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Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale: fi
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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MARTINO ROSATI
Magistrato – Tribunale di Taranto
Il “periculum in mora” nel sequestro conservativo penale: finalmente intervengono le Sezioni Unite
The “periculum in mora” in the preventive attachment: finally the
joint session of the supreme court of cassation attends
Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione chiariscono: per disporre il sequestro conservativo, può bastare
l’insufficienza attuale del patrimonio del debitore ai fini dell’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 316,
commi 1 e 2, c.p.p., ed in relazione all’entità delle medesime; mentre non è necessaria la sussistenza di situazioni
tali da far prevedere la futura dispersione di quella garanzia patrimoniale. A questo risultato interpretativo, la Corte
giunge attraverso un triplice percorso: valorizzando il dato testuale della norma; richiamandone gli antecedenti
normativi, ovvero le previsioni dei codici penale e di procedura penale del 1930; nonché ponendo in risalto la simmetria funzionale di tal specie di sequestro con l’omologo istituto previsto dal codice di procedura civile. E
l’approdo interpretativo della Corte appare convincente sotto il profilo giuridico, ma anche coerente con la tendenza al progressivo ampliamento della repressione penale di tipo patrimoniale, oltre che con l’esigenza, sempre più
avvertita, di una più efficace tutela della vittima del reato.
The criminal joint session of the Supreme Court of Cassation clarifies: actual inadequacy of debtor’s assets is
enough in order to enforce a preventive attachment, for the purpose of compliance with obligations provided from
section 1 and 2 of art. 316 of the Italian Code of Criminal Procedure, and in relation to the extent of the abovementioned; whereas the subsistence of situations which could lead to a future dispersion of the property collateral is not necessary. The Court comes to this interpretative outcome by means of a three-fold path: enhancing
the textual component of the norm; recalling from it the prescriptive antecedents, that is the provisions of the
criminal and criminal procedure codes of 1930; as well as highlighting the functional symmetry of this kind of attachment with the corresponding institution foreseen by the Code of Civil Procedure. The interpretative outcome
of the Court seems convincing from a legal point of view, but also consistent with the inclination towards a progressive expansion of prosecution regarding property, besides the increasingly perceived necessity of a more efficient legal protection for the crime victim.
PREMESSA
Nella camera di consiglio del 25 settembre 2014, le Sezioni Unite della Cassazione – con due distinte
sentenze, peraltro redatte dal medesimo estensore nonché presidente del collegio – hanno concentrato
la loro attenzione su quella che, se si ha riguardo alla frequenza del suo utilizzo, e quindi al mero dato
quantitativo, sembrerebbe essere la “Cenerentola” delle misure cautelari reali (soprattutto a seguito della sempre maggiore diffusione del sequestro preventivo, strumentale alle varie forme di confisca c.d.
“di valore”, progressivamente introdotte nella legislazione penale italiana): il riferimento, evidentemente, è al sequestro conservativo, di cui agli artt. 316 ss. c.p.p. 1.
1
Per un inquadramento dell’istituto, cfr. U. Dinacci, Il sequestro conservativo nel nuovo processo penale, Padova, 1990; N. Galantini, Sequestro conservativo penale, in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, p. 134 ss.; P. Gualtieri, Sequestro conservativo, in A. Scalfati (a
cura di), Prove e misure cautelari, II, t. 2, (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2009, p. 343 ss.; M. Montagna, I
sequestri nel sistema delle cautele penali, Padova, 2005, p. 55 ss; Id., Sequestro conservativo penale, in Dig. pen., XIII, Torino, 1997, p.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL “PERICULUM IN MORA” NEL SEQUESTRO CONSERVATIVO PENALE
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Con la prima decisione, la Corte ha affrontato una questione tipicamente di rito: quella della legittimazione o meno della parte civile a ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale del riesame che abbia annullato o revocato il sequestro disposto in favore di essa 2; con la seconda pronuncia –
depositata lo scorso 11 dicembre e qui oggetto di approfondimento – ha, invece, tracciato il perimetro
del principale (anzi, per essa, addirittura unico) presupposto normativo di applicabilità della misura: il
“periculum in mora”.
LA VICENDA PROCESSUALE E L’ORDINANZA DI RIMESSIONE
La prima sezione penale della Corte era stata investita del ricorso di un imputato per reati in materia di
esplosivi e danneggiamento avverso un’ordinanza del tribunale del riesame di Genova, che aveva confermato il sequestro conservativo disposto in suo danno ed in favore della parte civile, ritenendo presupposto sufficiente, a tal fine, l’oggettiva inadeguatezza della consistenza del patrimonio del debitore
in rapporto all’entità del credito. Nella specie, si trattava di un imputato pensionato con una modesta
capacità reddituale e la misura aveva attinto un immobile, ritenuto unico bene che potesse fungere da
garanzia patrimoniale, tenuto conto della significativa entità del credito da reato, in ragione della gravità dei fatti contestati e della pluralità delle persone offese.
Il ricorrente, dal canto suo, aveva lamentato come il tribunale del riesame avesse del tutto pretermesso di valutare, oltre alla consistenza del patrimonio ed alla capacità reddituale dell’imputato, anche
il comportamento da questi assunto nelle more: dal quale – si assumeva – avrebbe potuto e dovuto inferire l’assenza di un pericolo di dispersione delle garanzie patrimoniali, da intendersi quale situazione,
almeno potenziale e desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore.
Nell’ordinanza di rimessione 3, il collegio aveva quindi rilevato che, se non v’era discussione in ordine alla finalità del sequestro conservativo, consistente nell’immobilizzazione del patrimonio
dell’obbligato, così da attuare la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, altrettanta omogeneità di vedute non si registrava, tra i giudici di legittimità, con riferimento al presupposto di applicabilità della misura.
Secondo numerose pronunce, infatti, il “periculum in mora” andava valutato, oltre che con riguardo
all’entità del credito del richiedente, anche – come sosteneva la difesa del ricorrente – con riferimento
ad una situazione, almeno potenziale, desunta da elementi certi ed univoci, di depauperamento del patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con la composizione del patrimonio stesso, con la
capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal debitore medesimo.
Per altre, invece, alle quali aveva ritenuto di conformarsi il tribunale del riesame, tale “periculum” sarebbe stato ravvisabile anche soltanto in presenza di una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore, in rapporto all’entità del credito.
Inoltre – evidenziava il giudice remittente – non erano mancate sentenze di segno intermedio, le
quali avevano evidenziato come il rischio di dissolvimento della garanzia patrimoniale, per effetto di
condotte di impoverimento tenute dal debitore, risultasse amplificato dalla modestia della consistenza
del suo patrimonio.
IL CONTRASTO DI GIURISPRUDENZA
Prima di dettare le coordinate per la risoluzione del dubbio interpretativo loro rimesso, le Sezioni Unite
hanno tenuto a significare che le posizioni di contrasto «paiono enfatizzate dalla stessa ordinanza di
rimessione», al punto che la denunciata divergenza di giurisprudenza finisce per essere «più apparente
che reale». Infatti – hanno spiegato – le diverse linee interpretative evidenziate «devono comunque essere modulate considerando le diverse fattispecie, di volta in volta sottoposte all’esame della Corte»,
216 ss.; C. Pansini, sub artt. 316-320 c.p.p., in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2010,
p. 3813 ss.
2
Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 47999, in CED Cass. n. 260895.
3
Cfr. Cass., sez. I, 16 dicembre 2013, n. 20713.
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che, per taluni versi, «comprovano l’esistenza di un sincretismo interpretativo, talora con scelte ermeneutiche direttamente collegate alla specifica situazione di fatto». Insomma, quella disparità di statuizioni deriverebbe, più che da una diversa ed inconciliabile esegesi del dato normativo, dalla necessità
di adattare quest’ultimo alle peculiarità delle singole e specifiche vicende devolute allo scrutinio dei vari collegi.
Una simile affermazione, però, non può essere condivisa. Invero, a leggere le motivazioni delle numerose sentenze citate sia nell’ordinanza di rimessione che nella sentenza delle Sezioni Unite, quale
espressione dell’uno o dell’altro orientamento, il conflitto, almeno tra alcune di esse, si rivela tutt’altro
che specioso.
