Elena dell`Agnese La mascolinità del cowboy nel cinema western
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Elena dell`Agnese La mascolinità del cowboy nel cinema western
Elena dell’Agnese La mascolinità del cowboy nel cinema western americano tra iconografia nazionale e identificazione narcisistica “Ho sempre avuto un debole per il cowboy come concetto” Il Grande Lebowski, di J. Coen, 1998 Introduzione Nell’autunno del 2005 (in Italia, nel gennaio del 2006) è uscito, nei grandi circuiti cinematografici di tutto il mondo occidentale, un film che da un lato ha fatto gridare allo scandalo (nello Utah, una catena di cinematografi ne ha persino bloccato la distribuzione locale), dall’altro ha raccolto un numero tanto elevato di premi (c’è chi ne ha contati più di centoventi in meno di un anno) da essere acclamato come un vero capolavoro. Il titolo del film è Brokeback Mountain (in Italia, I segreti di Brokeback Mountain). Tratto da un romanzo breve della scrittrice americana Annie Proulx e diretto da un regista di origine cinese, Ang Lee, il film narra le vicende di due giovani mandriani arruolati a stagione per gestire il pascolo estivo di un gregge di pecore, nel Wyoming. Come moltissimi altri film di cowboy, Brokeback Mountain è un landscape movie, che con eleganza riprende i canoni tipici del genere western1, sia per quanto riguarda l’uso simbolico del paesaggio, sia in relazione ai personaggi al centro della trama. Come nei grandi classici di John Ford, dove la Monument Valley rappresenta, più che una semplice location, il vero focus della pellicola2, nel film di Ang Lee il paesaggio non fa solamente da sfondo alle vicende dei protagonisti, ma assume, sin dal titolo, il ruolo del co-protagonista, giocando a fare da costante contraltare a tutto il dispiegarsi della vicenda. Così nella struttura visuale della narrazione diventa centrale la contrapposizione fra la grandiosa bellezza della montagna, che costituisce il luogo simbolico della natura e della libertà, e la monotonia arida delle pianure urbanizzate, dove la società impone i propri vincoli, facendo valere le ragioni del conformismo su quelle dei veri sentimenti. Anche per quanto riguarda la trama, il film di Ang Lee riprende gli schemi del film di cowboy, non solo perché riproduce fedelmente la vita nomade dei mandriani, o perché 1 Nell’ambito della critica cinematografica, il concetto di genere è stato utilizzato come strumento classificatorio in relazione al western a partire dal lavoro di Bazin, del 1953. Tuttavia, l’idea che esistesse un filone cinematografico caratterizzato da canoni che lo rendevano riconoscibile come “western” è assai anteriore. Perciò, se è vero che si possono definire come appartenenti ad un genere i gruppi di testi che sono stati percepiti come tali nel corso della storia (Todorov, 1993), allora si può parlare del western come “genere” già dai primi decenni del Novecento (Leutrat e Kiandrat-Guigues, 1990). 2 Secondo una celebre frase attribuita a John Ford, il principale protagonista di ogni film western è “la terra”. replica, nel loro abbigliamento, gli elementi tipici del costume tradizionale (come il cappello Stetson, le camicie a quadri o il cravattino di cuoio), ma anche, e soprattutto, perché, come moltissimi western precedenti, racconta di una relazione fra uomini, lasciando alle figure femminili solamente un ruolo di secondo piano. Nel corso della tradizione del western, dal classico Fiume Rosso, di Howard Hawks, del 1948, sino al recente Terra di confine di Kevin Costner, del 2003, questa relazione è stata variamente delineata, trascolorando lungo le diverse sfumature della conflittualità, del rapporto simil-paterno, dell’amicizia virile, persino del rapporto di velata omosessualità (come avviene nel controverso L’ultima notte a Warlock, di Edward Dmytryk, del 1959). Nel caso di Brokeback Mountain, tuttavia, l’omosessualità per la prima volta si svela e l’amicizia, invece di rimanere “fraterna”, si trasforma in un passionale rapporto d’amore che accompagna le vicende dei due protagonisti per un ventennio. Lungo questo arco di tempo, la vita si dipana in vari tentativi di normalità, che si compiono sullo sfondo di una squallida pianura urbanizzata; mentre la routine viene spezzata solo dai “weekend di pesca”, vale a dire dai rari momenti di incontro, di “libertà” e di “vero amore” che i due cowboy riescono a concedersi nel cuore delle selvagge montagne del Wyoming. L’irrompere della dimensione sentimental-sessuale all’interno di un mondo di relazioni iper-mascoline come quelle che apparentemente caratterizzano il genere western e la narrativa simbolica della mito nazionalista della “frontiera americana” che ad esso si accompagna, rappresenta, ovviamente, l’elemento che ha fatto gridare ad alcuni allo scandalo, ad altri al capolavoro. In particolare, la creazione mediatica dei “cowboy gay”, come rapidamente sono stati etichettati dalla stampa i due protagonisti del film, è stata salutata da gran parte della critica e del pubblico come un momento di rottura verso la tradizione western americana, uno strappo dichiarato nei confronti di un genere, letterario e cinematografico che della mascolinità eroica aveva fatto il suo punto di riferimento. In realtà, il cowboy rappresenta una icona gay, o meglio, come scrive Fischer (1977), “una fantasia sessuale prestabilita” all’interno del mondo omosessuale americano, sino dai tardi anni sessanta. Come tale viene rappresentato anche nella cultura popolare: nel cinema, dove Un uomo da marciapiede, di John Schlesinger, del 1968, racconta le vicende di Joe Buck, un giovane texano che giunge a New York vestito da cowboy per fare il gigolo, ma riesce ad attrarre solamente l’attenzione di un omosessuale (Le Coney e Trodd, 2006); nella musica pop, dove il gruppo dei Village People, creato nel 1977 per soddisfare tutti gli stereotipi di un pubblico omosessuale, propone fra i propri costumi di scena proprio quello del cowboy3 (insieme all’indiano americano, al poliziotto, al marinaio…). Se è vero che ai gay, tutto sommato, i cowboy sono sempre piaciuti4, viene allora da domandarsi il perché di tanto clamore. Per rispondere a questa domanda, è forse necessario distinguere, nell’acquisizione simbolica dell’immagine del cowboy, il meccanismo di costruzione di un oggetto sessuale da parte del soggetto da quello di identificazione con l’immagine di quell’oggetto da parte del soggetto, per poi verificare come questo meccanismo di identificazione sia stato potenziato dall’adozione del cowboy da parte della iconografia americana. A tal fine, dopo una breve introduzione dedicata al ruolo del cinema nel processo di edificazione delle narrative nazionali, si tenterà di delineare il percorso che ha portato ad elevare il cowboy al ruolo di eroe 3 Il gruppo, reso famoso da successi come YMCA, In the Navy, e Macho Man, venne lanciato nel 1977 dal produttore Jacques Morali, il quale dichiarò di aver osservato lungamente i personaggi e gli stereotipi tipici dell’ambiente gay dell’East Village, a New York. 4 Nel film di Schlesinger, il riferimento è reso più che esplicito, quando Rizzo, l’amico newyorkese di Joe, gli spiega “Tutta quella cianfrusaglia da cowboy non piace a nessuno, tranne che ai gay della 42° strada. E’ roba da finocchi, se vuoi proprio chiamarla per nome…” (vedi Le Coney e Trodd, 2006). americano, figura iconica dalla mascolinità esemplare che tuttavia nasconde, proprio per i meccanismi con cui viene congegnata, ampi spazi di latente ambiguità. Accanto alle basi teoriche offerte dalla