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DIMENTICHIAMO LA PAROLA POTENZIALITÀ

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DIMENTICHIAMO LA PAROLA POTENZIALITÀ
www.corriere.it
Venerdì, 27 Settembre 2013
ItalieSicilia
L’ECONOMIA, LA CULTURA, I PROTAGONISTI
ALL’INTERNO
La sfida Un momento della
salita al cratere centrale
dell’Etna dal versante nord
Nel momento
più acuto
della crisi,
la regione cerca
di trovare
nuove strade
per un rilancio
che abbia la
natura di una
rivoluzione
culturale
RITRATTO D’AUTORE
Inafferrabile
e paradossale,
la regione «esotica»
resta un mistero
Matteo Collura a pagina 2
L’INNOVAZIONE
Silicio, Internet
e robot: da Catania
a Palermo
le stanze del futuro
Segantini a pagina 4
LA SFIDA
Un tunnel di 8 km
impermeabile
alle infiltrazioni
dell’illegalità
Cavallaro a pagina 7
LA SANITÀ
Palermo-Usa
Ismett e il primato
nei trapianti
all’avanguardia
Corcella a pagina 13
L’ACCOGLIENZA
A Lampedusa
i sogni migranti
incontrano
gli eroi quotidiani
Traguardi
imperdibili
Di Stefano a pagina 19
LA POLITICA
Rosario Crocetta
«Quanto rende
la lotta
contro la mafia»
Cavallaro a pagina 23
DIMENTICHIAMO LA PAROLA POTENZIALITÀ
di Alessandro Cannavò
‘‘
Qui il
termine
rilascia l’amaro
di un fallimento.
Ma in quelle
giovani donne
impavide contro
il malaffare c’è
il senso di una
nuova
concretezza
e c’è un termine che la Sicilia dovrebbe cancellare dal proprio vocabolario, è
potenzialità. La parola che indica qualcosa
ancora di latente ma capace di svilupparsi, di realizzarsi, qui più che altrove rilascia già nel pronunciarla l’amaro di un’attesa illusoria che si traduce in un fallimento continuo. I dati economici
della regione, aggravati dalla crisi, sono non soltanto drammatici ma umilianti nei confronti persino di altre regioni del Sud. E l’isola più grande
del Mediterraneo resta, come in queste pagine è
raccontato nel ritratto che ne fa Matteo Collura,
un sorta di Far West d’Europa dove il diritto di
ogni comunità del vivere civile viene messo perennemente in discussione.
Appare tuttavia inaccettabile che una regione così ricca di risorse naturali, energetiche, culturali,
letterarie, umane annaspi in un stato di perenne,
scandalosa arretratezza. I mali atavici di questa
terra si conoscono bene e certo la parola-chiave
per riassumerli, mafia, così oleografica e così reale, rischia di essere un alibi per sottrarsi alle pro-
S
prie responsabilità.
Al di là delle ingiustizie storiche, fonte di un vittimismo nel quale gli stessi siciliani non si riconoscono più, emerge lampante come questa regione abbia finora dilapidato le sue opportunità,
sprecando se non addirittura rubando in quantità inimmaginabili le risorse economiche di cui
ha goduto per il privilegio (immeritato) dell’autonomia e per la generosità dell’Europa. Una storia senza fine di assistenzialismo e di clientelismo hanno condotto l’isola sull’orlo del baratro,
minando non solo i conti economici ma anche
lo spirito della società civile.
Ma è proprio in questo scenario sconfortante
che la Sicilia, a partire dai suoi amministratori,
sembra voler dare una svolta radicale. Accanto
al ritorno di nomi protagonisti di stagioni più felici, personaggi del tutto nuovi per età, formazione, mentalità, sono chiamati a scoprire l’immenso marcio e a fare azione di pulizia. Appare paradossale che il governatore passi una parte delle
sue giornate alla procura antimafia per denun-
ciare le malefatte dei suoi dipendenti, ma questo
sembra un passaggio inevitabile per ristabilire
uno stato seppur precario di legalità. È una battaglia imponente, da far tremare i polsi, osteggiata
dalla politica di sempre e soggetta dunque in
ogni momento ad agguati; e non è un caso che in
prima linea a tappare il buco nero dei fasulli enti
della formazione o a cacciare mafiosi e faccendieri dalle attività produttive, come ci racconta
Felice Cavallaro, ci siano alcune giovani donne,
tanto esili quanto rocciose e impavide di fronte
al malaffare.
Ma, l’intento di Italie è di segnalare e raccontare
le realtà imprenditoriali positive di ogni regione.
E la Sicilia, dove tra gli industriali è in corso da
tempo un impegno concreto in difesa della legalità, gli esempi di dinamismo concreto spiccano come la ginestra tra la lava dell’Etna o i gigli bianchi
tra le dune di Vendicari. Testimonianze di ottimismo che arrivano in primo piano dal settore enogastronomico, protagonista di una rivoluzione
nel nome della qualità. Ma anche il campo del-
l’innovazione e dell’hi-tech rivela realtà sorprendenti che coinvolgono anche le università. Come
ci racconta Edoardo Segantini, sono spesso storie
di giovani che non confidano sui sussidi pubblici
ma cercano fondi privati. È questa la Sicilia che
senza emigrare vuole liberarsi delle zavorre culturali e sa scrutare orizzonti internazionali.
Ma c’è anche un’altra Sicilia giovane, quella dell’impegno civile e solidale, espresso dai ragazzi
che gestiscono i beni confiscati alla mafia o da
operatori e volontari che quotidianamente affrontano con dedizione e umanità, l’emergenza degli
sbarchi, come ci racconta Paolo Di Stefano.
La sfida è fare di queste tessere il mosaico di una
regione diversa, meno superba e più orgogliosa.
Nonostante tutto, la Sicilia gode nel mondo di un
brand straordinario (spesso distinto da quello
dell’Italia), giocato sui miti e sull’esotismo. E di
un amore, da parte di chi la conosce, che va ben
oltre i meriti. Tocca, come sempre, alla Sicilia avere più rispetto di sé.
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Codice cliente: 2748686
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2
- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Ritratto d’autore
Il ricordo Lo scorso 15
settembre, nel
ventesimo anniversario
della morte di don Pino
Puglisi, cerimonia in
cattedrale a Palermo
(Olycom)
Sfuggente a ogni definizione, la Sicilia è sempre stata
il Far West d’Europa, spesso cruciale per i destini del
Continente e fatale per chi aspira alla legalità e alla giustizia
Storia e cronaca
La regione esotica
resta un mistero
di Matteo Collura
La terra
dei paradossi
Un fascino
umano,
culturale e
naturalistico
straordinari.
E un senso
nefasto del
vivere civile
che ha
impedito di
tradurre la
propria
ricchezza in
un’economia
sana. In
mezzo, una
letteratura
che ha
saputo
raccontare
e indagare
questo
territorio
come nessun
altro
la più vasta isola del Mediterraneo e la più meridionale delle venti regioni italiane; quasi del tutto
priva di tessuto industriale; ha un’economia gracile e assistita, condizionata dal
perdurare di un’invasiva criminalità organizzata; ricca di storia e di cultura, continua a dare all’Italia acclamati scrittori.
Si potrebbe dire così della Sicilia; sennonché, trattandosi di Sicilia appunto, non
c’è definizione che possa pienamente
soddisfare, renderne giusta idea.
È un mondo a parte, la Sicilia; molti la
considerano addirittura un continente,
un luogo ancor oggi tutto da scoprire, da
decifrare. Perché? Una prima risposta è
data dalla geografia che ne ha segnato il
destino: l’inizio dell’Europa per gli africani, l’Europa che finisce per scandinavi,
britannici, tedeschi... Una frontiera dalla
quale passare se si vuole storicamente incidere non soltanto sull’Italia, ma sull’intero Vecchio Continente.
Esagerato? Tutt’altro. «Non si sfugge in
Sicilia alla storia», ha scritto Denis Mack
Smith, e alcuni esempi lo dimostrano. In
quest’isola, precisamente su un tratto di
costa che va da Messina a Scaletta Zanclea, nell’estate del 1571 prese forma la
possente macchina da guerra degli alleati cristiani, che si sarebbe diretta a Patrasso e poi sul mare antistante Lepanto
avrebbe mandato a picco la flotta di Mehmet Alì Pascià (se in quella risolutiva battaglia navale le cose fossero andate diversamente, è probabile che tutti noi europei oggi parleremmo e vestiremmo in
modo diverso). Su quest’isola, a Marsala, nel maggio del 1860, i volontari di Garibaldi sbarcarono per affrontare e sconfiggere le truppe borboniche, primo atto
dell’agognata unificazione nazionale. Su
quest’isola, lungo il litorale tra Licata e Siracusa, nel luglio del 1943 (lo sbarco degli Alleati in Normandia sarebbe avvenuto undici mesi dopo) prese terra la più
grande spedizione militare mai vista prima d’allora, messa insieme per spazzare
via il demone nazista, di cui gli scellerati
fascisti erano alleati.
Una frontiera, la Sicilia, una sorta di Far
West d’Europa, dove si annidano le trappole della storia, dove il diritto — sacrosanto in ogni comunità che merita di essere definita civile — è messo perennemente in discussione, se non umiliato e
sconfitto. Una frontiera, la Sicilia, e perciò luogo ideale per tagliagole e furfanti,
avventurieri e fuorilegge, materia prima
di cui si serve la mafia per esercitare il
suo nefasto primato.
I siciliani si arrabbiano quando, nel parlare della loro regione, puntualmente si
finisce per tirare in ballo la mafia. Ma come si fa a non parlare di mafia, di morti
ammazzati, se nella sola Palermo, una
strada dopo l’altra, una piazza dopo l’altra, è possibile ritagliarsi un fitto itinerario in cui a decine sono stati abbattuti ca-
È
CHI È
Matteo Collura, nato nel
1945 ad Agrigento, vive a
Milano. Giornalista e
scrittore, il suo esordio
letterario è del 1979 con il
romanzo «Associazione
indigenti» (Einaudi) su
approvazione di Italo Calvino.
È autore del best seller
«Sicilia sconosciuta» (Rizzoli)
e della biografia di Leonardo
Sciascia, «Il maestro di
Regalpetra». Ha pubblicato
«Novecento, cronache di un
secolo italiano dal terremoto
di Messina a Mani Pulite»;
«Alfabeto Sciascia»; «In
Sicilia», «Qualcuno ha ucciso
il generale», «L’isola senza
ponte»; «Il gioco delle parti,
vita straordinaria di Luigi
Pirandello»; «Sicilia, la
fabbrica del mito», tutti
Longanesi. Scrive di cultura
per il «Corriere della Sera».
rabinieri, poliziotti, magistrati, politici,
giornalisti? È vero, tuttavia, che questa
desolante medaglia ha un’altra, certo
meno visibile, faccia: quella dei siciliani
onesti, dotati di senso dello Stato e di civiltà nei rapporti sociali. E siccome è legge di natura che a ogni male corrisponda
un proprio anticorpo, ecco in Sicilia succedersi i vari Salvatore Carnevale e Peppino Impastato, Rocco Chinnici e Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, Pino Puglisi e Pippo Fava...
È fatale, la frontiera, per chi aspira alla legalità e alla giustizia, specie se si è sindacalisti, magistrati, carabinieri o poliziotti.
Ed è particolarmente feroce con chi rompe le regole di un imposto quieto vivere
(il commerciante Libero Grassi che si ribellò al «pizzo») o dice di no al silenzio.
Per questo tanti giornalisti uccisi (Mauro
De Mauro, Mario Francese, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato, Beppe Alfano). In questa spietata frontiera, per reazione, per necessità, è nata e si è sviluppata una letteratura che continua a stupire per diffusione e tenuta.
È un fatto che così come gran parte degli
scrittori di lingua inglese nel XIX e XX secolo sono stati irlandesi, buona parte della letteratura italiana dello stesso periodo viene da scrittori e poeti siciliani.
Insularità, marginalità, frontiera: forse
viene da lì la proverbiale capacità dei siciliani di spaccare il capello in quattro,
quel pirandelliano ragionare sul filo della ragione, pericolosamente accostandosi alla follia, l’ideale quando si fa letteratura.
Gesualdo Bufalino ci ha lasciato un sapido saggio dell’odiato/amato (e potremmo dire coltivato) disagio degli intellettuali suoi conterranei: «Non so se altri
luoghi in pari misura, ma la Sicilia — cau-
sa ne sia un eccesso o un difetto d’identità — non fa che investigarsi e discorrere
permalosamente di sé. Sofistica, interrogativa, superba, ora si presume nazione
e ombelico matematico dell’universo;
ora si accascia in una sorta di rancoroso
stupore, che solo rompono di tanto in
tanto fulmini di bellissima intelligenza».
Perché la Sicilia è così condizionante per
coloro che vi nascono e vi abitano? Perché, come si legge nel Gattopardo , i siciliani sono convinti di essere creature perfette? Perché sono portati a credere a
una simile sciocchezza? Cosa hanno di
diverso dai lombardi o dai liguri? Cosa li
autorizza a ritenersi diversi — perché
‘‘
Brancati definiva
i siciliani come
i febbricitanti e la febbre
allo stesso tempo,
Bufalino sottolineava la
superbia e la sofisticheria
rotte da fulmini
di bellissima intelligenza
più intelligenti, a sentir loro, meglio vaccinati contro la violenza della vita — dai
toscani o dai piemontesi? La risposta più
sensata a queste domande è quella che
Vitaliano Brancati ci ha lasciato nel suo
diario : «Noi siciliani siamo soggetti ad
ammalarci di noi stessi: un male che consiste nell’essere contemporaneamente il
febbricitante e la febbre, la cosa che soffre e quella che fa soffrire».
Bufalino mostra di essere senz’altro d’accordo con l’autore del Bell’Antonio ,
quando cesella: «Terra infelice, che ogni
mattino a chi ci vive e ne scrive impone
lo stesso monotono dubbio: se gli convenga, tappandosi occhi ed orecchie,
eleggerla a proprio eroico eliso; o se debba mischiarcisi, inzupparsene, ammalarsene, come innamorato che in un grembo infetto cerca di proposito l’assoluto di
un’estasi e d’una morte». Quanta letteratura è sgorgata da questa ambigua fonte,
quanto cinema, quanta cronaca.
Eppure, resta un mistero, quest’isola.
Nessun’altra regione è stata altrettanto
indagata, scrutata, raccontata, senza che
se ne cavasse mai un veritiero ritratto,
un’attendibile sintesi. Nonostante sia di
continuo sotto i riflettori della cronaca,
la Sicilia resta un arcano. E questo perché dalla sua porta sono entrati, dice
Brancati, «gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l’io e il non io, la malinconia e i musaici», ma anche, «i fenici, i greci, la poesia,
LE TAPPE DI UNA STORIA
Lo sbarco dei Mille
L’arrivo degli alleati
L’orrore di via d’Amelio
In una tela ottocentesca, la Spedizione dei
Mille: tra il 5 e il 6 maggio 1860 Garibaldi
e i suoi volontari sbarcarono a Marsala,
posando la prima pietra dello Stato italiano
Uno scatto dell’«Operazione Husky», che
vide protagonisti gli alleati durante la
Seconda guerra mondiale. Sbarcarono tra
Licata e Cassibile il 9 e il 10 luglio 1943
L’attentato, compiuto il 19 luglio 1992 a
Palermo, in via d’Amelio. La strage costò la
vita al giudice antimafia Paolo Borsellino e alla
sua scorta due mesi dopo la strage di Capaci
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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IL QUADRO ECONOMICO
Muoiono le imprese
Ora via alla liquidità
e alle infrastrutture
di Barbara Millucci
la musica, il commercio, l’inganno, la
buffoneria, il comico». Insomma, ecco
perché Empedocle e Pirandello, Bellini e
Verga. E per andare ai giorni nostri, ecco
perché i tanti scrittori, da Sciascia a Camilleri.
Ha la seduzione dei paesi esotici, la Sicilia, con il vantaggio, per gli europei, di
non trovarsi nell’altra parte del mondo.
Per questo a partire dal XVIII secolo è stata meta irrinunciabile dei viaggiatori che
vi hanno trovato — e vi trovano — un ambiente naturale al limite del delirio e una
quantità impressionante di tesori d’arte.
Il fascino dell’antica Grecia, dalla quale
nacque e si sviluppò la filosofia e tutto
‘‘
Come si fa a non
parlare di mafia?
Tuttavia la medaglia
ha un’altra, certo meno
visibile, faccia: quella dei
siciliani onesti, dotati
di senso dello Stato e di
civiltà nei rapporti sociali
La lotta all’illegalità
Una protesta del Comitato Addiopizzo,
il movimento antimafia nato in Sicilia
nel 2004 dopo l’uccisione di Libero Grassi
ad opera del racket delle estorsioni mafiose
quanto è alla base del pensiero di noi occidentali, si ritrova più in Sicilia che nella
stessa Grecia. Eppure è un errore considerare la terra di Empedocle come parte
di quel dominio. Calabria, Puglia, Campania appartennero a quella realtà, non
la Sicilia, che, nei fatti, fu un’entità politica, sociale e militare a sé stante. Ne ebbero rispetto, se non paura, i Greci. E fu nel
combattere contro Siracusa che si spezzò la potenza di Atene. Ancor oggi, Scilla
e Cariddi sono a guardia di questo mondo a parte.
Un mondo a parte in cui è possibile effettuare il «viaggio perfetto», secondo il
grande saggista Mario Praz, il quale ne
spiega il perché valutando la regione dal
punto di vista della varietà del paesaggio
e della profondità storica che vi si riscontra. Bagnata dal mare africano, la Sicilia
offre alla vista paesaggi montuosi dall’aspetto tipicamente nordico, e ovunque sono visibili i resti di un passato che
ha fatto di quest’isola un prezioso deposito della storia. Il teatro greco di Siracusa,
la Valle dei templi di Agrigento, la Villa
del Casale di Piazza Armerina, e Selinunte, Segesta, Mozia; e i monumenti arabo-normanni di Palermo, Monreale,
Cefalù; e il barocco di Catania, Ragusa,
Noto. «Il massimo piacere del viaggiare»,
ne deduce Praz, assegnando il primato
alla Sicilia, «si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo».
Tutto questo spinge a chiedersi perché
tanto ben di Dio non porti a un’economia sana e fiorente. Forse la risposta è
nella mal compresa e mal gestita autonomia politica e amministrativa di questa
ineffabile regione. Era il 1969 quando Leonardo Sciascia annotava: «Il fallimento
dell’autonomia regionale si può senz’altro attribuire al fatto che è stata intesa e
maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato italiano, sotto la pressione del movimento separatista, concedeva alla classe borghese-mafiosa. Questi privilegi, di cui il popolo di fatto non
ha mai goduto ma sempre è stato pronto
a sollevarsi per difenderli, si sono come
cristallizzati in una coscienza giuridica
astratta e involuta, alimentando quel gusto per le controversie, quell’acutezza,
quella sospettosità e insomma quelle facoltà causidiche e sofistiche che (sembra
impossibile) già Cicerone riconosceva ai
siciliani».
Quarantaquattro anni dopo, sottoscriviamo senza cambiare una virgola.
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PERSONAGGI
Giovanni Verga (1840-1922),
massimo esponente della
corrente del Verismo,
ha raccontato la Sicilia in
romanzi come «I Malavoglia»
o «Mastro don Gesualdo»
Mario Praz (1896–1982),
uno dei maggiori saggisti
del ’900, ha definito quello in
Sicilia «il viaggio perfetto»,
per la varietà dei paesaggi e
per la profondità storica
Denis Mack Smith (1920),
storico inglese, ha scritto:
«Non si sfugge in Sicilia alla
storia», facendo riferimento alle
vicende che hanno segnato i
destini dell’Italia e dell’Europa
er arrivare in treno da Catania a Palermo ancora oggi
s’impiega un’eternità: quasi 3 ore per appena 200 km. Grazie alle nuove arterie che nasceranno non prima del 2020, non ci
sarà ancora l’alta velocità, ma almeno si risparmierà una buona
mezz’ora di tempo. «Puntiamo a
riattivare gli investimenti sulle
opere pubbliche, concentrandoci su due grossi progetti infrastrutturali: la linea ferroviaria Palermo-Catania-Messina e la strada
che da Gela arriva sul Mar Tirreno — dichiara l’assessore regionale all’Economia, Luca
Bianchi —. Utilizzeremo
tutti i finanziamenti a disposizione (delibere, Cipe,
etc) corrispondenti a circa
850 milioni, con la collaborazione di Anas e FS. Vogliamo poi accelerare l’utilizzo dei fondi strutturali
per le piccole opere. E pensiamo di ricorrere, per la
Finanziaria 2014, al reddito d’imposta per gli investimenti, un regime di aiuto
approvato dalla Regione
sul modello nazionale. Saranno 150 milioni di fondi
regionali a disposizione
delle aziende». Ma la novità che darà una vera boccata d’ossigeno alle imprese è «il via libera
arrivato dal ministero dell’Economia per il pagamento dei debiti
regionali verso le imprese. È lo
sblocco di un miliardo che sarà
un importante iniezione di liquidità».
Intanto, per il quinto anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra un segno negativo. Dal 2008
al 2012 il Sud ha perso oltre il
10% di Pil, quasi il doppio del
Centro- Nord (-5,8%). A livello regionale è invece sceso del 2,7%.
Per il ricercatore dello Svimez Stefano Prezioso «dopo anni di forte
decrescita, finalmente nel 2014
l’isola registrerà una modestissima crescita, nell’ordine dello
0,3%». Un numero equivalente allo zero, ma che fa ben sperare. Secondo l’ultimo rapporto di Bankitalia sulla Sicilia, il settore edile si
è contratto per il settimo anno
P
consecutivo, il numero di compravendite ha registrato un significativo arretramento, mentre il
commercio ha risentito della perdurante debolezza dei consumi.
«Il problema è che le imprese in
Sicilia muoiono e non ne nascono di nuove — continua Prezioso
—. I settori che stanno peggio sono: tessile, abbigliamento, calzature ed il mondo che ruota attorno all’edilizia, perché l’80% delle
Pmi dipende dal credit crunch».
Per quanto riguarda l’export, a livello nazionale, nei primi 6 mesi
del 2013, l’isola registra una fles-
ma a volte lascia solo un danno
ambientale, direi che la situazione non va bene. La Sicilia ha
un’agricoltura molto frazionata
ed ha difficoltà sui mercati. Alcuni prodotti agricoli di assoluta eccellenza, come il pistacchio, sono
purtroppo prodotti di nicchia.
Non finiscono nei supermercati
classici e richiedono specifiche
competenze di esportazione. Il turismo e l’agroalimentare sono invece due settori, su cui si può ancora ben sperare». I flussi turistici, seppure in rallentamento —
continua Bankitalia — continuano a crescere: il calo dei soggiorni dei vacanzieri italiani
è stato compensato dalla crescita delle presenze straniere. Nota dolente: l’occupazione. Diminuita per il sesto
anno consecutivo.
«Quattro camere di commercio (Ragusa, Enna, Messina
e Catania) su 9 sono commissariate» racconta invece
il Segretario Generale della
Camera di Commercio di
Catania Alfio Pagliaro. «Oltre ad aver soppresso le province, la Regione ha eliminato anche gli organi d’indirizzo politico delle Camere,
mentre la parte amministrativa è rimasta». Nel Catanese assistiamo comunque ad una leggerissima ripresa. «Nel primo semestre sono nate più imprese
(1.833), rispetto a quelle cessate
(1.589). Chi purtroppo soffre sono i piccoli artigiani, dove il numero di esercizi chiusi è maggiore delle attività avviate, con un
tasso di sviluppo del -1,6%. Altro
dato interessante è la nascita di
imprese gestite da giovani».
Proprio per i giovani del Sud che
vogliono mettersi in proprio e tentare di avviare nuove start up, il
Ministero dello Sviluppo Economico ha destinato un fondo di
190 milioni per promuovere la nascita di nuove imprese innovative, che abbiano sede nel meridione. Ad oggi sono arrivati al sito
www.smartstart.invitalia.it/ oltre
2 mila progetti.
Oltre all’edilizia, in crisi
il tessile e ora il
petrolchimico da sempre
leader per l’export.
Benino il turismo, fiducia
sull’enogastronomico,
anche se nei limiti dei
prodotti di nicchia
sione del 17,9%, per via del significativo calo delle esportazioni di
coke e prodotti petroliferi raffinati. «L'export isolano, anche se piccolo, è dinamico e fino ad oggi ha
sempre resistito anche durante
tutti i periodi di crisi, con andamenti sempre stazionari o crescenti», continua l’assessore Bianchi. «Questo crollo improvviso,
che registriamo per la prima volta, è dovuto al fatto che se il prezzo del petrolio aumenta, cala la
domanda. E durante la crisi siriana, la domanda, che era già piuttosto debole, è letteralmente crollata. Il calo dell'export ha interessato solo Siracusa, dove sono concentrate le principali raffinerie
d'Italia. Messina e Catania crescono del 3%, Ragusa tiene».
In realtà, afferma Pietro Agen,
presidente regionale di Confcommercio «se escludiamo il dato del
greggio, che non crea ricchezza
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
L’innovazione
GLOSSARIO
SICILIANO
a cura di
Gaetano Basile
Abbusivu Categoria che parte dal latino ab uti, usare male, in realtà
esercenti di attività non precarie a fini lucrativi, come il commercio ambulante
in ore e giorni di chiusura dei negozi o fornitori di servizi, come parcheggiatori
o codisti presso sportelli di banche, poste, esattorie, uffici della pubblica
amministrazione. Di fascia superiore quelli di stanza in uffici previdenziali,
giudiziari o tributari in grado di stilare domandine, autocertificazioni, ricorsi.
In ambito edilizio sono in grado di costruire interi quartieri e lungo le coste,
in maniera free lance tale da trovare legittimità erga omnes con una sanatoria
che dichiarerà legale tutto quanto.
TRA CATANIA E PALERMO
Silicio, robot, internet
Le stanze del futuro
Si rilancia l’elettronica di consumo
Crescono i droni e i microclip sulla Rete
di Edoardo Segantini
Moltiplicatori
di lavoro
St
Microlectronics con i
semiconduttori;
Meridionale
Impianti con
i pannelli
fotovoltaici e
i giovani di
Mosaicoon
con la
pubblicità
sul web: tre
storie che
fanno
crescere
anche
l’occupazione
gni impresa ruota intorno a una persona. Se questo è vero a qualsiasi latitudine, è tanto più vero in Sicilia, dove l’individuo è al centro del sistema. Per molti anni Pasquale Pistorio è stato l’uomo simbolo di StMicroelectronics (St), l’azienda italo-francese leader nei componenti elettronici che, dopo la vendita di Nokia a Microsoft, resta uno dei pochi
baluardi europei nell’high tech.
Carlo Bozotti , nel 2005, è subentrato a Pistorio
e ha preso la guida del gruppo, ne ha sviluppato la vocazione tecnologica e ha valorizzato il
ruolo di Catania, dove lavorano 4 mila persone
altamente specializzate.
Centro avanzato della Sicilia e del Sud, St fa innovazione e alimenta la collaborazione con i
migliori atenei, dal Politecnico di Torino alla
Sant’Anna di Pisa all’Università di Catania. «I
prodotti nuovi — dice il responsabile del sito
Francesco Caizzone — rappresentano il 20%
del fatturato. Dalla nostra specialità storica, i dispositivi di potenza, ci siamo allargati ai componenti chiave per l’auto elettrica e gli smartphone».
Nel sito St di Catania si consuma tanta energia
elettrica come in una città di 100 mila abitanti;
e nelle sue camere asettiche in cui si lavora in
tuta come astronauti e si producono i componenti di silicio per l’elettronica a 6 e 8 pollici di
dimensione, «fette» grandi più o meno come
pizze, c’è una pulizia mille volte superiore alle
sale operatorie. Intanto si sperimentano e si
usano i nuovi materiali che sostituiranno gradualmente il silicio: dal nitruro di gallio al carburo di silicio.
Ma torniamo agli individui. Lo sbarco di St nell’elettronica di consumo nasce quando un tecnico, poi promosso vicepresidente, Benedetto
Vigna, si mette a cercare l’applicazione giusta
per una tecnologia sviluppata all’interno e la
trova alla Nintendo, per la console Wii, portando così l’azienda nel cuore dei videogame. Dopo Nintendo arrivano gli smartphone e i tablet.
E oggi per Samsung si produce il sensore di
pressione che consente di localizzare l’utente
O
non solo nel punto esatto, ad esempio, del museo che sta visitando, ma anche di indicare a
quale piano si trova.
Il vento della crisi soffia forte anche sulla valle
dell’Etna, dove i casi di aziende eccellenti come
la Sielte di Alfio Turrisi (che fa impiantistica
per le telecomunicazioni) o la piccola startup
Sillogism System di Adamo De Rinaldis non sono molto numerosi. Tanto più grande è stato
perciò il sollievo della città e del sindaco Enzo
Bianco quando, nel luglio scorso, l’azienda ha
annunciato un investimento di oltre 200 milioni di euro.
«Catania — dice Carlo Bozotti al Corriere — ha
oggi un polo più maturo di semiconduttori a 6
pollici e uno più moderno a 8. Svilupperemo e
amplieremo il secondo e la riorganizzazione
contribuirà a ridurre i costi di produzione. Il sito di Catania produrrà di più e, soprattutto, accrescerà il valore della produzione, perché sulle «fette» a 8 pollici saranno realizzati prodotti
tecnologicamente più avanzati. Questo valore
in più ci permetterà di mantenere l’occupazione. Per St si tratta quindi di un impegno molto
significativo, indispensabile a mantenere la
competitività del sito».
Ancora le persone. St è stata il fulcro dello sviluppo di Etna Valley, un distretto produttivo di
90 aziende, che la crisi ha messo in difficoltà.
Pur nei tempi difficili, c’è tuttavia chi va bene.
Ad esempio Salvo Raffa , presidente del distretto e di Meridionale Impianti, un’azienda cresciuta in pochi anni da zero a 120 milioni di fatturato e a 700 dipendenti.
Raffa è chiamato «professore» perché, dopo
aver lasciato gli studi di ingegneria, per un po'
ha insegnato. Ma lui, soprattutto, è bravo a imparare. Infatti ha imparato tutto da St. Ha investito in ricerca, è cresciuto, è andato all’estero
seguendo la scia del grande pesce pilota. Ma
nel frattempo ha diversificato, allargandosi ad
altri settori come l’illuminazione high tech e i
nuovi pannelli fotovoltaici, e oggi dipende da St
solo al 50%.
Se dalla costa orientale ci si sposta a Palermo, si
può incontrare invece un altro tipo di imprenditore. Ugo Parodi Giusino , 31 anni, nel 2010 ha
fondato la sua Internet company, sognando di
trasferire la Silicon Valley sul lungomare di
Mondello. Un’idea di business molto chiara: distribuire microclip pubblicitari sulla Rete e, a ri-
LA START-UP NATA DAGLI SCARTI DEGLI AGRUMI
«Con la fibra delle arance
per rivoluzionare il tessile»
di Barbara Millucci
shirt al succo e buccia d’arancia che a contatto con la pelle
rilasciano vitamina C per idratare la pelle. L’idea ecosostenibile è
di due giovani trentenni catanesi,
Adriana Santanocito ed Enrica Arena
che con la start up Orange Fiber hanno inventato e brevettato una fibra
tessile che deriva dagli scarti di agrumi. Si sono conosciute a Milano dove
dividevano un appartamento ed ora
sono tornate in Sicilia a chiudere accordi con le tante piccole aziende locali che mandano al macero gli scarti
delle arance, circa 300 mila tonnellate annue, il 25 per cento della produzione italiana. «Adriana studiava mo-
T
da all’Afol di Milano — racconta Enrica. La sua tesi sui tessuti naturali è diventata un progetto al Politecnico.
Qui ha potuto sperimentare l’idea in
laboratorio, appurando che si può
estrarre cellulosa dalla buccia e dalla
polpa. Lei ora vive a Milano mentre
io, dopo la laurea in Relazioni internazionali, sono tornata a Catania e mi
occupo della partecipazione a bandi
e concorsi». La start up è tra i 10 progetti su 600 selezionati per Changemakers for Expo Milano 2015, il programma di accelerazione di Telecom
Italia. «Saremo presenti nei padiglioni No Food e vorremmo trovare un
partner produttivo per essere in pas-
In cerca di un produttore Le trentenni catanesi Adriana Santanocito ed Enrica Arena
serella nelle collezioni 2016-2018. A
Catania, invece, grazie all’acceleratore Working Capital, stiamo stringendo rapporti con aziende siciliane interessate nella creazione di un vero e
proprio impianto che possa trattare
le nanotecnologie e le microcapsule
in grado di fissare gli oli essenziali alla stoffa». Li chiamano cosmetotessili
ed sono la nuova frontiera che trasforma e ricicla i materiali organici. «In giro ci sono tante sperimentazioni: pensiamo ai jeans all’aloe, all’intimo snellente di Yamamay, i dolcevita idratanti all’olio d’oliva, o le t-shirt antisudore». Nuove formule con cui dovremo
imparare a convivere, vista anche la
carenza di petrolio da cui derivano le
fibre sintetiche. «In Sicilia — continua la giovane imprenditrice — un
mese fa ha chiuso il distretto tessile
di Bronte, vicino Messina. Quello che
osserviamo è che anche nel nostro
territorio, nonostante le difficoltà, c’è
fermento e voglia di fare. Tra i ragazzi, le idee non mancano». Certo il passaggio formativo milanese ha contribuito. Per ora la società non è ancora
costituita, come si dice in gergo, è in
fase di seed financing. «Per i venture
capital è un progetto ancora troppo rischioso». Ma, visto che l’Italia è anche il secondo produttore europeo di
agrumi dopo la Spagna, c’è da esser
certi che gli investimenti arriveranno. «Vorremmo recuperare anche la
frutta che rimane sugli alberi a marcire, che al Sud non è poca». Vanno bene limoni, pompelmi, mandarini, mapo con le loro infinite fragranze profumate. Tutte Made in Sicily. E visto
che dopo 40 lavaggi il rilascio degli
antiossidanti e le proprietà nutritive
delle vitamine svanisce dai tessuti, si
può sempre pensare ad altro.
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
5
Amicizia È il più nobile e alto sentimento che in Sicilia si traduce in profondo
ed eterno legame di solidarietà e rispetto. È sentimento prevalentemente
maschile, che per la sua intensa forza si espande e si trasferisce in linea
orizzontale e in progressione geometrica agli amici degli amici. In verticale ai
discendenti diretti e pure ai collaterali, fino a formare famiglie e cosche. Che
sono consorterie di grande rilevanza sociale ed economica.
Per amicizia si può e si deve fare tutto in Sicilia. Quando tra uomini si parla
dell’amico ciràsa, è chiaro a tutti che si allude a persona che è bene
non nominare. Ma di cui sono chiari, evidenti, cognome e nome.
L’INTERVENTO
Così l’università
crea tra i giovani
una cultura d’impresa
di Umberto La Commare
nnovazione e imprenditorialità costituiscono
un binomio inscindibile per la crescita e la generazione di opportunità di lavoro qualificato. L’innovazione si basa su una gestione efficiente
della filiera della conoscenza, l’imprenditorialità
sui processi di generazione di valore.
L’Università di Palermo si è dotata di strumenti
per supportare i giovani nei percorsi di innovazione, per coltivare le loro attitudini imprenditoriali
e, in alcuni casi, per avviare attività di imprese innovative. Tra questi la competizione tra idee di impresa Start Cup Palermo, le attività di incubazione
d’impresa gestite dal Consorzio ARCA (www.consorzioarca.it) all’interno del Parco d’Orleans, il corso «Imprenditorialità e lavoro nell’economia della
conoscenza».
La dimostrazione tangibile che giovani, senza un
retroterra imprenditoriale, possano fare impresa
la danno le oltre trenta imprese avviate nell’incubatore dell’Università di Palermo, le decine di giovani coinvolti che non hanno abbandonato la città
e che hanno deciso di scommettere sul loro futuro
puntando su se stessi.
Un incubatore d’impresa è sostanzialmente un
ambiente protetto in cui far crescere e progredire
fino ad uno stadio di maturità idee per trasformarle in prodotti e servizi innovativi proponibili, con
un giusto profitto, sul mercato. È un luogo che abbassa le barriere per tradurre le idee in azioni, che
riduce il rischio di impresa e mette a disposizione
un network di relazioni di alto livello, solitamente,
al di là della portata di giovani. In alcuni casi aiuta
nel reperimento delle fonti di finanziamento. Funziona bene quando i giovani collaborano insieme
e quando gruppi di giovani cooperano tra loro.
Molti gli elementi della piattaforma educativa sperimentata presso il Consorzio ARCA. I cambiamenti che hanno caratterizzato l’economia negli ultimi
anni non sono percepiti ancora con chiarezza dai
giovani. È necessario dunque informarli perché riscoprano l’idea del lavoro come atto creativo mettendo a frutto le competenze acquisite nei percorsi
di studio. Bisogna poi stimolare nei giovani un atteggiamento imprenditoriale in un ambiente economico che è diventato più competitivo. La cultura d’impresa facilita l’integrazione tra conoscenze
acquisite e mercato. Un’impresa mette in connessione conoscenze, tecnologie, risorse, prodotti e
servizi, clienti, fornitori, cercando di generare ricchezza.
Occorrono anche sostegno ed accompagnamento:
I giovani hanno bisogno di sostegni operativi nell’avvio di impresa. L’esperienza di mentoring imprenditoriale maturata all’interno del Consorzio
ARCA completa l’azione educativa.
Infine è bene non lasciare soli i giovani che vogliono avviare un’impresa. La solitudine genera insuccessi e delusioni, indebolisce. La vicinanza genera
fiducia e dà la forza per superare le difficoltà.
I
Sotto l’Etna
Sopra, alcuni
membri del
laboratorio di
robotica della
facoltà di Ingegneria
di Catania. A lato,
Salvo Raffa,
presidente del
distretto Etna Valley
e di Meridionale
Impianti. Più a
sinistra, il reparto
saldatura
dell’azienda (foto
Antonio Parrinello)
Eccellenze
A sinistra, in alto,
Francesco Caizzone,
direttore del sito di
Catania di
StMicroelectronics
(foto Parrinello). Sotto,
Ugo Parodi Giusino
(primo a destra) con il
team della palermitana
Mosaicoon (foto
Palazzotto).
chiesta, produrli. Un’esperienza formativa particolare: studi al Dams di Bologna, poi video arte
a Barcellona, infine l’esperienza di video
maker. E, in più, una forte determinazione a trovare le risorse finanziarie nel venture capital.
Tre anni dopo, Mosaicoon fattura tre milioni,
ha 40 dipendenti, uffici a Milano, Roma e Londra, realizza un utile che viene reinvestito, raggiunge 200 milioni di clienti, ha un capitale suddiviso in tre quote uguali, lo stesso Parodi e i
fondi d’investimento Vertis e Atlante (di Intesa
Sanpaolo) e riceve premi all’innovazione come
quello del presidente Napolitano.
Apparentemente Salvo e Ugo, imprenditori di
due generazioni diverse, non potrebbero essere più lontani. In realtà si assomigliano. Soprattutto nell’atteggiamento di garbata diffidenza
verso il «pubblico». Raffa dice chiaramente che
in Sicilia non sono i sussidi che mancano, ma
semmai le buone idee e la capacità di realizzarle. Parodi la pensa allo stesso modo, tant’è vero
che i soldi li ha cercati nella finanza privata.
Naturalmente l’eccellenza esiste anche in ambito pubblico, come dimostra l’attività dell’Università di Catania nella robotica, in parte collegata a St e in parte autonoma. Il team di Giovanni Muscato — con cui lavorano, tra gli altri, Luciano Cantelli, Donato Melita, Domenico Longo, Paolo Arena e Luca Patané — realizza i droni e i «multicotteri» teleguidati per sorvegliare i
vulcani (l’Etna è vicino), ma anche gli automi
che servono a bonificare i campi minati (vedi il
progetto chiamato «Tiramisù») e partecipa ai
più avanzati programmi internazionali di ricer-
ca con università francesi, inglesi e svedesi.
Scarsa è invece la cooperazione con gli altri centri robotici italiani, a cominciare dall’Istituto di
Tecnologia diretto da Roberto Cingolani e basato a Genova. Muscato lo spiega così: «L’Italia
non incentiva i centri di ricerca a collaborare, lo
fa semmai l’Europa, che pone la "multi nazionalità" dei team come condizione per partecipare
ai progetti e accedere ai finanziamenti. Rispetto
ad altri Paesi, però — dice il tecnologo — dobbiamo sopportare il peso della precarietà, che
ci impedisce di dare prospettive serie ai nostri
collaboratori più bravi».
Si, perché anche nel pubblico, come nel privato, sono le persone che fanno l’impresa.
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Umberto La Commare è docente al Dipartimento
di Ingegneria Chimica, Gestionale, Informatica,
Meccanica
UN ACCELERATORE CHE AIUTA LA MEDICINA
I protoni che battono il tumore all’occhio
di Giovanni Caprara
a fisica nucleare fa bene alla
medicina e quindi alla nostra
salute. Il prezioso legame tra
due mondi così apparentemente lontani lo si può constatare a Catania
varcando la soglia del Laboratori nazionali del Sud dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare). Qui dal
2002 è attiva una macchina unica
nel suo genere e straordinaria per
trattare con successo i melanomi dell’occhio. Una bella storia del Sud
che merita di essere raccontata. Nel
1990 nei laboratori catanesi arrivava
un ciclotrone superconduttore, cioè
un acceleratore di protoni, realizzato nei laboratori dell’Infn di Milano
con la collaborazione di Lucio Rossi
che poi al Cern di Ginevra guiderà la
costruzione del superacceleratore
L
Lhc con cui si è scoperto il bosone di
Higgs. Quando cinque anni dopo entrava in funzione esplorava i misteri
del nucleo atomico ma presto gli
scienziati allargavano il suo raggio
d’azione ad altre applicazioni. Tra
queste, per la prima volta in Italia e
con pochi altri casi all’estero, anche
alla medicina. Ci si rese conto che il
fascio di protoni generato poteva colpire e distruggere i tumori con un’efficacia maggiore della radioterapia
tradizionale, soprattutto perché il
suo fascio ben concentrato impediva di distruggere i tessuti circostanti.
«La potenza del nostro acceleratore
— spiega Giacomo Cuttone, direttore dei Laboratori nazionali del Sud
— è efficace per curare tumori fino a
3,5 centimetri di profondità e con un
diametro che può andare da qualche millimetro fino a quattro centimetri. Ciò lo rende ideale per varie
forme tumorali dell’occhio, compresa la palpebra». Così da quando l’acceleratore era predisposto al nuovo
compito venivano curati 350 pazienti (due terzi dei quali non siciliani),
ottenendo un buon risultato nel 95
per cento dei trattamenti concentra-
All’Istituto di
Fisica Nucleare
un’alternativa ai
cicli di radioterapia
ti appunto, nella quasi totalità, sui
melanomi oculari. Solo più tardi nasceva a Pavia un centro analogo di
adroterapia che estendeva la possibilità degli interventi ad altre parti del
corpo.
«Ogni due mesi — precisa Cuttone
— mettiamo a disposizione per una
settimana una sala del nostro laboratorio connessa al ciclotrone, al Policlinico di Catania per effettuare le cure di protonterapia». La macchina
potrà funzionare ancora per un decennio ma intanto, grazie all’esperienza finora accumulata dai fisici
dell’Infn, ne nascerà una cinque volte più potente finanziata dalla Regione Sicilia e dall’Unione Europea.
L’esperienza di Catania dimostra come gli strumenti di ricerca possono
La macchina Il ciclotrone superconduttore dell’università di Catania (Parrinello)
garantire svariati utilissimi impieghi. E oltre la medicina nel cui ambito si sviluppano pure nuove tecniche per radiografare meglio e con
minor danno l’interno del corpo
umano (imaging avanzato), con il ciclotrone abbinato ad altri strumenti
si compiono interessanti ricerche anche nel campo artistico. Qui, ad
esempio, si è indagata la Cartula di
San Francesco per scoprire se l’avesse scritta in tempi diversi, si è studiata l’autenticità dei rotoli del Mar
Morto e pure il tesoro di Misurata, il
più ricco d’oro lasciato dal dominio
di Roma. La scienza, come di vede,
non solo apre finestre della conoscenza ma migliora anche la vita.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
A cura della U.O. Informazione
Istituzionale del Comune di Palermo
informazione pubblicitaria
www.palermo2019.it
Perchè Palermo Capitale europea della cultura 2019
Moni Ovadia – Simonetta Agnello Hornby
Tutte le città italiane che hanno avanzato la loro candidatura a Capitale europea della cultura per il 2019 hanno indiscussi titoli
sul piano della ricchezza artistica e dell'eredità culturale, nel senso comune che si dà a questi retaggi.
Palermo, da questo punto di vista, non è seconda a nessun’altra città dello stivale per i suoi splendori d'arte e per la maestà delle
sue architetture.
Ma c'è un primato indiscusso che la capitale siciliana vanta: la sua collocazione.
Palermo è una capitale europea nel cuore dell’area mediterraneo-mediorientale ed è capitale mediterraneo-mediorientale nel cuore
dell'Europa. La sua collocazione non è solo e non è tanto geografica e spaziale ma intima fibra ideale, culturale e identitaria.
La sua prodigiosa storia di convivenze, di meticciati, di incontri e di fertilizzazioni non è solo una fondamentale eredità di un glorioso passato ma pulsa nel suo essere contemporaneo e nell'emergenza del suo futuro. Palermo ha accolto e accoglie tutti e metabolizza le trasformazioni rimanendo sé stessa.
Questa capacità di interpretare, in termini di civiltà dell'accoglienza, l'impetuoso e drammatico trasmigrare del paesaggio umano
nella culla del mare Mediterraneo e sui limitari delle sue coste si ascolta nelle voci molteplici dei nuovi palermitani germinati dalle
varie comunità di emigranti. Essi si sentono a casa propria anche per la possibilità di essere cittadini senza dovere abdicare alle
ricchezze dei propri retroterra. Già trent'anni fa, a Palermo, si poteva leggere il nome di molte vie inciso sulla targa in italiano e in
arabo, segno di apertura all'altro in quanto tale.
Palermo certo è città gravata da problematicità e da criticità ma qual è il senso della cultura, al di là della retorica del fiore all'occhiello, se non quello di affrontare con impegno creativo le contraddizioni e i nodi dolorosi per estrarne energia generativa, forza
morale e sogno?
Il nome della capitale siciliana e della Sicilia tutta viene ancora associato, nella vulgata da tabloid, alla mafia, ma è proprio per la
lotta contro la “Piovra” che Palermo sul campo si è conquistata l'orizzonte di capitale della legalità. Lì donne e uomini straordinari
hanno dato le loro vite per affermarne il valore non negoziabile. A Palermo più che altrove, diritti, legalità, pace, giustizia, non
sono solo parole ma valori incisi nel vivo della carne, del sangue e dell'anima della città, dei cittadini, degli studenti.
Ma il perché decisivo che oggi chiede di scegliere Palermo quale Capitale europea della cultura 2019 è il sommovimento epocale
cresciuto nel mondo arabo mediorientale con tutto il suo terribile carico di conflitti irrisolti ma anche di risveglio di coscienze e
di speranze.
Quale altra città italiana può assumere il ruolo di pilastro dinamico per l'edificazione del ponte di pace nella giustizia sociale e
nella dignità meglio di Palermo, che riconosce in sé stessa laicamente le ispirazioni etiche delle tre spiritualità monoteiste? Dove,
con più forza che a Palermo, la cultura può svolgere quel ruolo di superamento del cul de sac da cui la politica non riesce ad uscire
per ritrovare la sua funzione di servizio alla società dei cittadini? Dove, con più urgenza che a Palermo, l'Europa può ritrovare le
ragioni del sogno di un continente di tutti gli europei, perché nutriti dal caleidoscopio di una comune cultura et pluribus unum
che fu l'incunabolo della sua nascita?
E in quale orizzonte più appropriato di Palermo l'Europa può fare nascere, tramite gli strumenti culturali, una nuova relazione di
reciproca accoglienza, collaborazione e riconoscimento con il mondo arabo così strategica per la pace in tutto il pianeta?
Hanno finora condiviso:
Roberto Alajmo, scrittore e giornalista
Roberto Andò, regista e scrittore
Filipe Themudo Barata, Direttore del Cidehus – Università
di Evora, Lisbona e Direttore della Unesco Chair sul Patrimonio Immateriale
Marco Betta, compositore
Marella Caramazza, Direttore generale Fondazione ISTUD
Antonio Calabrò, giornalista e scrittore
Claudio Collovà, regista e Direttore artistico delle Orestiadi
di Gibellina
Giuseppe Di Piazza, giornalista, Corriere della Sera
Hedwig Fijen, fondatrice e direttrice di Manifesta, Amsterdam
Emilio Isgrò, artista
Luigi Lo Cascio, attore
Fernando Mazzocca, storico dell’arte, Università di Milano
Beno Mazzone, Direttore artistico Teatro Libero Palermo
Luca Mazzone, Direttore artistico Teatro Libero Palermo
Antonello Perricone, Presidente NTV (Nuovo Trasporto
Viaggiatori)
Veronika Ratzenböck, Direttrice del centro di documentazione della cultura, Vienna
Vincino, disegnatore satirico
Georges Zouain, fondatore e direttore della GAIA – Heritage,
Beirut
Per eventuali adesioni si può scrivere a [email protected]
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Amuri È amaru, ma sazìa lu cori, intendendo così manifestare il sentimento
che ci domina in assoluto. Più ancora della fame: riusciamo a saziarci
d’amore! Per amore quanti suicidi, follie, omicidi; pure per motivi d’onore.
Non si contano i ricchi e nobili rovinatisi per amore di continentali bellissime,
danzatrici esotiche e sciantose francesi. Amori folli di indigeni giuliette e
romei, paole e francesche e decine di baronesse di Carini. Quante corna
per amore. Pensate pure a quanta poesia, a quanta letteratura ha creato
l’amore in Sicilia. Addirittura una scuola e una lingua: la Scuola poetica
siciliana di cui tutti ricordiamo Ciullo (o Cielo) d’Alcamo e la sua rosa…
Le opportunità
IL TUNNEL CHE DIVENTA UN SIMBOLO
Una talpa che scava per la legalità
Unirà Agrigento alla Palermo-Catania. Con un protocollo più rigido di quello dell’antimafia
di Felice Cavallaro
Prove
di resistenza
Un consorzio
storico,
la Cmc di
Ravenna,
e un tunnel
di otto km
che sia
impermeabile
alle
infiltrazioni
di appalti
locali poco
chiari.
In cabina
di regia
anche un ex
componente
del Csm
ccorrono camion giganti con rimorchi a sedici ruote e centinaia di operai per fare muovere una delle frese
più grandi del mondo. Una mastodontica
trivella spaccapietre approdata dalla Francia a Porto Empedocle. Divisa in tre parti
da assemblare sotto la montagna di Caltanissetta. Per scavare nel cuore della Sicilia
un tunnel di otto chilometri.
Obiettivo: agganciare all’autostrada Palermo-Catania la statale verso Agrigento e
trasformarla in una veloce e sicura arteria
a doppia carreggiata. Il più grande appalto Anas degli ultimi anni in Sicilia, ossia
400 milioni di euro.
Con una punta da quindici metri di diametro, questa talpa lunga 115 metri a montaggio avvenuto, in ottobre affonderà le lame
per realizzare in tre anni un foro da record, sotto il controllo dei tecnici del consorzio guidato dalla CMC di Ravenna. La
Cooperativa dei muratori cementisti nacque nel 1901, e sette anni dopo approdò
in Sicilia per le prime opere nella Messina
del terremoto: da allora è sempre stata impegnata in grandi lavori nel Sud. Ma stavolta con un altro singolare record legato
alla sperimentazione dei più rigidi protocolli antimafia.
Con un lavoro di monitoraggio quotidiano lungo 63 chilometri di percorso, attraverso filtri, telecamere, vigilantes posti nei
56 ingressi dei cantieri, corsi sulla sicurezza, verifiche continue, il tutto coordinato
e seguito da una cabina di regia affidata all’università di Palermo, al Dipartimento
di studi penali, il Dems diretto dal professore Giovanni Fiandaca.
«Un modello messo a fuoco per difendere
una grande azienda dal rischio mafia, dalla contaminazione, da infiltrazioni sempre possibili soprattutto in settori permeabili come il movimento terra e i noli a caldo, quando si viene a contatto con dipendenti di ditte minori», spiega lo stesso
Fiandaca, ex componente del Csm, docente di tanti magistrati antimafia, cresciuto
O
Il cantiere Sopra
e in alto, la trivella
spaccapietre
approdata dalla
Francia a Porto
Empedocle e gli altri
mezzi pesanti (Foto
Salvatore Picone)
con Falcone e Borsellino, protagonista il
mese scorso al Meeting di Rimini di una
riflessione sul rapporto impresa e legalità
proprio con i massimi vertici di Cmc, dall’amministratore delegato Dario Foschini
al presidente Massimo Matteucci.
Sono loro con l’ingegnere Pierfrancesco
Paglini, il project manager di CMC in Sicilia, ad essersi rivolti a Fiandaca e al suo
gruppo coordinato dal professore Costantino Visconti per essere aiutati ad alzare
una sorta di paratia refrattaria al contagio
locale. Un modello collaudato per la prima volta da Italcementi quando si scoprirono infiltrazioni sospette nei rami periferici di un cantiere a Caltanissetta. Nacque
allora l’idea di costituire un comitato pre-
sieduto dall’ex Procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna con Fiandaca e il
docente della Bocconi Donato Masciandaro. Una terna chiamata a fare di una grande impresa un baluardo di legalità nella
sfida antimafia. In sintonia con gli stessi
magistrati allora impegnati a Caltanissetta nella caccia ai boss e ai manager che
non avevano bloccato le infiltrazioni e
l’uso di cemento depotenziato nella costruzione di gallerie e viadotti.
Una storiaccia con radici in un ambiente
rivoltato dal «new deal» di Confindustria
Sicilia, da Ivan Lo Bello e Antonello Montante, protagonisti dei primi protocolli antimafia stilati nelle prefetture da imprenditori ed enti appaltanti. Una consuetudine
consolidata, ormai. Ma la novità del rapporto fra l’università di Palermo e l’impresa della talpa da 115 metri sta nel fatto che
il modello adesso messo a punto fissa regole, norme e codici di comportamento
molto più rigidi rispetto a quanto previsto
da protocolli e legislazione antimafia.
«Perché dobbiamo difenderci da una presenza non immediatamente etichettabile
con il timbro della sopraffazione mafiosa,
visto che spesso non si manifesta con la
forza, ma con l’accattivante messaggio del
vantaggio economico», ha spiegato Foschini a Rimini. Perché, insinuanti, emergono a volte personaggi locali pronti a inserirsi, a consigliare, a prospettare benefici concreti, sconti su noli e forniture.
Anche questo passa adesso dai filtri di
Fiandaca. Ovviamente con controlli che
moltiplicano i costi per l’azienda che in
questo caso «dei 400 milioni ne investe 20
per la sicurezza», come rivela Paglini. Siamo al 5 per cento.
Un tema su cui riflettere anche al vertice
della Regione, dove rimbalzano le proteste per i ritardi sull’ultimo lotto da 42 milioni. Come sa il presidente Crocetta,
pronto alla verifica con il segretario generale Patrizia Monterosso e ad assicurare:
«C’è un’intesa con l’Anas. Tutto sbloccato. È questione di giorni». E coincideranno con i giorni della talpa.
IVAN LO BELLO, VICEPRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA
Catanese
Ivanhoe (questo
il suo vero nome)
Lo Bello è nato
a Catania nel 1963.
Laureato in
Giurisprudenza,
ha rivestito, tra
l’altro, l’incarico
di Presidente di
Confindustria Sicilia.