In un caso, ad esempio, annullando un sequestro disposto sulla base della rilevata insufficienza assoluta del patrimonio dell’imputato a garantire le proprie obbligazioni ex delicto maturate verso
l’Erario, la Corte aveva espressamente affermato che il “periculum in mora” «deve essere concreto e va,
pertanto, ritenuto in base a circostanze di fatto riferibili tanto alla consistenza patrimoniale dell’imputato, quanto alla sua condotta processuale o extraprocessuale, dalle quali sia possibile desumere, secondo la regola dell’”id quod plerumque accidit”, l’eventualità di un depauperamento del patrimonio
medesimo o l’intenzione del soggetto di sottrarsi all’adempimento del credito». E, muovendo da tale
premessa, aveva posto in rilievo come la misura applicata «si ponesse anche in contrasto con il riconosciuto “corretto comportamento processuale” dell’imputato» 4.
Analogamente, questa volta in relazione ad un sequestro conservativo disposto in favore di una parte civile, altra sentenza aveva censurato il giudice territoriale, per non aver addotto «elementi concreti
tali da indurre a ritenere fondatamente già “in itinere” (o di imminente attuazione) atti di dispersione
del patrimonio», e, dunque, per aver disposto il sequestro «senza il benché minimo accenno ad una
condotta, processuale o extraprocessuale», dell’imputato, «da cui poter desumere, secondo la regola
dell’id quod plerumque accidit, l’eventualità di una dispersione del suo patrimonio o la sua intenzione di
sottrarsi all’adempimento del credito» 5.
E la decisiva rilevanza del comportamento post delictum del debitore, ai fini della sussistenza o meno
del “periculum in mora” e, quindi, della legittimità del vincolo cautelare, emerge nitidamente anche nelle
affermazioni di altra pronuncia, con cui la Corte aveva censurato il giudice di merito, per aver «solo fatto riferimento a comportamenti fraudolenti del ricorrente che si dicono indicati nel decreto che dispone
il giudizio, senza ulteriore specificazione e valutazione critica e senza, per di più, tenere conto che gli
elementi per il rinvio a giudizio attengono in linea di principio alla fattispecie di reato in contestazione
e non, necessariamente, al comportamento che l’indagato-imputato possa avere tenuto dopo la consumazione del reato, relativamente al proprio patrimonio» 6.
Di segno del tutto diverso appaiono, allora, quelle sentenze per le quali, invece, «il “periculum in mora” può essere integrato anche dalla condizione di inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto
all’ammontare delle pretese creditorie, indipendentemente da un depauperamento allo stesso ascrivibile» 7. E la distanza di tale lettura, rispetto a quella proposta dalle pronunce precedentemente citate, si
coglie all’evidenza, allorché si leggano le motivazioni di tali decisioni.
«Il periculum – scrive la Cassazione – consiste dunque, tradizionalmente, nell’obiettivo e non apparente (“vi è fondata ragione”) timore di una insufficienza – iniziale ovvero sopravvenuta – del patrimonio dell’imputato (o del responsabile civile) rispetto alle obbligazioni nascenti dal reato (…). Due sono i
modi attraverso cui può manifestarsi il pericolo: a) la mancanza (anche relativa, assorbendo tale nozione quelle di inadeguatezza o insufficienza) dell’oggetto della garanzia patrimoniale; b) il rischio di sua
dispersione. In entrambi i casi l’accertamento deve vertere su un confronto tra l’entità del patrimonio
del debitore o del responsabile civile – iniziale ovvero a seguito della sua possibile erosione – e l’insieme delle ragioni creditorie gravanti sul medesimo. Coerentemente alle finalità della misura l’insorgenza dell’esigenza cautelare può di conseguenza (come avverte autorevole dottrina) essere ravvisata:
a) in relazione all’inadeguatezza del patrimonio dell’imputato rispetto all’ammontare dei crediti da rea-
4
Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 26559, in CED Cass. n. 244371.
5
Cass., sez. IV, 26 ottobre 2005, n. 111, in CED Cass. n. 232624.
6
Cass., sez. V, 16 febbraio 2010, n. 11291, in CED Cass. n. 246367.
7
Così, tra le altre, Cass., sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, in CED Cass. n. 248819; Cass., sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486,
in CED Cass. n. 247999; Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, in CED Cass. n. 241933.
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to e alla conseguente necessità di costituire un privilegio a favore dei creditori privati; a1) in relazione,
in alternativa, all’insufficienza di quel medesimo patrimonio nei riguardi di una più vasta massa di
creditori e alla necessità perciò di costituire un privilegio a favore dei crediti da reato; ovvero b) quando
sorga un rischio di diminuzione – dispersione delle garanzie patrimoniali, capace di determinare, in riferimento ai medesimi parametri indicati sub a e sub a1, l’esigenza di un vincolo reale idoneo ad assicurarne la conservazione» (nella fattispecie, quindi, la Corte aveva confermato un sequestro disposto in
favore di una curatela fallimentare costituita parte civile, evidenziando: l’imponenza del passivo fallimentare e, dunque, l’obiettiva insufficienza di quello stesso patrimonio a soddisfare tutti i creditori; la
scarsa consistenza del patrimonio di tutti i coimputati e coobbligati; e, solo in ultima battuta, la scarsa
affidabilità dell’imputato, già per la sola natura distrattiva degli illeciti a lui addebitati) 8.
Se questi, dunque, sono gli asserti, non sembra si possa negare che il contrasto di giurisprudenza
esistesse e che sia stato, anzi, tanto profondo quanto perdurante nel tempo.
Ad una prima fase, infatti, in cui è prevalsa la tesi che privilegiava l’aspetto c.d. dinamico del “pericolo
di dispersione” delle garanzie patrimoniali, è seguito il progressivo affermarsi di quella che valorizzava,
quale presupposto alternativo al primo nonché di per sé sufficiente ai fini dell’adozione del vincolo, il
dato statico della “mancanza” originaria di tali garanzie. La breccia, in tal direzione, è stata aperta dalla
V sezione, con la sentenza 18 giugno 2004 9, n. 30326, seguita da numerose pronunce successive, oltre a
quelle già dianzi citate. Tale indirizzo interpretativo non è però riuscito ad affermarsi, poiché altrettanto consistenti sono state, in tempi recenti, le decisioni ascrivibili a quello con esso in conflitto 10.
Si è trattato, dunque, di un contrasto che non solo ha visto coinvolte pressoché tutte le sezioni semplici del giudice di legittimità, ma che, in qualche caso, si è manifestato anche all’interno delle singole
sezioni e, addirittura, pure tra sentenze redatte dal medesimo magistrato 11. Un contrasto, dunque, talmente tenace, da essersi trascinato finanche nelle more tra la camera di consiglio delle Sezioni Unite ed
il deposito della relativa motivazione, ed addirittura pure dopo di questa (sebbene – sembrerebbe – più
per una mancata conoscenza della devoluzione della relativa questione al supremo collegio, che per
una ragionata presa di posizione critica verso la tesi avversa) 12.
Così tracciati i confini di tale contrasto di giurisprudenza, piuttosto che la dimensione apparente dello stesso, ritenuta dalla Sezioni Unite, balza agli occhi l’assenza, in quasi tutte le sentenze esaminate, di
una confutazione critica della tesi avversa, rinvenendosi, al più, l’indicazione delle ragioni a sostegno
dell’interpretazione fatta propria, se non, addirittura, il semplice richiamo recettizio ai precedenti conformi, presentati, di volta in volta, come espressione di giurisprudenza «prevalente» o persino «consolidata», quando invece – come s’è visto – così non era.
LA DECISIONE DELLE SEZIONI UNITE
Alle Sezioni Unite è stato chiesto, quindi, di stabilire «se, per assentire la misura cautelare reale di cui
all’art. 316 ss. c.p.p., sia richiesta una situazione che faccia ritenere la futura dispersione del patrimonio
del debitore ovvero sia sufficiente una oggettiva inadeguatezza della garanzia patrimoniale in rapporto
all’entità del credito».
8
In questi termini, in particolare, Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, cit., pedissequamente richiamata da Cass., sez.
VI, 26 novembre 2010, n. 43660, cit.
9
Cass., sez. V, 18 giugno 2004, n. 30326, in CED Cass. n. 229123.
10
Per la prima tesi, cfr. Cass., sez. II, 21 settembre 2012, n. 44148, in CED Cass. n. 254340; Cass., sez. VI, 15 marzo 2012, n.
20923, in CED Cass. n. 252865; Cass., sez. V, 16 febbraio 2010, n. 11291, cit.; Cass., sez. III, 30 aprile 2009, n. 26559, cit.; Cass., sez.
IV, 26 ottobre 2005, n. 111, cit.; Cass., sez. II, 13 novembre 1997, n. 6216, in CED Cass. n. 209599; Cass., sez. IV, 17 maggio 1994, n.
707, in CED Cass. n. 198682; Cass., sez. I, 2 aprile 1996, n. 2128, in CED Cass. n. 204414.
Per la tesi contrapposta, v., invece, Cass., sez. IV, 22 ottobre 2013, n. 44809, in CED Cass.,n. 256768; Cass., sez. V, 27 gennaio
2011, n. 7481, in CED Cass. n. 249607; Cass., sez. II, 14 febbraio 2007, n. 12907, in CED Cass. n. 236387.
11
Cfr. Cass., sez. VI, 15 marzo 2012, n. 20923, cit.; Cass., sez. VI, 6 maggio 2010, n. 26486, cit.
12
Cass., sez. II, 2.10.2014, n. 44196 e Cass., sez. VI, 7 gennaio 2015, n. 14065, depositate, rispettivamente il 23 ottobre 2014 ed
il 7 aprile 2015, sono rimaste ferme alla tesi disattesa dalla decisione in commento; in senso conforme a questa, invece, si è
espressa Cass., sez. V, 13 novembre 2014, n. 1259, depositata il 13 gennaio 2015; in nessuna delle tre, tuttavia, si rinviene un riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite (tali sentenze si possono leggere nella banca dati telematica “DeJure”, Giuffrè).
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E, all’esito di una motivazione asciutta ed essenziale, esse sono pervenute all’enunciazione del seguente principio di diritto: «al fine di disporre il sequestro conservativo, è necessario e sufficiente che vi
sia il fondato motivo di ritenere che manchino le garanzie del credito; vale a dire che il patrimonio del
debitore sia attualmente insufficiente per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 316, commi 1 e
2, c.p.p.».
Non è indispensabile, allora, secondo le Sezioni Unite, che ricorra – anche – un “pericolo di dispersione”, ossia di successivo depauperamento del patrimonio del debitore, conseguente alla tipologia dei cespiti che lo compongono od al comportamento, negligente, avventato o fraudolento che sia, da quegli
tenuto successivamente al reato. La misura, in altri termini, potrà essere disposta in presenza di un patrimonio non esposto a rischio di riduzione nelle more del processo, ma comunque già di per sé insufficiente od inadeguato a garantire il credito; mentre, qualora un siffatto rischio ricorra, essa potrà non di
meno essere applicata pur quando la consistenza patrimoniale del debitore risulti solida.
Lo scopo dell’istituto, infatti, è quello di prevenire «il rischio che, all’esito del processo, la garanzia
del credito non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del debitore», come invece impone l’art.
2740 c.c., «norma – è utile ribadirlo – riferibile ad ogni tipologia di obbligazione, da qualsivoglia fonte
provenga». Pertanto – si legge nella sentenza – il presupposto applicativo dev’essere apprezzato non
già attraverso una «prognosi funzionale all’esecuzione forzata, ma va individuato sulla base di un pregiudizio attuale, che è potenzialmente orientato verso il futuro» 13.
È interessante rilevare come, ad un simile approdo ermeneutico, il collegio – del quale facevano parte anche gli estensori di alcune delle sentenze dianzi citate e tra loro in contrasto – sia pervenuto attraverso un triplice percorso: non soltanto valorizzando la lettera della legge, ma anche richiamando gli
antecedenti normativi dell’attuale istituto; nonché, infine, mettendo in risalto l’identità funzionale tra
quest’ultimo e l’omologo strumento cautelare previsto e disciplinato dal codice di rito civile.
Vale la pena, dunque, soffermarsi brevemente, ma partitamente, su ciascuno di tali aspetti.
IL DATO NORMATIVO TESTUALE
Le condizioni per l’adozione del sequestro – si legge al par. 4 della motivazione – «sono in modo così
chiaro indicate dal legislatore»; e, in un passo successivo, addirittura si parla di «univoca lettera dell’art.
316 c.p.p.». Sembra quasi di cogliere, nelle parole della Corte, un moto di stupore per i dubbi interpretativi rimessile, nonché, ad un tempo, un monito a tenere sempre presente il primo criterio interpretativo
enunciato dall’art. 12, comma 1, delle Preleggi, ossia quello per cui alla legge «non si può attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Effettivamente, il testo dell’art. 316 c.p.p., per la parte che qui interessa, appare perspicuo. Quello
che nella prassi suole definirsi il “periculum in mora” è, infatti, ivi descritto come la «fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento» delle obbligazioni nascenti dal reato.
Un primo profilo, dunque, si coglie all’evidenza: i due eventi – “mancanza” o “dispersione” della garanzia patrimoniale – «rilevano (o possono rilevare) autonomamente», per dirla con le parole testuali
della Corte, «come chiaramente espresso dalla formula disgiuntiva».
E «le garanzie mancano» – aggiungono le Sezioni unite, rammentando l’avallo di autorevole dottrina, pur ovviamente non potendola citare – «quando sussista la certezza, allo stato, dell’attuale inettitudine del patrimonio del debitore a far fronte interamente all’obbligazione nel suo ammontare presumibilmente accertato; si disperdono, quando l’atteggiamento assunto dal debitore è tale da far desumere
l’eventualità di un depauperamento di un patrimonio attualmente sufficiente ad assicurare la garanzia,
a causa di un comportamento del debitore idoneo a non adempiere l’obbligazione».
Anzi, in un altro passaggio della motivazione (par. 4, in fine), l’analisi semantica delle Sezioni Unite
si fa ancor più raffinata.
13
In dottrina, in termini pressoché sovrapponibili, N. Galantini, op. cit., p. 137, secondo cui l’accertamento dei presupposti
per l’adozione del sequestro consiste nel «comparare la consistenza patrimoniale con l’ammontare dei crediti da reato e valutare
non prognosticamente, ai fini del momento dell’esecuzione forzata, bensì in via attuale, la situazione contingente relativa
all’attitudine dei beni complessivi del sequestrando a coprire le obbligazioni ex delicto nella misura presuntivamente stabilita. In
ogni caso si valuta la sussistenza certa di un pregiudizio attuale, che ha la probabilità di fissarsi in un pregiudizio futuro qualora, concluso il procedimento, non possa effettivamente attuarsi la totale realizzazione dei crediti».
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Per un verso, infatti, la Corte, nell’ambito della nozione di “mancanza”, enuclea le due sottospecie
della “insufficienza” e della “inadeguatezza” delle garanzie patrimoniali, così distinguendo, all’interno
del genus, un profilo di tipo, rispettivamente, quantitativo e qualitativo.
Per l’altro, spiega come la “dispersione” di tali garanzie possa derivare non soltanto da cause di ordine soggettivo, qual è, tipicamente, il contegno del debitore, callido od anche semplicemente trascurato;
ma anche da ragioni di tipo oggettivo: si pensi, solo per esemplificare, alla deperibilità del bene mobile
od alla volatilità degli strumenti finanziari staggiti.
Si tratta di una distinzione non del tutto nuova nella giurisprudenza della Cassazione, poiché riecheggia quella già operata, in altre decisioni 14 rispetto alla quale, tuttavia, ha il pregio della maggior
sintesi. E, inoltre, come la Corte rivendica, essa trova pure il conforto della dottrina più accreditata, ormai da tempo, in verità, giunta a siffatte conclusioni 15.
LA COLLOCAZIONE SISTEMATICA DEL “SEQUESTRO CONSERVATIVO”
Le Sezioni Unite, per risolvere il conflitto loro devoluto, si sarebbero tranquillamente potute limitare
all’esegesi testuale del nitido dettato normativo. Ma, pur senza attardarsi, hanno deciso di andare oltre,
anzitutto valorizzando la collocazione sistematica dell’istituto.
