, Gabriele, 80n Baldini, Massimo, 57n Ball, Philip, 33n Barringer, Tim, 85, 85n Bellamy, Edward, 15, 45, 45n, 48, Looking Backwards, 42, 45, 45n, 46, 47, 47n Benjamin, Walter, 106, 106 n Bentley, D. M. R., 87n Biddick, Kathleen, 61n, 62, 62n Bigliazzi, Silvia, 7 Billi, Mirella, 41n Blake, William, 74, 136, 136n Bloom, Harold, 43, 43n, 62n Boccaccio, Giovanni, 87n, Il Decamerone, 87n Boos, Florence S., 21n, 49n, 55, 56n, 64n, 159n Bradbury, Malcolm, 27n, 28n Bradbury, Bruce, 69n Braesel, Michaela, 62n Brownlee, Marina S., 61n, 74, 75n Buchan, John, 101n Burden, Jane, 22, 22n, 86, 87n Burne-Jones, Edward, 84, 87n, 163, 164, 165n Butler, Samuel, 15, 45, 45n, 47n, 62n, 105n, Erewhon, 45, 45n, 46, 47, 47n, 48 Buxton, John, 101n Buzard, James, 104, 105n Calvino, Italo, 10, 11, 11n, 12, 13, 126, 127n Carlyle, Thomas, 20, 31n, 37n, 38, 38n, 39, 60, 62n, Past and Present, 38 Carter, Lin, 78n Cattabiani, Alfredo, 138n, 147n, 148n Chandler, Alice, 12n, 13n Chapman, Raymond, 37n Chaucer, Geoffrey, 59, The Canterbury Tales, 59 Coleman, Roger, 24, 24n, 57n Coleridge, Henry Nelson, 91n Coleridge, John Taylor, 91n Coleridge, Samuel Taylor, 51n, 91, 91n, 92n Colli, Giorgio, 44n Constable, John, 133, 133n Coote, Stephen, 30n, 51n Cornforth, Fanny, 22n, 87 Corona, Daniela, 41n Corrado, Adriana, 48n, 93n Costantini, Mariaconcetta, 7 Cowper, William, 35, The Task, 35, 35n Craig, W. J., 105n, 153n Curti, Lidia, 41n De Fusco, Renato, 17, 17n, 151, 151n Di Piazza, Elio, 41n, 152n Dugdale, John, 47n Ebbatson, Roger, 7 Elia, Mario Manieri, 100n 200 Indice dei nomi Eliot, Thomas Stern, 92n, “Little Gidding”, 92, Four Quartets, 92n, The Waste Land, 131n Elliott, Robert C., 40n Ettorre, Emanuela, 8 Fairly, Barker, 32n Faulkner, Peter, 7, 26n, 36n, 57n, 163, 163n Fay, Elizabeth, 60, 60n Fellman, Michael, 118, 118n Fliess, Wilhelm, 152, 152n Fortunati, Vita, 7, 41n, 54n, 93n Foucault, Michel, 59, 59n, 65, 66n, 80n Fourier, Charles, 45n Frampton, Kenneth, 141n Freud, Sigmund, 80n, 83n, 85, 86n, 88n, 152, 152n Fromm, Eric, 16, 111, 112n Frost, Robert, 146n Frye, Northrop, 36n, 37n Gabrieli, Vittorio, 105n Gagnier, Regenia, 7 Garth, John, 82n Ghiotto, Renato 126n Gill, Stephen, 51n Goethe, Johann Wolfgang, 16, 32, 32n, 134n, 140n, 168, 168n Gopen, George, 7, 163n Goya, Francisco, 116, 117 Gray, Thomas, 131, Elegy Written in a Country Churchyard, 131 Gunn, Tom, 155n Hamilton, Jill, duchessa di, 86n Hart, Penny, 86n Harvey, Charles 38, 39n Hawthorne, Nathaniel, 15, 45, 47n, The Blithedale Romance, 42, 45 46n, 47n, 48 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 145n Hodgson, Amanda, 29n, 113, 113n Hough, Graham, 51n Howells, Coral Ann, 7 Hughes, Ted, 154, 155n, “The Horses”, 154-156 Hunt, William Holman, 85, The Scapegoat, 85 Johnson, Samuel, 111, 111n, The History of Rasselas, Prince of Abissinia, 111, 111n Jung, Carl Gustav, 30, 30n Keats, John, 13, 51n Keynes, Geoffrey, 136n Kingsley, Charles, 37, 37n, 39 Kingsley, F. E., 37n Kinna, Ruth, 36n