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Potenze in crisi
unità 6 Potenze in crisi: Germania e Stati Uniti tra le due guerre Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro il dipinto di Georg Grosz intitolato L’agitatore. L’enorme stivale nero evoca il terrore; il tamburo, il megafono e il grammofono lasciano invece presagire il massiccio ruolo che avrebbe assunto la propaganda nel regime nazista. Sommario 1 2 3 4 5 6 7 Il culto del Führer al centro del nazismo La politica economica del Terzo Reich Mito del Führer e consenso nel Terzo Reich L’isolazionismo americano negli anni Trenta Le conseguenze della crisi economica in Giappone Terrore nazionalista e violenza repubblicana L’ambigua politica britannica nei confronti della Germania nazista F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 8 9 10 11 12 13 Le reazioni di Hitler a Monaco Germania e URSS verso il patto di non aggressione Il nazismo come risposta alle angosce dell’uomo moderno Il sistema di potere nel regime nazista Orientamento liberale e pensiero democratico totalitario Oggi in Spagna, domani in Italia 1 Il culto del Führer al centro del nazismo UNITÀ 6 Secondo l’autore, una delle principali differenze tra il fascismo italiano e il nazismo consiste nel diverso ruolo che, nei due regimi, occupò la figura del leader. Fin dall’inizio del movimento, Hitler fu concepito come una specie di figura messianica, oggetto di culto e di ammirazione pseudoreligiosa. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 2 Dal mio punto di vista, uno stato moderno diretto da una autorità carismatica, che si basa sul concetto, frequentemente richiamato da Hitler, di avere la missione (Sendung), di portare la salvezza (Rettung) o la redenzione (Erloesung) – tutti termini che fanno ovviamente riferimento a sentimenti religiosi o quasi – è stato unico. [...] All’inizio degli anni venti Hitler sviluppò il concetto di quella che riteneva dovesse essere la sua missione salvifica della nazione – un’aura messianica, com’è stato osservato in un giudizio dell’epoca. Tale missione può essere così sintetizzata: nazionalizzare le masse, impossessarsi dello Stato, distruggere i nemici interni – i “criminali di novembre” (cioè ebrei e marxisti, che per lui erano più o meno la stessa cosa); costruire difese, quindi intraprendere per mezzo della spada la via dell’espansione per assicurare il futuro della Germania di fronte alla futura diminuzione di terra (Raumnot) e acquisire nuovi territori nell’Est europeo. Verso la fine del 1922 una piccola, ma crescente torma di fanatici seguaci – la iniziale comunità carismatica ispirata dalla Marcia su Roma di Mussolini, cominciò a proiettare su Hitler il desiderio di un leader nazionale eroico. [...] Alla fortezza di Landsberg – dove nel 1924 Hitler passò confortevolmente alcuni mesi, dopo il processo di Monaco per alto tradimento, il che gli conferì una posizione di preminenza tra i movimenti della destra nazionalista – arrivarono innumerevoli lettere nelle quali Hitler veniva lodato alla stregua di un eroe nazionale. Un libro pubblicato in quell’anno riporta apprezzamenti lirici (e mistici) sul nuovo eroe: «Il segreto della sua personalità consiste nel fatto che ciò che è assopito nel profondo dell’animo tedesco ha preso fattezze umane [...]. Questo appare in Adolf Hitler: egli è l’incarnazione dei desideri profondi della nazione». Hitler credeva a queste fantasie. Usò il tempo trascorso a Landsberg per descrivere la sua missione nel primo volume del Mein Kampf (che, con scarso riguardo nei confronti degli accattivanti titoli editoriali, avrebbe voluto intitolare Quattro anni e mezzo di lotte contro falsità, stupidità e codardia). Imparò anche dagli errori che nel 1923 avevano portato al fallimento il suo movimento. Anzitutto il partito nazista venne rifondato: in contrasto con quello di prima del putsch [tentativo di colpo di Stato, n.d.r.], diventò esclusivamente un partito del leader. A partire dal 1925, la NSDAP fu trasformata gradualmente proprio in questo partito del leader: Hitler diventò non solo il fulcro organizzativo del movimento, ma anche la sola fonte di ortodossia dottrinale. Capo e Idea (per quanto vaga quest’ultima fosse rimasta) si fusero in una cosa sola, e a partire dalla fine degli anni venti il Partito nazista spazzò via tutti i movimenti völkisch [nazionalisti e razzisti, convinti della superiorità del loro Volk, cioè del popolo tedesco, n.d.r.], acquisendo il monopolio nell’ambito della destra razzista e nazionalista. Nelle condizioni di crisi terminale della Repubblica di Weimar, e sostenuto da un’organizzazione molto più solida rispetto al 1923, Hitler era nella posizione di presentarsi a un numero sempre crescente di tedeschi come il futuro salvatore della nazione, come un redentore. È necessario sottolineare questo sviluppo, per quanto in genere sia ben noto, perché, a dispetto del fatto che si siano sviluppati culti della personalità anche in altri Paesi, non si è verificato niente di simile nella genesi di altre dittature. Il culto del duce prima della Marcia su Roma non è stato neppure lontanamente così importante, all’interno del movimento fascista, rispetto al ruolo che ha giocato il culto del Führer nel momento dell’espansione del nazionalsocialismo. A quell’epoca Mussolini era ancora considerato essenzialmente primus inter pares [primo tra pari, n.d.r.]. Il culto del duce maturò solo più tardi, dopo il 1925. [...] Al contrario, il culto del Führer era la base indispensabile, l’essenza e il motore dinamico di un regime nazista impensabile senza di esso. I. KERSHAW, Hitler e l’unicità del nazismo, in A. CHIAPPANO, F. MINAZZI (a cura di), Pagine di storia della Shoah. Nazifascismo e collaborazionismo in Europa, Kaos, Milano 2005, pp. 121-125, trad. it. A. CHIAPPANO Qual è la principale differenza, secondo Kershaw, tra nazismo tedesco e fascismo italiano? Spiega l’espressione «aura messianica». F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il governo nazista riuscì a riorganizzare la dissestata economia tedesca solo mediante un pesante indebitamento dello Stato. Si trattò di una scommessa, in quanto fin dall’inizio si mise in conto che tutti i passivi accumulati sarebbero stati azzerati in virtù dei risultati di una politica estera sempre più aggressiva e grazie alla conquista dei territori orientali, che il massiccio riarmo tedesco avrebbe reso possibile, a danno in primo luogo dell’Unione Sovietica. Ai 6 milioni di disoccupati Hitler promise nel 1933: «Lavoro, lavoro, lavoro». Senonché gli ci vollero poi cinque anni per raggiungere questo primo obiettivo di politica interna a breve termine. Alla fine di febbraio del 1936 l’Istituto nazionale tedesco per il lavoro dovette registrare ancora 2,5 milioni di disoccupati, che scesero un anno dopo a 1,6 milioni. […] Bastarono tuttavia la sensazione della ripresa economica e la risolutezza autoritaria per garantire alla Stato nazionalsocialista la lealtà della stragrande maggioranza della popolazione. Dopo alcuni mesi di attesa, verso la fine del 1933 si diffuse in ampi settori della borghesia l’opinione che «aumentano sempre di più la fiducia e la convinzione che sotto questo governo la Germania tornerà a progredire», annotò Hermann Voss, docente di anatomia a Lipsia. Willy Brandt, rientrato illegalmente in Germania come figura di uomo di collegamento della Sozialistiche Arbeiter-Partei [il Partito Socialdemocratico, n.d.r.], definì nell’estate del 1936 l’umore dei lavoratori di Berlino «non entusiasta e nemmeno particolarmente favorevole al regime», però «ancor meno ostile al regime». […] Dal 1933 alla metà del 1939 il Terzo Reich investì circa 45 miliardi per riarmarsi. Questa spesa, astronomica per le concezioni di allora, risultò nel 1937 pari al triplo delle entrate dello stato iscritte a bilancio. Conseguentemente l’indebitamento salì alla fine di agosto del 1939 a 37,4 miliardi di marchi. La piena occupazione e il riarmo furono insomma pagati con un enorme ricorso al credito. Perfino Goebbels, che si beffava spesso degli esperti di cose finanziarie chiamandoli meschinelli, annotò nel suo diario l’esistenza di un deficit folle. Di fronte a questa situazione allarmante, il direttorio della Reichsbank si rivolse nel gennaio del 1939 direttamente a Hitler: «L’illimitata crescita delle spese dello stato vanifica ogni tentativo di impostare un bilancio ordinato, porta nonostante l’enorme pressione esercitata sulla leva fiscale le finanze statali sull’orlo del tracollo e compromette di conseguenza l’istituto d’emissione e la moneta. Non esiste una sia pur geniale e raffinata ricetta o sistema di tecnica finanziaria e monetaria che risulti sufficientemente efficace per scongiurare gli effetti devastanti di una strabordante politica delle spese. Nessun istituto di emissione è in grado di sostenere il valore della moneta in presenza di una inflazionistica politica delle spese da parte dello stato». Gli autori della lettera avevano a lungo assecondato la politica dell’indebitamento del regime con ogni genere di trucchi e di manipolazioni finanziarie; ora la protesta, suggerita da tardivi scrupoli, si tradusse solo nella revoca dell’incarico per il presidente della Reichsbank, F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Hjalmar Schacht, e per una parte dei componenti, il cosiddetto direttorio. A ricoprire la carica di presidente della Reichsbank fu chiamato Walther Funk, il quale era in precedenza già subentrato allo Schacht, non abbastanza docile e accomodante anche nelle funzioni di ministro delle Finanze del Reich, e che si ritrovò quindi a svolgere le due importanti mansioni insieme, in unione personale. […] Nel 1939 il fabbisogno finanziario tedesco per le spese civili fu di 16,3 miliardi di marchi, quello per la Wehrmacht di 20,5 miliardi. Le entrate dello Stato si collocarono invece attorno a un importo compreso fra i 17 e i 18 miliardi di marchi. I soli interessi sui debiti contratti ingoiarono quell’anno 3,3 miliardi. Carl Friedrich Goerdeler, che sarebbe in seguito diventato uno dei personaggi di maggior spicco della resistenza tedesca, definì assai presto questa politica delle spese una pazzia finanziaria. In un promemoria del 1o luglio 1940 – scritto dunque nei giorni di quello che poté apparire come uno dei maggiori successi militari tedeschi, la vittoria sulla Francia – denunciò seccamente: «Le finanze del Reich sono rovinate». Se la guerra fosse proseguita, alla fine del 1941 «i tre quinti ormai delle entrate annuali… dovranno essere usati per pagare i debiti del passato… Ciò significa che l’indebitamento del Reich non potrà più essere affrontato con le entrate correnti, e che i debiti cresceranno sempre di più per il solo fatto di esistere». Hitler dribblò la precaria situazione finanziaria, ben nota a lui e ai suoi diretti collaboratori, ricorrendo a operazioni belliche repentine a scapito di milioni di persone. Espropri, deportazioni e uccisioni di massa divennero le fonti più importanti delle finanze statali tedesche. Nel 1942 il sottosegretario alle Finanze Reinhardt affermò categoricamente: «Gli importi continuativamente occorrenti per pagare gli interessi e per l’ammortamento dei debiti del Reich dovranno essere coperti dai proventi continuativamente forniti dalla gestione e dallo sfruttamento dei territori orientali». Il regime ebbe insomma bisogno di una costante destabilizzazione bellica della periferia per dare all’interno un’ingannevole apparenza di stabilità. «Si stanno già preparando giganteschi piani di costruzioni e di armamenti», scrisse Goerdeler nel 1940, e aggiunse con amara ironia: «Il trattamento di vecchiaia del popolo tedesco sarà totalmente garantito. Ci si avventurerà, con l’estendersi dei territori controllati, in progetti edilizi e di riconversione ancora più grandiosi». Alla fine del 1937 l’indebitamento toccò un primo limite critico. […] In una lettera dal tono ultimativo Lutz Schwerin von Krosigk [ministro delle Finanze del Reich, n.d.r.] comunicò il 1o settembre 1938 a Hitler che «alla fine di settembre le disponibilità di cassa» si sarebbero esaurite e che non si sarebbe potuta collocare una nuova emissione obbligazionaria perché gli investitori preferivano i beni immobili. Inoltre il ministro fece sapere a Hitler – ma «con incrollabile fedeltà» – che «ci stiamo muovendo verso una grave crisi finanziaria i cui segnali hanno già determinato, all’estero, un’approfondita discussione su questo punto debole della nostra struttura UNITÀ 6 La politica economica del Terzo Reich 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 2 economica e, all’interno, una preoccupante diminuzione di fiducia». A chi abbia presente questa situazione diventa chiaro perché il regime nazionalsocialista si accinse proprio in quel momento a smembrare la Cecoslovacchia e a scatenare all’interno della Germania il pogrom contro gli ebrei [la notte dei cristalli, del 9-10 novembre 1938; cfr. ipertesto 1, pag. 296, n.d.r.]. Il fisco tedesco aveva bisogno di soldi. Il governo doveva esco- gitare a ogni costo qualche trucco per evitare la bancarotta dello Stato. L’inazione avrebbe immediatamente messo a nudo i problemi. La via d’uscita poteva emergere solo da un costante attivismo. G. ALY, Lo stato sociale di Hitler. Rapina, guerra razziale e nazionalsocialismo, Einaudi, Torino 2007, pp. 45-49, 53-54, trad. it. U. GRANDINI UNITÀ 6 Per quale motivo Goerdeler definì la politica economica del governo nazista come una «pazzia finanziaria»? Spiega la seguente affermazione di G. Aly: «Il regime ebbe insomma bisogno di una costante destabilizzazione bellica della periferia per dare all’interno un’ingannevole apparenza di stabilità». Qual era il «punto debole della nostra struttura economica» segnalato dal ministro Lutz Schwerin von Krosigk? POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 4 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 L’analisi compiuta da Detlev Peukert si segnala soprattutto perché, come fonte per comprendere i sentimenti dei tedeschi negli anni Trenta, egli si è servito in primo luogo dei cosiddetti “Notiziari verdi”, diffusi dalla SOPADE, la direzione del Partito socialdemocratico in esilio. Da essi emerge che, nel giro di poco tempo, anche molti dei tedeschi che non avevano votato per Hitler cominciarono ad apprezzarlo e a stimarlo. Anzi, il mito del Führer divenne uno straordinario strumento nella gestione del consenso, in quanto permetteva di deviare dalla sua persona, verso altri responsabili, i numerosi problemi che, già prima della guerra, caratterizzavano la società tedesca. Tra i fattori del consenso figurano al primo posto i successi nazisti in politica estera, spesso valutati positivamente anche in settori che un tempo avevano fatto parte del movimento operaio, come riferivano continuamente, con rassegnazione, i rapporti della SOPADE. Il consenso era rivolto in primo luogo al fatto che Hitler fosse riuscito in breve tempo ad annullare clausole discriminanti del trattato di Versailles (come il ritorno della Saar [una regione mineraria occupata dai francesi dopo la guerra, n.d.r.], la rimilitarizzazione della Renania o il ripristino della coscrizione obbligatoria), o a realizzare antichi obiettivi nazionali, come l’unificazione di tutti i tedeschi in una Grande Germania. Quel che contava nell’opinione popolare non era soltanto il successo sul piano dei risultati, ma erano anche i metodi. Dopo un decennio di politica estera titubante, all’insegna del compromesso e contraddittoria, Hitler aveva dato ai tedeschi l’impressione che la sua politica, rischiosa ma forse per questo efficace, il suo rifiuto del compromesso, il suo radicalismo e la sua ferma risolutezza avessero ottenuto in politica estera quei successi che in realtà erano più dovuti alla mancanza di idee e di accordo tra i suoi avversari. Tanto quanto i successi stessi, contava quindi l’atteggiamento del Führer che, dopo un decennio di incertezza, si presentava come una guida forte e risoluta alla quale ci si poteva affidare. […] Reazioni analoghe si riscontrano con riferimento a misure economiche e sociali del regime. In questo campo si ebbero tanti disagi nella vita quotidiana da suscitare di continuo critiche. Ciò nonostante si mantenne una valutazione complessivamente positiva di quello che, in confronto alla depressione del 1932, era giudicato uno splendido miracolo economico in virtù del quale, a partire dal 1936-37, era per lo meno garantita a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali di pane e lavoro, mentre si muovevano i primi passi nella direzione di una migliore offerta di beni per una domanda accresciuta. Il prodotto sociale lordo della Germania crebbe dai 58 miliardi di marchi del 1932 ai 93 miliardi del 1937, superando in tal modo il livello massimo raggiunto nel periodo d’oro degli anni venti: gli 89 miliardi di marchi del 1929. […] Anche se tutto ciò era il risultato di una politica inflazionistica di riarmo – il che insinuava un senso di pericolo nelle speranze che i tedeschi nutrivano per il futuro – rimaneva il fatto che si tornava ad avere lavoro, che si disponeva di un reddito e che si poteva quindi rispondere all’offerta crescente di beni di consumo. Pur di mantenere vivo questo ottimismo insieme con le speranze di progresso economico, i nazisti erano persino disposti a importare, accanto ai prodotti e alle materie prime necessari all’industria bellica, anche prodotti essenziali alla produzione di beni di consumo, malgrado le scarse riserve di valuta straniera e l’amministrazione severa del commercio estero. Benché fossero apertamente per cannoni invece di burro, i nazisti non osavano togliere il burro dal pane del popolo. Non sarebbe certo stato possibile ignorare a lungo questa contraddizione tra politica di riarmo e soddisfazione dei bisogni popolari. Di fatto, nel 1939, la situazione economica in Germania si aggravò notevolmente. Solo l’avvio della guerra mondiale da parte di Hitler trasferì all’esterno quella contraddizione: si saccheggiò mezza Europa per poter mantenere a un livello relativamente alto i consumi del popolo tedesco. All’inizio si visse a credito, poi a spese degli altri. Per l’uomo comune, nel corso degli anni trenta, i fattori che stavano alla base di questa situazione non erano comprensibili. L’uomo comune metteva il miracolo economico all’attivo del bilancio di Hitler. […] Tutti i rapporti sullo stato d’animo della popolazione sono concordi su un punto: il Führer, Adolf Hitler, godeva di grande popolarità in tutti gli strati sociali, anche in settori della classe operaia. Le numerose critiche che venivano formulate nei confronti della politica del regime risparmiavano sempre esplicitamente la sua persona. Con la frase corrente «se il Führer lo sapesse» si esprimeva la convinzione che, se li avesse conosciuti egli avrebbe punito gli abusi e la corruzione dei subalterni, con lo stesso pugno di ferro con cui colpiva gli oppositori politici. In questa popolarità di Adolf Hitler si espresse quindi in certo modo un fondamentale consenso della maggioranza della popolazione nei confronti del sistema, un consenso che non veniva intaccato dalle critiche particolari che pur si muovevano al sistema. È accertato che la critica prendeva normalmente di mira piccoli e medi funzionari di partito, responsabili di qualche ufficio periferico, rappresentanti del potere di grado subalterno, mentre sulla persona di Adolf Hitler si riversava un diffuso consenso. Evidentemente il mito del Führer non era soltanto il prodotto della incessante propaganda nazionalsocialista, ma la chiave di volta del consenso popolare nei confronti del regime. D. PEUKERT, Storia sociale del Terzo Reich, Sansoni, Firenze 1989, pp. 64-69, trad. it. F. BASSANI I tedeschi desideravano la guerra? Si può affermare che Hitler li abbia trascinati in un’avventura che essi non desideravano? Come fu risolta la contraddizione tra politica di riarmo e soddisfazione dei bisogni popolari? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Mito del Führer e consenso nel Terzo Reich 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 3 4 L’isolazionismo americano negli anni Trenta UNITÀ 6 Negli anni Trenta, il governo degli Stati Uniti accentuò il proprio atteggiamento di isolazionismo rispetto a quanto accadeva in Europa. In un primo tempo, Roosevelt si oppose a una gestione comune della crisi esplosa nel 1929, temendo che gli altri Paesi volessero imporre agli Stati Uniti misure che la nazione non era in grado di assumere; in seguito, pur essendo preoccupato dalla politica di Hitler, tutte le attenzioni del presidente furono rivolte alla risoluzione della situazione economica interna. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 6 Avversione nei confronti dell’Europa e primato della politica interna convergevano a loro volta nel ridare forza a quelle posizioni isolazioniste radicali che fino ad allora erano rimaste minoritarie. A ciò contribuiva anche una rilettura vieppiù critica della Prima guerra mondiale. Secondo molti, quella guerra era stata combattuta e giustificata per trasformare un mondo (e un’Europa) che erano invece irriformabili. La scelta compiuta era stata grave e ingiustificata, aveva causato la morte inutile di migliaia di giovani americani ed era servita al massimo per arricchire produttori d’armi e grandi speculatori. La partecipazione alla guerra – si cominciò a sostenere da più parti negli USA – era stata un errore, la cui ripetizione andava a ogni costo prevenuta. Queste posizioni trovarono ricezione anche al Congresso, dove il rapporto finale di un’apposita commissione presieduta dal senatore Gerald Nye del North Dakota scioccò il paese, denunciando l’influenza esercitata da alcuni interessi speciali – quello che qualche anno più tardi sarebbe stato chiamato il complesso militar-industriale – sulla decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra. La guerra per la democrazia e per porre termine a tutte le guerre di Wilson veniva così trasfigurata in una guerra per l’arricchimento di pochi, in nome del progetto utopico e irrealizzabile di trasformare un’Europa e un mondo in realtà corrotti e irredimibili. Roosevelt si dimostrò ricettivo verso queste posizioni isolazioniste: per convinzione, in quanto almeno parzialmente congruenti con la sua radicata avversione all’Europa; per necessità, avendo egli bisogno del più ampio sostegno possibile per dare corso al suo programma di riforme interne (il cosiddetto New Deal); per opportunismo, visto il peso elettorale che l’isolazionismo, non più circoscritto socialmente o geograficamente, era in grado di esercitare. Nel primo biennio, la politica estera di Roosevelt, per quanto caotica e subordinata alle questioni interne, sortì qualche risultato, su tutti l’apertura dei rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica (1933) e il tentativo di rafforzare i rapporti interamericani entro una cornice multilaterale, nella quale l’influenza degli USA in America Latina sarebbe stata esercitata con forme consensuali, meno intrusive e spregiudicate rispetto a quelle utilizzate in passato (la cosiddetta politica del buon vicinato). L’apice dell’influenza dell’isolazionismo si ebbe tra il 1934 e il 1938. Fu in questo periodo che il Congresso discusse e approvò una serie di leggi (le cosiddette leggi di neutralità, Neutrality Acts) il cui obiettivo era di evitare che si potesse ripetere l’esperienza del 1914-17. Il primo Neutrality Act fu approvato alla quasi unanimità dalle due Camere. La legge, affermò Roosevelt, era F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 espressione del «desiderio del governo e della popolazione degli Stati Uniti di prevenire qualsiasi azione che possa trascinare gli Stati Uniti in guerra». In caso di un conflitto, essa vietava l’esportazione di armi ai belligeranti e, con un preciso riferimento al caso della Lusitania [transatlantico britannico civile affondato da un sommergibile tedesco nel 1915, n.d.r.], assegnava al presidente l’autorità di ammonire i cittadini statunitensi dal viaggiare su navi passeggeri dei paesi in guerra. Destinata a durare per sei mesi, questa prima legge di neutralità fu rinnovata per un altro anno nel 1936, dopo essere stata applicata in occasione della guerra tra Italia ed Etiopia e con l’aggiunta del divieto di fornire crediti ai belligeranti. Nel maggio del 1937, nel pieno della guerra civile spagnola, il Congresso approvò una terza legge di neutralità, che manteneva e rendeva permanenti i divieti delle due leggi precedenti (prestiti e armi), ma ne introduceva di nuovi: ai cittadini americani era espressamente proibito di viaggiare sulle navi degli Stati belligeranti; non era consentito alle imbarcazioni commerciali di armarsi; la neutralità era estesa anche alle guerre civili; al presidente era concessa l’autorità di chiudere i porti statunitensi alle navi dei paesi coinvolti nel conflitto. In aggiunta, però, la legge assegnava autorità discrezionale al presidente per invocare la clausola del cosiddetto cash & carry: la possibilità per un paese di comprare merci non militari dagli Stati Uniti, a patto che queste fossero pagate immediatamente e trasportate su imbarcazioni non statunitensi. La legge del 1937 rappresentò il picco della svolta isolazionista tra le due guerre. Una svolta che Roosevelt non seppe né volle contenere. […] Un’estraniazione fondata su un doppio assunto: che fosse possibile mantenere un’equidistanza politica, strategica e anche morale fra i partecipanti alle prossime guerre; che nessuna di queste guerre avrebbe potuto minacciare l’interesse nazionale degli Stati Uniti e, con esso, la loro natura e identità, quanto una nuova partecipazione statunitense alle stesse guerre. Ciò che stava per avvenire, in Europa e in Asia, avrebbe clamorosamente smentito tali assunti e posto rapidamente termine all’unico, vero momento isolazionista nella storia degli Stati Uniti. […] Come Gran Bretagna e Francia, anche gli Stati Uniti adottarono una politica di appeasement [disponibilità a mantenere relazioni pacifiche, n.d.r.] verso la Germania nazista, fondata sulla sottovalutazione delle aspirazioni espansionistiche di Hitler, sulla volontà di prevenire a qualsiasi costo un’altra guerra e sulla convinzione che si dovesse evitare un nuovo coinvolgimento nelle dispute europee. Il culmine di questa passività nei confronti dell’aggressione nazista si ebbe nel corso del 1938. L’Anschluss [annessione, n.d.r.] dell’Austria prima e gli accordi di Monaco poi, che riportarono la regione dei Sudeti sotto il controllo della Germania, furoro accettati da Roosevelt, che dei secondi diede anzi un giudizio positivo. Il 60% degli americani la pensava come il presidente. […] All’azione revisionista tedesca corrispondeva, nell’area del Pacifico, quella promossa dal Giappone. Qui la posizione di Roosevelt fu più ferma e meno accomodante. Il Giappone rappresentava ormai da tempo l’unico possibile contestatore del primato statunitense sul Pacifico. Le sue politiche in Cina, culminate con l’occupazione della Manciuria nel 1931, sfidavano da tempo la porta aperta [il compromesso secondo cui, in Cina, nessuna potenza poteva dominare in esclusiva, n.d.r.] e gli interessi statunitensi nell’area. La decisione di Roosevelt d’intraprendere un processo graduale di potenziamento della Marina militare, pur entro i limiti fissati dagli accordi di Londra del 1930, originava da questa competizione latente con l’impero giapponese. Il punto di svolta si ebbe però nel 1937, quando le truppe giapponesi presenti in Cina si scontrarono con l’esercito cinese, il Giappone invase il paese e si aprì una guerra che sarebbe durata fino al 1945. Roosevelt pronunciò allora uno dei suoi discorsi più famosi. Ri- correndo a un campionario di metafore dalla lunga tradizione, Roosevelt denunciò la diffusione epidemica mondiale dell’illegalità. «Quando l’epidemia di una malattia fisica comincia a diffondersi», sostenne Roosevelt, la «comunità si unisce nella decisione di mettere in quarantena i pazienti per proteggere la salute della stessa comunità e prevenire la diffusione della malattia». Allo stesso modo, era necessaria una rinnovata collaborazione internazionale per mettere in quarantena i paesi aggressori. Alcuni mesi più tardi, il presidente decise di non applicare le leggi di neutralità al conflitto sino-giapponese e di permettere alla Cina di acquistare materiale militare negli Stati Uniti. M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2006, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 248-252 UNITÀ 6 Come giudicavano gli isolazionisti la partecipazione americana alla prima guerra mondiale? Come giudicavano l’Europa? Su quali assunti teorici poggiava l’isolazionismo? In quale scenario internazionale cominciò l’attenuazione dell’isolazionismo? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 5 Le conseguenze della crisi economica in Giappone UNITÀ 6 La grande crisi iniziata nel 1929 colpì gravemente il Giappone e la sua economia. Per rilanciare l’industria, l’impero nipponico fece una scelta simile a quella tedesca: fu data priorità assoluta alla produzione di armamenti in vista dell’espansione militare che, nelle speranze dei governanti giapponesi, avrebbe dovuto portare alla conquista della Cina e al controllo di tutto il Pacifico. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 8 Alla fine del 1929, arrivarono le conseguenze della grande crisi, aggravate dai dazi del 23% imposti dagli Stati Uniti sulle merci giapponesi nel 1930. In Giappone furono travolti i settori più deboli e in primo luogo l’agricoltura. Il prezzo del riso crollò da 18 a meno di 12 yen al quintale (tra il 1920 e il 1921 era già caduto da 37 a 17) e soprattutto quello dei bozzoli [dei bachi da seta, n.d.r.], fonte essenziale di denaro contante per le famiglie contadine, si ridusse in pochi mesi a un terzo. Le conseguenze di un cattivo raccolto nel 1931 portarono le regioni del Nord alla fame: i bambini contadini andavano a scuola senza cibo, molte famiglie vivevano di cortecce e vendevano le figlie come prostitute. [...] Anche il settore industriale subì pesanti perdite: i prezzi caddero del 17% nel 1930 e del 15% nel 1931; il prezzo delle cotonate scese del 40% entro l’estate 1930; i prezzi al dettaglio nel 1931 erano due terzi di quelli del 1926; i salari reali, rapportati ai prezzi, nel 1931 erano due terzi di quelli del 1926; tra il 1929 e il 1931 le esportazioni si ridussero a metà e cadde, per non riprendersi mai, l’esportazione di seta; l’indice di borsa, fatto 100 nel 1926, era a 60 nel 1930 e a 58 nel 1931, mentre i profitti dal settembre 1929 all’estate 1931 cadevano dall’11,3 al 6,5; il capitale perduto nei fallimenti superava quello investito. Benché nessuno li contasse, i disoccupati erano probabilmente tre milioni. Il 1932 fu l’anno più nero della crisi. Ma già alla fine del 1931 il ministro delle finanze Takahashi aveva iniziato una serie di misure di concezione assai moderna, che portarono a una rapida ripresa e a una sostanziale modernizzazione dell’economia giapponese. Fu molto aumentata la spesa pubblica, anche elevando il deficit di bilancio, furono ridotti i tassi d’interesse e il valore dello yen rispetto al dollaro fu fortemente abbassato (da 49 dollari per 100 yen nel 1931, a 28 nel 1932, 25 nel 1933), in modo da favorire le esportazioni che – cadute da oltre 2,1 miliardi di yen nel 1929 a 1,1 nel 1931 – nel 1934 lievitarono di nuovo a 2,1 miliardi, a 2,7 nel 1936 e a 3,1 nel 1937, pur non coprendo il costo delle importazioni crescenti. Se il Giappone in quegli anni conquistò con beni di consumo a basso prezzo molte po- sizioni sui mercati dell’India e dell’America Latina, divenne anche uno dei migliori clienti degli Stati Uniti acquistando macchine e prodotti siderurgici. La presenza del Giappone sui mercati, pur assai ridotta globalmente (meno del 4% del commercio mondiale) suscitò molti timori nelle antiche potenze industriali che dal 1932 fecero a gara nell’alzare tariffe e nel ridurre le quote concesse ai giapponesi. Gli interventi di stimolo all’economia consentirono al Giappone di uscire dalla crisi prima degli altri grandi paesi capitalistici e segnarono una tappa decisiva nella trasformazione del Giappone che solo negli anni trenta acquisì le strutture di un paese moderno: la produzione industriale, fatto 100 il 1930, era a livello 205 nel 1936, ma aveva mutato caratteristiche perché il tessile (al 50% nel 1929, al 35% nel 1937) cedette il posto all’industria pesante. Dal 1930 al 1936 la siderurgia si moltiplicò per 4,3, la meccanica per 2,4, la chimica per 2,3 e l’energia per 1,2. Il reddito nazionale, a prezzi costanti, crebbe da 10,2 a 15,8 miliardi di yen dal 1930 al 1936. Vi era però il rovescio della medaglia: non solo un debito pubblico passato da 4,4 miliardi di yen nel 1931 a 8,7 nel 1936 (saranno 26 nel 1940); vi era anche la scelta di potenziare le spese militari che divennero il fattore trainante dell’economia. Le spese militari avevano sempre gravato sul bilancio statale giapponese: [...] erano state ridotte dal 40% del 1922 al 30% del 1925; dopo la crisi ripartirono però in fretta, dal 37,6 nel 1932 al 39,2 del 1933, al 44,2 del 1934, al 46,8 del 1935 su bilanci globali in forte crescita; nel 1937 superavano di tre volte, nel 1938 di quattro, nel 1939 di 5 e nel 1940 di sei volte e mezzo quelle del 1935. Non vi è da stupirsi se il rapporto tra industria pesante e industria leggera fu rovesciato: l’industria pesante salì dal 33,7% del 1931 al 70% del 1942 rispetto a un totale moltiplicato nel frattempo per sei. Molto minore invece l’impegno a sostenere la produzione agricola. [...] Il Giappone, in quegli anni, cessò di essere un paese abitato in maggioranza da coltivatori: i contadini e i pescatori tra il 1930 e il 1940 diminuirono solo di un milione, ma la popolazione era cresciuta di quattro e gli addetti all’industria di due e mezzo. Le città di oltre 100 mila abitanti dal 12% del 1920 passarono nel 1940 al 29% di una popolazione salita da 62 a 73 milioni; nelle sei maggiori metropoli viveva un giapponese su cinque. E. COLLOTTI PISCHEL, Storia dell’Asia orientale 1850-1949, Carocci, Roma 1994, pp. 221-223 Rifletti sulle strategie adottate per affrontare la crisi. Quali somiglianze trovi con il New Deal di Roosevelt? In base a quello che hai studiato in precedenza nell’unità 3, quali somiglianze individui, a livello economico, negli anni Trenta, tra URSS e Giappone? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Come spesso accade nelle guerre civili, entrambi gli schieramenti fecero ricorso in modo sistematico alla violenza, per essere sicuri di avere sotto controllo un territorio. Agli occhi degli uni e degli altri, l’avversario era un estraneo, rispetto alla vera nazione: quindi, per il bene futuro della Spagna, andava estirpato, come se fosse un pericoloso invasore. Sul versante repubblicano, le esecuzioni sommarie furono più numerose all’inizio del conflitto, quando ogni prete, ogni ufficiale, ogni poliziotto, ogni borghese potevano essere accusati di essere sostenitori degli insorti e costituire (come si diceva) una quinta colonna di pericolosi nemici interni. Il terrore accompagnò le truppe nazionaliste in ogni loro conquista e proseguì a lungo dopo la vittoria di Franco. Durante l’estate e l’autunno 1936, prima che si concludesse la grande battaglia di Madrid, l’esasperazione della violenza nei due campi, il terrore bianco da una parte, il terrore rosso e nero [i colori degli anarchici, n.d.r.] dall’altro, avevano prodotto molte più vittime delle stesse operazioni militari. «La ribellione e la rivoluzione, fondate su due discorsi di guerra contro l’invasore scatenarono due meccanismi di sterminio» (S. Juliá). In effetti non si tratta soltanto di massacri che accompagnano il passaggio degli eserciti, scia sanguinosa, in Andalusia o in Estremadura, dell’Armata d’Africa o, in Aragona, delle colonne [anarchiche, n.d.r.] di Durruti o di Ortiz. Né soltanto della esecuzione dei prigionieri dopo la vittoria locale di uno dei belligeranti. Per quanto odiose fossero, queste esecuzioni erano l’effetto di una certa logica. Prima di uccidere un ufficiale prigioniero, prima di Huesca, il commissario della brigata del POUM disse a Juan Brea, che le riporta, queste parole: «Che cosa credi che possiamo fare di un ufficiale fascista? In ogni caso, in una guerra civile non esistono prigionieri». Per gli uni, i miliziani erano degli irregolari che si erano posti fuori dalla legge prendendo le armi; per gli altri, i ribelli erano dei faziosi passibili del plotone d’esecuzione. I nazionalisti cedevano ad un’oltranza assoluta quando condannavano a morte comandanti militari colpevoli di non essersi ribellati contro un governo legittimo, quali che fossero le sue inadeguatezze. In entrambi i campi, si oltrepassavano i limiti della ignominia eliminando fisicamente migliaia di uomini, e in numero minore di donne, il cui statuto sociale o la cui funzione erano il peccato capitale. Giornalieri, operai, minatori, istitutori, sindaci, consiglieri, giudici, notai, preti e religiosi erano assassinati a causa della loro condizione. «Ecco la tua riforma agraria!» gridavano a poveri giornalieri dei señoritos [signorotti, proprietari terrieri, n.d.r.] andalusi seppellendo le loro vittime nella terra. Nin [Andrés Nin, politico e antifascista spagnolo, caduto combattendo nel 1937, n.d.r.], considerato in maniera opinabile un eroe in quanto assassinato dagli stalinisti, osserva ironicamente: «Sapete come abbiamo risolto il problema del clero!». Con l’eliminazione, pressoché totale, a Lurida e Barbastro. […] Si trattò di fatto di due contrapposte volontà di sterminio, una più organizF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 zata [quella dei nazionalisti, n.d.r.], è vero, l’altra più istintiva [quella dei repubblicani, n.d.r.], l’una e l’altra esasperate. È incontestabile che la Spagna franchista nacque dentro e attraverso un terrore, che Mola aveva, prima della sollevazione, definito come necessario, e che fu illustrato in maniera tragica, quasi caricaturale, da Queipo de Llano in Andalusia. Risulta allo stesso modo evidente che sul territorio conservato dalla Repubblica [come afferma lo storico Santos Juliá, in un saggio sulle vittime della guerra di Spagna, n.d.r.] «le grandi stragi erano state il risultato del crollo dello Stato e che erano diminuite nella misura in cui lo Stato si ricostruiva». Lo si può ammettere nel caso della Catalogna dove i massacri corrispondono al periodo in cui la CNT [il sindacato anarchico, n.d.r.] è «padrona assoluta di tutto», come si compiacevano di sottolineare molti anarchici, ad esempio Juan Peirats. La riassunzione dei poteri da parte della Generalitat, a partire dalla formazione di un governo pluralista, il 26 settembre 1936, corrisponde a una notevole riduzione della repressione. […] Le esecuzioni massicce nelle città o in regioni che erano passate molto rapidamente nella zona d’influenza nazionalista possono essere spiegate solamente con la volontà di terrorizzare, di eliminare la plebaglia marxista o tutti i soggetti ritenuti pericolosi. Fu soprattutto il caso dell’Andalusia, sotto il proconsolato di Queipo de Llano, ma anche della Castiglia, della Galizia, di Saragozza, della Navarra o di Maiorca, dove la violenza repressiva, senza alcuna ragione, si esercitò con terribile rigore. Come spiegare se non con l’ossessione del repulisti ideologico e dell’epurazione sociale le 8000 esecuzioni di Siviglia, di cui 3028 in città prima del gennaio 1937? I due delegati militari all’ordine pubblico, il comandante Santiago Garrigós Bernabeu e il capitano Manuel Díaz Criado, pronunciarono centinaia di sentenze di morte senza nemmeno ascoltare gli accusati. In altre parole, queste condanne non furono nemmeno il frutto di Consigli di guerra, organizzati solamente a partire dal febbraio 1937. A Cordova, il luogotenente colonnello della Guardia Civile, Bruno Ibáñez Gálvez, Don Bruno, seguì la stessa procedura a partire da liste presentate da persone di fiducia della provincia, dai proprietari fondiari al clero più aggressivo. […] Nella sfilata dell’orrore, il campo lealista non è da meno. È certo che prima della primavera 1937, malgrado Badajoz, Málaga o Siviglia, le vittime furono ancora più numerose nelle zone rimaste fedeli alla Repubblica, per il semplice fatto che lì si trovavano le città più grandi: Madrid, Barcellona e Valencia. Si tratta, questa volta, dell’esplosione di un odio sociale a lungo trattenuto, di una rivalsa rispetto ad anni o decenni di frustrazioni, di umiliazioni, di disprezzo. Il nemico si segnala per il modo in cui si veste, in cui parla, per il suo statuto sociale o giuridico. Arturo Barea, militante di sinistra che si trovava a Madrid fino al 6 dicembre 1936, racconta che un miliziano, dopo aver ricono- UNITÀ 6 Terrore nazionalista e violenza repubblicana 9 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 6 sciuto che era dalla parte giusta, gli confessò: «Sai, ragazzo mio, con l’abito un po’ snob che indossi, avevamo creduto che tu fossi un falangista». Santos Juliá scrive: «Aver mostrato qualche simpatia per le destre, essere cattolico o proprietario di un’impresa, vestirsi bene, portare un cappello, diventarono improvvisamente motivi per morire». B. BENNASSAR, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale, Einaudi, Torino 2006, pp. 100-111, trad. it. V. ZINI UNITÀ 6 Spiega l’espressione «oltranza assoluta», alla luce del fatto che migliaia di persone furono uccise solo per la loro posizione sociale o la loro funzione. Quale obiettivo si ponevano di raggiungere i nazionalisti, grazie alla violenza, nei territori che riuscivano a porre sotto il loro controllo? Spiega l’espressione «ossessione del repulisti ideologico e dell’epurazione sociale». POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 10 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Per il governo e la stampa inglese, Hitler fu a lungo un enigma. L’ambasciatore inglese a Berlino, Sir Horace Rumbold, avvisò subito il ministero degli Affari esteri britannico della pericolosità delle idee contenute nel Mein Kampf. D’altra parte, il governo di Londra tentò con ogni mezzo di evitare un’altra guerra e quindi non reagì alle varie iniziative compiute da Hitler contro il trattato di Versailles, prima fra tutte la politica di riarmo della Germania. Dagli strepitosi risultati del partito nazista alle elezioni del settembre 1930, il Foreign Office ricavava in sostanza la conclusione che l’ascesa di Hitler e il rigurgito di nazionalismo in Germania erano destinati a influenzare il clima politico europeo e a minacciare gli interessi britannici. Si riteneva tuttavia che, qualora non fosse crollata la NSDAP (come erano in molti a prevedere) sotto il peso delle sue evidenti tensioni interne, avrebbe finito per collaborare con il governo assolvendo a un ruolo più costruttivo, che a quel punto avrebbe messo in riga le sue componenti più estremiste. Il giuramento di legalità hitleriano, pronunciato (per motivi tattici) innanzi alla Corte Suprema del Reich a Lipsia nel 1930 – mentre intanto minacciava che «sarebbero cadute delle teste» dopo l’ascesa al potere del nazismo – fu letto come l’indicazione che, di fronte alla concreta possibilità di andare al governo, i suoi toni esaltati fossero destinati a cedere alle ragioni del calcolo razionale, del pragmatismo e della moderazione. Che sotto la patina della retorica Hitler fosse in definitiva un politico come gli altri, con il quale, al di là della ripugnanza per le sue iniziative sul piano interno, era possibile trattare di politica estera sulla base del razionale criterio dell’equilibrio tra rispettivi interessi, e che l’esercizio del potere lo avrebbe moderato, era un’illusione destinata a durare per tutti gli anni trenta […]. Nel 1933, per consenso pressoché unanime, l’idea di sferrare un attacco preventivo contro i tedeschi era senz’altro da scartare. A soli quindici anni dalla fine della guerra, l’opinione pubblica britannica, più che mai desiderosa di preservare la pace, avrebbe offerto ben scarso appoggio a una simile impresa, e le forze politiche se ne rendevano conto. Era il disarmo, non il rischio di una nuova conflagrazione, a costituire il tema dominante – nello stato d’animo del governo come del corpo sociale. E a parte questo, la situazione degli armamenti britannici rendeva l’ipotesi inconcepibile. Non c’era inoltre da attendersi alcun appoggio all’iniziativa da parte degli Stati Uniti, attestati su una posizione di rigido isolazionismo. E alla luce dell’esperienza del 1923, quando le truppe francesi avevano marciato nella Ruhr, innescando in Germania una crisi politicoeconomica dalle vaste ripercussioni internazionali, l’idea dell’attacco preventivo non avrebbe incontrato neppure il favore della Francia. Di fatto, il primo ministro transalpino Edouard Daladier escludeva categoricamente una tale possibilità in un paese democratico. A ogni modo, vista la rapidità con cui Hitler consolidò il proprio potere in Germania ottenendo un vasto consenso popolare, un’iniziativa del genere non era più da prendere in considerazione. […] Il governo britannico non vedeva l’ora di disarmare, e premeva per un disarmo internazionale. In termini ideali, ci vedeva la chiave della pace e della futura prosperità dell’Europa. Concretamente, di fronte alla grave crisi economica interna, Londra intendeva a tutti i costi evitare onerosi impegni sul continente, essendo già fin troppo occupata a salvaguardare i propri interessi nello sterminato impero coloniale e a far fronte alla minaccia dell’espansionismo nipponico in Estremo Oriente. Il disarmo era dunque un fattore vitale. […] Per i britannici si trattava di una concessione sensata, oltre che giusta, in quanto avrebbe eliminato un grave motivo di risentimento. […] Ma le illusioni crollavano inesorabilmente il 26 marzo 1934 con la pubblicazione del bilancio del Reich, da cui risaltava un massiccio incremento delle spese militari. Il 17 aprile, il governo francese rendeva noto che, alla luce dell’evidente riarmo della Germania, ulteriori colloqui sul disarmo non avevano più senso. Alla fine del mese, la Conferenza di Ginevra veniva aggiornata a tempo indefinito. Una prima componente della strategia britannica per imbrigliare il dittatore tedesco era saltata al primo intoppo. L’altra strada da battere era quella di fargli capire che la Gran Bretagna avrebbe saputo difendere i propri interessi. Ma un tale monito, specie con un uomo come Hitler, e di fronte a un riarmo in vertiginosa ascesa, aveva bisogno di essere sostanziato dalla forza. E da questo punto di vista le raccomandazioni di riarmo del Comitato per i requisiti di difesa avevavo sortito scarsi risultati. Sulla questione della difesa aerea, in particolare, erano stati presi provvedimenti assai limitati. Pur essendo noto che la Germania si stava riarmando, tanto più grande fu di conseguenza lo shock quando, nel marzo 1935, Göring annunciò l’esistenza di un’aviazione militare tedesca e Hitler il ripristino della coscrizione, unitamente al progetto di una Wehrmacht di 550 000 uomini – entrambi in aperta violazione del Trattato di Versailles. […] La disponibilità a intavolare un negoziato anglo-tedesco per un accordo navale (destinato a realizzarsi, tra il giubilo di Berlino e la contrarietà dei francesi, alleati di Londra, nel giugno 1935) significò che la Gran Bretagna aveva ormai imboccato a tutti gli effetti il suo fatale indirizzo di politica estera nei confronti della Germania. Incerta riguardo a Hitler, aveva preferito credere alle sue dichiarazioni pacifiche piuttosto che trarre le conseguenze alla lettera dalla lettura del Mein Kampf. I. KERSHAW, Gli amici di Hitler. Lord Londonderry, la Gran Bretagna e la via della guerra, Bompiani, Milano 2005, pp. 58, 65-70, trad. it. A. CATANIA Per quali motivi, nel 1933, l’idea dell’attacco preventivo contro la Germania non risultò praticabile? Negli anni 1935-1936, la Gran Bretagna avrebbe avuto la forza di opporsi a una Germania ormai riarmata? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 L’ambigua politica britannica nei confronti della Germania nazista 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 8 Le reazioni di Hitler a Monaco UNITÀ 6 Hitler accolse la conferenza di Monaco del 29 settembre 1938 con sentimenti contrastanti. Da un lato, era consapevole di aver ottenuto un grande successo personale, ma dall’altro si rese conto che il popolo tedesco accolse la notizia del compromesso raggiunto (che allontanava le prospettive immediate di guerra) con lo stesso sollievo dei francesi e degli inglesi. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 12 L’irritazione di Hitler crebbe vieppiù allorché venne a sapere che la popolazione di Monaco aveva accolto con ovazioni il premier inglese [Neville Chamberlain, n.d.r.] durante il passaggio attraverso la città. Esattamente come due giorni prima a Berlino, il popolo mostrava di non essere pronto per gli altissimi compiti che Hitler intendeva imporgli, e Chamberlain sembrava il personaggio del momento. Ma a scuotere Hitler non erano soltanto l’impartecipazione e l’ormai inequivocabile riluttanza alla guerra da parte della popolazione: a un esame più attento, sarebbe risultato che i suoi malumori avevano alla base motivi ben più complessi. Innegabilmente, il Patto di Monaco poteva considerarsi un trionfo personale: senza far ricorso apertamente alla forza, Hitler era riuscito a strappare territori nient’affatto insignificanti a una coalizione superiore per forze, oltre a prendersi il tanto decantato sistema di fortificazioni della Cecoslovacchia, a migliorare in maniera decisiva la propria posizione strategica, ad assicurarsi nuove industrie e a costringere all’esilio l’odiato presidente Benes: in effetti, [come disse lo stesso Hitler, n.d.r.] «da secoli… nella storia europea non si dava una trasformazione di tale portata senza guerra», mentre d’altro canto il successo di Hitler comprovava come egli avesse dalla sua il consenso proprio di quelle grandi potenze, a spese delle quali era stato ottenuto. […] Ma a Hitler tutti questi successi sembravano ottenuti a troppo alto prezzo. Aveva dovuto infatti apporre la propria firma a un patto che, se anche non poteva legarlo per troppo tempo, tuttavia l’avrebbe fatto quanto bastava per sconvolgere le sue scadenze e quindi buttare all’aria la sua grande concezione: in autunno avrebbe dovuto entrare in Praga, così come, sei mesi prima, era entrato in Vienna; sicché, se vedeva messe in forse le sue scadenze, si vedeva anche privato del trionfo del conquistatore: «Quel tale, quel Chamberlain, mi ha rovinato l’ingresso in Praga», lo udì dire Schacht, e allo stesso modo si espresse Hitler nel gennaio 1939, scuotendo il capo, durante un colloquio con il ministro degli esteri ungherese: non avrebbe mai ritenuto possibile «che la Cecoslovacchia mi fosse per così dire servita su un piatto dai suoi amici». E ancora nel febbraio del 1945, durante una delle retrospettive meditazioni al Bunker della Cancelleria, si scagliò contro la «grettezza del grande capitale»: «Bisognava fare la guerra nel 1938. Era per noi l’ultima occasione per mantenerla localizzata. Ma da tutte le parti ci sono stati interventi per stor- nare la minaccia, tutti hanno vilmente ceduto alle nostre richieste, sicché sarebbe stato estremamente difficile prendere l’iniziativa delle ostilità. A Monaco, ci siamo lasciati sfuggire una possibilità più unica che rara». […] Il bellicismo provocatorio di Hitler era in piena contraddizione con gli effettivi rapporti di forza […]; oggi può considerarsi indiscutibile che, nell’autunno del 1938, uno scontro armato avrebbe visto la Germania soccombere nel giro di pochi giorni. Il giudizio di esperti militari alleati e tedeschi, unito a documenti e statistiche, non lascia dubbi in merito: «Era del tutto escluso», ha dichiarato a esempio [il generale, n.d.r.] Jodl a Norimberga, «che, con cinque divisioni di fanteria in assetto di guerra e sette divisioni corazzate, si potesse resistere, lungo un Vallo Occidentale il quale era null’altro che un grande cantiere, alla pressione di cento divisioni francesi. Dal punto di vista militare, era assolutamente impossibile». Tanto più incomprensibili riescono dunque la cedevolezza e il continuo autoindebolimento delle potenze occidentali, e il loro atteggiamento, al di là dei motivi che stanno alla base della politica di appeasement, si spiega nella maniera più convincente, appunto come fece Hitler, con la psicologia della rassegnazione politica. Sorprendentemente, le potenze occidentali sembrarono non aver preso neppure in considerazione la devastante perdita di prestigio che non poteva non derivare loro dal Patto di Monaco. Francia e Inghilterra videro sfumare quasi del tutto la propria credibilità, la loro parola e i loro patti da quel momento parvero scritti sulla sabbia, e ben presto, soprattutto da parte delle potenze europee orientali, ci si provò ad arrangiare le cose con Hitler per proprio conto. Soprattutto l’Unione Sovietica non dimenticò che, a Monaco, era stata esclusa per volontà delle potenze occidentali, e già quattro giorni dopo la conferenza l’ambasciatore tedesco a Mosca accennava al fatto che «Stalin tirerà le proprie conclusioni», rivedendo tutta la sua politica estera. Nel frattempo, Chamberlain e Daladier avevano fatto ritorno alle rispettive capitali, dove anziché dalle furibonde dimostrazioni di ostilità che si erano attesi, si videro accolti da entusiastici applausi, quasi si volesse, come notò un funzionario del Foreign Office, «celebrare una grande vittoria su un nemico, e non semplicemente il tradimento consumato ai danni di un piccolo alleato». Depresso, Daladier indicò la folla giubilante al suo ministro degli esteri, e sussurrò: «Quegli idioti!», mentre Chamberlain, più ingenuo e ottimista che mai, entrò a Londra agitando in aria un pezzo di carta e annunciando: «Peace for our time!». È difficile riuscire ad afferrare, retrospettivamente, lo spontaneo sentimento di sollievo che ancora una volta unì l’Europa, e ancor più difficile è provare rispetto per le sue illusioni. J. FEST, Hitler, Rizzoli, Milano 1991, pp. 689-691, trad. it. F. SABA SARDI Perché non si può affermare che il governo inglese e quello francese abbiano evitato la guerra a causa di una preponderante superiorità militare tedesca? Spiega l’espressione «psicologia della rassegnazione politica». F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Nella primavera del 1939, dopo che Hitler aveva invaso la Cecoslovacchia e l’Inghilterra si era impegnata a proteggere la Polonia da un’eventuale aggressione tedesca, la diplomazia anglo-francese cercò di coinvolgere anche l’URSS in una coalizione antinazista. Stalin però, invece di aderire alle confuse offerte delle potenze occidentali, preferì stipulare un clamoroso patto di non aggressione con la Germania, al fine di conquistare le regioni più orientali della Polonia. Senza il sostegno della Russia, l’unica grande potenza geograficamente in grado di intervenire nell’Europa orientale, le garanzie anglo-francesi [alla Polonia, n.d.r.] avrebbero perso ogni valore. Francia e Gran Bretagna avrebbero ancora potuto attaccare ad ovest, ma ciò non avrebbe impedito all’esercito tedesco di invadere la Polonia e presentare alle potenze occidentali un fait accompli [un fatto compiuto, n.d.r.] che avrebbe fatto apparire del tutto inutile la continuazione della guerra. C’era niente che la Germania potesse fare per ostacolare i colloqui di Mosca? O meglio ancora, esisteva una possibilità di sostituire ad un accordo anglofranco-sovietico uno sovietico-tedesco, che in caso di guerra avrebbe assicurato la neutralità sovietica e che più di ogni altra cosa sarebbe servito ad isolare la Polonia e a fiaccare la determinazione delle potenze occidentali? Le basi di un accordo erano evidenti. Fino a quando Hitler avesse insistito nel cercare a est il proprio Lebensraum la guerra con la Russia sarebbe stata inevitabile; ma nel breve periodo l’ultima cosa che egli potesse desiderare era di impelagarsi con la Russia prima di aver sistemato la Polonia ed eliminato la minaccia di un intervento britannico e francese. Dall’altra parte, la principale preoccupazione di Stalin era di evitare, o quanto meno ritardare, uno scontro con la Germania, almeno fino a quando la minaccia giapponese avesse esposto l’Unione Sovietica al pericolo di una guerra su due fronti. Privo di alternative, Stalin aveva accettato vari progetti di sicurezza collettiva; egli, tuttavia, provava un’inveterata sfiducia nei confronti delle potenze occidentali, che sospettava stessero tentando di coinvolgere l’Unione Sovietica in uno scontro con la Germania al fine di indebolire entrambi i regimi. Le esitazioni, britanniche in particolare, mostrate nei negoziati in corso non avevano certo contribuito a dissipare i suoi dubbi. […] L’irritazione e la sfiducia generati nel Cremlino dall’atteggiamento britannico trovarono espressione alla fine di giugno in un articolo di Zdanov sulla Pravda intitolato I governi britannico e francese non vogliono un accordo paritario con l’URSS […]. Subito dopo la sua pubblicazione vi fu la ripresa dei colloqui anglo-franco-sovietici, ma ciò potrebbe anche spiegarsi con la mancanza di alternative concrete. Se tale alternativa fosse consistita nell’offrire alla Russia non la partecipazione a una coalizione in cui, in caso di guerra, essa avrebbe dovuto inevitabilmente sopportare il peso maggiore del conflitto, bensì l’opportunità di evitare la guerra e stare alla finestra a guardare la Germania e le potenze occidentali indebolirsi a vicenda, non sarebbe apparsa più attraente? […] Gli ostacoli alla realizzazione di tale progetto erano gli stessi per entrambe le parti: l’estrema diffidenza reciproca e l’impegno pubblico che ciascuno aveva assunto contro l’altro. Per vent’anni Hitler aveva fatto dell’antibolscevismo il tema dominante della sua campagna propagandistica; dopo quello dell’antisemitismo, con il quale si identificava, esso costituiva l’elemento più coerente di tutta la sua carriera, intrinsecamente legato all’obiettivo di conquista del Lebensraum ad est, a spese della Russia. La controparte, nel caso di Stalin, era rappresentata dalla crociata antifascista e dal ruolo svolto dall’Unione Sovietica e dal Comintern nella lotta contro il fascismo, con cui Stalin si era appellato con successo all’opinione pubblica di tutto il mondo. Entrambi dovevano valutare quanto un accordo di qualsiasi sorta, e l’aperta sconfessione dei loro principi che ciò avrebbe implicato, avrebbe danneggiato la loro immagine e quanto ciò avrebbe contato di fronte ai vantaggi politici che ne sarebbero invece derivati. Una volta ripresisi dallo shock, non sarebbe la gente rimasta molto più colpita dall’astuzia mostrata da ciascuno dei due uomini nel convincere l’altro a firmare, che turbata dalla loro incoerenza? Il popolo sovietico sarebbe sicuramente stato grato a Stalin per aver evitato la guerra, e il Comintern avrebbe compreso la necessità di una manovra tattica a difesa della patria dei lavoratori non più compromettente agli occhi di un comunista di quanto lo era stato il precedente attacco contro i socialisti al grido di socialfascisti. I tedeschi sarebbero certamente stati impressionati dall’abilità mostrata da Hitler nel dissipare il pericolo di una coalizione contro di essi, nel compromettere la garanzia delle potenze occidentali e nel riuscire a isolare la Polonia […]. L’elemento decisivo che indusse Stalin a preferire la proposta tedesca fu qualcosa a cui Gran Bretagna e Francia non avrebbero mai potuto controbattere, a prescindere da chi avessero inviato a Mosca e quanto rapidamente vi fossero giunti: la partecipazione non alla difesa dell’indipendenza di un’irriconoscente Europa orientale, quanto alla sua spartizione, e ciò in cambio della promessa di starsene da parte, di acconsentire a non entrare in una qualsiasi eventuale guerra. Non appena divenne chiaro che questo era quanto Hitler era disposto a offrire, Stalin entrò personalmente in scena e prese in mano le redini dei negoziati. A. BULLOCK, Hitler e Stalin. Vite parallele, Garzanti, Milano 2000, pp. 790-792, 799, trad. it. S. MINUCCI Quali vantaggi avrebbe portato l’accordo a Hitler? Quale fu l’elemento decisivo che indusse Stalin a preferire l’offerta tedesca? Che cosa poteva portare Hitler a Stalin, che inglesi e francesi non avrebbero mai potuto offrire? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Germania e URSS verso il patto di non aggressione 13 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 9 10 Il nazismo come risposta alle angosce dell’uomo moderno UNITÀ 6 Secondo lo psicanalista tedesco Erich Fromm, il successo di massa del nazionalsocialismo si spiega con il fatto che Hitler offrì nuove certezze a un popolo disorientato dalle tragiche esperienze della sconfitta militare, dell’inflazione e della disoccupazione. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 14 Con la fase monopolistica del capitalismo, quale si è sempre più sviluppato negli ultimi decenni [E. Fromm scrive nel 1941 – n.d.r.], [...] il sentimento di impotenza e solitudine dell’individuo è aumentato, la sua «libertà» da tutti i legami tradizionali è diventata più pronunciata, le sue possibilità di successo si sono ridotte. Egli si sente minacciato da forze gigantesche e la situazione ricorda per molti versi quella del quindicesimo e del sedicesimo secolo. Il fattore più importante di questo sviluppo è il potere crescente del capitale monopolistico. La concentrazione del capitale (non della ricchezza) in certi settori del nostro sistema economico ha ridotto le possibilità di successo dell’iniziativa, del coraggio e dell’intelligenza dei singoli. Nei settori in cui il capitale monopolistico ha ottenuto le sue vittorie, è stata distrutta l’indipendenza economica di molti. In coloro che si battono, e soprattutto in una larga parte della classe media, la lotta assume il carattere di una battaglia contro ostacoli tali che al sentimento di fiducia e di coraggio personali è subentrato un sentimento d’impotenza e di disperazione. Un potere enorme, benché segreto, sull’intera società viene esercitato da un piccolo gruppo di persone, dalle cui decisioni dipende il destino di una gran parte della società. L’inflazione del ’23 in Germania e il crollo americano del ’29 hanno accresciuto il sentimento di insicurezza e hanno infranto in molti individui la speranza di riuscire grazie ai propri sforzi e la tradizionale credenza nelle illimitate possibilità di successo. [...] Altri fattori hanno aumentato il crescente sentimento di impotenza dell’individuo. La scena politica ed economica è più complessa e più vasta di quel che era solita essere: l’individuo ha meno capacità di penetrarla. Le minacce che ha di fronte a sé hanno anch’esse acquistato proporzioni sempre maggiori. La disoccupazione strutturale di molti milioni di individui ha aumentato il senso di insicurezza. Benché il mantenimento dei disoccupati col denaro pubblico sia stato molto utile per controbilanciare i risultati della disoccupazione, non solo economicamente ma anche psicologicamente, resta il fatto che per la grandissima maggioranza della popolazione il peso della disoccupazione è psicologicamente durissimo da sopportare, e la paura di questa getta un’ombra su tutta la loro vita. Avere un lavoro – non importa di qual tipo – sembra a molti il massimo che possono desiderare dalla vita, qualcosa per cui devono sentirsi grati. [...] F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Contrariamente all’atteggiamento negativo, o rassegnato, della classe operaia e della borghesia liberale e cattolica, l’ideologia nazista venne accolta con ardente favore dagli strati inferiori della classe media, composti di piccoli bottegai, di artigiani e di impiegati. I membri della vecchia generazione formavano, in questa classe, la base di massa più passiva; i loro figli e le loro figlie erano i militanti più attivi. Su di loro l’ideologia nazista – il suo spirito di cieca obbedienza a un capo, e di odio contro le minoranze razziali e politiche, la sua brama di conquista e di dominio, la sua esaltazione del popolo tedesco e della «razza nordica» – esercitava un’enorme attrazione emotiva, ed è stata questa attrazione a conquistarli e a trasformarli in ferventi seguaci e militanti della causa nazista. [...] Nel periodo precedente la rivoluzione tedesca del 1918, la situazione economica degli strati inferiori della vecchia classe media – i piccoli commercianti indipendenti e gli artigiani – era già in declino; ma non era disperata, e c’erano anzi vari fattori che operavano nel senso di stabilizzarla. L’autorità della monarchia era fuori discussione, e appoggiandosi ad essa, e identificandosi con essa, il membro della classe media inferiore acquistava un sentimento di sicurezza e di orgoglio narcisistico. L’autorità della religione e della moralità tradizionale aveva ancora vigorose radici. [...] Il dopoguerra ha mutato considerevolmente questa situazione. In primo luogo, il declino economico della vecchia classe media venne accelerato dall’inflazione, che ebbe il suo culmine nel 1923 e spazzò via quasi completamente i risparmi del lavoro di molti anni. Gli anni tra il 1924 e il 1928 portarono un miglioramento economico e nuove speranze alla classe media inferiore; ma questi progressi furono cancellati dalla depressione seguita al 1929. Come già nel periodo dell’inflazione, la classe media, compressa tra gli operai e le classi superiori, era il gruppo più esposto e perciò il più colpito. Ma ad aggravare la situazione intervennero, oltre a questi fattori economici, dei fattori psicologici. La sconfitta bellica e il crollo della monarchia furono una prima ragione di disorientamento psicologico. La monarchia e lo stato erano stati la solida roccia su cui, psicologicamente parlando, il piccolo borghese aveva costruito la sua esistenza; il loro fallimento e la loro sconfitta mandarono in frantumi le basi della sua vita. Se il Kaiser poteva esser messo pubblicamente in ridicolo, se gli ufficiali potevano essere attaccati, se lo stato doveva mutar forma e accogliere «agitatori rossi» come ministri e un sellaio come presidente, in che cosa poteva riporre la sua fede l’ometto qualunque? Si era identificato in maniera subalterna con tutte queste istituzioni: e adesso, scomparse queste, dove doveva andare? Anche l’inflazione gioca un ruolo tanto economico che psicologico. Fu un colpo mortale al principio della parsimonia, e nello stesso tempo all’autorità dello stato. Se i risparmi di molti anni, per cui erano stati sacrificati tanti piccoli piaceri, potevano andar perduti senza pro- pria colpa, a che pro risparmiare? Se lo stato poteva violare i suoi impegni stampati sulle banconote e sui buoni del Tesoro, di quali promesse ci si poteva più fidare? E. FROMM, Fuga dalla libertà, trad. di C. MANNUCCI, Mondadori, Milano 1987, pp. 104, 109, 168-171 UNITÀ 6 Quali mutamenti economici, secondo Erich Fromm, hanno fatto perdere all’uomo moderno la fiducia nelle proprie possibilità di successo e hanno generato in lui impotenza e disperazione? Negli anni seguenti la fine della prima guerra mondiale, quali fattori generarono, nei tedeschi, angoscia e disorientamento psicologico? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 15 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 11 Il sistema di potere nel regime nazista UNITÀ 6 Nel 1941, il sociologo Franz Neumann sollevò per primo la questione del caos amministrativo che caratterizzava il Terzo Reich; più recentemente, Ian Kershaw ha di nuovo e maggiormente insistito sul ruolo decisivo occupato da Hitler nel sistema di potere nazista: l’autore di questa pagina fa il punto riguardo al dibattito storiografico in corso. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 16 Franz Neumann, giurista e politologo di ispirazione marxista, ha offerto con il suo libro Behemoth, terminato nel 1941 e pubblicato l’anno successivo, la critica più incisiva dell’immagine unitaria proiettata dal Terzo Reich. Lo studioso mette in luce il pluralismo congenito di un regime lacerato da forze che, dietro la facciata abbellita dalla propaganda, si abbandonavano a lotte feroci per strappare allo Stato le sue prerogative [= competenze specifiche – n.d.r.] tradizionali. E così lo Stato classico, lo Stato prussiano, scompariva lasciando il passo ai «quattro gruppi centralizzati, ciascuno operante secondo il Führerprinzip [= principio del Führer, secondo il quale gli ordini emanavano sempre e solo dall’alto, da un capo – n.d.r.], ciascuno con un potere legislativo, esecutivo e giudiziario autonomi». Malgrado la loro rivalità, aggiunse Neumann, tali gruppi, dagli interessi divergenti e dai poteri sempre più estesi – il Partito, l’esercito, la burocrazia e la grande industria -, sapevano concedersi delle tregue e giungere a compromessi, e Hitler si limitava a ratificarli. Ecco ciò che di norma il concetto di policrazia designa, ma che in questo caso è ironicamente capovolto. Utilizzato da Carl Schmitt [il più prestioso giurista tedesco al tempo del Terzo Reich – n.d.r.] negli anni Venti per denunciare l’evoluzione del regime democratico verso una giustapposizione [= un insieme incoerente e caotico – n.d.r.] di istituzioni in grado di eludere un potere di controllo e di decisione unica, tale concetto è diretto da Neumann contro una dittatura che pretendeva di aver restaurato siffatta unità di potere, e che lo stesso Schmitt sosteneva con zelo. La figura biblica di Behemoth, mutuata da Thomas Hobbes, simbolizza il caos generato dalla scomparsa dello Stato e dalla totale assenza di leggi, figura inversa di quel Leviatano a cui andavano le preferenze del filosofo secentesco. L’interpretazione di Neumann [...] coglie nel segno quando sottolinea il pluralismo del regime nazista. [...] Con il proliferare di organi straordinari, che si ritagliavano spazi nelle competenze e negli apparati statali, la struttura del Terzo Reich andò via via assomigliando al costume di Arlecchino, composta com’era di amministrazioni tradizionali e di apparati ibridi [= misti – n.d.r.] tra Stato, Partito e interessi privati. Una realtà che senza dubbio evoca ciò che un altro esiliato, Ernst Fränkel, ha chiamato la dualità dello Stato nazista – ricordiamo che Neumann contestava la possibilità stessa di parlare di Stato – e che rappresentava più l’intrico [= l’intreccio – n.d.r.] che la giustapposizione di uno Stato di diritto e di un regime eccezionale, poiché il primo esisteva soltanto in virtù della tolleranza del secondo, ben determinato a ingrandirsi a sue spese. A tale labilità dell’organizzazione amministrativa del Terzo Reich, aggravata dal fatto che gli organi diventati F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 superflui non venivano mai aboliti (per esempio il piano quadriennale), si affiancava, elemento spesso trascurato, un crescente informalismo giuridico. Innanzi tutto, il confine tra decreto, ordinanza e legge si attenuava e gli stessi giuristi arrivavano ad accettare che una dichiarazione orale di Hitler avesse valore di legge: così successe quando egli, durante un discorso all’inizio della guerra, designò Göring e Hess come suoi successori. Cosa ancor più grave e sintomatica, la legislazione era sempre meno sottoposta al principio di pubblicità, condizione indispensabile per un’amministrazione efficace. Su 650 ordini, decreti e direttive scritti da Hitler, censiti per il periodo 1939-45, 404 non furono pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale». I litigi e le confusioni che ne seguirono furono facilmente immaginabili. Ad esempio, in virtù di un decreto non pubblicato, nel 1939 Himmler fu incaricato del «rafforzamento della razza tedesca», ciò che gli diede il potere di sequestrare le terre degli allogeni [= i non tedeschi – n.d.r.] residenti nelle zone annesse. Ne risultarono impugnazioni davanti ai tribunali, i quali non conoscevano, evidentemente, il decreto in questione. Analogamente l’eutanasia, cioè la soppressione dei malati mentali, iniziata nell’autunno1939, diede luogo a denunce, costringendo il ministero della Giustizia a informare i giudici dell’esistenza di un ordine segreto con il quale Hitler autorizzava l’operazione. Sicuramente dunque ci troviamo in presenza, a proposito del regime nazista, di una struttura sui generis [= del tutto speciale e particolare – n.d.r.], che dà adito [= permette – n.d.r.] di parlare di disordine, e persino di caos. Ma pur ammettendo le difficoltà incontrate dai dirigenti del Terzo Reich ad avere una visione d’insieme e riconoscendo altresì che occorreva loro un sempre maggiore dispendio di energie per mantenere una qualche coerenza, il regime restava, a mio avviso, perfettamente gestibile. Rimanevano organi di coordinamento, quali la cancelleria del Reich e la cancelleria del Partito, e le questioni più complesse erano oggetto di regolari riunioni interministeriali a livello di segretari di Stato, come avvenne nel gennaio 1942 a Wannsee allo scopo di organizzare lo sterminio degli ebrei d’Europa. Il coordinamento era assicurato, anche e soprattutto, da Hitler stesso. Il disgregarsi dell’unità amministrativa aveva come corrispettivo la concentrazione di tutti i fili del potere nelle sue mani. [...] L’alternativa tra monocrazia e policrazia appare così limitatamente pertinente poiché né l’una né l’altra di tali nozioni permettono di rendere conto sia dell’evoluzione delle strutture sia del ruolo decisivo svolto dal Führer. Il concetto di carisma elaborato da Max Weber [sociologo tedesco, attivo nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento – n.d.r.] è a tal proposito più soddisfacente. Per carisma si deve intendere una qualità straordinaria attribuita da un gruppo di seguaci a un personaggio che si presenta come investito di una missione. Il potere carismatico, inteso in senso ideal-tipico [= in linea di principio, come categoria concettuale e interpretativa, a prescindere dai casi concreti – n.d.r.], si distingue quindi sia da quello tradizionale, fondato sul principio ereditario e sul prestigio del passato, sia dal potere legale-razionale, basato su leggi ed esercitato tramite la burocrazia. [...] Uno dei tratti costitutivi del potere carismatico è un certo tipo di atteggiamento e di disposizione. Ian Kershaw ha messo in rilievo quanto vi fosse di emblematico nella formula di un alto funzionario nazista che esortava a «lavorare in funzione del Führer». Non era sufficiente ubbidire, bisognava fare propria, persino anticipare con atti, la politica di Hitler. Ora, una simile condotta si insinuò in gran parte delle istituzioni, ben al di là del nucleo carismatico [= il gruppo iniziale, relativamente ristretto, che aveva recepito il messaggio di Hitler – n.d.r.], e contribuì alla realizzazione di obiettivi che erano letteralmente fuori legge e che talora venivano addirittura presentati come un semplice desiderio del Führer. In tal modo appare più comprensibile la partecipazione di tanti apparati alle imprese criminali dei nazisti. P. BURRIN, «Carisma e radicalizzazione nel regime nazista», in H. ROUSSO (a cura di), Stalinismo e nazismo. Storia e memoria comparate, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 74-75, 79-80, 85-86. Traduzione di S. Vacca UNITÀ 6 Da quale autore Neumann assunse il termine policrazia? In che senso esso veniva usato, originariamente? Quale nuovo significato gli attribuì Neumann? In che senso «la struttura del Terzo Reich andò via via assomigliando al costume di Arlecchino»? Che significato occorre attribuire a questa metafora? Che ruolo occupava Hitler nel sistema? Per quale motivo, comunque, l’autorità suprema era nelle sue mani? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 17 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 12 Orientamento liberale e pensiero democratico totalitario UNITÀ 6 Nel periodo compreso tra la Rivoluzione francese e la seconda guerra mondiale, l’obiettivo dei più importanti movimenti democratici (si pensi, ad esempio, al giacobinismo e al comunismo) fu quello di tentare la realizzazione pratica dell’utopia. Il risultato, però, fu un tragico e progressivo slittamento di questi movimenti democratici verso la dittatura e il totalitarismo. POTENZE IN CRISI: GERMANIA E STATI UNITI TRA LE DUE GUERRE 18 L’orientamento liberale sostiene che la politica procede per tentativi ed errori, e considera i sistemi politici espedienti pragmatici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uomo. Essa riconosce anche una varietà di livelli nelle capacità individuali e collettive, che sono completamente al di fuori della sfera politica. Il pensiero democratico totalitario, d’altra parte [= al contrario – n.d.r.], si basa sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica. Esso può essere definito messianismo politico in quanto postula un insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica. Tale orientamento estende l’ambito della politica sino ad abbracciare l’intera sfera dell’esistenza umana; considera tutti i pensieri e le azioni umane dotati di significato sociale, e quindi inclusi nell’orbita delle azioni politiche. Le sue opinioni politiche non sono un insieme di precetti dogmatici o un corpo di espedienti applicabili a un particolare ramo dell’attività umana. Esse sono parte integrale di una filosofia onnicomprensiva e coerente. La politica viene definita come l’arte di applicare questa filosofia all’organizzazione della società e il fine ultimo della politica si raggiunge solo quando tale filosofia regna suprema su tutti i settori della vita. Entrambi gli orientamenti affermano il sommo valore della libertà, ma mentre l’uno individua l’essenza di tale libertà nella spontaneità e nella assenza di coercizione, l’altro sostiene che essa si può realizzare solo attraverso la ricerca e il conseguimento di un fine assoluto e collettivo. [...] Il problema che sorge per la democrazia totalitaria [...] si può chiamare il paradosso della libertà. La libertà umana è compatibile con un unico modello di esistenza sociale, anche se tale modello mira al più alto grado di giustizia sociale e di sicurezza? Il paradosso della democrazia totalitaria consiste nell’asserzione di tale compatibilità. Il fine che essa proclama non è mai presentato come un’idea assoluta, esterna e anteriore all’uomo. Esso è invece concepito come immanente alla ragione e alla volontà dell’uomo, in modo da costituire la piena soddisfazione del suo vero interesse, e da garantire la sua libertà. Questa è la ragione per cui le forme estreme di sovranità popolare sono divenute, nella loro essenza, la esatta realizzazione di questo fine assoluto. Dalla difficoltà di conciliare la libertà con l’idea di un fine assoluto nascono tutti i particolari problemi e le antinomie della democrazia totalitaria. Tale difficoltà si potrebbe risolvere soltanto pensando non nei termini degli uomini come sono di fatto, ma come essi intendevano essere, e sarebbero, nelle condizioni a loro adatte. Fintantoché essi non realizzano l’accordo con tale ideale assoluto, essi possono essere ignorati, costretti all’obbedienza o portati a essa dalla paura, senza che ciò comporti una reale violazione del principio democratico. Nelle condizioni che si vogliono raggiungere, si sostiene che il conflitto tra libertà e dovere svanirebbe, e con esso la necessità della coercizione. Il problema pratico consiste, naturalmente, nel vedere se la costrizione sparirebbe perché tutti hanno imparato ad agire in armonia, o perché tutti gli avversari sono stati eliminati. J.L. TALMON, Le origini della democrazia totalitaria, trad. di M.L. IZZO AGNETTI, Il Mulino, Bologna 1967, pp. 8-10 L’orientamento liberale ritiene possibile, nel futuro, il raggiungimento di una condizione umana perfetta e armoniosa? Spiega l’espressione «messianismo politico». Che cos’è il paradosso della libertà che, secondo J.L. Talmon, è tipico di ogni pensiero democratico totalitario? Quale prezzo comporta il tentativo di trasferire nella realtà l’ideale assoluto? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La guerra di Spagna rappresentò per i diversi gruppi antifascisti l’occasione di combattere in difesa della repubblica spagnola contro le milizie del generale Francisco Franco, sostenuta da Hitler e Mussolini. Tra gli interventi e i discorsi dei diversi leader antifascisti durante la guerra civile, riportiamo parte di quello pronunciato da Carlo Rosselli alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936. Il fondatore di Giustizia e libertà, assassinato insieme al fratello l’anno seguente in Francia, espone la propria convinzione che il conflitto spagnolo sia l’anticipo di un più vasto e prossimo conflitto europeo tra le forze del fascismo e dell’antifascismo, riassumendo il suo invito alla lotta nel motto «Oggi in Spagna, domani in Italia». Ascoltate, italiani. È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Un secolo fa, l’Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti […]. Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell’antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani. Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di De Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. È come nel Risorgimento, nell’epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall’estero vennero l’esempio e l’incitamento, così oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto. È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Spagna. Oggi qui, domani in Italia […]. Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista […]. Un ordine nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. Nelle officine non comanda più il padrone, ma la collettività, attraverso consigli di fabbrica e sindacati. Sui campi non trovate più il salariato costretto ad un estenuante lavoro nell’interesse altrui […]. Comunismo, sì, ma libertario. Socializzazione delle grandi industrie e del grande commercio, ma non statolatria: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l’uomo da tutte le schiavitù. L’esperienza in corso in Spagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani […]! Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei volontari italiani. Sull’altra sponda del Mediterraneo un mondo nuovo sta nascendo. È la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l’Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, così vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perché la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d’inerzia e di abbandono, di riprendere in mano il loro destino […]. Italiani che ascoltate la radio di Barcellona attenzione. I volontari italiani combattenti in Spagna, nell’interesse, per l’ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà, vi chiedono di impedire che il fascismo prosegua nella sua opera criminale a favore di Franco e dei generali faziosi. Tutti i giorni aeroplani forniti dal fascismo italiano e guidati da aviatori mercenari che disonorano il nostro paese, lanciano bombe contro città inermi, straziando donne e bambini. Tutti i giorni, proiettili italiani costruiti con mani italiane, trasportati da navi italiane, lanciati da cannoni italiani cadono nelle trincee dei lavoratori. Franco avrebbe già da tempo fallito, se non fosse stato per il possente aiuto fascista. Quale vergogna per gli italiani sapere che il proprio governo, il governo di un popolo che fu un tempo all’avanguardia delle lotte per la libertà, tenta di assassinare la libertà del popolo spagnolo. Che l’Italia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi […]. Fratelli, compagni italiani, un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona, in nome di migliaia di combattenti italiani. Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti […]. Accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Spagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa. R. BATTAGLIA - R. RAMAT, Un popolo in lotta. Testimonianze di vita italiana dall’Unità al 1946, La Nuova Italia, Firenze 1965, pp. 229-233 Perché l’esperienza della guerra civile spagnola è di «straordinario interesse per tutti», e in particolare per gli italiani? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Oggi in Spagna, domani in Italia 19 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 13