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1a DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI Le Opere di Misericordia

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1a DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI Le Opere di Misericordia
Nuova e Nostra - N° 7/2016
5
di Don Bortolo Uberti
Le Opere di Misericordia
1a DAR DA
MANGIARE
AGLI AFFAMATI
IL CIBO E’ PIU’
DI CIO’ CHE SI MANGIA
L’uomo non soltanto ha fame, ma è fame: il neonato, appena viene alla luce,
respira e piange, l’aria invade i suoi
piccoli polmoni riempiendoli e poco
dopo anche il suo stomaco chiede di essere saziato. Da subito il bimbo fa capire che ha bisogno di cibo: con quello
trova pace e le sue lacrime si placano;
senza il latte la sua esistenza sarebbe
compromessa. Quando cresce, ben presto impara a pronunciare la frase fatidica: “Ho fame!”, e tutte le nonne sanno
che se la creatura non mangia c’è qualcosa che non va. Esatto: se c’è qualcuno
che non mangia (o non può mangiare
perché non ne ha) c’è qualcosa di grosso che non funziona.
La fame dell’uomo dice un suo bisogno primario e ha a che fare in modo molto stretto
con la sua stessa esistenza. Chi dona la vita ad un figlio, e lo mette al mondo, si
impegna a mantenere quella buona
promessa nutrendolo e facendolo diventare grande: il cucciolo ha bisogno
di essere “tirato su”.
Ben presto, poi, si scopre che questo
bisogno si trasforma in desiderio. Il
mangiare non esprime soltanto una
condizione necessaria alla sopravvivenza, ma diviene luogo di incontro e di
comunione, condizione qualitativa della vita. Il cibo esprime l’affetto, la sua
preparazione dice la cura per l’altro, e
così il gusto segna uno dei sensi più saporiti della persona. La fame non è solo
bisogno, ma anche desiderio.
IL PANE QUOTIDIANO
Ogni giorno, recitando il Padre Nostro, invochiamo: “Dacci oggi il nostro
pane quotidiano”. La nostra preghiera
si eleva pensando che Gesù nel suo ministero pubblico si è speso per nutrire
coloro che avevano fame: il miracolo
che gli evangelisti raccontano più volte
è quello della moltiplicazione dei pani.
Gesù è attento al bisogno della gente e ne
percepisce i desideri più profondi legati alla
vita, desideri cha vanno dal cibo alla gioia,
dalla salute al perdono. Sentendo la voce
della loro fame condivide il vuoto,
“com-patisce”: condivide la passione e
il dolore di quelle persone e interviene.
Esorta i suoi stessi discepoli ad agire:
“Voi stessi date loro da mangiare”, e poi si
mette in gioco in prima persona. Lui
stesso ha sperimentato la fame dopo i
quaranta giorni nel deserto in cui è stato tentato dal diavolo (cfr. Mt 4,2): sa
cosa vuol dire. Lui stesso è stato saziato
dall’intervento di Dio attraverso i suoi
angeli (cfr. Mt 4,11).
Ecco allora che Gesù raccoglie il poco
che la gente possiede: qualche pane povero, fatto d’orzo, nemmeno quello
buono, quello bianco, dei ricchi; poi
moltiplica quel pane d’orzo e quei pochi pesci, condividendoli. Il verbo che
torna con insistenza è quello del “distribuire”: perché la folla soddisfi la propria fame e “non venga meno lungo la
via” è necessario prendere, spezzare e
distribuire tra tutti. Come era accaduto per la manna nel deserto: per ciascuno c’era l’indispensabile, il necessario;
quanto invece veniva accumulato in
più o preso al posto di altri marciva
inutilmente. Dividere, “con-dividere”,
per moltiplicare, in una distribuzione
capillare.
E degli avanzi nulla va sprecato. Niente viene buttato: non si accumulano rifiuti né sprechi. Ciò che avanza va raccolto e custodito: servirà ad altri, nutrirà altre bocche.
Ma Gesù non si ferma qui, non si accontenta: c’è un altro pane che vuole
dare all’uomo, anch’esso da prendere,
spezzare e distribuire. È il pane del suo
stesso corpo che nella cena pasquale
viene dato a tutti per una salvezza definitiva, una nuova alleanza, una remissione dei peccati. Gesù giunge a dare se
stesso come cibo per una vita che non muore
più. Si fa dono, fino alla fine, gratuitamente, incondizionatamente, perché
ha voluto bene ai suoi, perché vuole bene ad ogni uomo. Ecco dunque il vertice di quell’opera di misericordia: dar
da mangiare agli affamati. Gesù l’ha
vissuta fino a fare di sé il pane spezzato, il pane vivo disceso dal cielo.
CONDIVIDERE E’ PIU’
CHE CONSUMARE
La cura per il cibo, la sua paziente preparazione, la passione e la fantasia nel
servirlo devono rimandare alla serietà
della dedizione all’altro, per la condivisione e la comunione con
l’altro. Nella nostra cultura,
ormai, sempre più si “consuma” il cibo di fretta e,
spesso, in solitudine: si parla di fast food, ed ormai va di
moda anche lo street food. La
cultura del cibo, quello preparato e condiviso nella famiglia e nella comunità, rischia di essere soppiantata
da una cultura del cibo mostrata in televisione, raccontata sui giornali, raccolta in innumerevoli ricettari.
Occorre imparare a “mangiare sano”: nel
senso di nutrirsi di un cibo che salva e
salva tutti, dona salute, cioè salvezza.
Serve tornare a sedersi insieme attorno alla
stessa tavola: sia nella famiglia che nella
società e nel mondo; e che attorno alla
stessa tavola ci sia sempre una sedia
vuota per chi ha fame e potrebbe trovare lì il suo posto. E occorre che la tavola sia imbandita non solo di cibi per lo
stomaco, ma anche di quelli per l’anima: dar da mangiare all’affamato di affetto, di giustizia, di ascolto, di compagnia,
di perdono. C’è tanta fame di perdono!
*Sintesi tratte da:
UBERTI B. - VIRGILI R., Amare
corpo e anima. Opere di misericordia
qui e oggi, Centro Ambrosiano, Milano 2015
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