È presidente della
Lo Bello Fosfovit srl
«Per i giovani start up andata e ritorno
Studi a Milano, poi il lavoro a Catania»
di Dario Di Vico
on si può certo negare che
una larga parte del nostro
Sud mostri una base industriale molto debole e un’altrettanto
carente qualità civile. Ma attenzione, all’interno delle varie regioni esistono realtà vive. Penso in Sicilia al
triangolo Catania-Siracusa-Ragusa
che concentra gran parte del valore
aggiunto industriale della regione».
Ivan Lo Bello, imprenditore, «temporaneamente vice presidente della
Confindustria», come si è autodefinito sul suo profilo twitter, invita a evitare «letture superficiali» della realtà meridionale.
«Lo sviluppo non è affatto omogeneo ma non mancano le sorprese e
c’è anche un interessante ricambio
dentro il mondo imprenditoriale».
Gli esempi sono quelli del polo della raffinazione tra Augusta e Gela o
dell’alimentare biologico tra Siracusa e Ragusa.
Le zone di eccellenza industriale
dell’isola hanno rapporti stretti
con i sistemi produttivi del Nord?
«No, non sono significativi. In realtà
«N
dove c’è una base industriale le reti
di queste aziende sono lunghe e vanno direttamente sui mercati internazionali. È chiaro che si tratta di fenomeni che si concentrano su due-tre
province ma sarebbe sbagliato sottovalutarli».
E il sistema creditizio come interagisce con queste realtà siciliane?
«Non ci sono grandi differenze con
le altre regioni. Il sistema bancario
si è modernizzato e non mi sono
mai sentito colonizzato dai grandi
istituti di credito che sono arrivati.
Prevale il merito. E del resto le vecchie corsie preferenziali hanno por-
‘‘
Bisogna puntare
sull’innovazione
sociale. La banda larga
è più importante di
qualsiasi autostrada
tato l’economia siciliana al disastro,
fecero saltare la Sicilcassa e indebolirono il Banco di Sicilia. Quindi pure
con le attuali difficoltà di accesso al
credito non rimpiango certo il passato».
Esiste in Sicilia una rete di competenze manageriali sufficientemente diffusa?
«Nelle associazioni territoriali di
Confindustria, per fare un esempio
concreto, la classe dirigente è espressione di aziende di mercato. A Catania c’è da registrare un fermento di
start up tecnologiche condotte da
molti imprenditori di prima generazione. Molti giovani che studiano
fuori, alla Luiss come alla Bocconi,
poi tornano. Del resto il mondo si è
rimpicciolito, i ragazzi possono vivere tranquillamente a Siracusa come
a Milano. L’importante è garantire
loro una finestra sul mondo. Scambi di visite con Stanford o Berkeley,
solo per riferire due casi concreti».
Quindi pur dentro la Grande Crisi
lei è ottimista sul rinnovamento
della struttura economica sicilia-
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na?
«In verità sono preoccupato sui tempi del cambiamento. Non possiamo
portarci dietro la zavorra, solo se acceleriamo possiamo contare davvero una classe dirigente moderna e
innovativa. I siciliani sono imprenditori italiani, non c’è una chiusura
campanilistica».
Come si può dall’esterno supportare questa discontinuità?
«Innanzitutto raccontando di più
questo Sud che fa innovazione sociale. Non credo invece a strumenti ad
hoc. O stiamo sul mercato o qualunque strumento viene distorto dal
‘‘
Il mio non è un
liberalismo
ideologico penso che
servano degli incentivi,
ma diversi dal passato
continuismo. Il mio non è un liberalismo ideologico e quindi penso che
servano degli incentivi, ma diversissimi dal passato. Vorremmo la banda larga più che le autostrade, dobbiamo usare i fondi comunitari per
costruire un’infrastruttura digitale
pari a quella dei Paesi più avanzati
per stare dentro la scommessa tecnologica del nostro tempo e attrarre
investimenti. E poi penso al sistema
universitario».
Le recente classifiche delle università italiane vedono però gli atenei
siciliani tristemente in coda...
«Proprio per questo penso che uno
sforzo particolare debba essere riservato all’università. Non bastano l’Etna o il barocco di Siracusa per conquistarsi un posto nel mondo di domani dobbiamo puntare sull’education come elemento vero di capacità competitiva, anche e soprattutto
in Sicilia. E dobbiamo anche cancellare la vergogna di una formazione
professionale che è stata la sinecura
di alcuni politici».
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Arancina Ovvero un antico risotto profumato di zafferano reso da asporto.
Bastò farne una palla a forma di arancia che ne agevolasse il trasporto
una volta fritta. Quando si partiva per il nord con il treno del sole e la valigia
di cartone legata con lo spago, non mancò mai la delicata arancina.
Assieme al pecorino, alle uova sode, alle olive nere o verdi. Ma non si mangiò
mai in viaggio. Solo all’arrivo: perché dentro quella palla di riso c’era intatto
il ricordo dei profumi di casa e del lavoro delle donne che l’avevano
preparata. Oggi si trova nel mondo intero forse per far sentire i siciliani
emigrati meno soli offrendo, se possibile, gli odori di casa.
Le infrastrutture
L’AEROPORTO DI CATANIA
Forse si vola
verso il futuro
Inversione
di tendenza
Il presidente
Sac, Gaetano
Mancini:
«Impiegheremo 600 milioni
di euro».
Lo scalo, tra i
primi italiani,
ora persegue
il sogno
intercontinentale
Tagli di costi e nuovi investimenti
Fontanarossa diventa ambizioso
di Daniele Lo Porto
a carrozzone politico ad azienda gestita secondo i rigidi criteri privatistici di efficienza, efficacia ed
economicità. Gaetano Mancini, 51 anni, ingegnere, numero uno di Confcooperative in
Sicilia e vice presidente nazionale, dal 30 novembre del 2007, a parte una brevissima «vacatio», è alla guida, prima come presidente,
poi come amministratore delegato, della
Sac, Società Aeroporto Catania, che gestisce
i servizi dello scalo etneo di Fontanarossa.
Respingendo le pressioni delle varie parti politiche, la Sac è riuscita a porsi e raggiungere
obiettivi importanti, come la riduzione del
personale dipendente, passando da oltre
400 unità a poco più di 100, tramite l’esternalizzazione delle attività meno redditizie, riducendo al minimo il ricorso agli stagionali,
grazie ad un’accorta gestione del personale.
Forte di una concessione quarantennale, ottenuta proprio nel 2007, la Sac ha in programma investimenti, tramite autofinanziamento, per 600 milioni di euro, dei quali 110
D
nei primi quattro anni. I progetti più immediati riguardano la struttura sopraelevata e
coperta del Posteggio P4 e la ristrutturazione della vecchia «stazione Morandi», da destinare alle compagnie low cost, in modo da
poter accogliere in più 2,5 milioni di transiti
l’anno.
«Abbiamo una stima prudente dell’aumento dei passeggeri pari al 3% annuo, crisi permettendo — sottolinea Mancini —. Solo nel
2012 abbiamo registrato un dato negativo,
ma ampiamente giustificato da tre elementi
oggettivi: la contrazione dei passeggeri su
scala mondiale; la chiusura di Windjet e
l’inagibilità della pista per lavori di manutenzione, con il conseguente trasferimento di
numerosi voli su Palermo. Il dato complessivo è di circa 540.000 transiti in meno. Ma già
quest’anno, da aprile in poi, la tendenza registra un saldo attivo considerevole».
A parte di Hub di Roma Fiumicino e Milano
Malpensa, l’aeroporto catanese resta uno
dei primi in Italia, con una quota di circa 7
Crescita costante
L’aeroporto
Vincenzo Bellini di
Catania. Lo scalo, il
quinto in Italia con 7
milioni di transiti,
punta ora anche al
low cost mentre si
profila una sinergia
con il nuovo scalo di
Comiso
(foto A. Parrinello)
milioni di transiti annui, perché ha tutte le
caratteristiche di un importante scalo regionale con un’utenza proveniente da sette province su nove e ben il 78% di transiti da destinazioni estere. «Siamo la quinta società di gestione aeroportuale in Italia, dal 2007 abbiamo aumentato produttività e redditività in
modo graduale», sottolinea Mancini, che allunga lo sguardo fino a Comiso, nel lontano
sud est siciliano, area a forte vocazione turistica.
Il 7 agosto scorso lo scalo di Comiso è diventato finalmente operativo: collegamenti diretti con Ciampino, Londra, Bruxelles, velivoli sempre pieni. Tra i due aeroporti è assolutamente necessaria una sinergia, che già esi-
ste in termini societari. «L’unica possibilità
per lo sviluppo di Comiso è la massima integrazione con Sac. Siamo pienamente coscienti e convinti che Comiso debba essere
un pezzo del sistema aeroportuale della Sicilia orientale », conclude Mancini.
L’aeroporto di Catania, intanto, non ha abbandonato l’idea di diventare intercontinentale, ma la pista dovrà essere di 3.100 metri,
a fronte di quella esistente di 2.500 metri. Esiste un progetto di fattibilità che prevede interventi per circa 80 milioni (interramento di
parte della tratta ferroviaria, stazione intermodale e collegamenti), di competenza di
Rfi.
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Arma È l’anima, entità spirituale che comprende tutte le facoltà del sentire
e del ragionare. Normalmente poco compresa, portàti come siamo alla
corporalità e alle cose concrete. Esattamente come Dio si riconosce nelle
sue opere, i siciliani, la riconoscono in certe forme di gastrite che si dicono
bruciori a la vucca di l’arma, alla bocca dell’anima, giacché lì abbiamo finito
per riporla. Pure nelle strazianti raffigurazioni dei corpi che stanno tra le
vampe delle Anime Purganti. Pur ignorando di averne una, siamo posseduti
dall’anima, esattamente come i personaggi de Gli anni perduti di Brancati o
come il La Ciura di Lighea di Tomasi di Lampedusa.
CONTRACCOLPI
Merci e passeggeri, languono i porti
A Palermo calano i crocieristi, ma la crisi peggiore la vive il traffico dello Stretto
di Isidoro Trovato
In mezzo
a due fuochi
Spietata
concorrenza
non solo degli
scali del Nord
ma anche di
quelli della
costa
africana.
L’isola paga
duramente la
recessione in
questo
settore può
salvarsi solo
con
importanti
scelte
politiche
n una terra completamente circondata dal mare il porto dovrebbe essere
una risorsa primaria per l’economia e
i trasporti. In Sicilia questo è vero solo in
parte, la grande crisi economica ha creato
un contraccolpo davvero forte ai grandi
scali isolani: Palermo, Catania, Messina e
Augusta nel 2012 hanno fatto segnare una
contrazione in linea con i porti del resto
del Paese ma in una situazione di maggiore difficoltà territoriale.
«Stare lontani dal cuore dell’Europa penalizza i porti siciliani specie in una fase così
delicata per l’economia — afferma Paolo
Ferrandino, segretario generale di Assoporti — a ciò si aggiunga la spietata concorrenza dei porti del Nord Africa che possono garantire prezzi più competitivi a causa
del costo del lavoro molto più basso. È evidente che i nostri porti escono con le ossa
rotte da confronti così impari, specie se a
ciò si aggiunge la fase recessiva del mercato interno. Un contesto che diventa ancor
più complesso in tutto il nostro Meridione
dove scarseggiano le realtà industriali in
grado di sostenere il traffico merci portuale».
Proprio analizzando i dati di Assoporti si
capisce quanto la crisi economica si sia
specchiata nelle dinamiche dei grandi porti siciliani. Andando nel dettaglio, nel 2012
a Palermo il traffico di quello che in gergo
si chiama «rinfuse solide» (cereali, derrate
alimentari, carbone, prodotti metallurgici,
fertilizzanti e prodotti chimici) è sceso del
33,1 per cento. Una flessione per nulla
compensata dal flusso dei container che
pure ha fatto segnare un più 1,7 per cento.
Preoccupante anche l’area del movimento
passeggeri che cala del 10,9 per cento: si
tratta di 200 mila passeggeri in meno che
sono transitati dal capoluogo isolano. Lascia perplessi che il calo provenga quasi interamente dal traffico crocieristico che pure negli ultimi anni aveva rappresentato
una risorsa importante per lo scalo palermitano. Nel 2012 invece i passeggeri delle
crociere sono stati 212 mila in meno, solo
lievemente compensati dai passeggeri dei
traghetti che sono aumentati di 25 mila
unità.
Discorso parzialmente diverso a Catania
dove le rinfuse solide hanno fatto segnare
un precipizio addirittura peggiore che a Palermo (meno 40,98 per cento) e anche i
container hanno registrato una flessione
del 4,98 per cento. Come se fosse l’esatto
contrario del capoluogo isolano, la città
dell’elefante ha proprio nelle crociere l’unica voce veramente attiva del bilancio
2012. L’anno scorso infatti i croceristi in
I
In attesa
Una veduta del
porto di Palermo:
nel 2012 meno
33,1% il traffico di
rinfuse solide
transito dalla città etnea sono stati 243 mila, quasi 55 mila in più rispetto all’anno
precedente. Un dato benedetto come
manna dal cielo visto che il generico transito passeggeri aveva fatto segnare un meno 13,58 per cento.
Il bilancio peggiore dei tre grandi porti siciliani è probabilmente quello che riguarda
Messina dove lo scalo merci non è in gravissima crisi in termini di tonnellate: si registra un calo del 3,8 per cento. Ma il problema è che la città dello Stretto non ha
nel traffico merci il suo punto di forza ma
nel traffico passeggeri, proprio quello che
ha fatto segnare la flessione più preoccupante. Basti pensare che lo scalo peloritano l’anno scorso ha visto addirittura 1 milione e 365 mila passeggeri in meno. Di
questi 1 milione e 290 mila sono quelli che
hanno rinunciato a utilizzare il passaggio
dello Stretto e 62 mila sono crocieristi.
Dunque lo scenario non è confortante (e
non potrebbe essere diversamente) ma è
altrettanto chiaro che il rilancio dell’isola
passa anche (forse soprattutto) dal rilancio delle infrastrutture. «Si potrebbe percorrere la strada di partnership pubblico-privato — ricorda Ferrandino —. Però
non bisogna dimenticare che per supportare la funzionalità di un porto servono
strade di collegamento, piano regolatori efficienti, una rete di personale e servizi all’altezza delle realtà più competitive dell’Europa centrale. Ma a questo non possono pensare i privati, serve un intervento
pubblico che indirizzi le risorse verso le
aree che possono garantire un ritorno economico e occupazionale. Solo allora i nostri porti potranno diventare appetibili anche per i grandi investitori internazionali
che operano nel settore». In tempi di vacche magre tocca alla politica fare le proprie scelte e puntare sui comparti capaci
di accendere volani di crescita. In un’isola
piazzata al centro del Mediterraneo, il mare (e i suoi porti) potrebbe rappresentare
una scommessa su cui varrebbe la pena
puntare.
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L’ATTIVITÀ DA DIPORTO
Diportismo «congelato» ora si spera in Siracusa
F
ino alla vigilia della grande crisi economica la Sicilia rappresentava la nuova frontiera del diportismo turistico con tassi di crescita tra i più elevati
a livello nazionale.
Poi la tempesta economica ha creato un contraccolpo che ha gelato gli investimenti e provocato un
esodo di imbarcazioni. Eppure l’offerta di porti turistici isolani è ancora importante: il Villa Igiea e il Motomar di Palermo, il Marina di Riposto, il Marina boat service di Trapani, il Porto turistico delle Eolie di Salina, il
Marina di Porto Rosa a Milazzo e il Porto Rossi a Catania. «Senza la grande crisi — spiega Roberto Perocchio, presidente di Assomarina Federturimo — oggi
avremmo già il porto turistico di Licata con i suoi mille
posti barca. Ma sono tantissimi i progetti aperti: da
Capo d’Orlando a Balestrate, da Cefalù a Marsala.
Per non parlare del progetto più ambizioso, quello del
porto di Siracusa: lì si è arenato il Marina di Archimede ma sta andando avanti il Marina Cala del sole che
potrebbe dar vita al porto turistico più importante dell’isola».
In molti altri settori, compreso quello turistico, sono gli stranieri a rappresentare la vera alternativa a un
mercato nazionale in piena fase recessiva. Nel settore
Il Marina Cala del sole potrebbe
dar vita al porto turistico
più importante dell’isola
della diportistica invece non è esattamente così. «Inutile nascondere che a livello internazionale — continua Perocchi — si è diffusa la voce che in Italia ci sono troppi controlli in mare, troppa burocrazia e troppe
regole. Si rischiano multe salate e chi può sta alla larga dalle nostre acque territoriali. Inoltre gli investimenti sulle strutture sono bloccati dal potenziale aumento
dei canoni demaniali annunciato dalla Regione Sicilia
e per ora bloccato». Malgrado tutto, non bisogna dimenticare le potenzialità di questo comparto: i dati
Censis dicono che ogni euro investito nei porti turistici ne porta 6 di ricavi e ogni posto di lavoro creato nella nautica ne crea nove nell’indotto. Numeri che una
realtà come quella siciliana non può certo ignorare.
I. Tro.
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IL NUOVO WATERFRONT SCACCIA IL DEGRADO
Ma Palermo riconquista il suo mare
Concerti e passeggiate dove spadroneggiavano inquinamento e malavita
di Salvo Toscano
accontano che fino a qualche
anno fa da quelle parti, tra l’eternit e i cattivi odori, ci si poteva imbattere in cani da combattimento
o cavalli per le corse clandestine. Oggi,
la Cala, l’antico porto palermitano utilizzato per la nautica da diporto, con la
sua rinascita simboleggia la voglia della città che i greci battezzarono «tutto
porto» di riappropriarsi di quel mare
negato per decenni da incuria e illegalità. Il processo di recupero e bonifica
del waterfront della città vecchia, che
abbraccia l’area della Cala e del Castello a mare, ha cambiato volto negli ultimi anni alla costa. E là dove trionfavano abusivismo, discariche e degrado,
R
oggi nelle estati palermitane si gode degli spettacoli di Sting o Roberto Bolle.
Guidato dall’autorità portuale di Palermo, con al timone l’ingegnere e docente Nino Bevilacqua, il percorso di rinascita del waterfront cittadino ha restituito alla città un pezzo dimenticato della
sua storia, quel Castello a mare a lungo
abbandonato, oggi al centro di un’area
archeologica che ospita eventi artistici
di primo piano, ma anche un ristorante à la page, gestito dallo chef Natale
Giunta, fresco di denuncia dei suoi
estorsori, anche lui, a suo modo, immagine della voglia di voltare pagina della
città.
Accanto al Castello a mare, ecco la Ca-
la. Relitti, liquami, eternit e svariate forme di illegalità la facevano da padrone.
Un’imponente opera di bonifica e riqualificazione, terminata nel 2011, l’ha
resa fresca di prati e di pietra bianca,
quella dell’ampio viale pedonale realizzato tra la banchina e il ciglio della strada. Gli arredi urbani e l’illuminazione
hanno reso fruibile una fetta di città
per anni off limits. E passeggiando per
l’emiciclo della Cala rinata, si scopre
anche un piccolo gioiello: un «lapino»
bianco (la motoape insostituibile strumento di lavoro nelle borgate cittadine) progettato da Andrea Di Marco, virtuoso artista palermitano scomparso
nel 2012 a soli 42 anni.
La festa Le Frecce tricolori sorvolano il Castello a mare (foto Mike Palazzotto)
Il recupero della costa palermitana prosegue. Più in là, spostandosi in direzione di Sant’Erasmo (dove il prossimo
progetto prevede la nascita di un porto
turistico da 272 posti barca), il Foro Italico, fino a un decennio fa occupato dalle giostre che impedivano la vista del
mare, è con il suo prato meta quotidia-
na di giovani, bambini, turisti. Molto,
insomma, si muove tra Palermo e il suo
mare. Tanto da portare negli ultimi mesi a un braccio di ferro tra Comune e
Autorità portuale per la gestione del
nuovo waterfront. Ma questa è un’altra
storia.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Azzizzàri Transitivo per adornare, acconciare. Lo usarono le donne siciliane
che si azzizzàvano facendosi belle, meglio ancora splendide, visto che viene
dall’arabo azìz, cioè splendido. Viene da lì la Zisa, lo splendido palazzo
palermitano di re Guglielmo. Quale dei due? Tutti e due, giacché fu iniziato
dal padre e finito dal figlio. Un concentrato di splendori orientali, di profumi
di harem da Mille e una notte, che ha ancora il potere d’incantare i visitatori.
Ricorda gli ultimi bagliori della civiltà arabo-normanna. Poi invasori nordici
e frati spagnoli tenteranno di occidentalizzarci. Degli antichi costumi sovente
libertini non tutto andrà perduto.
L’energia
PORTO EMPEDOCLE
Rigassificatore, cantieri (forse) al via
Dopo vent’anni di polemiche, sembra prossimo l’inizio dei lavori per la realizzazione
di Gabriele Dossena
Le (infinite)
vie del gas
L’impianto
metterebbe
fine al
viaggio del
gas
proveniente
dalla Nigeria
che viene
fatto
transitare
nel Nord
della
Francia,
con un costo
aggiuntivo
tra i 150 e i
170 milioni
di euro sulla
nostra
bolletta
n travaglio lungo dieci anni. Adesso,
però, sembra arrivata la volta buona: il 2013 potrebbe segnare l’apertura dei cantieri per la realizzazione del rigassificatore di Porto Empedocle, a una manciata di chilometri da Agrigento. Un progetto
che, tra mille veti e dopo aver superato un
percorso a ostacoli che pare infinito, quando sarà ultimato (54 mesi previsti, la durata
dei lavori per costruire i due serbatoi interrati da 160mila metri cubi e rendere operativo
l’impianto) avrà una capacità di 8 miliardi
di metri cubi l’anno (circa il 10% del mercato italiano).
A dire il vero, dall’inizio dell’anno sono già
state avviate alcune opere, quelle indispensabili all’apertura del cantiere vero e proprio (che, tra l’altro, prevede un’occupazione di circa 500 persone, con punte fino a
900): dalle verifiche belliche a quelle archeologiche, fino alla sistemazione dell’area, che
versava in uno stato precario (per usare un
eufemismo) tanto da richiedere interventi
di bonifica e ripristino. In soldoni: 10 milioni di euro di interventi «propedeutici», a
fronte di un investimento complessivo superiore agli 800 milioni da parte della Nuove
Energie, la società (99,25 % Enel, tramite la
controllata Enel Trade) artefice del progetto.
Anche se l’avvio dell’iter autorizzativo risale
al 2004 (e ha ottenuto pareri favorevoli dall’assessorato regionale ai Beni culturali e
ambientali, dalla Sovrintendenza di Agrigento, Sovrintendenza del mare, il nulla osta di
fattibilità ex legge Seveso e dalla commissione Via del ministero dell’Ambiente; l’approvazione dal ministero dei Beni culturali e il
parere favorevole finale all’unanimità della
Conferenza dei Servizi delle Regione Siciliana), la vicenda del rigassificatore di Porto
Empedocle ha origini ancora più lontane. Risale addirittura al maggio 1992, quando l’allora presidente dell’Enel Franco Viezzoli firmò un accordo con la Nigeria per la fornitura di 3,7 milioni di gas liquefatto l’anno per
25 anni a partire dal 1996: una maxi-operazione destinata, originariamente, ad alimen-
U
Lo scenario
futuro
Sopra, un rendering
per il progetto del
rigassificatore di
Porto Empedocle. I
cantieri per
l’intervento
potrebbero partire
entro la fine
dell’anno. A destra,
la casa natale di
Luigi Pirandello nei
pressi del sito
industriale
tare la centrale di Montalto di Castro in sostituzione dell’impianto nucleare.
Da lì cominciò però il balletto dei veti, da
parte delle autorità locali e degli ambientalisti, che poi si moltiplicò in tutti gli altri siti
individuati in alternativa per accogliere il
gas nigeriano: da Monfalcone a Brindisi a
Taranto. Fino a quando l’Enel individuò nell’ex area industriale di Porto Empedocle, in
degrado, la possibile locazione. Per inciso,
finora il gas proveniente dalla Nigeria (pena
il pagamento di una multa equivalente a
20mila miliardi di lire, prevista dall’accordo
con il governo di Abuja) viene fatto transitare nel Nord della Francia, con un costo aggiuntivo tra i 150 e i 170 milioni di euro l’anno sulla bolletta degli italiani. Nella primavera del 2009, nonostante il terminale avesse già ottenuto tutte le necessarie autorizzazioni regionali e nazionali, il Comune di
Agrigento decise di promuovere un referendum consultivo tra gli abitanti in merito alla
realizzazione o meno dell’impianto. Consultazione alla quale partecipò solo il 14,6% degli aventi diritto e che in ogni caso aveva co-
munque un valore puramente simbolico,
dal momento che il terminale non sorgerà
ad Agrigento ma sul territorio del comune
di Porto Empedocle. E proprio con il Comune l’Enel si è impegnata a versare un contributo una tantum pari a 12 milioni, oltre alla
quota annuale prevista nel corso dell’opera
di 1,8 milioni di euro indicizzati. Ancora più
esplicito sulle ricadute locali è il sindaco di
Porto Empedocle Lillo Firetto. Lo scorso
gennaio ha annunciato i dettagli del «bonus
energia» di cui potranno usufruire circa 2mila famiglie empedocline, in pratica un contributo annuale parametrato in base al numero dei componenti del nucleo familiare:
63 euro fino a 2 persone; 81 euro da 3 a 4;
139 da 5 componenti in su.
E non è tutto. A livello provinciale l’Enel attiverà una serie di interventi, dalla riqualificazione dell’illuminazione della Valle dei Templi, a miglioramenti della viabilità oltre a un
insieme di impegni economici e strutturali
valutabili in circa 50 milioni di euro, a cui si
sommeranno circa 6 milioni l’anno per tutta la vita dell’impianto. Sul destino di quest’opera, che qualcuno ha accomunato a
una commedia pirandelliana, ora incombe
un’altra minaccia: la crisi del mercato del
gas, con una domanda fortemente ridimensionata rispetto ai valori che hanno supportato l’avvio del progetto. E che ora potrebbe
rimetterlo in discussione.
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RICONVERSIONI
Dal patto tra energia e territorio
nasce il nuovo modello ecologico
Il solare termodinamico ha trovato nell’isola la sua culla ideale
hanno battezzata la «Carta
del Sole». È un patto per
l’energia tra il territorio e l’industria. E racchiude l’impegno che
coinvolge tutte le forze sociali, economiche e produttive della Sicilia per creare un nuovo modello, valido per l’Italia e per tutto il Mediterraneo. Suggellata dal governo nel settembre dello scorso anno, tramite l’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini, ha il suo punto di forza nel solare termodinamico,
una tecnologia tutta italiana, ideata dal
premio Nobel Carlo Rubbia in collaborazione con l’Enea, e che ha trovato nella Sicilia la sua culla ideale.
Così, mentre l’Eni avvia un piano di rilancio della raffineria di Gela, che entro quattro anni dovrebbe rivoluzionare l’attività dello storico impianto voluto da Mattei mettendo sul piatto un investimento per 700 milioni di euro, trasformandolo in una fabbrica ecocompatibile e più competitiva, concentrata
sulla produzione del diesel ed eliminando quella di benzine e polietilene
(entro il 2017 è previsto il ritorno all’utile, dopo che dal 2009 a oggi questa raffineria ha accumulato perdite pari a un
L’
terzo di quelle dell’intero sistema di raffinazione Eni). E a Priolo la Lukoil
(maggiore compagnia petrolifera russa
e seconda al mondo dopo Exxon Mobil) annuncia un progetto per la trasformazione nell’arco di due anni dei processi produttivi dello stabilimento Isab
(impianto acquisito dalla Erg per 1,95
miliardi di euro, attraverso fasi successive a partire dal 2008 e di cui controllerà
il 100% entro fine anno), il polo petrolchimico siciliano si appresta a imboccare nuove strade. E punta sull’energia solare.
A Catania sorge infatti la più grande fabbrica italiana per la produzione di pannelli fotovoltaici: Enel Green Power, la
giapponese Sharp e l’italiana StMicroelectronics hanno costituito una joint
L’Eni investe 700
milioni a Gela e la
Lukoil a Priolo punta
sull’energia pulita
Idee antiche e
moderne Gli
impianti della
centrale solare
Enel-Enea di Priolo
Gargallo (Sr) che
utilizza un
complesso sistema
di specchi parabolici
per produrre energia
(foto Antonio
Parrinello)
venture per la produzione degli innovativi pannelli a film sottile multi giunzione (i moduli si realizzano depositando
atomi di silicio su un supporto che può
essere di plastica, lamiera o vetro).
Ma all’ombra dell’Etna, c’è anche il laboratorio dove la ricerca Enel mette alla prova le tecnologie fotovoltaiche per
Enel Green Power: un centro che rappresenta il punto di riferimento dell’energia solare in Italia e in Europa.
Anche se oggi il dibattito sul fronte
energetico è sempre più dominato dal
solare, pochi sanno che questa tecnologia ha una lunga storia. Nel 1981, per
esempio, l’Enel diede vita ad Adrano,
vicino a Catania, al progetto «Eurelios»,
conquistando un doppio primato,
aprendo al pianeta le porte dello sfruttamento dell’energia del sole. Adrano
(ritenuto il sito più assolato d’Europa)
rappresenta anche la prima centrale solare a concentrazione del mondo e la
prima a immettere in rete energia elettrica prodotta dal sole.
Da Adrano, in poco più di un’ora di
macchina, si arriva a Priolo Gargallo:
una sorta di viaggio nel tempo, da «Eurelios» si passa ad «Archimede», la tecnologia Enel-Enea capace di produrre
energia dal sole a qualunque ora del
giorno e della notte attraverso un com-
plesso sistema di specchi parabolici.
L’impianto, primo al mondo, utilizza i
sali fusi come fluido termovettore al posto dell’olio. La quantità delle emissioni di Co2 è pari a zero, l’impatto sul territorio nullo. Un impianto innovativo
che si rifà a un’idea con più di duemila
anni di storia. Non a caso il nome di
«Archimede» è anche un omaggio al
grande fisico e matematico che nel 212
a.C., durante la seconda guerra punica,
con i suoi specchi ustori incendiò le navi romane salvando Siracusa dall’assedio nemico.
G. Dos.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Bèlice Da gennaio ’68 con quell’accento, a causa di radio e tivvù calati per
il sisma. Si chiama esattamente Belìce, Bilìci in siciliano. Un fiume, quasi un
torrente, che quando è in piena travolge ogni cosa. Motivo per cui i saraceni
lo chiamarono con il nome del diavolo, in arabo balìs. Nessuno ha mai
provato a rivolgere un invito a non storpiare quel nome così come avviene
per Caltanissetta, ben fornita di due esse, ma alleggerita in Caltanisetta,
con una sola esse. Al pari di Cìnisi, luogo dell’attentato a Falcone che diventa
nell’oralità giornalistica Cinìsi, cioè cinesi in siciliano. Che suscita ilarità visto
che di cinesi da quelle parti non ce n’è neppure uno.
L’industria
I MARCHI LJ PHARMA E FARMITALIA
Affrontare la crisi
con i farmaci giusti
La spinta
dal passato
«L’obiettivo:
rilanciare
Farmitalia,
conosciutissimo all’estero,
con capitali
italiani
e riportarlo
all’importanza della sua
storia, iniziata
nel 1935»
Scaccia e la «nicchia» di ginecologia e ostreticia
di Daniele Lo Porto
avanti alla crisi il quesito è da quiz:
lascia o raddoppia? Fabio Scaccia
ha scelto, senza dubbi, di raddoppiare. E così, nell’aprile di quest’anno, ha
inaugurato il suo nuovo stabilimento per
la produzione di farmaci per la ginecologia e l’ostetricia, un segmento di nicchia,
ma importante.
Il nuovo edificio, 2 mila metri quadri per
laboratori e deposito, 750 mq per gli uffici,
è incastonato tra le maestose rocce laviche della zona industriale di Piano Tavola, testimonianze della devastante eruzione dell’Etna del 1669. Ma su quei banchi
di pietra nera, sorsero paesi e città più belli e moderni, fiorì l’elegante e sfarzoso tardo-barocco catanese. È quasi una scelta
simbolica: ricostruire dove c’è stata la distruzione. «Dobbiamo guardare avanti,
andare oltre le avversità, spingere l’ottimismo più avanti del coraggio», afferma
Scaccia, imprenditore che in un recente
passato ha ricoperto importanti incarichi,
da presidente regionale della piccola industria (2003) a presidente di Confindustria
D
Catania (dal 2005 al 2008), da membro
della Giunta nazionale di Confindustria
(2007-08) a presidente della Banca di sviluppo economico (2009-10) a presidente
della Camera arbitrale e di conciliazione
della Camera di commercio di Catania.
«L’azienda cresce — spiega —: dai 25 milioni di fatturato del 2012 prevediamo di
arrivare ai 27 alla fine di quest’anno, abbiamo acquistato nuovi prodotti che ci
consentiranno di arrivare a 30 milioni.
Contiamo 145 dipendenti, dei quali cento
sono informatori medico-scientifici. Investiamo un milione di euro l’anno nella ricerca e siamo l’unica impresa privata che
fa parte del Consorzio Catania ricerche,
che ha tra gli altri partner l’Università di
Esperimenti
I laboratori Pharma
e l’ad Fabio Scaccia
(foto Parrinello)
Un milione di euro all’anno per la
ricerca: anche così la fabbrica di Piano
Tavola copre un segmento remunerativo
Catania, l’Istituto di fisica nucleare, Il
CNR e la Camera di commercio. Nel nuovo stabilimento completiamo la parte produttiva dei nostri farmaci con il marchio
LJ Pharma e Farmitalia. Quest’ultimo è un
marchio che abbiamo acquistato un anno
fa perché è uno di quelli storici del "made
in Italy" nel settore farmaceutico nel mondo, dopo che alcune multinazionali avevano fatto sparire il brand. Il mio obiettivo è
di rilanciare il marchio, conosciutissimo
all’estero, con capitali italiani e riportarlo
all’importanza della sua storia, iniziata
nel 1935».
Dai rimedi per le infezioni vaginali ai più
moderni anticoncezionali, vengono prodotti nello stabilimento di Piano Tavola,
vicino Belpasso, a 15 chilometri da Catania. «Puntiamo molto all’innovazione e alla ricerca per produrre farmaci unici di no-
stra concezione o equivalenti di altri. Abbiamo conquistato un’importante nicchia
di mercato e superato la crisi grazie ai prodotti che sono risultati vincenti perché innovativi, graditi e con un ottimo rapporto
qualità-prezzo», aggiunge Scaccia. Può
sembrare strano, secondo stereotipi ormai anacronistici, ma l’eccellenza in Sicilia si manifesta anche nell’industria farmacologica.
«Nel Sud tutto è più difficile, per l’inadeguatezza delle infrastrutture, per la lontananza dai mercati di produzione delle materie prime, per il contesto ambientale
che ha difficoltà, ma riusciamo a riequilibrare con il fattore umano. Altissime professionalità, dedizione, fantasia e spirito
di sacrificio ci hanno permesso di colmare le distanze e scavalcare gli ostacoli».
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Cabbasisi Grazie a Camilleri gli italiani sanno cosa s’intende. A farceli
scoprire furono gli arabi che con habb-bacca e aziz-splendida indicavano
i frutti del Cyperus esculentus, un arbusto che fruttifica con tuberi ovoidali
ricoperti di fitta peluria. E ci siamo. Il riferimento offerto dalla natura fu servito
bell’e pronto agli occhi speculativi degli antichi. Il termine sembrava riservato
agli esperti di botanica. Invece quelle bacche finirono sulla bocca di tutti.
Un nobile siciliano spiritoso ne piantò un paio nel posto ombreggiato dove
era solito leggere e fumare il sigaro. Trovò così un modo elegante per
dichiarare di non rompergli i cabbasisi.
La medicina
IL CENTRO CHIRURGICO DI PALERMO
Sicilia-Usa, trapianto d’eccellenza
Il primato dell’Ismett nata dalla partnership tra Regione e Università di Pittsburgh
di Ruggiero Corcella
Avamposto
della salute
Un fiore
all’occhiello
incastonato
nella
struttura del
Policlinico.
Il sistema
di cartella
clinica
elettronica
è uno dei
più avanzati;
e ancora,
laboratori
cellulari
Gmp, un
Centro di
simulazione,
personale
in continua
formazione
el cielo sopra Palermo, nuvole soffici
e gonfie si alzano in verticale come
quinte di un teatro fantastico. Sotto,
il quartiere Montegrappa - Santa Rosalia
stringe la cittadella ospedaliera e universitaria in un abbraccio all’apparenza pigro e tranquillo.
Zona di chiare origini arabe, testimonia lo storico ed erudito settecentesco Marchese di Villabianca. E in effetti, il colpo d’occhio da via
Tricomi con i suoi palazzoni a dieci piani potrebbe far pensare a un miraggio in pieno deserto: dietro un’oasi di fusti di palme e prati
all’inglese, la facciata austera dell’Ismett (Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie
ad Alta Specializzazione) spunta con il suo ingresso da grand hotel.
Il moderno dell’Ismett, inaugurato nel 2004,
incrocia l’antico dell’ospedale Civico e del Policlinico. Contaminazioni di stili architettonici, di mondi e di culture ovunque. Forse solo
in questo humus avrebbe potuto nascere, crescere e svilupparsi un progetto tanto singolare: un centro di eccellenza a metà tra Stati
Uniti e Sicilia. Tra Pittsburgh in Pennsylvania, per la precisione e Palermo. Nella patria
americana e mondiale del trapianto di fegato, alla scuola del Premio Nobel Thomas Starzl, si sono formati il 70-80% dei chirurghi specializzati nella branca. Tra questi il primo direttore di Ismett, Ignazio Marino, e l’attuale
direttore Bruno Gridelli. A metà degli anni
’90, in Sicilia all’ospedale Cervello c’era un
gruppo di epatologi tra i migliori d’Italia e
d’Europa diretto dal professor Luigi Pagliaro.
Ma non esistevano centri trapianti.
I pazienti siciliani che avevano bisogno di un
organo nuovo dovevano rivolgersi ad altri
centri in Italia oppure all’estero. Di qui l’esigenza di crearne uno a Palermo. L’Upmc
(University of Pittsburgh Medical Center , una
delle più grandi organizzazioni sanitarie al
mondo) stava invece cercando un «avamposto» in Europa. Domanda e offerta, per così
dire, si incontrarono. Grazie poi alla legge di
riforma sanitaria italiana del 1992, che ha introdotto le sperimentazioni gestionali, il progetto dell’Ismett ha preso corpo. È una partnership tra Regione Sicilia, attraverso le
aziende ospedaliere Civico e Cervello di Palermo, e Università di Pittsburgh.
La Regione pensa ai finanziamenti. Upmc cura gli aspetti gestionali e fornisce il suo sapere tecnico e scientifico. Qualche numero su
Ismett: 78 posti letto; 700 dipendenti in stragrande maggioranza siciliani, età media fra i
35 e i 45 anni, il 51% donne; 1.400 trapianti di
fegato, rene, pancreas, cuore e polmone effettuati; un servizio di assistenza ai pazienti dall’estero che scelgono di farsi curare a Palermo o che rientrano in programmi di medici-
N
Le tre facce
Sopra, un intervento
di trapianto. A
destra dall’alto,
laboratorio di ricerca
sulle staminali e una
lezione di tirocinio
(foto Mike
Palazzotto)
na umanitaria. L’Ismett è un concentrato di
tecnologia avanzata, gestione informatizzata
all’avanguardia (il sistema di cartella clinica
elettronica è uno dei più avanzati al mondo),
laboratori cellulari Gmp, un Centro di simulazione, personale in continua formazione, e
continuamente impegnato a valutare il proprio lavoro e a imparare dagli errori. Il risultato della collaborazione tra pubblico e priva-
to, un modello americano non calato dall’alto ma adattato alla realtà siciliana e portato
avanti con orgoglio da professionisti siciliani,
è questo luogo incredibile dove, contro ogni
stereotipo sul Meridione, tutto sembra funzionare e ognuno sembra motivato al massimo e inserito in una squadra perfettamente
oliata. «Non dovrebbe sembrare incredibile
— chiosa Gridelli — ma la normalità. È quel-
A CARINI
E nel 2017 la sfida della biomedica
A
Carini, poco lontano dall’aeroporto Falcone e Borsellino, sorgerà un grande centro di ricerche biomediche «targato» Ismett. «La ricerca biomedica che
poi sfocia nelle biotecnologie è un settore in continua crescita anche in questo momento di crisi — spiega Bruno Gridelli —. Quindi è un’attività che ha un grande potenziale e
proprio per questo è molto importante per una regione come la Sicilia. In più è un’attività che produce salute, nuovi
farmaci, nuovi vaccini, cioè dei beni che hanno un valore
molto alto».
È stata quindi creata la Fondazione Ri.Med (Ricerca nel
Mediterraneo) che vede impegnate la presidenza del Consiglio dei ministri e la presidenza della Regione Sicilia, il
Cnr, l’Università di Pittsburgh e University of Pittsburgh
Medical Center (Upmc). Alla fondazione è stato assegnato
un finanziamento di 300 milioni di euro. A regime, il centro
darà lavoro a circa 600 persone e creerà un indotto enorme. «Dovremmo riuscire a completare la gara per la costruzione l’anno prossimo — aggiunge Gridelli —. La posa della prima pietra dovrebbe avvenire a fine 2014 inizi 2015. I
lavori dovrebbero durare tre anni, quindi speriamo nel
2017 di riuscire ad aprire le porte». Nel frattempo, Ismett
sta reclutando e formando i giovani ricercatori. Adesso sono sparsi ad imparare tra l’Ismett, l’Università di Pittsburgh, e in altri centri di ricerca universitaria europei e italiani.
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lo a cui penso aspiriamo tutti. Il nostro ospedale è nel vero senso della parola un centro
di medicina accademica, in cui la cura del paziente, l’educazione e la ricerca sono molto
integrate tra di loro e pur essendo in Sicilia
abbiamo l’accesso al know how di un’organizzazione straordinaria come Upmc. Ma soprattutto penso che il nostro potrebbe e dovrebbe essere un modello esportabile anche
al di fuori della Sicilia e dell’Italia».
Eliminiamo anche il «sembra» allora. Al di là
di quanto sia possibile vedere e capire visitandolo, l’Ismett ha superato la selezione della
Joint Commission International, il sistema di
accreditamento più prestigioso e selettivo
per gli ospedali, basato sul rispetto di 323
standard di qualità. In Italia, sono solo 15 gli
ospedali accreditati e Ismett è l’unico del
Centro-Sud.
«Sono palermitana e mio padre lavorava in
un ospedale pubblico — racconta Barbara
Ragonese, responsabile dell’Unità operativa
Accreditamento e Qualità —. Non voglio parlare male di altri ospedali, ma ricordo ancora
i suoi racconti e il rammarico di non capire
perché le cose non funzionassero. Mancava
un sistema di gestione. Per me invece è molto bello lavorare in un posto dove le cose riescono progressivamente ad andare avanti e
ad essere migliorate con l’impegno di tutti».
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LA CASA DI CURA DI BAGHERIA
La nuova vita di Villa Santa Teresa
Dalla gestione giudiziaria allo sviluppo. E 85 posti al Rizzoli di Bologna
di Vincenzo Marannano
i tempi di Michele Aiello — e della sanità gestita direttamente da
Cosa nostra — i pazienti destinati a Villa Santa Teresa viaggiavano come onorevoli, un piccolo esercito di 25
autisti li raccoglieva da tutta la Sicilia
per portarli a Bagheria e per le prestazioni legate, ad esempio, a un tumore alla
prostata, oggi pagate mediamente 8 mila euro a paziente, la Regione ne sborsava anche 143 mila. «È bastato passare alla gestione commissariale — spiega Andrea Dara, amministratore giudiziario
della Casa di cura bagherese — e di colpo i rimborsi sono passati dai 55 milioni di euro del 2003 ai 6 milioni del
2004». A Bagheria, città delle ville, un
A
tempo dépendance della nobiltà palermitana, tutti ricordano l’ingegnere Michele Aiello, ras dell’edilizia e della sanità, che prima della «disgrazia» (è così
che definiscono il carcere o le condanne) dava lavoro a 400 persone.
«Immaginate quanto sia stato difficile
far digerire un’amministrazione giudiziaria», sorride amaro Dara, mentre prova a ricordare il numero esatto di attentati, minacce, telefonate intimidatorie e
sabotaggi ricevuti direttamente o, indirettamente, dagli uomini a lui vicini. Da
quando si sono insediati, nel 2004, hanno dovuto lottare innanzi tutto «contro
i sabotaggi dei fedelissimi dell’ingegnere» (una trentina), «contro le rinunce di
chi è andato via», una decina in tutto, e
contro la resistenza di chi, «la maggioranza, ci guardava con scetticismo».
Oggi l’universo del Gruppo Aiello è
composto da 15 società, tra imprese edili e strutture sanitarie, per un valore
complessivo di circa 800 milioni di euro, 350 tra impiegati, quadri e dirigenti
e un fatturato consolidato annuo di 50
milioni di euro. Villa Santa Teresa, in
particolare, ha un «valore di produzione» che nel 2011 ha sfiorato i 13 milioni
di euro, 141 dipendenti e una media annua di circa 12.000 pazienti.
«Grazie all’opera di risanamento avviata dal 2004 — spiega ancora Dara — la
Regione è tornata a darci fiducia, abbia-
Risanata L’ingresso della clinica, 12 mila pazienti nel 2011 (foto F. Lannino/ Studio Camera)
mo chiuso ben 31 contenziosi con l’Asp
e anche le banche credono nel nostro
piano di sviluppo. Tanto che Unicredit
ci ha concesso un mutuo di 28 milioni».
La svolta però è arrivata nel 2011, con
una convenzione che concede 82 posti
letto al Rizzoli di Bologna per l’attivazione di un Centro regionale di eccellenza
in Ortopedia. Questa firma alla Regione
costerà 14 milioni di euro in 9 anni,
«ma è stato calcolato — conclude Dara
— un risparmio sensibile legato ai rimborsi extraregionali per i cosiddetti viaggi della speranza, per i quali l’assessorato avrebbe speso 25 milioni».
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Codice cliente: 2748686
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Camurrìa Indica fastidio, importunità. Il termine è impiegato in senso
traslato. Dal basso latino camoria-cimurro, o dall’antico francese chamoire?
E se fosse il greco kammonie, persistenza? Considerate che in italiano è la
gonorrea o blenorragia, fastidiosa malattia venerea contagiosa localizzata
nell’apparato genitale. È chiaro che con il termine camurrùsu o camurriùsu
si indica colui che arreca fastidio, il noioso importuno. Anche telefonico.
Soprattutto se nelle ore del riposino postprandiale. Malattia una volta assai
diffusa come fastidio dei maschietti frequentatori di case chiuse; oggi
non se ne parla più perché si cura in pochi giorni con gli antibiotici.
La lotta per la legalità
I TRENTENNI DI ADDIOPIZZO E L’AGRICOLTURA VIRTUOSA DI LIBERA
Vino e pasta dalle terre della mafia
Anche centri ippici, cantine e agriturismi sui 700 ettari confiscati ai boss
di Vincenzo Marannano
Una rivoluzione
culturale
La
«resistenza»
di giovani
e studenti
che puntano
sull’eccellenza dei loro
prodotti.
E c’è perfino
chi ha
lasciato un
posto fisso
in una banca
del Nord
per venire a
lavorare nelle
campagne
di Corleone
vevo già un posto fisso — racconta oggi Valentina mentre controlla le nuove etichette del vino
Centopassi e il packaging della pasta commercializzata da Libera —. Poi è arrivata
pure la chiamata da una banca che mi
avrebbe assunto a tempo indeterminato.
Provate a immaginare la faccia dei miei genitori quando, era il 2006, dissi che avrei
mollato tutto per tornare in Sicilia e fare la
volontaria nelle campagne di Corleone».
Valentina Fiore ha 35 anni, palermitana
doc, laurea in Economia e commercio,
master in Responsabilità sociale di impresa e, fino a qualche anno fa, una carriera
spianata in una società di consulenza di
Bologna.
Oggi è direttore del consorzio che raggruppa le sei cooperative siciliane di Libera, duecento persone tra soci-lavoratori e stagionali, 300 mila bottiglie di vino ogni anno,
100 mila chili di arance rosse e 800 mila
confezioni di pasta, solo per citare alcuni
numeri, per un fatturato che nel 2012 ha
toccato i cinque milioni di euro (+25 per
cento rispetto al 2011). La sua è una storia
come poche da queste parti. «Perché normalmente — spiega Umberto Di Maggio,
che di Libera è presidente regionale — è
più facile partire che restare e scommettere in una regione soffocata dalla mafia».
Solo nella provincia di Palermo, la Dia stima infatti la presenza di 2.230 affiliati a Cosa nostra, suddivisi in 15 mandamenti e
78 famiglie. Basta alzare un ponteggio o affittare un locale commerciale per ricevere
la visita dell’esattore del pizzo.
In mezzo a tante connivenze e a chi subisce in silenzio, negli ultimi anni si è fatta
avanti una sorta di «resistenza» avviata da
un manipolo di studenti, oggi quasi tutti
fra i 30 e i 35 anni. I ragazzi di Addiopizzo
hanno iniziato tappezzando Palermo di
adesivi contro il racket e adesso «scortano» commercianti e imprenditori accompagnandoli verso la denuncia. Il loro quartier generale è un appartamento confiscato a Tommaso Spadaro, boss della Kalsa
«A
Gioco di squadra
Da sinistra, Valentina
Fiore, direttrice del
Consorzio Libera
Terra Mediterranea,
con Laura Speziale,
Elio Cutrona,
Francesca Massimino
e Vincenzo Salerno.
A destra, la cantina
Centopassi nel
territorio di Monreale
(foto Franco
Lannino/Studio
Camera)
sepolto adesso in carcere col 41 bis e spogliato di tutti i beni. «Ormai — precisa il
prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell’agenzia nazionale per i beni confiscati
— è stato dimostrato che l’arresto e la condanna danneggiano il mafioso, ma sino a
un certo punto. Per questo bisogna puntare al portafogli». Dei quasi 13 mila beni
confiscati in tutta Italia, più di 5.500 (il
43%) si trovano in Sicilia e 3.637 solo nella
provincia di Palermo. «Se ogni euro tolto
alla mafia viene investito per bonificare le
realtà territoriali, che per anni sono state
violentate e depauperate, per il cittadino
sarà più facile capire da che parte è giusto
stare».
In Sicilia la battaglia è innanzi tutto culturale. Lo sa bene Di Maggio, 35 anni, laurea in Sociologia alla Sapienza e una grande passione per i libri di Gesualdo Bufalino. Per lui la «chiamata» è arrivata nel
2006: «Avevo appena deciso di tornare in
Sicilia, o almeno volevo provarci. Affittai
un furgone per il trasloco e appena infilate le chiavi squillò il cellulare. Era un ami-
co di Libera che si stava occupando delle
selezioni per una delle cooper ative. Aveva
bisogno di una persona con il profilo simile al mio. Gli dissi di non fare altre telefonate e di aspettarmi: "tra 12 ore sono da
te"».
Libera oggi gestisce più di mille ettari di
beni confiscati in tutta Italia, di cui 700 in
Sicilia. Oltre ai campi coltivati, sono stati
messi in piedi un centro ippico, una cantina e due strutture ricettive: l’agriturismo
Terre di Corleone, in una masseria confiscata a Totò Riina, e l’agriturismo Portella
delle Ginestre, ricavato in uno dei feudi di
Giovanni Brusca, un tempo signore incontrastato di San Giuseppe Jato.
E proprio da questo paese di 8.600 anime
arriva una delle storie più forti di questa
ribellione, quella di Francesca Massimino, «tre volte svantaggiata», ironizza lei,
perché oltre ad essere donna e ad essere
nata a San Giuseppe, è pure costretta a lottare contro lo strapotere mafioso muovendosi su una carrozzina a causa di un’atrofia muscolare spinale. Oggi è responsabile
amministrativa della coop Placido Rizzotto ed è presidente di una squadra di hockey, i Leoni Sicani, che ha fondato nel
2010 e che lo scorso anno è stata promossa in A1. Sogna di vincere lo scudetto e intanto analizza costi e ricavi: «Se ho paura?
Per fortuna non hanno mai minacciato
nessuno. Certo, hanno rubato un trattore,
dato fuoco a un campo di grano. Ma finché non toccano le persone, questi li chiamo scherzetti...».
«Un giorno — profetizza Umberto Di Maggio — la mafia sarà sconfitta e sarà la regola avere sul mercato prodotti "sani" anche
dal punto di vista etico. Quindi bisogna andare oltre, puntare sull’eccellenza». Alla
qualità si dedica soprattutto Gianluca Faraone, anche lui palermitano. Nel 2001 cominciò come agronomo alla «Placido Rizzotto», adesso è l’amministratore delegato di Libera Terra Mediterraneo, una rete
che raggruppa sei cooperative e che esporta prodotti in tutta Italia e in almeno una
decina di Paesi tra cui Giappone, Stati Uniti, Brasile e Germania.
Ognuno di questi ragazzi è riuscito nell’impresa di capitalizzare il proprio percorso universitario: agronomi, tecnici, commercialisti, botanici accomunati dal desiderio di un’economia sana e pulita.
E, credeteci, ascoltando le loro storie sembra che convenga veramente.
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A PATERNÒ
La battaglia del contadino Emanuele
«Ho paura, ma non lascio la mia terra»
Nonostante le intimidazioni, lavora alla sua oasi avifaunistica nel Simeto
di Daniele Lo Porto
i siete mai chiesti perché da
tre settimane scrivo i miei
post la notte? Avete guardato bene la mia faccia ogni giorno sempre più scavata? Avete idea di quello
che sogno non appena provo a chiudere gli occhi un attimo? Sapete che
la persona che amo sopra ogni cosa
mi ha lasciato probabilmente per paura? Io non sono un eroe per caso, io
sono un uomo che sogna continuamente la morte! Danza intorno a me
e interloquisce rabbrividendomi! Io
sono un uomo che ha paura e nonostante tutto questo cerco disperatamente di rimanere attaccato alla vita
(...)».
Così si è descritto su Facebook
Emanuele Feltri, dopo la più recente
cruenta intimidazione che ha subito:
una delle sue pecore sventrata e buttata davanti la porta di casa, nella
campagna di contrada Sciddicuni, a
Paternò. Forse è solamente testardo.
Testardo nella decisione di voler fare
«V
l’agricoltore, il suo sogno fin da bambino. Da vendere la casa di Catania e
investire il ricavato in 5 ettari di terreno. Da tenere testa ad «amici» che sono venuti prima a consigliarlo, poi a
cercare di dissuaderlo, infine a dirgli,
senza giri di parole, che lì, tra quelle
colline d’argilla, non c’è spazio per
lui. Non è gradito, insomma.
Emanuele Feltri, invece, il suo progetto di vita lo vuole sviluppare proprio lì, in quel deserto di zolle sterili,
a pochi metri da un’oasi di canneti
immersi nel Simeto: la riserva avifaunistica di Ponte Barca. «Istituita nel
«Mi hanno bruciato
l’agrumeto, poi
ucciso le pecore. Con
me solo gli amici»
2009, ma abbandonata a se stessa:
nessuna recinzione, se non quelle
abusive di pastori e bovari; nessuna
indicazione, nulla che faccia capire
che si tratta di un’area protetta — sottolinea Emanuele —. Lì c’è il supermarket dei tombaroli. Ci sono i resti
di un insediamento sicano, poi siculo. Nel 2012 fu istituito un parco archeologico, "cancellato" mesi dopo.
Vanno in cerca di reperti da vendere
sul mercato nero».