Kipling, Rudyard, 137n, 171 Kirchhoff, Frederick, 64, 64n Klee, Paul, 106 Kumar, Krisham, 48n, 93, 93n Latham, David, 7 Le Quesne, A. L., 30, 31n LeMire, Eugene D., 40n Leopold, David, 10n, 47n Lewis, Roger, 40n Lindsay, Jack, 89, 89n Links, J. G., 146n Loach, Ken, 171 Lodge, David, 95, 96n Logan, George M., 39n Longfellow, Henry Wadsworth, 146, 146n, “Giotto’s Tower”, 146 Lotman, Jurij M., 20n, 27n, 44n, 45 MacDoanld, Alexander, 138n, 139n Malory, Thomas, 30n, 59, 59n, Le Morte D’Arthur, 59, 59n Manferlotti, Stefano, 118n Mann, Nancy D., 78n Mann, Thomas, 9 Marchese, Angelo, 93n Margoliouth, H. M., 136n Mariani, Andrea 7, 146n Marroni, Francesco, 7, 17n, 18n, 32, 32n, 46n, 88n Marsh, Jane, 154, 154n Marucci, Franco, 7, 38n Marvell, Andrew, 136, 136n Masson, J. M., 152n Indice dei nomi Maxwell-Stuart, P. G., 80n McMaster, Rowland 52, 52n Merwin, William Stanley, 146n Miele, Chris, 60n Mill, John Stuart, 21, 62n, On Liberty, 21, 21n Mineo, Ady, 109, 109n More, Thomas, 39, 39n, 45n, Utopia, 39, 39n, 40, 45n Morgan, Thaïs, 160n Morris, May, 53n, 86 Morris, William, “The Aims of Art”, 23, 23n, “Architecture and History”, 60, 60n, 66, 67, 67n, “The Art of the People”, 142-143, 143n, “The Blue Closet”, 160-162, “The Beauty of Life”, 30, 30n, 70, 70n, “The Churches of North France: The Shadows of Amines”, 64, The Defense of Guenevere, 20, 21n, 59, “The Development of Modern Society”, 60n, A Dream of John Ball, 20, 21, 37n, 122, 123, 123n, “Of Dyeing as an Art”, 33, 33n, The Earthly Paradise, 20, 21n, 53n, 59, 81, 82, 87n, 114, 114n, “Gothic Architecture”, 63, 63n, “The Hopes of Civilization”, 25n, 28, 28n, 63, 63n, The House of the Wolfings, 20, 54n, 81, 81n, “How I Became a Socialist”, 39n, “The Lesser Arts of Life”, 61, 61n, 166, 166n, Love is Enough, 20, “Making the Best of It”, 128, 128n, News from Nowhere, 10, 10n, 12, 13, 14, 16, 20, 22n, 24n, 25n, 28n, 34n, 37n, 39, 39n, 40, 40n, 41n, 44, 44n, 45, 46, 48, 48n, 49, 51n, 52, 52n, 53, 53n, 54, 57, 57n, 58, 65, 67-74, 75, 75n, 76, 76n, 91-122, 125-171, The Pilgrims of Hope, 20, 21n, 25, “The Prospects of Architecture in Civilization”, 66, 66n, The Roots of the Mountains, 20, 82n, The Story of The 201 Glittering Plain, 53n, “The Story of the Unknown Church”, 34n, 64, Signs of Change, 23n, 28, 63n, 122n, “Vandalism in Italy”, 66, The Water of the Wondrous Isles, 78n, 79-80, The Well at The World’s End, 21, 60, 60n, 76, 76n, 77n, 78, 79n, The Wood Beyond the World, 20, 21, 78n, 79, 82n, 167 Mucci, Clara, 7 Nelson, William, 56n Nichols, H. S., 56n Nixon, Jude, 7 Oliva, Gianni, 7 Orwell, Gorge, 118n, Nineteen Eighty-Four, 118n Partenza, Paola, 8 Payne, John, 71n Peel, J. D. Y., 103n Pevsner, Nikolaus, 63n Planca, Elisabetta, 23n Pollard, Arthur, 119n Poulson, Christine, 33n Preston, Peter, 36n Prettejohn, Elizabeth, 22n, 29n, 87n, 165n Propp, Vladimir Ja., 153n Rizzardi, Biancamaria, 7 Röderer, Johann Gottfried, 32n Rosebury, Brian, 82n Rossetti, Christina, 84, 88n, Monna Innominata, 