Già in esordio del “considerato in diritto”, infatti, subito dopo aver fissato il quesito sottoposto al loro scrutinio, esse hanno ritenuto utile ricordare che il sequestro conservativo (esclusivamente su beni
mobili), considerato un mezzo di garanzia patrimoniale per l’esecuzione dagli artt. 189, 190 e 192 c.p.
(espressamente abrogati dall’art. 218, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271) e dall’art. 622 c.p.p. 1930, «è divenuto
nel sistema del codice del 1988 una misura cautelare reale che – è di rilievo precisarlo – si profila, con le
necessarie differenziazioni derivanti dalla tipologia procedimentale entro cui la pretesa viene fatta valere, come modulo pressoché analogo al sequestro conservativo civile, sia per la funzione ad esso assegnata dalla legge, e cioè impedire la disponibilità anche giuridica della cosa rendendone inefficace
l’eventuale alienazione, sia per l’identità dello strumento di esecuzione, vale a dire, il pignoramento».
Rinviando ad un successivo momento la disamina delle analogie con il corrispondente istituto civilistico, occorre invece valutare le possibili inferenze della transizione di tal specie di sequestro dalla categoria
dogmatica delle «garanzie patrimoniali di esecuzione» (come recitava la rubrica del relativo capo del codice di rito del 1930, artt. 616 ss.) a quella delle «misure cautelari reali», avvenuta col “codice Vassalli”.
Va subito precisato, tuttavia, che l’istituto del sequestro funzionale alla conservazione della garanzia
patrimoniale per l’adempimento degli obblighi derivanti da reato non è nato con la codificazione del
1930, bensì con il c.p.p. 1913 (artt. 605 ss.): il quale, peraltro, aveva conferito rango normativo alla prassi, affermatasi già durante la vigenza del c.p.p. 1865, di applicare, a tutela di quei crediti, il corrispondente istituto previsto dalla legge processuale civile, estendendone il raggio d’azione.
Al fondo della scelta dei codificatori del 1913, vi erano i princìpi dell’allora dominante dottrina giuridica positivista, attenta, come mai prima, alla dimensione sociologica del diritto e dei suoi istituti. Di
qui, la maggiore attenzione per la vittima del reato e l’attribuzione al risarcimento del danno di una
funzione sociale, ma anche la posposizione dello Stato nel soddisfacimento dei propri crediti: quasi a
rimproverargli una responsabilità concorrente per non essere stato in grado di prevenire la commissione del delitto.
Con il “codice Rocco”, l’impianto era rimasto sostanzialmente analogo, se non per un aspetto qualificante, oltre che espressivo dell’ideologia statalista di quel legislatore: l’attribuzione in via esclusiva al
pubblico ministero dell’iniziativa per la richiesta del sequestro, peraltro non rimessa alla discrezionalità
di quell’autorità giudiziaria, bensì intesa come espressione di un potere-dovere ad essa conferito 16.
14
Per esempio da Cass., sez. V, 26 settembre 2008, n. 43246, cit., e Cass., sez. VI, 26 novembre 2010, n. 43660, cit.
15
Cfr. N. Galantini, op. cit., p. 137, e M. Montagna, Sequestro conservativo penale, cit., p. 220; ma già E. Amodio, Le cautele patrimoniali nel processo penale, Milano, 1971, p. 149, in relazione all’analogo istituto disciplinato dall’art. 189, comma 3, c.p., con
identica formula normativa, aveva sostenuto che il pericolo del mancato adempimento, da parte dell’imputato, delle obbligazioni civili nascenti da un’eventuale sentenza di condanna può derivare non solo dalla volontà di costui di disperdere i propri
beni, ma anche «dalla insufficienza del patrimonio rispetto all’ammontare delle ragioni creditorie da reato e dalla inadeguatezza
dello stesso a garantire l’integrale soddisfacimento della massa creditoria».
16
Si leggeva – nella Relazione definitiva – che l’identica facoltà della parte civile, prevista dal codice del 1913, era stata soppressa,
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Il codice del 1988 e la relativa normativa di coordinamento hanno, quindi, profondamente innovato
la materia.
Sotto il profilo formale, infatti, hanno concentrato nel codice di rito (artt. 316-320) una disciplina
prima ripartita tra i due codici (artt. 189-191 c.p. e 616-620 c.p.p.), contestualmente abrogando le disposizioni del codice penale che prevedevano l’ipoteca legale (art. 218, d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271): ond’è
che il “sequestro conservativo” oggi rappresenta l’unico strumento legale di garanzia per l’adempimento dei debiti da reato.
Quanto ai contenuti, poi, non soltanto l’iniziativa per l’azione cautelare, limitatamente alla garanzia
per le obbligazioni civili derivanti dal reato, è stata restituita alla parte civile (in aggiunta a quella, invece mantenuta in via esclusiva in capo al pubblico ministero, a tutela dei crediti dell’Erario), ma altresì
ne è stata estesa la sfera di operatività dai soli beni mobili (art. 189, comma 3, c.p.) anche agli immobili
(con la conseguente superfluità dell’ipoteca legale, per tal ragione abrogata) e, anzi, ad ogni altra somma o cosa dovuta all’imputato (ed anche al responsabile civile, nel caso di sequestro funzionale alla garanzia delle obbligazioni civili), con il solo limite della impignorabilità («nei limiti in cui la legge ne
consente il pignoramento» – recita infatti la norma).
Ma la più suggestiva innovazione apportata dal nuovo codice di rito, e probabilmente quella più rilevante ai fini del formarsi del contrasto di giurisprudenza rimesso alle Sezioni Unite, è stata quella sistematica: la collocazione, ossia, del «sequestro conservativo» nel Libro IV, dedicato alle “misure cautelari”.
In realtà, all’interno di tale genus, ma anche della species rappresentata da quelle reali, il sequestro
conservativo presenta dei tratti decisamente peculiari: perché peculiare è il rischio che esso mira a prevenire, nonché del tutto differente rispetto a quelli oggetto non soltanto delle misure personali, coercitive od interdittive che siano, ma anche dell’altra misura cautelare reale tipica, ovvero il “sequestro
preventivo” (artt. 321 ss. c.p.p.).
Basti solo pensare che il sequestro conservativo è l’unica misura cautelare che può essere richiesta
dalla parte civile, essendo, invece, riservata esclusivamente al pubblico ministero l’iniziativa per
l’applicazione di tutte le altre, siano esse personali o reali. Ma è anche l’unica, tra tutte queste, che può
essere chiesta e disposta «in ogni stato e grado del processo di merito»: ovvero soltanto dopo l’esercizio
dell’azione penale da parte del pubblico ministero e non anche prima, ossia nel corso delle indagini
preliminari, come invece può accadere per le altre. E solamente per il sequestro conservativo, inoltre,
tra tutte le misure cautelari, il codice non contempla ex professo la possibilità di revoca, qualora vengano
meno, ad esecuzione in corso, i requisiti normativi 17.
Su un aspetto, invece, i conditores dell’attuale codice hanno deciso di non discostarsi dalla normativa
precedente: giust’appunto quello dei presupposti per l’imposizione del vincolo. Replicando tal quale,
infatti, il disposto dell’abrogato art. 189, comma 3, c.p., essi hanno previsto che tale forma di sequestro
possa trovare applicazione «se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il
pagamento» delle obbligazioni da reato.
E, poiché, vigente la normativa anteriore, né dottrina né giurisprudenza revocavano in dubbio la possibilità di concedere tale misura anche nel caso di insufficienza od inadeguatezza – per così dire – genetiche della garanzia patrimoniale offerta dall’imputato potenziale debitore, ed indipendentemente dal
comportamento più o meno affidabile da costui assunto dopo il reato, non si ravvisa plausibile ragione
per modificare una siffatta interpretazione.
perché «queste garanzie» – il riferimento era anche all’ipoteca legale –, «disposte ad iniziative del pubblico ministero o del pretore,
giovano anche ai privati interessati». In letteratura, invece, accanto a chi giustificava tale scelta sulla base della ritenuta difficoltà, per
il privato, di valutare le condizioni legittimanti il sequestro, v’erano altri che evidenziavano come le obbligazioni ex delicto possiedono
quel carattere pubblicistico che unicamente un organo pubblico può adeguatamente tutelare mediante idonei provvedimenti (per
una rassegna di tali contributi e, più in generale, per una ricostruzione diacronica dell’istituto, N. Galantini, op. cit., p. 134 ss.).