Emanuele, 33 anni, studi in Scienze politiche, da sempre attivista politico, contro il Muos di Niscemi e la
TAV, impegno ambientalista, sta
scuotendo l’immobilismo della rassegnazione cristallizzato in decenni di
assuefazione alla mafia rurale, ai sensali che impongono il prezzo perché
le arance possono essere vendute solo a loro. «Mi hanno danneggiato l’impianto di irrigazione, bruciato l’agrumeto, poi ucciso le pecore, ma io non
cedo. Ho sempre denunciato subito
Inflessibile Emanuele Feltri, 33 anni, con due degli animali che alleva (Parrinello)
tutto. La risposta è stata una grande
mobilitazione, con il sindaco di
Paternò in testa, poi le assicurazioni
del presidente Crocetta, che mi ha
mandato gli agenti del Corpo forestale, ma solo per una settimana hanno
vigilato, poi, "per carenze di organico" il servizio è stato sospeso e mi ritrovo solo, senza protezione, in una
campagna dove non c’è neanche
l’energia elettrica e l’unica strada sterrata viene resa impraticabile da una
pioggia appena più intensa».
Non è solo, però: gli amici che non
lo lasciano un minuto sono la sua
«scorta». Vogliono costituire una cooperativa agricola, vendere i loro prodotti biologici sul mercato ecosolida-
le, diffondere l’idea di un agricoltura
pulita. Il primo passo è rendere percorribile «la strada del grano», una ex
regia trazzera, che collegava i campi
dell’ennese ai mulini ad acqua di
Paternò. Il tracciato, devastato dai
mezzi pesanti e dalle piogge torrenziali, serve decine di aziende agricole. «Abbiamo costituito l’associazione Valle del Simeto (www.valledelsimeto.it) per ottenere adesioni e finanziare dal basso la manutenzione della strada, 18 mila euro per il primo
tratto. Rendere agibile quel sentiero
avrebbe una valenza, non solo simbolica», conclude Emanuele, mentre accarezza l’asina Pasqualina.
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Cannòlo C’è qualcuno che non conosce il cannolo siciliano? Nacque nel
Cinquecento come scherzo di carnevale. Infatti uno strumento cilindrico fatto
con un pezzo di canna serviva come rubinetto nelle fontane o abbeveratoi di
campagna. Lo scherzo consistette nel fare uscire, invece dell’acqua, la ricotta
raddolcita. «Sono dolci conditi in maniera diversa» recitano i dizionari siciliani.
Infatti quello palermitano si distingue per scorza d’arancio messa di traverso
e lo zucchero a velo, quello catanese per le ciliegine alle estremità e la
graniglia di pistacchi, quelli del trapanese per la loro dimensione esagerata...
Resta un peccato di gola. Veniale però.
IL PROCURATORE DI CALTANISSETTA SERGIO LARI
Falcone e Borsellino, maestri di vita
«Amicizia, dedizione, rigore. Lavoro duramente senza cercare il falso consenso»
di Felice Cavallaro
Amarezza
e speranza
«Giornalisti e
uomini politici
hanno espresso
dubbi sulla
fondatezza
della nostra
posizione
diciamo così
"laica", di
attenzione
professionale,
di vaglio
critico.
Qualcuno ci ha
mostrato al
Paese perfino
come
un’Armata
Brancaleone,
ma non ci
abbattiamo»
ra gli eredi dei grandi magistrati che
si sono sacrificati sulla trincea antimafia spicca la figura di Sergio Lari,
il procuratore di Caltanissetta cresciuto nella peggiore stagione di Palermo accanto a
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Cioè
fra i bersagli designati delle stragi di Capaci
e via D'Amelio di cui Lari si occupa da cinque anni per competenza territoriale nella
roccaforte giudiziaria al centro della Sicilia.
Da loro sembra avere mutuato il metodo e
l’approccio umano. Rapporti indelebili. A
cominciare da Giovanni Falcone, come racconta questo magistrato di 65 anni, moglie
e tre figli, il basket per passione, vita blindata, la giornata in ufficio, la sera alloggio in
caserma, i weekend ritirato a casa a Palermo: «Una amicizia profonda. Giovanni ha
tenuto in braccio mia figlia Claudia. Li rivedo una sera in pizzeria, al club dove andavamo, il Telimar. Lui la alza in alto, con affetto paterno, un grande sorriso specchiato
in quello della piccola. Poi la stringe a sé e
la bacia. Ma con uno sguardo in cui l’allegria mi sembrò velata dal rammarico, forse, di non avere provato la gioia della paternità, come aveva deciso, come ripeteva per
non mettere al mondo un orfano».
Un’amicizia che negli anni Ottanta portò
Lari nella vita associativa della magistratura: «Per scelta di Falcone, io divenni segretario del "Movimento per la giustizia". Anni di lavoro duro. Mi ha lasciato il senso del
rigore. Quando antepongo il lavoro ad ogni
altra cosa, ad ogni affetto, penso a lui. Prima di conoscere Giovanni non ero così. In
questo posso dire che mi ha cambiato la vita».
E Paolo Borsellino? «Colpiva la sua grandissima umanità. Non poteva prescindere dal
rapporto fisico. Il braccio in spalla, la pacca, il sorriso, la complicità, la battuta confidenziale sul proprio vissuto. Questa la ragione per cui tutti erano disposti a fare tutto per lui. Eravamo su fronti opposti in associazione. Io con i Movimenti, lui "monarchico". Indimenticabile l’ultimo incontro
in tribunale, dopo la morte di Giovanni. Si
parlava di una possibile candidatura alla
Superprocura e, senza pensare ai nostri diversi schieramenti, gli dissi: "Se decidi di
concorrere, il mio gruppo ti appoggia". Mi
ringraziò, con un sorriso amaro. Capii che
non avrebbe accettato, deciso a rimanere
in Procura a Palermo fino all’ultimo».
Queste le immagini che Lari si porta appresso in una prima linea dove avverte d’essere esposto «a temporali continui», indifferente alle polemiche accese sulla cosiddetta «trattativa» Stato-mafia, sugli imputati
eccellenti, sui testimoni esaltati da altri uffi-
F
Vita blindata
Sergio Lari, 65 anni,
dice: «Il magistrato
che vuole accertare
la verità deve
accettare di essere
solo» (foto
Contrasto)
ci come accadde l’anno scorso per Massimo Ciancimino, quando Antonio Ingroia
era ancora magistrato. Temporali? «Avvertiamo spesso ventate impopolari di chiacchiere infondate sul nostro lavoro, con notizie false o commenti deviati. In una certa
area culturale dell’antimafia so di non trovare sostegno e compiacenze, ma non importa e non le cerco».
Un’amarezza che somiglia a quella di Falcone, lasciato solo da tanti amici che lo riscoprirono dopo Capaci. E Lari, cosciente,
non si lascia fuorviare dalle chiacchiere:
«Il magistrato che vuole accertare la verità,
deve accettare di essere solo. Senza cercare popolarità. Incassando critiche da chi
non è d’accordo, da chi secondo i suoi teoremi vorrebbe che noi certificassimo per
esempio, anche senza prove, l’esistenza di
mandanti esterni alle stragi. Ovviamente
se ne può parlare, si può ragionare su tutto.
Ma mi rifiuto di considerare Riina come un
esecutore di un mandante esterno, senza
prove granitiche. Così, noi andiamo per la
nostra strada. Anche controcorrente. Come è accaduto quando si esaltava il profilo
di alcuni personaggi, vedi Massimo Ciancimino, e non condividevamo le politiche
giudiziarie di una parte della Procura di Palermo».
Esplicito il riferimento alle polemiche sorte
sulle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza:
«Alcuni giornalisti e uomini politici hanno
espresso dubbi sulla fondatezza della nostra posizione diciamo così "laica", di attenzione professionale, di vaglio critico. Abbia-
mo provato disorientamento davanti alle
iniziative e alle sbandate di certa stampa.
Qualcuno ci ha mostrato al Paese perfino
come un’Armata Brancaleone incapace di
vedere la famosa Agenda Rossa di Borsellino, sbandierata dopo vent’anni da una foto scattata fra le macerie di via D’Amelio.
Per scoprire, dopo affannate indagini, che
si trattava di un reperto insignificante, il
lembo di un parasole. Ma per giorni e giorni siamo stati crocifissi ai titoloni di prima
pagina come inetti. E non si fermano. Qualcuno è riuscito ad accusarci perfino di essere "trattativisti", come se fossimo noi a difendere la famosa e discussa "trattativa" fra
Stato e mafia. Un’idiozia aggiunta allo sgomento di essere accusati di avere perfino
occultato un "colloquio investigativo" fatto
da Piero Luigi Vigna a Gaspare Spatuzza».
Preferisce citare i dati concreti, Lari. A cominciare dai 7 boss che, lavorando su nuovi elementi, il suo ufficio è riuscito a fare arrestare per Capaci: «Compreso Cosimo
D’amato, il fornitore dell’esplosivo militare
recuperato dalle bombe trovate nei fondali
del mare di Porticello, 1.300 chili di esplosivo utilizzato pure per gli attentati di Milano, Firenze e Roma».
E su via D’Amelio, dopo tre processi sbagliati: «Scoperte da noi 11 condanne inflitte
a innocenti. Scarcerate 8 persone, 7 delle
quali condannate all’ergastolo. Salvate invece 32 condanne. E rinviati a giudizio per
calunnia aggravata i quattro falsi collaboratori di giustizia responsabili delle ingiuste
condanne. Abbiamo fatto uscire dal carcere chi non aveva commesso il reato di strage, individuando 5 nuovi soggetti corresponsabili prima sfuggiti alle indagini. Individuando anche 4 persone coinvolte nella
fase esecutiva come Giuseppe Graviano,
già condannato come mandante, il boss
del telecomando di via D’Amelio».
È la rivendicazione di risultati raggiunti in
questa città dove con Antonello Montante
cominciò la «primavera» degli industriali siciliani: «La lotta al racket e la rivoluzione di
Confindustria scattarono qui, dalle prime
reazioni degli imprenditori di Gela, dal sequestro dei beni dell’ex presidente degli industriali. Fino al nuovo corso. Ma ci vuole
anche altro. Ci vuole una condivisione di
Confcommercio, di ogni categoria produttiva». Mentre spesso scattano veleni pronti
ad ammorbare l’aria: «Il rischio è una campagna di delegittimazione da parte di centri occulti che vogliono screditare chi fa vera antimafia, come le associazioni antiracket della Fai, Confindustria, e Addiopizzo».
L’ESPERIENZA VENTENNALE DELLA SORELLA DEL GIUDICE
Testimone
A sinistra, Maria
Falcone durante un
incontro sulla mafia
con gli studenti
all’auditorium San
Francesco di Chiavari
(Ge) (foto Olycom
Fototre): oltre 900 le
scuole che
partecipano ai progetti
educativi della
Fondazione Falcone
Gli studenti fanno rivivere Giovanni
Con loro penso che la mafia si batte
di Maria Falcone
a prima impressione entrando
nelle stanze che ospitano la Fondazione Giovanni e Francesca
Falcone è quella di essere dentro a una
galleria caotica e vivace. Convivono migliaia di libri, quadri, oggetti dalle sembianze infantili, riconoscimenti internazionali ed istituzionali di vario genere.
Sono i doni e i ricordi dedicati a Giovanni, a Francesca e alle nostre attività nei
vent’anni che ci separano dalle stragi
del ’92. Tra questa babele di oggetti fantasiosi, realizzati per lo più dalle scuole,
quello più caro si trova nella mia scrivania. È un pupazzetto di carta delle di-
L
mensioni di un soldatino. Raffigura Giovanni Falcone. Sotto c’è scritto: «Grazie
Giovanni. Ci ha dato il coraggio per continuare la tua impresa». Mi è stato donato da un bambino di Cagliari.
La frase può sembrare retorica ma per
noi della Fondazione, che a Palermo abbiamo visto crescere un vero movimento culturale antimafia senza precedenti,
è la sintesi più reale del lavoro svolto nelle scuole. La Fondazione Giovanni e
Francesca Falcone è nata alla fine del
1992. L’adesione delle scuole di tutta Italia ai nostri progetti di educazione alla
legalità è stata inarrestabile. Siamo parti-
ti con una manciata di studenti e professori. Oggi oltre 900 scuole partecipano
ogni anno alle nostro progetto educativo arrivando il 23 maggio a Palermo alla
commemorazione delle stragi di Capaci
e Via D’Amelio. Si aggiungono le delegazioni di studenti stranieri. Arrivano in
Italia con i progetti europei da noi promossi. Vengono per conoscere la storia
umana e professionale di Giovanni Falcone. È un’opportunità di confronto su
tanti temi, non solo sul fenomeno mafioso italiano. Se dovessi tracciare un bilancio, pensando alle generazioni con le
quali interloquisco oggi, sento una ten-
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sione etica ed una dettagliata conoscenza dei fatti e della figura di mio fratello
da renderlo contemporaneo e vivente. I
ragazzi che incontro nelle scuole sono
consapevoli e mi colpisce come Giovanni sia riuscito a penetrare nel loro immaginario. A metterli in contatto con i valori più sani che lui rappresenta. Vent’anni fa la disperazione era tale che dentro
di me non risiedeva più la speranza di
un futuro migliore per Palermo, per la Sicilia, per l’Italia. Sono state ancora una
volta le parole di Giovanni a farmi capire che non potevo dimenticare il suo lavoro. Il contrasto alla mafia doveva con-
tinuare non solo nei tribunali ma col sostegno della società civile.
Il testamento morale di mio fratello è
racchiuso in una frase che ha lasciato
agli italiani quando poco prima della
sua morte, che presagiva vicina, disse
ad un giornalista: «Gli uomini passano,
le idee restano. Restano le loro tensioni
morali e continueranno a camminare
sulle gambe di altri uomini». Questa frase è stata il sostegno che mi ha guidato e
spinto a costituire una fondazione rivolta alle nuove generazioni; unica via salvifica per riabbracciare la speran za.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Canziàtu Participio passato del verbo canziàri, mettere da parte. In Sicilia
il canziàtu è colui che viene ricercato e si è dato alla latitanza. L’aria dell’isola
pare favorisca questo tipo di isolamento volontario dato che annoveriamo
canziàti da Guinness con 30 e fino a 40 anni di latitanza senza che le forze
dell’ordine abbiano potuto scoprire alcunché. A creare il mito fu Ade, il cui
nome, in origine, stava per invisibile. Latitò in una grotta dalle parti di Pergusa,
vicino Enna. Fu il rapitore di Persefone, con la prima fuitìna. D’altronde,
mettiamoci nei panni della madre, la povera Demetra: voi le avreste dato
per marito uno che era canziàtu?
Il personaggio
ANTONIO PRESTI, ETERNO RIBELLE
«La bellezza contro mafia e antimafia»
Il mecenate solitario che ha creato la «Fiumara d’Arte» denuncia i riti ambigui della politica
di Enzo Basso
Poche parole
e tante opere
Le opere di
land art sulla
costa
messinese,
l’hotel
«costruito»
dai poeti, il
coinvolgimento degli
studenti per
un «muro»
artistico nel
quartiere di
Librino:
tutto a spese
sue, pur di
non cedere a
certe lusinghe
e è vero che il destino di ogni uomo è
scritto nelle stelle, «io ho preferito i "riti della luce" a quelli "oscuri della politica"». Antonio Presti, 56 anni, mecenate
dell’arte, impegnato nell’inaugurazione
dell’equinozio d’autunno, la manifestazione di archeoastronomia «la Piramide 38˚
Parallelo» che si svolge a settembre sotto la
Piramide in acciaio corten dell’artista Mauro Staccioli, sulle alture di Motta d’Affermo, spiega così il rifiuto della carica di assessore regionale ai Beni culturali della Regione Sicilia. Ad insistere perché accettasse, Rosario Crocetta. Il governatore della Sicilia, per i mesi precedenti alla sua elezione, è stato ospite all’Atelier sul Mare, 40 camere d’albergo d’arte dove si sono espressi
poeti come Dario Bellezza ne «La stanza
del Profeta», dedicata a Pier Paolo Pasolini,
e brigatisti in licenza premio come Renato
Curcio, che ha fermato sulle pareti di Castel di Tusa, borgo marinaro a metà strada
tra Palermo e Messina, i suoi «Sogni tra i Segni».
All’Atelier sul Mare il governo Crocetta è
nato. E i riti, le trattative serrate, le «pupiate» che hanno preceduto la formazione del
governo, hanno convinto Presti a dire no.
Anzi. Alla proposta di entrare in giunta ha
risposto con un fax nel quale rifiutava gli ottantamila euro l’anno che il bilancio regionale destinava per la manutenzione ordinaria delle opere del parco «Fiumara d’Arte»,
le sculture disseminate sui Monti Nebrodi
che hanno tenuto Presti per vent’anni sotto processo, con l’accusa di abuso edilizio.
Due forze contrapposte nei tribunali: «La
creazione positiva dell’arte» sul demanio
pubblico, contro il "non finito siculo", l’abusivismo edilizio privato, dilagante».
Ora, come un cerchio che si chiude, le parti si ribaltano. E sono i potenti della Sicilia a
venire in processione all’Atelier sul Mare,
ospiti di questo personaggio a briglie sciolte che risponde: «Le lusinghe non mi interessano. Il mio sentire è per una Sicilia diversa, votata alla bellezza. Non ai riti della
mafia e dell’antimafia: qui ho visto tanti
personaggi ambigui che hanno offeso e
continuano a umiliare la Sicilia».
Un percorso travagliato quello di Antonio
Presti, nato trent’anni fa, come atto di ribellione. Era da morto da poco suo padre, imprenditore edile di successo, che finanziava la squadra di calcio del Messina, quando, impreparato al ruolo di successore, si
ritrovò a respirare «la volgarità delle mazzette». Anziché dedicarsi all’arte della revi-
S
Firmato
dai bambini
Presti davanti alla
«Porta della
Bellezza» a Catania
(foto Fabrizio Villa)
sione prezzi, alla memoria del padre Angelo, sul greto di un torrente, riservò una monumentale opera in cemento armato dello
scultore Pietro Consagra: «La materia poteva non esserci». Da lì la definitiva rivolta di
Presti, «contro il sistema che macina con i
commi di legge il codice della bellezza». A
Pettineo ha fatto dipingere dagli artisti una
tela lunga un chilometro tagliata poi a «pezzi d’arte» per finire nelle case dei mille abitanti, la prima esperienza nazionale di Domestic Art. Nel difficile quartiere di Librino
SCULTURE
Cammino sano di un mecenate
Fiumara d’arte, l’essenza di vita
La «Finestra sul Mare» di Tano Festa è la prima delle sette opere scultoree della «Fiumara d’Arte» cui il viaggiatore si imbatte sulla statale
«113», all’uscita della autostrada Messina-Palermo, prima di addentrarsi nella valle di Tusa. La seconda opera, sulla strada è «La Materia poteva non esserci» di Pietro Consagra. Inoltrandosi per i Nebrodi, in direzione Pettineo, appare «una curva gettata nel vento» di Paolo Schiavocampo. Il cammino del turista può poi proseguire per Castel di Lucio, dove
isolata su un colle c’è «Arianna», il labirinto di pietre di Italo Manfredini.
In direzione Mistretta, poi, ci si imbatte nel «Muro di Ceramica» firmato
da quaranta artisti. Il giro, a zig zag sui monti, si conclude poi a Motta
d’Affermo, dove si erge l’onda blu di «Energia Mediterranea» di Antonio
Di Palma. Tappa d’obbligo, è poi l’Atelier sul mare, a Castel di Tusa.
a Catania, definito dai paesaggisti «un non
luogo a procedere», ha impegnato dodici
artisti a decorare la «Porta della Bellezza».
Da Librino nel 2001 è poi partito «Il treno
dei poeti». Ragazzi e viaggiatori anonimi si
mischiavano in «conversazioni in Sicilia»
con poeti come Edoardo Sanguineti, Luciano Erba, Franco Loi. «L’Offerta della Parola» contro il vaniloquio della «dell’antimafia e della mafia». «La bellezza della Costituzione» l’hanno raccontata al vento, sul rettifilo che porta i viaggiatori all’aeroporto di
Catania, le 500 bandiere con le scritte-slogan dei ragazzi. Un movimento di pensiero
ripreso poi nella manifestazione per le acque del fiume Oreto a Palermo che ha radunato 140 scuole e che ha affascinato Danielle Mitterand. Prima di morire la first lady
francese ha voluto impegnarsi nella «Stanza dei Pittori d’acqua». Ma ora che i soldi,
«miliardi di vecchie lire» sono volati via, come pensa Presti di chiudere il suo personale ciclo? «Conferirò tutto il mio patrimonio,
almeno quello che resta, per fare una Accademia di Fiumara d’Arte, perché possa crescere davvero il seme di una Sicilia diversa,
con una devozione alla bellezza...»
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TERZO SETTORE
Il volontariato nell’isola che adesso c’è
Grazie alla Fondazione «Con il Sud» avviati laboratori per ragazzi autistici e disagiati
di Minnie Luongo
l Sud non è un Paese per volontari.
Ciò valeva fino a pochi anni fa,
quando il non profit era di casa soprattutto nelle regioni settentrionali.
Ora la fotografia del Terzo settore appare cambiata. Molto lo si deve a realtà come Fondazione CON IL SUD, ente non
profit privato nato nel novembre 2006
dall’originale alleanza tra le fondazioni
di origine bancaria e il mondo del Terzo settore. Per educare i ragazzi alla legalità e contrastare la dispersione scolastica, valorizzare giovani talenti e attrarre i cervelli al Sud, tutelare i beni comuni (patrimonio artistico-culturale, ambiente, riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie), integrare gli immigrati.
In totale, sono state lanciate oltre 470
iniziative, assieme a tre prime «fondazioni di comunità» meridionali (Saler-
I
no, Messina e Napoli), coinvolgendo
5.500 organizzazioni fra Terzo settore e
volontariato, scuole, enti pubblici, privati e migliaia di cittadini, specie giovani,
ed erogando oltre 104 milioni di euro.
Per quanto riguarda la Sicilia, commenta Carlo Borgomeo, presidente della
Fondazione: «Questa regione — grazie
a 130 progetti approvati, alla salda Fondazione di Comunità di Messina, assieme alla costituenda Fondazione di Comunità della Val di Noto e al progetto di
sviluppo locale in via di sperimentazione a Castelbuono (Pa) — rappresenta
un territorio dove, pur nei limiti imposti
da un’insufficiente disponibilità di risorse, la nostra Fondazione ha raggiunto risultati di un certo rilievo. Ed è importante che, proprio attraverso i progetti da
noi sostenuti, si rafforzi la dimensione
No profit Tra sport e natura molti sono i volontari impegnati
nella Fondazione che ha avviato dal 2006 circa 470 progetti
di rete tra le importanti esperienze di
Terzo settore presenti nell’isola».
Tra le esperienze più significative avviate in Sicilia e sostenute dalla Fondazione, vale la pena ricordarne almeno due.
La prima è «Il laboratorio dei talenti», rivolta a 50 minori del Comune di Palermo e provincia affetti da autismo, con
l’attivazione di più laboratori: artistici,
sportivi e di orticoltura. Così i ragazzi
possono dedicarsi al dragon boat (attivi-
tà remiera che facilita il senso di appartenenza ad un gruppo), o impegnarsi in
altri sport nei mesi invernali. Mentre si
lavora già per le attività dell’estate 2014:
ippoterapia ed escursioni.
La seconda iniziativa è «Mandarinarte», partita nel dicembre 2010 con una
fase di valorizzazione di un bene confiscato alle mafie: un immobile immerso
in un mandarineto nell’area agricola di
Ciaculli. «Il progetto — sottolinea Bor-
gomeo — può essere definito paradigmatico dell’approccio e della strategia
della Fondazione CON IL SUD. Da una
parte promuove attività rivolte a definire solidi ed innovativi percorsi di inclusione sociale; dall’altra, utilizza a tal fine un bene confiscato, restituendo al
territorio un simbolo prima di disperazione e di morte, oggi di speranza e di
futuro».
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Carcaràzza È il Corvus pica, la gazza, l’uccello bianco e nero che affolla
le piazze dei paesi siciliani. E pure i templi dell’agrigentino. Karakàksa dissero
i nonni greci forse per via di quel suo verso sgraziato. Parlare come la
carcarazza si dice ancora per le donne sguaiate e dalla voce poco gradevole.
«Mamà, li carcarazzi…», urlò una domenica mattina di molti anni fa una
deliziosa bambina vestita a festa. A Milano, davanti al Duomo. Era la figlia
di uno dei tanti emigrati sbarcati dal treno del sole. Lei non aveva mai visto
i colombi al suo paese, ma solo gazze. E furono in molti a girarsi stupefatti
per quell’urlo infantile che non potevano capire.
L’amministrazione
UN ASSESSORE A CACCIA DI CORSI INUTILI
Nelly va alla guerra degli enti fantasma
La Scilabra combatte l’imbroglio della Formazione. «Hanno rubato il denaro a noi giovani»
di Felice Cavallaro
Una giovane
speranza
L’hanno
ribattezzata
«bulldozer»
perché, senza
remore
ideologiche,
sta
smantellando
il diffuso
clientelismo
che spreca
287 milioni
l’anno. Ma il
suo impegno
nella giunta
regionale va
oltre e mira
al varo di un
piano per il
lavoro
giovanile
ei lo ammette di non essere mai stata
«una studentessa modello», ma anche se fuori corso a Giurisprudenza,
adesso che Rosario Crocetta le ha spalancato di botto il portone della politica affidandole «la guerra ai ladri della Formazione», Nelly Scilabra, con i suoi trent’anni, ha deciso
di diventare «assessore modello», anzi «assessore bulldozer». Una sorta di commissario straordinario, di condottiero deciso a
smantellare «un imbroglio grande 287 milioni di euro all’anno finiti nelle casse di 500 enti quasi tutti inutili».
Un profilo mediterraneo, il corpo di una modella, grandi occhi neri, vita privata top secret, fidanzato non esposto, se c’è, Nelly
marcia spedita verso la sua rivoluzione. Nel
terrore di chi ha affondato le mani nei fondi
regionali e europei della Formazione. Controlla, scopre, licenzia, denuncia, sale in tribunale e cambia squadre da un ufficio all’altro senza guardare in faccia potenti e pseudo amici. Come tanti ne ha trovati pure nell’area dove è cresciuta, quando pensava alla
rivoluzione in facoltà, quella del Partito democratico. Primo suo approdo politico già
alle letture giovanili, alle prime frequentazioni di amministratori e intellettuali di sinistra fra i vicoli di Burgio, la città della ceramica, il suo amato paese della provincia di
Agrigento raggiunto da pendolare nei fine
settimana, adesso sempre più lontano, costretta com’è a girare come una trottola da
una parte all’altra della Sicilia a caccia di enti fantasma.
Ogni volta scoprendo il peggio, subito accusata di essere troppo «giovane», come sentenziano tanti suoi avversari caricando il termine con un accento obliquo. E lei risponde
con sorrisi determinati parlando di sua madre: «A 30 anni era già sposata con due figli.
Mi sputino pure addosso quel "giovane".
Ma è forse una colpa? È meglio essere vecchi e ciechi, come tanti signori smascherati
con le mani sporche di denaro rubato ai giovani?».
Una rivoluzione che qualcuno vorrebbe frenare, magari con un «rimpasto» suggerito a
Crocetta per cambiare assessore. E lei, decisa a non cedere: «È stato terribile scoprire
che il mio partito, è inutile negarlo, aveva le
mani affondate in questa "manciugghia"
(mangia, mangia), come dice il mio presidente, Crocetta. Ah, non lo sapevi?, m’interrogano, prendendomi per ingenua. No che
non sapevo. Si, potevo sospettare. Ma non
fino a questo punto. Scopro le porcherie e
per accusarmi di non capire niente senten-
L
Trentenne
Nelly Scilabra,
Assessore alla
Formazione della
regione Sicilia
(foto G. Gerbasi/
Contrasto)
ziano: è giovane! Mettiamo le cose in chiaro. Io un capello bianco non l’ho mai avuto.
E m’è spuntato adesso. L’ho mostrato a Crocetta e gliel’ho detto: si chiama "Formazione". Cresciuto di botto. Come sono cresciuta di botto io».
Quando è scattata la sua rivoluzione, Nelly
s’è guardata indietro e non ha visto nessuno: «Mi è mancato il sostegno del partito in
cui sono stata allenata a comizi e campagne
elettorali. E adesso guardano non me, la
mia poltrona. Perché ho scoperto tanti big
di partito invischiati negli enti fasulli di Messina. Cosa rimprovero a loro e ad altri? Potevano razionalizzare una spesa spaventosa
di 287 milioni di euro all’anno. E non riesco
nemmeno a immaginare cosa siano 287 milioni moltiplicati per dieci, quindici anni, forse di più. No, io non me la prendo la responsabilità di tradire la mia generazione. Come
hanno fatto loro, gli uomini della vecchia politica che ci hanno governato fino a 9 mesi
«È stato terribile scoprire
che anche il mio partito,
il Pd, aveva le mani in
questa "mangiucchia"»
fa, cioè ex assessori, presidenti di gruppo,
deputati, spesso con la tessera del mio partito in tasca. Insomma mi sento Davide contro il Golia».
E il futuro? Al di là della provocazione di Crocetta che respinge le richieste di rimpasto e
candida Nelly alla segreteria regionale del
Pd? «Il futuro è il "piano giovani" che sto per
varare...». E anticipa il provvedimento: «Duecento milioni per i giovani. Ai ragazzi l’invito a costituirsi in cooperative di massimo 6
soci per ottenere a fondo perduto 10 mila euro a testa e fare partire piccole startup di impresa. Una piccola azienda agricola, una società di gestione per un bene confiscato alla
mafia, un’attività turistica, insomma lavoro
vero, non assistito, una spinta da 60 mila euro a iniziativa per cominciare a produrre e
poi continuare da soli».
Un modo per voltare pagina, mentre scardina «il sistema dei 500 enti in cui Formazione
faceva rima con clientelismo»: «Mi sono rifiutata di incontrare i dirigenti degli enti,
mentre parlo con i lavoratori, 7.800, tanti,
troppi, assurdo. Come è assurdo che sulla
carta avessero 37 mila allievi, la stragrande
maggioranza dei quali iscritti, spesso solo
sulla carta, a corsi completamente inutili.
Quando mi sono ritrovata davanti al corso
per "esperto in abbronzatura artificiale" sono andata su tutte le furie. E il presidente
dell’ente: "Ma, assessore, i ragazzi si divertono". E io: "Vuole creare disoccupati-divertiti?"».
Di qui la necessità di un aggiornamento della mappa, come spiega l’assessore-buldozer: «Fatemi vedere l’elenco degli enti, chiesi appena arrivata. No, l’ultimo Albo risaliva
a 16 anni fa. Così, per mesi ho dovuto giocare a mosca cieca. Senza sapere nemmeno
dove finivano quei 287 milioni. Ecco la decisione di allontanare impiegati e funzionari
impegnati nella materia. Con la rotazione di
tutti, cambiandoli, si interrompeva la catena di collegamento con i dirigenti degli enti,
soprattutto di quelli fasulli, corrotti e trasformati in pozzi senza fondo. Eseguita la ricognizione, abbiamo scoperto che gli enti avevano continuato ad assumere fuori da ogni
norma di contenimento della spesa. Repubbliche autonome. Assunzioni a non finire,
tutte in campagna elettorale». E adesso?
«Proviamo a correre ai ripari con 45 milioni
destinati ai prepensionamenti per snellire il
bacino». Un modo per rimettere i conti a posto, come sembra possa riuscire a fare solo
uno studente-assessore modello.
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IL COMMENTO
L’età dell’innocenza sparita in un mare nemico
di Alfio Caruso
el grande mare dell’ambiguità di Catania continua a esistere un mare dell’innocenza. È verso Sud, in direzione di Siracusa: spiagge di sabbia tenera, acqua
opaca, fondali bassissimi pieni di telline. Le mamme ci portano i bambini perché hanno lo spazio per giocare a pallone, perché trovano compagnia adeguata, perché difficilmente
annegano (l’unico pericolo sono le
fosse scavate dai pescatori per coltivare le telline). Da quelle spiagge siamo passati tutti: i pediatri ne magnificano le virtù curative. Nei sei mesi di
sole a picco, di caldo opprimente, di
afrori carnali che si mescolano ai profumi delle granite, delle brioche calde, della schiuma di zabaglione gelata, nei sei mesi della lunga estate,
che incomincia il 1˚ maggio e finisce
il 31 ottobre, si scorgono fili di bimbi
N
sdraiati sulla sabbia, i più obbedienti
accettano perfino di esserne ricoperti. Fanghi rudimentali, che nelle raccomandazioni di nonne e mamme
sono l’antidoto più efficace alle influenze e alle tonsilliti invernali.
Il gran privilegio di nascere e di vivere in Sicilia. Ci abbiamo creduto noi,
ci hanno creduto i nostri padri, ci
hanno creduto i nostri figli. Chissà se
ci credono ancora i nostri nipoti. Oggi come ieri viene ripetuto che la Sicilia è un paradiso naturale senza eguali, che è stata creata da Dio in un mo-
‘‘
mento di particolare altruismo. E forse tocca appellarsi all’opera divina
per non parlare dello scempio quotidianamente compiuto da chi la abita. Ci siamo inventati un’inesistente
età dell’oro: da noi è sempre stato il
tempo delle iene e degli sciacalletti, i
gattopardi sono soltanto figli della
fantasia di Tomasi di Lampedusa.
Questa Sicilia che dicono essere amata, desiderata, invidiata in tutto il
mondo pare non essere apprezzata
soltanto dai siciliani, che da secoli la
deturpano e la violentano, che l’han-
Questa Sicilia che dicono
amata in tutto il mondo pare
non essere apprezzata solo dai siciliani
no trasformata in un’enorme prigione a cielo aperto. Noi in Sicilia viviamo in cattività circondati da un mare
a parole coccolato, nella realtà vissuto come un nemico. Dal mare, infatti, sono giunti gl’invasori, che comandavano, depredavano, figliavano: fenici, greci cartaginesi, romani, longobardi, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, borbonici, piemontesi, americani. Essendo, dunque, il
più strabiliante frullato di etnie sul
pianeta, abbiamo inventato il delitto
d’onore e il familismo.
Non casualmente nella straordinaria
produzione letteraria mai ha visto la
luce un’epopea marinara: i due capolavori che hanno il mare quale soggetto — I malavoglia e Horcynus Orca — raccontano tragedie e disastri,
sogni traditi e sbeffeggiati dalla Natura. Il massimo profeta del fasullo indi-
pendentismo siciliano, il controverso professor Antonio Canepa, arrivò
a teorizzare che il mare serviva soltanto a rimarcare la separatezza dell’isola: «. Ecco spiegato il motivo per
il quale chi conosce umori e viscere
dei siciliani ha sempre saputo che il
ponte non sarebbe stato costruito.
Abbiamo sperato nell’italianizzazione della Sicilia senza accorgerci che
non eravamo una variabile impazzita del sentimento nazionale. Eppure
Sciascia l’aveva già detto nelle pagine finali de Il giorno della civetta allorché fa pronunciare al capitano Bellodi la fatidica frase che la linea della
palma avanza di cinquecento metri
l’anno. Era il 1960: immaginiamoci
dove sia arrivata. Così dopo tremila
anni di storia amara oggi sappiamo
soltanto che cosa non siamo. E l’isola invasa da tutti e vinta da nessuno,
dove i viceré hanno sempre scorazzato più dei re, dove il fottere è sempre
stata la principale prerogativa del comandare, sprofonda verso un futuro
che fa più paura del presente.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Catanesi Gente tosta. «La principale meraviglia è il fatto che esistano
ancora», scrisse un giornalista americano del Fodors Modern Guide nel 1954.
La città fu ricostruita nove volte e sempre nello stesso posto. Nel 476 a.C. fu
distrutta dal siracusano Gerone, nel 121 a.C. da una eruzione, nel 1169 da un
terremoto, nel 1194 da Enrico VI di Svevia, nel 1232 da Federico II che vi
edificò il castello Ursino. Nel 1669 da una eruzione, nel 1693 dal catastrofico
terremoto che distrusse città e paesi della Sicilia orientale, nel 1818 da un
altro terremoto e nel corso dell’ultima guerra dai bombardamenti aerei alleati.
Cocciuti questi catanesi e sempre fiduciosi.
L’accoglienza
L’AVVOCATO PAOLA LA ROSA
Lampedusa, isola dei sogni migranti
«Non siamo eroi. Il Nobel per la pace andrebbe dato alla Capitaneria di Porto»
di Paolo Di Stefano
La solitudine
«vincente»
Per migliaia
di profughi
questo lembo
di terra nel
Mediterraneo
è la porta
d’ingresso
per l’Europa.
Nonostante
l’indifferenza
della politica,
un’intera
comunità
affronta con
dignità un
problema che
richiederebbe
ben altro
impegno
delle
istituzioni
u letteralmente uno sbarco quello
che nel luglio 1943 portò le truppe
angloamericane a occupare la Sicilia. Ma oggi, quando sentiamo parlare di
sbarchi, il nostro immaginario guarda altrove. Sono quelli che quasi quotidianamente
occupano le cronache dei nostri giornali e
che raccontano di naufragi, di barconi stipati, di cadaveri di uomini, donne e bambini. Sono quelli delle carrette che da anni arrivano a Lampedusa e nelle coste orientali
della Sicilia. Ma parlare di sbarchi è improprio. Paola La Rosa è un avvocato di Palermo che da un paio d’anni ha lasciato la professione e da un decennio vive a Lampedusa, dove ha aperto con suo marito un B&B.
Attivista di Legambiente, che sull’isola siciliana dal maggio 2012 vanta un sindaco,
Giusi Nicolini, determinato a derubricare
dal territorio la parola «emergenza» e a riportare la normalità: scuole a norma, legalità, depuratori funzionanti e ambiente pulito. Non si contano le intimidazioni e le minacce di cui è destinataria. Ultima, all’inizio di settembre, una busta con la scritta
«antrace», piena di polvere bianca. Ma intanto, Paola La Rosa ci dice perché parlare
di «sbarchi» non ha senso: «Il termine evoca invasione, disordine, pirateria. Quelli
dei migranti non sono sbarchi, sono recuperi fatti al largo — 50, 60, 70, 100 miglia —
dalla Guardia costiera, con una fatica immane. E ancora più inesatto è parlare di
clandestini. Lampedusa è la porta d’ingresso dei profughi richiedenti asilo». Somali,
eritrei, etiopi, nigeriani, sudanesi, ghanesi,
tunisini... Vedere le persone che arrivano
in condizioni disperate, conoscerle una ad
una, come è capitato a La Rosa, che li ospita quando tornano (magari per un tirocinio formativo in alcune aziende locali), dopo anni dal primo approdo in Italia, cambia la vita: «Non sono più numeri, ma sono
Joseph, Adam, Joussuf, Abu, Abdi... Conoscerli ti dà la percezione di che cosa significhi l’altro, il fratello, l’essere umano, il bambino, la donna... Tutte parole che attraverso l’esperienza diretta acquistano una sostanza, ti fanno scoprire un universo di storie diverse le une dalle altre. Tragiche? La
vera tragedia è stata per tutti quella del viaggio, sia per le cose viste che per le cose vissute».
Le cosiddette primavere arabe hanno aumentato gli arrivi, 50 mila nel 2011. Per i migranti che fuggono dalla Siria, Lampedusa
è fuori rotta: per questo, negli ultimi tempi
si sente tanto parlare anche di Siracusa.
Ma il Centro di Prima Accoglienza di Lampedusa è sempre sovraffollato di ospiti:
«Per legge dovrebbero rimanere al massi-
Emergenza continua
Lo sbarco di 75
clandestini nel porto di
Siracusa. La costa
orientale della Sicilia è
la nuova meta degli
sbarchi per coloro che
sono in fuga dall’Egitto
e dalla Siria. (foto
Fabrizio Villa) A sinistra
Cettina Nicosiano,
responsabile
dell’associazione I
Girasoli di Mazzarino e
Paola La Rosa con
Adam e Abu, due
profughi africani
F
mo tra le 48 e le 96 ore, invece rimangono
per settimane, nell’indifferenza generale,
perché il sistema di seconda accoglienza
in Italia è decisamente sottodimensionato:
la politica se ne disinteressa e Lampedusa
è diventato il tappeto sotto cui nascondere
la polvere, senza preoccuparsi del fatto
che la polvere è fatta di esseri umani. Qui
non è cambiato nulla, appena il tempo lo
consente i barconi vengono individuati e
Accoglienza Sopra,
Paola La Rosa (a
destra) con Cettina
Nicosiano,
responsabile
dell’Associazione I
Girasoli di Mazzarino
(Cl), che accoglie i
minori stranieri non
accompagnati
le persone vengono portate in salvo, ma il
vero problema è il ritardo nei trasferimenti,
perché sono ingiustificati». E l’immagine
turistica dell’isola ne soffre: «In questi anni
però, — dice Paola La Rosa — i grafici di
affluenza del turismo segnalano una crescita». Senza dire che il sogno dei migranti
non è più quello di rimanere in Italia: «La
maggior parte vorrebbe andare altrove, perché sa benissimo che la crisi economica italiana non garantisce la sopravvivenza. Però restano prigionieri da noi, vittime dei
trattati europei: in altri Paesi avrebbero
una casa, potrebbero frequentare dei corsi
di lingua e verrebbero avviati a un mestiere, mentre in Italia sui migranti non si investe».
In questa situazione i cittadini del posto come reagiscono? C’è chi vorrebbe assegnare
alla popolazione di Lampedusa il Nobel
della Pace: «Non siamo eroi, siamo come
gli altri italiani: a Lampedusa c’è il razzista
che addebita ai migranti la colpa di un ipotetico calo turistico e li accusa persino della pioggia e c’è, invece, la persona molto
sensibile. Il vero Nobel lo meriterebbero gli
uomini della Capitaneria di Porto, che sono coraggiosi e infaticabili. Quel che è di-
verso è il fatto che l’esperienza spesso aumenta la solidarietà, che qui non è un sentimento teorico ma vissuto nella pratica. Il
passaggio dei migranti non influisce particolarmente nella vita comune della cittadinanza, anche perché i profughi vengono subito chiusi nel Centro e raramente circolano per il paese; il loro passaggio incide però nella vita interiore delle singole persone
che hanno avuto modo di assistere agli arrivi. Il lampedusano reagisce come reagirebbe, nelle stesse condizioni, un bergamasco. Un’altra differenza, semmai, è che qui
c’è lo spirito tipico della gente di mare e un
legame ancestrale con l’Africa...». La Tunisia è vicinissima, più vicina dell’Italia: molti nonni di lampedusani sono sepolti lì.
Le parole di papa Francesco sono state una
svolta? «Premesso che io sono agnostica,
— dice Paola — per noi quelle parole sono
state una ventata di verità, un sostegno a
chi ripete da anni che bisogna provvedere
ai diritti dei migranti per legge oltre che per
spirito di umanità. Francesco ha pronunciato le frasi che la politica e l’informazione non hanno mai sentito il bisogno di dire. Dopo la visita del Papa molti hanno
aperto gli occhi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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ISMETT, ECCELLENZA AL CENTRO DEL MEDITERRANEO
L’Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) nasce da una partnership internazionale fra la Regione Siciliana e l’University of Pittsburgh Medical Center (UPMC).
L'Istituto – che ha sede a Palermo - ha iniziato la sua attività clinica nel 1999, con l’avvio del programma di trapianto di fegato. Oggi presso la struttura palermitana si eseguono tutti i trapianti di organi
solidi (fegato, cuore, rene, polmone e pancreas) e tutte le terapie necessarie per la cura delle insufficienze terminali d’organo. Sono, ad esempio, attivi programmi di radiologia interventistica, chirurgia
addominale e cardiochirurgia, programmi per la cura dello scompenso cardiaco o del diabete.
Il Centro costituisce un modello sanitario del tutto innovativo. Si tratta di una struttura ospedaliera inserita nel Sistema Sanitario Regionale della Sicilia, ma gestita in tutti i suoi aspetti (clinici ed amministrativi) dal Centro Medico dell’Università di Pittsburgh. ISMETT è, quindi, un ospedale pubblico organizzato, però, come una realtà sanitaria americana. Un connubio che ha permesso all’Istituto
di raggiungere in poco tempo alti livelli di qualità paragonabili agli standard di cura erogati dalle migliori strutture europee e nord americane. E’ significativo, inoltre, rilevare come l’offerta terapeutica
di sia diventata un punto di riferimento nazionale e internazionale: sono sempre di più i pazienti non siciliani e spesso di altre nazioni che si rivolgono al Centro trapianti di Palermo.
Formazione e ricerca
In ISMETT l'assistenza sanitaria è intesa come atto finale dell'integrazione tra ricerca clinica e sperimentale e formazione. Gli eventi formativi e i corsi di aggiornamento, destinati a professionisti
operanti nel settore sanitario, sia interni che esterni all'azienda, si svolgono a ritmo costante. E’ attivo anche il Centro di Simulazione “Renato Fiandaca” che offre la possibilità di mettere in atto
procedure ad alto rischio in un ambiente sicuro e permette di studiare rari ma complicati casi clinici. Il Centro ha, infatti, in dotazione dei manichini molto sofisticati che manifestano reazioni fisiologiche
(respiro, tosse, pianto) quasi esattamente come un essere umano. Le reazioni simulate vengono gestite tramite un software applicativo in grado di riprodurre vari tipi di scenari clinici, ricreando anche
complicazioni inaspettate. La simulazione è utilizzata non solo per il training medico, ma anche ai fini di ricerca.
L’obiettivo di trovare la cura più adatta per ogni paziente, ottimizzandone il conseguente percorso di cura, spinge gli specialisti di ISMETT a confrontarsi quotidianamente con la sperimentazione e la ricerca. Presso l’Istituto sono in corso diversi studi per trovare nuove cure e sperimentare nuovi protocolli terapeutici. Nel prossimo
futuro, lo scopo è quello di riuscire a riparare gli organi danneggiati anziché sostituirli. Sarà possibile, ad esempio, infondere cellule staminali in un cuore infartuato
o epatociti fetali in un fegato malato. ISMETT crede molto in questo approccio, tanto da aver realizzato una delle Cell Factory più grandi e avanzate d’Europa.
Un centro hi-tech
Conformemente all’impostazione di UPMC secondo la quale l’uso di strumenti informatici contribuisce a migliorare la qualità dell’assistenza ai pazienti, ISMETT
si avvale delle tecnologie più avanzate nel campo della diagnostica per immagini, della radiologia interventistica e della gestione informatizzata di tutti i dati clinici.
Fin dalla sua apertura, l’Istituto si è dotato di una cartella clinica elettronica che gestisce in maniera integrata i dati raccolti da tutti i sistemi dipartimentali. La
cartella clinica elettronica è solo uno degli anelli della catena informatica di ISMETT. Il sistema, infatti, si interfaccia direttamente con altri sistemi ospedalieri, dal
monitoraggio dei pazienti all'anestesia, alle macchine per la ventilazione assistita, fino alle attrezzature di laboratorio. In questo modo viene eliminato il rischio di
errore umano, perché i dati sono trascritti direttamente dalle macchine. Inoltre, un sistema evoluto di backup e di disaster recovery azzera il rischio di perdere dati
preziosi su esami, interventi o altre informazioni cliniche che riguardano il paziente.
20
- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
21
Ciaùla È la cornacchia, ma tutti la conoscono per la novella di Pirandello.
È un carusu che si diverte come può imitando il verso delle cornacchie ed
ecco perché lo chiamano così. Ormai trentenne, ha passato la sua grama vita
in una miniera, maltrattato, deriso per la sua magrezza e la sua semplicità.
Una notte è costretto a portare all’aperto un carico più pesante del solito
e resta incantato appena sbucato all’aperto. Grande, placida, gli stava
di faccia la luna. Estatico, cade a sedere sul suo carico davanti la buca.
E si mette a piangere senza volerlo, per il conforto, per la dolcezza
di quella visione consolatoria che era una sorta di scoperta.
L’istruzione
LA SCOMMESSA DEL QUARTO ATENEO DELL’ISOLA
Un campus nel cuore della Sicilia
L’Università Kore di Enna: il 90% dei fondi arriva dalle tasse degli studenti
di Federica Cavadini
Laurea, master
e dottorati
Il rettore,
Giovanni
Puglisi, guida
anche lo Iulm
di Milano.
«Gestione più
snella rispetto
agli istituti
statali e capacità
di attrarre fondi
europei e
privati»
nna con il suo castello, la Rocca di Cerere, il Duomo. Enna con l’autodromo
di Pergusa e le industrie nella valle del
Dittaino. Adesso anche Enna città universitaria, sede di Kore, ateneo privato fondato otto
anni fa, a due secoli di distanza dalle altre università statali di Sicilia, da Palermo, Catania,
Messina.
Intitolata a una dea della primavera nella mitologia greca, Kore oggi conta più di settemila
studenti, che arrivano o si fermano nel cuore
della Sicilia per laurearsi in ingegneria, architettura, economia, giurisprudenza, psicologia. Corsi tradizionali e nuovi nel giovane ateneo, da Archeologia del Mediterraneo a Scienze della difesa (e adesso, il via libera ieri, parte
Scienze della formazione primaria). Laurea,
master e dottorati. Rette fisse da tremila euro,
finanziamenti statali e regionali. Campus moderno e in crescita, fra raddoppio della biblioteca e nuovi centri di ricerca.
Sfida siciliana recente, quella di Kore. Un
quarto polo universitario, non avevano osato
né Trapani, né Caltanissetta o Ragusa e Siracusa, già sedi di corsi statali. Ci crede Enna,
che parte da zero. È il 2006. Ente promotore è
la Provincia (che nello stemma ha la dea Cerere, appunto madre di Kore). Bocciata la richiesta di farne un ateneo statale, si costituisce
una Fondazione. E il progetto parte (con parere contrario delle altre università ma con il sì
E
Doppio rettore
A sinistra, un’aula
dell’Università Kore
di Enna, che oggi
conta oltre 7 mila
studenti e quasi 200
docenti. Sopra,
Giovanni Puglisi,
rettore dell’ateneo
dal dicembre 2011,
guiderà anche lo Iulm
di Milano fino al 2015
del Comitato di valutazione e l’autorizzazione del ministero).
Otto anni dopo. Un primo bilancio, dall’interno. «Intanto abbiamo superato a pieni voti la
doppia valutazione dell’Anvur prevista per i
nuovi atenei», è la premessa del rettore Giovanni Puglisi (già alla guida di un’altra università privata, la Iulm di Milano). «Le matricole
quest’anno sono 1.300. E dalle tasse degli studenti arrivano il 90% delle risorse». Poi ci sono i finanziamenti statali. «Un obolo», ironizza Puglisi. E i fondi regionali. «Come gli altri
atenei». «E la presenza dell’università a Enna
è un volano per l’economia», sostiene il rettore.
Palermitano («nato per caso a Caltanissetta»),
Puglisi è stato chiamato alla fine del 2011 a
guidare l’ateneo. A Enna «come un commissario straordinario», ha ridisegnato la mappa
dei corsi. «La formula è quella dei giovani atenei privati. Gestione più snella rispetto alle
grandi università statali, servizi, laboratori e
abilità nell’attrarre fondi europei e privati per
la ricerca».
Obiettivi vicini e lontani. Ampliare il campus
«a partire dalla biblioteca». E un nuovo centro
di ricerca: «Con finanziamenti europei apriremo una stazione per misurare le ondulazioni
telluriche». Poi l’operazione faculty: i docenti.
A Kore sono quasi duecento e sette su dieci
sono ricercatori. «Mancano i professori, ordinari, associati. L’obiettivo è far crescere i giovani ma anche inserire nomi affermati. Il reclutamento però è bloccato, si punta sui trasferimenti ed Enna è ateneo di periferia, qui
non è facile come a Milano o Roma». Strategie per Kore. «Abbiamo razionalizzato l’offerta dei corsi. Evitando duplicati inutili, con proposte nuove». Puglisi cita il corso di Architettura e Restauro, «fra i pochi riconosciuti dall’Unione europea», quello di Ingegneria aerospaziale, che «da Napoli in giù è solo qui»,
quello di Scienza della difesa e della sicurezza, «solo a Pisa e Bergamo». E adesso Scienza
della formazione, «appena promossa».
Federica Cavadini
© RIPRODUZIONE RISERVATA
IL NUOVO CORSO DI PALERMO
«Molti tagli per risanare
ma i servizi sono intatti»
di Salvo Toscano
rima di tutto i conti. Risanati e portati in avanzo.
Un’impresa, di questi
tempi. Il rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla
parte proprio dai bilanci per
raccontare il nuovo corso dell’ateneo. «Avevamo 29 milioni
di disavanzo nel 2009 — ricorda —. A cui nel tempo di sono
aggiunti oltre 30 milioni di tagli statali. In quattro esercizi finanziari abbiamo prodotto
una manovra che da circa 60
milioni di euro». Il tutto salvaguardando i servizi agli studenti, tiene a precisare.
Oggi l’Università di Palermo,
con i suoi 52 mila iscritti, tra
mille difficoltà legate ai tagli
statali, guarda al futuro con ottimismo. E con qualche sogno:
come quello di realizzare un
campus con tanto di piscina in
un mega hotel vista mare confiscato alla mafia. Ma la vera sfida è arrestare «la fuga dei cervelli, favorita dalla fragilità del
tessuto socio-economico — osserva Lagalla —. Se ne vanno
in 20 mila all’anno. Portarli dalla materna alla laurea costa a
Stato e famiglie circa 200 mila
euro a testa. Una perdita intollerabile».
Quali riforme tra quelle adottate ritiene più significative?
«Abbiamo introdotto il mandato unico del rettore prima che
lo facesse la legge Gelmini. Abbiamo tagliato il 22 per cento
dei corsi di laurea, quelli non
corroborati dal gradimento degli studenti. I dipartimenti sono passati da 81 a 20. E in questi giorni abbiamo definitivamente trasformato le 12 facol-
P
La visita Un momento della lezione di Jovanotti all’Università di Palermo
tà in cinque macro scuole».
Non c’è il rischio che alla fine
il prezzo dei tagli lo paghino
gli studenti?
«No. Abbiamo rimodulato la
tassazione, ma mai è stata ridotta nei bilanci la quota dei
servizi destinati agli studenti.
Abbiamo lavorato sull’automatizzazione, consentito l’accesso degli studenti alla biblioteca digitale, aperto le aule studio fino alle 22. E ci siamo impegnati nel recupero dei fuori
corso, portandone 4 mila alla
laurea negli ultimi due anni».
Merito, internazionalizzazio-
«La vera sfida
è arrestare la fuga
dei cervelli, oggi
favorita dalla crisi»
ne, sinergia con le imprese:
tre sfide cruciali per gli atenei. A che punto è Palermo?
«Sul primo punto, abbiamo introdotto agevolazioni per gli
studenti meritevoli e di basso
reddito. E criteri più stringenti
nella selezione dei docenti.
Per il progetto Erasmus siamo
tra i primi 100 atenei d’Europa
per mobilità. Abbiamo in corso progetti di cooperazione
universitaria con Paesi in via
di sviluppo: Cambogia, Territori palestinesi, Libano, Etiopia.
Abbiamo organizzato un corso di autoimprenditorialità
per educare gli studenti a
un’idea diversa da quella del
posto fisso. Abbiamo un incubatore con 30 imprese che ha
ricevuto il Premio nazionale
Innovazione 2012. Tre sono
state destinatarie di interventi
di venture capital. Non male
qui al Sud».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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22
- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Ciòspi Istituzioni tipicamente catanesi. Sono chioschetti esagonali senza
finestrature, tempietti in muratura innalzati in onore della bibita, sparsi in tutta
Catania. Acqua e anice, acqua e limone, acqua e amarene, bibite alla
mandorla, alla menta, al tamarindo, orzate, latte di mandorla, spremute
di agrumi, tutta roba da centellinare per un sano slow drink. Si sorseggia,
si fuma, si discetta, gettando indiscrete occhiate tecniche alle signore di
passaggio, in attesa di improbabili appuntamenti alla siciliana. Sono aperti
giorno e notte: è questo l’altro lato misterioso. Ciòspa, al femminile,
sta per donna di malaffare. Ma non se lo ricorda più nessuno.
Le interviste
IL PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA MONTANTE
Dalla cultura alle infrastrutture
Cinque settori clou per rinascere
«Occorre concentrare le risorse dove possiamo, e dobbiamo, raggiungere il top»
di Stefano Righi
Retaggi
e prospettive
«Veniamo da
30 anni in cui
si è distrutto il
concetto stesso
di mercato. E
hanno prevalso
logiche
antimerito
Ora però ci
sono segnali
positivi. La
Sicilia si sta
mettendo in
gioco. Non
serve il ponte
di Messina,
occorrono
strade e
supporti
logistici»
all’aprile 2012 Antonello Montante guida Confindustria Sicilia, in un disegno di continuità
con il predecessore Ivan Lo Bello, con
il quale ha ideato il codice etico della
confederazione. Industriale meccanico di terza generazione — la Cicli Montante venne fondata negli anni Venti
dal nonno Calogero — oggi guida anche la Msa, che produce ammortizzatori.
Presidente, l’industria in Sicilia presenta una situazione deteriorata.
«Veniamo da 30-40 anni di massacro
del concetto stesso di mercato, un periodo in cui hanno prevalso politiche antimerito e si è diffusa una simpatia per
forme di imprenditoria assistenzialistica, che trovava nel pubblico il suo naturale sbocco. Un periodo nel quale non
si è mai riusciti ad attrarre investimenti».
E adesso cosa si può fare?
«Molto. La Sicilia si sta mettendo in gioco, i segnali positivi ci sono, appaiono
evidenti i segnali politici volti a rinnovare e a rompere i vecchi meccanismi».
Parole. I fatti quali sono?
«Su tutti la legge di Sviluppo regionale.
Su proposta di Confindustria è stato
messo a punto un piano industriale
per la Sicilia. Individuato macro-aree,
deciso i settori sui quali concentrare le
risorse. Un piano di largo respiro, ma
che inciderà da subito».
In cosa consiste?
«Abbiamo deciso cinque settori su cui
investire prioritariamente per dare sviluppo all’isola: turismo, beni culturali,
agroalimentare, energia e infrastrutture minime. E in questi settori vogliamo
arrivare a posizioni di leadership . In Sicilia ci sono eccellenze che non vengono valorizzate».
Cosa sono le infrastrutture minime?
«Non certo il Ponte di Messina, ma strade e supporti logistici per rendere rapidamente raggiungibile ogni angolo dell’isola…».
Presidente, ma l’aeroporto di Comiso è la dimostrazione contraria.
Un’infrastruttura esistente, non sfruttata, che rischia di trasformarsi nell’ennesima cattedrale nel deserto.
D
CICCIO LIBERTO
CHI È
Il calzolaio
dei piloti amato
da Hollywood
Antonello Montante
è nato a San Cataldo,
in provincia di
Caltanissetta, nel
1963. L’azienda di
famiglia, il Gruppo
Montante, è stato
fondato dal nonno
Calogero Montante
negli Anni Venti del
Novecento Montante è
presidente di
Confindustria Sicilia
dall’aprile 2012,
sostituendo Ivan Lo
Bello
«Comiso è percepito come un concorrente dello scalo di Catania. Così non
è, questo è essere miopi. Comiso è una
piccola struttura con grande valenza
strategica: un’opportunità da sfruttare,
che può arricchire l’isola. Dobbiamo
essere aperti al mercato, non ciechi e
chiusi in noi stessi. La nostra vision è
vedere la Sicilia come un’azienda…».
A proposito. Edison vuole raddoppia-
‘‘
«Stiamo
avviando
aperture verso
partnership estere
Sono ottimista»
re il progetto di estrazione petrolifera Vega nel mare davanti a Pozzallo,
costruendo una seconda piattaforma. Qual è la posizione di Confindustria Sicilia al riguardo ?
«Siamo favorevoli a tutto quello che
rappresenta l'attrazione di interessi e
di investimenti internazionali e, nel rispetto delle regole e dell’ambiente, siamo disposti a valutare ogni tipo di intervento moderno».
Il rapporto con il mondo del credito è
tesissimo. Le aziende sono in difficoltà, aumentano le sofferenze, si restringe l’erogazione del credito.
«Il nodo sono i rating e i vincoli di patrimonializzazione delle banche. Sui rating abbiamo cercato di intervenire,
agendo sul parametro relativo al rischio settoriale di impresa, che dei tre
parametri considerati (gli altri sono il
bilancio e l’andamento a tre anni) è il
più soggettivo. Su mia proposta abbiamo introdotto il Rating di legalità , che
dal marzo 2013 è legge e vede l’intervento dell’Autorità Antitrust che si
esprime al riguardo del settore in cui
opera l’impresa. Un’azione che mette
le aziende in condizioni di farsi rivedere il rating dalla banca…».
Il quadro rimane cupo. La situazione
pesante. Se l’Italia chiuderà l’anno
con un pil in calo dell’1,8 per cento,
la situazione peggiora in Sicilia. Come se ne esce?
«Io sono ottimista e convinto che l’isola ce la possa fare. Stiamo avviando un
processo di apertura al mercato e alle
partnership con l’estero che vuole interrompere l’epoca dell’assistenzialismo.
Le possibilità ci sono, sono convinto
che sapremo coglierle».
@Righist
L’ASCESA DI RANDAZZO ATTIVO DA CINQUE GENERAZIONI
prattutto al nord. Per questo,
Randazzo investe in formazione
(4.000 ore erogate e 170 ottici «diplomati» nel 2012) e ha avviato
un programma di reclutamento
per chi si trasferisce al nord (alloggio gratis per il primo mese e
incentivo economico per tre anni).
Lenti per tutti: l’anno prossimo
riprenderà l’iniziativa benefica
che nel 2012 ha distribuito occhiali da vista a 9,90 euro ai possessori di social card. Dalla Sicilia a Milano.
«L’anno scorso un americano entrò nel mio atelier chiedendomi
di realizzare un paio di scarpe da
corsa su misura come quelle
che, negli anni Settanta, cucivo
per il pilota Niki Lauda. Alla mia
età non prendo martello e lesine
per il primo che entra in negozio
ma mi fu simpatico e in 24 ore le
stava calzando. Mai avrei immaginato che quel signore…».
Ciccio Liberto, 77 anni portati
con disinvoltura, è abituato al
pellegrinaggio di appassionati di
automobilismo nel suo atelier di
Cefalù, a due passi da Palermo.
Qui, negli anni Sessanta, inventò
e realizzò le calzature da pilota
su misura: leggere, comode e uniche al mondo. Tanto uniche che,
negli anni Settanta, la Ferrari lo
volle come fornitore ufficiale dei
suoi campioni come Clay Regazzoni e Niki Lauda. Le «opere» di
Ciccio oggi sono esposte in otto
musei fra cui quello della Ferrari
a Maranello e della Porsche a
Stoccarda. «Quel signore — riprende Ciccio — era uno dei produttori del film Rush che narra
l’epico duello nel 1976 tra Lauda
e Hunt per la vittoria del campionato di Formula uno. Il regista
Ron Howard lo aveva inviato in
Sicilia perché voleva che l’attore
Daniel Brühl (che interpreta nel
film Lauda ndr) indossasse le
mie scarpe. Howard voleva essere sicuro che fossi ancora in grado di lavorare. Figuriamoci!».
Non si entra nel mito facilmente.
«Ho chiesto consiglio al presidente del Cavallino, Luca Cordero di
Montezemolo e — conclude —
solo dopo il suo via libera mi sono messo all’opera». Per Ciccio,
la professionalità e l’amicizia vengono prima di Hollywood.
Alessio Ribaudo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Gioco
di squadra
I fratelli Paola,
Agostino e
Marina Randazzo
Cresce l’ottica «verde» e solidale
di Caterina Ruggi d’Aragona
enti per guardare al futuro. Lenti di ingrandimento per non perdere il contatto con il territorio, le persone,
il passato. Si potrebbe sintetizzare così l’attività del gruppo Randazzo, 132 anni di storia, seconda catena di ottica nazionale:
189 negozi a gestione diretta di
cui 102 a marchio Optissimo e
87 a marchio Corner Optique,
concentrati al centronord. Il cuore dell’azienda, però, è rimasto
in Sicilia. «Le aziende che per comodità si ricollocano a Milano o
a Roma — spiega il direttore generale del gruppo Luca Sacilotto
— impoveriscono il territorio sottraendo indotto e occupazione».
Che l’impronta di Angelo Ran-
L
dazzo fosse diversa si intuiva dall’origine. Era il 1880 quando avviò un centro di fotografia nel
centro di Palermo. Nel 1929 il
primo punto vendita a Roma. A
Palermo, nel 1960, il primo megastore di ottica e fotografia, progettato dallo studio di architettura Banfi, Balgiojoso, Peressutti e
Rogers. L’espansione accelera
tra il 1995 e il 2004 con la costituzione della società Optissimo e
Nuovi eco-store e
occhiali a 9,90 per
chi ha la social card
l’acquisizione della catena Ottica Romani «Un processo continuato — dice Luca Sacilotto, in
azienda dal 2008 — adeguando
tutti i punti vendita a un unico
modello». Nel frattempo, la gestione aziendale è alla quinta generazione: Agostino, presidente;
Paola, vicepresidente; Marina,
consigliere delegato e direttrice
Marketing. Tre fratelli e una passione: il mare. Guarda caso, Agostino, Cavaliere del Lavoro, è anche presidente del Circolo Vela
Sicilia, sotto le cui insegne Luna
Rossa ha gareggiato per l’America’s Cup. Mediterranea è anche
la loro apertura verso l’umanità,
che si traduce in attenzione alle
risorse umane, rispetto ambien-
tale, impegno sociale. Un circolo virtuoso premiante.
Sono confermate dieci nuove
aperture all’anno per i prossimi
dieci anni: tutti eco-store, con
una riduzione dei consumi di
energia elettrica tra il 25 e il 50%
rispetto a un negozio tradizionale e fino a 12mila euro di risparmio. Un progetto partito nel
2010 che ha «risparmiato» 12mila tonnellate di CO2 (pari a una
foresta di 18 milioni di mq). Altre buone notizie. Ogni anno, saranno assunti tra 50 e 60 ottici,
una professione che manca, so-
Griffe
Ciccio
Liberto, 77
anni. Sopra,
Brühl-Lauda nel film
Rush
Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
23
Ciràulu Dal greco keraules, colui che suona la trombetta, e phluaros, che
sarebbe il ciarlatano. Insomma un suonatore di tromba pure ciarlatano.
In pratica uno come il pifferaio di Hamelin o come tanti imbonitori televisivi,
di quelli che promettono miracoli con un sorriso, futuro radioso, posti di
lavoro e niente tasse. Pensate a quanti ciràuli ci circondano, ora che siamo
adulti. I nostri antichi ci misero sull’avviso: vero, autentico ciràulu è colui
che nasce nella notte del 29 giugno oppure in quella tra il 24 e il 25 di
gennaio. Tra le sue virtù c’è pure quella di indovinare il futuro e predire
la morte di qualcuno. Diffidate dagli imitatori.
IL PRESIDENTE DELLA REGIONE ROSARIO CROCETTA
«Lottando contro mafia e corruzione
abbiamo due miliardi e mezzo in più»
«Alta velocità e rinnovabili: tra 5 anni saremo ai vertici d’Europa con 20 mila posti di lavoro»
di Felice Cavallaro
Nomine
e battaglie
«Mi accusano
di aver
insediato
come
assessore
la mia
segretaria?
Dicano se
la Stancheris
è brava o no.
I contrasti
politici
nascono sulla
"manciugghia", sul
magna
magna.
Abbiamo
revocato 35
grandi
appalti a
imprese
mafiose»
opo i disastri politici e giudiziari
di Cuffaro e Lombardo, si presentò l’anno scorso come il «governatore della rivoluzione». Ma Rosario Crocetta, gay dichiarato, comunista
e cattolico osservante, espressione di
una Sicilia lontana dagli stereotipi letterari e cinematografici, rischia al suo primo anniversario di finire logorato da
una guerra interna alla maggioranza della giunta di centro sinistra.
Ama descriversi con un paio di scarpe
da tennis, zainetto in spalla e megafono.
Appunto il «Megafono» che lo accusano
di avere trasformato da escamotage elettorale in un partito parallelo al Pd. «Menzogne», replica lui, fiero di quanto fatto:
«Continue azioni di pulizia, seguite da
denunce presentate nelle procure antimafia. Tagliamo così gli interessi di malaffare, corruzione e mafia».
Eppure le rimproverano di essere specializzato solo in proclami.
«Altra menzogna. All’assessorato al Territorio trovammo 3.500 vecchie pratiche
bloccate. Ne restano mille da completare. Finanziate le zone franche urbane.
Come il patto per le energie rinnovabili:
in 5 anni la Sicilia diventerà la regione
più avanzata in Europa, con 20 mila posti di lavoro. Fatto l’accordo sull’Alta velocità. Compresi i collegamenti di Catania e Palermo con i loro aeroporti. Aperto Comiso e salvato Trapani. Finanziamenti ad alberghi, porti turistici, edilizia
scolastica...».
Su cosa esplodono i contrasti politici?
«Sulla "manciugghia", sul magna magna. Abbiamo revocato 35 grandi appalti a imprese mafiose. Una trentina le denunce in settori chiave come la Formazione, vedi i disastri di un pozzo senza
fondo come il Ciapi. E ancora il comparto comunicazione con le ruberie smascherate su "grandi eventi" e Beni culturali. Partecipate rivoltate scoprendo bilanci falsi. La lotta alla corruzione ha già
portato un risparmio di bilancio di 2 miliardi e mezzo di euro».
Lombardo cominciò a cadere quando
Monti premier, recependo l’allarme
lanciato attraverso il «Corriere» da
Ivan Lo Bello su una Regione a rischio
fallimento, minacciò il commissariamento. Si parlò di bilanci falsi con po-
D
ste inesigibili...
«Infatti ho trovato una Regione al limite
del default, sull’orlo del precipizio. Stiamo lentamente uscendo da una fase di
terribile criticità. Un anno non basta.
Ma ci riusciremo, nel rigore».
C’è chi farebbe carte false per chiudere la sua esperienza di governatore.
Anche tra chi la sostenne.
«Si riferisce al mio partito, il Pd? In que-
‘‘
sta vicenda è irrazionale. Dice di non considerarsi al governo. Come se il presidente della Regione fosse altra cosa rispetto
al Pd e come se diversi assessori non fossero stati concordati o indicati da loro».
Crocetta è nato sotto Bersani e con Epifani prevale freddezza?
«Sono passato da un Bersani che in campagna elettorale mi diceva di voler fare
come la Sicilia, anche nel rapporto con i
‘‘
Revocati 35
Il Pd afferma
grandi
di non
appalti alla mafia. Una considerarsi al governo?
trentina le denunce per È un atteggiamento del
la Formazione
tutto irrazionale
grillini, ad un Pd che oggi mi tratta come
fa Berlusconi con Letta. Vogliono dettare
l’"agenda"».
Mentre lei vuole imporla a loro?
«L’agenda si concorda, persino con l’opposizione. Figurarsi con la maggioranza.
Ma nel rispetto della diversità di ruolo fra
il governatore e un segretario di partito».
Gli attacchi più duri le arrivano dai
big.
«E io che sono meno big di loro?».
Le ricordano che a votarla è stato anche il popolo degli enti di formazione,
quelli delle ruberie...
«Io sono stato eletto dai voti dei cittadini,
promettendo linea dura contro il malaffare. E una volta eletto cosa dovrei fare,
scordarmi l’impegno, pur scoprendo cose terrificanti, perché qualche "big" froda la Regione?».
Com’è cambiato tutto da quando, in primavera, lei sbandierava nei talkshow il
CHI È
Rosario Crocetta
ha lavorato per anni
al Petrolchimico
di Gela prima della
scalata al Comune
della sua città
che, da sindaco,
ha fatto diventare
l’avanguardia
del movimento
antiracket. Minacce
e attentati sventati.
Poi la candidatura
al Parlamento
europeo in sintonia
con big politici.
Da governatore il
conflitto con il Pd,
è stato sempre più
acuto e nei giorni
scorsi il partito
gli ha revocato
il sostegno
cosiddetto «modello Sicilia», rinnegato
dagli stessi grillini. Quante critiche ai
suoi «pizzini» sul web, inseguiti dai loro video su YouTube...
«Non sopportano che possa essere loro
concorrente sul loro stesso terreno, il
web. Ma io discuto con la gente. Facciano tutti i video che vogliono. Come spesso succede in politica, attaccano le persone che sono più vicine alle loro idee temendo la concorrenza».
Dicono di sentirsi traditi da posizioni
come la «revoca della revoca» all’installazione delle antenne Usa del
Muos di Niscemi.
«Avevo revocato perché mancava il parere sanitario. È arrivato. È la legge. Cancelleri, il capogruppo, in Aula mi ha chiesto
di bloccare comunque. Come si può invitare il presidente a commettere un reato?».
L’accusano di avere nominato la sua segretaria assessore al Turismo, di aver
fatto il suo medico primario a Villa Sofia...
«Mi dicano se l’assessore Stancheris è
brava o no, se ha titoli, come lavora. E un
medico perché mi è amico non ha diritto
alla carriera? Dicano se io sono intervenuto. Mai».
Le rimproverano (sottovoce) la scelta
di Antonio Ingroia come commissario
della Sicilia e-Servizi, anche se poi non
entra...
«Entra, entra. Questione di giorni. Farà
pulizia anche lui».
Il suo assessore all’Energia, il magistrato Nicolò Marino, si è scontrato con
uno dei vice presidenti di Confindustria, Giuseppe Catanzaro, per il tema
rifiuti. Un rapporto a rischio rottura?
«Assolutamente no. È stata un incomprensione di Marino, non informato su
mie scelte recenti. Mentre Confindustria
esalta l’opera di legalità da noi praticata».
Aleggiano anche le critiche di chi descrive lei e Confindustria come partner di una lobby.
«Quando ero sindaco, dicevano che avevo fatto la lobby dell’antiracket. Adesso
siamo la lobby della legalità? Beh, ci ritroviamo protagonisti di una lotta comune
contro pizzo e malaffare per la trasparenza. Embè?».
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IL GRUPPO ORIENT EXPRESS E I «GIOIELLI» DI TAORMINA
«Il Timeo, la nostra scommessa made in Italy»
di Isidoro Trovato
ra dai tempi dei gran
tour di Goethe e Maupassant che la Sicilia non
era tanto deduttiva nei confronti degli stranieri. In palio adesso
non ci sono citazioni letterarie
ma business e progetti di sviluppo per l’isola.
La questione è ormai nota: le
bellezze di Trinacria potrebbero tramutarsi in un’industria
che offre lavoro e benessere a
tutta la Sicilia che invece affonda nella disoccupazione e nella
perdita di realtà industriali.
Eppure negli ultimi anni sono
stati parecchi i player stranieri a
scommettere sulle potenzialità
dell’isola più grande del Mediterraneo. Lo ha fatto un operato-
E
re del lusso come Kempinsky
che ha aperto il suo cinque stelle a Trapani, seguito da un colosso come la Rocco Forte Hotels (una collezione di 13 alberghi di lusso e resort) che ha creato il suo «Verdura resort» a
Sciacca: «La Sicilia ha cultura,
clima, bellezze naturalistiche e
una grande cucina — afferma
sir Rocco Forte —. Avrebbe tutti
gli ingredienti per diventare un
laboratorio unico al mondo e
dare lavoro e benessere a tutti i
Storico
Il Timeo
è un hotel
a ridosso
del Teatro
greco,
proprio
nel cuore
di Taormina
suoi abitanti. Ma se poi chi, come me, vuole fare impresa, deve attendere sette anni per una
concessione e poi fronteggiare
ogni tipo di contrattempo, inefficienza e ostruzionismo, è costretto a rinunciare. Io non l’ho
fatto per passione e per sfida
ma non tutti ragionano così».
Malgrado le lacune e le inefficienze, la Sicilia rimane una destinazione tra le più complete e
affascinanti del mondo, i grandi
player internazionali lo sanno
e, adesso che il mercato è particolarmente fluido, investono. È
quello che ha fatto un grande
operatore internazionale come
Orient Express che solo qualche anno fa ha rilevato dalla fa-
miglia Franza due autentici gioielli di Taormina: l’hotel Timeo
e Villa Sant’Andrea. «È una
scommessa importante di cui
andiamo fieri — spiega Maurizio Saccani, vice president di
Orient Express Italia — a tutt’oggi il nostro investimento è pari
a 150 milioni di dollari ma siamo assolutamente convinti della validità dell’operazione. La
nostra è una clientela lusso che
ama la cultura, l’arte, la gastronomia e la Sicilia è davvero una
destinazione ideale per tutti
questi aspetti. Per questo da 15
anni cercavamo l’occasione giusta che ci si è presentata nel
2010. I nostri clienti abituali
hanno risposto con entusia-
smo: Villa Sant’Andrea è una residenza ottocentesca piena di
tesori e adagiata sul mare, il Timeo è un hotel a ridosso del Teatro greco proprio nel cuore di
Taormina. È evidente che si tratta di "armi" competitive con tutti gli altri concorrenti del Mediterraneo».
Ma l’interesse di Orient Express
non sembra fermarsi per il futuro alla sola Taormina «Noi guardiamo a tutta l’isola — conferma Saccani — confesso che più
volte abbiamo pensato a creare
un percorso per uno dei nostri
treni storici che possa far vedere ai turisti una summa dei tesori siciliani. È ancora un progetto, ma non è detto che rimanga
un sogno».
Un po’ come quello del fondo
del Qatar che più volte si è interessato a diverse strutture nell’area del catanese. Segnali importanti che potrebbero cambiare il futuro dell’isola.
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Codice cliente: 2748686
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Corleonesi Sono i Bagarella, Provenzano, Riina citati negli atti processuali
come semianalfabeti, con cervello da gallina, di mestiere pecorai. Latitanti
da decenni, avrebbero dovuto gestire grandi capitali a livello mondiale, traffici
intercontinentali di armi e droga, fare e disfare governi regionali e nazionali,
sapere chi fossero i Georgofili, intrattenere rapporti con la Cia americana…
In realtà servirono a pseudo imprenditori per disporre di capitali da investire
e procurare voti per arrivare al potere. Che fossero quelli i capi mafiosi
non ci credette mai nessuno, ma i loro processi rassicurarono gli italiani
che ci videro il trionfo della Giustizia.
I sindaci
IL PROGRAMMA DI «RICOSTRUZIONE» DI CATANIA ATTESO ALLA PROVA DEI FATTI
«Qui serve daccapo pulizia, ovunque»
Enzo Bianco: «All’inizio mi malediranno, ma poi saranno dalla mia parte»
di Alfio Sciacca
Un aggancio
con l’Expo
«Ho preso
accordi con
Milano
perché
voglio fare
della città
una delle sedi
secondarie
collegate
all’Expo.
Qui si dovrà
arrivare
per brevi
periodi di
permanenza,
con la
possibilità
di visitare
l’Etna,
Taormina
o Siracusa»
impresa più ardua sarà «cambiare
la testa ai catanesi». Ma lui ritiene
di farcela, anche se la città sembra
rimasta quella dei Vicerè. Da sempre i catanesi preferiscono affidarsi a uomini della
provvidenza da osannare e poi demonizzare nel breve volgere di una stagione, delegare piuttosto che partecipare, demolire invece di costruire... «No, questo no, perché il catanese alla fine si autta (si stufa ndr). Dopo
aver demolito tutto si autta e pensa che sia
tempo di ricostruire. Visto che veniamo da
14 anni di devastazione credo che i catanesi
ora vogliano ricostruire».
Parla di «devastazione» il neo ed ex sindaco
Enzo Bianco tornato a Palazzo degli Elefanti
grazie a un’alleanza che va dall’estrema sinistra a pezzi della vecchio centro-destra, più
alcune liste civiche. Lui parla di «miracolo,
visto che il centro-sinistra partiva da percentuali tra le più basse d’Italia», anche se ora è
atteso alla prova dei fatti.
Dunque sono i catanesi la vera incognita
sulla via del cambiamento?
«In un certo senso sì, ma ritengo che saranno dalla mia parte. Anche se all’inizio mi
malediranno. Per quel che farò contro l’abusivismo commerciale, per mettere fine a tante illegalità, alle auto in terza e quarta fila.
Quanto ai Vicerè non ne ho le caratteristiche, anche fisiche. Scommetto invece sulla
mia capacità maieutica di tirar fuori dal catanese la parte migliore».
Crede veramente di riuscire a cambiare
Catania e i catanesi?
«Ci proverò, altrimenti posso anche chiudere dignitosamente la mia esperienza. Altrettanto farò se dovessi sentire il peso di compromessi inaccettabili».
Di chi?
«Per esempio dei poteri forti della città».
Che a ben vedere sono già all’opera.
«Se si riferisce al progetto di recupero delle
vecchie aree di Corso dei Martiri dico che il
risanamento è necessario anche se va rimodulato. Non hanno senso altri centri commerciali e cemento nel cuore della città, pretenderò più verde e una dimezzamento delle cubature previste».
Catania forse non è mai stata la Milano
sud, ma sicuramente è stata parte dell’Etna Valley. Un sogno che sembra svanito.
«E invece tutto ripartirà. Il capo della St Microelectronics Bozotti ha già annunciato
260 milioni di dollari di investimento a Catania con la produzione delle fette di silicio da
8 pollici».
Non mi dica che è bastato il suo arrivo per
far tornare quella stagione...
«Non è solo il ritorno di Bianco ma tutto un
contesto favorevole, anche a livello di gover-
L’
Enzo Bianco, 62
anni, una figlia,
avvocato, cresce
politicamente nel Pri.
Sindaco di Catania la
prima volta nel 1989.
E poi dal ’93 fino al
2000, quando viene
chiamato da
D'Alema a guidare il
ministero
dell’Interno. Le sue
passioni sono la
musica classica
e la cucina.
(Nella foto di Alfio
Musarra, la festa con
un giro in Vespa il
giorno delle elezioni)
no. Ho poi chiesto al vecchio capo di St, Pasquale Pistorio, di presiedere un’agenzia, la
"Vulcano", per attrarre investimenti».
Intanto Catania ha livelli di disoccupazione insopportabili, illegalità diffusa, è sporca, ha un traffico impazzito. Crede di avere la bacchetta magica?
«Occorreranno anche i miracoli e io penso
di averne fatto già qualcuno. Fino a due mesi fa, per esempio, dai garage dell’azienda
trasporti la mattina uscivano 67 bus, con
tempi di attesa anche di 80 minuti. Con il
solo cambio di management siamo riusciti
a recuperare mezzi fermi per piccoli guasti
facendone uscire il doppio. La pulizia, poi,
la farò in tutti i sensi. Ho la sensazione che
in comune ci siano gravi compromissioni
che hanno tollerato illegalità nella raccolta
e smaltimento. Ho disposto indagini e an-
«Adotto la linea dura contro
il traffico: ho già
raddoppiato i bus e sbloccato
i cantieri del metro»
«Riapriamo la città al
mare e con aeroporto e
porto penso al 2015:
saremo collegati all’Expo»
drò fino in fondo, anche con l’aiuto della
magistratura. Per il traffico, invece, occorrono soluzioni radicali. Ho già fatto sbloccare i
cantieri di tre tratte della metropolitana».
Anche la metropolitana? Ma non è competenza della Fce?
«Sì, ma un sindaco può far tanto per sbloccare i cantieri. C’è di più. Abbiamo lavorato anche con le ferrovie per far partire un collegamento veloce con la zona Jonica. Oggi dobbiamo fare i conti con ben 70 mila vetture
che ogni mattina si riversano in città dall’hinterland. Il problema del traffico si risolve solo grazie a un efficiente sistema di trasporto pubblico».
Oggi chi arriva dall’aeroporto o dal porto
resta comunque sconcertato nel vedere
una città caotica, sporca, con troppe sacche di microcriminalità. Non pensa siano
pessimi biglietti da visita?
«Certo. Anche su questo ci stiamo scommettendo. Con le forze dell’ordine abbiamo attivato delle squadre miste che già stanno garantendo più sicurezza, contenendo accattonaggio e microcriminalità. Il porto invece si
deve specializzare. Oggi ha una vocazione
commerciale, deve diventare prevalentemente turistico. Con aeroporto e porto vogliamo esser pronti a offrire un’immagine totalmente diversa della città entro il 2015. Ho
infatti preso contatti col sindaco di Milano
per fare di Catania una delle sedi secondarie collegate all’Expo. Qui si dovrà arrivare
per brevi periodi di permanenza, con la possibilità di visitare l’Etna, Taormina o Siracusa».
Catania, nonostante sia città di mare, continua a voltare le spalle al mare. Perché
questa resta una risorsa negata?
«In poco tempo abbatteremo la recinzione
attorno al porto che sarà limitata solo all'
area doganale. La città dovrà definitivamente aprirsi al mare, come Genova o Trieste.
Con le ferrovie abbiamo poi raggiunto l’intesa per liberare quell’area dalla cintura ferroviaria. La linea ferrata verrà interrata nella
zona del porto e gli archi della marina, sui
quali attualmente passano i binari, diventeranno area pedonale e ciclabile»
A suo tempo lei lasciò l’incarico di sindaco per accettare quello di ministro. Molti
catanesi si sentirono traditi. Se tra qualche anno un ipotetico governo Renzi la
chiamasse ancora cosa farebbe?
«Fare il sindaco della mia città è l’esperienza più bella che ho svolto nella mia attività
politica. All’epoca accettai perché ero quasi
alla fine del mandato e comunque continuai a lavorare per la mia città. In ogni caso
non ho dubbi su quel farei: sceglierei Catania»
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Curnutu È stato tradotto, con eleganza, in «colui al quale la moglie fece
fallo»! Aggettivo biforcuto che colpevolizza la vittima e non la rea del misfatto.
È offesa tipicamente sicula anche se quella che riscuote maggior successo ai
giorni nostri è il più infamante «curnutu e sbirru» che, in pratica, riassume tutti
i mali da cui può essere afflitto un siciliano comme il faut. Ricordiamoci che
i cornuti in Sicilia sono una categoria dello spirito: quelli che lo sono e quelli
che lo diventeranno; ci sono cornuti scapoli, vedovi cornuti, cornuti di moglie,
di madre, di sorelle, di cugine e perfino i cornuti di cognate. E la cornuta?
…resta sempre una buttana.
PERCHÉ TARDA A SBOCCIARE LA NUOVA PRIMAVERA DI PALERMO
«Sono il leader di una minoranza culturale»
Leoluca Orlando: denuncio l’inciviltà di molti miei concittadini per convincerli a cambiare
di Giuseppe Di Piazza
el tempo libero, Leoluca Orlando
indossa un caftano blu che lo rende, da una certa distanza, indistinguibile da un commerciante del souk di
Tunisi. Ha la stessa pelle bronzo scuro, gli
occhi che sono braci contornati da borse,
ormai tasconi, per quanto il tempo le ha
rese profonde. D’altronde l’uomo, che ha
festeggiato da poco i 66, è sulle breccia da
quasi un quarantennio. Rientrato a metà
degli anni Settanta in Italia dopo una lunga formazione in Germania e in Inghilterra, il rampollo dell’avvocato Salvatore Orlando Cascio si diede da subito anima e
corpo alla politica, quell’angolo di politica
buona che a Palermo, in quel tempo, era
incarnata dal presidente della Regione
Piersanti Mattarella. Democrazia Cristiana anomala, tanto anomala che Cosa Nostra nel giro di due anni la fece cessare
con il piombo. Orlando allora andò dai
giudici e accusò tutto l’establishment democristiano del delitto Mattarella. Ed era
solo il buongiorno. Poi fondò la Rete e divenne per tre volte sindaco: ’85, ’93, 2000.
La chiamarono «primavera di Palermo».
Da poco più di un anno, separati i destini
prima da Rutelli poi da Di Pietro, è sindaco per la quarta volta, eletto con il 74 per
cento dei voti, non sostenuto dal Pd.
«La mia potente coalizione ha preso il 14
per cento. Io 60 punti di più. Sarei un sindaco di centro sinistra? Ma su. Il mio partito si chiama Palermo. Come il partito di
Pizzarotti si chiama Parma e quello di Tosi si chiama Verona. Aggiungerei anche
Marino, la cui tessera — mi sembra — sia
soltanto Roma. Siamo sindaci che vanno
oltre gli schemi dei partiti».
La sua città, quella della primavera, mi
sembra però che stia vivendo un autunno profondo: immondizia, disoccupazione, disordine edilizio…
«Palermo ha vissuto dieci anni di barbarie. Questa città è un bene comune, ma
tornando a fare il sindaco, ho scoperto
che non esiste più la comunità palermitana. Io sto cercando di ricostruire tutto, di
convincere la gente che dopo l’inverno torna la primavera».
Su uno dei viali che portano a Mondello,
ad agosto, di notte, c’era una montagna
di immondizia alta tre metri e lunga dieci. Sembrava un’istallazione d’arte contemporanea. Sarebbe questa la speranza di una primavera?
«Passo il tempo a denunciare l’inciviltà di
molti miei concittadini. E le confesso una
cosa, che oggi ho capito perfettamente: io
sono una minoranza culturale che ha otte-
N
La quarta volta Leoluca Orlando, 66 anni, palermitano, è sindaco per la quarta
volta. La prima fu nel 1985, l’ultimo mandato è iniziato il 21 maggio 2012, con una
vittoria netta (74% dei voti), non sostenuto né dal Pd, né dal centrodestra. Studi
giuridici in Germania e Inghilterra, Orlando ha cominciato la propria attività politica
nella Dc, come consigliere dell’allora presidente della Regione Piersanti Mattarella,
nuto una maggioranza elettorale. Col cavolo che chi mi ha votato la pensa come
me!».
Ma che fa l’azienda dei rifiuti?
«Fallita. Da meno di un mese, della raccolta si occupa direttamente il Comune».
È vera la storia dei 450 figli assunti in un
solo giorno all’Amia, la vecchia azienda?
«Verissima. Qualche anno fa, a ridosso
delle elezioni comunali, il sindaco di allora (Diego Cammarata, ndr) e i suoi collaboratori chiamarono 450 dipendenti dell’Amia, offrendo loro uno scivolo e un
pensionamento anticipato. In cambio
avrebbero assunto "per concorso" i loro figli. Tutti accettarono e i ragazzi vennero
assunti: la commissione in un solo giorno
disse di sì. L’indomani vennero promossi
ucciso nell’80 dalla mafia. Nel ’91 ha fondato la Rete, poi è entrato nei Democratici
di Prodi e in seguito nella Margherita. Nel 2006 ha aderito all'Italia dei Valori, da cui è
poi uscito. Più volte deputato, è consigliere dei presidenti colombiano e messicano
per le strategie di lotta ai narcos. Tra le svariate cariche, è anche presidente della
Federazione italiana di Football americano. Sposato, ha due figlie e cinque nipoti.
tutti e 450 dalla prima alla seconda categoria».
Come intende correggere quella che lei
chiama «l’inciviltà» di certi suoi concittadini?
«A Palermo troppa gente si è abituata a essere incivile. Ma tutti devono capire che
qui non è cambiato il direttore, è cambiata la musica. È anche cambiato il direttore
(sorride), certamente, ma devono cambiare le abitudini. Ho disposto per la prima
volta nella storia di questa città che dieci
pattuglie in borghese di vigili urbani girino armati di videocamere e fotocamere
per documentare e sanzionare l’inciviltà
di chi butta rifiuti ovunque. Le stesse pattuglie controlleranno anche che i dipendenti comunali facciano il loro lavoro di
«Centrosinistra? Il mio partito
si chiama Palermo, come quello
di Pizzarotti si chiama Parma e
quello di Tosi si chiama Verona»
Questa città è un bene comune.
Tutti devono capire che qui non
è cambiato soltanto il direttore,
ma è cambiata la musica
raccolta come stabilito dalle tabelle che
pubblichiamo sul sito del Comune».
Direbbe a un suo figlio di restare a Palermo a studiare, a lavorare?
«Purtroppo le mie due figlie, i loro mariti e
i miei tre nipoti sono andati tutti all’estero. Per l’esattezza: fu-ggi-ti all’estero. Non
potevano rassegnarsi a questa città e alla
sua cultura dell’appartenenza».
Scusi, ma lei è il sindaco di Palermo. Come ha accettato che la sua famiglia «fuggisse»?
«L’ho accettato perché io sono rimasto
qui, a battermi per dare ai giovani un futuro. Vorrei che da Palermo i ragazzi andassero via, ma solo per scelta. Non per necessità. E chi volesse restare, qui dovrebbe
trovare opportunità, rispetto, lavoro».
Si ricorda il dialogo tra lei e una delle
sue figlie quando le ha annunciato che
andava a vivere all’estero?
«Certo. È venuta e m’ha detto: papà, noi ci
trasferiamo a Quebec City. Io ho pensato,
da padre autoritario e siciliano, che una
domanda avrei dovuta fargliela. Allora le
ho chiesto: andate via Montreal o via Toronto?.
È una battuta?
«No. Mi dica lei: che cosa potevo obiettare?».
Mi spiega la cultura dell’appartenenza?
«Se volevi un lavoro, al Nord ti chiedevano: che cosa sai fare? Al Sud: a chi appartieni? Purtroppo devo dire che da un po’
di anni questa cultura dell'appartenenza
ha invaso anche il Nord».
Qual è lo slogan per questo suo mandato?
«Palermo pulita. E stop al pizzo di strada».
Che cosa intende?
«I parcheggiatori abusivi. Quindici anni fa
ti chiedevano un obolo e se non lo davi, si
rassegnavano. Ora no: fanno parte di una
specie di racket».
S’è accorto che davanti a quest’albergo
di Mondello dove la sto incontrando c’è
un parcheggiatore abusivo 16 ore su 24?
«Sì. Ma almeno noi li multiamo».
Lei, Renzi, Letta, Alfano. Tutti ex democristiani o ex popolari…
«La prego, io sono democratico e cristiano (sorride)».
Va bene. Ma è possibile che in Italia ce
la possano fare solo gli ex dc?
«Beh, finché gli ex comunisti non la pianteranno con il complesso che loro non
possono governare...».
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RENATO ACCORINTI, PRIMO CITTADINO DI MESSINA
«Per la mia città viaggio in treno e mangio panini»
di Nino Luca
al trionfo alle critiche. Ma a
Messina il «mito» Renato
Accorinti resiste. A 90 giorni dal clamoroso successo elettorale con la sua lista civica Cambiamo
Messina dal basso, Renato e basta
(come gli piace farsi chiamare), deve fare i conti con le «malelingue»
messinesi. Gli attacchi piombano
addosso a questo ex professore di
educazione fisica di 60 anni, dal
fronte interno e da quello esterno.
Lui non perde il sorriso, gli ormai
famosi sandali e la maglietta con
slogan incorporato. «Ne ho un macello. Con la scritta "Free Tibet" almeno una dozzina. Ora però la
gente me le regala: ne ho 40».
Fare il sindaco è come lo immaginava?
«Dico sempre che sono il sindaco
D
di Hiroshima. Però non di oggi ma
del 7 agosto del 1945. Lavoro sulle
macerie…»
Paragone irriguardoso ...
«Intendo metaforicamente , nel senso che è un disastro tutto».
E i messinesi a cui chiedeva il voto e, soprattutto, di agire?
«In 500 si sono messi a rimuovere i
rifiuti dalle spiagge. La gente dei villaggi pulisce le proprie strade. Un
«Sono arrivati
pochi soldi. E quei
pochi sono andati
ai lavoratori»
gruppo di avvocati ha messo in ordine i giardini del tribunale, di domenica. Più partecipazione di così»
Veniamo alle critiche. Cominciamo dal trasporto urbano.
«Ci sono cose che con centinaia di
milioni di euro di deficit non si possono fare in fretta. Bus non se ne
possono comprare? Bene, con
25mila euro ne ripariamo 15 e li
mettiamo sulla strada».
E gli stipendi ai dipendenti Atm?
«Dallo Stato e dalla Regione sono
arrivati pochi soldi. E quei pochi
sono subito per i lavoratori. Io vado ai dibattiti in treno in seconda
classe, da solo. Sono stato a Palermo per parlare con Crocetta e ho
mangiato solo un panino. Ho speso in tutto meno di tre euro e a co-
sto mio».
Messina è ultima tra le città italiane per raccolta differenziata. Ferma al 7 %. E un terzo dei cittadini
non riceve neanche i bollettini
per pagarla.
«Vero. Anzi, credo che sia ferma al
3%. Ma sta partendo una campagna di sensibilizzazione. Entro un
anno contiamo di superare il
30%».
Una sua consigliera l’avrebbe definito un «pupazzo» manovrato
(frase però smentita, ndr ) «da
una regia tecnica, politica e sindacale».
«Ho parlato con la mia consigliera,
le voglio bene ma anche se dice
che quella parola non l’ha mai pronunciata, mi offende tutto il suo ragionamento: io non sono "sotto
scopa" di alcuno. Si tratta poi di
una nomina a costo zero»
La pioggia che sta per arrivare, la
preoccupa?
«Il ricordo dei morti di Giampilieri
è indelebile. Stiamo lavorando su
torrenti e tombini, organizzando
un tavolo per la prevenzione con
la Protezione civile e con la Forestale».
Che pensa di Renzi che vorrebbe
dividersi tra la segreteria del Pd e
la poltrona di sindaco?
«Ho dovuto rinunciare all’insegnamento. Rimanga inter nos: non vedo i miei amici da 80 giorni. Certe
volte riesco ad andare in bagno solo alle 5 del pomeriggio. Per 70 giorni ho saltato il pranzo. Se non è un
atto d’amore questo...»
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Informale Il sindaco
di Messina, Renato
Accorinti. Sopra, con
un collaboratore;
nel tondo, i suoi
sandali e, accanto,
la maglietta come
divisa di lavoro
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
XXI Concorso Internazionale
Vini di Montagna
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Due Sicilie Un regno nato nel 1816 con la Restaurazione, che mise
assieme i regni di Napoli e Sicilia. Non fu da poco per re Ferdinando di
Borbone, che era IV di Napoli e III di Sicilia: ora divenuto I delle Due Sicilie.
A un ignoto poeta poco benevolo nei confronti del nasuto sovrano quelle
numerazioni ispirarono un feroce epigramma: «Fosti quarto, fosti terzo, or ti
titoli primiero; se continui nello scherzo finirai per esser zero». Quando ai
Borbone succedettero i napoleonidi e poi quando tornarono dopo la sconfitta
di Napoleone, in Sicilia si disse: «Tanta guerra e tanto male per cambiare una
vocale: un Borbone in un birbone, un birbone in un Borbone».
Le battaglie civili
LA BATTAGLIA DELL’ASSESSORE REGIONALE LINDA VANCHERI, AFFETTA DA SCLEROSI MULTIPLA
«Per la mia terra vincerò la malattia»
È nata tra Enna e Caltanissetta, dove le miniere hanno creato un disastro ambientale
di Felice Cavallaro
L’ipoteca
del passato
Una terra
violata da
anni d’incuria
ecologica che,
in alcune
zone, hanno
prodotto
conseguenze
drammatiche
sulla salute
degli abitanti.
Adesso si
cerca di
mettere
riparo ai
danni del
passato
ricucendo il
futuro con il
filo della
speranza
desso che, da assessore alle Attività
produttive, deve cacciare dai Consorzi industriali mafiosi e faccendieri, scoperchiando le pentole maleodoranti di un apparato messo su per fregare
300 milioni di euro alla Regione, «sembra
passato un secolo» a Linda Vancheri da
quando, ancora una ragazza, cominciò a
frequentare Gela come volontaria per il sostegno ai malati di sclerosi multipla. Scattarono allora, quindici anni fa, la simpatia
e l’amicizia con Rosario Crocetta. Rafforzate quando l’attuale governatore divenne sindaco della città del Petrolchimico.
Saldate l’anno scorso con l’ingresso in
giunta di questa bella trentaseienne, inarrestabile, vulcanica, il sorriso ironico, i
tratti mediterranei, due calamite agli occhi, magnetica nel suo profilo, divertita
quando le dicono che sembra la sorella di
Sabrina Ferilli.
Corre in bici o motorino, come faceva da
funzionaria di Confindustria a Caltanissetta, con la disinvoltura di una studentessa.
E spesso il lunedì prende la corriera per
Palermo o aspetta il passaggio di un amico perché all’auto blu ha rinunciato. Ecologista e in prima linea sui temi ambientalisti, pronta a svelarsi con una rivelazione
choc, mentre rilancia un grido di battaglia
contro aria inquinata e amianto, le miniere pattumiera della sua provincia, impegnata nella guerra alle scorie nucleari: «Sì,
la sclerosi multipla è la mia malattia. Anzi,
è la mia vita».
Sono passati 12 anni da quando Linda
Vancheri ha scoperto che un male s’era
annidato fra le sue ossa. Aveva 24 anni ed
era convinta di potere spaccare il mondo.
Poi la diagnosi. «Fu terribile. Per me. Per i
miei genitori. Improvvisamente tutto si
rallentò. Mi sentii annientata per due anni. Ma sono riuscita a trasformare questo
mostro in forza combattiva. Con la malattia, se ce l’hai, devi convivere. Diventa la
tua coinquilina. E noi due abitiamo insieme. Dovevamo pur metterci d’accordo.
Lei c’è. Ma ci sono pure io, da tre anni in
cura sperimentale con un farmaco che sequestra i linfociti dei linfonodi e ne blocca
il cammino verso il sistema nervoso centrale».
Scopre il disastro a San Cataldo, il grosso
produttivo centro a due passi da Caltanissetta, dove Linda torna ogni volta che
può. Dalla mamma, Maria Amico, casalinga, sempre preoccupata, e dal papà, Giuseppe, una vita in fabbrica tra manufatti
d’amianto, costretto giovanissimo al prepensionamento, colpito da asbestosi, grossi problemi respiratori, ma da Linda defi-
A
LE INCHIESTE
Risoluta L’assessore regionale alle Attività produttive Linda Vancheri, classe 1977
(Foto G. Gerbasi/Contrasto)
nito «un uomo fortunato» perché «molti
suoi colleghi non ci sono più, credo tutti».
Siamo al tema della malattia e di un’area
a rischio su cui Linda Vancheri accende i
riflettori, forte del sostegno di Lucia Borsellino, la figlia del giudice, scelta da Crocetta come assessore alla Salute. Parla del
cuore della Sicilia bucato dalle miniere
dei paesi amati: «Noi viviamo fra Enna e
Caltanissetta, fra valli e monti con migliaia di ragazzi malati di sclerosi multipla, di
leucemia, di tiroide, un disastro mai studiato a fondo, effetto dei misteri annidati
nelle viscere delle miniere di Monte Capodarso, di Serradifalco, di altre tappate con
rifiuti tossici arrivati da tutto il mondo, come finalmente conferma qualche pentito
di mafia. A San Cataldo sono 200 i malati
di sclerosi, mille in provincia di Caltanissetta, cifre spaventose. Sono quasi tutti ragazzi nati fra il 1974 e il 1977, qualcuno anche nel 1980. Ammalati per quello che
mangiano o respirano, o per quello che
hanno dalla nascita».
Non parla di sé, ma quando i suoi occhi si
rattristano perché indica gli amici ammalati è automatico pensare alla sua pena.
Ed eccola infine rendere pubblica la sua
sfida: «Per accendere speranze». Non con
parole vuote. Offrendo la propria esperienza. «Perché la malattia si può combattere», assicura. Come? «Intanto, dimostrando a me stessa che si può vincere.
Senza abbattersi. Abbattendo quella malintesa sensazione di vergogna... Sì, si arriva al punto da vergognarsi della malattia.
Un pool di
magistrati di
Caltanissetta
coordinati dal
procuratore
aggiunto Lia Sava
segue l’inchiesta
sull’inquinamento
ambientale,
sul rischio di
contaminazioni
radioattive
provenienti
da miniere
abbandonate
dagli anni 70 fra
Caltanissetta e
Enna. Siti forse
utilizzati dalla
criminalità per
riempirle in parte
di scorie e
prodotti ad alto
rischio. Nell’aprile
del 2011 fu l'ex
governatore
Raffaele
Lombardo a
riferire che in una
di queste miniere,
a Pasquasia, era
stata stata rilevata
«una sorgente
radioattiva a 300
metri di
profondità».
I rilievi eseguiti
finora non hanno
prodotto certezze.
Ma il registro
dei tumori ha
permesso
ai volontari di
«Cittadinanza
attiva» di
denunciare una
pericolosa
incidenza nei
comuni del
Vallone, fra le due
province. Il rischio
di contrarre un
tumore in comuni
agricoli come
Serradifalco
sarebbe del 43%
rispetto al 12% di
Gela
E invece no. Deve essere considerata una
opportunità. Perché aiuta a capire, a relativizzare, a dare peso reale solo alle cose importanti, a sorvolare sul resto. Insomma,
combattere e vincere. Vorrei poter dire ai
malati come me: "Tu sei avvilito, depresso? Guarda me! Possiamo farcela!". Voglio
diventare testimone di tutto questo per
far capire come vivere un problema così
grande e come cercare le vie d’uscita. A cominciare dalle attività di promozione per
la bonifica dell’aria e della terra in cui viviamo».
È questa la corsa di Linda. Già, lei corre su
una bici disegnata dagli ingegneri per ottenere il massimo equilibrio. Una corsa che
ha come obiettivo «quello di arrivare, non
solo di vincere, perché arrivare è la vittoria». Lo diceva a Gela quando non la conosceva nessuno e l’ha ripetuto come testimonial al Giro d’Italia del 2008, con l’appendice che chiamò «la corsa della libertà». Un’avventura pensata dopo aver letto
lo straordinario racconto di Andrea Camilleri sulla sua corsa del ’43, quando su una
bici Montante lo scrittore volò da Serradifalco alla sua Porto Empedocle fra le macerie della guerra.
E Linda Vancheri quell’anno si mise in
contatto con il famoso Tony Lonero, l’ex
campione italo americano di baseball
che, grazie alla bicicletta, era riuscito a vincere la sua corsa contro la sclerosi: «La
sua vita sembrava finita. Ma era ricominciata proprio su una bici. Donata dalla madre nel 2001, l’anno delle Torri gemelle.
"L’America deve rialzarsi, e così devi fare
tu, figlio mio". Grande madre. Decisi allora che con Lonero avremmo fatto qualcosa di grande. E riuscii a convincere la Rcs,
la Gazzetta dello Sport, a organizzare una
corsa parallela al Giro».
L’azienda di Antonello Montante, oggi
presidente di Confindustria Sicilia, aveva
distribuito le bici a norma per il malato di
sclerosi grazie a un attento studio ingegneristico e la Vancheri riuscì a coinvolgere lo
stesso Camilleri: «Ci diede una mano.
Nacque così la "corsa della libertà". Tanti
malati arrivarono da Bergamo, Milano,
Torino... Eravamo cinquanta, tutti in bici,
più quelli che si sono aggiunti da Serradifalco a Porto Empedocle. Per rifare la stessa corsa del ’43. Dimostrando che non ci
sono barriere fisiche capaci di bloccarci.
Nella vita, nella malattia, nel governo. Appunto, "Ride to finish", come dicevamo e
continuiamo a ripetere ...». Chiosa finale
per un parallelo che sfocia in una sorta di
protocollo contro malanni e malaffari.
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IL PARADOSSO DI ARTURO LICATA, 111 ANNI
L’uomo più vecchio del mondo
e i misteri dell’Area 51 siciliana
di Giuseppe Farkas
veva già sei anni quando la terrà
tremò come non succedeva più
da secoli e il terremoto cancellò
quella città che s’affacciava sul mare dello Stretto e quasi tutti i suoi abitanti. Anche la sua casa di Enna, lontana centinaia di chilometri da quel disastro, tremò.
Il ricordo di quella notte è uno di quelli
che il tempo non ha mai cancellato. E di
tempo ne ha visto trascorrere davvero
tanto Arturo Licata, 111 anni lo scorso 2
maggio, l’uomo più vecchio del mondo.
Arturo Licata è il paradossale simbolo
della longevità di un territorio che da
qualche tempo si interroga sul perché
dell’aumento dell’incidenza di malattie
A
tumorali e neurodegenerative.
Nato nel 1902, Arturo Licata era troppo
giovane per andare al fronte nella prima
guerra mondiale e non più arruolabile
quando scoppiò il secondo conflitto
mondiale. Ma per tre anni, durante il
Ventennio, fini per tre anni a «servire la
Patria» in Africa. Poi, al ritorno, lo hanno
ricompensato trovandogli un lavoro nella miniera di Pasquasia. Zolfo e Sali potassici lo hanno accompagnato per
vent’anni. Poi ha trovato posto come infermiere nel dispensario di Enna. Nel
tempo libero suonava la chitarra e scriveva poesie.
Mai una malattia e solo due volte in ospe-
dale Aveva ancora «solo» 85 anni e, al
netto del patrimonio genetico, anche un
ottimo livello di vitamina D nelle ossa.
Eppure su Pasquasia oggi sono puntati
gli occhi di chi teme di non poter neppure lontanamente sfiorare il record di longevità dell’illustre conterraneo. La miniera è stata una grande e storica risorsa per
la Sicilia. Poi, nel 1992, l’improvvisa
quanto misteriosa chiusura nel totale disinteresse e nel silenzio delle istituzioni
nonostante fosse un’essenziale fonte di
occupazione per un altissimo numero di
lavoratori delle province di Enna e Caltanissetta. Solo qualche anno dopo cominciarono a prendere corpo strani scenari.
Nel corso di un convegno a Washington
sullo stoccaggio di combustibile nucleare, la miniera di Pasquasia venne citata
come uno dei depositi in funzione in Europa occidentale. Dalla storia alla scoria
il passo fu brevissimo ma il mistero restò
impenetrabile. Anche quando a cinque
anni dalla chiusura un controllo dell’Usl
accertò presenza di Cesio 137 e l’Arpa ha
più di recente confermato la presenza di
tracce di radioattività...
Pasquasia è una specie di Area 51 della
Sicilia. Non solo è inaccessibile ma si
continuano a non avere, nonostante gli
sforzi negli anni di alcuni esponenti politici siciliani, informazioni certe. Adesso
ci riprova, con un’interrogazione presentata in questi giorni al ministero dell’Ambiente, la deputata nissena del Movimen-
Un uomo simbolo
di longevità in una
terra con un’alta
incidenza di malattie
to 5 Stelle, Azzurra Cancelleri.
Di Pasquasia, all’uomo più vecchio del
mondo, resta solo un ricordo lontano. In
una vita non solo lunga, ma anche arricchita di musica e poesia. E forse questo è
uno dei veri segreti della sua longevità.
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Etna per tutti, Mongibello per i siciliani. Che è un misto di latino mons e gebel
arabo, ma tutti e due stanno per montagna. Per Pindaro la colonna del cielo.
Un serbatoio di meraviglie perché non è un vulcano, ma un agglomerato di
vulcani assai giovane, sorto dal mare solo cinquecentomila anni fa, assieme
all’apparato vulcanico delle Eolie. Cerca di non disturbare riversando le lave
nell’immensa Valle del Bove che è un enorme squarcio lavico con un
perimetro di 22 chilometri. Si ritiene che in epoca preistorica ci sia precipitato
dentro il vulcano originario. È il simbolo della Sicilia. Una immensa mammella
che esce dal mare in tutta la sua maestosità.
Il turismo
I PROGETTI DELL’ASSESSORE REGIONALE AL TURISMO
«La mia Sicilia guarda oltreoceano»
Michela Stancheris: sono bergamasca e amo quest’isola. Malgrado la spazzatura
di Francesco Battistini
Il rilancio
e il rammarico
«A me
piacerebbe,
che so,
valorizzare
l’entroterra
di Mussomeli
che è
bellissimo.
O chiedere
a Dolce e
Gabbana
di restaurare
Selinunte.
Ma come
faccio, se
poi intorno
rimangono i
rifiuti?»
a presente Gravity , l’ultimo film
con George Clooney e Sandra Bullock?». Veramente no... «Inizia
con la Terra dall’alto. E sa qual è la prima immagine? La Sicilia. Io l’ho visto alla Mostra di
Venezia e con la mia faccia di bronzo sono andata subito a salutare Cuaròn, il regista: vieni
a osservarla da vicino, la Sicilia... Ecco, bisogna ampliare la prospettiva, chiamare queste
persone, lavorare sull’emozione, dare all’isola l’internazionalità che merita. Abbiamo appena fatto un documentario su Frank Zappa,
che aveva i parenti a Partinico. E adesso, se
vado a Hollywood...». Hollywood?
«Sì, il Dipartimento
di Stato mi ha invitato in America a sue
spese. Incontri con
la cultura, l’imprenditoria. E anche il cinema. Là c’è già Tornatore che fa il suo. Ma
a me piacerebbe importare i grandi artisti americani con radici siciliane. Coppola sarebbe il massimo. O Lady Gaga,
che aveva i bisnonni di Naso. L’ho conosciuta
a New York, l'avevo già contattata per la campagna elettorale di Crocetta. Chissà...».
Teatrino biondo. Tutti parlarono di Franco
Battiato, quando diventò assessore siciliano
al Turismo. Qualcuno già chiacchiera di Michela Stancheris, la biondina trentunenne della Val Seriana che ne ha preso il posto. Un po’
perché era dall’epoca dei Mille che i bergamaschi non sbarcavano alla conquista dell’isola:
«In Sicilia, c’ero venuta solo due volte in vacanza...». Molto perché l’hanno liquidata, subito, come la segretaria di Crocetta che quadruplicava lo stipendio: «La stampa è stata cattiva: più che la segretaria, in Europa facevo
l’assistente parlamentare. Non ho protezioni,
semplicemente condivido quel che fa Rosario. Sono sicura delle mie capacità. M’accusano d’essere troppo "tecnica"? Credo sia giusto
esserlo, di questi tempi». Bergamo-Bruxelles-Palermo, atterraggio turbolento. «Dal
bianco al nero, con qualche coltellata. Qui c’è
da ristrutturare completamente. I problemi
«H
L’identikit
Michela
Stancheris
è stata nominata
assessore al
Turismo da
Rosario Crocetta
dopo le dimissioni
di Franco
Battiato. Una
sorpresa per
Spettacolare La rocca di Mussomeli (Caltanissetta) con il castello incantato
il mondo politico
siciliano che
conosceva
questa giovane
laureata
proveniente da
una famiglia di
imprenditori di
Bergamo come la
«segretaria»
del presidente.
A Bruxelles, da
eurodeputato,
Crocetta l’aveva
assunta come
assistente
esclusivamente
sulla base
di un curriculum,
lasciando
fuori tutti
i raccomandati
sono tantissimi, il più grosso sono 90 milioni
di buco creati fra il 2007 e il 2013. Ci siamo
bruciati i fondi Ue. Bisogna sanare il bilancio
e intanto rilanciare il servizio, con una mano
tenere su il muro e con l’altra giocare la palla.
Ricostruire sulla base del diritto, che è stato
un po’ dimenticato. I colpevoli devono pagare, ho mandato tutto alla Corte dei conti. Una
cosa è certa: rispet to al passato, non si ruba
più un euro». Si dà due anni, per i primi risultati: «Guai a chi mi parla ancora di "vocazione turistica", basta con le formule vuote. Questa regione ha la "fortuna" d’essere rimasta
un po’ indietro, non ha raso al suolo la sua
cultura e non s’è fatta colonizzare. Però dà
troppo per scontata la sua bellezza. S’accontenta d’avere l’Etna patrimonio dell’Unesco:
averlo non basta, bisogna pulirlo, facilitarne
l’accesso, farne una meta del turismo di lusso... Vedo grandi sprechi. La mafia che certo
non aiuta. E imprenditori che alla fine se ne
vanno. A me piacerebbe, che so, valorizzare
l’entroterra di Mussomeli che è bellissimo. O
chiedere a Dolce e Gabbana di restaurare Selinunte. Ma come faccio, se poi intorno rimane
la spazzatura? Prenda anche l’idea della "Strada degli scrittori" a Racalmuto: in 30 km ci sono i luoghi natali di Sciascia, Pirandello e Camilleri, c’è un paesino col castello e la chiesa
che è già un brand , l’opportunità d’intercettare i turisti che vanno alla Valle dei Templi o
alle terme di Sciacca. La gente però non si rende conto di questo tesoro. Io adoro l’ironia di
Sciascia, a Racalmuto la si respira ancora: sa
‘‘
Vorrei far
tornare qui i
grandi artisti americani
con radici siciliane, da
Coppola a Lady Gaga
che il giornale locale si chiama Malgrado tutto? Mi fa ridere, potrebbe essere il motto della
nostra giunta...». Malgrado tutto, la giovane
Stancheris ci prova: bioturismo e rilancio delle Eolie («tra aerei e aliscafi ci metti un giorno
intero: assurdo»), il Nobel per la pace ai lampedusani e l’azzardo di costruire due casinò,
malgrado la mafia... «Tanto turismo americano, israeliano cerca anche i casinò. Altrimenti
sceglie Malta. Capisco le cautele, ma è una
battaglia di principio: perché la Sicilia non
può averli come le altre regioni transfrontaliere?».
Qualche settimana fa, in visita a Bergamo,
Crocetta ha buttato lì che Michela sarebbe un
buon sindaco pure per la Città dei Mille... «In
Sicilia sto benissimo. La Lega Nord me ne ha
cantate di tutti i colori: "la bergamasca esportata"... Qui è diverso, accolgono tutti. Anzi:
prevede una foto con questo articolo?». Probabile... «Allora la scelga bella: vorrei trovare un
fidanzato».
LO SCRITTORE ROBERTO ALAJMO
Scrittore
siciliano
Roberto
Alajmo è
l’autore di «Il
primo amore
non si scorda
mai, anche
volendo» edito
da Mondadori
e di «L’arte di
annacarsi»
(Laterza)
«Porto amici e parenti in giro
perché così godo del loro stupore»
di Luca Mastrantonio
l luogo simbolo delle promesse
mancate della Sicilia, per Roberto Alajmo, scrittore siciliano, è il
cimitero degli inglesi a Palermo: «Un
luogo storico, dove venivano seppelliti i viaggiatori che, principalmente nell’800, arrivavano nell’isola sperando
di trovare clima e condizioni che lenissero le loro malattie polmonari; ma
poi vivevano in case riscaldate male e
d’inverno morivano come mosche».
Qui prima che chiudesse al pubblico,
Alajmo ha portato il figlio, all’epoca di
soli quattro anni, all’insaputa della
madre, francese: «Per noi siciliani il
rapporto con la morte è qualcosa di
molto familiare», spiega. Poi, è stata
la volta del Trionfo della morte a Palazzo Abatellis, sempre a Palermo: «Un
affresco spettacolare che potrebbe
aver ispirato Guernica di Picasso»; infine, le Catacombe dei Cappuccini, perché — spiega — «volevo che mio figlio scoprisse che c’è qualcosa di più
macabro del suo mondo fatto di film
I
e videogiochi splatter, violenti». Ora il
figlio ha 17 anni e Alajmo continua a
fare il turista in patria, portando in giro parenti e amici: «Condurli nei miei
luoghi preferiti mi rassicura sul fatto
che sia tutto come prima — racconta
l’autore di Il primo amore non si scorda mai, anche volendo (Mondadori)
— e allo stesso tempo mi fa godere
del loro stupore». Di fronte alle cave
di Cusa, per esempio, «da dove venivano estratti i blocchi per costruire il
tempio di Selinunte. C’è una strada
‘‘
Il problema è
il raffinamento
del nostro turismo.
Ma nessun rimpianto
per l’Eden perduto
molto suggestiva, lungo la quale venivano trasportati i "rocchi", blocchi cilindrici come ciambelloni per fare le
colonne; ce ne sono alcuni semilavorati, non finiti, come se fossero stati
abbandonati lì poco tempo fa. E nel
frattempo la natura si è ripresa buona
parte dello spazio, facendo dialogare
natura e cultura, come in un altro luogo che adoro, Noto Antica. Assomiglia al Machu Picchu, perché è una città abbandonata dove la vegetazione
anima i ruderi: è il monumento a come muore una civiltà, dopo un terremoto».
Il problema principale del turismo
culturale per Alajmo è il raffinamento. In senso figurato e letterale: «La
Valle dei Templi ha molti turisti, ovviamente, ma con la gestione privata della NovaMusa gli incassi non venivano
poi girati a dovere alla Regione: c’erano spese senza vere entrate. Se la bellezza è metaforicamente petrolio, lo
raffiniamo male». E, fuor di metafora,
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il petrolio non ha portato bellezza:
«Hanno trivellato un po’ ovunque,
ma in posti come Gela il danno, con
le raffinerie, non è stato solo paesaggistico e sanitario, ma antropologico, urbano; l’improvviso arricchimento ha
deformato la città. La cosa più bella di
Gela è il cimitero, tutto colori pastello,
spiritoso».
Nessun rimpianto di un Eden perduto, però, da parte di Alajmo. Solo un
po’ di logica: «Prendiamo Termini
Imerese. Capisco il grande sogno dell’industrializzazione, ma che senso
aveva costruire una fabbrica in riva al
mare, visto che le macchine viaggiavano su gomma? Si pensava che questo
genere di risorse paesaggistiche fosse
infinito. E si è devastata una costa, tutta sabbiosa, di oltre 15 chilometri, ormai irrecuperabili. Era meglio conse-
gnarsi al mito turistico di Rimini e riminimizzare la costa».
Infine, l’export-import: «Un grave
danno, cui si sta ponendo rimedio, è
l’esportazione a perdere di opere d’arte. Prendiamo solo la zona di Trapani:
fino all’anno scorso venivano portate
fuori contemporaneamente opere come l’Efebo di Selinunte, il Satiro danzante di Mazara del Vallo e l’Auriga di
Mozia. I politici li usavano come scatole di cioccolatini, mazzi di fiori per
tenere buoni rapporti. Li davano a
musei stranieri, certo, in cambio di
opere altrui con cui fare mostre in Sicilia. Ma poiché le spese sono a carico
di chi ospita e la Sicilia ha problemi di
risorse, quelle opere chieste ad altri
non arrivavano mai: prestavamo qualcosa in cambio di nulla».
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Fastuca In italiano fa pistacchio. Riassunto di tanta storia passata tra quei
rami: pistacchio dal greco pistachion; fastuca dall’arabo fustuqa: cresce
nell’agrigentino e pure sull’Etna. La capitale è Bronte, che era un ciclope figlio
di Urano. Il più zotico fu Polifemo, pessimo ospite con Ulisse, come sapete.
Dovette divertirsi un mondo re Ferdinando di Borbone quando offrì quella
ducea a Nelson, che era monocolo. Come un ciclope. Bronte merita una
visita per il gelato al pistacchio, e i seducenti dolcetti di crema di pistacchio.
Ma non è da meno Agrigento, che incanta con il cous cous di pistacchio
fatto dalle suore di Santo Spirito. Verde islam, naturalmente.
Il tempo libero
DIVAGAZIONI SPORTIVE
Sui campi da golf, non solo d’estate
L’isola sta valorizzando le strutture che diventano una risorsa per il turismo
di Silvia Nani
Investimenti
sul territorio
Sono cinque
oggi in Sicilia
i campi
attivi, tutti
ubicati in
aree diverse.
Ma altri due
stanno
sorgendo nel
comprensorio
tra
Taormina,
Catania e
Siracusa con
distanze
comprese tra
i 30 minuti
e poco più
di un’ora di
percorrenza
stradale
Q
uando Luchino Visconti girò una delle scene iniziali del Gattopardo davanti alla settecentesca Villa Airoldi,
dimora nobile palermitana, di certo non si
sarebbe mai immaginato il parco adiacente trasformato in uno scenografico campo
da golf. «Lasciato il frastuono delle auto,
un percorso che si snoda tra le fontane e
una cava di tufo. Il solo campo in Italia ubicato nel centro storico di una città», è orgoglioso Giorgio Trupiano, 33 anni, presidente del Golf Club Villa Airoldi, 21 ettari di oasi naturale su cui si estendono 9 buche nate a Palermo dalla riqualificazione di
un’area che rischiava il degrado.
Contesti unici e soprattutto diversi tra loro:
i campi da golf in Sicilia sono diventati non
a caso materia di riflessione in tema di sviluppo del territorio da parte delle istituzioni e di chi in queste realtà ha un coinvolgimento diretto. «In Italia si stima che il turismo alimentato dall’interesse per il golf
muova quasi due milioni di presenze, che
quasi raddoppiano contando chi ha soggiornato con altre motivazioni ma ha approfittato per praticarlo», chiarisce Franco
Chimenti, presidente della F.I.G.-Federazione Italiana Golf, fautore del binomio tra
questo gioco e il turismo come opportunità
per il territorio. «L’impulso che deriva all’occupazione è diretto e indiretto: un campo da golf genera in media cento posti di
lavoro ma i benefici si estendono a tutto
l’indotto, dall’ospitalità alberghiera all’enogastronomia, l’offerta culturale e l’artigianato locale», spiega. Una cosa è certa: il golfista, secondo i dati di una ricerca condotta
da Protiviti in collaborazione con la F.I.G.
spende circa il doppio di un turista tradizionale. E ama spostarsi sul territorio e giocare sui campi a poca distanza: «Nel golf la
concorrenza non esiste, anzi: le nuove aperture creano un circuito e favoriscono l’afflusso anche in quelle preesistenti», sottolinea Chimenti.
Sono cinque oggi in Sicilia i campi attivi,
tutti ubicati in aree diverse. Ma altri due
stanno sorgendo, precisa Salvatore Leonardi, delegato regionale della F.I.G: «Entrambi nel comprensorio tra Taormina, Catania e Siracusa, con distanze tra i 30 minuti
e poco più di un’ora di percorrenza stradale. Assieme al Picciolo e ai Monasteri, posti alle pendici dell’Etna, a breve potranno
diventare un circuito golfistico di tutto rispetto». Parallelamente sono nate iniziative per «fare sistema», come il consorzio Sicily Golf Destination che raggruppa i cam-
pi esistenti per promuovere la Sicilia come
meta golfistica internazionale: «Attraverso
workshop, la comunicazione presso fiere
all’estero, eventi: il prossimo nel 2014, un
torneo sui green italiani con finale in Sicilia», spiega Leonardi.
Certo, le attrattive dei singoli campi sono
al primo posto, ma per tutti vale la possibilità di poterli frequentare in ogni stagione:
«D’estate l’ubicazione a 650 metri di quota
e la vicinanza con il mare mitigano il clima. D’inverno, grazie al terreno vulcanico,
il percorso non gela e il gioco è sempre piacevole», spiega Giuseppe Leonardi, presidente del Picciolo, 18 buche tra noccioleti
e vigneti con vista sull’Etna, primo campo
nato in Sicilia nel 1989. Un valore, questo,
soprattutto per gli stranieri, giocatori e in-
vestitori, come dimostrano due delle ultime aperture in terra siciliana, nel 2010 — il
Donnafugata Golf Resort e il Verdura Golf
& Spa Resort — entrambe di gruppi alberghieri esteri. «La scelta nasce da una delle
nostre società, specializzata in resort golfistici, che ha individuato la Sicilia come regione a elevato potenziale. E il Ragusano
in particolare», spiega Marco De Rossi, ad
del Donnafugata, gestito dagli spagnoli di
NH Hoteles, 36 buche tra olivi e carrubi e
una struttura con un nucleo ricavato da
un vecchio borgo. Certo, bellezza e
tecnicità dei campi sono l’attrattiva principale ma si punta anche sulla valorizzazione del comprensorio: «Ai clienti diamo
una guida con 101 cose da fare, dalla visita
alle cantine alla scoperta del barocco di
Senza handicap
A sinistra, un golfista
sul green del Golf
Club Villa Airoldi;
in alto, una vista
del Picciolo, primo
campo nato in
Sicilia: 18 buche
tra noccioleti e
vigneti. Sopra,
un concorrente
impegnato nel
torneo
internazionale
Sicilia Open senior
Noto. Senza dimenticare la spiaggia: la
prossima stagione avremo la nostra, in
un’oasi naturale a pochi minuti dal resort». Il mare, un valore anche nel gioco,
come sottolinea Luca Nardi, presidente
del golf al Verdura (gruppo Rocco Forte
Hotel), ben 3 campi a bordo acqua alle porte di Sciacca: «Non è un semplice affaccio
ma fa parte degli ostacoli naturali. Un contesto spettacolare, tra gli elementi forti per
cui siamo scelti per le finali dei più importanti trofei internazionali». Turisti giocatori ma anche famiglie: «Un 30 per cento sono golfisti, il resto viene per la ricercatezza
della struttura, la Spa, la cura dei ristoranti. Molti stranieri, tedeschi, francesi ma anche svedesi, svizzeri e austriaci».
Se il Verdura può beneficiare dello scalo internazionale di Palermo, la criticità dei collegamenti è oggi il vincolo più forte all’incremento del turismo golfistico: «L’apertura dell’aeroporto di Comiso per noi farà la
differenza. Al momento i voli sono da Roma, Bruxelles e Londra, aspettiamo Milano e Francoforte», dice De Rossi del Donnafugata. Mentre il Villa Airoldi punta sui
crocieristi inglesi e tedeschi: «Navi piccole,
un turismo invernale. Siamo a 5 minuti dal
porto, è facile concedersi un paio d’ore sui
green», dice Trupiano che però punta anche sui palermitani: «Abbonamenti combinati con tre palestre e il circolo nautico
Compagnia della Vela, nella riserva marina di Capo Gallo. Siamo partiti nel 2009
con 50 soci, oggi ne abbiamo 200». Turismo e non solo: in Sicilia la pallina va in
buca anche «oltre» il green.
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SICILY BY CAR COMPIE CINQUANT’ANNI
Le nozze d’oro dell’autonoleggio «low cost»
Dragotto: «Crescere senza abbandonare questa terra». La carta delle tariffe concorrenziali
di Alessio Ribaudo
cruta il mare dell’economia italiana ma ancorato saldamente alla
sua terra: la Sicilia. Tommaso Dragotto, fondatore di Auto Europa — Sicily
by car che quest’anno compie 50 anni, è
da sempre un uomo di mare. Dopo il diploma di capitano di lungo corso macchinista, intraprende la carriera di ufficiale nella marina mercantile. Il «battesimo
del mare» avviene con un imbarco da 14
mesi consecutivi.
«Poche ore prima dello sbarco definitivo, il comandante della nave mi salutò affettuosamente e mi disse che mi attendeva per il prossimo viaggio — racconta
Dragotto, 75enne dal fisico asciutto e
sportivo — ma io risposi che non mi
avrebbe visto più perché non ero adatto
a ricevere ordini ma ero bravo solo a darli». Una scelta coraggiosa quella di rinun-
S
ciare a una prospettiva di carriera brillante e ben remunerata. «Scesi dalla nave
con più di 2 milioni di lire in tasca (circa
50 mila euro di oggi. ndr) — ricorda — e
piuttosto che godermeli pensai ad aprire
un negozio di autonoleggio. Così, nel
1963, fondai la mia azienda con cinque
dipendenti e una sola 1300 amaranto
usata, targata PA94582».
Una sorta di amuleto come il cent di zio
Paperone. «La conservo ancora quell’automobile — dice divertito il presidente
— malgrado oggi abbia 14 mila auto in
azienda». Risultati maturati in 50 anni di
lavoro vissuti con entusiasmo servito anche a superare la distanza dalle grandi
aziende e dai grandi scali del Nord. «Sono caparbio e nel 1980 le auto in parco
erano diventate 800 — ricorda Dragotto
— ed erano dislocate in tutta la Sicilia.
Fondatore Tommaso Dragotto, titolare
della società di autonoleggio Sicily by
car, che può contare su un parco-auto
di 14 mila vetture
Così decisi che era ora di sfidare i colossi
dell’autonoleggio nel resto del Paese e
aprii uffici ovunque con il marchio Italy
by car». Una bella sfida vista l’imponenza delle flotte delle multinazionali del settore. «Le scommesse non mi hanno mai
spaventato e io se sono convinto divento
un kamikaze — spiega — e sino al 1997
ho proseguito quell’avventura ma poi decisi di tornare al mio vecchio amore della Sicily by Car. Ripartendo con la grinta
di sempre». Una scelta dettata dal cuore
più che dalla logica imprenditoriale.
«Non si può abbandonare questa terra
— dice — e delle difficoltà geografiche
me ne frego. La tecnologia oggi aiuta e
dalla mia sede di Villagrazia di Carini, a
un passo dall’aeroporto palermitano
"Falcone e Borsellino", possiamo gestire
in modo eccellente un’azienda con un
fatturato annuo che sfiora i 100 milioni
di euro e i 500 dipendenti in tutta Italia».
Dragotto ha fatto delle tariffe concorrenziali la sua filosofia imprenditoriale. «Siamo i low cost per eccellenza — analizza
— ma senza rinunciare all’alta qualità
dei servizi, a un parco auto di prim’ordine». La Sicily by Car è una società composta da molti giovani. «Amo il loro entusiasmo e do loro la massima fiducia e
Un fatturato annuo
che sfiora i 100
milioni di euro
e 500 dipendenti
per questo motivo — prosegue — sto per
formalizzare con il rettore dell’Un iversità di Palermo cinque borse di studio per
giovani talentuosi. A chi mi chiede consiglio, dico di viaggiare, imparare le lingue, acquisire competenze ma poi li invito a tornare nella nostra terra, perché torni allo splendore di un tempo con il loro
contributo».
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Ferribbotte Sicula traduzione di Ferryboat: traghetto per far capire che
siamo isola tra Europa e Africa, staccati dal continente italiano. Ricordate
«uora uora arrivau u ferribbotte»? Dichiara l’inesistenza in siciliano del passato
prossimo sostituito dal passato remoto. Pure per indicare fatti accaduti un
attimo prima. Per i siciliani fugit inreparabile tempus e ciò che è successo un
attimo fa è già passato. Tomasi di Lampedusa disse che i siciliani sono «dei,
signori del tempo, senza passato prossimo e senza futuro». Sono padroni del
loro presente? Non sempre. Fu la 'nciuria di Tiberio Murgia ne «I soliti ignoti».
Restò attaccata a lui che era sardo.
La letteratura
DA RACALMUTO A PORTO EMPEDOCLE
Quei trenta chilometri di scrittura
Un progetto regionale per valorizzare la strada dei grandi romanzieri siciliani
di Felice Cavallaro
Montalbano
oppure Bellodi
Ai luoghi
sacri di
Pirandello si
affiancano la
passeggiata
di Camilleri,
la marina
di Vigata
e la Scala
dei Turchi.
Il progetto
prevede
visite
culturali
e incursioni
nella cucina
locale,
ma anche
spettacoli
teatrali
e musicali
hanno denominata la «Strada degli scrittori» per richiamare l’attenzione sui trenta chilometri
che vanno da Racalmuto a Porto Empedocle, passando per Agrigento, toccando, oltre i Templi e il giardino della Kolymbetra,
le case natali, i luoghi frequentati, le strade e le statue, i castelli e i teatri amati da
Sciascia, Pirandello e Camilleri. Perché
qui sono nati lo scrittore che sfondò il muro della mafia in letteratura con Il giorno
della civetta e l’ironico drammaturgo di
Uno, nessuno e centomila . E qui può capitare di incrociare l’autore del Commissario Montalbano per una granita al bar Vigata.
Trenta chilometri dove arricchire l’anima,
divertirsi e mangiare bene, stando al progetto che diventa occasione culturale e allettante proposta di viaggio. Un’idea rafforzata a metà settembre da un primo tavolo tecnico aperto con operatori locali
nel paese di Sciascia, nelle sale del Castello Chiaramontano, da cinque assessori
del governo Crocetta: Michela Stancheris
(Turismo), Mariarita Sgarlata (Beni culturali), Mariella Lo Bello (Territorio), Nelly
Scilabra (Formazione), Linda Vancheri
(Attività produttive).
Cinque donne determinate nel condividere un percorso zeppo di soste in cui trasformare gli interessi culturali in attrazione, occasione di riflessione, relax, piacere.
Con gruppi di giovani chiamati a scortare
il turista dall’«eden» di Contrada Noce,
cinque minuti da Racalmuto, fra i vigneti
e i pini dove Sciascia scrisse gli ultimi libri,
alla Scala dei Turchi, la meraviglia di marna bianca che degrada sul mare turchino
esaltato da Pirandello. Appunto, i trenta
chilometri di un tratto che per Michela
Stancheris, l’assessore arrivato da Bergamo, «diventerà il nostro cammino di Santiago».
Un’immagine pragmatica perché cultura
e turismo producano lavoro non assistito
in attività produttive, trattorie, artigianato, alberghi e B&B, filiera agroalimentare
e così via, moltiplicando i (pochissimi)
700 mila visitatori della Valle dei Templi,
spesso ignari delle occasioni offerte tutt’intorno. Come spiega il presidente dell’Assemblea regionale Giovani Ardizzone che
con Francesco Forgione, il neodirettore
dell’ente culturale di Palazzo dei Normanni, la Fondazione Federico II, crede nel
progetto di «biglietteria unica» perché il
turista possa scegliere e decidere con un
Sciascia, biblioteca e pinacoteca con vista
mozzafiato su tetti, miniere e parrocchie
di Regalpetra. Qui è atteso Bray. E da qui
può cominciare il viaggio suggerito a intere scolaresche, ai cultori degli scrittori, a
chi vuole addentrarsi in un dedalo letterario scoprendo i luoghi dei romanzi, i film,
le rappresentazioni teatrali, le trattorie, i
circoli, i personaggi raccontati, i «carusi» e
gli amici che hanno conosciuto i tre autori.
Un gioiello dell’Ottocento il Teatro comunale in cui Sciascia mise in scena una prima opera, il Circolo Unione dove si custodisce la sua poltrona, la stessa tomba in
cui è sepolto, il Castello Chiaramontano,
il Castelluccio, la miniera di sale legata alle cronache delle «Parrocchie», i proprietari pronti ad aprirne un tratto per i turisti,
uno spettacolo, 60 chilometri di bianche
gallerie in cui i camion corrono notte e
giorno fino a mille metri di profondità.
Uno stimolo per confrontare le cronache
sui «carusi» e la vita dei tecnici oggi al lavoro. Tutte mete da aggiungere all’oasi verde di Contrada Noce, il luogo più strettamente legato al ricordo di Sciascia, il suo
buen retiro dove scrisse romanzi e pamphlet, saggi e articoli. Un percorso unico che,
L’
L’assessore Michela
Stancheris annuncia:
«Diventerà il nostro
cammino di Santiago»
Nel tragitto culturale
i luoghi amati da
Sciascia, Pirandello,
Camilleri e le loro case
click online di visitare i Templi e le tappe
della «Strada degli scrittori».
Di qui l’interesse di imprenditori come
Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di
Confindustria Sicilia, dei sindaci di Agrigento e Porto Empedocle, Marco Zambuto e Lillo Firetto, dei comuni vicini, da
Grotte a Canicattì, tutti al tavolo con le assessore di Crocetta per tradurre gli spunti
in un piano da definire a fine ottobre con
il ministro dei Beni culturali Massimo
Bray, pronto a fare sua l’iniziativa, deciso
a indicare quest’area per un progetto pilota in cui coinvolgere istituzioni culturali,
università, scuole.
Appuntamento nella sede della vecchia
centrale Enel di Racalmuto, svuotata dalle
turbine e trasformata nella Fondazione
per una fortunata coincidenza, sarà sempre più facile raggiungere perché sulla
«Strada degli scrittori» si lavora al raddoppio. Buona notizia per autisti, guide, interpreti, un indotto di piccoli e grandi operatori, tutti chiamati ad accompagnare il turista fino al «giardino degli dei», come i volontari del Fai chiamano i bucolici sentieri
della Kolymbetra, al Kaos con la casa natale di Pirandello, al mare con la restaurata
Torre di Carlo V. E, ancora, la passeggiata
di Camilleri, la marina di Vigata, la Scala
dei Turchi, gustando piatti e cibi del Commissario Montalbano o del Capitano Bellodi. Ogni sera assistendo a rappresentazioni teatrali, concerti, film tratti da un
pezzo di Sicilia che è romanzo.
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L’AVANGUARDIA DELL’EDITORIA
I «nipoti» di Sellerio guardano all’Europa
Se :duepunti pubblica Foucault, nel catalogo di rueBallu spicca Brook
di Ida Bozzi
na grande vivacità di iniziative innovative insieme a una
ricchezza intellettuale profonda e secolare, che guarda all’Europa:
è la «cultura amena», come la definì
Leonardo Sciascia, che ci sembra ispirare l’editoria siciliana, specialmente
negli ultimi anni e spesso in linea con
manifestazioni di impegno civile.
Il faro dell’editoria sicula, per vari motivi esempio virtuoso per la gran parte dei piccoli e medi editori d’Italia, è
certamente Sellerio. La creatura di Elvira Giorgianni ed Enzo Sellerio nasce nel 1969 con l’ispirazione di due
intellettuali come l’antropologo Antonino Buttitta e appunto Sciascia, e da
subito costituisce un esempio di proposta di narrativa «alta» ma non per
questo meno dilettevole: pubblica lo
U
stesso Sciascia, Gesualdo Bufalino,
Antonio Tabucchi, e con i libretti blu
della collana «Memoria» celebra appunto la propria vocazione colta ma
anche «amena», sancita dal lancio di
autori come Lucarelli, Camilleri, Marco Malvaldi, e degli stranieri Manuel
Vázquez Montalbán, Margaret Doody o Alicia Giménez-Bartlett.
L’editoria siciliana più interessante si
caratterizza comunque per la sua
apertura al grande pensiero internazionale, e alle riflessioni all’avanguardia nei campi della letteratura, dell’estetica e dell’intreccio tra le diverse
discipline: ad esempio, nata a Palermo nel 2004, :duepunti edizioni si richiama apertamente all’identità culturale europea e pubblica testi di Michel Foucault o di Jean-Marie Gusta-
ve Le Clézio (prima del Nobel), e testi
di saggisti e critici come Yves Citton,
Andrea Cortellessa, Domenico Scarpa. Non disdegna opere non meno
impegnate, ma più lievi, come la narrativa della collana «Zoo — Scritture
animali» diretta da Giorgio Vasta, in
cui gli scrittori italiani, da Genna a
Mozzi, propongono racconti dedicati
a un bestiario letterario vero o fantastico di gatti, cani, ragni e cammelli.
E si sta rivolgendo al digitale.
Ancora con un respiro internazionale, dedicato stavolta alle Muse, anzi alla Musica, il catalogo della palermitana rueBallu Edizioni, che pubblica volumi dedicati a Yehudi Menuhin, Celia Cruz, Lili Boulanger, Francis Jammes, Peter Brook, con prefatori come
Manlio Sgalambro e Moni Ovadia:
Indipendenti Un momento della rassegna «Una marina di libri» 2013 a Palermo
l’intento è anche divulgativo della cultura artistica, come dimostra la collana «Jeunesse ottopiù», dedicata ai ragazzi, e che pubblica il volume L’ultima Fuga di Bach di Chiara Carminati, Premio Andersen 2012.
Apertura verso l’Europa ma con radicamento nel Mediterraneo: un luogo
di scambi e di culture che da metafora diventa realtà nel festival letterario
«Una marina di libri», prima fiera del-
l’editoria indipendente a Palermo,
promosso proprio da un editore, Navarra edizioni, nato prima a Marsala
e poi a Palermo. Con un catalogo di
impegno civile e sociale, propone il
saggio di Concetto Prestifilippo sulle
Parole contro il potere di Vincenzo
Consolo, accanto al memoriale Passaggio di testimone. Undici giornalisti
uccisi dalla mafia e dal terrorismo .
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Fistinu È il momento più alto della vita palermitana. Un immenso ex voto
popolare per santa Rosalia la Santuzza; per grazia ricevuta. Fu lei a salvare
i palermitani sopravvissuti alla peste del 1624. Quasi ventimila morti senza
che si trovasse un rimedio. Morì pure il viceré Emanuele Filiberto di Savoia
e fu segno del Cielo! Si ritrovarono delle ossa in cima al Monte Pellegrino
e cessò la peste: certo, dovevano essere quelle di Rosalia. Ed esplose la
festa fatta di luci, di caldo, di colori, di sfarzo e di grandi abbuffate per strada.
Una grande festa barocca per ricordare a tutti la dignità regale della città.
Quella santa è ancora la grande speranza.
L’escursione
IN CIMA ALL’ETNA
I respiri segreti
della «muntagna»
Il fascino di un’ascesa tra sbuffi
di fuoco, fumarole e «fantasmi»
di Roberta Scorranese
Sopra
il vulcano
Presenza
familiare
e imponente,
rumorosa
e umorale.
Scandisce
i ritmi
della zona,
muta il suo
paesaggio:
ecco perché
i siciliani
amano
questa vetta
è qualcosa di profondamente irrazionale in questa collina che,
poco alla volta, ha rinunciato al
suo verde e si è lasciata rivestire di spessa lava nera rappresa; o negli sparuti
greggi di pecore che hanno imparato a
mangiare le spine dell’astragalo, fiore
d’altura vulcanica; c’è qualcosa di irrazionale negli uomini e nelle donne che
abitano le pendici, usi a convivere con
«la voce» del vulcano, quel brontolio cupo e lontanissimo, simile al lamento di
un vecchio parente da tempo recluso
nella sua stanza. E non è razionale lo
scheletro dell’albergo sommerso dalla
furia lavica del 2002, lasciato lì sotto, con
il tetto ancora integro che sbuca dalla
terra nera; o il cimitero di rami morti,
bianchissimi, adagiati sul fondovalle come geroglifici vegetali fossilizzati.
Ma i resti di vita travolta che punteggiano qua e là la montagna dell’Etna non
hanno l’aspetto severo dei moniti: sono
piuttosto parte del paesaggio, l’estensione naturale di un ecosistema che muta
al mutare del vulcano, che cresce con le
sue vite, che si rinnova dopo ogni eruzione. «Lui sta là», dice semplicemente Ugo
Esposito, una delle guide vulcanologiche più conosciute. «Lui» è «a’ muntagna», come qui chiamano l’Etna. Presenza familiare e imponente, rumorosa e
umorale; forse più vicina ai suoi trascorsi mitologici che al suo presente reale.
Mano a mano che ci si inerpica sul versante nord, infatti, la montagna si annera cupa e, all’alba, filtra bagliori rossastri. Sembra l’antro di Efesto, rumoroso
per i colpi dei Ciclopi che, secondo Omero, dentro l’Etna forgiavano le saette di
Giove. Ai fianchi della strada, distese immense di lava sedimentata, stratificata
da anni, ricoperta di sabbia color antrace, residui di lapilli. Un mondo bruno
che, all’improvviso, si illumina di decine
di cuscini di fiori giallo vivo, come un
mare nero punteggiato da tante ninfee
di Monet. «Pensare che ad appena quin-
C’
L’IDENTIKIT
Morfologia
L’Etna, il più alto
vulcano attivo
d’Europa, domina la
provincia di Catania
con i suoi 135 km di
perimetro e i 3.340 m
di altezza. È costituito
dal Cratere centrale
(Voragine e Bocca
Nuova), dal cratere di
Nord-Est (1911) e dal
cratere di Sud-Est (’71)
Storia
L’Etna si è formato nel
periodo Quaternario,
600 mila anni fa.
L’eruzione più lunga
a memoria storica è
quella del luglio 1614:
dieci anni. L’ultima
attività molto intensa
risale al 2002, quando
il magma arrivò fino a
molti paesi della fascia
orientale della provincia
catanese, come
Zafferana Etnea
e Santa Venerina
Escursioni e sport
Ci sono percorsi
d’accesso sia da
Nord-Est che da Sud.
Importante la scelta
della guida per gli
itinerari più arditi
sui crateri sommitali.
Per chi fa trekking, sul
sito guidetnanord.com
ci sono dei consigli. Per
piste e impianti sciistici
si può consultare
il sito etnasci.it
o funiviaetna.com
dici chilometri da qui c’è il mare — dice
Esposito — e, a valle, il parco dell’Etna,
con la sua roverella e i suoi larici».
Ma «a’ muntagna» rimarca, passo dopo
passo, la sua decisione di bastare a se
stessa e ammette una vegetazione selezionata: la saponaria, per esempio, un
delicatissimo fiore color lavanda stinta;
o i licheni frondosi, che furono tra i primi ad avere l’ardire di colonizzare un
suolo lavico. Si sale a piedi verso il Cratere di nord est, che supera i tremila metri
d’altezza, seguendo il suono della pancia del vulcano, un rumore appena percettibile mentre fende l’aria e ricorda, a
tratti, il lamento di Didon e abbandonata (che Virgilio fece vivere qui).
Poi si cambia. Ad un certo punto il paesaggio nero lascia il posto a una distesa
lunare, argentata. La sabbia lavica mista
agli ossidi improvvisa uno scenario alla
Georges Méliès, interrotto solo, a tratti,
da «isole» floreali color miele. La piana
delle Concazze si snoda in una serie di
fosse che negli anni il vulcano ha disegnato seguendo chissà quale fantasia geologica. Così come si può attraversare la
Bottoniera, una fila di venticinque crateri formatisi durante l’eruzione del 2002,
quelli che hanno distrutto Piano Provenzana. Ma i catanesi stanno attenti alle parole e non amano che si parli di «distruzione» quando si fa riferimento all’attività del vulcano. Per loro, l’Etna sta semplicemente «parlando», sta modificando il
paesaggio che poi riprenderà a vivere a
suo tempo. L’eruzione è uno dei tanti cicli vitali.
E, soprattutto, questa terra va condivisa
con «lui», con «a’ muntagna».
Ecco perché, proseguendo nella salita,
non si distingue più ciò che è razionale e
ciò che appare incredibile e ci si abitua
anche a questa distesa di pietre grigio-rosa, sassi che i minerali della montagna si
sono divertiti a dipingere con tonalità pastello. Vicini al cratere detto Bocca Nuova (del 1968) si possono incontrare le
«bombe» vulcaniche, «gocce» di roccia
ardente alle quali l’improvviso raffreddamento ha donato un leggero aspetto
bombato, levigato. Pietre ovunque e di
colori che avrebbero sedotto persino
Empedocle, il filosofo che, si dice, sia
morto cadendo nel cratere nel V secolo
e qui, da questa altezza variegata, ci si
crede. Si può credere a tutto mentre si
lambisce il bordo del cratere con le sue
fumarole (sospiri gassosi) e l’aria si fa
solforosa. Si tossisce ma ci si sforza a tenere gli occhi aperti perché quello che si
para davanti adesso è un pascolo marziano: una distesa verdastra con pietre
rosa. È lo zolfo, concime per un terreno
che sì, sarà pronto tra duecento anni,
ma che importa? Il Cratere centrale si al-
SEI LUOGHI DA SCOPRIRE
MAZARA DEL VALLO
MODICA
PANTALICA
Il Satiro beffardo
che incanta
il mondo intero
Ecco il museo
che celebra
la civiltà contadina
Itinerari in bici
tra gli oliveti
e antiche tombe
I
capelli agitati dal pathos della danza orgiastica; il corpo inarcato all’indietro,
flesso sul fianco destro, scomposto
dall’ebbrezza di una forza innaturale. È
un incontro ravvicinato con l’estasi quello
che promette la visita al «Satiro danzante» (nella foto), il capolavoro attribuito a
Prassitele, lo scultore vissuto ad Atene
tra il 375 e il 330 a.C., artista devoto a Dioniso, dio greco delle orge e del vino. Niente a che vedere con l’energia dei Bronzi
di Riace, guerrieri in posa, statici testimoni della loro atletica presenza. O con la
composta e imponente bellezza del Giovinetto di Mozia : la mitica statua bronzea
conservata nel museo del Satiro Danzante di Mazara del Vallo (Chiesa di Sant’Egidio, piazza Plebiscito) ha orecchie diaboliche a punta, un foro destinato all’attacco
di una coda equina e danza.
Danza disubbidendo alle leggi della
gravità, sforbiciando le gambe e liberandosi nell’aria a braccia spalancate, i capelli disordinati e divisi a ciocche,
un’espressione inquietante e beffarda.
Satirica, appunto. Ironico, il suo destino:
dopo più di 2000 anni è riemerso dagli
abissi del Mediterraneo ripescato dalle reti di un peschereccio. Oggi manda in estasi il mondo intero.
È
un viaggio nella memoria contadina quello all’interno del Museo delle arti e tradizioni popolari di Modica (nella foto). Visitarlo, significa capire
che cos’è una masseria: non solo una casa rurale, ma il centro del lavoro agricolo e
delle attività artigianali. Una casa di campagna, dunque, con un bagghiu (atrio),
una carrittaria (per il ricovero dei carretti),
a stadda (la stalla), a casa ri manira (la cucina rustica), a casa ri stari (l’ambiente da
abitare) e a stanza ro travagghiu, per i lavori di tessitura. E poi le botteghe, quella dello scarparu (calzolaio), nel cui banco si trovano scarpine e scarponi, e del firraru-fer-
raschecchi, il fabbro in grado di forgiare il
ferro e di trasformarsi in maniscalco.
Altre botteghe? Quelle del cannizzaru,
il lavoratore della canna, abile tessitore di
cesti e gerle, e del milàru, il mielaio apicoltore. Non può mancare, in questa straordinaria ricostruzione della vita contadina, il
regno del durcieri, maestro nella preparazione della cioccolata modicana, che oggi si ritrova alla Casa Don Puglisi (fate un
salto al laboratorio in Largo XI Febbraio,
15). E se amate impastare il pane in casa,
tappa al Molino Giorgio Roccasalva (via
Marchesa Tedeschi 119) per ceci e fava
secca cottoia.
C
ome le celle di un alveare, Pantalica, l’antichissima Hybla, ha nel
ventre 5000 tombe scavate nel tufo (nella foto) che si stagliano sul fiume
Anapo delineando suggestivi scorci naturalistici. È uno dei luoghi più interessanti
dei monti Iblei: una necropoli dell’età del
bronzo e del ferro (cioè tra il XIII e l’VIII sec.
a.C.) e il più grande complesso tombale
della Sicilia. Sono rovine megalitiche, Patrimonio Unesco, con i ruderi dell’Anaktoron, il palazzo del Principe e le tracce delle capanne circolari dove abitavano i sudditi, esponenti di una cultura isolana capace di forgiare metalli e produrre al tornio
raffinati vasi in argilla rossa (affidatevi alle
guide dell’Ente Fauna Siciliana).
Vi si arriva dal paesotto di Sortino, alle
spalle di Siracusa. Il mare è vicino (le
spiagge bianche e le acque cristalline di
Vendicari sono un’oasi di pace) ma quella
dei monti Iblei è una Sicilia diversa: terra
sassosa, campagne rigate dai muretti a
secco, oliveti e maestosi alberi di carrubo
che guardano il Mediterraneo. E poi, all’improvviso, l’altopiano. Abbondano itinerari per la bici e lo scarpone. Il consiglio è
di arrivarci dopo aver letto «Le pietre di
Pantalica» di Vincenzo Consolo, struggente metafora del cammino dell’uomo.
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Fitùsu Sta per puzzolente, lercio, sudicio, fetente. Fu la massima ingiuria tra
gente per bene; si poteva anche pronunciare in casa senza tema di beccarsi
uno schiaffone. Oggi fa ridere e si usa quando si vuole scimmiottare la parlata
siciliana al cinema o alla tivvù. Ci giunge dal latino phoetora. E pensare che
la Santa Chiesa disse dei Normanni che erano «phoetora et stercora mundi».
Non a torto, giacché quei guerrieri violentavano, rubavano, uccidevano,
davano alle fiamme città e villaggi. Poi, a Sicilia conquistata, finì per
concedere loro la Apostolica Legatia, cioè il diritto di nomina dei vescovi
nel loro regno. Eh, la politica sempre cosa fitusa fu...
IL SUD-EST SICILIANO
Così Siracusa
sfida l’Europa
Candidata con il Sud Est
a Capitale della Cultura
di Fausta Chiesa
Manifesto
Una barca
utilizzata dai
migranti,
arenata
sulle
spiagge. È
l’immagine
scelta per
Frontiere
d’Oriente
a valle. E, prima di arrivare al piazzale, si
para davanti una foresta bianchissima
di alberi morti, come fantasmi vegetali
che sopravvivono alle bocche di fuoco.
«Ecco — conclude Esposito — è il segno
che il vulcano non distrugge, ma cambia
il territorio. Noi cambiamo insieme a
lui. Noi siamo a’ muntagna».
na barca malandata, con scritte arabe sui fianchi, arenata su
una spiaggia infinita e deserta che si confonde tra cielo e mare. Con questa immagine evocativa degli sbarchi, Siracusa e
il Sud-Est della Sicilia hanno presentato al ministero dei Beni culturali italiano la candidatura a Capitale della Cultura Europea nel
2019. Assieme a Siracusa partecipano altri 18 Comuni che si trovano
nelle Province di Ragusa, di Catania e di Enna. Il tema scelto è Frontiera d’Oriente. «Si tratta di un tema fortemente legato al territorio —
spiega Alessio Lo Giudice, neoassessore alla Cultura del Comune di
Siracusa — perché il Sud-Est siciliano coincide con le coste interessate dagli sbarchi e rappresenta per gli immigrati la frontiera dell’Europa. Il progetto vuole interpretare culturalmente questo concetto in
senso positivo, guardando al presente ma anche al futuro. L’idea è
quella provocare l’Europa per farle capire che cosa succede nei luoghi in cui si presenta agli altri». «La frontiera si fa capitale» è lo slogan scelto. Il margine, per una volta, diventa centro.
Sono 17 le città italiane candidate, tra queste anche Palermo per cui
si prefigura un derby siciliano. Il responso arriverà l’anno prossimo.
Su quali progetti punta Siracusa per vincere? Il piano prevede un
programma culturale di oltre 130 progetti, ideati anche grazie alle
proposte di quanti hanno aderito alla campagna online del Comune
di Siracusa «Partecipa con la tua idea». Alcuni progetti sono il consolidamento di alcune iniziative già esistenti, come il Festival del Cinema di Frontiera di Marzamemi, le rappresentazioni classiche dell’Istituto nazionale Dramma Antico e la Biennale della Ceramica di
Caltagirone. «La novità — spiega Lo Giudice — è che ci mettiamo in
rete e li rappresentiamo all’interno di un'offerta culturale unica, declinata su un singolo tema». Così come si farà rete per proporre ulteriori eventi e manifestazioni internazionali, come il Premio Europa
per il Teatro che nel 2019 si svolgerà a Siracusa. E nella città di Archimede non poteva mancare un tributo al matematico che qui nacque
e morì nel III sec. a.C.: una mostra sui testi archimedei ospiterà un
codice di pergamena originale scritto nel X secolo a Costantinopoli.
«Il piano d’azione si muove su due ambiti — spiega ancora Lo Giudice, che ha anche la delega per le Infrastrutture —. Oltre a quello culturale c’è anche quello infrastrutturale: ci saranno progetti per rendere fruibili e accessibili i beni culturali e gli eventi, dalla riqualificazione del porto di Siracusa al finanziamento dell’autostrada per il tratto
che arriverà fino a Modica. «Anche Comiso aderisce all’iniziativa e
quindi gli aeroporti che intervengono nella candidatura sono due,
Catania e Comiso e non sono tante le candidate che possono mettere a disposizione due aeroporti», dice Lo Giudice. Settanta le personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e della scienza che
hanno voluto far parte del Comitato d’Onore. Fra questi diversi stranieri, tra cui Jonathan Mills direttore del Festival del Teatro di Edimburgo.
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U
Distese argentee si
alternano a foreste
bianchissime
di «alberi morti»
larga alla vista come una rumorosa promessa magmatica e vengono in mente
le parole di Adriano nelle celebri Memorie tracciate da Marguerite Yourcenar
«Stabilii di intraprendere l’ascensione di
quella montagna; passammo dalla regione delle vigne a quella della lava, poi della neve». Neve. Quella che capita di incontrare sotto le distese di sabbia lavica,
come delle bocche bianchissime che improvvisamente si aprono in uno scenario che mescola calore eterno e freddo
perenne, silenzio e voci dal sottosuolo.
Si corre giù per la discesa, verso l’Osservatorio Vulcanologico a Pizzi Deneri.
Poi si svolta e si può arrivare ai crateri
più recenti, come quello scavato nel
2002. Si costeggia il bordo e si ridiscende
a cura di Carlotta Lombardo
GINOSTRA
MADONIE
SANT’ANGELO MUXARO
Niente strade
Solo sentieri,
silenzio e fondali
Quelle vette
che incantarono
anche Goethe
L’antica capitale
Sicana ora brilla
come il presepe
A
lle spalle, il respiro del gigante; dinanzi, il mare aperto, capriccioso,
non di rado in tempesta. Tra acqua
e fuoco Ginostra, sul versante sud-occidentale di Stromboli, si avvista avvicinandosi all’isola da Lipari. Una manciata di case aggrappate al fianco del vulcano e un
porto, il Pertuso, piccolissimo (nella foto).
La luce elettrica, in questa perla delle Eolie, è storia recente, come pure l’attracco
per navi e aliscafi: per mettervi piede bisognava ricorrere al rollo, un traghetto a remi che faceva la spola dalle navi alla banchina.
Anche oggi a Ginostra, l’«isola nell’iso-
la», si arriva solo via mare: la Sciara del
Fuoco impedisce qualsiasi avvicinamento
via terra. Niente strade, ma scalinate e
sentieri che portano alle case in stile eoliano, con vecchi forni a cupola, cisterne,
palmeti e terrazzi. Non c’è molto da fare,
né di giorno né di sera. Qui si viene per
vedere il tramonto e per chiacchierare
con gli abitanti (una cinquantina e qualche
asino, unico mezzo di trasporto) cresciuti
sotto una pioggia di lapilli, con il vulcano a
ricordare che tutto può sparire in un attimo. E per godere del silenzio, immenso e
straniante. Oltre Punta Lazzaro grotte, anfratti e fondali tra i più belli d’Italia.
Q
uando Goethe arrivò nelle Madonie notò le «rocce di calcare tufaceo» e il trifoglio rosso. Europa e
Africa si ritrovano in questo territorio che
si estende dalla valle del fiume Pòllina all’Imera settentrionale a testimoniare come la Sicilia non fu solo un crocevia di
popoli ma anche della natura. Sono montagne di rara bellezza e di grande interesse botanico e geologico, tanto da meritare i vincoli di un parco naturale regionale:
le Madonie, che ora s’alzano in pizzi acuminati, ora si distendono in verdi altipiani, il secondo massiccio montuoso siciliano dopo l’Etna.
La punta di Pizzo Carbonara s’innalza
fino a 1979 metri; attorno doline e inghiottitoi che hanno creato forme spettacolari tra cui la Grotta del Vecchiuzzo, a
Petralia Sottana. Il paesaggio è vario,
con piante rare (l’abete dei Nebrodi) e
inaspettati tesori d’arte, come la cappella di Sant’Anna a Castelbuono, un tripudio di puttini di stucco. O il trittico di scuola fiamminga nella chiesa Madre di Polizzi Generosa (nella foto), una delle cittadine più belle (insieme a Geraci), con case
e chiese distese su uno sperone proteso
sulla valle del fiume Imera. Suggestivi i
trekking con le guide del parco.
P
rima dei Greci, furono i Sicani a fornire alla Sicilia creatività e operosità. Il loro re fu il leggendario Kokalos; la capitale, una cittadella che oggi gli
studi identificano con Sant’Angelo Muxaro (nella foto). Ma la leggenda dice anche
che qui era Kamikos, la reggia del re che
ospitò Dedalo fuggiasco da Creta e che
qui fu assassinato il re Minosse, sepolto in
queste campagne di mandorli, ulivi e pistacchi a macchiare, oggi come allora, le
vaste terre dell’antica Sicania.
Si respira aria di mito arrivando a Sant’Angelo Muxaro, piccolo comune di
1500 anime appollaiato su una rupe sco-
scesa. Scendendo lungo la valle dei Platani a pochi chilometri dalla costa e lungo la
strada che da Agrigento si spinge nell’entroterra il borgo appare all’improvviso. Il
picco gessoso è disseminato di tombe sicane e grotte scavate sui fianchi della collina come solo a Micene se ne vedono. La
più grande è la grotta di Sant’Angelo: una
camera circolare con volta a cupola di nove metri di diametro, testimone di un’antica necropoli. Cenate lungo la via a base
di muffoletti (panini rotondi) e ricotta di pecora che la storica Sagra del 6 gennaio celebra da 55 anni e aspettate la notte. Col
buio, la rupe si illumina come un presepe.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Fricandò - fricassè Fu piatto classico, importante, della cucina dei Monsù.
Quella dei Palazzi dove si parlava francese e spagnolo. È un brasato di vitello
steccato di lardo e prosciutto con tante erbe e aromi: fricandeau da frire et
casser, cioè friggere e spezzare. Il suo participio passato, fricassée, è riferito,
invece, a carni bianche o di volatili, tagliate a piccoli pezzi (spezzatino) stufate
con una squisita salsa di uova e succo di limone. Si faceva anche con
il delicato capretto, talvolta con l’agnellino da latte. In Belgio con lo stesso
nome s’intendono le uova al tegamino con pezzetti di lardo. Negli Stati Uniti
è soltanto una salsa… Mah!
La cultura
IL PRESIDENTE E IL RILANCIO DEL TEATRO DI PROSA
«Avanti, ma nel segno del passato»
Milazzo: la gloriosa tradizione dello Stabile di Catania per raccontare le nuove realtà
di Giuseppina Manin
Il dovere
dell’attualità
«Oggi ogni
frontiera è
costantemente valicata
Arroccarci
dietro trincee
identitarie
sarebbe
deleterio
La nostra
memoria
deve vivere
ma diventare
stimolo per
il presente
e il futuro»
«Q
uesto è il teatro di Mario Giusti e
di Turi Ferro. Il teatro di autori come Martoglio, Pirandello, Verga,
Musco, Brancati... Un teatro modello, che
esportava i suoi spettacoli nel mondo.
Questo era lo Stabile di Catania».
Nino Milazzo, intellettuale catanese capace di coniugare rigore morale ed eleganza
di modi, ricorda con emozione alcune delle figure che hanno percorso quella fucina
d’arte con storia gloriosa alle spalle e un
avvenire incerto davanti. Per questo Milazzo, giornalista di lungo corso, già vicedirettore del «Corriere della Sera» e condirettore de «La Sicilia», ha accettato la nomina a
presidente del Cda dell’Ente. «Per quella
pulsione morale comunemente nota come spirito di servizio — dice —. Una grande responsabilità che intendo onorare
con tutte le mie energie per cercare di ridare prestigio al nostro Stabile».
Il suo progetto di rinnovamento punta da
un lato a tener salda la grande tradizione
siciliana e dall’altro a spalancarsi al mondo. «Viviamo in tempi in cui ogni frontiera
è costantemente valicata. Arroccarci dietro assurde trincee identitarie sarebbe deleterio. La nostra memoria deve vivere ma
diventare stimolo per il presente e il futuro». Un’idea su come concretizzare tutto
ciò Milazzo ce l’ha già. «Penso a uno dei
grandi misteri del 900 che proprio qui affonda le sue radici: la scomparsa di Ettore
Majorana, geniale scienziato catanese, dissolto nel nulla alla vigilia della Seconda
guerra mondiale. Una vicenda dai molti risvolti problematici già oggetto di un bellissimo libro di Sciascia. Mi piacerebbe una
nuova rilettura per la scena, stimolo di riflessioni attualissime sul nucleare e le sue
IL RICORDO
Turi Ferro
(1921-2001) è
stato tra i maggiori
protagonisti della
scena teatrale
italiana, tra i
fondatori dello
Stabile di Catania
Vincenzo Cerami
(1940-2013),
è stato scrittore
e autore teatrale.
A lui lo Stabile
di Catania
dedicherà presto
un omaggio
In scena A sinistra, una foto
tratta da «Erano tutti miei figli»
prodotto dal Teatro Stabile di
Catania (foto Antonio Parrinello).
In alto, Nino Milazzo (1930),
giornalista e attuale presidente
del Teatro Stabile di Catania
conseguenze. Si potrebbe coinvolgere anche l’università, organizzando in parallelo un seminario sul tema».
Perché il teatro si intreccia sempre con la
vita. «La crisi colpisce ovunque e in Italia
colpisce in primis la cultura», avverte
amaro ricordando i continui tagli ai contributi allo Stabile. Il recente, pur se lodevole, finanziamento straordinario di 200
mila euro deciso dal presidente della Regione Crocetta certo non basta. «I sacrifici
sono e saranno inevitabili, dovremo ridurre il numero delle produzioni ma mai la
qualità. Il teatro fa parte del nostro patrimonio culturale, risorsa prima di un nuovo sviluppo economico legato al turi-
smo». In ogni caso, tra gli obiettivi c’è il risanamento finanziario del teatro e l’obbligo alla parità di bilancio da inserire nello
statuto. Che Milazzo intende rinnovare
anche in un altro punto. «Sull’esempio
del Piccolo di Milano, penso sarebbe giusto separare le responsabilità amministrative da quelle artistiche». Due ruoli finora
convogliati su una sola persona, l’attuale
direttore Giuseppe Dipasquale.
Infine i rapporti con l’altro Ente cittadino,
il Teatro Massimo «Vincenzo Bellini». «La
crisi non risparmia nessuno, quindi sarebbero utili sinergie per entrambi i teatri. Le
convergenze virtuo se possono essere molte e magari consentirebbero di pensare a
nuovi progetti comuni. Per esempio, un
evento che faccia capo al simbolo primo
di Catania, l’Etna. Un parco naturale che
comprende 40 comuni. Da coinvolgere in
un festival capace di intrecciare drammaturgia e musica. Con le migliori risorse culturali della Sicilia, in testa Franco Battiato
e Manlio Sgalambro. Tutti a confrontarsi
con l’Etna e il suo mito, da Omero alla Fata Morgana». Tra tante idee, una già fissata a tempi ravvicinati: «Un omaggio a Vincenzo Cerami che a dicembre vedrà sul
nostro teatro a rendere omaggio alla sua
memoria il compositore Nicola Piovani. E
forse, chissà… Roberto Benigni».
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I NUOVI PROTAGONISTI DI UN’ARTE ANCORA VIVA
Noi, «cuntastorie» nell’era di Facebook
comunichiamo tutto, dai baci al calcio
Pugliares: «Sogno di fare l’Odissea in siciliano, la lingua che mi dà forza»
di Livia Grossi
ieni che ora te cunto un cunto... Fino a una quarantina
di anni fa le mie sere le passavo così, con i nonni che riunivano la
famiglia e raccontavano. E ogni volta la
magia si ripeteva, sul marciapiede davanti a casa, quelle sedie in cerchio diventavano le poltrone di un teatro dove
le storie, vere o inventate, si trasformavano in realtà». Domenico Pugliares, 46 anni, cuntastorie di Augusta (Catania), il
cunto ce l’ha nel sangue.
«V
Una tradizione antica dall’origine incerta (tra il 700-l’800) nata dalla necessità
di raccontare tutto ciò che bisognava sapere, una sorta di giornale detto a voce
che tra parole e respiri dal ritmo sincopato, narrava con ritmo incalzante epiche
battaglie cavalleresche, fatte di principesse, draghi e spade, ma anche pagine
di Storia, dall’Unità d’Italia alle imprese
del bandito Giuliano.
Un’importante eredità narrativa che il
grande puparo Mimmo Cuticchio dalle
Palcoscenici trasversali
In alto,a destra Domenico Pugliares
in «Uora ve lo cunto, ovvero il re Topo
fa alla guerra»; sopra, Davide Enia
(foto Gianluca Moro) e a sinistra
Tindaro Granata, il più giovane
(classe 1978) che, con lo spettacolo
«Antropolaroid» ha vinto il Premio
della Critica 2011
strade ha portato in teatro. Dopo di lui
Gaetano Lo Monaco Celano, Salvo Piparo, Vincenzo Pirrotta, Enzo Mancuso,
ed ora una nuova generazione di attori,
pronti a raccontare il nostro tempo. Altri cunti, altre storie. «Il calcio, questa è
l’epica di oggi, dai Pupi al pallone», dichiara Davide Enia (39 enne di Palermo), autore e interprete del vorticoso
«Italia-Brasile 3 a 2», in cui i calciatori
della gloriosa partita del 1982 diventano
moderni paladini.
Ogni scena un respiro, fino all’apice dell’azione, il corpo detta il ritmo. «Il cunto
è la traduzione fisica di un’emozione, di
un pensiero» sottolinea Enia, «con questa tecnica si può raccontare di tutto, dal
primo bacio, alla ricetta della caponata». L’attore pluripremiato per le sue
pièce («Maggio 43» e «Scanna»), si sta rivelando un talento anche sul fronte letterario; il suo primo romanzo «Così in Terra» (2012, ed. Dalai) — finalista al Premio Strega e Premio Selezione Bancarella — è stato venduto in 18 Paesi ancor
prima della sua uscita in Italia.
Racconti spezzati dal ritmo musicale, cadenze inventate, ma anche scioglilingua, filastrocche e ricordi della propria
infanzia. Se Domenico Pugliares è partito da qui per il suo primo monologo
«Uora ve lo cunto, ovvero il re Topo fa
alla guerra», metafora sulla stupidità dell’uomo raccontata da una tribù di ani-
mali domestici (coautore Renato Sarti),
nel suo secondo cunto è la realtà a diventare protagonista.
«6% Cca na vota era tutta campagna»,
l’autore pone al centro della vicenda, la
questione ambiente e salute. «Il petrolchimico siracusano ha causato la nascita di bambini con difetti congeniti allarmanti, nel 2000 erano il 5,6%». Un attore
apprezzato (a gennaio debutta al Piccolo Teatro di Milano con «Il Pantano» regia di Renato Sarti), che ama la sua terra.
«Il mio sogno è fare l’Odissea in siciliano, la lingua che mi dà la forza di improvvisare inventando ogni volta nuove
storie». A chiudere il trittico degli inno-
Dall’epica del pallone
di Enia alla corruzione
raccontata dal giovane
Tindaro Granata
vatori del cunto, Tindaro Granata, il più
giovane (classe 1978); uno straordinario
autodidatta che dopo il successo di «Antropolaroid», («Premio della Critica»
2011) dove, solo in scena e in dialetto,
dava vita a tutti personaggi della sua famiglia, torna ora sul palco con un nuovo
spettacolo.
Un altro cunto, un’altra storia, «Invidiatemi come io ho invidiato voi». «Questa
volta parto da un fatto di cronaca, un atto di pedofilia», spiega l’autore, «qui, la
bimba vittima della violenza diventa il
simbolo del nostro Paese stuprato dalla
disonestà». Un nuovo lavoro, altre modalità. «È un cunto a più voci, in italiano, con cinque personaggi che parlano
contemporaneamente, mescolando accenti diversi». Nuove frontiere del cunto
dunque, ma nell’era di Internet questa
antica tecnica che futuro può avere? «Facebook arriva in tutto il mondo, il cunto
a poche persone, ma la sua qualità di comunicazione è centomila volte più potente. Andrò dai Maestri a raffinare la
tecnica».
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Fuitina Istituzione matrimoniale tipicamente isolana. È spesso ratto
di minorenne non consenziente. Ma erano consenzienti i genitori e tanto
bastava: si evitavano le spese matrimoniali dall’abito al trattenimento.
I due giovani andavano presso parenti per 48 ore: tempo per far pensare
al «disonore». Poi c’era il matrimonio riparatore per la gioia di tutti. Il diminutivo
fa parte della buona usanza siciliana a minimizzare le cose: una strage
fu sempre un’ammazzatina, una tagliata di faccia con sfregio permanente
una firitina, una grandiosa festa un Fistinu. Ricordate «Matrimonio all’italiana»
di Pietro Germi? È un piccolo capolavoro di antropologia.
IL POLO CULTURALE VOLUTO DA FONDAZIONE SICILIA
Branciforte rinato
(nel segno di Gae)
La bellezza
offerta a tutti
«L’arte non è
un santo che
sta sull’altare
Se è invisibile
oppure se è
inavvicinabile non serve.
Adesso qui
l’assunto è:
la bellezza
viene offerta
a tutti»
Lo storico palazzo restaurato da Aulenti
di Roberto Puglisi
è un aneddoto che rappresenta bene la leggenda di Palazzo Branciforte, antica dimora palermitana disseppellita dalle macerie e restituita alla città, grazie a un’opera di mecenatismo che
ha coinvolto la compianta Gae Aulenti. La
storiella si sussurra tra le ali dell’edificio, riadattato come museo e centro di scambi culturali: al termine dell’esibizione nell’auditorium, alcuni musicisti «autoctoni» commentarono così: «Che meraviglia, che pulizia,
che grazia. Sembra quasi di stare a Helsinki
o a New York».
Parabola dal doppiofondo evidente. Si racconta lo stupore di chi ha visto fiorire l’armonia come un inatteso prodigio, nella capitale della mancanza di lavoro, dell’abbondanza di pattume. Si tratteggia, al tempo
stesso, una natura incline alla rassegnazione, l’incanto di chi scopre che un miracolo
si è appena manifestato a due passi. «È così
— spiega Gianni Puglisi, presidente della
Fondazione Sicilia, artefice del restauro del
luogo —. Noi palermitani siamo abituati alle cartoline del disastro. E quando ci capita
C’
una cosa buona tra i piedi, rimaniamo sorpresi».
Cos’è dunque Palazzo Branciforte? La trama è inscritta nell’almanacco delle buone
novelle siciliane. Questo palazzone nobiliare cinquecentesco regge la testimonianza
di un legame indissolubile tra Gae Aulenti
e i segmenti sopravvissuti di una decadenza rimessa a nuovo. Fu Gae (chiamata dalla Fondazione Sicilia e da Puglisi) a restaurare Palazzo Branciforte. Un intervento di
cucito più che di taglio, capace di rispettare
Contaminazioni
A destra, una parte
della collezione di
palazzo Branciforte
con le figure della
tradizione siciliana;
sotto, una statuetta
della collezione e, in
basso, preziose anfore
la memoria e di consegnare la struttura all’inaugurazione, il 23 maggio del 2012, alla
presenza di Giorgio Napolitano. Da allora
qui è nata una vivace attività di mostre, visite e percorsi. Ci sono tesori: collezioni archeologiche, maioliche, collezioni filateliche e numismatiche, sculture, biblioteca
che preserva circa cinquantamila volumi.
In chiave simbolica è una sinergia riuscita.
Anche nella Sicilia delle decalcomanie in
nero, paradigma dell’immobilismo, gli
eventi possono mutare il loro corso? «L’arte
non è un santo che sta sull’altare — commenta Gianni Puglisi — Se è invisibile o
inavvicinabile non serve. Lo spirito che ci
ha spinto alla missione per Palazzo Branciforte segue l'assunto. La bellezza viene offerta a tutti». E tutti come l’hanno accolta? Ennesimo sospiro. «Nel corso del primo anno
— puntualizza Puglisi — abbiamo registra-
to un buon numero di visitatori, 20 mila circa. Poi, le medie sono scese. Forse, qui, ma
non solo qui, piace ciò che è gratis. La nostra idea è ambiziosa. Costruire un’identità
contaminata tra innovazione e prospettiva
storica». La mano di Aulenti ha aggiunto e
sistemato, senza smembrare, con delicatezza e precisione. Palazzo Branciforte ha un
cuore di legno: il residuo del Monte dei Pegni di Santa Rosalia che per una lunghissima stagione ebbe sede nella dimora.
Passeggiando nel labirinto tra gli scaffali, i
palchetti, i ballatoi, ci si lascia suggestionare dalle biografie probabili delle anime che
si susseguirono in processione per lasciare
un oggetto familiare. Palazzo Branciforte:
una macchina del tempo, agghindata di tecnologia, nascosta nel ventre di una città dall’attenzione intermittente.
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IL FESTIVAL DI SAN VITO LO CAPO
I RESTAURATORI DELLA VAL DI NOTO
Il cous-cous
cibo che unisce
Pietra su pietra
riaffiora il bello
di Luca Bergamin
di Ivana Zambianchi
zie usate - è sortito così un senso di fratellanza e di accoglienza che soltanto qualche chilometro di terra o miglia di acqua
più avanti pare una chimera.
Forse perché impastato da tante mani contemporaneamente,
accompagnato dai canti delle
donne che mentre sminuzzano
e appallottolano la pasta indossano gli abiti tradizionali durante la lunga fase di preparazione,
anche solo cucinarlo il seksu diventa un momento di scambio.
Il suo significato di piatto dell’unione e dell’apertura è rafforzato in
questa edizione dalla partecipazione alla competizione per
la prima volta in assoluto degli Stati
Uniti d'America rappresentati dallo
chef di Washington,
Maziar Farivar, scelto anche da Hillary
Clinton per l’AmeriRicetta del Mediterraneo Una fase della
can Chef Corps, il
lavorazione durante il Cous-cous Festival
gruppo di cuochi
geria, la Tunisia, arrivando per- che viaggia per il mondo utilizsino in Mauritania, Siria e addi- zando il cibo come mezzo di dirittura in Malì. Per sbarcare an- plomazia tra popoli diversi. Fariche in Sicilia, precisamente a var «sfiderà» Costa d’Avorio,
Francia, Israele, Marocco, SeneSan Vito Lo Capo.
E proprio qui, in questo borgo gal, Tunisia e Italia, rappresendella Sicilia occidentale, il cous tata dalla sanvitese Antonella
cous è diventato il collante tra Pace. A giudicare il cous cous
civiltà diverse ma unite appun- più buono e scenografico saranto dal flusso di genti, lingue, tra- no la giuria popolare e quella
dizioni, religioni, culture e ga- tecnica presieduta dal giornalistronomie che usava il Mediter- sta del Corriere della Sera, Roraneo come «strada» per spo- berto Perrone. Molto attesi anstarsi e incontrarsi. Nel nome che i concerti di Francesco De
del gusto - il palato viene esalta- Grogeri il 24 settembre e di Max
to dalla genuinità dei sapori, e Gazzè il giorno successivo.
stuzzicato dall’intrigo delle spe© RIPRODUZIONE RISERVATA
estaurare un edificio e architetti conservatori. «Il nonon significa solo "ri- me è un omaggio alla pietra calpararlo": significa ri- carea, il materiale con cui sono
spettare quei valori e quei vin- stati costruiti gran parte dei mocoli che il passato ci ha conse- numenti, ma esprime anche
gnato. È, prima di tutto, un’ope- l’obiettivo per cui è nata, cioè
razione culturale e richiede co- valorizzare e promuovere in prinoscenza e sensibilità, oltre a mo luogo quegli antichi mestieri in via di estinzione che ruotauna grande abilità manuale».
Artigiano restauratore a Noto, no attorno all’edilizia». Primo
gioiello barocco in provincia di fra tutti, quello dell’intagliatore
lapideo. A quest’arte l’AssociaSiracusa, Giovanni Masuzzo,
42 anni, da 17 si dedica al recu- zione dedica ogni anno un Simposio: una gara di maestria, nelpero del patrimonio monumentale della città e della sua Valle. la quale i migliori artigiani danÈ grazie al suo intervento che chiese,
conventi e palazzi
nobiliari che nel
2002 l’Unesco ha
messo sotto tutela,
hanno ritrovato la
bellezza delle origini. «Molti degli
scempi cui assistiamo quando si tratta
di recuperi architettonici e artistici di- A lavoro Una specialista dello scalpello
pendono dalla ca- all’opera sulla pietra
renza di professionalità adeguate. Mancano mae- no sfoggio alla loro abilità misustri artigiani che sappiano pa- randosi con forme della tradidroneggiare le tecniche del pas- zione: dai capitelli in stile tardosato. Come la scialbatura, per barocco disegnati oltre 300 anesempio, una particolare finitu- ni fa da Rosario Gagliardi, l’arra che da queste parti è stata uti- chitetto protagonista della ricolizzata fino all’inizio del Nove- struzione settecentesca di Nocento, e conferiva ai muri degli to, alle metope, realizzate duedifici una velatura dorata, olrante il Simposio del 2012 e che
tre a preservarli dall’acqua».
Masuzzo, che è stato fra gli arte- arriveranno a Tokyo, dove verfici della rinascita della Catte- ranno esposte all’Istituto italiadrale semidistrutta dal crollo no di cultura. «Facciamo sensidel marzo 1996, ha dato vita bilizzazione nelle scuole, dalle
nel 2011 all’Associazione Bian- elementari agli istituti superioco Pietra, nella quale ha riunito ri, con corsi sperimentali».
tecnici specializzati in restauro
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la festa di un piatto «clandestino» questo Cous
Cous Fest che, giunto alla sua sedicesima edizione, dal
24 al 29 settembre celebra appunto il seksu, come lo chiamano le popolazioni berbere del
Maghreb, costituito da granelli
di semola di grano duro serviti
con verdure cotte al vapore, legumi, pesce o carne. Un piatto
senza frontiere come il Mediterraneo, sul quale, portato dai pescatori, ha navigato tra l’Andalusia Musulmana, il Marocco, l’Al-
È
«R
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Giustizia Parola cancellata dal dizionario di un vecchio saggio agrigentino.
Perché non esiste, disse. «Fari giustizia a manico di mola» sta per
amministrare giustizia in maniera grossolana e sbrigativa, anche perché
si ricorda che coloro che hanno amici e denari non debbono avere timore
dei suoi rigori! Si insiste sul concetto antico che «la legge è uguale per tutti,
ma cu havi dinari si nni futti»; e non è forse vero che «la furca è fatta pri lu
poviru»? Quanti sono i ricchi e potenti spediti in galera? Da sempre chi cerca
di sfuggire alla legge è «prusicùtu di giustizia», perseguitato. La lezione
pare sia stata ripresa anche dai nati in continente.
I riti
A PALERMO
Canti e balli, risorge
la Festa dei morti
L’antica
ricorrenza
Dal 31
ottobre al 3
novembre ai
Cantieri
Culturali
della Zisa la
«Notte di
Zucchero»,
protagonisti,
attori
musicisti e
intellettuali
L’antropologo: «Rito pagano di valore culturale»
di Livia Grossi
na grande festa popolare con canti, balli e concerti in piazza, ma
anche spettacoli teatrali, mostre
fotografiche, percorsi sensoriali e chilometri
di bancarelle piene di dolci, giocattoli e gioia, per ricordare i nostri cari che non ci sono
più. L’attrice Giusi Cataldo, (l’amatissima
Matilda nella soap «Centrovetrine») è entusiasta. Il suo sogno di ridare vita alla Festa
dei Defunti, si è realizzato. Per quattro giorni dal 31 ottobre al 3 novembre i Cantieri
Culturali della Zisa di Palermo diventano il
quartier generale della «Notte di Zucchero,
una festa di morti, pupi e grattugie». «Da
tempo desideravo che la città si riappropriasse di una delle tradizioni più antiche e
radicate della nostra storia», dice subito l’attrice che, con Geraldina Piazza, ha fondato
per l’occasione un’associazione culturale.
«La Festa dei Morti messicana è patrimonio
dell’Unesco», ricordano le organizzatrici, «e
noi, che l’abbiamo sempre considerata la
nostra ricorrenza principale, ancora più importante del Natale, ce la dobbiamo far divorare da Halloween?».
«U
Due donne determinate, dall’entusiasmo
contagioso, che in breve tempo hanno messo in pista una grande festa dal programma
davvero serrato. Il primo giorno è dedicato
ai bambini e ai Pupi, l’anima dei morti; tra
corsi di teatro, trucco e costume, lezioni di
disegno e pittura, anche un attesissimo laboratorio di pasticceria; «i più piccoli impareranno a costruire le tradizionali ossa dei
morti, nonché la Grande Pupa di Zucchero,
per l’occasione abbiamo chiamato i migliori pasticceri della città. Abbiamo intenzione
di partecipare al Guiness dei primati».
Il secondo giorno, la notte diventa degli attori, moltissimi gli artisti e intellettuali qui
L’attrice Giusi Cataldo
anima di una kermesse per
rivitalizzare una tradizione
tipicamente siciliana
Protagoniste
Le pupe di zucchero
(Parrinello) e sotto
l’attrice Giusi Cataldo
chiamati a leggere e interpretare brani ad
hoc; tra gli altri il regista Roberto Andò, l’autrice Cetta Brancato e i cuntisti Giovanni Lo
Monaco, Salvo Piparo, Costanza Licata, sul
fronte giornalistico Giuseppe Di Piazza e
Gianni Riotta. Sul palco testi e letture in loop per una serata dove tra musica popolare,
rock e jazz ci sarà posto anche per «La festa
dei morti in Iran», raccontata da Jussif Latif
Jarallah. E se il 2, il giorno dei Morti, la Grande Pupa di zucchero, come da tradizione,
verrà fatta a pezzi e mangiata da adulti e
bambini, è interessante ricordare cosa significa tutto ciò per chi avesse perso la memoria.
«Come tutte le feste religiose pagane, anche
la Festa dei Morti, ha significati ambigui», dichiara l’antropologo Antonino Buttitta, «da
una parte è una festa in cui s’invitano le anime dei morti (i Pupi), a cena, dall’altra sono
gli stessi morti che vengono a cenare con i
vivi». Importante anche il suo valore artistico. «I Pupi sono i cavalieri, un ponte tra il
mondo epico e l’aldilà». Per chiudere una
curiosità: «Il 2 novembre da noi è il giorno
delle grattugie» spiegano le organizzatrici,
«la sera prima è tradizione nasconderle perché si pensa che i defunti vengano a grattare
i piedi a chi si è comportato male». E se «ricordare il passato significa rifondare il futuro», come sottolinea Buttitta, citando un detto africano, è importante che questa festa diventi l’occasione per un gesto di solidarietà.
Giusi Cataldo: «Tradizionalmente il 2 novembre i bimbi ricevono in dono dolci e giocattoli (armi per i maschi e bambole per le
femmine), oggi vorremmo che ogni bambino portasse un regalo a un altro meno fortunato».
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Jòppolo Giancaxio Si pronuncia Ioppolo Giancascio. Perché la X in
siciliano sta per «sci». Questo piccolo centro a due passi da Agrigento fu
fondato nel 1696 dal nobile Calogero Colonna che lo chiamò Jòppolo dal
cognome di sua moglie Rosalia. Il resto venne dal fatto che il terreno in cui
sorse era appartenuto a tale Giovanni Caxio. Si pose il problema di come
chiamare i suoi abitanti. E mediando giudiziosamente si optò per Joppolesi.
Che sono un migliaio circa, dipendendo dall’emigrazione. O dalle malannate,
come si dice. Infatti vivono di povera agricoltura fatta di campi di grano e fave,
dominati dalla mole del settecentesco castello e dalla chiesa Madre.
La musica
LA «RIVOLUZIONE» MUSICALE
Sicilia, l’isola che va a tutto jazz
Una nuova passione tra pubblico e musicisti. E arrivano gli artisti internazionali
di Stefano Landi
Quelle note
di provincia
In provincia
di Ragusa
vivono
per suonare
i gemelli
Cutello. E
a Palermo
c’è l’unica
fondazione
jazzistica
d’Europa,
«The Brass
Group» che,
nonostante
la penuria
di fondi,
quest’anno
ha
aumentato
gli iscritti del
70 per cento
l rinascimento del jazz che fa della Sicilia la New Orleans d’Italia. Un’isola
(musicalmente) felice, dove crescono
talenti come funghi, il jazz si suona per
strada da Catania a Gela o sugli infiniti palchi dei sempre più numerosi festival che
nascono in luoghi piccoli ma bellissimi.
Festival che calamitano talenti che cercano di guadagnarsi un futuro nel mondo.
Dove a Palermo c’è l’unica fondazione jazzistica d’Europa, «The Brass Group» che,
nonostante la penuria di fondi, quest’anno ha aumentato gli iscritti del 70 %.
Una rivoluzione gridata dal sax totale di
Francesco Cafiso, il ragazzino che con il
suo contralto stregò Wynston Marsalis a
13 anni e oggi è l’ambasciatore italiano
del jazz. «Si diventa migliori solo incrociando la propria musica con quella di altri artisti, giocando, divertendosi nascono
le cose migliori» racconta lui, oggi novello
compositore con un triplice disco ispirato
alla sua Sicilia che uscirà a fine anno. Cafiso, a 24 anni, è anche direttore artistico di
due dei festival che d’estate fanno suonare la Sicilia. A Vittoria, dove vive nonostante la musica lo porti sempre più lontano,
ha messo in piedi un evento di un mese.
«Come altrove siamo partiti da zero, oggi i
manager di grandi artisti stranieri ci chiedono di partecipare» racconta. Piazza nel
centro storico, didattica e seminari la mattina, concerti di sera, jam session di notte.
Il Vittoria Jazz Festival è parte di un
network di eventi dove il talento medio fa
paura: «Il jazz è una democrazia perfetta,
ti costringe ad ascoltare tutti: arrivano ragazzi con il loro strumento in valigia, il palco non si nega a nessuno e anche gli artisti
più importanti non si tirano indietro quando c’è da fare un pezzo insieme» spiega.
Molti ragazzi sono attratti anche dalla politica dei concorsi che i festival organizzano. In palio oltre a premi in denaro, ci si
guadagna rispetto e visibilità per suonare
altrove. L’ultimo nato è il «Marsala Wine
Jazz». A cavallo tra luglio e agosto si prende il centro di Siracusa «Ortigia Jazz» con
un itinerario tra eventi musicali che culmina coi concerti al tramonto alla fontana
Aretusa. Da una ventina d’anni è un’istituzione anche «Canicattini Bagni». Basta
una strada: il palco, il jazz club, la gente.
Rino Cirinnà, 49 anni, una vita da sassofonista culminata a Berkeley alla corte di
Tony Bennet, oggi promuove artisti nel
tacco della Sicilia. «L’onda jazz è nel nostro dna: anche nel mondo del pop, penso
I
a Battiato o Carmen Consoli, gli artisti sono splendidamente contorti, hanno una
prospettiva diversa, una curiosità introspettiva — spiega —. Creando un network
di eventi riusciamo ad abbattere i costi e
sostenere un movimento di talenti» dice
Cirinnà.
L’Italia (del jazz) non è un paese per vec-
Cirinnà: «L’onda jazz è
nel nostro dna; si ritrova
anche in Franco Battiato
e in Carmen Consoli»
chi. Sull’onda del successo di Cafiso, dalla
nicchia in cui per scelta (o colpa) dei mass
media ce l’avevano cacciato, escono artisti giovanissimi capaci di stregare il pubblico con poche note. In provincia di Ragusa vivono per suonare i gemelli Cutello
che già da due anni, con tromba e sax,
hanno «colpito» gli addetti ai lavori. Seri,
umili, una dedizione totale al jazz. Non
esistono pc o playstation. Timidi, quasi
non parlano: suonano. Prima di rispondere alle domande si consultano tra di loro.
Poi c’è il sax contralto di Francesco Patti,
18 anni, palermitano, autodidatta totale.
Un orecchio da fuoriclasse e la facilità educata di affiancare i mostri sacri. Giuseppe
Cucchiara, 18 anni, figlio d’arte di Enna, è
arrivato al contrabbasso dopo essere pas-
Virtuosismi
Da sinistra, in senso
orario: gli Ottoni
animati, famosi per
scendere dal palco e
suonare ballando fra
la gente; We Kids
Trio, con Giuseppe
Cucchiara
(contrabbasso),
Francesco Patti (sax),
Stefano Bagnoli
(batteria) Francesco
Cafiso, 24 anni (foto
Arturo Safina)
sato da sax e pianoforte. «Mi piace la responsabilità ritmica che devo prendermi:
a gennaio andrò a studiare a Boston, ma
conto di tornare qui, i legami e i rapporti
che si creano nella mia terra sono unici
per crescere» racconta. Un’esplosione generazionale aperta dal talento di altri musicisti, che passati i 30 anni sembrano veterani. La tromba lirica del catanese Dino
Rubino, il contrabbasso di Marco Panascia, 36 anni, detto «il motore», la chitarra
di Francesco Buzzurro, 40 anni di Agrigento, definito da Morricone tra i migliori al
mondo. Poi ci sono band che hanno deciso di viaggiare insieme: Urban Fabula, Tinto Brass o gli Ottoni Animati, che piacerebbero a Bregovic per l’abitudine a scendere
dal palco per suonare mescolandosi alla
gente. «I contrasti di questa terra sono la
chiave di questa continua rinascita: l’orecchio musicale della gente è predisposto»
racconta Alfredo Lo Faro, che con la sua
etichetta «Music Made in Sicily» scopre,
segue e produce artisti siciliani. «Voglio
creare un ponte per aiutare i musicisti a
misurarsi con l’estero senza dover lasciare la loro terra». Andare a un concerto jazz
in Sicilia oggi è diventato un evento importante. La gente si prepara, si veste bene,
come dicono da queste parti, si «azziza».
Un ritorno al futuro con radici antichissime. La tradizione bandistica, il primo momento per i giovanissimi per misurarsi
con certi strumenti. In Sicilia ci sono 398
comuni e 1177 bande censite. Sarà pure
l’ennesimo contrasto ma da queste parti
ha un suono bellissimo.
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IL SUCCESSO DELLA NUOVA «SCUOLA SICILIANA»
I cantautori «volano». Ma per restare
Nei testi l’Etna e Vendicari: «Non andremo al Nord. Scommettiamo su di noi»
di Raffaella Oliva
rrivano dalla Sicilia, sono nati negli anni 80, hanno da poco esordito sul mercato discografico, scrivono canzoni dal gusto pop, in italiano,
non in dialetto, ricche di riferimenti alla
loro terra. Antonio Di Martino, Colapesce, Nicolò Carnesi, Oratio: eccoli i quattro assi di quella che gli addetti ai lavori
hanno iniziato a definire «la nuova scuola cantautorale siciliana». L’espressione
richiama alla mente la scuola genovese
di De André, la milanese di Gaber e Jannacci o, pensando a tempi più recenti, la
romana di Daniele Silvestri e Niccolò Fabi. La domanda è: rappresentano davvero una «scuola»?
Tra i diretti interessati il termine suscita
perplessità. «C’è fermento, ma non ufficializzerei nulla, tutto è nato in modo
spontaneo», afferma il palermitano Di
A
Maestro e allievi
Cesare Basile, classe 1964,
capofila della rinascita della
musica siciliana (foto
C.L.Vasquez) Nella foto
grande, il siracusano Colapesce
alias Lorenzo Urciullo, 30 anni,
Targa Tenco 2012. Nel riquadro,
Antonio Di Martino.
Martino, 31 anni. «Parlare di scuola è
ghettizzante e precoce: magari tra un decennio… », ribatte il siracusano Colapesce alias Lorenzo Urciullo, 30 anni. Eppure si ammette una comunanza d’intenti,
stili, sguardi. «Siamo tutti della provincia», osserva Di Martino. «Io e Carnesi di
Misilmeri e Villafrati, fuori Palermo: ci conosciamo fin da bambini. Ma anche Oratio e Colapesce sono cresciuti in paesini
di poche anime e questo può aver creato
una poetica comune. Nei nostri testi ricorre una visione dell’universo come
qualcosa che sovrasta: vivere in un’isola
ti fa sentire piccolo».
Non meno importante è l’attaccamento
alle radici: se Oratio ha scritto «Etna gigante», Colapesce nel primo album «Un
meraviglioso declino», Targa Tenco nel
2012, canta di vulcani e riserve naturali
(quella di Vendicari ha ispirato la sua «Satellite»). «Il nostro immaginario è legato
alla terra, ascoltandoci si potrebbe fare
una mappatura della Sicilia», fa notare il
songwriter di Solarino. Insomma, scuola
o no, un fil rouge esiste. E la premessa è
la volontà di non emigrare nel Nord regno della discografia. «Andarsene - sostiene Colapesce - significherebbe darla vinta ai soliti quattro politicanti che della cultura se ne fregano». Lo sa bene Cesare Basile, classe 1964, un po’ il padre di questa
rinascita del cantautorato siciliano. Tornato nella sua Catania dopo anni vissuti
a Milano, il cantautore è tra i fautori de
L’Arsenale: «Una federazione di musicisti, attori, registi fondata su un'idea: in Sicilia si può restare solo unendo le forze».
L’esperienza al momento è in stand-by,
ma ha portato, spiega Basile, «all'occupa-
zione di tre teatri, il Garibaldi a Palermo,
il Coppola a Catania, il Pinelli a Messina:
luoghi di conflitto sociale che promuovendo concerti e spettacoli mettono indirettamente sotto processo le istituzioni
che non investono in cultura e hanno
convinto ragazzi come Carnesi e altri a
non scappare». Non è un caso che sia proprio in quegli spazi dove è in atto «una
piccola rivoluzione", come la chiama Di
Martino, che tra un paio di settimane Co-
lapesce chiuderà il suo tour.
Se esiste una nuova scuola cantautorale
siciliana? Forse la risposta più corretta è
quella di Basile: «Non saprei, di sicuro esiste una nuova generazione di artisti che
non si fa intimidire dal fatto di vivere ai
margini dell’impero, che anziché fuggire
reagisce, che nonostante le difficoltà ha
voglia di scommettere su una cosa: la propria arte».
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Juncu È il giunco che ricorda il motto «mi spezzo, ma non mi piego».
Ai nostri nonni dovette apparire assolutamente stupido perché metteva in
pericolo la vita stessa dell’individuo. E così ne coniarono un altro più adatto
alle nostre necessità di sopravvivenza: «càlati juncu ca passa la china»,
perché è meglio abbassarsi quando passa la piena del fiume piuttosto che
farsi trascinare o spezzare. È definito «salvamento di vita». Forse perché fare
l’eroe da queste parti rende veramente poco. Nella simbologia cristiana
il giunco rappresenta passione e morte di Cristo. Noi che di spirito greco
siamo, preferiamo vederlo come simbolo di Platone: armonia e musica.
La creatività
LA FABBRICA DI BICICLETTE NEI PRESSI DI TRAPANI
Con i Lombardo
a «ciclo» continuo
Crescita
esponenziale
Nell’84 le
prime biciclette
per bambini,
poi quelle da
passeggio, da
donna, quelle
elaborate
col cambio,
un tempo la
produzione era
di 100 al giorno
oggi è di 500
«In Italia siamo tra le prime dieci aziende»
di Stefano Landi
ell’estate del ’52 in Sicilia il traffico
era diverso da oggi. La famiglia Lombardo lavorava duramente in bottega, martellando ferri di cavallo. Nelle ore libere Gaspare, l’allora giovane di casa, appena poteva riparava le (poche) biciclette che
passavano da quelle parti. Freni a bacchetta, cerchi larghi. Su due ruote ci si caricava
la merce. «Ricordo le foto in bianco e nero
di mio padre che portava la mamma in canna sulla bicicletta» racconta Emilio Lombardo, 35 anni, il più giovane dei tre fratelli che
oggi portano avanti l’azienda lanciata da papà nei primi Anni 50. «Ha iniziato per gioco, oggi siamo tra le prime dieci aziende italiane nel settore del ciclo, la prima da Bologna in giù». Agli inizi si facevano 100 bici
l’anno, oggi 500 al giorno.
Quando il signor Gaspare ha messo le mani
sulla prima bici, il lavoro era più che mai artigianale: montava freni e telai, le verniciava con le bombolette spray. «Con i miei fratelli maggiori, Giuseppe, 49 anni, e Franco
44, andava in Veneto a comprare i pezzi di
ricambio» ricorda Emilio, oggi amministra-
N
STILISTI/1 QUELLI CHE SONO RIMASTI
tore delegato dell’azienda. Nell’84 le prime
biciclette per bambini, poi quelle da passeggio, da donna, quelle elaborate col cambio.
Seguendo le mode del momento, quindi,
ovviamente le Bmx con lo sbocciare degli
Anni 80. Sempre nuovi modelli: oggi sono
110 quelli realizzati. «Per confermare il marchio nostrano ognuna ha il nome di una città italiana» dice Emilio. Sui pedali Lombardo si muove il sindaco di Roma Ignazio Marino. Altri fedelissimi sono Enrico Brignano, Vanessa Gravina e, da siciliano doc, Michele Riondino, il «giovane Montalbano».
Cicli Lombardo sorge ancora nella zona
della vecchia bottega, a Buseto Palizzolo,
tra Trapani e la strada che scende al mare
di San Vito lo Capo (lombardobikes.com).
Sul sellino
La famiglia Lombardo
con il fondatore
Gaspare e i tre figli.
Emilio, ad dell’azienda,
(a sinistra) ricorda
che con i suoi fratelli,
Franco (dietro al
padre) e Giuseppe
(a destra) andavano
in Veneto a comprare
i pezzi di ricambio
Dal 2007 c’è la filiale in Germania. Il
43% della produzione finisce all’estero
in oltre 26 Paesi, Australia compresa
Era un buco di 30 metri quadrati, oggi un
capannone di 25 mila, in fase di ampliamento (a breve verranno inaugurati nuovi 10 mila metri quadri). Nel 2007 ha aperto la filiale in Germania, a Stoccarda, dato che il 43
per cento delle bici prodotte finisce all’estero, in oltre 26 Paesi, persino in Australia. O
in Belgio, terra di ciclo dipendenti, che ne
importa 13 mila l’anno. «Percepiscono la
forza del dettaglio, le geometrie dei telai, la
qualità dei montaggi: il made in Italy è il segreto del nostro successo, abbiamo resistito
quando ci proponevano di comprare bici
prefabbricate in Cina» spiega Emilio che
già a cinque anni d’estate montava pedali e
gonfiava gomme.
Un azienda più che mai orgoglio locale. Ci
lavorano una sessantina di dipendenti, tutti
provenienti da questo angolo di Sicilia. Età
media trent’anni, 40 per cento donne. «La
Informazione pubblicitaria
Di Maria: «Qui
ho le mie radici»
di Sofia Catalano
torno a Modica». A dar man forte è infatti rientrata anche da figlia Anna, che collabora con la
mamma. Certo abitare in città
sature di storia, bellezze architettoniche, luce e colori stimola la creatività.
«Sono fiera ed orgogliosa di vivere e lavorare a Palermo —
sottolinea Francesca di Maria
—. Qui c’è la storia della mia famiglia, del mio atelier, qui è nata la mia moda. Tra gli ori, i fasti, le suggestioni di un passato
che sento vivo e mi ispira continuamente». Francesca guida infatti
l’atelier che fu della
nonna e che vanta
ben di 106 anni di
attività. Incredibile
l’archivio di tessuti,
ma soprattutto
quello di cappelli
protagonisti della
Mostra «Tanto di
cappello» che continua a girare il monA Palermo Francesca di Maria nel suo
do. Si unisce al coatelier nella centralissima via della Libertà
ro Loredana Roccasuti e vernici, sperimenta e salva, ancora da Modica, vircrea in una ex fabbrica di capo- tuosa artigiana del mix tra Couture e prêt-à-porter, espresso
nata.
I suoi patchwork d’autore sono soprattutto negli inconsueti
poi rifiniti dalle fidate lavoran- abiti da sposa che in questi
ti. Gli fa eco Ottavia Failla: «So- giorni sono di scena a New
no rimasta in Sicilia perché qui York. «Sono contenta di essere
la manodopera è unica — dice rimasta in Sicilia perché ho
la creatrice di frizzanti borse e messo su famiglia, se avessi rinaccessori, piccolo showroom a corso solo la fama forse non ci
Milano, in via della Spiga e ven- sarei riuscita. E poi sono afflitta
dite in tutto il mondo —. Seguo da malattia di isolitudine , che,
personalmente le mie sarte, al- come diceva Gesualdo Bufalile quali non rinuncerei mai, an- no, induce una continua nostalgia della propria terra in chi
che se mi sobbarco centinaia
la lascia».
di chilometri per raggiungerle
nelle loro case di campagna in© RIPRODUZIONE RISERVATA
casa ma nel mondo. Magari a piccoli passi, limitando ambizioni e aspirazioni, ma con unica certezza:
restare in Sicilia, non abbandonare origini e tradizioni. «Se se
ne vanno via tutti, chi rimane a
dare speranza a questa isola,
così bella, ma così martoriata?
Forse ho sbagliato, ma qui rimango, tra le mie cose». Le ha
chiamate così, le sue creazioni,
Eugenio Vazzano, eclettico stilista di Melilli (Siracusa) amato
anche in Giappone, che, tra tes-
A
Obiettivo Operativo 4.1.1.4 – I Azione
PROGETTO Mediterranean Center for Human
Health Advanced Biotechnologies (Med-CHHAB)
(Codice Identificativo Progetto: PONa3_00273
Avviso MIUR D.D. n. 254/Ric del 18/05/2011)
Il nome è Med-Chhab, sigla che sta per Mediterranean Center
for Human Health Advanced Biotechnologies. Un nome che nasconde una scommessa sulle biotecnologie per la salute che porterà alla creazione a Palermo di un centro unico in Europa e nel
Mediterraneo in grado di fornire servizi d’eccellenza al settore
pubblico e privato. E di dare una spinta poderosa al sistema industriale della Sicilia e del Sud Italia, mettendo a disposizione
attrezzature d’avanguardia. La sfida è dell’Università di Palermo, che ha ottenuto un finanziamento da 23 milioni all’interno del Pon (programma operativo nazionale). Responsabile
del progetto è Giulio Ghersi, docente dell’Ateneo esperto in Enzimologia, che pochi anni fa ha brevettato un sistema per generare enzimi purissimi per i trapianti di cellule e di tessuti.
Adesso la nuova sfida, quella della creazione di un Centro tecnologico-scientifico da 3000 metri quadrati all’Università di Palermo, attraverso il quale diverse competenze (di biotecnologi,
ingegneri, chimici, medici) possano svilupparsi sinergicamente
per produrre conoscenze di elevato valore tecnologico, e quindi
generare dei prodotti altamente competitivi per il mercato a livello regionale, extraregionale, nazionale, europeo e internazionale. Investimento previsto, 23 milioni di euro, il 70 per cento
dei quali da utilizzare per l’acquisto e il collaudo di attrezzature
e macchinari, tra cui un acceleratore di particelle B, unico in
tutto il Sud Italia.
bici ispira un messaggio positivo, la nostra
è anche una sfida etica: in azienda ci sono
un asilo nido e una palestra per i dipendenti».
Il fascino della bici cresce nelle grandi città,
ma la crisi di portafogli si fa sentire. In un
mercato che cala dell’8%, resistono solo le
bici ben fatte. «Investire nella qualità paga,
come andare incontro alle esigenze di chi
vuole pedalare nel futuro». Oggi Gaspare
ha 79 anni. Quando ha riemp ito il primo capannone di attrezzature gli davano del matto, dieci anni fa è stato nominato Cavaliere
della Repubblica. La scommessa vinta è
doppia, dato che la Sicilia non è mai stata
una terra portata a muoversi su due ruote.
«Il suo grande orgoglio è che il passaggio generazionale sia riuscito». La famiglia Lombardo continuerà a pedalare nella storia.
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STILISTI/2 QUELLI CHE SE NE SONO ANDATI
Puglisi: «Porto
l’isola dentro»
È
la festa del mandorlo in
fiore che ha ispirato la
collezione donna di
Dolce & Gabbana per la prossima estate. Ancora Sicilia, sullo
sfondo della Valle dei Templi,
in una sorta di «rito pagano»
dedicato soprattutto ai turisti a
coloro che «vengono apposta
per vedere la Sicilia. E la capiscono. E la fanno riscoprire soprattutto a noi che siamo andati via» dice Domenico Dolce,
espatriato da Polizzi Generosa, ormai tanto tempo fa. D’altro canto si dice nell’isola «Cu
nesci arrinesci» ovvero chi va
via ce la fa, riesce, si realizza.
«È inevitabile. Se pensi in grande, se hai una visione internazionale del tuo lavoro, se miri
in alto, se guardi lontano non
puoi non andar via» sottolinea
Fausto Puglisi, stilista partito
da Messina che non solo è arrivato a sfilare a Milano Moda
Donna, ma da due stagioni è
direttore creativo della Maison Ungaro e sfila a Parigi. Oltre ad avere vestito personaggi
come Madonna, Jennifer Lopez, Michelle Pfeiffer.
Già a cinque anni sognava la
moda, appena raggiunta la
maggiore età parte per gli Stati
Uniti e lì immagazzina ogni
sorta di suggestione che gli permetterà, una volta rientrato in
Italia, di esprimere la sua creatività,
supportato
dall’artigianalità sicula, e dai
suoi maestri e amici Dolce &
Gabbana.
Il suo stile è riassumibile in tre
parole: forza, potere, sensualità «Che identificano anche la
mia terra». L’ultima collezione
vede protagoniste le palme
«Quelle di Miami — precisa lo
stilista — ma anche quelle sici-
liane» stampate o ricamate in
metallo dorato e cristalli tridimensionali su gonnelle a ruota o sexy abiti lunghi.
Della Sicilia porta con sé soprattutto il barocco invece Daniele Carlotta, altro emergente, proveniente da Modica, residenza: «il mondo». Daniele è
uno che ha cominciato nel negozio di tessuti di mamma, incoraggiato proprio da lei che
ancora lo segue, ed è arrivato a
vestire Belén Rodríguez per il
Da Modica Fausto Puglisi, 37
anni, direttore creativo di Ungaro
suo matrimonio. «Ogni tanto
devo rientrare nella sartoria di
famiglia, per ritrovare emozioni e atmosfere che mi ispirano».
Nelle sue creazioni il barocco
si mischia con gli orientalismi
«che ho scoperto anche alla Palazzina Cinese di Palermo» in
abiti che sono una mescolanza di fregi dorati, grafismi e mosaici su tessuti preziosi, esaltati da linee pure.
S. Cat.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
La Mérica «Fu la sfurtuna mia», cantavano gli emigranti. I siciliani ci
andarono nei primi del 900 e subito dopo la guerra. Disse un amico italo
americano di spirito che gestirono il tempo libero degli indigeni con imprese
di svaghi, in locali sicuri e lungo i marciapiedi. Poi commercianti nel settore
alcolici. Dal secondo dopoguerra specializzati in spezie e coloniali, roba da
drogheria, come si dice. Tutte queste attività divennero praticamente «Cosa
loro». Precisava sempre il mio amico che imporsi negli Usa non fu tanto
difficile per i siciliani, perché i «Miricani» non hanno la fantasia, la furbizia
e l’intraprendenza dei mediterranei. È tutto chiaro?
Il credito
IL FINANZIAMENTO ALLE AZIENDE DEL TERRITORIO
Piccole eccellenze
(da sovvenzionare)
Tradizione
e innovazione
Le imprese
trovano
fiducia negli
istituti. I
grandi gruppi
sono presenti
ma in molti
centri isolani
le Bcc sono
le uniche vie
d’accesso
al credito
E a Regalbuto ci pensa la banca «La riscossa»
di Stefano Righi
li anglosassoni usano dire: numbers
never lie, i numeri non mentono
mai. Possono essere amari o irritanti, ma rappresentano la realtà e la loro analisi è necessaria. La più recente l’ha svolta la
Banca d’Italia, dove viene evidenziato come, nel 2012, il valore aggiunto dell’industria in senso stretto, si è ridotto in Sicilia
del 4,2 per cento in termini reali, con un calo complessivo di oltre il 20 per cento nel
quinquennio 2008-2012. Il Pil — ovvero il
Prodotto interno lordo, l’insieme della produzione di beni e servizi — è risultato nel
2012 in calo del 2,4 per cento sull’intero territorio nazionale, mentre in Sicilia ha toccato il -2,7 per cento, con le maggiori difficoltà riscontrate nei settori dell’industria e dell’edilizia. Il tutto con una pericolosa tendenza ad accelerare, visti i riflessi sul credito:
«alla fine del 2012 circa la metà dei finanziamenti presentavano anomalie nei rimborsi».
I grandi gruppi bancari nazionali sono presenti da sempre sull’isola, da Intesa Sanpaolo a Unicredit, che racchiude in se l’eredità
G
del Banco di Sicilia. Altre datano più recentemente la loro presenza, come il Monte
dei Paschi di Siena e il Banco Popolare. Sono però le Bcc, le Banche di credito cooperativo che in molti piccoli centri rappresentano l’unica via di accesso al credito. Una
presenza discreta, vicina ai territori e alle
popolazioni per vocazione statutaria, vista
la loro essenza di cooperative mutualistiche. I numeri, anche in questo caso, non
mentono e narrano di una presenza che si
sostanzia in 25 banche, con 168 sportelli in
132 comuni e oltre 900 dipendenti diretti.
La vicinanza al territorio, poi si sostanzia in
una presenza radicatissima. A Regalbuto,
7.400 abitanti in provincia di Enna, la Banca locale ha un nome che non lascia dubbi
Agricoltura
Addetti impegnati nella
raccolta di carciofi alla
ditta Sole di Sicilia
Le banche di Credito cooperativo
affiancano gli incubatori di imprese
e collaborano con gli atenei
sulla sua funzione di stimolo all’economia:
La Riscossa di Regalbuto. La Banca ha iniziato a operare nel 1922, in favore dei reduci della Prima guerra mondiale sostenendo
l’attività degli agricoltori e degli artigiani.
Addirittura il logo, rimasto uguale nel tempo, raffigura le spighe di grano, un’incudine e una vanga, richiamando una vocazione agricola e artigianale. Eppure è una banca proiettata in avanti, tanto che in accordo
con la locale diocesi di Troina, le 14 agenzie
della Bcc La Riscossa hanno messo a punto
un piano di finanziamenti a favore dei giovani a tassi convenienti per incentivare
l’imprenditorialità locale.
«Le Bcc sono state le uniche, assieme a Unicredit — spiega Nicola Culicchia, direttore
della Federazione siciliana delle Bcc — ad
aderire al progetto lanciato dalla Regione
per finanziare famiglie e imprese in difficol-
tà. Un modo concreto di essere vicini ai nostri clienti. Da sempre poi lavoriamo con la
Caritas, con cui condividiamo la grande preoccupazione per la crescente disoccupazione giovanile».
Al riguardo le Bcc sono passate dalle parole
ai fatti, affiancando l’Università di Palermo
e il suo incubatore di imprese Arca (27
aziende, 3 milioni di fatturato, 120 posti di
lavoro): «stiamo puntando
sull’imprenditorialità giovanile — conclude Culicchia — sviluppando tre progetti nelle sedi distaccate dell’università: ad Agrigento nel settore turistico, a Trapani nel marittimo e a Caltanissetta nel biomedicale, mentre a Termini Imerese, dopo la partenza di
Fiat, stiamo riconvertendo il comune al turismo».
@Righist
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IL RUOLO DELL’IRVOS
«INTESA» CON IL FAI
Sostegno e ricerca
per vini e oli al top
Scala dei Turchi
gioia ritrovata
di Fabrizio Carrera
di Chiara Vanzetto
cifra complessiva che supera i
quattro milioni. E tra queste anche incontri mirati B to B per conquistare sempre più sbocchi commerciali». E da qualche tempo si
è aggiunta una nuova mansione
per l’Irvos (che sta per Istituto regionale Vini e Olii di Sicilia) la certificazione dei vini a Doc. E con il
varo della Doc Sicilia che si aggiunge a quelle preesistenti il lavoro non manca. E così l’Irvos nel solo 2013 ha già rilasciato circa 700
certificati di idoneità impegnando varie commissioni di assaggio.
Mentre sono stati effettuati oltre 900 controlli su vigneti a doc
e igt e partiranno piu
di cento ispezioni per
vinificatori e imbottigliatori. «Tutto un lavoro — aggiunge il
nutrizionista Giorgio
Calabrese, attuale
commissario dell’Irvos — che è una garanzia per i consumaEstero Una degustazione di oli siciliani a Oslo
tori sia sul versante
organizzata dall’Irvos nel febbraio scorso
della qualità che delnon solo enologiche (l’ultima è la provenienza territoriale del proquella dei vini senza solfiti) ma an- dotto». Calabrese da quando è alche in campo microbiologico. Poi la guida dell’Irvos ha avviato anl’internazionalizzazione che con che un programma, col benestare
il varo dei fondi comunitari per la dell’assessore regionale all’Agripromozione sta assumendo sem- coltura Dario Cartabellotta, che
guarda con piani ambiziosi al tepre più importanza.
E oggi se il brand Sicilia comincia ma più articolato della sicurezza
ad essere conosciuto il merito va alimentare. Grazie anche all’acascritto anche a queste missioni quisizione dei moderni laboratori
commerciali. «Consentiamo la di un istituto ormai soppresso, l’Apartecipazione delle aziende sici- sca, l’Irvos amplierà i propri comliane a una ventina di fiere in tut- piti e partirà presto anche con
to il mondo, dal Vinitaly a Shan- una serie di iniziative a sostegno
dell’olio extravergine made in Sighai, da Bordeaux a Dusseldorf
— racconta Lucio Monte, diretto- cily.
re dell’Irvos — impegnando una
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eri erano i Chigi, i Medici, Quattro in Sicilia gli interventi
i Davanzati. Oggi sono i conclusi o in atto, ma, assicura
grandi istituti di credito Ranieri, la collaborazione è dead ereditare dai banchieri del stinata a proseguire. A Strompassato il ruolo di mecenati. In boli, gennaio 2013, è stata restituita alla comunità isolana la
prima fila Intesa Sanpaolo,
che tra le sue priorità ha sem- chiesa di San Bartolomeo, copre posto la valorizzazione del struita dagli stessi abitanti nel
patrimonio storico artistico ita- XVIII secolo e chiusa nel 2002
liano e l’ampliamento della per le lesioni di una scossa sisua fruizione. Da qui la colla- smica. A Palermo si è concluso nello stesso mese il restauro
borazione a livello nazionale
con Fai, Fondo Ambiente Ita- dell’edicola marmorea del Geliano, nell’operazione «I luo- nio di piazza del Garraffo, gioghi del cuore»: censimento an- iellino nel cuore della Vuccinuale che rivela i siti monumentali,
più o meno noti,
prediletti dagli Italiani. Spesso siti degradati o dimenticati, invece degni di riscatto.
In questo riscatto si
impegna Banca Intesa anche nella Regione Sicilia. «Abbiamo in comune Candida La splendida Scala dei Turchi (Ag),
con Fai l’obiettivo
uno dei 4 interventi di recupero in Sicilia
di diffondere il rispetto del patrimonio d’arte e ria; ora si progetta la riqualificazione dell’intera piazzetta. A
natura e vogliamo contribuire
a valorizzare le peculiarità del Trapani si cerca da anni di
nostro Paese — racconta Alber- sbloccare l’iter burocratico
che impedisce il recupero del
to Ranieri, direttore dell’Area
Sicilia di Intesa Sanpaolo —. Il Castello della Colombaia, antiprogetto I luoghi del cuore ca isoletta fortificata all’imboccrea conoscenza intorno ai be- co del porto. A Realmonte, zoni cosiddetti "minori", che in- na Porto Empedocle, si lavora
vece hanno enorme valore. alla bonifica della Scala dei
Perché rappresentano l’espres- Turchi, una candida falesia a
sione delle identità socio cultu- picco sul mare su cui gli agenti
atmosferici hanno scolpito
rali locali». L’istituto fiancheggia il Fai nell’impegno econo- una gradinata naturale. Siti
mico, nella promozione diret- unici e straordinari, l’Italia che
amiamo.
ta presso i clienti, nell’azione
concreta.
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nico nel suo genere in Italia. È l’Irvos, un ente regionale che si occupa della ricerca e della internazionalizzazione del vino siciliano. Nato nel
1950 come Istituto regionale della
vite e del vino per dare un sostegno concreto alla vitivinicoltura
che era una delle coltivazioni più
diffuse, oggi quest’ente con sede
a Palermo e cantine sperimentali
e laboratori sparsi in più province
vive una fase di rinascita. Tre i
punti cardine delle attività. La ricerca con varie sperimentazioni
U
I
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
43
Liòtriu È l’elefante di pietra lavica simbolo di Catania. Sulle sue origini si
sono versati fiumi d’inchiostro. È, probabilmente, un talismano d’epoca
bizantina per tenere lontani terremoti ed eruzioni. Funzionò poco e lui stesso
ne uscì spesso malconcio. E poi, troppo poco per i catanesi che ci hanno
costruito mille storie deliziose. Per loro quel nome è la corruzione di Eliodoro,
un mago arso vivo in quel sito da san Leone, che era vescovo della città, solo
perché faceva ridere i fedeli durante le funzioni. Quell’elefante rappresenta
pazienza e saggezza, virtù coltivate da sempre dai catanesi. Vi pare niente
vivere con l’Etna dietro la porta di casa?
L’enologia
IL PASSATO E IL PRESENTE
La nuova vita delle botti siciliane
Grandi aziende e piccoli vignaioli che riscoprono le radici autoctone dei vitigni
di Luciano Ferraro
Un esercito
di giovani leve
La Sicilia è la
regione in cui
l’aumento
del consumo
di vino
è maggiore
rispetto
al resto
d’Italia. Tra
il 2007 e il
2012 il dato
è cresciuto
del 5%.
La parabola
di un
successo
raccontata
da Diego
Planeta e
Nino Barraco
Q
uando iniziò ad occuparsi di vino,
Diego Planeta aveva 18 anni e un giorno. C’era molto da fare in Sicilia, nella zona di Menfi, dove le vigne venivano abbandonate e un quarto degli abitanti era
emigrato. «Le uve si pigiavano ancora con i
piedi», raccontò il fondatore di una delle
più grandi cantine sociali, la Settesoli. Bisognava cambiare la mentalità di una regione, almeno dal punto di vista agricolo. Far
capire ai contadini che l’uva poteva diventare un piccolo tesoro.
Cinquantacinque anni dopo, la Sicilia sta vivendo ora una seconda rivoluzione. Alle
grandi aziende che hanno avuto la forza di
far uscire dall’isola le bottiglie migliori, si è
aggiunto un nutrito drappello di vignaioli,
spesso sotto i 40 anni di età, artigiani delle
viti, scopritori di nuove strade nel mondo
per gli autoctoni siciliani. Dall’Etna, da Ragusa, da Marsala e da altre zone ancora.
La Sicilia produce 5,1 milioni di ettolitri di
vino e mosti (dati Istat 2012), in ripresa dopo due anni di calo dovuto all’espianto dei
vigneti (gli ettari ricoperti da viti risultano
107 mila (ma il dato è fermo al censimento
del 2010). Il 44,7% è vino bianco, il 42,4%
rosso, il resto è mosto. Nel 2005 la produzione era di 7,2 milioni di ettolitri. La Sicilia è
la regione in cui l’aumento del consumo di
vino è maggiore rispetto al resto d’Italia.
PROTAGONISTI
Nino Barraco (a
sinistra) 38 anni,
laureato in Scienze
politiche, nei suoi
10 ettari (nei pressi
di Marsala) coltiva
vitigni di
Catarratto, Nero
d’Avola, Pignatello,
Grillo. Diego
Planeta (a destra)
ha 73 anni ed è
stato presidente di
Settesoli. Ora
Alessio, Francesca
e Santi Planeta
guidano l’azienda
di famiglia a Menfi,
6 tenute, 363
ettari di viti,
un grande oliveto
e un resort
Mentre nel quinquennio 2007-2012 il Piemonte ha registrato un calo del 12% della
popolazione che consuma vino, in Sicilia il
dato è salito del 5%. Nonostante l’incremento, rimane la penultima regione della
classifica, con il 44% della popolazione che
consuma abitualmente vino e il 22,9 che lo
consuma sporadicamente.
La storia della vite in Sicilia è andata nei secoli di pari passo con quella dei popoli dominanti: diffusa da fenici, greci, romani,
normanni, aragonesi e spagnoli, frenata da
barbari e musulmani. Fino al 1880, quando
i 320 mila ettari di viti vennero quasi dimezzati dalla filossera. Nel Dopoguerra sono
state le cantine sociali a ridare fiato all’agricoltura siciliana. Planeta, l’ex presidente
dell’Istituto regionale della Vite e del Vino,
è stato uno dei protagonisti di quella fase.
Ha 73 anni e 17 generazioni alle spalle legate alla terra. Oggi l’azienda Planeta è formata da 6 tenute per un totale di 363 ettari di
viti, un grande oliveto (e un resort), con alla guida Alessio, Francesca e Santi. Ha raccontato Alessio a Francesco Annibaldi del
blog Cucchiaio d’argento sul ruolo di Diego: «A metà degli anni Ottanta, con il mercato dello sfuso in crisi a causa della tragedia del metanolo, chiamò Scienza per la
parte agronomica, Tachis per quella enologica e Giampaolo Fabris per capire il pub-
blico. Fu un salto in avanti impressionante,
soprattutto di mentalità, in un periodo nel
quale quasi tutte le cantine sociali ricorrevano ai contributi per la distillazione». Così il
vino siciliano è sbarcato, decennio dopo decennio, nelle altre regioni prima, poi in tutto il mondo.
«Quello è stato un periodo orientato anche
al marketing. Ora si è affiancato un altro
mercato, quello delle piccole o piccolissime
aziende, con target molto differenti, sia come gusto sia come prezzi di vendita». A dirlo è Nino Barraco, 38 anni, laureato in Scienze politiche, con un master in marketing
del vino. In dieci anni è passato («lentamente») da 10 mila a 20 mila bottiglie. Nei suoi
10 ettari alleva vitigni di Catarratto, Nero
d’Avola, Pignatello. Il Grillo è il vino, con
personalità e longevità, che lo ha fatto conoscere. È uno dei nuovi vignaioli siciliani, assieme ad Arianna Occhipinti con il Frappa-
La regione produce 5,1
milioni di ettolitri di
vino e mosti, in ripresa
dopo due anni di calo
to, a Alice Bonaccorsi sull’Etna, a Giovanni
Scarfone con il suo Faro («un grande esempio di come con poca vigna si possa lavorare bene»)e ad altri che hanno raccolto l’eredità paterna, come Renato De Bartoli, figlio
di Marco.
«È una nuova epoca — spiega Barraco — in
cui contano il legame con il territorio, il carattere e identità dei vini, ovviamente con
numeri diversi di quelli delle grandi aziende. Io e gli altri come me non possiamo parlare a un pubblico ampio. Ci avevo provato
all’inizio ma ho fatto subito marcia indietro, mi rivolgo a chi è in grado di capire il
mio vino, non tutto è per tutti. Negli anni
Settanta e Ottanta aziende come Tasca d’Almerita hanno faticato ad aprire una via nazionale al vino siciliano. Ora le nostre piccole aziende continuano a fianco delle grandi, puntando su mercati diversi. Possiamo
essere un modello di sviluppo siciliano, costituito da tante piccole aziende, in modo
da fare distretto». Che si scontra però con
lentezze e burocrazie. «Non possiedo una
cantina di proprietà — si lamenta Barraco
— non riesco ad ottenere i permessi. Marsala era ricchissima di cantine nei garage di
casa, come in Piemonte, in Trentino Altro
Adige, in Emilia. Chi inizia, deve avere la
possibilità di provarci».
(divini.corriere.it)
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L’ENOSTORICO PASQUALE HAMEL
Ricordi
Le
costruzioni
delle botti
nelle cantine
Florio di
Marsala. IN
basso,
Pasquale
Hamel
Così Marsala ritrova gli antichi fasti
«Il territorio è tornato faro di sviluppo grazie alle valorizzazione del vino»
di Maurizio Di Gregorio
arsala — accenna l’enostorico Pasquale Hamel — è legata indissolubilmente alla memoria garibaldina. Qui sbarcò l’eroe, nel
1860, avviando la conquista del Regno
meridionale. Marsala, Mars-Allah in arabo, fu porta occidentale aperta alle rotte
di invasori ma anche a quelle dei commerci. E qui altra ragione della sua fama,
l’avere legato il nome ad un vino liquoroso, appunto il Marsala che gli inglesi apprezzarono e affinarono. Proprio la presenza inglese nell’isola ne consentì la conoscenza e la diffusione a livello internazionale. In questa storia si inserirono i
Florio, l’unica vera dinastia imprenditoriale siciliana, che nel 1838, ruppero il
«M
monopolio inglese. Il Marsala Florio,
"sangue siciliano" come indicava un’etichetta, divenne il simbolo stesso della
"buona cena"».
Ora Marsala, Città Europea del Vino
2013, dà il benvenuto agli appassionati di
questo straordinario nettare. Gli appuntamenti di novembre il 9 (Convegno Vino e
Salute), 10 e 11 (Giornata Europea dell’E-
noturismo) e 15 - 17 (1˚ Forum Internazionale dell’economia e del mercato vitivinicolo) che renderanno finalmente giustizia di un vino Immortale. Ma a filarselo sono purtroppo in pochi. Troppo pochi. Perché proprio quest’anno si celebra
il cinquantesimo anniversario della legge
che attribuisce un’identità specifica a
questo vino tracciandone caratteristiche,
È la Città Europea del vino 2013. A
novembre appuntamenti, convegni
e le giornate dell’enoturismo
storia, territorio e così via. Ovvero la Denominazione di origine controllata (il noto marchio Doc). Cioè quanto basta per
aver creato un modello, un esempio di vitivinicoltura che affonda le radici nella
storia e nel mito.
«Oggi Marsala dopo un lungo periodo di
decadenza — conclude Hamel — e il territorio trapanese, grazie anche al vino, sono tornati ad essere faro di sviluppo, offrendo un’alternativa seria di crescita eco-
nomica e sociale rispetto a quella parassitaria che, da molti anni, l’Autonomia regionale persegue. La speranza è che, finalmente, si possa chiudere una pagina
di storia non molto edificante per aprirne
un’altra che, valorizzando i punti di forza
della Sicilia, consenta di dare speranza ai
giovani per farli tornare a credere in quella "terra impareggiabile" purtroppo divenuta, suo malgrado, matrigna».
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Lupa In siciliano si usò in senso più dispregiativo di cagna per indicare la
donna dai grandi appetiti sessuali, la ninfomane. Dal latino lupa, meretrice,
prostituta, la stessa che allattò i gemelli fondatori di Roma. Da quella voce
viene il lupanare, il postribolo. Chi inventò i «figli della lupa» dello scorso regime
non ebbe idee molto chiare in proposito. Giovanni Verga ci scrisse una
bellissima novella, La lupa appunto. Una storia d’amore tutta siciliana, la cui
protagonista è una donna «mai sazia d’uomini». Nanni, il genero, tentato
dall’ingorda suocera, finisce per ammazzarla. Ne furono tratti film diretti da
Alberto Lattuada, Franco Zeffirelli (con la Magnani) e Gabriele Lavia.
L’enologia
AL FEMMINILE
«Così faccio suonare il mio vino»
José Rallo (Donnafugata) unisce musica e cantine. Aumentano le donne nelle aziende
di Marisa Fumagalli
Il successo
«rosa»
Oltre a Rallo,
ci sono Lilly
Fazio della
cantina
omonima;
Carolina
Cucurullo,
della
Masseria
del Feudo;
Francesca
Curto,
sommelier,
attiva
nell’antica
azienda
agraria
di famiglia; e
la trentenne
Arianna
Occhipinti
n una terra maschilista, ho la fortuna di avere un padre femminista»,
dice, sorridendo, Josè Rallo. Signora del vino, innanzitutto. Ma anche appassionata cantante jazz. È la sua marcia in
più per coinvolgere clienti e fan di Donnafugata, uno dei marchi siciliani, importanti, diventati nell’arco di vent’anni i portabandiera del vino di qualità, esportato in
tutto il mondo. «Papà ha sempre creduto
nel ruolo delle donne in azienda — spiega
— cominciando dalla moglie Gabriella,
cioè da mia madre, ex insegnante di inglese. Una pioniera della vigna. Poi è toccato
a me. In verità, ciò che qui mi preme mettere in evidenza è tutta la nostra squadra
di lavoro, ad alta rappresentanza femminile. L’ha voluta così mio padre. Lui si fida
delle donne e della loro serietà».
Lui è Giacomo Rallo, il capo dell’impresa
di famiglia, che spazia da Marsala a Contessa Entellina e Pantelleria. «Il rapporto
fiduciario padre-figlia è abbastanza diffuso in Sicilia — chiarisce Josè — Voglio dire
che altre donne della mia condizione sono valorizzate. È più difficile, invece, che
le aziende assumano da fuori personale
femminile. Le donne hanno dovuto lottare parecchio per rompere il muro della diffidenza». Ciò premesso, nell’isola si è guadagnato molto del tempo perduto. Rallo
cita una ricerca fatta da Irvos (Istituto Regionale Vini e Oli di Sicilia), che, mappando 137 aziende vinicole (familiari e non,
cooperative escluse), ne segnala 43 al femminile, dove le donne sono imprenditrici
o ricoprono funzioni direttive. «Sono colleghe preparate, con un’ottima scolarizzazione, parlano più lingue. Adatte ad avere
rapporti con il mercato, con i consumatori, i media. La ricerca, inoltre, rileva che la
distribuzione femminile è omogenea nei
17 territori vinicoli censiti in Sicilia. Infine,
la nostra età media è più bassa rispetto a
quella degli uomini».
Sicilia in rosé, dunque. Rappresentata da
una pattuglia sempre più numerosa di signore sui quarant’anni, fortemente motivate e intraprendenti. Qualche nome, senza far torto alle altre: Lilly Fazio, responsabile commerciale dell’omonima Cantina,
i cui vigneti incorniciano il monte Erice.
Considera i suoi vini «unici per la profonda passione mista a impegno». Carolina
Cucurullo, che si divide tra due amori, la
famiglia e la Masseria del Feudo, nel cuore della Sicilia, in provincia di Caltanissetta. Francesca Planeta, esperta di marke-
ta), la Sicilia e il mondo intero.
Donne dentro la contemporaneità di una
professione che, tuttavia, evoca sentimenti matriarcali. «L’amore per la terra, la
pianta che cresce e dà frutti, i profumi, i
sapori, sono elementi congeniali alla natura femminile di ieri e di oggi — ammette
Rallo — Filo rosso che riannoda i valori antichi della tradizione».
Tant’è. La figlia di Giacomo Rallo, che
non finisce si sorprendere, tiene in serbo
la sua carta vincente. Musica e canto, al
centro di un intenso interesse, condiviso
con il marito Vincenzo Favara. Da tempo
a Marsala, nella cantine Donnafugata,
vengono ospitati regolarmente concerti.
Ma il bello è che lei stessa, Josè, voce solista, dopo aver fondato nel 2002 Donnafugata Music&Wine Live, in collaborazione
«I
Sono 43 le aziende
condotte da donne. E la
signora del Donnafugata
è anche una cantante jazz
ting e comunicazione, è un punto di riferimento dell’azienda di Menfi (Agrigento),
con vigneti in tutta l’isola. Scendendo a
Sud Est, in provincia di Ragusa, ecco Francesca Curto, sommelier, attiva nell’antica
azienda agraria di famiglia, con sede ad
Ispica. Di Arianna Occhipinti (trentenne)
si è scritto molto, anche per il suo libro di
successo Natural Woman .
La regina di Valle dell’Acate (zona di Vittoria, terra del Cerasuolo) è Gaetana Jacono, sempre in viaggio tra Milano (dove abi-
Musica José Rallo
con Vincenzo
Toscano nel corso di
una degustazione
di vini abbinata
a un concerto jazz
IL «CASO» COTTANERA
Una super squadra sotto l’Etna
Donne, soltanto donne, in vigna. La vendemmia e la cura delle piante è affidata a una squadra esclusivamente
femminile: madri e figlie, una trentina in tutto, che, mantenendo eccezionalmente viva un’antica tradizione dell’Etna caduta in disuso, si dedicano all’attività di raccolta per volere di Mariangela Cambria, 37 anni, vicepresidente di Assovini Sicilia, responsabile marketing e comunicazione di «Cottanera». È l’azienda della sua famiglia, la più grande nel territorio vinicolo alle pendici del
vulcano. Per inciso, i vini dell’Etna stanno vivendo un
momento magico. L’aspirazione di Mariangela Cam-
bria, laureata in Scienze Politiche, era la carriera diplomatica. Poi il destino ha preso un’altra piega. Era in Irlanda a perfezionare l’inglese quando il padre Guglielmo le chiese di rientrare in Sicilia ad occuparsi dell’impresa familiare. Lei è tornata ed è diventata una vignaiola di punta, nel rilancio della tradizione. Così a Cottanera, il cuore e il motore del vigneto sono le donne. Anche
durante la vendemmia, che viene fatta rigorosamente a
mano. La più anziana della squadra è Maria Cannone,
60 anni; Maria Destro, 32, la più giovane. (m. fum.)
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con una band di amici appassionati di
jazz e musica brasiliana, si mette in gioco
e in scena, proponendo dal palco un’esperienza multisensoriale che abbina ad ogni
vino un brano musicale, il cui andamento
ritmico sottolinea le sensazioni della degustazione.
Non è tutto. Da un paio d’anni, accompagnata da clarinetto e violoncello, Josè registra nella barricaia i video delle «Degustazioni in jazz». È un nuovo modo per vivere e condividere con gli amici i vini di Donnafugata. Signora del vino pirotecnica. Testimonial internazionale. Il papà «femminista» può davvero essere soddisfatto.
Ma quanto influiscono le donne del vino
siciliane sulle scelte d’impresa? «Nelle
aziende piccole incidono molto — risponde — In quelle più grandi, il peso femminile cala. O meglio, c’è il rischio della settorializzazione. Succede, allora, che il prodotto vino come tale sia materia per uomini. Alle donne si riservano le funzioni creative: l’etichetta delle bottiglie, il packaging. Penso che sarebbe più utile un maggiore equilibrio di genere all'interno dei rami aziendali».
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UN’ATTRAZIONE FATALE
Il sogno dei «colonizzatori» di vigneti
Successo degli investimenti fatti dagli «stranieri» Zonin, Mezzacorona e Giv
di Mauro Remondino
atto primo porta il nome di Nero d’Avola. Il secondo di Nerello Mascalese. Terzo incomodo
Cerasuolo. Insieme ai bianchi Carricante, Catarratto, Insolia questi vitigni hanno più che mai confermato quella nota
attrattiva che fece dire alla nobilità siciliana «siamo terra di conquista e di sbarchi».
Per il vino è stato così e lo è ancora. Il
fascino dell’isola, del mare, del vulcano. Sono arrivati i colonizzatori, tutti
stregati dal sogno di possedere un vigneto. Così il vicentino Zonin è approdato nel 1997 con il suo Feudo Principi
di Butera nella provincia di Caltanissetta. Circa 180 ettari coltivati a vigna. Gli
anni del Nero d’Avola, rosso complesso
e robusto. Ma oggi in clima di cambiamenti Francesco Zonin punta sicuro su
L’
Insolia, bianco autoctono. Come il
Gruppo trentino Mezzacorona con il
feudo Arancio a Sambuca di Sicilia e
più recentemente Acate, nel ragusano,
terra del Cerasuolo, circa mille ettari di
proprietà. Una conquista o quasi: dieci
Igt, tre bianchi, un passito, cinque rossi.
Quasi una missione per il Giv, Gruppo
italiano vini, che ha investito nella tenuta Rapitalà, in arabo «fiume di Allah»,
225 ettari di vigna sulle colline che da
Camporeale scivolano verso Alcamo.
Dove con i bianchi Grand Cru e Casalj,
quest’ultimo Catarratto in purezza, voluto dal fondatore e ora socio, il francese Laurent Bernard de la Gatinais, si fa
sfoggio di qualità.
E ancora i produttori toscani Mazzei e
Antonio Moretti con il Feudo Maccari,
a Noto, nel siracusano. Ma la vera svol-
ta arriva con il vino del vulcano. Acquisizione recente di vigne abbandonate.
Tra i primi l’italo americano Marc De
Grazia, distributore in America di vini
d’eccellenza italiani. Ha comprato alle
falde dell’Etna, tra i comuni di Castiglione e Randazzo tra le contrade di Calderara e Guardiola ai confini con Passopisciaro.
Un meraviglioso e curato anfiteatro di
vigne nella Tenuta delle Terre Nere dove è possibile trovare viti Prephylloxera
in produzione. Tutto nel nome del Nerello Mascalese, un vitigno che origina
un vino, elegante, fine, molto vicino ai
rossi di Borgogna. Sono arrivati dal continente: Federico Curtaz e Silvia Maestrelli, Paolo Caciorgna, Frank Cornelissen, Andrea Franchetti che dice senza
mezzi termini: «L’unico territorio, insie-
Vicepresidente Francesco Zonin in Sicilia con Feudo Principi di Butera (Caltanissetta)
me al Piemonte, per il quale ha senso
parlare di cru». Terreni lavici, stratificati
dalle colate avvenute nel tempo e in
quota, di fronte al mare.
Nell’Ottocento i vigneti si coltivavano sino a mille metri, la zona era ricca, con il
porto vicino a Giarre di Riposto. Poi la
crisi e adesso la nuova corsa all’Eldorado. Soprattutto da parte dei siciliani che
si sono visti anticipare. Le grandi griffe,
Tasca d’Almerita, Firriato, Cottanera,
Planeta, sono corse ai ripari acquistando.
Tutti meno uno, Giuseppe Benanti.
Uno che aveva visto lungo e da li non si
è mosso continuando a fare, a Rovittello, un Nerello Mascalese d’eccellenza e
superandosi con un bianco, il Pietramarina, da uve Carricante. Dando così nuovi stimoli a tutti e un «fratello» al rosso
per eccellenza del vulcano.
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Lupara Non è un fucile da caccia a canne mozze, come si crede. E, peggio
ancora, si scrive. Il dizionario recita chiaramente che è la carica per fucili
da caccia costituita da pallettoni, usata per sparare a lupi o cinghiali. Si
tagliavano le canne della doppietta per aumentare le velocità dei proiettili,
per allargare subito la rosa dei pallettoni e per dare, così, prova di coraggio
dovendosi avvicinare il più possibile all’animale. Finì per essere l’arma
preferita per le esecuzioni mafiose. Il termine, impiegato nella maniera errata,
risale al 1956. E non c’è stato verso di correggerlo. È bianca quando
c’è la sparizione del cadavere reso introvabile.
IL «GATTOPARDO» DEL VINO
La storia del «conte vignaiolo»
Lucio Tasca d’Almerita, maestro di stile, e i cigni che ricordano Wagner
di Luciano Ferraro
L’evoluzione
del passato
Villa Tasca è
la casa, che
nell’800 era
attorniata
dai vigneti;
il cuore
dell’azienda
è Regaleali,
la tenuta di
famiglia dal
1830. Ma
quest’uomo
che stupì
Jackie
Kennedy con
la sua
dimora è
molto più
giovane dei
suoi 73 anni
ieni Tristano». Il cigno nuota nel
laghetto di Villa Tasca, seguito
da una sua simile, Isotta. Il conte Lucio Tasca d’Almerita, lancia un pezzo di foglia e spiega la dieta dei suoi due
candidi coinquilini. I nomi sono un omaggio a Wagner, che qui passeggiava, dopo
aver litigato con l’albergatore del Des Palmes, di cui scrisse: «È l’unico brigante che
abbia conosciuto in Sicilia». Qui Wagner
completò la partitura del Parsifal , lasciando a Palermo un vasto repertorio di aneddoti sul suo soggiorno, come quello sul
musicista travestito da giardiniere per
non farsi notare a Villa Tasca.
Il laghetto è del conte Lucio, come il lungo
filare di palme che stupì Jacqueline Kennedy, come il parco immenso, che si percorre nell’auto guidata dal padrone di casa. Sua è la cinquecentesca dimora, con
un appartamento da settecento metri quadrati per il conte. Sue le tazzine di porcellane in cui una cameriera d’altri tempi, con
veste azzurra, serve il caffè nel salone fresco e colorato, con tre divani alla fine di
un maestoso scalone. A fianco ci sono le
stanze che, per sostenere le spese dei restauri, vengono affittate a chi vuole smarrirsi nel verde in centro a Palermo.
Con un facile stereotipo il conte viene talvolta definito l’ultimo dei Gattopardi siciliani, come fu per il padre Giuseppe, scomparso nel 1998, e come sarà in futuro per i
figli Giuseppe e Alberto. In realtà Lucio è
un imprenditore molto più giovane dei
suoi 73 anni, più moderno di molti suoi
colleghi del vino. Non usa il titolo nobiliare, e se per sbaglio si presenta con quello,
arrossisce. Ha il viso segnato di un attore
della Hollywood in bianco e nero, impeccabile quando indossa lo smoking, come
alla serata di gala del Premio Grandi Cru
d’Italia all’ultimo Vinitaly.
Villa Tasca, che nell’Ottocento era attorniata dai vigneti, è la casa; il cuore dell’azienda è Regaleali, la tenuta di famiglia
dal 1830. Regaleali è stato un esempio di
trasformazione da vecchia a nuova azienda agricola in Sicilia. Il professor Scifò
«V
LA STORIA
Villa Tasca (nella
foto sotto:
il laghetto)
a Palermo è la
residenza di Lucio
Tasca d’Almerita.
Il laghetto, in cui
vivono i cigni
Tristano e Isotta,
ispirò Wagner che
Stile Sopra, il conte Lucio Tasca e a destra il laghetto che ispirò Wagner (foto Francesco Lastrucci)
scrisse sul Lucio, primo conte d’Almerita,
avo dell’attuale: «Oltre alla fortuna, aveva
ereditato il talento ad occuparsi, a pubblica utilità di una vasta impresa rurale».
«Qui negli anni Sessanta si produceva solo vino da vendere sfuso — racconta Lucio Tasca — poi mio padre decise di imbottigliarlo per farlo diventare il primo
grande vino di Sicilia esportato nel mon-
do». Ad esempio la Riserva Rosso del Conte, bandiera di Regaleali. Negli anni Ottanta la decisione di puntare sui vitigni internazionali, Chardonnay, Cabernet Sauvignon e Pinot nero. Poi il ritorno alle origini, con una maggiore valorizzazione dei vitigni autoctoni. E dal 2000 un piano di
espansione che ha portato l’azienda ad acquistare «nel vasto continente siciliano»,
compose parte
del «Parsifal». Il
conte guida
Regaleali,
l’azienda di
famiglia dal 1830
e altre 5 tenute
(con due resort) in
Sicilia. In totale
600 ettari di vitigni
internazionali e
autoctoni. Il
vino-bandiera è il
Rosso del Conte
come lo chiama Tasca, tenute a Salina,
nell’isola di Mozia, sull’Etna e a Camporeale. Un impero di 600 ettari, 5 tenute, due
resort, Ora la crisi morde «ma noi manteniamo le vendite in Italia - dice Tasca - anzi abbiamo fatto un piccolo passo avanti
nell’ultimo anno, mentre l’export in settanta Paesi è cresciuto ancora».
Lucio Tasca, studi in un collegio svizzero,
laurea in Economia, olimpionico di equitazione nel 1960, non si tira indietro, continua a iniettare energia su Villa Tasca e Regaleali e sulle altre tenute. Sia che si debba sconfiggere il
punteruolo rosso
che rischiava di
sterminare le 150
palme del parco
(«Ho usato una ricetta segreta, con
un giardiniere egiziano, ma ora
una pianta si è
ammalata e sto
per intervenire
con un metodo
mio»), sia che si
tratti di lanciare
uno dei quattro
nuovi vini: il Tascante Buonora, il migliore tra i nuovi bianchi d’Italia secondo il critico americano James Suckling, il Grillo e
il Catarratto senza solforosa di Regaleali, e
il Didyme, una Malvasia, della Tenuta Capodifaro di Salina. «Tutti già venduti», dice il vignaiolo siciliano.
Centocinquanta anni dopo, Lucio può definirsi fortunato come il suo avo? «Sì, sono
un uomo fortunato. Certo, sono stato anche capace di prendere le decisioni giuste
per l’azienda e di condurla bene», spiega
Tasca d’Almerita in versione «piena vendemmia» («Non è male, ma neppure fantastica»). «Ho sempre fatto un lavoro che
mi è piaciuto, non mi sono mai annoiato.
E ho due figli ancora più bravi di me, Alberto e Giuseppe. Se non è fortuna questa...».
(divini.corriere.it)
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L’ANNIVERSARIO
Florio, 180 anni per una rivincita
Il vino «improprio», più vicino allo Sherry che non al Barolo tenta
un’operazione di rilancio: in ottobre «verticale» di annate storiche dal 1903
di Mauro Remondino
entottanta anni, per la storia,
per la Florio, per il Marsala. Per
questo vino improprio, più vicino allo Sherry che non al Barolo. Ma
ugualmente valido nel cammino enologico. Passato, presente, futuro in
bottiglie che hanno tenuto per mano
l’evoluzione storica d’Italia dalla fondazione nel 1833 anche se Vincenzo
Florio costruì la prima cantina in pietra di tufo a Marsala nel 1832.
Tutto questo trent’anni prima dello
sbarco di Garibaldi in Sicilia e dell’avvio del processo di unificazione nazionale e della saga della famiglia del
principe Don Fabrizio Salina, narrata ne Il Gattopardo da Tomasi di
Lampedusa. Un vino «pesante», fortificato, imbottito di alcol, sin dall’epoca delle famiglie inglesi Ingham e
Woodhouse, precursori sull’isola e
pronti a spedire via mare i barili che
dovevano resistere al viaggio e al tempo.
«Immortale» ha sintetizzato un produttore siciliano nonostante un corrosivo disamore da parte degli stessi
C
isolani. Così questo vino, dolce da
dessert, ammirato e contestato, con
una presenza alcolica che arriva anche a 18 gradi, ha iniziato un tortuoso percorso. Tuttavia, nelle versioni
più autorevoli, un vino godibile a ta-
vola, con antipasti di pesce, maiale,
anatra, come ha avuto modo di dire
Carlo Casavecchia, enologo ed ex direttore generale, andatosene dalla
Florio sbattendo la porta dopo anni
di appassionata gestione.
Si sa la passione a volte non basta, anche se l’enologo tra il 2002 e il 2005 è
riuscito a creare un portafoglio di
150 ettari di vigneto a Riesi e all’Etna.
Sino ad allora, qualche anno fa in fondo, la Florio si avvaleva soltanto delle
uve dei conferitori. Non soltanto, ma
Casavecchia è riuscito in un momento drammatico e confuso per la «destinazione d’uso» del Marsala, a far
escludere gli aromatizzati dal riconoscimento della Doc.
Passi giusti, processi e polemiche
che ancora resistono. Fine, Vergine,
Ruby... 28 tipologie in tutto, una esagerazione, qualità al ribasso e prodotto poco di moda, per via di quella forte presenza alcolica, il Marsala tenta
oggi, con questo fardello, di rialzare
la testa. Anche se va detto che c’è chi
ci crede con furore, come il produtto-
Automobilismo A sinistra, Don Vincenzo Florio con il pilota Renato Balestrero in
una Targa Florio del 1926; in basso una pubblicità del Marsala Florio
re Renato De Bartoli, figlio del non dimenticato Marco, che per sconfiggere le Cassandre ha organizzato, per fine ottobre, una verticale di annate
storiche dal 1903.
Una prova di forza per scrollare l’apatia che avvolge i produttori siciliani e
alla faccia di chi vuole il Marsala sugli scafali dei drugstore americani accanto all’aceto balsamico e alla maionese. Vino immortale dunque creato
con uve a bacca bianca: Grillo, Damaschino, Grecanico.
Anche per la Ilva di Saronno della famiglia Reina, che ha accorpato nella
nuova proprietà la Florio insieme ad
altre due cantine storiche, Corvo e
Duca di Salaparuta. Un impero di
bottiglie, circa venti milioni: rossi,
bianchi, bollicine, malvasie e passiti
realizzati a Salina e Pantelleria. E per
festeggiare i primi centottanta anni
di Florio è stato allestito un percorso
sensoriale, al buio, nella cantina
d’antan con i video che fanno scorrere immagini accattivanti e di fascino
su quanto è stato e quanto, si presume, sarà. E per la circostanza l’immancabile bottiglia «limited edition».
Selezione di uve Zibibbo maturata in
piccole botti dove in precedenza sono state affinate grandi riserve di
Marsala Vergine del 1963. Una demi-bouteille incastonata di gemme
preziose: rubino, smeraldo, topazio,
ametista. Quest’ultima, simbolicamente, per rafforzare il concetto di
sogno.
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Codice cliente: 2748686
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Codice cliente: 2748686
Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Mafia Viene dall’arabo ma' fy: non c’è. Quando si dice, o si scrive, che non
c’è significa che è dappertutto. Nel 1838 un procuratore trapanese, spedì «in
riservatezza» al ministro una nota in cui si parlava di mafia. Rimase riservata
e mai uscì dai cassetti ministeriali. Diventati sabaudi, un prefetto ne scrisse,
ma con due effe: maffia. Con poco successo perché il testo era politico. Noi
siciliani sappiamo fin dalla nascita che mafia e politica sono sempre andati a
braccetto e, essendo cittadini precari, abbiamo bisogno delle amicizie per
sopravvivere. Per scuotere le nostre coscienze ci sono voluti tanti morti.
Sperando che la lezione sia servita.
L’enologia
L’AZIENDA MILAZZO
«Addio alle armi
Meglio le bollicine»
La passione
per la qualità
Il produttore
di vino di
Campobello
di Licata
aveva fondato
a Brescia
la Armsud.
Poi,
frequentando
la Franciacorta
tutto è
cambiato
«Prima i fucili, ora produciamo spumanti»
di Maurizio Di Gregorio
pensare che avevo cominciato costruendo armi». Così, spiazzante
come sua abitudine, Giuseppe Milazzo, il produttore di vino di Campobello di
Licata, che più ha scommesso sullo spumante, racconta i suoi inizi. «Negli anni sessanta
avevo fondato a Brescia la Armsud, ma poi ho
conosciuto dei produttori di spumanti in
Franciacorta ed è nata la passione per le bollicine».
La sua azienda non è solo quello, perché si
producono tra le quasi 300 mila bottiglie, anche bianchi e rossi. Ma sei versioni di spumante sono un primato. «Oggi — accenna — si fa
presto a dire bollicine. Noi li produciamo da
tempo, tutti metodo classico con lunghi affinamenti in bottiglia e procedure più costose per
garantire maggiore qualità». Il metodo ricorda da vicino fasi di produzione simili a quelle
utilizzate per gli Champagne. A proposito dei
vini francesi l’azienda Milazzo può fregiarsi di
aver vinto nell’aprile di quest’anno a Bordeaux al Challenge international du vin la medaglia d’oro con il Federico II millesimato '03 e a
maggio del 2013 a Bruxelles al Concours mon-
«E
dial sempre la medaglia d’oro con l’Excellent
rosato metodo classico.
«Sono stati dei premi che ci hanno onorato,
se poi arrivano dai francesi che sappiamo essere un tantino sciovinisti... hanno ancora
più valore. Fare spumanti alle nostre latitudini non è così semplice e loro lo hanno capito».
Ma che l’eccellenza di questa cantina passi
per le bollicine, lo testimonia il fatto che alcuni mesi fa è uscito un nuovo spumante, il sesto, che è ottenuto senza l’aggiunta del liquido zuccherino che addolcisce tutti gli altri tipi
di spumanti rendendoli più morbidi e bevibili. Un cosidetto «dosaggio zero», per l’appunto, che, come sanno gli intenditori, è uno spumante per pochi, quegli amanti del vino mol-
Dettagli
Giuseppe Milazzo,
nella cantina di
Campobello di Licata.
Il fondatore
dell’azienda è attento
ai particolari: «I nostri
clienti in Sicilia e
Calabria vengono
riforniti di spumante
con furgoni a
temperatura costante»
«Le medaglie d’oro ci hanno
onorato, se arrivano dagli sciovinisti
francesi... hanno ancora più valore»
to esperti a cui piace assaggiare vini taglienti,
con un’acidità spiccata che privilegia soprattutto la qualità della materia prima.
Quest’azienda che della raccolta manuale delle uve e della certificazione biologica fa un ulteriore motivo di vanto, conduce una battaglia anche su un’aspetto che generalmente
trascurano molte aziende: il trasporto del vino. Tutti i clienti vengono riforniti con furgoni
che garantiscono la temperatura di cantina,
perché, conclude Giuseppe Milazzo «il vino è
materia viva e non si può trasportare in Sicilia
o Calabria in un furgone a 40 gradi».
Ora la sfida è quella di consolidare l’export. Al
momento solo 15 bottiglie su cento varcano i
confini e quindi «ci sono ampie prospettive di
crescita — ammette il genero Saverio Lo Leggio che con la moglie Giuseppina gestiscono
la cantina insieme con il fondatore — e partecipiamo alle fiere più importanti in Cina, Ame-
rica e Canada, senza trascurare l’Europa dove
oltre alla Francia vogliamo rafforzare la nostra presenza nel Benelux e nel Nord Europa».
Lavorare sul terroir e sui vitigni autoctoni è
una delle carte vincenti dell’azienda Milazzo.
«La nostra forza è la tipicità — conclude Saverio Lo Leggio —. A parte lo Chardonnay che ci
è servito negli anni per le nostre basi spumante non abbiamo mai fatto ricorso ad altre varietà internazionali. E lo abbiamo fatto fin dall’inizio quando tutti erano attratti dai vari Cabernet Sauvignon e Merlot. Il tempo ci ha dato ragione e oggi tutti inseguono le varietà autoctone. Uniche. E non replicabili in altre parti del mondo».
E pensare che Giuseppe Milazzo tra uno sparo e un’esplosione di un tappo di bottiglia ha
preferito il secondo. Che gioia!
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IL PASSITO ABRAXAS A PANTELLERIA
COOPERATIVA SETTESOLI
E l’uva «riposa»
distesa al sole
Mosaico di vigne
tra 2.300 «amici»
di Fabrizio Carrera
rossi, tre delle sette etichette complessive. E Bukkuram dove lo
stenditoio fa bella mostra e nascono i due passiti. In tutto 140 mila
bottiglie. Gioie e dolori. Gioie,
quelle procurate dai tanti sodali
che hanno aiutato la nascita di
questa cantina come Attilio Scienza, Giacomo Tachis e Mario Fregoni, tre nomi che col vino si danno del tu come pochi. Dolori, come quello dello scorso dicembre
quando in un attentato, i cui autori sono ancora sconosciuti, sono
stati gettati via circa quattrocento
ettolitri di vino delle
ultime tre vendemmie.
«Un fatto terribile. E
ancora oggi aspetto
risposta dalle autorità inquirenti per sapere chi è stato», dice con una punta di
polemica Mannino.
Ancora gioie, come
quelle degli importatori giapponesi Shuji
Stenditoio La terrazza dell’azienda Abraxas dove
Shimizu e Hiro
l’uva Zibibbo attende i raggi benefici del sole
Okawa che hanno triconosciuti lungo il suo percorso plicato gli ordini dopo essersi inistituzionale. Mannino è stato ginocchiati, in segno di rispetto e
parlamentare ma anche ministro di stupore, davanti all’uva stesa
dell’Agricoltura negli anni 80. Og- al sole. «Pantelleria è sole, difficolgi a 74 anni si appassiona di sto- tà, vento e vini unici al mondo —
ria e di filosofia, di Tocqueville e spiega Mannino — peccato che
di Aristotele magari mentre ac- la viticoltura stia quasi scomparendo. Dai seimila e 500 ettari di
compagna i suoi clienti giapponesi a guardare lo stenditoio dove cinquant’anni fa siamo passati ai
in questo periodo l’uva prende il 600 di oggi». Mannino resiste. E
sole per appassirsi. La storia di punta anche ai vini bianchi. Aromatici e avvolgenti. Come quel
Abraxas comincia nel 1997.
Oggi è una cantina che vedrà pre- Kuddia del Gallo, Zibibbo secco
e Viognier, che il grande Luigi Vesto un importante ampliamento
e che vanta 27 ettari di cui venti- ronelli definì nel 2002 «un alsaziatrè vitati in due delle zone più bel- no di Pantelleria».
le: Mueggen dove nascono i vini
© RIPRODUZIONE RISERVATA
winelover lo sappiano. Per
fare un grande passito di
Pantelleria servono almeno
5-7 chili di uva. E forse, in annate
in cui il tenore zuccherino è più
basso del solito come in questa
strana vendemmia 2013, anche
nove. Tantissimo. Questo è il credo di un’azienda che dell’identità culturale di un territorio ha fatto il suo punto di forza. Come
Abraxas, la cantina, il marchio, i
vini, di Calogero Mannino.
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di Clara Minissale
olline lambite da filari di di forza — afferma Vito Varvaro,
ulivi, piccoli orti e giardi- Presidente di Cantine Settesoli,
ni, vecchie cascine, case di cui Mandrarossa è il marchio
rurali, contadini intenti a lavora- di punta — e il nostro obiettivo
re la terra e greggi che pascola- è quello di massimizzare il valono intorno. Benvenuti a Menfi, re delle uve facendo conoscere i
in provincia di Agrigento, dove vini Mandrarossa e il territorio
la vite trova condizioni ideali di Menfi ad un pubblico sempre
per la sua coltivazione e dove na- più vasto e sempre più internascono i vini Mandrarossa. Vini zionale».
In questo territorio così vocato e
di grande personalità, espressiovariegato, Mandrarossa ha così
ne di territori particolarmente
vocati, che sono il risultato della realizzato una intensa attività di
cura estrema del vigneto da par- sperimentazione in vigna, che
ha consentito di impiantare vitite di ogni singolo viticoltore,
che è parte di una
più grande comunità, quella di Settesoli, che conta 2.300 soci conferitori e una
superficie vitata di 6
mila ettari.
Il clima secco e i venti che arrivano dal
mare — le fresche
brezze in estate e lo
scirocco in inverno
— mitigano le tem- Vigna Agostino Alagna è uno dei anziani soci
perature, rendendodella cooperativa Settesoli (2300 associati)
le ideali per la viticolgni autoctoni, ma soprattutto intura. Il paesaggio è caratterizzato dalla compresenza di diffe- ternazionali, che qui si presentarenti microclimi, ideali per l’alle- no con un carattere distintivo e
vamento delle diverse cultivar e delle eccellenti rese qualitative.
da un mosaico di vigne, un sus- Così, a fianco dei più classici neseguirsi di piccoli vigneti curati ro d’avola e grecanico, si coltivacome gioielli di famiglia dall’an- no con risultati sorprendenti gli
tica sapienza contadina, la cui internazionali merlot, syrah, cacultura qui è rimasta ancora in- bernet sauvignon, cabernet
tatta. Una comunità sana, tipica- franc, chardonnay, ed i più spemente agricola, fondata su valo- rimentali viogner, fiano, sauviri e tradizioni autentiche, che si gnon blanc, chenin blanc, petit
preservano immutate nel tem- verdot, alicante bouschet, che
po, così come la bellezza incon- solo in questa parte della Sicilia
taminata dei luoghi in cui vivo- trovano le condizioni ideali per
la loro coltivazione.
no.
«La viticultura è il nostro punto
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C
Codice cliente: 2748686
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Milena È in provincia di Caltanissetta, ma si chiamava Milocca. Nel 1933
divenne Littoria Nissena, quindi Milena che fu il nome della regina del
Montenegro, madre della regina Elena. La cosa non interessò mai nessuno.
Come il coraggio delle sue donne, contadine analfabete. Nel 1893, all’epoca
delle lotte contadine, assaltarono la caserma dei reali carabinieri per liberare
i loro uomini. Questi, però, timorosi delle conseguenze, erano restii a fuggire
e non si mossero dalle loro fetide celle. Furono allora le donne a caricarseli
sulle spalle portandoli via a forza. Poi, giunti i rinforzi, furono arrestate
e condannate. Peccato che non si sappia in giro.
L’enogastronomia
LA PASTICCERIA DI BELPASSO
Gli ingredienti di un dolce successo
Condorelli: «Il grande territorio dell’Etna, le mandorle e i pistacchi ben dosati»
di Fabrizio Carrera
Export
e fatturato
«Bene il
mercato
interno, ma
ora è il
momento di
pensare
all’estero».
I torroncini
da soli
rappresentano oltre il
50% del
fatturato.
Ogni anno la
Condorelli
lavora circa
500 tonnellate
di mandorle e
circa 200
quintali di
pistacchi
andorle e pistacchio. Sono tra i punti
di forza di una Sicilia che in fatto di
dolci ha pochissimi rivali. Naturale
anche che uno dei nomi più importanti tra le
aziende agroalimentari dell’Isola evochi subito qualcosa di dolce. E di qualità. È il caso di
Condorelli, marchio di successo, quel made
in Sicily che un po’ di mondo ci invidia. Intanto per un motivo fondamentale. La Condorelli è una sintesi ben riuscita di un prodotto artigianale che non disdegna le dinamiche industriali.
Ecco le ragioni di questo successo attraverso
il racconto di Giuseppe Condorelli, l’ottantenne titolare dell’azienda. La Condorelli nasce a Belpasso, in provincia di Catania. A poca distanza dalla cittadina di Bronte il cui nome è legato in modo indissolubile alla produzione di pistacchi, oggi a marchio Dop, tra i
migliori al mondo. Poi le mandorle, che è
una delle coltivazioni più diffuse in tutta la Sicilia Orientale con varietà uniche per qualità
e versatilità. Tutto comincia da qui. Dal territorio. Poi arriva l’uomo.
E in questo caso Francesco Condorelli, il papà dell’attuale titolare, che nel 1933, a 21 anni, decide di aprire una piccola pasticceria
nel cuore di Belpasso, in corso Vittorio Emanuele III. Il resto è una storia di torroncini e
altre leccornie che percorrono in lungo e in
largo prima la Sicilia, poi il resto d’Italia e il
mondo. L’azienda si espande nel dopoguerra e i torroncini diventano un prodotto che
piace. Non ci sono segreti ma solo l’alta qualità della materia prima e la capacità di assemblare bene i prodotti perché per essere buono, rivela Giuseppe Condorelli, «è necessario
dosare bene gli ingredienti. E allora il 50% è
mandorla e solo meno del dieci per cento è
pistacchio, tanto quanto basta a creare un sapore unico». Un anno di svolta per quest’azienda, che oggi vanta cinquanta dipendenti e si appresta ad aumentare la sua quota
di export, è anche il 1983 quando Pippo Baudo, in un bel momento della sua straordinaria carriera, propone a Francesco Condorelli
di diventare sponsor fisso per tutte le puntate
di Domenica In sulla Rete Uno (si chiamava
così allora) della Rai. «Mossa azzeccata. Il costo non fu indifferente — ricorda Giuseppe
— ma il successo fu strepitoso. Proiettò il nostro marchio in una dimensione nazionale.
La qualità del prodotto c’era e i consumatori
apprezzarono». Ancora oggi la rigorosa selezione delle materie prime, le mandorle di provenienza mediterranea, il miele d’arancio
TRE IDENTITÀ
M
Cucina-crocevia
Dai Monsù
al cibo di strada
di Gaetano Basile
A
Distesa golosa
Un vasto
assortimento
di dolci nello
stabilimento
catanese di
Condorelli (foto
Parrinello)
molto profumato e i pistacchi siciliani, fanno
il resto. E ancora oggi, a fronte di un numero
enorme di prodotti dolciari — oltre 160 se annoveriamo le tante varianti proposte ai consumatori — i torroncini da soli rappresentano oltre il 50 per cento del fatturato. Ogni anno la Condore lli lavora circa 500 tonnellate
di mandorle e circa 200 quintali di pistacchi.
E di questi tempi il ritmo del lavoro cresce a
dismisura perché incombono le feste natalizie, il momento più propizio. Tanto che
l’azienda è obbligata a rinforzare i propri ranghi incrementando le unità lavorative. La voglia di crescere non si è comunque fermata.
L’anno scorso l’azienda ha lanciato una nuova linea di tavolette di cioccolato per il canale
«Guardiamo alle Americhe ma anche
ai Paesi arabi. Il sogno? Aprire negozi
monomarca sul territorio italiano»
commerciale «normal», ovvero bar, pasticcerie e negozi gourmet. Un fondente al 50 per
cento con arancia candita. E poi un’altra con
mandorle pralinate, e un’altra ancora con
cioccolato bianco e pistacchio verde di Bronte. E all’orizzonte c’è l’altra scommessa, quella di incrementare la quota di export. Spiega
lo stesso Condorelli: «Anche noi sentiamo i
morsi della crisi, come tutti coloro che si rivolgono a un mercato di nicchia. Oggi l’estero
rappresenta meno del 10% del fatturato.
Troppo poco. Stiamo cercando di consolidare l’Italia ma stiamo rivolgendo lo sguardo oltre il confine. All’estero si hanno molte soddisfazioni anche se devi spiegare bene un prodotto che spesso chiamano genericamente
bon bon. Guardiamo alle Americhe ma anche ai Paesi arabi con i quali abbiamo qualcosa in comune. In fondo la cubaita, altro dolce
storico siciliano, nasce con loro». E ancora: il
sogno di aprire negozi monomarca sul territorio italiano. Torroncini e affini. Il futuro è dolce per Condorelli.
glioso del riconoscimento — spiega —
perché ho dimostrato che occorre premere sulla nostra offerta culturale per attrarre il turismo che conta e poi si sono rinsaldati i rapporti storici con Mosca». Dino
Papale non ha guardato solo a Est. Lo
scorso novembre è volato in Florida e ha
favorito il gemellaggio con Sunny Isles Beach, una meta esclusiva. Un gemellaggio
che ha ridato smalto all’immagine di Taormina negli Usa. Con buona pace di chi
pensa che la cultura non produca reddito.
con ingredienti poveri, spesso miserabili. Nacquero così i grandi piatti della
cucina popolare: le sarde a beccafico,
le sarde a linguata, la parmiciana (persiana) di melanzane, il falso magro, la
caponata, la zucca rossa servita a mo’
di prezioso fegato.
La pasta vide la luce attorno al X sec. a
Trabia, a pochi chilometri da Palermo
dove si creò il primo impianto per l’itria, lo spaghetto, fatto con la semola
di grano duro...
La carne non fu certo la specialità isolana: abbondarono i surrogati venduti
per strada: frattaglie bollite o arrostite,
oppure milza e polmone dentro una
pagnottella fatta dagli ebrei per i cristiani. Ereditammo l’halal e il kasher
di musulmani ed ebrei con le fisime
sul maiale, crostacei e molluschi. Imparammo a usare lo zafferano per dare colore, odore e sapore ai piatti. Ma
pure quella salsa economica fatta soffriggendo l’aglio nell’olio d’oliva, base
di tanti piatti; e quelle miserabili polpettine dove era più il pangrattato che
la carne. Non mancarono le dolcezze
di gelati, paste di mandorle e di pistacchi, torroni, e tutti quei dolci con il sapore antico del miele. Antichi perché
nati prima dell'arrivo dello zucchero.
Imparammo a sognare. Il sogno dei
poveri fu la vigna dietro la casa, quello
dei nobili la vigna importante per dare
lustro al casato. E così è ancora oggi.
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Taormina, i russi «zar» del turismo
di Alessio Ribaudo
«C
presenza di statunitensi (+22%) e russi
(+35%) a sancire il ritorno della città del
Minotauro fra le mete d’élite. Non a caso
solo gli alberghi da 3 a 5 stelle hanno avuto un segnale positivo.
I successi dell’estate 2013 però vengono
da lontano perché questa «invasione»,
specialmente di russi e statunitensi, è figlia di alcune iniziative culturali che hanno rilanciato negli ultimi tempi l’immagine di Taormina. Come il premio «Taormina Media Award W.Goethe» riservato al
migliore articolo sulla cittadina messinese pubblicato sui giornali di tutto il mon-
Ad agosto, con il
progetto cultura,
+7% degli stranieri
rispetto al 2012
Dalle sarde a beccafico
al falso magro, ecco
i piatti indimenticabili
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BOOM DI PRESENZE INTERNAZIONALI
i dispiace ma siamo al completo». Una frase ripetuta all’infinito come un mantra. Chiunque
abbia provato quest’estate a trovare un albergo a Taormina, in provincia di Messina, ha ricevuto questa risposta al telefono.
Un vero e proprio boom che ha riportato
la perla dello Ionio ai fasti del passato
quando il jet set internazionale era di casa nella cittadina siciliana e trascorreva le
estati fra le rappresentazioni al Teatro antico e le trasgressioni notturne alla Giara.
A dare conferma di questo sono i dati ufficiali. A luglio, si sono superate le 165mila
presenze con un +4,58% rispetto allo stesso periodo del 2012. Analizzando i numeri emerge chiaramente il ritorno di fiamma del turismo internazionale. Sono stati
oltre 116mila (+7%) gli stranieri a soggiornare, con punte significative di ucraini
(+153%), norvegesi (67+%), brasiliani
(+43%), argentini (+27%), australiani
(+18%), tedeschi (+6%). Soprattutto è la
metà strada tra Europa e Africa, la Sicilia fu crocevia obbligato, punto d’incontro e di scambi tra culture. Anche la cucina è giacimento culturale, frutto di mescolanza
di genti, luogo di introspezione delle
civiltà che si sono succedute. Viaggiare in questa cucina diventa una divertente e intrigante chiave di lettura delle società che l’usarono come sistema
di comunicazione. Scrisse Claude
Lévi-Strauss, il noto antropologo francese, che le abitudini alimentari sono
il tratto più resistente di una cultura: si
perdono più facilmente i codici linguistici che quelli alimentari.
Sono poche le cucine che possono
vantare la varietà e la ricchezza di quella siciliana.
Esiste una cucina siciliana? In pratica
ce ne sono tre. Quella patrizia o dei
Monsù, quella popolare o di reinvenzione spiritosa e quella di strada o dei
buffittieri. La cucina più antica è nata
nel «Thermopolion» delle città greche
di Sicilia, roba che si mangia ancora
per le strade. Oltre duemila anni di civiltà da mangiare ancora con le mani.
Più tardi, mentre i Monsù celebravano nei piani nobili dei Palazzi, cernie e
sogliole, lepri e capponi, a quelli di sotto, abitanti di vicoli e vanelle, arrivavano gli odori o le descrizioni meravigliose fatte dalla servitù. Con fantasia e ingegno quei piatti furono reinventati
Strategie Dino Papale (grandi eventi del Comune) e la serata animata di corso Umberto
do. Oppure nel 2011 la premiazione del
concorso letterario Italo-Russo «Raduga»
a Taormina. Senza voler considerare la
posa del busto dello zar Nicola II, nel giugno del 2012, nel giardino pubblico di Taormina alla presenza di autorità russe.
Un evento ripreso da tutti i media moscoviti tanto da indurre il governo di Putin a
conferire la massima onorificenza culturale al suo ideatore: l’avvocato Dino Papale che è esperto a titolo ai grandi eventi
del Comune di Taormina («come riconoscimento al contributo dato ai rapporti
fra il Sud Italia e la Russia»). «Sono orgo-
Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
49
Nobiltà come Alliata. A Palermo dal XIV sec. con i titoli di principe di
Villafranca, principe di Valguarnera, principe di Gravina, duca di Salaparuta,
signore di Gangi, di Rosetti ed Erbebianche, di Vicarello, Artesinella, Canali e
Mandra del Piano, barone di Buzzetta e Marcato del Fagotto, marchese di
Santa Lucia, principe di Ucrìa, principe di Montereale, principe di Buccheri,
principe di Castrorao, principe di Trecastagne, duca di Saponara, barone di
Mastra, barone di Pedara, barone di Consorto, barone di Vicaretto, barone
delli Sollazzi di Salomone, signore di onze 40 sopra i porti e le marine di
Sicilia, barone di Santa Domenica, barone di Morbano ecc...
FIASCONARO PASTICCERI ARTIGIANALI
Il panettone che «parla» siciliano
«Mandorle di Avola e pistacchi di Bronte. Così è cambiato il dolce milanese»
di Alessio Ribaudo
Tempo
e qualità
Il laboratorio
di
Castelbuono
sforna un
milione di
pezzi e li
esporta nei
bar di tutto il
mondo.
«Per
realizzare
uno dei
nostri
prodotti
impieghiamo
ben tre giorni
di lavoro,
non
diventeremo
mai degli
industriali»
fornare un milione di panettoni artigianali in Sicilia e affermarsi nei migliori
bar di tutto il mondo. A partire da quelli
di Milano che è la patria del dolce natalizio
per eccellenza. Detta così sembrerebbe un sogno o la vendita del ghiaccio agli esquimesi.
Eppure la pasticceria Fiasconaro è riuscita a
trasformare un sogno in realtà. Una realtà oggi
solida che da Castelbuono, una cittadina medievale in provincia di Palermo, fa lievitare di
anno in anno numeri e mercati esteri conquistati dando occupazione a cento dipendenti e
un fatturato, lo scorso anno, di 10 milioni di
euro. Ma guai a pronunciare la parola industria.
«Siamo e restiamo pasticceri artigianali nel segno della continuità di mio nonno e mio padre che nel 1953 — spiega Nicola Fiasconaro,
49 anni, che con i fratelli Fausto e Martino continua la tradizione di famiglia — aprirono il primo piccolo bar. Dopo qualche anno si spostarono nella piazza principale dove sino a oggi
ci sono i nostri negozi e un laboratorio. Papà
Mario cominciò come gelatiere. Poi hanno iniziato con la pasticceria e il catering. Io ero affascinato dalla manualità dei nostri pasticceri e
più che a studiare pensavo a giocare in laboratorio con la pasta sfoglia e il cioccolato».
La passione di Nicola fu assecondata dal padre che in lui vide la terza generazione di pasticcere. «Mi lasciò andare a Messina a trovare
mio zio don Fedele che era parroco di San Giuliano e davanti la sua Chiesa c’era una grande
pasticceria — continua Fiasconaro — che aveva una cinquantina di lavoranti. Capii che era
il mio mestiere e iniziai a frequentare i laboratori di tutta la mia isola, di Napoli, di Roma sino a Torino e Milano».
Al Nord Italia arriva l’intuizione per la produzione dei panettoni che oggi hanno reso la pasticceria Fiasconaro fra le più apprezzate d’Italia. «Negli anni Ottanta ero andato a Chioggia
Sottomarina, in provincia di Venezia, per seguire un corso all’Istituto superiore di Arti culinarie "Boscolo-Etoile" — prosegue — e per caso origliai in un’altra aula la lezione del maestro Teresio Busnelli sulle paste acide». Una
folgorazione e la coraggiosa idea di creare il panettone born in Sicily . «Rientrato a Castelbuono spiegai a papà Mario che dovevamo produrlo anche noi — racconta — rivisitandolo
con le materie prime siciliane dalle mandorle
di Avola ai pistacchi di Bronte sino all’uvetta
aromatizzata al Marsala... Fui preso per folle
ma poi mi assecondò perché in fondo noi siciliani siamo abituati alle diversità culturali. Gre-
S
I FRATELLI FIANDACA
Nel cuore di Palermo
un ristorante da premio
Ospitalità L’attrice Maria Grazia
Cucinotta tra Giuseppe e Fabio Fiandaca
U
Qualità
Nicola Fiasconaro,
nel suo laboratorio di
Castelbuono. Il
pasticcere, 49 anni,
continua la tradizione
di famiglia con i
fratelli Fausto e
Martino. «Siamo e
restiamo pasticceri
artigianali nel segno
della continuità di mio
nonno e mio padre»
ci, romani, arabi, normanni o i francesi e gli
spagnoli hanno lasciato tracce anche nella cucina». Un lampo di genio che oggi si concretizza in un milione di panettoni sfornati per le tavole di tutti i continenti. «I miei sono artigianali e per farne uno impiego tre giorni di lavoro
— dice — e io non diventerò mai un industriale. Spero che altri producano con le vere materie prime della nostra terra in modo rigoroso».
Per questo è nato il «Distretto del dolce tipico
siciliano». «Sono il coordinatore e credo che
occorra immediatamente regolamentare le nostre tradizioni alimentari con disciplinari rigorosi studiati con le Università che — analizza
Fiasconaro — proteggano i consumatori garantendo l’uso di prodotti locali certificati.
Quelle leccornie si trovano sulle tavole
di Papa Francesco, degli sceicchi
del Qatar e di Bruce Springsteen
Non si possono usare le mandorle o i pistacchi
non locali e spacciare poi i dolci per prodotti
della tradizione siciliana. Di questi non hanno
neanche l’odore! Per vincere la sfida dei mercati bisogna fare sistema e studiare».
Uno dei problemi per i pasticceri siciliani è
che per diplomarsi devono lasciare l’isola. «Sogno di creare un’accademia scientifica di arti
culinarie — afferma — tra le colline di Castelbuono dove farei insegnare i miei amici chef.
Da Heinz Beck a Davide Oldani sino ai migliori pasticceri del mondo». È proprio lo studio e
la professionalità che ha portato i dolci di Fiasconaro sulle tavole di Papa Francesco, degli
sceicchi del Qatar o di cantanti come Bruce
Springsteen. Per il Boss è stata riprodotta l’inseparabile chitarra Fender Telecaster utilizzando il cioccolato di Modica Igp. Fiasconaro
però ha un sogno più grande rispetto alla gloria personale. «Vorrei che il Gattopardo non
abitasse più in Sicilia — conclude — e che mio
figlio Mario già bravo in laboratorio resti nella
sua terra per tutta la vita».
na cucina Mediterranea rivisitata, presentazioni curate, materia prima d’eccellenza. È anche grazie a questo biglietto da
visita che Il Ghiottone Raffinato, ristorantino nel
cuore del salotto palermitano, si è guadagnato
quest’anno il «Premio Ospitalità italiana» di
Unioncamere e Isnart con le Camere di Commercio italiane e quelle in rappresentanza all’estero.
Un riconoscimento che premia le dedizione dei
fratelli Giuseppe e Fabio Fiandaca, da qualche
anno a capo anche di una società di catering in
fase di ampliamento.
I punti di forza della loro cucina stanno nella
giusta mescolanza di forma e sostanza. «La prima digestione inizia nel piatto, ci dicono gli esperti — afferma Giuseppe — e noi, fedeli a questo
principio, curiamo molto ogni aspetto di ciò che
serviamo ai clienti». Dalle confetture auto prodotte, alle erbe aromatiche, dalla scelta degli agrumi
alla valorizzazione di alcune pietanze popolari.
Tra i piatti il risotto agli agrumi e scampi, diventato uno dei cavalli di battaglia, i busiati al ragù di
pesce con pangrattato tostato aromatizzato alla
vaniglia, la mousse di baccalà con confettura di
Clementina piccante. Ma anche antipasti della
tradizione, a la mode del Ghiottone, però, come
«Antica Palermo», un piatto che in realtà ne assembla quattro: polpette di sarde con pomodoro
e mentuccia, zucca in agrodolce, caponata di
melanzane o di pesce e insalata di arance, finoc(c.m.)
chi e aringhe
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IL RECUPERO DEL SUINO DEI NEBRODI
Il prosciutto nero amato dal Principe
di Peppe Aquaro
prima vista potrebbe apparire
come una nuova Arca di Noé.
In Sicilia, sul Parco dei Nebrodi, culla della biodiversità della regione, esistono diverse razze autoctone
di animali da preservare. Dalla capra
Cinesana all’asino Pantesco, dal cavallo Sanfratellano al purosangue
orientale.
Esempi che si ritrovano solo qui, dove, far vivere allo stato brado l’animale, vuole dire «non stressarlo e nutrirlo con ciò che trova in natura», osserva Luigi Liotta, ricercatore del dipartimento di Scienza veterinaria dell’università di Messina. Liotta, seguendo
le intuizioni del professor Luigi Chiofalo, ha focalizzato l’attenzione su
una razza in particolare, il suino nero
dei monti Nebrodi, già oggetto d’indagine nell’Ottocento. Perché Nicola
Chicoli, prendendosi la briga, nel
1870, di individuare le razze di suino
presenti nelle diverse province siciliane, aveva intuito che su questo picco-
A
lo suino si sarebbe potuto fare un ragionamento a parte sulla
trasformabilità e la prelibatezza delle
sue carni.
Nel corso del tempo, la diminuzione
delle zone boschive ha reso la vita difficile al suino nero. Occorreva dunque un ritorno al passato, oltre che
una nuova consapevolezza scientifica. Nel 1987, nel simposio di Ajaccio
dedicato ai suini mediterranei, si è
tornati a parlare del «Nero» dei Nebrodi. «Da salvare, rimodellando intorno l’ecosistema originario e realizzando un registro anagrafico per ren-
derlo un prodotto di eccellenza», ricorda il rappresentante dell’unità di
Produzioni animali del dipartimento
di scienze veterinarie. Un prodotto di
eccellenza che oggi è sulle tavole del
mondo intero sotto forma di prosciutto, ultimo step della filiera e trasformazione più celebre del suino nero.
Settemila pezzi l’anno, stagionatura
di venti mesi, per un prezzo che va
dai 50 ai 60 euro al chilo.
È infatti con numeri e qualità che si
combatte la sfida del Consorzio di tutela del suino nero dei Nebrodi, sorto
dieci anni fa, in collaborazione con
«Negli ultimi anni si è
scoperta l’importanza
nutrizionale. Si punta
alla certificazione doc»
Territorio
I suini neri allevati
all’aperto; sopra,
Luigi Liotta,
ricercatore di
Scienza a
Messina; in
basso, Cesarò
l’università di Messina. Un riferimento per gli allevatori del posto, i quali
sembrano aver ritrovato nel disciplinare un nuovo modo di fare impresa,
grazie anche a un programma di sviluppo rurale europeo su un patrimonio da 110 allevamenti, 3.500 soggetti
coinvolti e 800 scrofe.
«Il nostro prosciutto è finito nel piatto
del principe Carlo d’Inghilterra e in
quello del console russo in Italia; l’attrice Maria Grazia Cucinotta, poi,
ogni volta che viene a trovarci, se ne
va via con una cesta-regalo di insaccati», ricorda Luisa, moglie di Agostino
Sebastiani della macelleria La Paisanella, a Mirto, cuore dei Nebrodi.
«Vent’anni fa, il suino nero non lo al-
levava nessuno, considerandolo anti-economico; poi si è capita l’importanza nutrizionale dell’animale», dice Antonino Borrello, il quale, nel
suo bosco, a Sinagra, alleva col metodo «plein air» le sue cinquanta scrofe,
libere di procreare in modo naturale.
«Le scrofe preferiscono sgravare all’interno di capannine in pietra, dette
zimme, integrate col paesaggio circostante», spiega Liotta. Che, da buon
studioso, sa bene quale sia il prossimo passo: la Denominazione d’origine controllata, «ricercando quelle
molecole che rafforzino ancora di più
il legame del suino nero con i Nebrodi».
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Codice cliente: 2748686
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Tunnàra È il sistema architettonico subacqueo di reti che consente la
cattura dei tonni. Non è certo la struttura costiera definita volgarmente
tonnara. Quella si chiama bagghiu se è chiusa a difesa delle attrezzature
oppure camparìa come luogo dove si lavorano le carni dei tonni. Con
il termine duecentesco marfaràggiu s’indica il luogo dello scarico dei tonni
e pure gli immobili adiacenti. La tonnara, è fatta da una serie di compartimenti
comunicanti l’ultimo dei quali, detto camera della morte, consente,
con il sollevamento della rete di fondo, la cattura dei tonni affioranti.
Spettacolo sempre cruento la mattanza, con il mare che si tinge di sangue.
L’enogastronomia
ROSARIA, LE «ROSSE» DELL’ETNA
Le arance siciliane
sfidano il Marocco
Ottimizzare
il raccolto
«Produciamo
circa 28
milioni
di chili
di agrumi,
ma non
buttiamo
nulla, perché
quelle piccole
diventano
succhi
di frutta»
Pannitteri: «Puntiamo sull’alta qualità»
di Simone Fanti
rossa, succosa e italiana. È figlia della tradizione agricola siciliana e ha
successo nei supermercati e ancor
di più sul web dove da tre anni viene venduta. Il nome di battesimo è Rosaria, agrume di Sicilia da tre generazioni. «Se per un
attimo fate mente locale vi accorgerete
che in Italia sono solo cinque o sei i prodotti delle terra che hanno un nome —
spiega Aurelio Pannitteri, titolare dell’omonima società che possiede il marchio di arance Rosaria —. Ci sono le mele
Melinda del Trentino, le banane Chiquita... e da qualche anno anche le arance di
Sicilia Rosaria. Non un agrume qualunque, ma il nome identifica una provenienza ed evoca la peculiarità di queste arance
ovvero il loro colore rosso acceso figlio degli sbalzi di temperatura tra giorno e notte
alle pendici dell’Etna».
A favorire il successo di questo prodotto
anche alcune ricerche scientifiche pubblicate su riviste internazionali che hanno dimostrato come siano presenti in grandi
quantità alcune sostanze, come le antocia-
È
nine, che portano benefici alla salute. Oltre a potenziare l’effetto della vitamina C
sul sistema immunitario, queste sostanze
hanno un potere antiossidante che aiuta
combattere gli effetti dell’invecchiamento. «Un plus — commenta Pannitteri —
che ha riacceso l’interesse sui nostri prodotti rispetto a quelli provenienti da Spagna e dal Maghreb». Il frutto del lavoro di
un gruppo di coltivatori che dal 2008 sono riuniti in un consorzio che porta a
1500 gli ettari della piana di Catania (tra
Ecologico
Aurelio Pannitteri,
titolare dell’omonima
società che
possiede il marchio
di arance Rosaria nel
2012 ha investito per
attivare 7.400 metri
quadri di pannelli
fotovoltaici capaci
di soddisfare la
richiesta energetica
LA RETE PRODUTTIVA
Fare sistema non è solo uno slogan. Per i produttori di agrumi siciliani diventa un must per aggredire un mercato sempre più complesso. Mentre la produzione della stagione 2013-2014 torna ai
livelli degli anni precedenti si ragiona sugli interventi da attuare
per vincere la concorrenza. «Bisogna che i produttori si alleino per
fare massa critica soprattutto nella commercializzazione del prodotto — spiega il vicepresidente nazionale di Confagricoltura, Salvatore Giardina — ed è necessario che si introducano varietà di
arance capaci di resistere più tempo sulla pianta».
(s.f.)
Paternò e Scordia) coltivati. «I tempi sono
molto cambiati da quando mio padre Giuseppe Pannitteri fondò questa impresa, e
io e mio fratello Salvatore abbiamo provato ad allargare il business ad altri 40 produttori aiutandoli nella coltivazione, aggiornandoli sulle ultime tecnologie».
Nel 2012 l’azienda di famiglia ha investito
per attivare 7.400 metri quadri di pannelli
fotovoltaici capaci di soddisfare la richieste energetica. «L’energia in eccesso la
vendiamo — prosegue Pannitteri che si
occupa del marketing e delle attività commerciali —. Qui non si butta via niente,
produciamo circa 28 milioni di chili di
arance che vogliamo vendere. Il nostro veicolo commerciale sono al 99% le grandi
catene di distribuzione che però ci danno
dei vincoli di pezzatura e dimensione della frutta. Così quella troppo piccola la indi-
rizziamo alla trasformazione e alla spremitura producendo succhi di frutta con il
brand Rosaria». L’istinto imprenditoriale
della famiglia (stanno entrando in azienda i figli, la terza generazione), ha portato
a scelte innovative. Come l’idea di vendere le arance via Internet. «Le campagne
pubblicitarie ci hanno concesso una certa
notorietà — conclude Aurelio — ma per
vincere sul web è necessario che il prodotto sia di eccellente qualità. In quel mondo
funziona il passaparola. In tre-quattro anni dal lancio del portale siamo passati da 8
mila a oltre 100 mila cassette da dieci chili
acquistate via internet. E pensare che noi
avevamo messo in piedi il commercio
online per servire zone non raggiunte dalla grande distribuzione e ora ci troviamo a
spedire le nostre arance all’estero».
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IL FORMAGGIO RITROVATO
IL PROGETTO «KHIRAT»
Con la Tuma Persa
cacio e meditazione
Grazie al carrubo
Menfi riscopre l’oro
di Clara Minissale
di Alessandro Luongo
dai canoni di quelle casearie
tradizionali — spiega Passalacqua — perché la Tuma Persa
nasce praticamente nella stagionatura e, dopo essere stata
messa in forma, viene «abbandonata» per 8/10 giorni, prima
di intervenire per la prima volta, quando viene lavata in maniera grossolana la muffa creatasi. La forma è poi «riabbandonata» per altri 8/10 giorni
prima di essere finalmente salata, dopo averla lavata e spazzolata molto accuratamente.
Una forma, che pesa sette chili, deve
stagionare otto mesi a cinque metri
sotto terra in locali
creati appositamente con conci di tufo
alle pareti, prima di
essere consumata».
Questo formaggio
dal sapore leggerRicordi Una vecchia immagine di una rivendita mente piccante ma
mai salato, che ladi formaggi negli anni Cinquanta a Palermo
scia in bocca un
stronovo di Sicilia, in provin- marcato sentore di dolcezza,
compatto ed equilibrato, procia di Agrigento, ha recuperato con pazienza e mestiere. Og- dotto esclusivamente da latte
gi è lui l’unico a produrlo. È un delle vacche dei Monti Sicani,
formaggio a pasta pressata ri- nell’agrigentino, ha incontrato
cavato da latte vaccino, al qua- il gusto non solo dei consumale Passalacqua è giunto dopo tori di casa nostra, ma pure di
americani e inglesi e di grandi
anni di studi e sperimentazioni. Il risultato ottenuto è stato chef che lo usano spesso antalmente interessante da far che per mantecare paste o ripartire nel 2001 il progetto di sotti. Ma è anche un ottimo fine pasto, «un formaggio da merecupero di questa produzione e, parallelamente, anche ditazione», come ama definirl’interesse di Slow Food, che lo lo Passalacqua, il cui successo
sul mercato è in costante asceinserito tra i suoi presidi.
sa.
«La tecnologia di produzione
di questo formaggio esce fuori
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n complesso ecosostenibile di otto appartamenti, con vista campagna e
mare, inaugurato la scorsa primavera, che sarà ampliato di altre
unità provviste di tetti verdi; una
piscina naturale; l’accesso alla pista ciclabile Menfi-Porto Palo; un
country sporting club; un’area ristorazione; ma, soprattutto, dolci
e gastronomia dalla farina di carrubo.
È il progetto cultural-imprenditoriale della società Khirat di Menfi
(Agrigento), dei fratelli Napoli
(Francesca, insegnante e imprenditrice; Ignazio, consulente in
strategie aziendali; e Nicola, ispiratore del progetto, imprenditore
e consulente gastronomico, fiduciario Slow Food del territorio).
«Il termine Khirat è di origine araba e significa seme di carrubo»,
spiega Nicola Napoli. «Nella lingua italiana è tradotto con il termine di carato. Gli arabi avevano
compreso che i semi del carrubo
hanno un peso costante, 1/5 di
grammo, e così li utilizzavano come unità di misura, in particolare
per pesare gemme e i preziosi».
L’albero, diffuso in tutto il Mediterraneo, con i suoi semi facili da
recuperare rappresentava pertanto un’unità di misura, certificata
dalla natura, che travalicava popoli, lingue e culture. «Per risalire
al nome è stata compiuta una ricerca storica, eseguita in parte su
materiale d’archivio della nostra
famiglia, del nonno Nicolò, attento cronista. Ha lasciato varie annotazioni che hanno fatto riemergere una situazione socio-economica ormai sopita nella memoria
degli abitanti di Menfi». Un viag-
ersa perché la sua produzione era stata totalmente dimenticata. Persa perché il processo di lavorazione prevede una serie di passaggi in cui il formaggio viene
abbandonato e poi ripreso.
Persa in omaggio al vecchio
nome che pare fosse tuma perduta. La Tuma Persa è un formaggio ricco di storia, il cui
processo di produzione risale
agli anni trenta del secolo scorso e che Salvatore Passalacqua, casaro per passione di Ca-
P
U
gio a ritroso nel tempo, che ha
mostrato che, sin dalla fine del
’700, nell’area in cui oggi sorge il
Khirat, i declivi e parte della vallata erano ricchi di alberi di carrubo. Un arbusto sempreverde dall’apparato radicale possente, alto
anche fino a dieci metri.
«La popolazione menfitana —
prosegue Nicola — era prettamente dedicata all’attività agricola e una porzione di questa economia, ma anche di sostentamento, era ricavata dai frutti del carrubo. Dai quali si ottiene una farina
Macina Nicola Napoli conta di avviare
nel 2014 il primo molino del carrubo
utilizzata in cucina e impiegata
come additivo di marmellate, cotognata, biscotti, per la preparazione di mostaccioli con vino cotto e addensante nei dolci. Altre
volte era impiegata per la panificazione, la pasta e la nfigghiulata. Il piano di recupero del carrubo è partito nel 2006.
Nel 2014 la famiglia Napoli conta
anche di avviare il primo molino
specifico per la macina del carrubo; un frantoio e un laboratorio
per le elaborazioni gastronomiche. L’investimento globale previsto è di 15-16 milioni di euro.
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
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Gaetano Basile Autore del Glossario siciliano di questo
inserto, è palermitano doc, giornalista ed autore di testi
teatrali, enogastronomo e narratore. Ha alle spalle
un’intensa attività giornalistica televisiva come divulgatore
di tutto ciò che è cultura siciliana. Ha scritto di Sicilia e di
Palermo, di cucina e di cavalli, di Storia e storie. I suoi libri
sono pubblicati da Dario Flaccovio Editore e da Edizioni
Kalòs di Palermo. Ha diretto la rivista di etnoantropologia
Il Pitré, collabora con numerose testate nazionali ed estere.
IL CONSORZIO DI TUTELA
Niente imitazioni
il pomodorino è Igp
Tecnica
e gusto
«I coltivatori
della zona di
Pachino hanno
saputo sfruttare
al meglio
territorio
e tecniche
colturali
per ottenere
piante con
pochi frutti
molto saporiti»
I prezzi bassi frastornano il consumatore
di Clara Minissale
una delle gemme di cui è ricca la Sicilia. Ha un colore brillante e un gusto
inconfondibile. Ma diffidate dalle imitazioni. Perché il vero pomodoro di Pachino
è solo quello a marchio Igp, Indicazione Geografica Protetta, tutelato e garantito dal Consorzio che, dal 2001, si batte per far conoscere il proprio prodotto e per difenderlo dalla
concorrenza sleale di pomodori a basso costo provenienti da altri paesi dalle fascia mediterranea.
Sotto il marchio del Consorzio, tutelate dal
disciplinare del Pomodoro di Pachino IGP,
sono classificate quattro diverse tipologie,
tutte con caratteristiche differenti. C’è il tondo liscio, verde scuro, dal gusto deciso; quello a grappolo o snocciolato, verde o rosso;
quello costoluto, di grandi dimensioni, dalle
coste marcate, verde scuro brillante, che sostituisce il tondo insalataro nel periodo invernale e, infine, il ciliegino, forse il più conosciuto, caratteristico per l’aspetto «a ciliegia», con frutti tondi, piccoli, dal colore rosso
acceso.
«Una delle imprese titaniche del Consorzio
È
— spiega Paolo Meli, responsabile della Comunicazione — è stata ed è ancora quella di
far capire ai consumatori che il pomodoro
Pachino non è sinonimo di ciliegino. Ma
che con questa definizione si identifica tutto
il pomodoro prodotto nella nostra zona, circa 2 mila ettari nella provincia di Siracusa,
nell’estrema punta sud orientale della Sicilia, con caratteristiche ben precise che ne determinano il gusto e le proprietà organolettiche». Ciò che fa la differenza, infatti, è il microclima nel quale il prodotto cresce. Semia-
Lavorazione
Selezione dei
pomodorini ciliegini
Igp Pachino secchi
in una un’azienda
specializzata in
prodotti biologici
che ha coniugato
l’antica tradizione
contadina siciliana
e l’innovazione
tecnologica
I NUMERI
Sono trentacinque le aziende associate nel Consorzio di tutela e
la produzione di pomodoro a marchio degli associati (2012) arriva a 50 mila quintali. La percentuale di produzione a marchio
rispetto l’intera produzione di pomodoro locale: 25% e l’estensione in ettari del comprensorio Igp Pachino è di 2.000 ettari di
S.A.U. (Superficie Agricola Utilizzata). Il prezzo medio dal consumatore varia tra i cinque e i sei euro al chilo, mentre il prezzo
pagato al produttore è tra un euro e un euro e cinquanta centesimi al chilo.
rido, con precipitazioni inferiori rispetto ad
altre zone della Sicilia, con il sole che splende tutto l’anno facendo di Pachino il comune più soleggiato d’Italia. «Questa combinazione tra luce, acque di falda salate e terreno
fertile, dà prodotti estremamente dolci con il
giusto grado di salinità, che possono essere
consumati anche senza condimenti e che risultano eccellenti anche cotti — afferma Meli — e la differenza con altri pomodori è evidente. Inoltre, i coltivatori della zona hanno
saputo sfruttare territorio e tecniche colturali per ottenere piante con pochi frutti molto
saporiti». Oggi la produzione si attesta sui 50
mila quintali tra ciliegino e insalataro.
Ma nonostante, negli anni, il pomodoro di
Pachino si sia affermato ritagliandosi una
sua nicchia di mercato, utilizzato anche da
grandi chef, la crisi non lo ha risparmiato e
oggi il Consorzio pensa ad un rilancio del
comparto anche attraverso una politica di
promozione del territorio.
«Purtroppo il consumatore finale non ha
molti strumenti per riconoscere il vero Pachino e cede alle lusinghe dei prezzi più bassi di
un prodotto dalle caratteristiche ben diverse
dal nostro, cosa che ci penalizza molto — sostiene il responsabile della Comunicazione
del Consorzio —. Per questo abbiamo scelto
di commercializzarlo in confezioni sigillate
con il marchio del Consorzio ed è pressoché
impossibile trovarlo sfuso sui banchi del
mercato, perché la maggior parte dei produttori fa capo al Consorzio. Il nostro obiettivo
— conclude — è quello di rilanciare il pomodoro attraverso il rilancio di Pachino come
area dalla forte vocazione turistica, che può
offrire ai visitatori spiagge, mare e sole, con il
valore aggiunto dei prodotti di qualità».
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L’AZIENDA DI ENRICO RUSSINO
L’ASSOCIAZIONE DI CHEF E ALBERGATORI
Le aromatiche
da esportazione
E il Grand Tour
lo disegna Ulisse
di Valentina Gravina
di Maurizio Di Gregorio
dei profumi più tipici della Sicilia: la satra (timo selvatico), la
nepetella e il finocchietto selvatico indispensabili in cucina.
«L’idea di puntare sugli aromi è
nata per caso e in controtendenza rispetto alla vocazione ortofrutticola della zona», racconta
il titolare Enrico Russino. «Volevamo creare qualcosa di nuovo
ed era assurdo che proprio in Sicilia non ci fosse una sola azienda specializzata in piante aromatiche».
Oggi la famiglia Russino punta
anche all’incoming,
invitando i clienti direttamente in azienda per offrire loro
un percorso multisensoriale alla riscoperta di profumi, sapori e ricordi del passato. E così accade
che una serra, in
una collina affacciata sul mediterraneo,
si trasformi in un
Didattica Una scolaresca ascolta la lezione
loft esclusivo per un
del «prof» Russino
«aromaperitivo» al
sformati come nel paté di cappe- tramonto, in cui odori, colori, fori, ma anche in vaso per orti e od e fashion creano un’atmosfegarden design. Prodotti amati ra irripetibile.
anche all’estero, come Stati Uni- Un’azienda con tale fervore non
può non proiettarsi nel futuro.
ti, Canada, Olanda e Germania,
che fanno della Sicilia crocevia Concreta l’idea di occuparsi anche dell’estrazione di olii essennel mercato degli aromi.
L’azienda negli anni si è trasfor- ziali per offrire percorsi benessemata in un luogo sensoriale ca- re ancora più completi, e di ampace di offrire un’esperienza oli- pliare la coltivazione di piante
stica a 360 gradi, con percorsi ol- non endemiche, come quelle
tropicali. Da 2 anni sono in corfattivi e didattici, degustazioni,
corsi di cucina e cooking show. so, infatti, sperimentazioni per
Si fa presto a dire «ravioli burro poter gustare mango, avocado,
e salvia» finché non si scopre carambola, litchis e papaya rigoche esistono almeno 1200 tipi di- rosamente «made in Sicily».
versi di pianta. Per non parlare
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ristoranti soprattutto, da Mosca, oggi l’associazione ragquelli affidati ai giovani ta- gruppa ben trentuno ristoranti
lenti a quelli con tanto di e venti hotel toccando in pratistelle Michelin da sfoggiare sul ca tutte le province siciliane.
camiciotto bianco. E poi gli al- Ed infatti torna prepotente,
berghi, quelli di charme che proprio per desiderio di La Rosanno coccolarti senza fronzo- sa che è il segretario de Le Soli ma con molta sostanza. Tutti ste di Ulisse, l’idea del Grand
Tour Sicilia, quello che a partiinsieme. Un caso di individualismo collettivo. Scusate il pa- re dal ’700 portò in Sicilia fior
radosso linguistico ma è la mi- di scrittori e filosofi da tutta Eugliore espressione per definire ropa attratti da un contesto,
quello dell’Isola, unico al mon«Le Soste di Ulisse», l’associazione che raggruppa tra i mi- do. E poi quel nome, Ulisse,
gliori ristoranti e hotel della Si- che forse dice tutto. Di diverso
cilia.
Tutti insieme chef,
ristoratori e albergatori con lo sguardo benevolo e munifico di alcune tra
le cantine più trendy dell’Isola. Da undici anni questo circuito virtuoso che
ispira cose buone e
relax lavora insieme nel nome della Stellato Pino Cuttaia nel suo ristorante la
Sicilia. Ognuno Madia a Licata fa parte delle Soste di Ulisse
non rinuncia a produrre nel proprio regno, che aggiunge l’attuale presidente
sia una cucina o un albergo, dell’associazione Enrico Briguma poi insieme fanno rete, glio, patron di «Casa Grugno»
stampano cataloghi da dare al- e «Duomo» a Taormina, c’è
la clientela, partecipano alle che oltre alle bellezze naturali
fiere del lusso, consigliano ai e culturali la Sicilia oggi può ofpropri avventori gli altri colle- frire ristoranti e hotel d’eccellenza.
ghi del circuito e si scambiano
informazioni e fornitori di ma- Nel nome di una regione che
non finisce di stupire per ricteria prima.
Nata undici anni fa per una fe- chezza di luoghi da vedere e
lice intuizione di Giuseppe La cose buone da mangiare.
L’elenco completo dei ristoranRosa, patron de «La Locanda
di Don Serafino» di Ragusa ti e degli alberghi che fanno
Ibla e dell’allora chef del «Muli- parte di questo circuito è sul sinazzo» di Villafrati Nino Gra- to www.lesostediulisse.it.
ziano da alcuni anni ormai a
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ndare per campi, riscoprire il profumo delle erbe, annusare il benessere della natura. Un sogno per
molti ma un piacere per pochi.
Da questa idea nasce a Scicli
(Rg) l’azienda «gli Aromi» della
famiglia Russino, fiore all’occhiello siciliano nel settore delle
aromatiche, produttrice di erbe
officinali e profumi commercializzati in tutto il mondo.
Aromi come l’origano, la stevia,
il basilico, sono disponibili in
mazzetti freschi, essiccati o tra-
A
I
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Lo sport
IL PRIMATO DELLA PALLANUOTO FEMMINILE
Quando le calottine
dominano il mondo
Ci vuole forza
e abnegazione
L’Orizzonte
Catania nella
sua storia,
ormai
trentennale,
ha vinto
tantissimo:
19 scudetti
assoluti,
8 Coppe dei
Campioni,
1 Supercoppa
Malato: «Al top per anni, ora faccio la mamma»
di Giovanni Tomasello
a pallanuoto, sport eternamente amato nell’Isola dove le «calottine» hanno
sempre ricambiato il calore dei siciliani mietendo successi a ripetizione. Gli uomini per prima e le donne più tardi, ma solo
perché il primo campionato femminile si disputò nel 1985 quando nacque anche quel
Dopolavoro ferroviario Catania che già l’anno successivo balzerà in serie A dove presto
si chiamerà Orizzonte. Inizia così una leggenda dello sport. La società è fondata da Gino
Pizzuto ed Enzo Aidolà con un drappello di
ragazze dotate tecnicamente e animate da
una straordinaria carica agonistica: Flavia
Villa, Elena Bacchelli, Claudia Vinciguerra,
Sabrina Barresi tanto per ricordare qualche
campionessa di allora, ma soprattutto Giusi
Malato, il simbolo dello strapotere della pallanuoto femminile siciliana in Italia e in Europa, forse la «calottina» più forte di tutti i
tempi.
L’Orizzonte nella sua storia ormai trentennale ha vinto tutto quello che c’è da vincere: 19
scudetti assoluti, 8 Coppe dei Campioni, 1
Supercoppa e ci fermiamo qui perché l’elen-
L
co delle altre conquiste «minori» sarebbe veramente troppo lungo. Attualmente vice
campione d’Italia, il sette catanese si è rinnovato negli anni sfornando campionesse in rapida sequenza, ma nessuno ha finora emulato la sua capitana storica e per anni pure allenatrice Giusi Malato, medaglia d’oro alle
Trascinatrice
Sopra, Giusi Malato
nelle vesti di
allenatrice
dell’Orizzonte
Catania e, sotto,
quando giocava
Olimpiadi con la nazionale azzurra e vincitrice della «calottina d’oro» 2003, un riconoscimento che viene assegnato alla migliore atleta nel mondo.
La campionessa catanese s’emoziona ancora oggi pensando a quei momenti e sembra
impossibile che dopo tanti trionfi non faccia
più parte dell’Orizzonte neanche come dirigente. «Trent’anni fa — confessa Malato —
cominciammo quasi per scherzo, poi non ci
fermò più nessuno e abbiamo anche permesso alle ragazzine di crescere e affermarsi perché la pallanuoto l’avevamo nel sangue. In
fondo la pallanuoto è nata con noi. Non sono più nell’Orizzonte? I legami a volte si
spezzano, anche quelli forti e c’è perfino poca riconoscenza. Adesso faccio comunque la
«Cominciammo quasi
per scherzo, poi non
ci fermò più nessuno»
mamma». Cosa ci si attende dalla pallanuoto siciliana? «Che anche gli uomini dopo la
retrocessione dall’A1 dell’Ortigia Siracusa
possano riconquistare subito la massina serie. Ci sono ben quattro squadre siciliane in
A2 e bisogna insistere».
E l’Orizzonte per la prima volta quest’anno
non sarà il solo «sette» catanese in A1: a farle
compagnia la neopromossa Blu Team che si
è anche assicurata Emmuky Greenwood,
classe 91, una forte universale statunitense
proveniente dall’Ucla. A Catania c’è già la
febbre della stracittadina e soprattutto la voglia di dominare anche in Europa. Nel settore maschile persa l’A1 per un soffio l’Ortigia
si ritroverà in A2 con due catanesi «purosangue» — la storica Nuoto Catania e i Muri Antichi — la TeLiMar Palermo società forti fra
l’altro un vivaio fiorente che fa sperare in un
futuro più esaltante per i pallanotisti che vantano una lunga tradizione risalente agli anni
Trenta quando già le sfide in piscine, spettacolari e seguitissime, esaltavano i siciliani facendo loro dimenticare gli atavici problemi
dell’Isola.
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LA SCHERMA
ARTI MARZIALI
L’isola di spade
(da cento anni)
Judo e karate:
scuola di talenti
B
di Lorenzo Magrì
Londra 2012 e ai Mondiali di Budapest 2013 dopo aver conquistato il bronzo individuale ai
Mondiali di Catania 2011.
A Catania, dopo i cicli aperti dall’indimenticabile Angelo Arcidiacono e da Mino Ferro, oro e
bronzo ai Giochi di Los Angeles,
la tradizione continua e, così,
nel 2011 è arrivato l’oro iridato
di Paolo Pizzo nella spada, mentre in azzurro svettano ormai in
maniera stabile gli acesi Enrico
e Daniele Garozzo e Marco Fichera e le due spadiste etnee
Rossella Fiamingo e
Alberta Santuccio.
Ma la vivace scuola
schermistica siciliana si arricchisce anche grazie a numerosi giovanissimi talenti che svettano nei
vari tornei e che hanno già vestito l’azzurro in manifestazioni
internazionali come
l'etneo Giacomo
Top Giorgio Avola, 23 anni, ha vinto l’oro nel
Scalzo e l’acese Gafioretto a squadre ai Giochi di Londra 2012
briele Risicato, mentre anche a livello master contigento nel fioretto.
E la tradizione continua ancora nua a fare bene Mino Ferro che,
con successo a Catania e nella oltre a portare punti nel torneo
sua provincia e, da qualche an- di Serie A con il Cus Catania,
no, anche a Modica, la cittadina svetta nelle gare internazionali
amatori. E oltre al Cus Catania
ragusana patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, dove, grazie che ha avuto in azzurro un nutrianche a Giorgio Scarso, attuale to numero di azzurri, in Sicilia riflettori sono puntati anche sul
presidente della Federscherma
(modicano doc), continuano a Club Scherma Acireale, la Conad Scherma Modica e il Mare
venire fuori grandi campioni.
Fra questi spicca Giorgio Avola, Azzurro Acireale. E così, spada,
23 anni, che ha iniziato a calca- fioretto e sciabola continuano a
re le pedane proprio con il mae- regalare grandi soddisfazioni alstro Scarso. Avola, fiorettista az- la Sicilia e all’intero movimento
zurro di razza, ha vinto l’oro nel azzurro.
fioretto a squadre ai Giochi di
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elle trenta edizioni dei
Giochi Olimpici fino ad
ora disputati, la Sicilia
ha vinto 37 medaglie (7 ori, 10
argenti e 19 bronzi) e ben 13 (8
ori, 3 argenti e 5 bronzi) sono arrivate dalla scherma. Nell’isola
esiste, infatti, da sempre una
grande scuola schermistica,
una tradizione che ha antiche
radici, basti pensare che la prima medaglia siciliana ai Giochi
arrivò alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912 e porta la firma del
palermitano Pietro Speciale, ar-
N
en settecento società e siracusano Luigi Busà, leader
nel kumite a livello internaziooltre 10 mila i tesserati.
Ecco in Sicilia i numeri nale.
delle arti marziali, la discipli- Nello judo la Sicilia può conna sportiva che raccoglie lot- tare sul giovane più interesta, judo e karate in una unica sante del panorama internafederazione, la Fijlkam, e che zionale, il messinese Elios
è il fiore all’occhiello dello Manzi, 17 anni, allievo di Corrado Bongiorno, capace di
sport isolano.
Un primato non solo per il nu- vincere il titolo europeo nella
categoria 55 kg e conquistare
mero di atleti alle Olimpiadi
(sono stati 15 nella storia con l’argento ai Mondiali e sul
Catania e Palermo leader) suo compagno di allenamenma per i successi in campo in- ti Angelo Pantano, oro agli Europei cadetti nella categoria
ternazionale che confermano
come queste discipline siano 50 kg.
Sono questi due ragazzi mescosì radicate profondamente
sul territorio. Nella lotta le sinesi, insieme ai catanesi Anscuole di Catania e
Palermo continuano a sfornare talenti e, oltre ai successi a livello assoluto
con Daniele Ficara, campione italiano nella categoria
120 kg, che nel
2012 ha sfiorato la
convocazione
olimpica che manca alla Fijlkam sici- Finanziere Il karateka palermitano Luca
liana dal 2004, gio- Valdesi (28 anni) è campione del mondo
vani emergenti come Andrea Sorbello e Salvo gelo Lanzafame, Mario StrazMannino, affiancati dal paler- zeri e Luca La Fauci il futuro
mitano Carmelo Lumia, conti- dello judo siciliano che adesnuano a dominare la scena so, oltre alle scuole di Catania
nazionale e non solo.
e Messina, vede affermarsi alIl karate non è specialità olim- tre realtà nella provincia di
pica, ma c’è un palermitano,
Ragusa, con Scicli in primo
Luca Valdesi (28 anni ispettopiano.
re della Guardia di finanza)
A conferma della bontà della
che non conosce rivali a livello internazionale e, anche scuola siciliana di arti marziaquest’anno, è arrivato sul tet- li, la Fijlkam ha istituito a Catania un centro federale diretto del Mondo.
Parte della gloria la divide col to con successo dall’ex olimpionico di lotta, Salvo Campapadre, suo unico maestro,
(l.m.)
che lo segue da quando ave- nella.
va otto anni. Lo ha imitato il
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Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
Inaugurazione
A sinistra, il taglio del
nastro dell’impianto
Torre del Grifo, la
casa dei rossazzurri.
Costato 60 milioni di
euro oggi vale più del
doppio, ed è
all’avanguardia in
Europa: una struttura
aperta al pubblico
con piscine, palestre,
parrucchiere,
wellness e bar.
Quattromila i soci
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Indotto
Da quando il Palermo
ha perso la serie A
quello che ruota
attorno ai weekend del
pallone ha subito una
flessione: alberghi, bar,
ristoranti, taxi segnano
un meno 40%. Un hotel
di lusso dove andavano
in ritiro le 5 o 6 squadre
più blasonate
lamentava mancati
incassi per centinaia di
migliaia di euro
LA CRESCITA CHE IL CALCIO HA PORTATO ALLE DUE CITTÀ
econdo un vecchio ragionamento sociologico, il livello di una squadra di calcio
esprime e sintetizza il grado di evoluzione del suo territorio. Non sempre questo racconta tutta la verità e anzi quello che l’esperienza siciliana ci spiega è semmai il contrario. Laddove la realtà sportiva ha anticipato i
tempi, andando quindi oltre i limiti della sua
città, può aiutare a crescere ed evolversi l’intero universo urbano che gli gira intorno. Del
resto se prendiamo Palermo e Catania che
più o meno da un decennio abitano o abitavano nel massimo palcoscenico del calcio italiano, è facile capire che i due capoluoghi isolani, per qualità della vita, non sono certo da
serie A, come del resto ci dicono tutte le classifica di vivibilità. Però la squadra rosanero e
quella rossazzurra hanno dato una mano alle
loro città che in tutto questo tempo sono migliorate e cresciute.
Per capire meglio il fenomeno, entriamo proprio dentro il derby, la sfida per antonomasia
della Sicilia calcistica. Il primo anno che le
due squadre si sono affrontate in serie A, il Cibali fu teatro della più brutta pagina dello
sport siciliano: gli incidenti fuori dallo stadio
che portarono alla morte dell’ispettore di Polizia, Filippo Raciti. Per mesi, anzi anni, l’intera città fu vista di malanimo, la squadra mal
S
Catania e Palermo
come pensare da serie A
di Francesco Caruso
sopportata e fu quasi un miracolo se alla fine
di quella stagione completata lontana dal proprio stadio (giustamente squalificato) il Catania — quarto in classifica al momento del derby — riuscì ad evitare la retrocessione. Da allora molto è cambiato, ma sono stati necessari diversi anni e molti derby interdetti alla tifoseria ospite prima di tornare alla normalità. E
comunque quella lezione — sebbene pagata
ad un prezzo spropositato — è servita. Oggi
le Curve dei 2 principali stadi siciliani non sono più quell’inestricabile groviglio di turbolenza che erano. Merito anche delle due società, capaci di educare senza mai porgere il
fianco alla violenza.
Il Palermo del friulano Zamparini è retrocesso quest’anno dopo 9 anni filati di A, il Catania del catanese Pulvirenti è all’ottava stagione consecutiva nella massima serie e un altro
lascito della prolungata presenza nel campionato maggiore è che entrambi hanno saputo
creare un’indipendenza da tifo. Ovvero i 2 capoluoghi di una regione storicamente abituata a soggiacere alla dominazione di tutti, si sono liberati dall’assedio dei grandi club. Se fino a qualche anno addietro i ragazzini che
giocavano a pallone erano soliti indossare le
maglie di Juve, Inter e Milan, oggi non è più
così: girando per oratori e strade di Palermo
e Catania vedrete solo rosanero e rossazzurro. Ma non solo per questo sarebbe necessario che Palermo tornasse al più presto nel
campionato maggiore e che Catania ci restasse: d’accordo tener vivo l’entusiasmo e la passione delle generazioni più giovani, ma è anche importante continuare ad alimentare
quel circolo virtuoso che il calcio dei massimi
sistemi tiene vivo. Ad esempio l’indotto che
ruota attorno ai weekend del pallone: alberghi, bar, ristoranti, taxi. Ci diceva qualche
giorno addietro un tassista di vecchia conoscenza che la retrocessione del Palermo ha ri-
dotto del 30-40 per cento i suoi introiti. Il direttore di un hotel di lusso dove andavano in
ritiro le 5 o 6 squadre più blasonate lamentava mancati incassi per centinaia di migliaia
di euro a causa dell’inevitabile defezione. Ecco cosa vuol dire perdere la serie A.
E però il risvolto più importante è quello delle strutture sportive. In questo senso Palermo
non ha ereditato ancora nulla, da anni Zamparini si batte per la realizzazione del nuovo
stadio ma dell’ambizioso progetto per ora sono rimaste solo chiacchiere e il video di un
bellissimo progetto virtuale, l’unica costruzione che è stata consentita al presidente rosanero è la Conca d’Oro, un centro commerciale
nel quartiere dello Zen. Diversamente a Catania la serie A ha già prodotto una perla: Torre
del Grifo, centro sportivo polivalente che non
è solo la casa del club rossazzurro (4 campi di
calcio con tribune, di cui 2 in erba sintetica,
spogliatoi, ristoranti, sala benessere, reparto
di medicina riabilitativa, club house, albergo) ma anche una struttura aperta al pubblico (piscine, palestre, parrucchiere, wellness,
bar eccetera). Un impianto costato 60 milioni
di euro che oggi vale più del doppio, all’avanguardia in Europa e che fa leva su 4 mila soci.
Nessun gol potrebbe valere di più.
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
Italie/Sicilia - Corriere della Sera - Venerdì 27 Settembre 2013 -
L’ultima parola
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Nato a Palermo nel 1959, Roberto Andò (foto) ha firmato opere cinematografiche
e teatrali. Ha studiato filosofia e ha collaborato, agli inizi, con registi come Francesco
Rosi e Federico Fellini. Tra i film che ha diretto, ricordiamo «Il manoscritto
del Principe» (in cui narra le ultime fasi della vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa),
«Viaggio segreto» (2006) liberamente tratto dal romanzo «Ricostruzioni» di Josephine
Hart. Nel 2013 ha firmato «Viva la libertà», con Toni Servillo, tratto dal romanzo
dello stesso Andò «Trono Vuoto», edito da Bompiani. Con questa pellicola,
un racconto di potere e vita personale di un politico, Andò ha vinto diversi
premi, tra cui il «Sergio Leone» al Festival di Annecy e L’Efebo d’Oro di Agrigento.
Voce tra teatro
e cinema d’autore
DA LEGGERE
Un legal thriller rurale
nelle terre di Siracusa
La mattina del 6 ottobre 1954,
le campagne di Avola (Siracusa) si tingono di giallo: scompare Paolo Gallo, mezzadro che
aveva portato le bestie al pascolo. Inizia così «Giallo d’Avola», di Paolo Di Stefano, un legal thriller in terra contadina
che ha vinto Premio letterario
Viareggio-Rèpaci 2013.
Paolo Di Stefano, «Giallo
d’Avola», pp. 340, Sellerio
L’epoca di Pirandello
per immagini e ricordi
ROBERTO ANDÒ
«Molte parole, pochi fatti
Nostra forza (e debolezza)»
Il regista palermitano: «Alla concretezza preferiamo la letteratura»
di Roberta Scorranese
Ogni cosa
è metafora
«Qui ogni
rivoluzione
ha il
retrogusto di
una finzione.
Ma non per
malafede:
perché viene
percepita
così, poco
concreta
e molto
teatrale,
simbolica»
a grande debolezza della Sicilia? Surrogare il fare con il dire. La grande forza della
Sicilia? Surrogare il fare con il dire. Non è
una contraddizione: è una strada senza uscita».
Roberto Andò, 54 anni, uno dei registi più interessanti degli ultimi tempi, fresco vincitore dell’Efebo
d’Oro di Agrigento con «Viva la libertà!» — racconto di paura e potere con Toni Servillo. Siciliano di
Palermo, raffinatissimo conoscitore della cultura sicula, già amico di Sciascia e studioso di Tomasi di
Lampedusa. Intriso di quel sapere antico e forbito,
profondo e votato alla continua autocoscienza. «Ecco perché dico che il surrogare il fare con il dire è al
tempo stesso la nostra forza e la nostra debolezza
— continua Andò —. Debolezza perché questa tendenza a dire, parlare, argomentare, difficilmente ci
fa trasformare le cose in progetti concreti; forza perché è da qui che nasce una straordinaria tradizione
letteraria e teatrale; è da qui hanno origine Pirandello, Consolo, Sciascia, Bufalino e Camilleri».
Non è casuale che le radici culturali di Andò siano
letterarie, prima ancora che teatrali e cinematografiche: la collaborazione con Sciascia, il passaggio alla sceneggiatura, il rapporto (che lui considera molto importante) con Francesco Rosi, la messa in scena di una favola filosofica scritta da Italo Calvino.
E, in quella immaginaria lotta tra «vittoriniani» e
«gattopardiani», lui sta con il Gattopardo, almeno
d’istinto. «Ci riferiamo — sorride — a quando Elio
Vittorini, negli anni d’oro della Einaudi, "rifiutò" Il
Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (per la verità,
lo consigliò alla Mondadori, ndr) definendolo, in
una lettera, "vecchiotto". Bene, ma oggi il romanzo
di Tomasi di Lampedusa continua a essere un long
seller , mentre i libri di Vittorini, anche se bellissimi,
sono letti da un numero di persone certamente inferiore». La Sicilia, dunque, è quella nostalgica e vetero-aristocratica del principe Salina e non quella metaforica di Uomini e no? «Nella sua intuizione di un
mondo che si muove restando immobile — spiega
«L
ItalieSicilia
Supplemento della testata
4
del 27 settembre 2013
— credo che Tomasi di Lampedusa abbia intuito il
vero carattere dei siciliani, rivestendo i suoi personaggi di una modernità unica, capace di scavalcare
tutte le avanguardie. Perché noi siamo così: abbiamo bisogno di parlare, spiegare, scavare, raccontare. Così facendo, non agiamo. Andate a vedere Via
Castellana Bandiera , il film di Emma Dante. La storia di due auto che si incrociano in una viuzza e
che, per decidere quale delle due debba fermarsi
per far passare l’altra, ingaggiano una specie di
duello western. Ecco, noi siamo questi».
Il suo «Viva la libertà!» è un film tratto da un romanzo dello stesso Andò, Il trono vuoto (Bompiani, Premio Campiello Opera prima 2012), in cui il tema
del doppio raggiunge un raffinato parossismo pirandelliano: il segretario del principale partito di
opposizione, contestato dalla base, decide di «sparire» e il suo posto viene preso dal fratello, somigliante a lui nell’aspetto ma molto più brillante e fantasioso, nonostante abbia delle turbe psichiche. «Ecco — dice ancora il regista — noi siciliani siamo affetti da un individualismo di fondo che ci porta a
essere unici nelle personalità, ma incapaci di trovare una forma comune, una chiave di lettura univoca. Altro elemento letterario, importante nel produrre cultura, ma un freno nel passaggio all’azione.
E sapete un’altra cosa? Quando osservo il giusto
comportamento di politici e uomini delle istituzio-
‘‘
Ci vorrebbe una forte
volontà ad agire,
qualcosa che trasformasse
i progetti in azione.
Ecco, io dico: facciamolo!
Direttore:
FERRUCCIO DE BORTOLI
Condirettore:
LUCIANO FONTANA
Vicedirettori:
ANTONIO MACALUSO
DANIELE MANCA
GIANGIACOMO SCHIAVI
BARBARA STEFANELLI
ni, che dichiarano guerra alla mafia o che, lodevolmente, si mettono in gioco per un reale rinnovamento, da una parte mi sento sollevato e felice, ma
dall’altra resta sempre un’ombra. Un dubbio: qui
ogni rivoluzione ha il retrogusto di una finzione.
Ma non per malafede: perché viene percepita così,
poco concreta e molto teatrale, simbolica. La Sicilia
è una grande, infinita, bellissima metafora».
Andò però non rinuncia ad un ottimismo che si
concilia con le numerose, recenti ondate di rinnovamento politico ed istituzionale sull’isola. Ma al
tempo stesso auspica una volontà politica forte e coesa, che non si fermi ai proclami. «Quando vedo i
giovani impegnati in azioni forti di protesta — spiega — sono molto felice e fiducioso. Penso al movimento attorno a Addiopizzo. O alla cosiddetta Protesta dei lenzuoli bianchi. Ma poi mi chiedo: dove
vanno se non sono sorretti da un’azione politica
adeguata? Dove vanno se la politica non li aiuta
con iniziative concrete, dando un senso alla
teatralità delle loro azioni? Noi siciliani abbiamo
una grande risorsa che è l’istintiva capacità di pensare in grande. Basti guardare alla nostra storia: tante volte abbiamo immaginato cose apparentemente impossibili e le abbiamo realizzate. Ci vorrebbe
una forte volontà ad agire, qualcosa che trasformasse i progetti in concretezza. Facciamolo!».
Pochi i suoi film dedicati strettamente alla Sicilia,
ma Andò anticipa un progetto: «Mi piacerebbe raccontare la straordinaria avventura del giornale
L’Ora di Palermo. Storie di persone che hanno avuto il coraggio, per la prima volta, di usare la parola
"mafia"; che hanno imbastito un progetto quello sì
rivoluzionario, con l’autentico desiderio di cambiamento. La Sicilia ha bisogno di queste svolte, ha bisogno di parole che si trasformino in fatti, di cose
che mutino davvero. Lo realizzerò? Non so, di certo
ci sto pensando da tempo e vorrei che questo diventasse il mio vero racconto siciliano».
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Art director: Gianluigi Colin
In redazione:
Alessandro Cannavò (caporedattore)
Maria Luisa Villa (caporedattore)
Enzo d’Errico (vicecaporedattore)
Maurizio Di Gregorio,
Carla Mondino (grafico),
Marcello Parilli,
Roberta Scorranese
Marco Vinelli
Nell’album fotografico «I Pirandello. La famiglia e l’epoca» sfila il tempo del grande autore
Premio Nobel per la Letteratura 1934. Un racconto per immagini che restituisce, come
dietro un vetro, la fotografia nitida di un’epoca. Nella vita dello
scrittore si legge un secolo.
Sarah Zappulla Muscarà
e Enzo Zappulla, «I Pirandello», pp. 230, La Cantinella
Il viaggio sentimentale
di uno scrittore (a sud)
Un viaggio sentimentale, quello che Giuseppe Culicchia compie, in «Sicilia, o cara». I ricordi
dell’infanzia, il ritorno in luoghi
che hanno ormai il sapore di un
tempo andato. Palermo, Trapani e le carezze degli zii, il dialetto e i dolci. Un’isola da ritrovare
nelle parole e nelle sensazioni
che furono bambine.
Giuseppe Culicchia, «Sicilia,
o cara», pp. 134, Feltrinelli
Il destino dell’uomo
chiuso in un ritratto
Tutto parte da un ritratto, l’affascinante ed enigmatico uomo
vestito di nero di Antonello da
Messina (foto: un dettaglio). Attorno a esso ruotano le vicende del Risorgimento siciliano,
tra Lipari e Palermo, Messina e
Cefalù, luoghi specchio della
condizione dell’uomo.
Vincenzo Consolo «Il sorriso
dell’ignoto marinaio»
pp. 175, Mondadori
Un uomo di successo
ma dal passato oscuro
Sari De Luca è un cinquantenne di successo, alla guida del
più importante gruppo editoriale italiano. Ma le sue radici siciliane lo inseguiranno fino a Milano, dove ha costruito la sua vita. In «Un uomo molto cattivo»,
Giuseppe Di Piazza ritrae una
Sicilia «trapiantata» al Nord.
Giuseppe Di Piazza,
«Un uomo molto cattivo»,
pp. 288, Bompiani
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- Venerdì 27 Settembre 2013 - Corriere della Sera - Italie/Sicilia
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