Critical Geopolitics alla analisi della cultura popolare e al discorso geopolitico di cui essa può farsi veicolo (vedi Toal, 1994, e dell’Agnese, 2005a e 2005b), verranno perciò utilizzati come strumenti d’indagine anche gli spunti offerti dalla prospettiva femminista ai Film Studies, in particolare per quanto riguarda il contributo analitico relativo al piacere visuale nel cinema (si veda in proposito Kaplan, 2000). Cinema e nazioni, eroi e paesaggi Raccontare storie significa articolare o rinforzare valori e norme stabilite all’interno di una società. La narrazione popolare, ancor più dall’alta cultura, riflette i caratteri del proprio contesto sociale e specifica chi ne sarà l’eroe, insegnando agli uomini a comportarsi “come uomini”, e alle donne “da donne”, secondo i parametri della loro cultura. Inoltre, essa dimostra che solo alcuni tipi di persona possono aspirare al ruolo di eroe: nelle storie tradizionali, si tratta di una questione di ceto che riguarda solamente i principi e i cavalieri; in quelle contemporanee, contano altre caratteristiche, come la bellezza, la razza, il denaro, la capacità e, ovviamente, il genere. Chi non risponde alle caratteristiche adeguate, impara a lasciar perdere, limitandosi a sognare (Wright, 2005). La narrazione popolare perciò non costituisce solo una versione spettacolarizzata della realtà sociale, capace di nasconderla come una “cortina fumogena” (Lacoste, 1976); ma insegna ad adeguarsi ad essa, in qualche modo rafforzando la conformità ai suoi modelli. Come ogni altra forma di geo-grafia (cioè, di narrazione del mondo), anche quella che scaturisce dalla cultura popolare è uno strumento di “normalizzazione”, ovvero una modalità di rappresentazione che produce e ri-produce la realtà in conformità con le relazioni di potere esistenti (Dematteis, 1985). Per la sua forza immaginifica, il cinema costituisce, da questo punto di vista, un veicolo di comunicazione privilegiato, uno strumento mitopoietico tanto potente da oltrepassare il meccanismo mimetico della messa-in-scena, per diventare un momento costitutivo della realtà sociale; in altre parole, come scrivono Aitken e Zonn (1994, p. 21), “la camera da presa non riflette la realtà, ma la crea, attribuendole un significato, un discorso, un’ideologia”. Molto spesso, anche una narrativa di carattere nazionale. Nel suo ruolo performativo, a livello nazionale, il cinema merita di essere osservato da vicino; non solo perché parla alla nazione utilizzando, per esigenze di mercato, una sola lingua ufficiale, che viene così ad essere imposta come lingua “nazionale” a scapito della varie parlate regionali (Schlesinger, 2000). Ma anche, e soprattutto, perché si rivolge alla nazione proponendole dei modelli standardizzati di comportamento e la porta a costituirsi come una “comunità immaginata” che condivide un unico bagaglio di riferimenti e di valori5. Se ritrae il presente, il cinema descrive la nazione, ratificando l’assetto sociale di quello specifico momento storico e reificandone i costrutti come “dati-per-scontati”. Mediante l’articolazione delle trame e dei personaggi e la ricorrente corrispondenza fra ruoli e 5 Ogni film è dunque un film nazionale, anche se la sua forza comunicativa può andare ben al di là dei confini della nazione (Shoat e Stam, 2003). In tal caso, il suo ruolo politico è ancora più rimarchevole, perché riesce a comunicare sogni “nazionali” ad un pubblico transnazionale, che può adottarli come propri (come spesso avviene per il pubblico delle diaspore), o imitarli adattandoli al proprio contesto locale, oppure ancora rielaborarli attraverso un complesso meccanismo di transculturazione. E’ quanto si è verificato, come vedremo più avanti, con il mito del West e il cinema italiano. attori, può imporre norme di virilità6 sulla base delle quali riscrivere la sintassi delle relazioni di genere; può decidere quali generazioni sono protagoniste di quale tipo di avventura e chi invece ne è escluso, talora adeguandosi alle dinamiche demografiche della nazione, in altri casi semplicemente anticipandole7; può persino stabilire chi può aspirare ad essere protagonista della storia e chi invece si deve limitare a un ruolo di comprimario8, sulla base di una gerarchia nazionale costruita in termini di razza e di etnia. Quando invece racconta il passato, il cinema non può che farlo con la sensibilità del presente. In tal modo la nazione può raccontare la propria storia, trasformandola in una “etnostoria” dove vengano esaltate le esperienze formative dell’unità nazionale, le figure eroiche che ne sono state protagoniste, le caratteristiche e i valori di cui quelle figure sono campioni esemplari. In questa narrazione, anche la location dove si svolge l’azione assume un significato, trasformandosi da spazio fisico e concreto a “spazio della mente” (Short, 1991), luogo sacro e irrinunciabile che per le proprie specificità diventa il paesaggio simbolico della nazione. La frontiera americana come prodotto culturale Che la frontiera abbia svolto un ruolo fondativo nella storia della nazione americana forse non rappresenta il fatto inconfutabile che Frederick J. Turner tentò di dimostrare con il suo celeberrimo intervento al meeting annuale della American Historical Association del 18939; è però un dato certo per quanto riguarda l’edificazione dell’identità nazionale. Se infatti è poco probabile che i valori della democrazia, individuati da Turner come elementi centrali del carattere nazionale americano, siano scaturiti dall’esperienza della frontiera occidentale, è invece sicuro che nell’elaborazione mitica di quella esperienza gli Stati Uniti abbiano trovato il riferimento condiviso necessario per fare, di una pluralità di immigrati, una comunità capace di “immaginarsi” come nazione. Nella elaborazione epica del mito, più ancora di quello degli studi di storici quali Turner o Theodore Roosevelt10, primario fu il ruolo della cultura popolare. Già nel corso 6 Così, i diversi modelli di virilità del cinema italiano sono passati dallo charme antieroico di Marcello Mastroianni alla maschera popolaresca di Renato Salvatori o Claudio Amendola, il fascino britannico ha variamente puntato allo humour seducente di David Niven, Peter Sellers o Hugh Grant, e quello francese alla figura del brutto, ma irresistibile, gaglioffo portata in epoche diverse sullo schermo da Jean Gabin, Jean-Paul Belmondo o Vincent Cassel. 7 La tendenza è quella di utilizzare, per i ruoli sentimentali, solo attrici giovani (ed è per questo che ad Hollywood, se gli attori di cinquant’anni sono sempre sulla breccia, per le attrici della stessa età è assai difficile trovare dei ruoli). Tuttavia, l’attuale necessità di appagare il pubblico dei cosiddetti baby boomers, cioè della fittissima generazione dei nati fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del Novecento, ha favorito l’uscita di alcune commedie rosa sul tema della riscossa delle cinquantenni (vedi per esempio Tutto può succedere, di D. Meyers, del 2003). 8 Come scrive Stuart Hall (1997), a proposito della rappresentazione dello stereotipo razziale nel cinema, non vi è da stupirsi se nella tradizione hollywodiana alle donne nere sia stato riservato il ruolo delle mammies e a quelle mulatte quello delle prostitute. 9 La relazione, intitolata “Il significato della frontiera nella storia americana”, è stata poi pubblicata in molteplici sedi, sino a divenire il lavoro forse più importante e citato di tutta la produzione storiografica americana. 10 Il futuro presidente degli Stati Uniti, prima di dedicarsi alla carriera politica, fu infatti storico e saggista, ma anche allevatore e cacciatore, innamorato dell’Ovest nonostante le sue origini fossero quelle di un piedidolci dell’Est. Dal punto di vista storiografico, il suo lavoro principale fu proprio l’opera The Winning of the West, pubblicata in più volumi dal 1889 al 1896, in cui ricostruiva l’epopea della frontiera e dell’espansione ad Ovest. L’interpretazione offerta da Roosevelt del ruolo della frontiera nella storia americana è comunque differente da quella di Turner; se infatti Turner della frontiera sottolinea dell’Ottocento, la frontiera aveva iniziato ad essere esaltata come una epopea all’interno di una varietà di forme artistiche o di intrattenimento, come canzoni e ballate, racconti orali, quadri e stampe, romanzi e dime novels11, ma anche esibizioni dal vivo e rappresentazioni teatrali, che divennero presto popolari non solo all’Ovest, ma anche presso le platee della costa orientale. Grazie all’accumularsi di un corpus testuale così ricco e variegato, ma sempre riconducibile alla specificità degli argomenti trattati (la conquista del West e i suoi eroi), si giunse ben presto alla affermazione di una tipologia di produzione artistica popolare capace di porsi agli occhi della “nazione” come un veicolo comunicativo specificamente “americano”. In questo modo, gli Stati Uniti come nascente “comunità comunicativa” si trovarono ad avere da un lato una epica nazionale, la frontiera, tramite la quale trasformare la propria storia in etnostoria; dall’altro, un genere privilegiato attraverso cui forgiare la propria immagine nazionale. La confusione fra realtà storica e rilettura fantastica della stessa fu resa possibile, sin dall’inizio, dal fatto che la spettacolarizzazione del West e la sua riproposta in chiave commerciale avevano luogo in contemporanea agli eventi di cui narravano le vicende, mentre i loro protagonisti erano ancora attivi sulla scena. Così, William F. Cody, lo scout cacciatore di bisonti reso celebre dalle dime novels con il soprannome di Buffalo Bill12, era anche il personaggio centrale del Wild West Show, spettacolo itinerante da lui stesso organizzato che in un arco di tempo compreso fra il 1882 e il 1917 avrebbe offerto alle platee prima dell’Ovest, poi dell’Est, e poi persino europee, la rappresentazione dei principali episodi della conquista del West e delle guerre indiane. Insieme a lui, recitavano come comprimari alcuni capi indiani, compreso Toro Seduto, che venivano esposti al pubblico insieme ai pistoleri più veloci, ai più abili cavallerizzi, e a quegli stessi militari che avevano in precedenza combattuto contro di loro. Alcune di queste forme di cultura popolare, come gli spettacoli itineranti, erano destinate a ridurre progressivamente la propria diffusione; altre sono invece andate aumentando di incidenza e rilievo, sino a divenire produzioni di massa. Così, i canti dei bivacchi, riprodotti su disco, sono confluiti in un vero e proprio stile musicale (la country western music), mentre i romanzi di ambientazione western, che già costituivano un filone letterario di grande divulgazione, nel Novecento hanno raggiunto quote di vendita strabilianti13 (Wright, 2001). Il prodotto culturale che più di ogni altro ha contribuito a fare del West il paesaggio mitico dell’epopea nazionale americana è principalmente il significato di “fucina della democrazia”, Roosevelt ne mette in evidenza soprattutto la forza rigeneratrice, capace di esaltare la superiorità razziale degli anglosassoni (maschi) tramite lo scontro violento con i popoli inferiori (vedi in proposito Slotkin, 1992 e Dyer, 1980). 11 Le prime dime novels, il cui nome deriva dal fatto che erano poste in vendita a dieci centesimi l’una, vennero lanciate nel 1860 da un certo Erastus Beadle, un editore di New York che voleva produrre stampa popolare per un pubblico di massa. Il rapido successo dell’iniziativa (presa presto a modello da un’altra trentina di editori) portò alla pubblicazione di migliaia di titoli, alquanto stereotipati e formulaici nelle trame, inizialmente ispirati in modo più o meno evidente all’opera del romanziere James Fenimore Cooper e, poi variamente alle gesta di eroi del West, come il pistolero “Wild” Bill Hickock, il bandito Jesse James e il cacciatore di bisonti William Cody (Nash Smith, 1970). 12 La notorietà di Cody, inizialmente basata sul passa-parola e sulla reputazione guadagnata come scout, venne enfatizzata a livello nazionale con la pubblicazione, nel 1869, della prima dime novel a lui dedicata. Negli anni successivi, Cody alternò la sua attività di scout per la cavalleria degli Stati Uniti a quella di attore in varie produzioni teatrali in cui veniva messa in scena la selvaggia vita nell’Ovest. Nel 1873 mise su una propria compagnia. Nel 1876, mentre era impegnato sui palcoscenici dell’Est, fu richiamato ai suoi servigi militari nell’ambito delle guerre indiane (quando, in un episodio destinato a diventare celeberrimo, tolse lui stesso lo scalpo ad un indiano morto). Poi tornò, ancora più celebre, sulle scene ad interpretare se stesso. A parte Jesse James, Cody fu il personaggio cui venne dedicato, in assoluto, il maggior numero di dime novels nella storia del West (Slotkin, 1998). 13 Louis L’Amour, autore di romanzi di cowboy, ha venduto circa 225 milioni di copie dei suoi libri, qualificandosi in tal modo, insieme a Spillane, come uno dei romanzieri americani di maggior successo commerciale di tutto il ventesimo secolo. però stato il cinema. Il primo film di fiction girato negli Stati Uniti fu The Great Train Robbery, del 1903: pur durando appena pochi minuti, aveva inseguimenti, spari e tutta l’azione che avrebbe in seguito qualificato ogni western che si rispetti. A partire da allora, il western come genere cinematografico si è affermato con forza sempre maggiore, tanto da abbracciare, fra gli anni venti e gli anni settanta, circa un quarto dell’intera produzione hollywoodiana (Buscombe 1988). Anche nei decenni successivi, pur caratterizzati da un certo calo nel numero delle pellicole14, il genere ha comunque mantenuto un notevole appeal in termini qualitativi, grazie ad opere premiate da una pioggia di riconoscimenti come Balla con i lupi, di Kevin Costner, del 1991, Gli spietati, di Clint Eastwood, del 1992, e il più recente Brokeback Mountain, del 2005. Il cinema western e la geopolitica popolare americana Come tutti gli altri testi che fanno riferimento all’epopea della frontiera, anche il cinema western si qualifica un prodotto culturale decisamente connotato dal punto di vista “nazionale” 15, e per questo ha giocato, e tuttora ricopre, un ruolo fondamentale nella produzione discorsiva della geopolitica popolare americana. Parte della sua straordinaria popolarità, e dell’ottima tenuta manifestata nel corso del tempo, può essere attribuita proprio alla disposizione dimostrata nel sapersi adattare alle istanze culturali e geopolitiche del momento, facendo loro di volta in volta da cassa di risonanza presso il grande pubblico. L’uso di fare della frontiera lo spazio mitico in cui ambientare le pulsioni dell’America contemporanea risale forse ai tempi della presidenza di Theodore Roosevelt, il quale estese il discorso geopolitico del “destino manifesto” sino a giustificare la conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti (Weinberg, 1938). Con la diffusione del cinema, ovviamente, il ricorso all’epopea del West come frame interpretativo per articolare altri frangenti geopolitici si è fatto sempre più complesso e articolato. Per esempio, i film a basso costo prodotti negli anni immediatamente antecedenti la seconda guerra mondiale (i cosiddetti B-Western) erano centrati su vicende in cui personaggi vestiti da cowboy, e dunque investiti dell’aura del Vecchio West, affrontavano i “cattivi” del mondo di allora, costituiti da gangster o persino da agenti nazisti. Si veniva così a creare una confusione tra realtà e mito tanto potente da suggerire che “l’etica eroica del West potesse essere eternamente valida come strumento per affrontare e risolvere i problemi di carattere politico o sociale di qualsiasi contesto” (Slotkin, 1998, p. 276, n.t.). Una volta instillato con forza questo presupposto, ai western classici degli anni cinquanta si chiese di rinforzare il mito americano della frontiera e della funzione 14 Nello stesso periodo sono stati prodotti moltissimi film, che pur non qualificandosi come western per ambientazione o epoca storica, fanno ampio riferimento ai canoni del genere; George Lucas, per esempio, ha definito la saga fantascientifica di Guerre Stellari come “cinema di avventura nella tradizione del western americano”. Possono essere considerati come “western travestiti” anche molti film d’azione di ambientazione urbana degli anni Ottanta e Novanta, in cui il protagonista maschile (Clint Eastwood, Bruce Willis, Stallone) agisce (e spara) come una sorta di cowboy contemporaneo (Wright 2001). 15 Anche se, il western come genere cinematografico ha riscosso, negli stessi anni, un grandissimo successo, sia in termini di produzione sia in termini di pubblico, ben al di là dei confini nazionali: si pensi agli “spaghetti western” di matrice italiana (Frayling, 1998). Per molti di questi lavori, parlare di imitazione è comunque riduttivo, in quanto in alcuni casi il genere è stato utilizzato in termini ironici, oppure parodici, o ancora per produrre lavori di segno assai meno celebrativo di quello tipico dei classici americani. Oltre che per i contenuti, anche dal punto di vista stilistico, è preferibile parlare di transculturazione, e di successiva ibridazione, piuttosto che di replica pedissequa del modello originale: basti pensare all’influenza esercitata dai lavori di Sergio Leone su quelli di autori americani successivi quali Peckimpah o Eastwood. purificatrice dell’esperienza della wilderness; quelli degli anni sessanta vennero poi utilizzati per rileggere l’esperienza South-of-the-border dei militari americani (ossia le guerre in Vietnam e in Corea) come una missione necessaria al fine di aiutare popoli bisognosi, ma primitivi e incapaci di acquisire e gestire un buon governo con le loro stesse mani (come accade, per esempio, ne I magnifici sette, di Sturges, del 1960, o nel Mucchio selvaggio, di Peckimpah, del 1969) (dell’Agnese, 2005). Negli anni settanta vi fu chi fece ricorso al western “revisionista” per indurre l’America a riflettere – in modo indiretto ma elegantemente giocato con l’uso di comparse vietnamite invece che indiane – sulla brutalità dell’esperienza (presente) del Vietnam, associandola alla brutalità dell’esperienza (passata) della frontiera (vedi Soldato Blu, del 1970, e Il piccolo grande uomo, di Arthur Penn, dello stesso anno). All’inizio degli anni novanta, il western venne ripresentato in veste New Age con pellicole come L’ultimo dei Mohicani o Balla con i lupi, dove il significato della frontiera nella storia americana veniva reinterpretato sotto il segno della ibridazione culturale con gli indiani16. Invece, nel corso del decennio successivo, segnato dalla crisi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, i valori del West, del suo modo di fare giustizia e imporre la libertà, vengono richiamati all’interno di produzioni destinate ad offrire al pubblico una riconferma del significato di un certo modo di “essere americani” (vedi, per esempio, Hidalgo. Oceano di fuoco, del 2004) (dell’Agnese 2004). Genere adattabile nei suoi significati geopolitici, ma pur sempre riconoscibile come l’ “universo mitico” della narrazione epica americana, il western ha utilizzato, nel corso del tempo, paesaggi simbolici di segno diverso; così, le pellicole del periodo classico rappresentavano l’Ovest come un luogo di terre vergini, oppure addirittura semidesertiche (come la Monument Valley), per sottolineare il ruolo dell’uomo bianco nel riscrivere il proprio destino nel confronto con una terra maestosa e ostile (Engel, 1994); al contrario, i western alternativi o quelli New Age, che della frontiera hanno privilegiato il significato di contatto culturale, hanno come sfondo foreste e verdeggianti praterie, punteggiate dagli insediamenti indiani e dai segni della loro presenza. Elemento comune a tutto il genere rimane comunque il tratto anti-urbano delle ambientazioni, che tende a contrapporre a città piccole, spesso corrotte e comunque mal organizzate, i grandi spazi aperti del territorio americano, the big country per eccellenza. Un tratto anti-urbano caratterizza anche l’eroe della frontiera: il protagonista epico della conquista del West è infatti, secondo la letteratura prima e secondo il cinema poi, un individuo che sfugge la vita sedentaria e la civilizzazione, per privilegiare il viaggio, la vita nomade, il contatto con natura. Questo tratto anti-urbano caratterizza tanto i personaggi che ricoprivano il ruolo dell’eroe nella prima fase della mitizzazione culturale della frontiera, come gli scout e i cacciatori di pelli protagonisti dei romanzi di James Fenimore Cooper, quanto quello che sarebbe divenuto, a partire dalla fine dell’Ottocento, il protagonista assoluto dell’epopea del West, ovvero il cowboy. Il cowboy nello spazio mitico americano Il giovane mandriano, dedito alla cura delle vacche e, più in generale, all’allevamento itinerante nei Grandi Piani cui si ispira la figura del cowboy, era spesso un individuo povero, mal pagato, mal nutrito, talora disoccupato nei mesi invernali, che rivestiva nella società della frontiera uno status marginale in termini sia economici che sociali 16 La rilettura della frontiera americana come luogo specifico dell’incontro culturale è tipica non solo della cultura popolare, ma anche della storiografia di quegli anni. Si veda in proposito Nobles, 1997. (Carlson, 2000)17. Essere un cowboy non era perciò a quei tempi aspirazione di molti: certo preferibile era essere un cattleman, o meglio ancora un rancher, vale a dire un proprietario, soprattutto dopo la crisi dell’allevamento bovino del 1887 e la chiusura dei grandi spazi aperti. Il prevalere del cowboy nell’immaginario popolare rispetto agli altri protagonisti storici della frontiera (cacciatori, militari, costruttori di ferrovie…) si spiega con il fatto che il mandriano nomade divenne una figura centrale nelle Grandi Pianure proprio quando le vicende ispirate alla conquista del West iniziavano ad entrare nella cultura di massa degli americani, vale a dire nell’ultimo quarto dell’Ottocento. Ultimo protagonista della frontiera, il cowboy era destinato a diventarne l’eroe negli anni in cui il processo di conquista territoriale si andava chiudendo18 e l’America urbana e industrializzata iniziava ad averne nostalgia. A fare del cowboy un personaggio da ribalta contribuì, più che la storia, la cultura popolare; innanzitutto il Wild West Show, che lo portò sulle scene sin dagli anni ottanta, poi i quadri di Remington e di Russell, poi, soprattutto, il romanzo di Owen Wister intitolato Il Virginiano, che promosse il cowboy al rango di protagonista assoluto del West, elevandolo al ruolo dell’ultimo eroe americano. Con Il Virginiano, edito