88n Rossetti, Dante Gabriel, 22, 22n, 23, 29n, 30, 30n, 31, 51n, 69, 84, 85, 86, 87n, 88, 88n, 89, 119, 160n, Astante Syriaca, 22, Beata Beatrix, 22, Bocca Baciata, 87, Lady Lilith, 22, La Pia de’ Tolomei, 22, Mariana, 22, Proserpina, 22, Sibylla Palmerifera, 22, Sogno a occhi aperti, 22, Venus Verticordia, 88 Rossetti, William Michael, 69n, 84n, 88n 202 Indice dei nomi Ruskin, John, 20, 23n, 29n, 31n, 34n, 37n, 38, 38n, 39, 41, 51n, 62, 62n, 64, 119, 135, 143, 143n, 145, 146n, 149, 149n, “The Nature of Gothic”, 38, Seven Lamps pf Architecture, 64, The Stones of Venice, 23n, 143, 143n, 146n, 149, 149n Salinger, Jerome David, 152n Sambrook, James, 119, 119n Saracino, Marilena, 8 Scaffidi Abbate, Mario, 126n Schmidt, Esther, 69n Schopenhauer, Arthur, 44n Scott, Walter, 13, 51n Schulte, Edvige, 164n Sette, Miriam, 8 Shakespeare, William, 60n, 80, 80n, 91, 105n, 153n, Anthony and Cleopatra, 153, 153n, Henry IV, 91, Henry VIII, 105, 105n, Richard III, 153, 153n, The Tempest, 80, 80n Shaw, Christopher, 24, 24n Shippey, Tom, 78n, 82n Siddal, Elizabeth, 22n, 30, 30n Silver, Carole, 27n Simmons, John, 86n Simons, John, 59n Smith, Lindsay, 34n Soccio, Enrichetta, 8 Southey, Robert, 59n Spencer, Herbert, 103, 103n Spenser, Edmund, 56, 56n, “Prothaliamon”, 56 Sportelli, Annamaria, 115n Stevenson, Robert Louis, 136, 136n Sweet, Matthew, 29n Swinburne, Algernon, 51n, 58, 58n, 59n Tanner, Tony, 47n Tennyson, Alfred, 51n, 59n, “The Lady of Shalott”, 159 Thompson, E. P., 19, 20n, 45n, 91n Thompson, Paul, 25n, 32, 32n, 38, 38n, 57n Todd, Pamela, 87n Tolkien, Christopher, 83n Tolkien, J. R. R., 77, 77n, 82, 82n, 83, The Hobbit, 82, The Lord of the Rings, 77n, 78, 83n Turghenieff, Ivan, 120, 121n Tzara, Tristan, 58 Uspenskij, Boris A., 44n Walton, Izaak, 101, 101n, The Compleat Angler, 101n Warner, Eric, 51n Waters, Michael, 35n, 42n Webb, Philip, 87n, 141, 141n Weintraub, Stanley, 69n, 86n, 87n Weisl, Angela Jane, 60, 61n Wells, H. G., 40 Whitman, Walt, 146n Wilde, Oscar, 28, 28n, 36, 36n, 56n Wilmer, Clive, 22n, 51n Wordsworth, William, 32n, 50, 51n, 52, 92n, 98, 98n, 111, The Prelude, 51, 51n, 111, “Upon Westminster Bridge”, 97-99 Yeats, William Butler, 164n, 171 Zazo, Anna Luisa, 105n Studi di Anglistica collana diretta da Leo Marchetti e Francesco Marroni 1. Topografie per Joyce a cura di Leo Marchetti 2. The Poetry of Matthew Arnold Renzo D’Agnillo 3. La letteratura vittoriana e i mezzi di trasporto: dalla nave all’astronave a cura di Mariaconcetta Costantini, Renzo D’Agnillo, Francesco Marroni 4. Great Expectations: nel laboratorio di Charles Dickens a cura di Francesco Marroni 5. John Ruskin: ricerca estetica e mito di Venezia Michela Marroni 6. “Hid as worthless rite” Scrittura femminile nell’Inghilterra di re Giacomo: Elizabeth Cary e Mary Wroth Massimo Verzella 8. William Morris tra utopia e medievalismo Eleonora Sasso Finito di stampare nel mese di ottobre del 2011 dalla « Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma