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C`eravamo abituati al fatto che i figli sarebbero stati più facoltosi dei

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C`eravamo abituati al fatto che i figli sarebbero stati più facoltosi dei
[email protected] [email protected]
www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello, aldo
frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
53
220
N° 1
C’eravamo abituati al fatto
che i figli sarebbero stati più
facoltosi dei propri genitori, oggi
invece molti possono ambire
a mantenere il livello
della propria famiglia.
Una situazione talmente nuova che
viene letta come un crollo,
invece è un sanissimo fermarsi in
questa folle corsa verso un profitto
sempre più grande.
Alessandro Baricco
Poveri per scelta
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
di
16
GENNAIO
2016
pag. 2
Marco Geddes da Filicaia
T
orino, Bassano del Grappa, Verona, Brescia! Nel
giro di pochi giorni si
sono verificate quattro morti in
sala parto! Il Ministero ha disposto un’indagine (Audit) per
verificarne le cause, indagine
peraltro prevista come obbligatoria dalle Linee Guida ministeriali per ogni caso di morte
materna, poiché rappresenta
un “evento sentinella”. Questi
eventi mi hanno fatto venire
in mente alcune considerazioni
che forse possono interessare.
In primo luogo qualche informazione “sui numeri”. Le
statistiche collocano l’Italia fra
i Paesi a più bassa mortalità
materna. Tuttavia le statistiche non sono sempre “esatte”
perché dipendono dalla qualità
della rilevazione. Ora è evidente che la “mortalità materna”
è chiaramente identificata dal
flusso informativo corrente
quando, come nei casi citati, la
partoriente muore in ospedale
o addirittura durante il parto.
Tuttavia la mortalità materna è definita come il decesso
durante la gravidanza o entro
42 giorni dal suo termine per
qualsiasi causa legata o aggravata dalla gravidanza. Il flusso
informativo corrente di alcuni
paesi è più accurato di quello
italiano e consente di valutare
tale indicatore con più affidabilità. Questo è il motivo per cui
è stato istituito, in Italia, un
sistema di monitoraggio specifico per la mortalità materna,
seppure applicato attualmente
in sette regioni. Su questa base
– assai attendibile – possiamo
stimare che nel nostro paese
si verificano circa 50 morti
materne ogni anno. Una tasso,
vale a dire un rapporto fra le
morti materne (al numeratore)
e i nati vivi (al denominatore),
di 10 morti ogni 100.000 nati
vivi, che non ci pone “in testa
alle statistiche internazionali”,
dato che nei Paesi Bassi tale
tasso è di 6, ma con un buon
piazzamento, analogo a quello
della Francia e del Regno
Unito.
Anche in questo ambito le
differenze sia per classe sociale/
stato socio economica, ma
anche per regione di residenza
, sono rilevanti, poiché il tasso
Mortalità materna:
ieri e oggi
Tasso di mortalità
materna x 100.000
nati vivi, 2015
Paradosso del compleanno: la probabilità che vi sia una coppia con la stessa data
(giorno e mese) di nascita in relazione al numero di persone che compongono il
gruppo.
di mortalità materna è di 5 in
Toscana e di 13 in Campania!
La seconda considerazione
riguarda un fenomeno che
definirei “percettivo”: con le informazioni sopra esposte di 50
decessi materni l’anno e prevalentemente nel Sud Italia, i
quattro tragici eventi di questo
fine anno non possono essere
un caso! Ci si attende infatti
circa un evento alla settimana
su tutto il territorio nazionale!
Questa convinzione, o sensazione, deriva appunto da un
fatto percettivo. Cioè mentre
noi, guardando l’andamento
di un anno, ci stupiremmo se
si trovasse il ripetersi di un determinato evento ad un ritmo
regolare (uno la settimana) e,
anzi, si sospetterebbe – giustamente – tale regolarità come
organizzata artificialmente, ci
meravigliamo dalla coincidenza
di eventi, in una distribuzione
casuale, quando osserviamo
una “finestra temporale”!
Faccio un esempio classico:
in un gruppo di 25 persone
occasionalmente (casualmente)
insieme, ad esempio in una
cabina di una funivia, se ci
sono due persone che hanno la
stessa data di nascita qualcuno
si sorprenda!
Nessuna meraviglia, in realtà,
come ha dimostrato Richard
von Mises nel 1939, definendolo “il paradosso del compleanno” . Tale possibilità – o
più correttamente Probabilità
– risulta superiore al 50% se
le persone sono 23 (P =0,51)
e raggiunte lo 0,70 con 30
persone. Se poi il gruppo fosse
di 365 persone e nessuno fosse
nato nello stesso giorno, io
sarei certo che vi è stata una
selezione e non una distribuzione casuale.
I motivi di questa distorsione percettiva non mi sono
chiari. Forse si tratta di un dato
evolutivo: il ripetersi di eventi,
nel tempo e nello spazio, sono
un segnale, collegabili ad una
causa – potenzialmente utile o
pericolosa – e la nostra percezione si è evoluta segnalandoceli, con soglie “prudenziali”,
come qualche cosa di anomalo
su cui puntare l’attenzione.
Perché si muore di parto? Le
ragioni sono varie; alcune,
come l’eclampsia, la trombosi o
l’embolia da liquido amniotico,
sono difficilmente prevenibili
e trattabili e risultano percentualmente più frequenti là dove
Da non
saltare
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pag. 3
la mortalità è molto bassa,
come in Olanda. Altre come le
emorragie e la sepsi, che sono
certo emendabili, sono la causa
più diffusa di morte nelle aree
del pianeta in cui la mortalità
materna è ancora assai rilevante
In Italia, dove ora la mortalità materna è di circa 10 x
100.000, nel 1966 era di 75 x
100.000! Alla fine dell’Ottocento era del 364 su 100.000,
e la causa prevalente era la
febbre puerperale (o sepsi), una
patologia che si è fortemente
ridotta in larga parte del mondo. Come è stato possibile contrarre così drasticamente questa
causa di morte? In modo assai
semplice: lavandosi le mani.
E qui torna alla mente la storia
di Ignaz Philipp Semmelweis,
medico di origine ungherese.
Assunto nel reparto di ostetricia dell’Allegemein Krankenhaus di Vienna, allora
l’ospedale più grande e più
famoso del mondo, nel 1846
vi svolgeva la sua attività quale
assistente incaricato. La clinica
aveva due reparti di ostetricia,
il primo frequentato dagli
studenti e il secondo dalle
ostetriche. Semmelweis, avendo
osservato l’alta frequenza dei
decessi nel reparto frequentato
dagli studenti di medicina,
effettuò una rilevazione sistematica della mortalità nei due
reparti, utilizzando la accurata
documentazione che veniva
annualmente archiviata.
La sua indagine prese in
considerazione la mortalità per
febbre puerperale nella I Clinica ostetrica (frequentata dagli
studenti di medicina) e nella II
Clinica ostetrica (frequentata
dalle ostetriche), per il periodo
1841 - 1846, anni in cui tale
patologia colpiva duramente le
partorienti fino ad uccidere 1/6
delle pazienti.
I risultati misero in evidenza
che la mortalità nel reparto
frequentato dagli studenti era
tre volte superiore (9,93%)
rispetto a quella del reparto
affidato alle ostetriche (3,88%),
con differenze altamente significative.
Semmelwes aveva notato che la
febbre puerperale si era diffusa
in coincidenza con l’introduzione delle autopsie. A seguito
del decesso di un suo amico,
Jacob Kolletschka, professore
Ignaz Philipp
Semmelweis (1818
– 1865)
Marco Geddes da Filicaia
e le statistiche
della mortalità
in sala parto
di medicina legale, che si era
tagliato con un bisturi mentre
effettuava un’autopsia, si convinse che alcune “particelle di
cadavere” entrassero in circolo
e che gli studenti di medicina
entravano in contatto con tali
agenti durante le autopsie e li
trasmettevano alle puerpere
durante la visita. Le convinzioni di Semmelweis si basavano
sulle seguenti osservazioni:
• in ciascuna delle due divisioni di ostetricia avveniva lo
stesso numero di parti, da 3000
a 3.500; la differenza consisteva
che nella prima divisione i parti
erano effettuati dai dottori con
la collaborazione degli studenti,
nella seconda dalle ostetriche e
studentesse di ostetricia. Nella
seconda clinica la mortalità era
nettamente inferiore
• la febbre puerperale era rara
nei parti a domicilio e perfino
nei parti che avvenivano nei
vicoli, cosa non rara fra certe
categorie di popolazione; in
questa casistica la mortalità era
bassa
• mortalità e incidenza della
febbre puerperale non erano
correlate alla stagione, come
evidenziavano le statistiche
dell’ospedale, a differenza di
quanto avviene per altre epide-
mie
• la chiusura della I° clinica
ostetrica, che era stata attuata a
causa di alcuni lavori di riorganizzazione, riduceva nettamente la mortalità
Nel maggio del 1847 Semmelweis raccomandò a tutti
gli studenti che frequentavano
i reparti di ostetricia di non
maneggiare cadaveri prima
della visita e introdusse precise
norme igieniche all’entrata in
servizio nel reparto di degenza,
consistenti nel lavaggio delle
mani con acqua calda e sapone,
nella pulizia delle unghie, nel
risciacquo con un disinfettante
(soluzione di cloro). A seguito
di tali provvedimenti la mortalità crollò e si ridusse ulteriormente, avendo prescritto il
lavaggio delle mani anche dopo
ogni visita ostetrica, sulla base
della intuizione che il contagio
potesse realizzarsi anche fra
partorienti.
Le ipotesi di Semmelweis non
trovarono ampio accoglimento
nel corpo medico; andavano
infatti contro le ipotesi più diffuse che attribuivano la febbre
puerperale all’aria malsana (la
teoria miasmatica); ancora nel
1864 nella clinica ostetrica di
Vienna, al fine di prevenire
tale patologia, venivano infatti
istallati complessi impianti di
ventilazione.
Il problema che si poneva – e
che in parte si pone anche
oggi – è la messa in discussione del paradigma che l’opera
del medico non sia benefica
o tuttalpiù non efficace, ma
addirittura portatrice di pericoli anche mortali. E’ questo
paradigma mentale che faceva
da muro alla accettazione delle
teorie del dottor Semmelweis
nonché alla applicazione dei
provvedimenti da lui suggeriti.
La sua drammatica storia (morì
in manicomio) è stata oggetto
di molteplici scritti, fra cui la
tesi di laurea di Louis-Ferdinad
Céline, e ha ispirato numerose
opere: il film di Fred Zinnemann del 1938, “That Mothers
Might Live”, primo di una
lunga serie di pellicole su Semmelweis, e anche un dramma
teatrale, di Giuseppe Sermonti.
A lui è ora intitolata l’Università di Budapest, fondata nel
1769 dall’Imperatrice Maria
Teresa d’Austria.
riunione
di
famiglia
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Le Sorelle Marx
“No, no e poi no, Dario! - tuona imperioso da un capo del filo telefonico
l’assessore Bettarini al commerci del
Comune di Firenze – La licenza
per spillare cioccolata calda a quei
sabaudi di Venchi non gliela do.
Ma che sei grullo? Questi prima
di tutto son juventini e siccome ci
rubano sempre le partite al Franchi,
sicuramente ci fregano anche sulla
cioccolata, ché invece di bicchieri da
20 cl. li fanno da 18 cl. Poi, al mio
paese, a Borgo S.Lorenzo, la cioccolata la facciamo di molto meglio!”
“Ma dai, Giovannino, non far le
La cioccolata
bizze, via. - implora accomodante
Nardella - Questi ci portano al
TAR e poi se vincono ci tocca far
mettere anche il thè arabo alla spina
in via de’ Calzaiuoli. Poi magari
fanno anche la spremuta di kebab
questi minimarket di merda. Via,
giù, dammi una mano”
“Una mano? Te la do nel viso se non
la smetti. Questi sono due esercizi
di vicinato e quindi non possono
somministrare, punto e basta!”
“Va bene, gli dico di non fare eser-
cizi rumorosi altrimenti il vicinato
si innervosisce: così gliela dai la
licenza?”
“Oh ma sei scemo? Esercizi vuol dire
negozi, capito? Loro non hanno i
requisiti amministrativi per somministrare, chiaro?”
“Ma dai, allora potrei proporgli di
mettere un bel dehors per la somministrazione. Sai, quei dehors che
ho inventato io quando ero assessore
al commercio con Renzi: ecco sotto
quelli si può far di tutto”
I Cugini Engels
Giani cavaliere
Si preparano tempi bellicosi, nei quali
solo cavalieri senza macchia e senza
paura, protetti da una spessa corazza
e pronti alla pugna, potranno salvarci
dalle orde degli infedeli al soldo del
Feroce Saladino. Grandi guerrieri
saranno in prima fila a fermare
l’invasione, prestando coraggiosamente
il petto agli assalti e capaci di disarcionare le cavallerie nemiche: a loro
soltanto potremo affidare la sicurezza
della nostra civiltà occidentale, che
affonda le sue radici nella tradizione
comunale del Medioevo.
Non stiamo parlando, come i più
potrebbero pensare, di una descrizione retorica dello scontro di civiltà
che taluni ritengono essere in corso
fra Europa e Oriente, con migliaia
di profughi che premono alle porte e
pericolosi terroristi che seminano il
panico nelle nostre città. Tutt’altro.
Siamo, invece, di fronte ad una nuova
iperbole del pirotecnico presidente del
Consiglio Regionale della Toscana,
Eugenio Giani. Così si è presentato ai
suoi fan sui social network: elmo stile
XVII secolo, più propriamente detto
“borgognotta”, evoluzione dell’elmo
normanno, che lascia scoperto il viso e
caratterizzato dal coppo crestato, tesa,
gronda e guanciali incernierati, nella
sua variante da “zappatore”, usata
negli assedi delle fortezze. Alabarda,
lama di scure sormontata da una
cuspide per perforare la corazza dei
cavalieri avversari e uncino per scaraventare a terra gli assalitori, diffusa
massicciamente in Europa dai successi
militari dei mercenari svizzeri a parti-
La Stilista di Lenin
Lo Zio di Trotzky
Il Pap’occhio
Siamo stati fra gli sfortunati
presenti ai 24 minuti della predica-show di Roberto Benigni per
la presentazione del nuovo libro
di Papa Francesco pubblicato da
Piemme (una delle tante isole
editrici del nuovo colosso cartaceo Mondozzoli, recente fusione
fra la Mondadori e la Rizzoli).
Francesco ha poi ricevuto tutta
la compagnia di spettacolo con
in testa Marina Berlusconi. Noi
che eravamo grandi ammiratori
del comico toscano (Benigni non
Renzi naturalmente). Siamo stati
colti da una profonda tristezza e
nostalgia per la freschezza e grandezza del Roberto di Televacca, di
re dal XIV secolo. Ecco il nostro
lanzichenecco di Toscana, pronto alla
pugna consiliare, in posizione di guardia. “Quest’arme terribile, - ci ricorda
Giuseppe Grassi nel suo Dizionario
militare italiano del 1833 - colla
quale si poteva caricar di punta il nemico, od arrestarne l’impeto, si crede
introdotta per la prima volta in Italia
dagli Svizzeri nella prima loro calata,
l’anno 1422; l’adopraron poscia e
per lungo tempo i soldati Tedeschi
chiamati Lanzi.” Arma con la quale
Pallade doma il centauro nell’opera
di Botticelli del 1482. Purtroppo la
stazza di Eugenio è assai lontana
dalla silfide Pallade, ma i nemici ch’ei
fronteggia son ben più micidiali del
povero centauro... anche se, per dir la
verità, mezzi uomini e mezze bestie
molti ve ne son al giorno d’oggi. Giani, come sempre, interpreta il segno
dei tempi ... ma quelli medievali.
“Berlinguer ti voglio bene” e tanto
altro ancora degli anni settanta. Ci è apparso un infatuato
Benigni, ormai raffinato teologo,
aureolato in odore e sapore di
beatitudine. Abbiamo atteso
invano che all’udienza col papa
argentino scattasse e lo prendesse
in collo, come ai vecchi tempi, ma
nulla di tutto ciò. Oppure che si
rivolgesse a Sua Santità chiamandolo Bergogliaccio o più semplicemente Caro Papocchio, come era
solito fare in gioventù. Almeno
poteva fare un bel gesto dadaista
sollevando da terra la Marina e
piroettare con lei fra le stanze del
Vaticano, almeno per vedere se
riusciva a farla sorridere a bocca
aperta donandole così uno spunto
di umanità.
Pitti
è tornato
Tempo di Pitti e dunque di calzini e
polpacci bene in vista per le strade della
città. Uomini (molte meno le donne,
vorrà dire pur qualcosa) portati a spasso
dai propri vestiti per Firenze, feste e
l’illusione che per qualche giorno ci si
possa sentire come un venerdì pomeriggio normale in Corso Como a Milano:
fashion, fichi e affamati viste le porzioni
minimal dei buffet. Roba che al mitico
Eugenio Giani ne servirebbero venti o
trenta per raggiungere la quantità di
calorie che normalmente assume negli
otto o nove appuntamenti con buffet che
frequenta quotidianamente. Peraltro
avete notato che l’immancabile Eugenio,
dimostrando un senso del limite invi-
“Sì, bel capolavoro tu hai fatto con
quei troiai di dehors: io non li avrei
messi nemmeno in piazza Romagnoli a Borgo, figurati se le fo’ mettere in
via de’ Calzaiuoli a Firenze. Anzi,
a dirti il vero vorrei bruciarli tutti
quelle schifezze!”
“Oh, non ti permettere sai: come
osi criticare una cosa fatta sotto la
illuminata amministrazione di
Matteo? Comunque, te fai come
vuoi: se si perde al TAR, ti rimando
nel Mugello e ti garantisco che non
ti prendono nemmeno a fare lo
stradino a Ronta. E poi lo trovo io il
sistema di risolvere questa faccenda:
metto in campo Braghero e ci pensa
lui, che è anche Piemontese come
loro! click”
“Ora intanto faccio un bel post su
Facebook e risolvo il problema:
Grazie Ministro Franceschini per la
bella visita che hai riservato alla città in occasione di Pitti. L’occasione è
servita anche per parlare dei progetti
comuni per Firenze a partire dalla
tutela delle botteghe storiche che in
tutte le città d’arte sono rimpiazzate
da attività commerciali di bassa
qualità e degradate. Come? Con un
vincolo alla destinazione commerciale dei negozi storici scovato da
una normetta del codice dei beni
culturali e che a giorni sarà disciplinato per la prima volta a Firenze in
modo particolare con il regolamento
Unesco. I nostri caffè storici, le nostre
botteghe artigiane non possono chiudere lasciando spazio a minimarket
dozzinali come se nulla fosse...
E così ci metto anche la spillatrice di
cioccolata calda!”
diabile, frequenti qualunque occasione
conviviale cittadina salvo proprio le
feste modaiole di Pitti? Sarà perché la
maggior parte dei frequentatori non
votano a Firenze o in Toscana? Meglio
per lui così però, perché il rischio è quello
che correva Renzi prima e Nardella oggi.
Il premier, cercava, seguendo la propria
indole di Zelig, di mimetizzarsi, agghindandosi a fashion victim e risultando
il più delle volte ridicolo o fuori posto.
Nardella invece non concedendo niente
alla moda del momento e mantenendo
l’aria tristanzuola che sempre lo caratterizza, risulta un alieno appena atterrato,
ma comunque sorridente. Ma Pitti,
insieme alle bestemmie degli automobilisti, resta questo qua, oltre all’occasione
per chi ci lavora, un simpatico diversivo,
un vorrei ma non posso, di una provincia che nemmeno più ambisce a farsi
metropoli.
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2016
pag. 5
Alex Ten Napel
Persi nel tempo e nello spazio
Danilo Cecchi
[email protected]
di
F
ino dalle origini della fotografia, il tema su cui si sono
maggiormente concentrate
le energie di ricercatori e studiosi,
è stato quello della restituzione
dell’immagine del volto umano.
Non è certamente un caso se il
primo obiettivo fotografico, progettato in maniera specifica per gli
impieghi fotografici, è stato quello
luminoso da ritratti di Petzval, e
non è un caso se i primi professionisti di successo della fotografia
sono stati i “ritrattisti”. Preceduti
da una tradizione pittorica secolare, i fotografi ritrattisti vi attingono
a piene mani, in maniera talvolta
ingenua, talvolta subdola, alla
ricerca di un metodo per esaltare
le caratteristiche fisiche del volto,
ma solo alcuni riescono ad andare
oltre i limiti del ritratto pittorico,
cercando di riprodurre non solo
l’aspetto esteriore del volto nei suoi
tratti caratteristici, ma di restituire
anche la complessa psicologia del
personaggio. Il rapporto dell’uomo
con la sua immagine, da sempre
conflittuale, si ricompone attraverso la fotografia, ma attraverso
questo passaggio finisce per complicarsi ulteriormente. Di fronte
alla fotocamera le persone recitano
e si atteggiano, modificano la
propria espressione e contraggono
i propri lineamenti, nel tentativo
di assomigliare ai loro modelli
ideali. Quella della fotografia del
volto è una estetica del desiderio, e
solo nelle immagini scattate senza
la partecipazione cosciente del
personaggio diventa una estetica
dell’imprevisto.
L’olandese Alex ten Napel, nato nel
1958 e residente ad Amsterdam, si
è fatto notare per una selezione di
immagini che rappresentano i volti
di una serie di anziani personaggi,
che per una volta non recitano,
non si atteggiano, non fingono di
essere qualcun altro. Le persone
fotografate da Alex non possono
fingere, perché non conoscendo
la propria identità, non possono
immaginare di essere qualcun altro.
Hanno perduto la coscienza di chi
sono, di dove sono e di quello che
sta accadendo intorno a loro. Sono
persone affette, in maniera spesso
avanzata, dal morbo di Alzheimer.
Persone le cui capacità cognitive e
di memoria sono fortemente indebolite, oppure annullate. I tratti del
volto non esprimono né determinazione né volontà, ma solo stati
d’animo confusi, che oscillano fra
l’indifferenza, l’inconsapevolezza,
la preoccupazione, l’angoscia o
la paura. Gli sguardi sembrano
inseguire qualcosa, ma si tratta solo
di illusioni, ricordi vaghi, sensazioni mutevoli. Nella maggior parte
dei casi dietro agli sguardi c’è il
vuoto, l’orrore di non riconoscere
niente del mondo che li circonda,
né persone né oggetti, né luoghi né
cose. Sospesi in un luogo ed in un
tempo che non esistono più, che
hanno perso ogni significato, gli
occhi guardano ma non vedono,
non riconoscono, non riescono a
dare ordine alla realtà. La loro vita
è limitata a pochi ricordi disordinati, confusi e sovrapposti, sempre
più deboli. Non si dovrebbero
giudicare le fotografie per quello
che non mostrano, ipotizzando
significati al di fuori di quello che
vi è raffigurato, e ci si dovrebbe
limitare a leggere solo quello che
esse contengono, ma nei ritratti di
Alex si legge qualcosa di diverso
dai ritratti che siamo abituati a
vedere. Anche se guardano verso il
fotografo, quei volti smarriti non
sono coscienti di essere fotografati,
non partecipano alla costruzione
dell’immagine, non si sottraggono
allo sguardo, ma lo ricambiano con
indolenza, disinteresse, noncuranza. Persi in se stessi, senza riferimenti con il mondo esterno, senza
curiosità di ciò che li circonda, si
offrono alla fotocamera in tutto il
loro candore e la loro trasparenza, senza alcuna maschera, senza
alcuna barriera. Questi ritratti,
come ogni altro ritratto, servono
per ricordare, ricordare anche chi si
è dimenticato di noi e del mondo. Servono per non dimenticare
l’importanza di guardare in faccia
le persone. Sempre, anche e soprattutto quando non le possiamo più
capire.
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GENNAIO
2016
pag. 6
Laura Monaldi
[email protected]
di
I
l movimento Fluxus non
determinò soltanto la
maggiore aderenza alla
vita quotidiana dell’Arte e
della prassi artistica dei nascenti
intellettuali, ma ebbe anche
slanci dissacranti e provocatori, sintomatici del sentire
social-politico degli emblematici
anni Sessanta e Settanta. In un
contesto storico denso di guerre
dilanianti, rivoluzioni culturali e
progresso tecnologico, fra aporie
e contraddizioni, fu lecito per
la nuova generazione di artisti
osservare il mondo oltre l’apparenza situazionale e assaporare il
proprio presente da punti di vista inediti e inaspettati. Nel vortice delle esaltazioni estetiche,
delle celebrazioni interdisciplinari, della cooperazione senza
limite e della sperimentazione
senza freni la ricerca di Wolf
Vostell si pone a metà strada
fra la consapevolezza dell’artista
moderno di essere portatore di
nuova ideologia e la necessità
di mettere in luce una nuova
forma di pensiero critico, capace
di non sublimarsi alle tendenze veicolate, ma di progredire
partendo da tutto ciò che il
mondo non vede o che fa finta
di non vedere. Gli happening di
Wolf Vostell furono una forma
artistica intima e privata che
rifletteva la condizione d’isolamento dell’era post-bellica, con
lo scopo di provocare reazioni e
partecipazioni degli spettatori,
ormai passivi e irrigiditi dalle
contingente mass-mediatiche.
In tal senso la televisione non
si configurò come un nuovo
mezzo di comunicazione dalle
ampie possibilità, bensì come
una pagina vuota. L’accezione
negativa del termine spinse alla
creazione di differenti livelli di
realtà da sovrapporre, apparentemente contraddittori e privi
di legami, che si moltiplicavano
senza sosta e senza meta, seguendo il principio della decostruzione. L’enorme potenzialità
massificatrice del mezzo televisivo, nonché dei videotape e
delle video-installazioni furono
messi in discussione e, al tempo
stesso, venne criticata anche la
mitologia tecnologica, denunciando l’alienazione collettiva
che ne conseguì. Il gesto decostruttivo dell’artista rappresenta
quindi un atto di liberazione dal
controllo del Sistema: un’uscita
dalla dimensione oggettuale
dadaista al fine di “atterrare” nei
terreni concettuali e simbolici
dell’azione. Non a caso il décoll/age, fulcro della poetica di
Wolf Vostell, è un processo che
pone l’accento sui fenomeni
violenti dell’era contemporanea,
è un modo di impadronirsi dei
corsi e ricorsi distruttivi della
vita, è «accidente, morte, lotta,
vita, cambiamento, riduzione,
problema, disturbi, merda,
febbre, traspirazione, aborto,
esclusione … principi psicologici … la sovrapposizione di
visibile e invisibile … dolore,
diarrea, pattumiera, il tuo essere
strappato». Di conseguenza i
concetti di lacerazione, cancellatura, interferenza e deformazione rispecchiano l’idea che
l’Arte è una forma dialettica
che provoca e suscita emozioni
fortissime ai margini dell’ansia
e della rabbia, che conduce il
fruitore nel punto esatto di fu-
La provocazione del lupo
Wolf
Vostell
sione fra l’Eros e il Thanatos, fra
la pulsione di vita e l’istinto di
morte, fra l’amore e la violenza.
Quella di Wolf Vostell è un’indagine sulla provocazione che
non ha bisogno di spiegazioni,
ma prende a prestito i documenti dell’oggi per restituirli al
mittente sotto una nuova veste,
più dissacrante e veritiera, più
consapevole ma terribilmente
pessimistica.
Sopra Senza titolo, 1971
Assemblaggio
cm 40x33,7
A fianco La revoluzione de la televisione
n.4, 1990
Tecnica mista e assemblaggio su tavola
cm 115x72x22,5
Tutte le immagini Courtesy Collezione
Carlo Palli, Prato
16
GENNAIO
2016
pag. 7
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
C
ome sa chi ci legge, David
Bowie è morto il 10 gennaio per una malattia incurabile. Crediamo che parafrasare
le note biografiche già apparse
sulla stampa non avrebbe senso,
anche perché una vita artistica
lunga e ricca come la sua non
potrebbe essere riassunta nel
poco spazio di cui disponiamo.
Chi vuole conoscerlo meglio
potrà integrare l’ascolto dei suoi
dischi con la lettura del libro The
Complete David Bowie (Titan
Books, ultima ristampa 2011),
scritto da Nicholas Pegg.
Quello che ci lascia Bowie è un
monumentale bagaglio di suoni,
colori, immagini e parole: da
dischi come Hunky Dory e i tre
del periodo berlinese (Low, “Heroes” e Lodger) alle parti di attore
in film come Furyo e L’uomo che
cadde sulla Terra.
In quest’ultimo, tratto dal
romanzo omonimo di Walter
Tevis, David interpreta la parte
di un alieno: in questo modo
l’artista ribadisce quell’interesse
per la fantascienza che lo consacra come alieno del rock.
Questa passione sarà poi ereditata dal figlio, il regista Duncan
Jones, che realizzerà film come
Fabrizio Pettinelli
[email protected]
di
Come accennato, poiché “Semel
in anno licet insanire” (gli Accademici della Crusca stanno ancora
dibattendo se attribuire la primogenitura della locuzione a Seneca
o a Sant’Agostino) “annualmente,
in occasione della scadenza delle
nomine dei magistrati, veniva
indetto dagli accademici uno stravizzo, convito in cui veniva letta
la cicalata, orazione in burla su
un argomento di poco conto, e si
potevano muovere accuse contro
i magistrati del seggio scaduto.
In occasione di questi banchetti,
più o meno sontuosi e solenni
a seconda dell’occasione, venivano servite pietanze prelibate e
ricercatissime”. Di alcuni di questi
stravizzi è rimasto il menù; non
c’è possibilità di sintesi, quindi vi
riporto per esteso, riprendendolo
dal sito ufficiale dell’Accademia
della Crusca, quello del 24 settembre 1656:
Primo servito freddo
4 pasticci di vitella fatti a foggia di
staccio, 4 pasticci a foggia di gerla,
Fratello alieno
Moon e Source Code.
È difficile trovare un altro artista
del ventesimo secolo che sia stato
al tempo stesso attore e cantante,
pittore e compositore. Un’ottima
panoramica di questa versatilità
ci viene offerta da David Bowie
è (Rizzoli, 2013), catalogo della
mostra allestita al Victoria and
Albert Museum di Londra nel
2013 e visibile al Museo di
Groningen (Paesi Bassi) fino al
13 marzo 2016.
L’artista londinese è stato capace
di reinventarsi continuamente, passando dalle complesse
architetture elettroniche di Low
al funky di Young Americans, con
una gamma espressiva che gli
ha permesso di collaborare con
Brian Eno, Robert Fripp, Pat
Metheny e altri talenti.
L’anno scorso questa creatività
inesauribile si è espressa anche in
Via degli Accademici della Crusca
Gli stravizi
degli
accademici
4 pasticci a foggia di bugnola, 2
pollanche d’India entro un vaglietto di pasta, 2 lingue fresche lardate
e trinciate in fette, prosciutto in
casse di pasta, gelatine di vari
colori, biancomangiare in molti
colori, susine di Marsilia, burro
sciringato, tortiglioni, cedreti,
sfogliate, tartere di pesce, insalate,
capperi.
Secondo servito caldo
4 minestre in piatti grandi e uno
di pasticci con piccioncini ripieni
e starne e granellini di galletti e
pistacchi, prugnòli et altro, minestre di prugnòli semplici, pasticci
d’animelle et altri ingredienti,
animelle lardate arrosto, capponi
lessi con petti d’agnellotti, frittura
di granelli, un arrosto sottile.
Terzo servito caldo
Pasticci all’inglese, cioè morbidi;
piccioni grossi lessi adornati di
lattuga ripiena, starne lesse con
cavol nero sopra, polli d’India vecchi cotti in vino, teste di vitella di
latte ripiene, uova lattate di color
verde, minestre di sedani, uo¬va
e tartufi secchi, tommacelle per
ornare un arrosto, petti di vitella
ripieni e fritti, polpettoni e cuore.
Quarto servito d’arrosti
Fagiani adornati colle medesime
un altro modo, come dimostra il
musical Lazarus, messo in scena
a New York poche settimane
prima della sua morte. Speriamo
che questo lavoro venga rappresentato anche in Italia, pur
sapendo che non sarà facile.
Gentile, sorridente, lontano anni
luce dal divismo e dal gossip, si
era sposato nel 1992 a Firenze,
in una chiesa anglicana che molti
fiorentini non conoscono. Una
cerimonia riservata, senza il
clamore dei matrimoni faraonici
che la nostra città ha conosciuto
negli ultimi anni.
“The stars look very different today”, “Le stelle sembrano molto
diverse oggi”, dice una delle frasi
più toccanti di Space Oddity, che
lo impose all’attenzione mondiale nel 1969.
Gran parte degli amanti del rock
nati negli anni Cinquanta, come
chi scrive, sono profondamente
tristi: un altro “fratello maggiore”
ci ha lasciato. Ma rifiutiamo di
salutarlo con un addio, come
hanno fatto molti giornali. Crediamo invece che quando muore
un artista come lui dovremmo
considerare quanto siamo stati
fortunati a vivere nel suo tempo
e a cogliere la sua parabola
proprio mentre questa stava
prendendo vita.
loro penne, tortole adornate con
paste intagliate, capponi adornati
con vermicelli di più colori, piccion grossi adornati di sfogliatelli,
tordi ornati con paste sciringhe e
limoni, stame adornate con gigli,
beccafichi adornati con ciambellette di pasta burrate, pollanche
d’India adornate di limoni lavorati, lombate di vitella adornate
di pagnottelle ripiene, lombate di
daino, lepre adornate.
Quinto servito di frutti
Latte buono, fragole delle montagne di Pistoia, parmigiano in pezzi
grandi, marzolini buoni, raveggioli, pere bergamotte, pere da
quercie, susine simiane, lazeruole
rosse e bianche, sfogliate, migliacci
bianchi, pesche cotogne intere e
in fette, uva ser Alamanna, sedani,
carciofi, noce monde, finocchio
dolce e forte, biscottini freschi,
anaci confetti, scatole di cotognato, stuzzica-denti.
Meno male che alla fine portarono
degli stuzzicadenti per eliminare i
residui delle animelle lardate e dei
beccafichi con ciambellette.
16
GENNAIO
2016
pag. 8
L’Islam in Francia
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
A
Parigi a pochi passi dal
Museo di Storia Naturale,
in rue Georges Despas 6,
si erge la Moschea, la più grande
della Francia e la seconda in
Europa dopo quella di Roma.
Iniziata nel 1922 e inaugurata
nel 1926, la Moschea fu costruita
con i finanziamenti francesi e
di alcuni paesi arabi in ricordo
delle decine di migliaia di soldati
musulmani morti per la Francia
durante la prima guerra mondiale. Fu il primo luogo di culto
islamico costruito in questo paese
che ha la più grande comunità
musulmana d’Europa e la sua
presenza aveva anche il fine di
riaffermare la visione di un Islam
così detto “francese” che accetta
il modello laico e repubblicano
del paese ospitante. La Moschea,
costruita in stile ispano-moresco
e decorata da artigiani magrebini,
ha un maestoso minareto alto 33
metri, un grande patio ispirato
alla Alhambra di Granada, una
sala di preghiera con preziosi tappeti, una biblioteca e un istituto
di educazione religiosa dedicato
alla formazione degli imam. Accanto a questi luoghi di preghiera
e studio ci sono quelli dedicati al
relax con il piccolo ma incantevole hammam, uno dei più vecchi
di Parigi, al quale si accede da
dietro il banco di dolciumi al
pistacchio grondanti di miele, un
fascinoso ristorante dove gustare
uno dei più buoni cous-cous di
Parigi e un giardinetto dove sorseggiare un the alla menta circondati dai tanti uccellini impegnati
a mangiare le briciole dei dolci
lasciate nel piatto. Luoghi molto
frequentati dai parigini perché
fuori dal tempo e dal caos
Nel 2012 Le Figaro aveva rivelato
in un articolo che lo Stato algerino, che finanzia in larga parte la
Moschea, aveva iniziato attraverso
la sua ambasciata a Parigi la procedura per acquisirne la proprietà appellandosi ad una legge
francese che permette ad un paese
straniero che abbia finanziato un
associazione nello Stato francese
per 15 anni di pretenderne la
proprietà. Intervistato recentemente il rettore della Moschea di
Parigi, Dalil Boubaker, ha negato
che la richiesta di acquisizione sia
stata formalizzata ma ne ammette il progetto che mirerebbe a
sviluppare meglio azioni culturali
e di integrazione della comunità
islamica. Il momento certo non
è tra i più favorevoli. Dopo gli
attentati di novembre, nell’ambito dello stato di emergenza,
il ministro degli Affari Interni
francese, Bernard Cazeneuve, ha
dichiarato di voler chiudere le
moschee radicalizzate ed espellere
gli imam che predicano odio. Ma
il confine tra atteggiamenti estremisti e pericolosi e quelli suggeriti
da una visione dell’islamismo
molto ortodossa, non necessariamente illegali, non è sempre
facilmente distinguibile dalla
di
nostra cultura. Per questo può
essere utile ricordare che dopo i
fatti di Charlie il CFCM (Conseil
francais du culte musulman) si
era radunato in tutta fretta per
ribadire il rispetto alla libertà
d’informazione e la condanna alla
radicalizzazione, sostenendo comunque che ognuno deve prendere
le sue responsabilità. Il compito
di CFCM non è quello della
sicurezza ma della prevenzione.
In una recente intervista a France
24 il presidente del Consiglio
Francese del Culto Musulmano,
Anwar Kbibech, sottolinea che
tutti gli imam dei 2500 luoghi di
culto in Francia sono impegnati
in questo lavoro di prevenzione
e lo stesso CFCM ha inviato a
tutte le moschee un sermone da
leggere durante la preghiera del
venerdì che attraverso le parole
del Corano smentisce e condanna
le interpretazioni dei terroristi.
Sabato 9 e domenica 10 gennaio
ha lanciato poi un iniziativa “porte aperte” di tutti i centri di culto
francesi. Un gesto simbolico ma
anche un’iniziativa per riaffermare
quel Islam così detto francese di
pace e fratellanza.
nipote di un eminente religioso
sciita, oppositore del regime,
arrestato nel luglio 2012 e anch’egli condannato a morte.
Sottoscrivere questa petizione
è il minimo che possiamo fare
contro questa crudeltà. In difesa
di Alì sono state già raccolte
oltre 430mila firme. Serviranno
anche a riaprire, risollevare e
rimettere all’ordine del giorno
la cancellazione della pena di
morte. Ovunque.
Pena ancora in vigore in 58 paesi del mondo. Arabia Saudita,
Iraq, Usa, Pakistan: sono i 5 paesi dove viene più utilizzata. A si
aggiunge il capitolo amaro della
Cina. Ma lì non abbiamo dati:
la pena è coperta dal segreto di
stato.
C’è poi il bicchiere mezzo pieno:
nel mondo 140 paesi (oltre due
terzi) l’hanno già abolita. Basti
pensare che solo nel 1977 i
paesi abolizionisti erano appena
16. In poco più di 40 anni ne
è stata fatta di strada. Ma non
possiamo fermarci. L’esperienza
dimostra che la pena di morte
non funziona come deterrente
contro la criminalità, viola il
diritto alla vita ed è irreversibile:
un autorevole studio ci dice che
solo negli Usa, negli ultimi 30
anni, su 7.482 condanne ben
340 si sono rivelate sbagliate.
Un condannato a morte su 5, se
avesse avuto i mezzi per difendersi, avrebbe potuto evitare la
sedia elettrica. Molto meglio e
sicuramente più efficace la certezza della pena piuttosto che la
sua durezza estrema. Tutte cose
ben dette e ben scritte nel lontano 1764 da Cesare Beccarla e
messe in pratica, 20 anni dopo,
proprio in Toscana - primo stato
al mondo ad abolirla – il 30
novembre 1786. Ben fatto.
Remo Fattorini
Segnali
di fumo
Fate la cosa giusta! Firmate la
petizione (ww.change.org) per
salvare la vita ad Alì Al-Nimr,
condannato a morte in Arabia
Saudita. Se non riusciamo a
bloccare questa atrocità Alì
sarà prima decapitato e poi
crocefisso in pubblico fino alla
putrefazione. La sua colpa? Aver
partecipato, quando aveva 17
anni, ad una manifestazione
contro il governo. Resta poco
tempo per provare a salvargli la
vita. La Corte Suprema saudita
ha confermato la sentenza e, per
seguirla, manca solo la ratifica
da parte del re Salman. Nelle
cronache si legge che Alì è anche
16
GENNAIO
2016
pag. 9
Paolo Marini
[email protected]
di
N
ella Pasqua del 2003 feci
il mio incontro con “La
passeggiata” di Robert
Walser. Nella nota a lapis dopo
la pagina di copertina lasciavo
scritto: “divorato”; in corrispondenza con il mio wandering
solitario nei boschi di mezza
Toscana, che già sperimentavo da qualche anno, accadde
subitaneamente che mi identificassi con lo scrittore svizzero,
che già nelle prime due pagine
fissava con “straordinaria altezza
poetica” (l’espressione è coniata
da Emilio Castellani, traduttore
dell’opera per Adelphi) alcune
sensazioni a me note e soprattutto care: “per quanto mi riesce
di ricordare, appena fui sulla
strada soleggiata mi sentii in
una disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi
rese felice” (…). Mi riempiva
un’attesa gioiosa di tutto ciò che
avrebbe potuto venirmi incontro o presentarmisi”. L’atteggiamento che prepara l’uomo
a godere di queste sensazioni
già da allora si proponeva come
una finestra aperta sul mondo,
e sulla vita: fatto di attesa, di
curiosità, di capacità di stupore;
un sentimento impagabile che –
a ben pensare - è alla portata di
chiunque, come un ossimorico
‘privilegio democratico’; che
rischia però di essere silenziato
e sopraffatto dagli imperativi
del fisico perfetto e dalle diete
riparatrici, ove non più latamente dalla orrida dittatura
della o del ‘wellness’. Ma io
avevo - ed ho a tutt’oggi - la
presunzione di ritenere che la
passeggiata di Walser (come,
molto modestamente, la mia)
sia tutt’altra cosa. Un po’ come
la doveva vedere Michel de
Montaigne, uno dei più grandi
filosofi nella storia, che dettò
questa irrevocabile sentenza:
“io passeggio per passeggiare”.
Non necessariamente un atto
di rivolta (contro l’esigenza onnivora di finalizzazione pratica
e diretta), quanto perlomeno
una pausa di libertà, di quella
libertà che quasi hegelianamente consiste nel seguire una
necessità, qui tutta interiore, e vorrei aggiungere – un bisogno
di autenticità: “Questo spazio
dell’autenticità è agli antipodi della società, nella natura,
Io passeggio
per passeggiare
sola condizione di verità della
persona e luogo simbolico della
trasparenza del sé a se stesso” scrive Alain Montandon nella
sua “passeggiata” (anche lui!),
ricordando come in una simile
prospettiva il “marchio necessario del passeggiatore” (il nostro
Walser, come ogni altro) sia la
“marginalità”.
Già allora, nel 2003, mentre
Lido Contemori
[email protected]
di
elaboravo una mia ‘filosofia
del camminare’ – che poi avrei
scoperto per nulla differente
da quella di non pochi altri – mi rendevo conto che la
passeggiata sortiva un effetto
straordinario: essa dava forma
al pensiero; era un suo valore
specifico, oltre che un concetto
passibile di sviluppi sterminati,
che avrei vieppiù apprezzato
con crescenti consapevolezza
e appagamento. Marginalità
sociale, pienezza spirituale.
La grazia dello scritto di Walser
è certamente in grado di aprire
nella mente del lettore varchi insospettatamente fertili,
rispetto al normale svolgersi di
azioni quotidiane mai seriamente riflettute; ovvero, dei
meravigliosi scenari - alcuni dei
quali qui solo accennati. Posso
aggiungere, per averlo vissuto,
che la lettura de “La passeggiata” sia essa stessa una corroborante passeggiata mentale,
divagante e creativa (del resto,
leggere e camminare incedono
con molte analogie nei rispettivi passi), al termine della quale
auguro al lettore/camminatore
di concludere così: “Tutt’a un
tratto mi invase un indicibile
sentimento dell’universo, e
insieme, strettamente unito, un
fiotto di gratitudine, prorompente con forza dall’anima
lieta”.
Il migliore dei Lidi possibili
Il mulino di Wall Street
Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni
16
GENNAIO
2016
pag. 10
Cristina Pucci
[email protected]
di
U
na favola di Natale può
essere ritenuto “Le ricette
della signora Toku”, un film
dall’anima delicata come i petali
dei fiori di ciliegio quando, lievi
,volano a terra, un film in cui l’incontro di tre solitudini e di due
profondissime malinconie provoca, oltre ad un miracolo culinario,
una svolta emozionale terapeutica
per il tristissimo e isolato protagonista. E’ questa evoluzione che
lo definisce favola, la vita non
riserva tali fortunate casualità e
positive evoluzioni. Sentaro prepara, in un minuscolo negozio, i
dorayaki, dolci tipici giapponesi
che contengono un ripieno di
“an”, una sorta di composta di
fagioli azuchi, studentesse ricche
e allegre si fermano per colazione,
una, sola e povera, usufruisce di
quelli riusciti imperfetti. Una
dolcissima signora, che vede la
ineffabile ed eterea bellezza dei
ciliegi in fiore e sa come essa sia
perfetta metafora della caducità
della vita, si presenta rispondendo ad un annuncio in vetrina,
desidera così tanto lavorare lì
che, essendo davvero troppo
anziana, si offre di farlo quasi
gratis. Per convincere l’interdetto
Sentaro gli regala un vasetto di
an preparato da lei, come ogni
giorno, da 50 anni...Dopo averlo
cestinato il cuoco infelice, che si
avvale di industriali barattoloni
di an, ne assaggia il contenuto, il
delizioso sapore sembra conservare attenzione e amore profusi
nella sua preparazione. Cede e si
fa aiutare dalla vecchietta che ha
un evidente problema alle mani,
“più sgradevole a vedersi che
disturbante” dice, le sue dita sono
deformate e la pelle deturpata
da brutte e grosse escrescenze
rossobluastre. E subito uno si
rende conto di non sapere più
nulla della terrifica lebbra, cui
comunque subito pensa riapparendogli alla mente le foto delle
sue mutilazioni viste nei libri di
Patologia, già tanto ricordarsi che
chi la causa è un “mycobacterium” che provoca granulomi
simili a quelli, già complicatissimi, della tbc, sarà guaribile ora?
Sarà infettiva? Ci saranno ancora
i lebbrosari di letteraria memoria?
Toku insegna al “principale” il
suo lento e attento procedimento
di preparazione della an... ascolta
Le ricette
della signora Toku
le storie che i fagioli hanno da
raccontare, ne rispetta il lungo
cammino e li lascia due ore a
familiarizzare con lo zucchero...
Il successo è assicurato, chiunque
si accorge della migliore qualità
dei dorayaki. Qualcuno però si
accorge delle lesioni e qualcuno
Finestrino notte (su orizzonte
piegato)* di Claudio Corfone vince l’ottava edizione del
Premio Santa Croce Grafica, a
cura di Ilaria Mariotti, direttore
artistico del Centro di Attività
Espressive di Villa Pacchiani.
L’iniziativa è realizzata dal Comune di Santa Croce sull’Arno, Assessorato alle Politiche
ed Istituzioni Culturali. La
premiazione ha avuto luogo
sabato 9 gennaio e nell’occasione si è inaugurata la mostra
del Premio, visitabile fino al 31
gennaio.
La Commissione che ha
designato l’opera vincitrice era
formata quest’anno da Stefano
Pezzato, conservatore del Centro Pecci di Prato, dall’artista
Remo Salvadori, da Alessandro
Tosi, Direttore scientifico del
Museo della Grafica di Palazzo
Lanfranchi a Pisa, da Ilaria
Mariotti, Direttore di Villa Pacchiani, e presieduta dall’Assessore alla Politiche e Istituzioni
Culturali del Comune di Santa
Croce sull’Arno
All’ottava edizione hanno partecipato 18 artisti che provengono dal territorio nazionale,
diffonde la notizia della diagnosi,
il chiosco si svuota. Toku se ne va
in silenzio. Sentaro e la ragazzina
sola la cercheranno e noi con
loro scopriremo le storie dei due
protagonisti principali,Toku si era
ammalata da ragazzina e, come
usava, fu accompagnata dal fra-
tello in un “lebbrosario”, dove da
allora vive, sposatasi con un altro
malato, le fecero abortire il figlio
che avevano concepito. La tristezza che annegava la luce degli
occhi di Sentaro le ha ricordato
la sua ed ha desiderato avvicinare
la sua solitudine ed aiutarlo, suo
figlio avrebbe avuto all’incirca
la sua età. Sentaro ha ferito un
uomo gravemente mentre era
ubriaco e, in quanto carcerato,
non ha potuto assistere la madre,
morta lontano da lui, lavora prigioniero di un debito. Toku lascia
i suoi attrezzi da cucina al giovane
allievo, libera il canarino che la
giovinetta povera le ha affidato
in quanto nelle case giapponesi
non si possono tenere animali. Il
cuoco libera se stesso dal giogo
padronale, in un giardino pubblico con un proprio carretto grida
“Dorayaki!!!!” La regista, Naomi
Kawase, ama molto il valore dei
ricordi e delle tradizioni, rispetta
il potere socializzante e pacificatore del buon cibo, ha costretto
i due attori a lavorare davvero in
un chiosco di dorayaki. La storia
è tratta dal libro “An” di Duran
Sekagawa.
Il finestrino
notte di Corfone
o comunque attivi in Italia:
Gabriele Arruzzo, Emanuela
Ascari, Maura Banfo, Angelo
Bellobono, Giovanna Caimmi,
Adelaide Cioni, Claudio Corfone, Marta Dell’Angelo, Alberto
Finelli, Cristina Gardumi,
Michele Guido, Loredana Longo, Franco Menicagli, Rebecca
Moccia, Carmelo Nicotra, Giuliana Storino, Maria Angeles
Vila Tortosa, Stefania Zocco.
16
GENNAIO
2016
pag. 11
di
Vittoria Franco
L
a mostra Names. La violenza non è sempre visibile di
Fiorella Ilario, alla galleria
La Corte Arte Contemporanea
dall’8 al 12 gennaio, è un atto
di coraggio culturale e sociale.
L’artista fotografa ha scelto di
rappresentare un tema difficile,
che produce sofferenza e dolore, la
violenza sulle donne. Ma l’artista fiorentina riesce nell’intento
di rendere la drammaticità del
fenomeno. Lo fa con la raffinatezza che la contraddistingue con
10 fotografie, delle quali 9 sono
varianti di una figura coperta da
un manto rosso, che emerge da
uno sfondo oscuro, buio. Corpi
legati a un semplice nome o figure
anonime. Corpi nascosti, invisibili, destinati a vivere nell’ombra.
È l’espressione plastica di ciò che
la violenza significa nella realtà
della vita di coppia o familiare, in
una relazione distorta. La donna
viene concepita dall’uomo come
un oggetto di proprietà, sottoposta al suo controllo. È lui che
deve disporre del suo corpo e dei
suoi gesti. La violenza è volontà
di umiliazione, di annientamento
della persona umana femminile,
come se la donna avesse un valore
inferiore rispetto all’uomo e quindi se ne può anche abusare, la si
può maltrattare, colpire, annientare. Ma la violenza sulle donne
- che si tratti di violenza psicologica, di maltrattamenti, di violenza
sessuale, economica o della sua
forma estrema, il femminicidio oggi ha una dimensione eticamente e socialmente ancora più grave
e inaccettabile, se possibile, che
nel passato, perché si è accresciuto
il loro valore intrinseco. Sono più
istruite, hanno talento, vogliono
realizzare i loro progetti di vita,
aspirano ad affermare libertà,
capacità, potere. E la violenza esercitata su di loro contrasta e stride
ancora più fortemente con questo
loro rinnovato essere. Si è allargata
la discrepanza fra ciò che le donne
sono e vogliono essere e ciò che
gli uomini vorrebbero che fossero.
Inoltre, sul piano giuridico, si è
ormai affermato il principio che la
violenza contro le donne costituisca una violazione dei diritti
umani fondamentali. Un’acquisizione che deve diventare la base
per costruire una nuova etica
della relazione fra i sessi, fondata
sul rispetto reciproco, sul rispet-
La violenza
di
Names
opinioni a confronto
to della libertà e autonomia di
ciascuno. È infatti ormai evidente
che il più delle volte la violenza
è la reazione maschile a gesti di
autonomia compiuti dalle donne,
vissuti come perdita della supremazia all’interno della relazione di
coppia. Con la violenza si intende
ripristinare i ruoli e i confini
insuperabili per le donne, punire
colei che non sta al suo posto,
che ha superato il limite delle sue
possibilità di azione e decisione. In
di
Carolina Orlandini
Il lavoro fotografico di Fiorella
Ilario presentato venerdì 8 gennaio
negli spazi de La Corte Arte Contemporanea è il risultato di una
ricerca artistica costante e attenta
sul delicato ruolo della donna
all’interno di una società troppo
spesso drammaticamente propensa
a una violenza ingiustificata.
Realizzato per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della
violenza contro le donne, NAMES
- Violence is not always visible, è
l’espressione, attraverso la ripetizione dell’immagine ricorrente di
una donna completamente velata,
di quanto la figura femminile possa
essere ancora oggi occultata e le
violenze subite taciute.
I corpi delle donne ritratte nelle
dieci immagini fotografiche presentate a La Corte emergono dall’ombra in maniera silenziosa, ma con
una potenza dirompente, obbligando chi guarda ad interrogarsi
sull’identità dei soggetti raffigurati,
così celati e nascosti, sui loro vissuti
e sulle loro esperienze.
Capiamo che si tratta di donne
da un piccolo dettaglio, appena
visibile – una scarpa che emerge
fondo, è questa concezione della
donna che è all’origine dei recenti
fatti di Colonia, dove durante la
festa di San Silvestro centinaia di
uomini hanno usato violenza fino
allo stupro su donne che in tutta
libertà vi partecipavano perché
questo era il loro costume.
Se si capisce che all’origine della
violenza sulle donne si nasconde
una questione di potere, una concezione gerarchica della relazione,
si può pensare di fare nuovi patti
fra uomini e donne in un processo
di educazione alla parità, che vuol
dire: eguale dignità, eguale libertà
nelle scelte e eguale autonomia
nelle decisioni, anche quella,
privatissima, di lasciare il partner
senza scatenare reazioni incontrollabili. Lo si deve però fare insieme.
Insieme coltivare la bellezza dell’amore, quello che non può essere o
diventare sopraffazione, dominio,
possesso, ma che è unione fra due
soggetti liberi.
dal velo e dall’ombra – ciò fa sì
che nella nostra testa riecheggino
necessariamente alcune domande:
chi sono queste donne? Da dove
vengono? Cosa provano? Perché
sono coperte?
In realtà, a ben guardare, la figura
è sempre la stessa, ripetuta ma
leggermente variata, come se si
trattasse di una variazione sul tema.
I titoli stessi che accompagnano
le opere (Untitle one, Untitle
two e così via) sottolineano la sua
ripetizione, una donna senza volto
e senza identità, una tra tante,
come purtroppo diviene colei che è
colpita dalla violenza, svuotata del
suo io per essere identificata solo
come una vittima, senza riflettere
realmente sull’emotività di chi
queste drammatiche esperienze le
abbia vissute o le stia vivendo.
Ad aumentare il mistero che circonda questa figura è l’indicazione
di un nome femminile (da qui il
titolo del progetto) che emerge con
brillanti caratteri rossi dall’oscurità
da cui è avvolta la donna e il suo
velo, lettere scarlatte che come
un sottile fil rouge legano tutte le
immagini. Personalmente ho trovato questo dettaglio molto sottile,
come se fosse un rimando indiretto
all’idea che spesso accompagna
purtroppo le donne vittime di violenza: l’imputazione di una colpa
di cui questa donna si è macchiata
per i più e che indirettamente si
estende come una macchia d’olio
su tutte, un marchio che la e le
segna in maniera indelebile.
Quelle di Fiorella Ilario sono fotografie dalla raffinata esecuzione che
hanno sull’osservatore un impatto
molto forte, imprimendosi indelebilmente nella sua mente.
Le sue immagini rievocano alla
memoria, in un dialogo per certi
versi antitetico, quelle dell’artista
iraniana Shirin Neshat, per la
scelta delle modalità con cui sono
esplicitati temi analoghi. Entrambe
istaurano infatti un dialogo figurativo altamente poetico, capace di
scuotere lo spettatore con immagini e muti racconti: divengono così
l’espressione concreta, attraverso le
immagini, di problematiche spesso
drammatiche.
Violenza che si declina quindi in
più forme, da quella “urlata” fatta
di pura violenza fisica, a quella
“silenziosa”, forse ancora più
subdola, fatta invece di violenza psicologica e soprusi, ormai
incorporate nella nostra società,
divenuti luoghi comuni a cui non
si presta attenzione. Emblematico
quindi il messaggio contenuto nel
sottotitolo: Violence is not always
visible - La violenza non è sempre
visibile.
Alla serata di presentazione di
Names hanno partecipato con
una serie di interessanti interventi
Wanna Del Buono (avvocatessa e
tra le fondatrici della Associazione
Artemisia), Vittoria Franco (ex
Senatrice già Responsabile alle Pari
Opportunità) ed Elena Pulcini
(Filosofa), contribuendo con le
loro considerazioni ad arricchire
l’incontro con alcuni necessari
spunti di riflessione su un tema
così delicato come quello della
violenza sulle donne.
16
GENNAIO
2016
pag. 12
di
Ugo Bardi
I
n Via Montelatici, nei pressi
di Piazza Leopoldo, a Firenze,
c’è una misteriosa struttura
dall’aspetto piuttosto malandato.
Cercando sul Web, si trova che è
l’ingresso di un tunnel cominciato
negli anni 1930 e mai terminato.
A parte questo, si sa poco di certo.
Nel 2011, l’allora presidente del
Consiglio Comunale di Firenze,
Eugenio Giani, propose di completare gli scavi, facendo sboccare
il tunnel da qualche parte a Careggi. Ma questo non sarebbe stato
molto utile dato che da Piazza
Leopoldo si arriva facilmente a Careggi con la viabilità esistente. E’
poco probabile che questa sia stata
l’idea iniziale di quando il podestà
di Firenze degli anni ‘30 aveva
fatto cominciare i lavori.
Si dice invece in un articolo recente (www.firenzefuori.
it/2015/09/23/tunnel/) che
l’uscita del tunnel era prevista dalla
parte opposta, ovvero nella zona
delle Cure. Questa sarebbe stata
una cosa molto più sensata che
avrebbe permesso di oltrepassare
il “taglio” della ferrovia che ancora
oggi separa la zona residenziale
delle Cure dal centro di Firenze. Si
dice addirittura che esiste ancora
l’uscita opposta in quella zona e
che è visibile dalla strada. In effetti,
la ricerca di questa uscita è uno
degli obbiettivi del gioco on line
chiamato “geocaching”. https://
goo.gl/RWcUAW. Non è niente
facile a trovarsi, ma c’è effettivamente in quella zona una struttura
che somiglia vagamente a quella di
via Montelatici.
Per non dare uno spoiler a quelli
che si divertono con le ricerche di
geocaching, non vi dico esattamente dove si trova, ma vi posso
dire con buona certezza che quella
NON è l’uscita del tunnel che
parte da via Montelatici e non lo
è mai stata. Che cosa sia questa
struttura, non saprei dire, forse
una rimessa, forse un deposito,
forse un rifugio antiaereo che risale
al tempo della guerra (secondo
alcuni messaggi su Geocaching,
non c’era prima del 1944). Infatti,
a parte che non ha le dimensioni
giuste, la distanza dall’altro ingresso è tale che il tunnel avrebbe
avuto bisogno di lavori di scavo
veramente colossali, in particolare
per passare sotto il Mugnone,
per riemergere poi dalla collina
opposta.
Il tunnel misterioso
Sopra l’ingresso del Tunnel in Via Montelatici, nei pressi di Piazza Leopoldo,
così come appare oggi. A fianco la
struttura che viene detta essere “l’altra
uscita” del tunnel (ma non lo è!). Sotto
quello che sarebbe dovuto essere probabilmente il percorso del tunnel, quando
fu concepito negli anni 1930. Partendo
da via Montelatici, doveva sboccare
nell’attuale via Piero Jaher, dalla quale
ci si sarebbe poi potuti connettere alla
via Faentina, bypassando l’attuale
sovrapassaggio di Piazza delle Cure.
Ma allora, dove esattamente
doveva sbucare il tunnel che parte
da via Montelatici? Non è difficile
immaginarselo mettendosi nei
panni del progettista. Ovviamente,
il tunnel avrebbe dovuto essere il
più breve possibile, per poi sbucare
nelle vicinanze di piazza delle
Cure, se possibile in un luogo dove
non ci fosse bisogno di grandi
opere per oltrepassare il Mugnone
e la Ferrovia Faentina.
Stabilito questo, è abbastanza
facile immaginarsi quale fosse
lo sbocco previsto del tunnel:
è l’attuale via Piero Jaher, nei
pressi della stazione di San Marco
Vecchio, dalla quale si può arrivare
in Piazza delle Cure passando
sotto un sottopassaggio esistente
sotto la Ferrovia Faentina e poi
passando dal ponte esistente sopra
il Mugnone. Sarebbe stata una
connessione perfetta! Oggi, via Jaher è una strada senza sbocco che
finisce letteralmente nei campi, in
una zona dove ci sono degli orti
comunali. E’ probabile però che
fosse stata progettata conl’idea di
connettere direttamente Le Cure
con Careggi, andando più o meno
in parallelo con la vecchia via dei
Bruni, che però è troppo stretta
per essere utile. Per cui, avrebbe
avuto senso fare un tunnel che
partisse da qualche parte oltre la
collina di Montughi; via Montelatici, appunto, sboccando poi in
via Jaher.
E’ probabile che chi l’ha progettata
pensasse esattamente a un tunnel,
oppure a farla sboccare direttamente sulla via Bolognese.
Cosa è successo allora che ha
impedito di completare il tunnel? Non lo possiamo dire con
esattezza. Sul Web si trova che ci
sarebbero state delle infltrazioni
d’acqua che hanno impedito la
continuazione dei lavori. Ma è
forse più probabile che il tunnel
sia stato reso impossibile dalla
crisi economica degli anni 1930,
con le sanzioni che seguirono la
campagna di Etiopia e la generale
militarizzazione dell’economia
italiana che ne seguì. Dopo la fine
della seconda guerra mondiale, ci
si sarebbe potuto ripensare ma,
evidentemente, si ritenne più
semplice e meno costoso allargare
il sovrapassaggio di Piazza delle
Cure, costruito nel 1914, che era
inizialmente molto stretto e pensato principalmente per il passaggio
del tram.
Da allora, il sistema stradale nella
zona delle Cure ha preso l’aspetto
che vediamo ancora oggi.
Si potrebbe riparlare oggi di un
tunnel sotto la collina di Montughi? Forse si, certamente sarebbe
utile per evitare gli ingorghi
quotidiani che affliggono Piazza
delle Cure. Lo sbocco esiste ancora
e nessun ostacolo impedirebbe di
“sfondare” continuando l’attuale via Jaher sotto la collina. Ma
è anche vero che i tempi delle
“grandi opere” sono passati; forse
per sempre. E poi, il tunnel di via
Montelatici poteva essere sufficiente per il traffico degli anni ‘30,
ma sarebbe probabilmente troppo
stretto per quello di oggi. Quindi,
probabilmente il tunnel è destinato a rimanere incompiuto alle
pendici della collina di Montughi.
Si dice che sia servito come rifugio
antiaereo per gli abitanti della
zona durante la guerra; speriamo
che non debba servire per questo
scopo di nuovo!
Comunque, se avete tempo per
dedicarvi alla ricerca di Geocaching (https://goo.gl/RWcUAW)
dell’ “uscita del tunnel”, provateci.
Non è veramente l’uscita di nessun
tunnel, ma è comunque una
ricerca affascinante che vi porterà
a scoprire tanti dettagli della zona
delle Cure, a Firenze.
16
GENNAIO
2016
pag. 13
Giovanni Zorn
[email protected]
di
C
orro, sono solo, sto
spingendo forte, non so
realmente perché, ma sto
andando al massimo. Come mi
succede spesso quando la fatica
è vicina ai limiti, quando sento
pulsare le vene e avverto il sapore
del sangue in gola, ho la sensazione che i sensi e i pensieri diventino più sottili; forse lo faccio
proprio per questo, per arrivare
qua dove mente e percezioni si
fanno spazio da soli.
Sto percorrendo il tratto finale
della GTE, la grande Traversata
Elbana, il sentiero che, al di
fuori e al di sopra di tutti i centri
abitati e dominando le coste
frastagliate, costituisce la spina
dorsale dell’Isola e il filo conduttore per chi vuole godere della
sua natura più autentica.
Sono partito ormai da più di
un’ora e sto salendo dritto verso
la sella di Malpasso dominata
dal Monte Capanne, l’ammasso
quasi disordinato di graniti grigi
vetta dell’isola e di tutto l’Arcipelago.
Avanzo a tratti correndo a tratti
camminando ad ampi passi e
spingendo con le mani sulle
ginocchia per dividere lo sforzo
tra gli arti. Con la testa bassa mi
viene da osservare la forma ed
i colori dei massi con le incrostazioni di muschi e di licheni;
sulla sommità di alcuni di questi
proprio in mezzo al sentiero
vedo le fatte della martora e dalla
volpe; ho quasi la sensazioni di
intrufolarmi in un mondo che
non mi appartiene.
Sono immerso in odori forti,
freschi e pungenti allo stesso
tempo; ho in bocca il sapore
quasi amaro del rosmarino
selvatico che sto succhiando per
combattere la sete; avverto sulla
pelle sudata il fresco dell’aria secca e, appena accennato, il calore
del sole invernale; tra le dita ho il
ruvido dei granelli di sabbia che
rimangono attaccati quando, per
aiutarmi nella spinta, poggio a
terra le mani; sento, o mi pare di
sentire, lontano, il rumore delle
onde sulle scogliere ripide e, più
vicino, il vento tra le foglie degli
arbusti e richiami di uccelli; gli
occhi sono frastornati dai verdi
dalla macchia e dei boschi, dai
grigi dei graniti, dagli azzurri e
dai blu che si insinuano nell’ammasso di nuvoloni scuri e dai
Sulla Grande
Traversata
Elbana(prima parte)
Bobo
riflessi del mare, giù in fondo,
tra il blu intenso e le schiume
chiare.
Si, penso, adesso ci sono dentro
totalmente; ma forse è troppo per i miei sensi, il totale di
questa somma fa molto più
di quello che sono in grado di
assorbire, di trattenere. Accanto
alla soddisfazione per la pienezza
di ciò che sto vivendo avverto
il velo irrazionale di rammarico
per quel di più che non sono
in grado di assimilare, e per
quell’infinito che non sono in
grado di percepire.
Mi riporta a terra un rumore
di sassi che rotolano; mi volto e
vedo per un attimo tre giovani
mufloni che si allontanano; sto
giungendo a Malpasso e qui
prendo la decisione di lasciare il
sentiero principale e salire alla
vetta attraverso il percorso attrezzato con corde fisse che segue
cresta. Non corro più, cammino,
spicco qualche salto ed arrampico con mani e piedi; il panorama
con il cielo ed il mare in tutte le
direzioni toglie il fiato.
16
GENNAIO
2016
pag. 14
di
Firenze:
la metropoli bipolare
Ferdinando Semboloni
F
irenze cambia. Come e perché
si comprende in relazione all’area metropolitana di cui fanno
parte i comuni della cintura e in
parte Prato. Il baricentro demografico di questa conurbazione non sta
più nel vecchio e glorioso quadrilatero romano, ma a Novoli, vicino
alla più prosaica area Mercafir, dove
si prevede la costruzione del nuovo
stadio e del centro commerciale da
50mila metri quadri di superficie di
vendita. Novoli, il quartiere industriale del 1924, potrebbe divenire il
centro della Firenze metropolitana.
Un processo non pianificato che
avviene con lentezza data l’inerzia
dei fenomeni territoriali. Cresci e
rischi di esplodere. Così l’espansione urbana degli anni ‘60 pose
il problema del decentramento. Il
piano del ‘62 voleva organizzarlo,
ma le attività sono uscite dal centro
in ordine sparso. La zona privilegiata
è stata l’area nord-ovest: l’Osmannoro e Novoli. Alla fine degli anni
‘60, nelle aree ex-Montecatini e Esso
sul retro della stazione di Rifredi,
viene realizzata Firenze Nova, per residenze, uffici e sedi di banche. Nel
‘74 la Regione stabilisce gli uffici
della Giunta in via di Novoli in due
anonimi edifici a torre. Negli anni
‘90 inizia il recupero dell’ex-area industriale Fiat. Si realizzano l’Università, il Centro commerciale e infine
il Palazzo di giustizia, megastruttura
ricciana tripudio parossistico di
forme e materiali, a fianco del quale,
nell’area ex-Carapelli, si collocano
per contrappasso i calvinisti uffici
della Cassa di Risparmio. Si tratta
di operazioni di recupero di aree
industriali dismesse, che hanno
migliorato il quartiere elevandone
i valori immobiliari, con interventi
individuali ciascuno tendente ad organizzare un proprio spazio interno
inclusivo e autonomo dal resto. Ma i
vecchi sono duri a morire. Il vecchio
centro, la città storica, non ha più il
ruolo direzionale d’una volta, anche
perché molti centri decisionali sono
in altre città – vedi Banca Toscana,
Cassa di Risparmio e Fondiaria. Vi
rimangono però le sedi politiche
di Regione, Città metropolitana e
Comune, parte dell’Università, e la
concentrazione della rete commerciale minuta, degli esercizi pubblici,
delle strutture finanziarie e ovviamente ricettive. Diviene distretto
turistico e del divertimento, quindi
luogo di lavoro e di attrazione dato
che quello che attrae il turista, oltre
monumenti e musei, e cioè shopping, locali e cibo, attrae pure la popolazione locale. La sua risorsa, oltre
ai monumenti e al prestigioso spazio
urbano, è la Stazione ferroviaria di
SMN che al contrario della ZTL ne
mantiene la centralità. Il colpo decisivo? La nuova Stazione AV, dell’Alta
Velocità. Quale che sia la conclusione del tormentato processo: Belfiore
secondo il progetto Foster, o Statuto
secondo i No-Tav, sarà la svolta nel
processo di decentramento dato che
la stazione di testa è destinata ad un
ruolo secondario e così il vecchio
centro. Soprattutto se, come il buon
senso vorrebbe, la Stazione Circondaria che avrebbe dovuto connettere
direttamente la Stazione AV di
Foster col traffico regionale, verrà
Massimo Cavezzali
[email protected]
di
ripristinata. Nel caso del progetto
No-Tav il problema non si pone
neppure dato che la Stazione AV
sarebbe immediatamente connessa
al traffico regionale escludendo
quella di SMN. Si configura una
città bipolare. In fondo era l’idea del
piano del 1962. Qualcosa di simile a
quello che è successo a Venezia-Mestre. Due centri complementari che
potrebbero convivere e collaborare:
come una famiglia con madre e
padre. Il vecchio centro materno e
accogliente che rappresenta l’identità
della città il cui rischio maggiore,
più del turismo di massa, è quello di
divenire estraneo alla vita quotidiana
dei fiorentini metropolitani, movida
a parte, e un nuovo centro metropolitano in formazione costruito
Scavezzacollo
come una serie di spot raggiungibili
col mezzo privato dove manca un
progetto unitario di spazio urbano.
La causa? Timore di comunicare e
di condividere lo spazio, come nel
caso dei due edifici della Regione,
rintanati in una enclave a 100 metri
dalla strada, e protetti (da chi?) dalla
cancellata quando invece avrebbero
potuto essere il fulcro di una piazza
pubblica. Ci aveva provato Krier
a dare a Novoli la forma urbana
di un’area centrale. L’operazione
è riuscita solo in parte intorno a
nucleo universitario con l’architettura monumentale di Natalini, ma
ostacolata da interventi introversi e
inclusivi come il Centro commerciale e il Palazzo di giustizia. E c’è
da supporre che lo stesso avverrà
col nuovo stadio e con le nuove
operazioni immobiliari che saranno
innescate dalla linea 2 della tranvia.
La tranvia è destinata a modificare
l’area, ma rischia di rimanere un
fatto puramente meccanico, trasportistico, se non si accoglie l’idea di
realizzare spazi urbani condivisi fatti
di strade, piazze, monumenti e isolati come nel vecchio centro invece
dei tanti piccoli Fort Apache.
Le avventure di Nardelik
La gara per vendere l’edificio era
stata bandita da tempo dalla società
pubblica che ne deteneva la proprietà
dalla sua costruzione nella metà del
XIX secolo. Nessuno aveva sollevato
polemiche e neppure la Soprintendenza, che pure la doveva tutelare, aveva
obiettato. Aveva solamente chiesto che
fosse adibita a attività compatibili.
Tutto era tranquillo fino a quando
non sorse un dubbio. Ma si poteva
vendere tranquillamente il tempio
della rivoluzione(renziana)? E se fosse
finito in mano agli infedeli? E se il Leader Minimum si fosse offeso e avesse
scagliato i suoi strali contro il Servitor
Cortese negandogli per l’eternità la
partecipazione a Porta a Porta? Ci
voleva Nardellik. E il nostro Supereroe
mascherato prese in mano la situazione. Basta con queste gare pubbliche.
La ex stazione Leopolda deve essere
comprata dal Comune di Firenze.
Poi si vedrà che farne. Con calma.
L’importante è impedire l’atto sacrilego. Se Pitti Immagine si comporta
bene (renzianamente bene si intende)
allora potrà anche utilizzarla (visto
che naturalmente non ha nessuna
voglia di comprarla). Ma non sempre.
In autunno alcuni giorni saranno per
sempre riservati alla commemorazione
dei fatal giorni. I Leopolda’s days
lectura
dantis
16
GENNAIO
2016
pag. 15
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
Giusto punire libertà d’amore,
sbraitavamo ai tempi della nonna,
senza prole, negato era l’ardore.
Ma vinse la novella religione,
e comandò la legge de’ cristiani
guai era dir ch’era sanza ragione.
oltraggio era veder uom d’intelletto
che innocente usava con delizia
coricarsi con chi volea nel letto.
Lecito era fra greci e fra romani
scambiarsi i ruoli d’uno stesso attore,
que’ sentimenti eran pensati sani.
Quando verrà il tempo di giustizia
e anche qui si muterà visione?
Provai dolore, non per amicizia,
Molti del clero faceano l’istesso,
finta facea la chiesa a non vedere
i suoi gioire con lo medesmo sesso.
Pur verrà un giorno che a benvolere
il mio Brunetto superi le leggi
e scavalcando le ostiche barriere
possa tornar fra le beate greggi.
Arriverà al soglio un gran pastore
a giudicar con natural conteggi
Canto XIV
VII cerchio 3° girone Violenti contro natura,
sodomiti, anch’essi
colpiti da una pioggia
incandescente, la
punizione pare essere
più leggera delle altre
perché il peccato
non è da Dante
considerato così
grave. Qui incontra
Brunetto Latini,
noto omosessuale e
maestro di Dante. I
due si abbracciano
circondati da gay.
16
GENNAIO
2016
pag. 16
Design for Eternity
Sebastiano Soldi
[email protected]
di
U
na delle sezioni piú affascinanti dell’enciclopedico Metropolitan Museum of Art,
adagiato sul lato ovest di Central
Park nell’elegante Upper West
Side di New York, è sicuramente
quella che contiene le testimonianze delle culture dell’Africa,
Oceania e Americhe (AAOA Department, assecondando il gusto
newyorchese per gli acronimi).
All’interno di questo dipartimento, uno dei dicassette del Museo,
si può attualmente ammirare una
piccola ma deliziosa mostra dedicata ai “modelli architettonici”
dell’America precolombiana. In
realtà, come sottolineano gli stessi
curatori della mostra, la definizione di “modelli architettonici” è
piuttosto approssimativa rispetto
al materiale esposto, che non è inteso come una galleria di modelli
intesi come fedele riproduzione di
edifici esistenti, bensi’ come una
rappresentazione, reale e simbolica allo stesso tempo, di alcuni
aspetti della vita di queste antiche
culture all’interno di specifici
ambienti architettonici.
La provenienza dei reperti, per lo
piú da musei del Perù e degli Stati
Uniti, illustra un aspetto interessantissimo delle credenze religiose
e dei rituali funerari in alcune
civiltà del Messico e del Perù prima e dopo l’arrivo degli Spagnoli.
Si possono così ammirare qui
riunite opere del mondo azteco
o delle culture Chimu, Moche
e Nazca della costa dell’Oceano
Pacifico, tutte caratterizzate dalla
rappresentazione di antichi edifici
con scene di vita quotidiana che si
svolge tra queste mura. Sicuramente non possiamo non rimanere colpiti dalla rappresentazione
del “gioco della palla”, praticato
dai popoli del Messico fin dai
tempi piú remoti, come attestano
i rinvenimenti di palle di gomma
piena di varie forie fogge e dimensioni. Non si conosce precisamente come funzionasse il “juego de
la pelota”, che non aveva nulla a
che fare con gli attuali giochi del
calcio o del rugby, ma si presume
che i giocatori dovessero tenere
in gioco una palla molto pesante
spingendola con le anche. Il gioco
doveva avere una valenza rituale,
probabilmente anche connessa
a sacrifici alle divinità, e sembra
che la squadra vincente avesse il
diritto di appropriarsi dei beni
indossati dalla squadra perdente e
dal suo pubblico. Nel modellino
in mostra New York è rappresentato un campo da gioco con le
due squadre che si affrontano e gli
spettatori seduti sulle gradinate: la
vivacità dei particolari è incredibile, con la caratterizzazione dei
singoli partecipanti all’azione, tra
cui spettatori che commentano
tra sè o un personaggio che sembra incitare una delle squadre con
l’ausilio di una grande conchiglia
per produrre suoni particolari,
una sorta di antenato della moderna vuvuzela da stadio!
Un altro vivacissimo esempio di
questa arte precolombiana è la rappresentazione di un
grande banchetto, non
sappiamo se funerario
o meno, della cultura
Nayarit (Messico occidentale); in un edificio
a due piani si vedono
numerose persone
banchettare e animali
tutt’intorno che sicuramente approfittano
degli avanzi; al piano
di sotto le mummie
degli antenati sono
anch’esse parte del
banchetto.
Il motivo delle
mummie degli antenati trova la
sua migliore rappresentazione nel
grande modellino ligneo con parti
di tessuto e intarsi di conchiglia
di cultura Chimu (da Chan
Chan, Perú nord-occidentale);
vi è rappresentata la mummia di
un antenato all’interno del suo
palazzo, raffigurato con le reali
caratteristiche di alcuni edifici
scavati dagli archeolgi a Chan
Chan. Il personaggio principale è
accompagnato da altre due figure
mummificate, le mogli, differenziate per il dettaglio delle orecchie
di foggia diversa, a dimostrare
Roberto Innocenti
[email protected]
di
Non so se posso intromettermi
senza titolo alcuno nella drammatica
questione della “Cosa” prodotta dalla
premiata Fabbrica di chincaglieria
ciclopizzata “Koons”, esibita sull’arengario.
Intanto sarebbe necessario spiegare
con un cartello multilingue per
Il turista consumista di massa, che
non si tratta di uno scarto di fonderia
di Donatello, né di un’idea di Just
Cavalli, anche se ne ricorda il profilo
culturale.
Quando il sig. Koons riterrà che il suo
scopo pubblicitario sarà raggiunto gratuitamente, potrebbe, Dio ci scampi
, essere perfino tentato di disfarsene,
lasciando ai “beneficiati” i costi dello
smaltimento.
Poi, in quell’ottimo spazio pubblicitario, potrebbero essere collocati
in sequenza: un nuovo modello di
Ferrari, un Rolex dorato gigantesco, in
grado di umiliare con la sua ora esatta
quello vetusto
sulla torre sovrastante, o una Venere
grassa e rosa su conchiglia di Botero,
versione ironica di quella allampanata
di Botticelli.
che una delle mogli era straniera.
Si assiste qui a una vivace scena
di banchetto all’interno della
corte reale, ricordandoci come
nelle culture andine, tra cui
anche quella dell’impero Inca, gli
antenati continuassero la loro vita
tra i vivi, addirittura continuando
ad avere delle proprietà. Le offerte
per le mummie degli antenati
sono un rituale antichissimo,
attestato anche in altre culture
antiche, che qui trova una sua
vivacissima rappresentazione, tra
suonatori, saltimbanchi, servitori
di chicha (la bevanda fermentata a base di mais che ancora si
consuma in Perù) e, in una sorta
di sottilissima “semiotica del modellino”, la stessa rappresentazione
di un modellino architettonico
all’interno del modellino.
La piccola ma ricca mostra del
Met ci offre dunque una prospettiva privilegiata all’interno
delle civiltà messicana e andina,
come finora avevamo avuto solo
per le antichità egiziane grazie ai
modellini rinvenuti nelle tombe
faraoniche, con la possibilità di
rivolgere uno sguardo curioso e
interessato su alcune scene di vita
quotidiana e di rituali, funerari e
non, che si svolgevano in questo
affascinante mondo perduto.
La chincaglieria
ciclopizzata Koons
Propongo un prezzo altissimo per
l’uso di un suolo pubblico così privilegiato, tanto quelli non badano a spese,
mentre il Comune ha
sempre bisogno di soldi, a causa della
dura Legge di Mercato.
Il valore dell’opera è un derivato della
sua “popolarità”, e il conseguente
dell’incasso,
e Koons si giova di quello che la Gioconda, poveretta, subisce.
Sul giudizio concordo pienamente con
quello espresso da Philippe
Daverio, anche se mi pare troppo
sottile e raffinato per Firenze.
In effetti penso che qualsiasi offesa
questo colossale Bed & Breakfast
che soffoca l’Arte di cui si nutre da
parassita, la meriti.
Era mia ferma intenzione prendere le
competenze di certe presunte autorità
culturali, private, nominate o istituzionali, per il culo, ma non vorrei essere
frainteso.
Post Scriptum
Moderato è una parola comoda ma da
usare con moderazione.
Serve a indurre a considerare Estremista
tutte le altre opinioni.Un sinonimo di
Moderato è Contenuto, che può significare anche Trattenuto, Autolimitato,
Autocensurato. E’ una parola abusata
dai democristiani, e Moderati vengono
definiti i Paese Arabi del Golfo. Moderato(3) su posizioni politiche conservatrici o prudentemente riformiste. Se fra
Molotov e moderato non c’è nulla allora
tutto si spiega. Fra i contrari di Moderato, musicalmente c’è vivace, andante con
brio, allegro. Fra i contrari di Estremista trovasi : Ossequioso, Sottomesso,
Accomodante, Paraculo. Al tuo posto
non userei mai la parola Moderato, ma
non è un consiglio, telo dice un isolato
inutilmente Dignitoso.
16
GENNAIO
2016
pag. 17
di John
C
Stammer
’erano una volta i committenti. Persone che contavano molto nel definire
il progetto. Spesso molto più
dell’architetto. Certo ci volle
un committente illuminato
per consentire al F.L.Wright di
cimentarsi nella Casa della Cascata. E altrettanto per consentire, sempre allo stesso Wright,
di realizzare il Guggenheim
Museum di New York. Ma
anche la commitenza pubblica
, anche in tempi più recenti, ha
dato ottima dimostrazione di
lungimiranza e di autonomia
dalle mode e dal sentimento
comune prevalente in quel
momento. Che dire della scelta
che la commissione presieduta
da Jean Prouvè fece, contro
ogni pronostico, nel 1971 per
la scelta dell’edificio per attività
culturali, oggi comunemente
chiamato Centre Pompidou, nel
centro di Parigi? Committenti
capaci di tenere dritta la barra
delle loro aspirazioni e delle loro
convinzioni. E architetti in grado di cogliere il senso di libertà
espressiva che queste condizioni
consentivano. E allora cosa dire
dell’idea di un X-Factor per
l’architettura che il Quotidiano Nazionale con la testata de
X-Factor
per facciate
urbane
La Nazione si è inventato per
fare scegliere ai cittadini quale
facciata vogliono per il recupero
dell’ex hotel Majestic in piazza
dell’Unità d’Italia a Firenze? E
che dire del committente, tal
Salvatore Leggiero, che invita
alcuni dei migliori professionisti della città e poi, invece
di scegliere autonomamente,
o sottoporre i progetti ad
una valutazione di un gruppo
definito di esperti, o anche non
esperti ma persone identificate
e capaci di assumersi quindi
delle responsabilità, sottopone
i progetti ad una votazione on
line, come se si trattase di scegliere un candidato consigliere
comunale dei 5 stelle? Con tutti
i rischi che l’ on line comporta
come il fatto di poter votare più
volte. Viva la democrazia diretta
che è fuga dalle responsabilità.
E in tema di fuga dalle responsabilità si stanno evidentemente
facendo passi da gigante anche
nel campo della trasformazione
urbana. Una volta si diceva che
il progettista, quando progettava un edificio, aveva una doppia
committenza. Quella privata
che gli aveva commissionato
il progetto e quella “pubblica”
costituita da tutti coloro che
quell’edificio avrebbero visto,
visitato, vissuto. Ora queste due
committenze sono riunite in
una sola, ipotetica, non conoscibile, ma molto ampia.
Quando l’hotel Majestic
fu inaugurato nel 1973, su
progetto di Lando Bartoli
con Giovanni Sanità e Gianni
Ormaghi, ci furono grandi polemiche. La facciata era “aliena”
rispetto al contesto costituito
dalle facciate ottocentesche dei
palazzi contermini. Ora invece
dopo la votazione on line di
cosa si discuterà? Forse è per
questo che la committenza si è
rifugiata nella rete. Meglio dare
ad altri la responsabilità delle
proprie azioni. E magari sperare
di avere meno grane durante la
costruzione.
Non credo che sia un bene per
l’architettura.
L’ironia di Paolo della Bella
L
immagine
ultima
L
16
GENNAIO
2016
pag. 18
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
’anziana signora mi ha fatto la stessa tenerezza che mi aveva fatto la piccola cinesina del numero scorso. Anche qui siamo nei pressi del
Central Park e questa povera donna, sicuramente di origine italiana, sta cercando un po’ di refrigerio nel solito clima caldo e appiccicoso delle giornate d’agosto nella Grande Mela. Sta chiaramente gustando una granita al limone ma tiene comunque sulle sue ginocchia
un maglioncino bianco assolutamente improponibile in una giornata infuocata come questa.
NY City, agosto 1969
Fly UP