nel 1902 e destinato da allora ad innumerevoli ristampe e messe in scena teatrali e cinematografiche, il cowboy si qualificava per la prima volta di fronte al grande pubblico come un personaggio dotato di capacità e prestanza fisica eccezionali, cui le facoltà personali, piuttosto che il rango, attribuivano un fascino intrinsecamente superiore a quello dell’uomo dell’Est19. Era anche il protagonista di un mondo in via di scomparsa (il romanzo è ambientato nel “selvaggio” Wyoming), per questo dotato di un inesauribile alone romantico. Grazie alle vivaci descrizioni di Wister, il cowboy, che nella realtà era spesso nero, o comunque ispanico o meticcio, acquisì anche i tratti fisici che avrebbe poi mantenuto nel tempo: di aspetto piacevole, era alto e sottile, bianco e di origine chiaramente anglosassone20. Riprodotto in innumerevoli varianti, l’eroe del West sarebbe rimasto, da allora in poi, il classico tall slim American (Leutrat e Liandrat-Guigues, 1990), possibilmente bello e soprattutto con gli occhi azzurri. In questo modo, Il Virginiano, capace di emergere per l’ “aristocrazia naturale” legata alle capacità personali, piuttosto che ai meriti della sua nascita, avrebbe suggerito un modello destinato ad essere replicato all’interno di una moltitudine di opere 17 Come nota Paul H. Carlson (2000), sino a metà degli anni ottanta dell’Ottocento, il termine cowboy nel West veniva talora utilizzato per indicare un ubriacone, oppure un ladro di bestiame o un piccolo fuorilegge. 18 La frontiera venne dichiarata ufficialmente chiusa nel 1890, dal Bureau of Census degli Stati Uniti, in occasione del censimento della popolazione di quell’anno. 19 Come nei suoi altri lavori di ambientazione western, anche ne Il Virginiano Wister si preoccupa di narrare la vicenda con gli occhi di un tenderfoot giunto all’Ovest dalla costa orientale, al fine di mettere in rilievo, per contrasto, le caratteristiche eccezionali dell’eroe del West (White, 1968). 20 Lungi dall’essere fuori dalla scena, la questione razziale era ben presente tanto nella formulazione teorica del discorso sulla frontiera, quanto nella rappresentazione offertane dalla geopolitica popolare del tempo. Così, alle posizioni anglosassoniste di Theodore Roosevelt, fa eco Owen Wister, amico personale di Roosevelt e come lui convinto nella superiorità dell’anglosassone, il quale non solo descrive il cowboy come un perfetto esemplare di maschio anglosassone, ma ne sottolinea anche la “naturale propensione” verso la wilderness: in un articolo pubblicato nel 1895 su Harper's Monthly dal titolo "The Evolution of a Cowpuncher," Wister scrive: “Avventura, essere nella natura, trovare posti lontani dal portalettere, godersi l’indipendenza dello spirito e della mente…questo è l’istinto cardinale di sopravvivenza che nel corso dei secoli ha fatto del Sassone un conquistatore, un invasore, un navigatore, un bucaniere, un esploratore, un colonizzatore, un cacciatore di tigri…le sue gambe sono fatte per stringere la sella…sopravvivere nella regione degli allevamenti richiede spirito di avventura, coraggio e autosufficienza; non troverete molti polacchi, ebrei o tedeschi in quei luoghi, ma l’Anglosassone è sempre malato di spirito di avventura” (n.t.). cinematografiche successive. Secondo la struttura tipica del western, delineata in modo esemplare da pellicole come Il cavaliere della valle solitaria di G. Stevens, del 1953, o Il cavaliere pallido di Clint Eastwood, del 1985, e poi moltiplicata in centinaia di varianti, l’eroe è infatti un cowboy che viene dalla “natura”, sa sparare meglio di tutti, aiuta i cittadini onesti ma pavidi a combattere i cattivi e, dopo aver insegnato alla comunità a reggersi da sola, ritorna dal nulla da dove è venuto (Wright, 1975). In questo schema ideale, la triangolazione fra l’eroe, la comunità e i cattivi (che spesso vengono dall’Est e comunque sono “cattivi” perché avidi e pretendono di imporre i propri diritti su quelli degli altri), diventa funzionale per ribadire i valori dell’individualismo e i principi di uguaglianza “naturale” di tutti gli individui nei confronti della proprietà della terra (Wright, 2001). Nella narrazione di una iconografia nazionale che della frontiera andava facendo la propria etnostoria e del “selvaggio West” il proprio etnopaesaggio, il cowboy è così emerso come la figura meglio capace di personificare la nostalgia nei confronti di un passato mitico e di una “natura” potente e incontaminata, nel contempo incarnando i valori “tipicamente americani” del saper fare, che consentono “naturalmente” di emergere all’interno di una società di uguali (Wright, 2001). Mentre il significante razziale (denotato dal colore degli occhi, dai tratti somatici, dalla statura) serviva a ricordare, in un contesto fortemente demarcato da questo punto di vista come quello degli Stati Uniti, che i diritti di eguaglianza spettano pienamente solo agli anglosassoni, mentre si applicano in modo gerarchizzante, o esclusivo, a tutti quelli che sono un po’ meno “uguali” di loro (ispanici, meticci, neri, indiani). La costruzione mitica dell’eroe del West come un avventuriero nomade e individualista, dotato di una capacità eccezionale nel maneggiare le armi, che sa porsi al servizio degli altri quando necessario e poi si ritira dopo aver riparato i torti, ha inoltre una chiara leggibilità in termini di politica estera. L’evidente praticità della metafora ha perciò consentito al cowboy di divenire un vessillo ricorrente anche della geopolitica formale americana: da Theodore Roosevelt a Ronald Reagan, passando per Lyndon Johnson e giungere poi sino a George W. Bush, i “presidenti cowboy”, o coloro che si definivano come tali, si sono susseguiti al comando degli Stati Uniti tutte le volte che la politica internazionale spingeva ad uscire dall’isolazionismo per intraprendere posizioni più interventiste e aggressive. Il cowboy come icona maschile Se la figura del cowboy nell’ambito della iconografia nazionale americana costituisce una categoria abbastanza facile da decostruire, più complesso è invece tentare di spiegare le ragioni del suo successo in quanto ideale di mascolinità. Il cowboy è un’icona che va ben oltre il linguaggio della politica: anche il marketing, la pubblicità, la moda, persino il turismo paiono non poter fare a meno di ricorrere ad una immagine maschile che sembra forgiata per compiacere tutti gli ideali della mascolinità egemone nazionale21. 21 Nel 1954, al fine di lanciare presso un pubblico maschile le sigarette con filtro, sino ad allora considerate femminili, il pubblicitario americano Leo Burnett pare abbia chiesto al suo gruppo di collaboratori quale fosse l’immagine più mascolina degli Stati Uniti dell’epoca. La scelta cadde in modo unanime sul cowboy, e Burnett lanciò “The Malboro Man”, la campagna pubblicitaria forse più famosa, e certamente più duratura, di tutti i tempi. E’ da notare che l’immagine del cowboy, associata al marchio di sigarette, ha avuto tanto successo da suggerire il lancio di una linea di abbigliamento sportiva con lo stesso nome e addirittura dei viaggi organizzati negli Stati Uniti (“the Malboro Country”). La questione della mascolinità, o meglio quella della costruzione della mascolinità attraverso una serie di confronti o di riti di passaggio, è, secondo alcuni autori, uno dei temi centrali che accomunano gran parte dei testi riconducibili al genere “western” (Mitchell, 1996). Si tratta di un percorso formativo che prevede l’acquisizione di un determinato pacchetto di competenze (Peek, 2003): “farsi uomini”, in un mondo in cui contano solamente le capacità individuali, significa imparare a conoscere e, di conseguenza, imparare a dominare. Il processo prevede l’acquisizione del controllo e del dominio sopra la natura (che bisogna imparare a conoscere per poter sopravvivere in essa, per trarne sostentamento, e per difendersi dai nemici che vi allignano, serpenti a sonagli e indiani compresi), ma anche l’apprendimento delle tecniche per andare a cavallo (il piedidolci, ovviamente, va a piedi) e per controllare la mandria. Bisogna inoltre saper dominare l’Altro, cui si è superiori “naturalmente” (come l’indiano, o il messicano), o “culturalmente” (come l’inglese). Bisogna saper dominare se stessi, senza lasciarsi prendere dall’ira, dalla sete di vendetta, dall’avidità, e bisogna anche imparare a dominare il proprio corpo, che può talora subire orribili violenze. Soprattutto, bisogna imparare a porsi al di sopra dei pari (cioè degli altri americani): ciò significa saper cavalcare meglio, sparare più veloci, usare il lazo con facilità, imponendo così la propria superiorità sui cowboy meno capaci, su “quelli di città”, su quelli dell’Est, che non solo non sanno cavalcare, ma sono spesso rappresentati come deboli, effeminati, troppo curati, nevrotici e malaticci, o perversamente cattivi22. Poiché si tratta di un percorso di apprendimento che ha a che fare con abilità ritenute esclusivamente “maschili”, la sfida si gioca solo fra maschi, in un mondo che esclude le donne, ponendole non solo al di fuori dei diritti di eguaglianza (come i negri e gli indiani), ma addirittura al di fuori dell’agone competitivo (il processo di costruzione della femminilità non è mai preso in considerazione: le donne devono solo saper stare in casa e aspettare, mentre per acquisire lo status di eroi gli uomini devono compiere delle imprese e avere successo). In questo processo di produzione dell’immaginario del West come di un agone fra soli uomini, la rappresentazione filmica ha giocato un ruolo fondamentale. Nel modello letterario suggerito da Il Virginiano, infatti, la natura verbale del testo consente di introdurre un Io narrante: un “turista” dell’Est che visita il Wyoming, incontra il cowboy e ne racconta le vicende, costantemente contrapponendo la prestanza fisica e la pronta intelligenza di quello con le proprie inadeguatezze. Grazie a questo artificio narrativo, lo sguardo ammirato di un altro personaggio maschile attribuisce al Virginiano lo status di eroe anche davanti al lettore, senza imporre la necessità di una specifica prestazione di successo. In tal modo, il cowboy, la cui superiorità viene decantata senza bisogno di metterla alla prova, non ha bisogno di altri competitori maschili e può essere protagonista di una storia d’amore. Nella narrazione cinematografica, invece, il ruolo dell’Io narrante è quasi sempre sostituito da quello dalla macchina da presa. Solo attraverso lo svolgersi della trama, il cowboy può dimostrare le proprie capacità sociali (e, in forma traslata, anche quelle politiche); mentre le sue caratteristiche fisiche possono essere descritte allo spettatore solo attraverso l’indugiare dell’obiettivo. Poiché la sostanza eroica del cowboy non consiste nella sua abilità di seduttore, ma piuttosto nella sua capacità di insegnare alla società a seguire le regole dell’uguaglianza sociale e della democrazia politica, le trame cinematografiche vengono così ad essere imperniate su performance di competenza, riducendo le vicende amorose a ingredienti marginali. Il percorso di costruzione della 22 Le biografie di Theodore Roosevelt raccontano di come il futuro presidente, nato in una ricca famiglia dell’Est, ma innamorato sin da bambino dei miti dell’Ovest, si fosse guadagnato, non appena giunto nell’Ovest, il poco lusinghiero soprannome di “quattrocchi”, riuscendo poi a liberarsene solo in seguito ad un vivace intervento in una rissa da saloon. mascolinità non richiede di qualificarsi come “uomini” in una opposizione di genere, ma piuttosto come essere uomini e comportarsi da uomini, ottenendo il maggior successo possibile all’interno di un male melodrama (Lusted, 1996), ossia di una competizione esclusivamente maschile giocata fra il cowboy, che incarna i giusti valori della frontiera e della libertà, e i “cattivi”, che esprimono al contrario i mali dell’avidità e della corruzione (spesso interpretati in senso antiurbano, come avviene, per esempio, nel già citato Il cavaliere della valle solitaria). Oppure, in un percorso di crescita in cui l’eroe, un cowboy segnato dall’età e dalla nostalgia, insegna ad un giovane cowboy come affrontare il mondo (l’esempio più significativo è in questo caso Fiume Rosso, di Howard Hawks, del 1948, il cui soggetto è integralmente giocato sulla contrapposizione fra il protagonista Tom Dunson, interpretato da un John Wayne non più giovanissimo, e suo figlio adottivo, interpretato da Montgomery Clift23; ma la compresenza di un eroe più maturo e di un personaggio più giovane, che grazie a lui può apprendere i percorsi della vita e avvicinarsi all’età adulta, è presente in molte altre pellicole, da Sentieri selvaggi, di John Ford, in cui l’eroe è ancora John Wayne, allo stesso Cavaliere della valle solitaria, al molto più recente Terra di confine)24. All’interno di un corpus testuale sempre più centrato su vicende di uomini, e su amicizie o ostilità fra gruppi di uomini, le donne non hanno una collocazione significativa. Non sono mai vere donne, ma segni. Appaiono all’interno di pochi ruoli stereotipati, in cui la gerarchia di genere si interseca ad una specifica gerarchia di razza (se “buone” e anglosassoni sono maestre, infermiere e/o fidanzate e mogli, se invece sono “cattive” sono prostitute, e in tal caso possono essere messicane o meticce; quando vengono rapite, sono contaminate dagli indiani e dunque diventano vittime, come in Sentieri selvaggi, oppure plausibili mogli per eroi transculturali come quelli di Piccolo grande uomo o Balla con i lupi). Marginali nei ruoli, possono avere un significato centrale nella trama, all’interno della quale rappresentano un pretesto per l’esibizione delle competenze maschili (anche in questo caso, è esemplare la caccia alla nipote rapita di “zio Nathan”/John Wayne in Sentieri Selvaggi), oppure un elemento di disturbo. Spesso sono associate in modo simbolico allo spazio, che si configura come la contrapposizione fra un ambito maschile (lo spazio aperto, l’ambiente naturale, il movimento) e un ambito femminile (lo spazio urbanizzato, la casa, la sedentarietà), sino a diventare il perno della tensione fra la vita nomade nella “natura” e la necessità di diventare sedentari, all’interno di una comunità (Günsberg, 2005). Proprio all’interno di questa tensione si gioca, secondo Pumphrey (1981), il discorso sulla mascolinità nel western, vale a dire la contrapposizione di un modello escapist di mascolinità e quello, più funzionale alla costruzione di una vita politica e sociale, del family man, ovvero del sedentario che sta a casa ad occuparsi del benessere di moglie e prole e si impegna per la comunità. In entrambi i casi è possibile identificare un attore di riferimento, e se John Wayne (e poi Clint Eastwood) rappresentano l’icona classica del 23 Su questo film sono stati versati fiumi di inchiostro. A titolo esemplificativo, si possono consultare Coyne, 1998, e Sanderson, 2004. 24 L’ opposizione fra un maschio adulto, nel ruolo del protagonista, e un giovane “apprendista” è presente anche in pellicole in cui ci si riferisce al mondo del western, e ai canoni del genere, pur calando la vicenda all’interno di una diversa ambientazione storica; è quanto avviene, per esempio, in Honkytonk Man, di Clint Eastwood, del 1982, in cui il protagonista, interpretato dallo stesso Eastwood, è un cantante country senza famiglia e senza legami, segnato dall’alcool e dalla vita, che attraversa l’America della Grande Depressione accompagnato da un nipote adolescente (poiché il film è ambientato negli anni trenta, il viaggio si compie in automobile, e non a cavallo; ma Clint Eastwood indossa sempre un cappello Stetson, con il quale fa anche il bagno, e la gente gli si rivolge usando l’inevitabile appellativo di “cowboy”). In maniera meno palese, anche lo pseudo-western Guerre stellari si gioca sul contrasto fra una coppia di protagonisti maschili di età e esperienza diversa, il più anziano Han Solo, abilissimo pilota dalle mille avventure, ma totalmente privo di legami, e il giovane Luke Skywalker, che da lui deve apprendere i trucchi del mestiere (e poi sposa la principessa). “solitario” senza famiglia e senza legge, James Steward è invece il sedentario che sa essere padre di famiglia ed anche rispettare le norme e le convenzioni sociali. La contrapposizione è esemplificata in modo netto ne L’uomo che uccise Liberty Walance di Ford, del 1962, che vede il romantico cowboy Doniphon-Wayne insegnare al giovane avvocato Ramson (James Steward), che l’unica legge del West è quella della pistola. Forse più di ogni altro, questo film di John Ford, aiuta però a meglio mettere a fuoco una contrapposizione che in realtà si costruisce, piuttosto che fra due modelli di mascolinità, fra due momenti storici differenti. Tutto giocato sui toni dell’elegia, il film inizia infatti dal funerale di Doniphon, celebrato mestamente dall’ormai anziano Ramson, che nel frattempo si è sposato, è divenuto un uomo politico ed è tornato in città solo per l’occasione. Da quel momento, vengono ricordati i momenti più salienti della sua vita, dall’arrivo in quella che era allora una comunità dove vigeva come unica legge la legge del più forte (imposta dal “cattivo” Liberty Valance), all’incontro con “il cowboy” Doniphon, all’uccisione di Liberty Valance da parte di Doniphon, l’unico capace di opporre la propria forza a quella dei fuorilegge. Ucciso Liberty Valance, il cowboy ha però esaurito il proprio ruolo nella società e deve lasciare il posto alla legge (e cioè, al giovane Ramson, cui, simbolicamente, lascia anche il posto a fianco della ragazza). La mascolinità escapist è dunque un modello che non appartiene al presente; si riferisce ad un momento eroico e fondativo, che tuttavia è necessario saper superare. Dopo aver appreso la lezione del cowboy solitario, il suo giovane compagno si sposa: come si sposa Ramson, si sposano infatti anche il figlio adottivo di Dunson, in Fiume Rosso e il giovane meticcio che accompagna “zio Ethan” in Sentieri Selvaggi (mentre il solitario John Wayne non si sposa mai). Si sposa anche il personaggio interpretato da Richard Wydmark ne L’ultima notte a Warlock, di Edward Dmytriyk (del 1959). In questo caso, tuttavia, lo schema classico del cowboy che giunge in città, aiuta la comunità a liberarsi dai cattivi e poi se ne va, dopo averle insegnato a cavarsela da sola25, è complicato dal fatto che, oltre al “cowboy” (il pistolero Clay Blaisedell, che arriva in città circondato dalla fama delle sue Colt dall’impugnatura d’oro, interpretato da Henry Fonda) e al suo “apprendista” (il giovane bandito Johnny Gannon/ Richard Wydmark, che si trasforma in sceriffo, impara ad amministrare la giustizia e si sposa con la “bella”), vi è un terzo personaggio maschile, Morgan, interpretato da Anthony Quinn. Brutto e zoppo, mentre Clay è alto ed elegante, Morgan è l’inseparabile guardaspalle del pistolero. Quasi come l’Io narrante de Il Virginiano, il suo ruolo visuale sembra essere quello di esaltare, per contrasto, la bellezza dell’eroe. Mentre la devozione da lui espressa nei confronti del cowboy pare rinforzare lo sguardo ammirato della macchina da presa. Scopofilia e identificazione narcisistica Allo sguardo ammirato di Morgan si associa, secondo alcuni critici (Coyne, 1998), una latente omosessualità. Proprio per il sottile tentativo di mettere a fuoco le complesse relazioni fra i protagonisti maschili, L’ultima notte a Warlock, che all’epoca della sua uscita non ebbe grande successo, viene oggi considerato come un originale esempio di western psicologico. Non è tuttavia il primo western in cui l’occhio della macchina da presa, nell’esaltare la bellezza maschile del cowboy, introduce elementi di “omoerotismo”. Anzi, il cowboy rappresenta, in tutta la storia del western come genere 25 Anche il cowboy si innamora; ma, invece di fermarsi, chiede alla ragazza di seguirlo nella prossima città in cui saranno richieste le sue doti di pistolero. Alle proteste di lei, risponde “perché no? Questo è il modo in cui ho vissuto e in cui sempre vivrò. Il mondo sta cambiando, certo. Ma ci saranno abbastanza città [da sistemare], per bastare la mia intera vita” (vedi Coyne, 1998). cinematografico, un chiaro oggetto di piacere estetico. A questo proposito, scrive Mitchell (1996, pp. 156-159, n.t.), il western non si limita a mostrare uomini attraenti, ma si sofferma su determinate caratteristiche, considerate essenziali nel delineare la loro mascolinità, quali gli occhi chiari e taglienti, la mascella forte, il corpo e la figura ben delineati; cosicché “non solo rappresenta un genere cinematografico che consente di guardare gli uomini, ma addirittura fa sì che quello sguardo diventi uno dei suoi aspetti essenziali…diventa cioè un genere che sembra focalizzato proprio su quello: guardare gli uomini”. Dunque, quello sguardo sugli uomini rappresenta uno dei canoni distintivi, anche se non apertamente dichiarati, del genere western. In questo modo, il genere soddisfa uno dei principali piaceri offerti dal cinema, ovvero quella che in termini freudiani viene definita come “scopofilia”. Tuttavia, ne rappresenta una forma abbastanza distintiva e specifica. Infatti, secondo la critica femminista tradizionale (Mulvey, 1975), lo sguardo cinematografico si svolge usualmente fra un maschio che guarda/attivo e una femmina guardata/passiva, e presuppone una forma di investimento fra chi guarda e desidera possedere, e chi viene guardato, che invece rappresenta l’oggetto del desiderio. Anche nel caso del western, l’occhio dello spettatore è implicitamente pensato come un occhio maschile (Neale, 1983). Però, lo sguardo cinematografico intercorre fra un uomo che guarda (lo spettatore) e un altro uomo che viene guardato (il cowboy). In questo caso, il soggetto che guarda non desidera possedere l’oggetto guardato, ma di identificarsi in modo narcisistico con lui, cioè di diventare l’oggetto stesso. La bellezza fisica non è quella femminile, ma quella maschile. Tuttavia, è una bellezza che non viene esibita come oggetto erotico. Al contrario, il timore che possa insorgere un interesse sessuale nello sguardo di un maschio nei confronti di un altro maschio è stato costantemente fugato, nel cinema mainstream, da un lato non mostrando mai il corpo maschile all’interno di un qualsiasi contesto che possa suggerire un atteggiamento erotico (ed è per quello che i cowboy fanno sempre il bagno con il cappello!) (Pumphrey, …), dall’altro inserendo una ricorrente omofobia nei temi e negli accenti. In questo modo, il western riesce a soddisfare la scopofilia dello spettatore, il cui meccanismo di identificazione narcisistica viene ad essere esaltato