17
Il punto, in verità, registra prese di posizione differenti all’interno della stessa giurisprudenza di legittimità: nel senso della irrevocabilità, per il venir meno dei presupposti che ne hanno legittimato l’adozione, prima della sentenza definitiva di proscioglimento o di non luogo a procedere, fatta salva l’offerta di cauzione, si sono espresse, tra le più recenti, Cass., sez. IV, 15
maggio 2013, n. 39171; Cass., sez. V, 17 aprile 2012, n. 40407; contra, Cass., sez. V, 4 ottobre 2005, n. 45929; Cass., sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 13624: le quali sottolineano la «coessenziale strumentalità» di ogni misura cautelare al soddisfacimento di attuali
esigenze cautelari e la dipendenza strutturale dalla sussistenza di idonei presupposti che ne legittimano la validità, per tal via
concludendo che la mancanza di un potere codificato di revoca a processo in corso non possa comunque impedire la caducazione del provvedimento, qualora il giudice ne accerti l’illegittimità per mancanza dei presupposti che lo giustificano.
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Certamente tale non potrebbe essere esclusivamente la mutata collocazione sistematica dell’istituto,
considerando, peraltro, che anche il sequestro tipizzato dall’art. 189 c.p., pur annoverato tra le «sanzioni civili» (artt. 185 ss. c.p.) e tra le «garanzie patrimoniali di esecuzione», poteva ovviamente essere concesso non solo all’esito della sentenza di condanna, ancorché non definitiva, ma anche durante
l’istruzione formale, e persino nel corso di quella sommaria (art. 617, comma 2, c.p.p. 1930).
In ragione, poi, delle già accennate peculiarità del sequestro conservativo, l’estensione ad esso di requisiti, normativi o frutto di elaborazione giurisprudenziale, riferibili ad altre misure cautelari si rivela, allora, un arbitrario paralogismo.
Tanto dicasi, in particolare, per la indispensabilità della valutazione del comportamento dell’imputato,
pur in presenza di un patrimonio di per sé insufficiente od inadeguato, sostenuta dalla tesi invece disattesa dalle Sezioni Unite con la sentenza in commento. La considerazione di tale aspetto soggettivo, infatti, può avere ragion d’essere laddove si tratti di stabilire la sussistenza o meno di un pericolo di recidiva, di fuga o di compromissione dei risultati probatori, com’è richiesto per le misure personali; e
fors’anche quando il giudice sia chiamato a prevedere se la disponibilità di una cosa pertinente al reato
possa aggravarne o protrarne le conseguenze ovvero agevolare la commissione di altri reati, come l’art.
321, comma 1, c.p.p. richiede per il sequestro preventivo. Ma, se quello che la misura è deputata a prevenire è – per ripetere le parole delle Sezioni Unite – «il rischio che, all’esito del processo, la garanzia
del credito non possa trovare soddisfazione con il patrimonio del debitore», così da svuotare il principio sancito dall’art. 2740 c.c., e se, quindi, la finalità di tale misura è quella di «inibire temporaneamente
la disponibilità del patrimonio all’imputato ed al responsabile civile, se citato, per garantire il ristoro
allo Stato ed alle persone danneggiate delle conseguenze patrimoniali di un reato» 18, l’assunto della necessaria valutazione del comportamento dell’imputato appare privo di qualsiasi sostegno normativo,
anche soltanto di tipo logico o sistematico.
L’ANALOGIA COL SEQUESTRO CONSERVATIVO CIVILE
L’ultimo pilastro su cui la Corte ha costruito la propria interpretazione, peraltro strettamente connesso
a quello della collocazione sistematica dell’istituto, è costituito dalla ritenuta analogia del sequestro
conservativo penale rispetto all’omologo – ed omonimo – strumento disciplinato dall’art. 671 c.p.c., «in
un assetto che può dirsi quasi sovrapponibile sia sul piano strutturale sia sul piano funzionale alla disposizione dell’art. 316 c.p.p., e che appare speculare rispetto alla intentio legis che ha trasformato il regime di garanzia patrimoniale (anche per la parte civile) sistemandolo tra le misure cautelari reali» (così, testualmente, in conclusione della parte motiva).
Invero, l’identità funzionale dei due istituti, entrambi volti ad eliminare il c.d. “pericolo da infruttuosità” di un’azione giudiziaria, mal ne potrebbe tollerare una disciplina diversa, se non negli aspetti specifici e legati alla peculiarità dei differenti riti. E la scelta del c.p.p. 1988 in tal senso è stata netta, oltre che
esplicitata nella Relazione al progetto definitivo, in cui si legge che l’ampliamento del catalogo delle cose
assoggettabili al sequestro è stato disposto «nella linea dell’art. 671 c.p. c.».
In verità, nella direzione dell’assimilazione del nuovo istituto penale al preesistente modello del codice di rito civile, sulla quale v’è concordia di opinioni anche in dottrina, depongono non solo l’identico
nomen iuris (prima d’allora, in effetti, il predicato “conservativo” compariva soltanto nella rubrica
dell’art. 617 c.p.p. 1930, ma non anche nell’art. 189 c.p.) e la già evidenziata nuova collocazione sistematica di esso tra le misure cautelari (il codice di procedura civile riserva al sequestro conservativo, infatti,
un’apposita sezione del capo III, dedicato, appunto, ai «procedimenti cautelari», all’interno del Libro IV,
che disciplina i procedimenti speciali). Tale chiara intenzione del legislatore, infatti, trova ulteriori ed
inequivoci indici rivelatori: primo fra tutti, l’ampliamento del relativo ambito di applicazione, per
l’innanzi – come detto – limitato ai soli beni mobili dell’imputato (art. 189, comma 3, c.p.) ed ora, invece, esteso anche agli immobili ed alle «somme o cose a lui dovute, nei limiti in cui la legge ne consente il
pignoramento», con formula testuale pressoché speculare a quella dell’art. 671 c.p.c.; ma anche
l’espresso richiamo, per l’esecuzione della misura, alle forme prescritte dal codice di procedura civile
(art. 317, comma 3, c.p.p.); e così, pure, la prevista conversione in pignoramento, all’esito della sentenza
18
Così, più compiutamente, in letteratura, U. Dinacci, op. cit., p. 39.
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definitiva di condanna, proprio come avviene per la corrispondente misura civile (artt. 320, comma 1,
c.p.p. e 686, comma 1, c.p.c.).
Se questo, dunque, è l’assetto normativo, le Sezioni Unite, per l’esigenza di non contraddittorietà interna dell’ordinamento, non avrebbero potuto obliterare la giurisprudenza formatasi anche sul sequestro conservativo civile. E, in effetti, non solo non l’hanno fatto, ma anzi hanno trovato in essa ulteriore
suffragio alla loro opzione ermeneutica.
Da tempo, infatti, le sezioni civili della Corte di cassazione sono pervenute alla conclusione che «in
tema di sequestro conservativo, il giudice di merito può, in sede di convalida, far riferimento, alternativamente, tanto a criteri oggettivi (rappresentati dalla capacità patrimoniale del debitore in relazione
all’entità del credito) quanto soggettivi (quali il comportamento del debitore che lasci fondatamente
temere atti di depauperamento del suo patrimonio), senza che, ai fini della validità del provvedimento
di convalida, le due categorie di presupposti debbano simultaneamente concorrere» 19.
Peraltro, non può non mettersi in risalto come la giurisprudenza civile sia pervenuta a tale approdo,
pur dovendo misurarsi, per la parte che qui interessa, con un testo normativo decisamente più generico, rispetto a quello dell’art. 316, c.p.p.
L’art. 671, c.p.c., infatti, definisce il “periculum in mora” come «il fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito». E, ad una lettura sinottica delle due disposizioni, non può non cogliersi
l’assenza, in quest’ultima, di qualsiasi riferimento alla “mancanza” di tali garanzie, invece espressamente contenuto nel testo del citato art. 316 c.p.p.
Ne deriva che, anche sotto questo profilo, si ottiene ulteriore conferma logica della sufficienza, per
l’adozione del sequestro conservativo penale, di quella che le Sezioni Unite hanno definito una situazione “statica”, ed oggettiva, di insufficienza od inadeguatezza originarie della garanzia patrimoniale,
in alternativa a quella “dinamica”, e soggettiva, consistente nel pericolo di depauperamento successivo
del patrimonio del debitore, per cause a questi comunque imputabili.
Del resto, la valorizzazione del profilo oggettivo del “periculum”, anche da parte dell’art. 671 c.p.c., si
può meglio cogliere laddove si ponga mente alla disciplina previgente, ossia quella del codice civile del
1865. Quest’ultimo, infatti, all’art. 924, palesemente privilegiando gli aspetti di tipo soggettivo, individuava il presupposto per la tutela cautelare del creditore nei «giusti motivi di sospettare della fuga del
suo debitore, di temere sottrazioni o – con previsione evidentemente residuale e di chiusura – se sia in
pericolo di perdere le garanzie del suo credito».
Appare, allora, innegabile che, se i compilatori del codice del 1940 hanno avvertito la necessità di
mutare in parte qua la formula normativa, omettendo qualsiasi riferimento espresso al contegno del debitore, la ragione di una simile scelta vada ricercata principalmente nella volontà di valorizzare, ai fini
della concessione della tutela cautelare del creditore, il dato obiettivo dell’incapienza od inadeguatezza
della garanzia patrimoniale offerta dal debitore.
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
La sentenza in commento, dunque, appare convincente e condivisibile.
La scelta legislativa di attrarre nell’ampio e variegato genus delle misure cautelari il sequestro conservativo, invero, non autorizza l’interprete a leggere la relativa disciplina con le medesime “lenti”
buone per le altre, perché – come già si accennava – profonde sono le differenze del primo rispetto a
queste ultime, a cominciare dall’esigenza cautelare che esso mira a preservare 20.
È di solare evidenza logica, infatti, che il comportamento dell’imputato abbia valenza decisiva, e
debba perciò essere inevitabilmente e prioritariamente tenuto in considerazione, laddove si tratti di limitarne la libertà personale o le facoltà ed i diritti riconosciutigli dall’ordinamento; e tale aspetto sog-
19
Così, Cass. civ., sez. II, 26 febbraio 1998, n. 2139, in CED Cass. n. 513090, e Cass. civ., sez. III, 16 aprile 1996, n. 3563, in CED
Cass. n. 497062; analogamente, Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2002, n. 2081, in CED Cass. n. 552250, e Cass. civ., 17 luglio 1996, n.
6460, in CED Cass. n. 498604: tutte citate dalle Sezioni Unite; ma, già prima di tali pronunce, negli stessi termini si era espressa,
ad esempio, Cass. civ., sez. I, 12 novembre 1984, n. 5691, in CED Cass. n. 437370.
20
Evidenzia la natura, complessa e singolare, del sequestro conservativo, quale misura, ad un tempo, cautelare e costitutiva
di privilegio, F. Lattanzi, sub art. 316 c.p.p., in G. Lattanzi-E. Lupo (diretto da), Rassegna di giurisprudenza e dottrina sul codice di
procedura penale, Milano, 2008, p. 1571 ss.
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gettivo può non essere indifferente anche quando si tratti di valutare se la libera disponibilità di una cosa, comunque pertinente al reato, possa rendere più incisiva l’offesa al bene giuridico con esso violato.
Non si riesce francamente a scorgere, invece, per quale ragione la valutazione devoluta al giudice
debba procedere lungo il medesimo percorso, allorché il vincolo sulla res trovi la sua ragione giustificativa non già nel collegamento di essa al reato, bensì esclusivamente nella connotazione patrimoniale
della stessa. E men che mai ciò appare plausibile in mancanza di un saldo aggancio normativo, ed anzi
in presenza di un dato testuale che, nella sua lettura più piana e lineare, spinge in tutt’altra direzione.
Ciò non di meno, non sono mancati, in passato, accenti di aspra critica all’interpretazione poi fatta
propria dalla Sezioni Unite, sui quali mette conto soffermarsi.
Si è sostenuto che, trascurando il comportamento dell’imputato, si spoglierebbe di elementi qualificanti e selettivi un istituto già povero di contenuti, dal momento che l’altro presupposto, ossia il c.d.
“fumus boni iuris”, nella prassi si risolve nel dato formale della mera pendenza di un processo penale.
Inoltre, poiché non è necessario che l’importo del credito da garantire col sequestro sia precisamente
individuato, essendo invece sufficiente che esso sia determinabile con qualche approssimazione 21,
l’imputato, di fronte a pretese risarcitorie particolarmente elevate, ancorché non dimostrate, si troverebbe nella pratica impossibilità di provare l’insussistenza di un periculum in mora: con la conseguenza
di un «pericoloso automatismo» tra domanda della parte civile e provvedimento del giudice, e con un correlato squilibrio di poteri tra parte civile ed imputato, lesivo del principio di parità delle parti, imposto
dall’art. 111, comma 2, Cost.
Senza dire – si è aggiunto – che, se davvero la condotta dell’imputato non dovesse acquisire alcuna
rilevanza in termini positivi, l’art. 316 c.p.p., soprattutto in presenza di crediti elevati vantati dalla parte
civile, rischierebbe di produrre, addirittura, effetti criminogeni, poiché incentiverebbe la dispersione dei
beni, anziché scoraggiare i comportamenti scorretti 22.
Si tratta di considerazioni critiche che non scalfiscono la solidità della tesi avversata, e non soltanto
perché non allegano alcuno specifico appiglio normativo a sostegno di quella invece sostenuta.
Quanto all’asserita povertà di contenuti del sequestro conservativo, invero, pare sfuggire a quei critici che tale misura possa essere disposta soltanto nel corso del «processo di merito», e che, dunque, essa presupponga, quanto meno, l’avvenuto esercizio dell’azione penale.
Se così è, allora, se non altro per l’ipotesi in cui sia stato emesso il provvedimento di vocatio in iudicium dell’imputato (decreto di citazione diretta, decreto che dispone il giudizio, decreto di giudizio
immediato), non è discutibile che il fumus richiesto per tal specie di sequestro, ossia il probabile fondamento dell’accusa, risulti finanche assai più denso di quello che è sufficiente a giustificare, per esempio,
l’adozione di un «sequestro preventivo» e che si risolve, in estrema sintesi, in una verifica di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata 23. Infatti, il rinvio a giudizio – soprattutto dopo
l’eliminazione del requisito della “evidenza” della non colpevolezza, quale presupposto per una sentenza di non luogo a procedere, originariamente previsto dall’art. 425 c.p.p. – impone una valutazione delle emergenze istruttorie che, se anche non deve spingersi sino a ravvisare l’elevata probabilità di colpevolezza richiesta per l’applicazione di una misura cautelare personale, non si esaurisce nella mera veri-
21
Così, in effetti, Cass., sez. un., 26 giugno 2002, n. 34623, in CED Cass. n. 222262; nonché, più di recente, Cass., sez. V, 25
giugno 2010, n. 35525, in CED Cass. n. 248494; Cass., sez. V, 8 maggio 2009, n. 28268, in CED Cass. n. 244201.
22
In tal senso, v. M. Parisi, Oscillazioni giurisprudenziali sul “periculum in mora” nell’ambito del sequestro conservativo a richiesta
della parte civile, in www.penalecontemporaneo.it, 22.6.2011.