proprio dalla costruzione del cowboy come eroe semplice e fatto-da-sé, da un lato, e come icona nazionale dall’altro; e nel contempo mantiene rigorosamente la mascolinità eterosessuale come termine strutturante, sia in relazione alla donna, sia in relazione a qualsiasi “deviazione” di carattere omosessuale (Neale, 1983). Tramite lo stesso meccanismo di identificazione narcisistica, si spiega la fascinazione verso il modello di mascolinità randagia e solitaria rappresentata dalla persona di John Wayne, una mascolinità che si avverte in qualche modo costantemente minacciata dalla donna, dalla società e dalla legge, ossia da tutti i fattori che fanno sì che la frontiera si chiuda, per lasciare il posto alla comunità dei sedentari. Cowboy alternativi La figura del cowboy sembra essere scolpita in maniera tanto incisiva nella cultura popolare americana da essere scarsamente ridisegnabile, sia per quello che riguarda i connotati estetici, sia in relazione alle caratteristiche di razza e di genere. Il cinema hollywoodiano infatti si è raramente mostrato capace di offrire del cowboy una versione più vicina alla realtà storica di quella del tall, slim American codificata dall’immagine del mito. Cosicché, persino i western revisionisti degli anni settanta, come quelli “transculturali” degli anni novanta, pur essendo mirati ad offrire della frontiera una lettura meno eroica di quella tradizionalmente proposta dalla cultura popolare, non hanno mai saputo scegliere un protagonista che non fosse il solito maschio anglosassone, capace di torreggiare al di sopra di ogni situazione (fa eccezione Il piccolo grande uomo, in cui la dimensione critica nei confronti della mitologia del West viene resa esplicita giocando, sin dal titolo, con le caratteristiche fisiche del protagonista: il “piccolo” Dustin Hoffman). Se i canoni estetici sono difficilmente alterabili, più rigidi ancora risultano essere quelli razziali. Anche da questo punto di vista, i cowboy alternativi sono assai poco numerosi, e le produzioni raramente toccano la questione utilizzando interpreti di colore. Ovviamente ci sono delle eccezioni; per esempio, nel 1972, Sidney Poitier dirige e interpreta un western dichiaratamente antirazzista dal titolo Non predicare…spara; nel cast de Gli spietati, del 1992, di Eastwood appare Morgan Freeman nel ruolo di un …, e il protagonista di Wild Wild West, un western in parte comico in parte fantascientifico del 1999, è Will Smith. Il registro umoristico predomina anche in Mezzogiorno e mezzo di fuoco, del 1974, in cui l’intero genere western viene messo in satira dal regista Mel Brooks, e il cowboy nero è inserito come tocco farsesco. Ancora più rari sono stati poi i tentativi di rappresentare cowboy al femminile: come sporadico esempio si può ricordare Pronti a morire, del 1995, in cui Sharon Stone veste i panni di un pistolero. Un tentativo più articolato di rileggere l’immagine del cowboy, presentandone una versione estrema, ai limiti della caricatura, è stato compiuto, al di fuori del mondo cinematografico americano, da Sergio Leone. Il protagonista della sua “trilogia del dollaro” è infatti tanto fulgido nel suo essere alto, bello, biondo, da rappresentare quasi “una maschera” (Günsberg, 2005). Alla rappresentazione di Clint Eastwood come “ipercowboy”, Leone aggiunge poi, nella sua opera di rivisitazione degli stereotipi del genere western, anche quella, assolutamente inusitata, di Henry Fonda nel ruolo di “cattivo” e usa frequenti close-up dei suoi celebri occhi azzurri, proprio per dimostrarne la spietata crudeltà (C’era una volta il West, 1968). La sua forza eversiva non viene tuttavia capita, e tanto meno raccolta, dalla pletora degli imitatori. Al contrario, l’esibizione di supermascolinità dei suoi film diventa un modello da imitare. In Italia, dei circa 400 spaghetti western girati dopo l’uscita di Per un pugno di dollari, i protagonisti sono usualmente alti e belli, talora spietati, mai spiritosi. Negli Stati Uniti, dove l’opera di Leone ha tanto successo da segnare una svolta nell’intero genere western (Mitchell, 1996), la maschera di Eastwood viene replicata in innumerevoli pellicole dirette da altri registi (come Don Siegel) o dallo stesso attore, sino a divenire una icona cinematografica tanto forte26, da essere seconda solo a quella di John Wayne27. Ma perde la sua carica ironica. Di fronte a questa fissità dei tratti fisici e morali del cowboy, non è strano che la questione della eterosessualità maschile rimanga sostanzialmente indiscussa lungo tutto l’arco di vita del genere western. Al contrario, i margini di indeterminatezza aperti da un genere cinematografico interamente centrato su vicende di uomini offrono il destro a pesanti tratti di omofobia, presenti anche quando, per una rara eccezione, la questione viene affrontata in modo esplicito (vedi L’uomo da marciapiede). Non deve perciò stupire che il meccanismo di identificazione narcisistica, se da un lato spiega il costante successo del cowboy come un modello esemplare di mascolinità, dall’altro spinga a negare in maniera recisa la possibilità di esplorare le ambiguità della vita nomade dei 26 In Back to the Future III, il giovane Michael J. Fox, catapultato dall’America contemporanea all’epoca del West, si presenta agli attoniti cittadini del tempo con il nome che gli sembra più adatto al contesto: quello di Clint Eastwood. 27 Nella lista delle star del cinema più amate dagli americani, che la società di ricerche di mercato Harris compila annualmente, Wayne, pur morto da molti anni, è costantemente presente, anche se la sua posizione è scivolata dal primo posto del 1995 al sesto del 2005; Eastwood è presente a sua volta, anche se sempre alle spalle di Wayne. veri mandriani, che passavano in compagnie esclusivamente maschili gran parte della loro giovinezza. Conclusioni Irrinunciabile eroe nazionale, e modello intramontabile di mascolinità, il mito del cowboy trae la propria forza dalla combinazione di meccanismi di identificazione a livello individuale e di elaborazioni identitarie a livello politico. Su queste basi sembra essere una icona difficile da spodestare, tanto nei discorsi della geopolitica popolare quanto nell’immaginario del pubblico americano. Nessuno dei personaggi della storia contemporanea sembra essere altrettanto evocativo. Nessuna icona di mascolinità altrettanto potente, come lo stesso cinema americano tiene a sottolineare28. L’eroe nazionale americano non teme rivali, ma al contrario si pone come un costante modello di riferimento. Impossibile evitare di fare i conti con lui (come ci insegna, nel film dei fratelli Coen, 1998, il personaggio del “grande Lebowski”, un hippie un po’ imbolsito della Los Angeles contemporanea che, dopo aver affrontato e subito gli aspetti estremi della realtà urbana, si siede ad un bar di fronte ad un cowboy e dichiara “ho sempre avuto un debole per il cowboy, come concetto”). AITKEN S. C., ZONN L. E. (1994), “Re-Presenting the Place Pastiche”. In AITKEN S. C., ZONN L. E. (a cura di), Place, Power, Situation and Spectacle. A Geography of Film, Rowan & Littlefield, Boston, pp. 3-25. BAZIN A. (1953), “Le western ou le cinéma américain par excellence”. Prefazione a Rieupeyrout J.-L., Le western ou le cinéma américain par excellence, 7eme Art, Éditions du Cerf , Parigi (trad. it. Cappelli, Bologna, 1957). BUSCOMBE E. (1988) (a cura di), The BFI Companion to the Western, Atheneum, New York. CARLSON P. H. (2000), "Myth and the Modern Cowboy,". In CARLSON P. H. 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