23
V., più ampiamente, Cass., sez. un., 4 maggio 2000, n. 7, ric. Mariano, in Cass. pen., 2000, p. 2225. Analogamente, quantunque con riferimento specifico al sequestro probatorio, ma con una proposizione per intero estensibile anche a quello preventivo,
stante l’identità di presupposti tra i due istituti per questa parte, le Sezioni Unite si erano espresse già nella sentenza n. 23 del 29
gennaio 1997, ric. Bassi (in Cass. pen., 1997, p. 1673), laddove avevano statuito che: «al giudice spetta il dovere d’accertare la sussistenza del c.d. fumus commissi delicti, che, pur se ricondotto nel campo dell’astrattezza, va sempre riferito ad un’ipotesi, ascrivibile alla realtà effettuale e non a quella virtuale»; il giudice, dunque, «deve, nell’ambito degli elementi di fatto indicati
dall’accusa, verificare la loro congruità, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro; al giudice è soltanto inibito
l’espletamento di un’attività dimostrativa della fondatezza concreta della contestazione mossa all’indagato». Il che significa, in
altri termini, che il giudice non può certo limitarsi a prendere atto dell’ipotesi accusatoria, ma è tenuto a verificare la consistenza
degli elementi di fatto su cui il P.M. la fonda e la corrispondenza di tale fattispecie concreta rispetto a quella astratta tipica, tenuto conto delle eventuali contestazioni difensive: e qui deve fermarsi. Non può, cioè, vagliare pure l’efficacia probante degli elementi istruttori eventualmente addotti dalla difesa, poiché, ove tanto fosse tenuto a fare, la sua indagine non differirebbe in nulla da quella commessa al giudice della cognizione o, per lo meno, al giudice delle misure cautelari personali.
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fica di corrispondenza tra ipotesi accusatoria e fattispecie tipica, ma postula una prognosi di evoluzione
di quelle acquisizioni in prove di colpevolezza.
Anzi, si va affermando in sede di legittimità l’opinione per cui il giudice sia tenuto ad un analogo
scrutinio di fondatezza dell’ipotesi d’accusa anche qualora la misura gli venga richiesta nel corso
dell’udienza preliminare, o comunque nelle more tra l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero ed il rinvio a giudizio dell’imputato 24.
Del tutto infondato è, poi, il timore dell’ipotizzato “automatismo” tra domanda della parte civile ed
adozione della misura, soprattutto in presenza di istanze risarcitorie per importi molto consistenti.
Nonostante la sua posizione singolare nell’ambito delle misure cautelari, infatti, il sequestro conservativo non si sottrae ai princìpi immanenti alle stesse, ovvero quelli di proporzionalità e di adeguatezza 25.
È compito, dunque, del giudice – ha ribadito ancora in epoca molto recente la Suprema Corte – «valutare che il vincolo sia mantenuto nei limiti in cui la legge lo consente e verificare la ragionevole proporzionalità fra crediti da garantire ed ammontare del debito, fermo restando che spetta all’interessato che
denunci la sproporzione dare la prova del proprio assunto» 26.
Nessuno squilibrio di poteri a detrimento dell’imputato, allora, in tal modo si realizza, come pure
nessuna violazione del principio costituzionale di parità tra le parti: quest’ultimo, invero, absit iniuria,
evocato a sproposito, poiché non riferibile, e comunque non limitato, alla distribuzione dell’onere probatorio, che, evidentemente, non può non essere modulato differentemente, a seconda delle fasi del
procedimento e dei diversi istituti processuali.
Anzi, se così fosse, se, cioè, qualsiasi divergenza della specifica disciplina del sequestro conservativo
dai princìpi generalmente applicabili alle altre misure cautelari, quantunque giustificata dalla peculiare
funzione di esso, potesse reputarsi tale da determinare una violazione di quel principio costituzionale,
la prima a dolersi di un’ipotetica disparità di trattamento dovrebbe essere proprio la parte civile, già
per il sol fatto che tale misura – unica tra tutte – non possa esser chiesta ed ottenuta nel corso delle indagini preliminari.
Peraltro, c’è pure chi ha sostenuto che la ritenuta irrilevanza del comportamento dell’imputato, ai fini dell’adozione del sequestro conservativo, violerebbe la carta costituzionale sotto il diverso profilo
dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ai sensi dell’art. 3, poiché introdurrebbe una discriminazione tra debitori, in ragione delle relative condizioni economiche. A stroncare, tuttavia, tale velleitaria lettura, ci ha pensato la Corte di cassazione, bollandola di «radicale improprietà» e ricordando che la
ratio della disciplina legislativa in questione risiede nella «assorbente e ragionevole esigenza di assicurare ogni più ampia garanzia alle istanze creditorie vantate da soggetti aggrediti da illeciti altrui, in ipotesi pregiudicati dall’eventuale ricorso di indici di rischio obiettivamente connessi alle concrete condizioni economiche dell’autore dell’illecito» 27.
In realtà, tutte le illustrate critiche alla tesi avallata dalle Sezioni Unite muovono da un errore di prospettiva, poiché paiono assegnare al sequestro conservativo una concorrente funzione di tipo – per così
dire – sanzionatorio, che può intravedersi in tutte le altre misure cautelari tipiche, sia personali che reali,
ma che, invece, ad esso è del tutto estranea. Il sequestro conservativo, infatti, a differenza delle altre misure cautelari, non mira ad impedire che colui nei cui confronti lo Stato eserciti la propria potestà punitiva, nel tempo necessario al compiuto esercizio di essa, faccia – ci si passi la terminologia poco curiale –
24
In questo senso, Cass., sez. V, 2 ottobre 2014, n. 51147, in CED Cass. n. 261906, che, dopo aver ribadito la non estensibilità
alle misure cautelari reali di quanto stabilito dalla sentenza n. 71 del 1996 della Corte Costituzionale (secondo cui, pur dopo
l’emissione del decreto che dispone il giudizio, il giudice chiamato a decidere di una misura cautelare personale è tenuto a valutare la sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza), ha affermato che, in materia di sequestro conservativo, «la proponibilità della questione relativa alla sussistenza del “fumus” del reato è preclusa se sia stato disposto il rinvio a giudizio del soggetto interessato, ma non anche quando vi sia la sola richiesta di rinvio a giudizio, poiché quest’ultima è atto della pubblica accusa, mentre la “ratio” della preclusione è collegata ad una valutazione del giudice sulla idoneità e sufficienza degli elementi
acquisiti per sostenere l’accusa in giudizio». Non mancano, tuttavia, precedenti di segno differente: nel senso, meno rigoroso,
della mera sufficienza della pendenza di un processo penale e della formulazione dell’imputazione, Cass., sez. III, 7 novembre
1990, n. 4670, in CED Cass., n. 186134; in quello, invece più rigido, della necessità di una valutazione delle accuse nel merito,
Cass., sez. IV, 17 maggio 1994, n. 707, in CED Cass., n. 198681.
25
In questo senso, già Cass., sez. I, 5 aprile 1996, ric. Baldassar, in Cass. pen, 1997, p. 1820.
26
Cass., sez. V, 19 gennaio 2015, n. 9851 (dep. 6 marzo 2015), con indicazione di altri precedenti in termini, pubblicata nella
banca dati telematica “DeJure”, Giuffrè.
27
Cass., sez. IV, 22 ottobre 2013, n. 44809, in CED Cass. n. 256768.
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altri danni: ossia frustri la relativa pretesa (inquinando le prove o rendendosi irreperibile) ovvero continui a violare la legge (commettendo altri reati oppure aggravando le conseguenze offensive di quello
già commesso, grazie alla disponibilità delle cose ad esso pertinenti). Esso, piuttosto, è tutto rivolto dalla parte del creditore, Stato o privato danneggiato che sia, e si preoccupa di apprestare quanto necessario per evitare che le relative, legittime aspettative economiche rimangano insoddisfatte: ciò che innegabilmente può avvenire anche quando il debitore non abbia alcuna intenzione di svuotare il suo patrimonio, ma questo sia, già di per sé, scarso o deperibile.
Più che perplessi, infine, lascia l’obiezione riguardante l’asserita natura “criminogena” dell’interpretazione normativa qui sostenuta.
È inaccettabile, innanzitutto per ragioni di principio, pretendere di far dire ad una norma quello che
non dice, dietro la minaccia, altrimenti, di violarla. In secondo luogo, è agevole replicare che il debitore
“mariuolo” cercherebbe comunque di svuotare il suo patrimonio, sia se il relativo ammontare fosse sufficiente a far fronte ai suoi obblighi ex delicto, sia qualora già non lo fosse in origine. Anzi, ed infine,
laddove tale patrimonio fosse capiente, e l’imputato onesto, non converrebbe a quest’ultimo dissiparlo
in pendenza di giudizio, poiché, in quel caso, il sequestro conservativo non potrebbe essere concesso,
non potendosi ravvisare né un pericolo di dispersione delle garanzie, né la “mancanza” di esse.
In verità, il completo dispiegamento delle potenzialità del sequestro conservativo, svincolato dalle
Sezioni Unite dalla necessità di tener comunque conto del comportamento inaffidabile dell’imputato,
non solo – come s’è visto – resiste alle critiche, ma rappresenta provvida manifestazione di quella maggiore attenzione per la vittima del reato, che, sempre più insistentemente, sta cercando di trovare spazio
all’interno di un sistema processuale per lo più tenacemente preoccupato di non lasciare possibili vuoti
di garanzia per l’imputato.
Infine, va segnalato come, soprattutto dopo la sentenza in commento, ed il conseguente, auspicabile
venir meno di qualsiasi oscillazione sul profilo da essa esaminato, il sequestro conservativo possa trovare significati spazi applicativi in relazione a quei fenomeni criminali caratterizzati da offensività diffusa, che rappresentano la nuova frontiera del diritto penale e che spesso sono riconducibili a strutture
plurisoggettive ed economicamente complesse, al cui cospetto la vittima è evidentemente più vulnerabile: si pensi, solo per fare qualche esempio, ai reati ambientali, a quelli in materia di tutela dei consumatori oppure alle malattie da lavoro.
Si tratta di ambiti criminali moderni, ai quali evidentemente mal si attaglia il diritto penale tradizionale, calibrato su un modello di reo inevitabilmente costituito da un individuo persona fisica. Ad essi,
com’è noto, peraltro sulla spinta di norme e sollecitazioni sovranazionali, il nostro ordinamento ha
provato a dare una prima risposta organica e di sistema con il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in materia di
responsabilità da reato degli enti collettivi.
Ma, venendo al tema che qui interessa, tale corpus normativo contempla sì il sequestro conservativo,
peraltro con formula sostanzialmente identica a quella dell’art. 316 c.p.p., nonché richiamandone integralmente la disciplina del codice di rito; tuttavia lo prevede soltanto a tutela dei crediti dell’Erario, e
non anche di quelli della parte civile 28.
Ragione per cui, di fronte a simili fenomeni criminali ed alla frammentazione delle responsabilità
individuali dei singoli, tipica di essi, il sequestro conservativo può rappresentare, per le parti civili, specialmente quando queste siano in gran numero, l’unico strumento per cercare di ottenere il ristoro dei
danni sofferti in conseguenza del reato. Tale misura, infatti, può attingere anche i beni del responsabile
civile, ed è ben possibile che l’ente economico, soggetto solitamente provvisto di un patrimonio assai
più consistente rispetto al singolo imputato che ha agito per esso, possa assumere tale veste, se non altro grazie all’ampia previsione dell’art. 2049 c.c.
Ma, anche in questo caso, a ben vedere, la parte civile non può dormire sonni tranquilli. È pacifico in
giurisprudenza, meno in dottrina, che la posizione di garanzia del responsabile civile sia concorrente
con quella dell’imputato e non sussidiaria rispetto ad essa: sicché il sequestro può attingere direttamente i beni del primo. A tal fine, però, è necessario non solamente che l’azione civile sia stata esercitata nel
processo penale, ma altresì che, di quest’ultimo, sia parte anche il responsabile civile, poiché in esso co-
28
Al punto che proprio questo è uno degli aspetti principalmente valorizzati dalla Corte di cassazione per escludere
l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo contro gli enti per responsabilità da reato (in tal senso, da ultimo,
Cass., sez. IV, 17 ottobre 2014, n. 3786, in Guida dir., 2015, 16, p. 66).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL “PERICULUM IN MORA” NEL SEQUESTRO CONSERVATIVO PENALE
Processo penale e giustizia n. 4 | 2015
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stituitosi a seguito di citazione o per intervento volontario 29.
Non può sfuggire, tuttavia, che – a norma dell’art. 86, comma 2, c.p.p. – al responsabile civile è consentito chiamarsi fuori dal processo penale (salvo ovviamente il caso in cui vi sia volontariamente intervenuto), qualora esso ritenga che gli elementi di prova raccolti prima della propria citazione in giudizio possano recare pregiudizio alla sua difesa, in considerazione ed in prospettiva dell’efficacia di
giudicato della sentenza penale nei conseguenti giudizi civili ed amministrativi, ai sensi degli artt. 651 e
654 c.p.p.
Ebbene, specialmente nei procedimenti per reati – come s’è detto prima – ad offensività diffusa, non
è affatto infrequente che elementi di prova idonei a pregiudicare la posizione del responsabile civile (se
non addirittura prove tout court: si pensi a quelle acquisite in sede d’incidente probatorio) siano raccolti
nel corso delle indagini preliminari (ad esempio, accertamenti tecnici irripetibili, ma anche, in ipotesi,
prove dichiarative non più replicabili). Dunque, durante una fase del procedimento, inevitabilmente
precedente alla citazione del responsabile civile, poiché, nel corso di essa, non può costituirsi in giudizio neppure la parte civile, che è tenuta a citarlo (v. artt. 79, comma 1, 83, comma 1, e 84, comma 1,
c.p.p.). In tutti questi casi, allora, è piuttosto elevata la probabilità che il responsabile civile ottenga di
essere escluso dal processo e, correlativamente, assai concreto sarà il rischio, per la parte civile, di vedere frustrate, nei fatti, le proprie aspettative risarcitorie, potendo essa ottenere il sequestro conservativo
esclusivamente verso i beni dell’imputato, pur rimanendo a sua disposizione, ovviamente, gli ordinari
strumenti di tutela giudiziaria in sede civile 30.
In conclusione, non può che essere accolta con favore la lettura normativa offerta dalle Sezioni Unite
con la sentenza in commento. Essa, infatti, oltre che maggiormente aderente al testo normativo, risulta
conforme alle più recenti istanze, sociali ma anche scientifiche, di un diritto penale più attento alle vittime dei reati. Ad un tempo, poi, si colloca nel solco, ormai decisamente tracciato dalla nostra legislazione penale, sebbene per lo più nella obbligata scia delle fonti comunitarie od internazionali pattizie,
della valorizzazione di una risposta repressiva penale in rem, vale a dire indirizzata verso il patrimonio
del reo e non solamente alla persona dello stesso, mediante più o meno incisive limitazioni della sua libertà personale.
29
Sulla natura concorrente della garanzia patrimoniale del responsabile civile e dell’imputato, v., tra le tante, Cass., sez. IV,
22 aprile 2010, n. 17669, in Cass. pen., 2011, p. 2313.
30
Analogo rischio la parte civile corre nel caso di fallimento del responsabile civile: da tempo ormai le Sezioni Unite hanno
precisato che la misura cautelare del sequestro conservativo penale, «in quanto strumentale e prodromica ad una esecuzione
individuale nei confronti del debitore ex delicto, deve farsi rientrare, in caso di fallimento dell’obbligato, nell’area di operatività
del divieto di cui all’art. 51 l. fall. (secondo cui “dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”), palesandosi una sostanziale identità funzionale con
l’omologo sequestro civile, che dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente non esperibile in costanza di fallimento (vedi
Cass. civ., 26 febbraio 1992, n. 2346; Cass. civ., 14 aprile 1988, n. 2960). Comune è, infatti, il presupposto del periculum in mora,
che viene considerato quale concetto unitario attinente alla garanzia patrimoniale preventiva, sia che il credito venga fatto valere in sede civile sia che venga azionato nel processo penale. Le conseguenze sul piano processuale sono: da un lato, l’inefficacia
del sequestro di cui all’art. 316 c.p.p., qualora sia disposto in pendenza di fallimento, anche se il reato è stato commesso prima
dell’apertura della procedura concorsuale; dall’altro, la caducazione della misura, qualora il fallimento intervenga successivamente. Non si giustifica, infatti, il mantenimento di un sequestro conservativo in presenza dell’acquisizione fallimentare dei beni, che garantisce in modo eguale tutti i creditori, senza compromettere l’interesse di eventuali rivendicanti, che potranno far
valere i loro diritti nei modi, nei tempi e nelle forme previste dal processo fallimentare (artt. 103 e 24 l. fall.)». Così, Cass., sez.
un., 24 maggio 2004, n. 29951, in Cass. pen., 2004, p. 3087).
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL “PERICULUM IN MORA” NEL SEQUESTRO CONSERVATIVO PENALE
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