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I problemi dell`Italia Unita. I governi della Destra e della Sinistra

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I problemi dell`Italia Unita. I governi della Destra e della Sinistra
I problemi dell’Italia Unita. I governi della Destra e della Sinistra Storica
Con l’unificazione il nuovo stato si trovò ad affrontare innumerevoli problemi di carattere politico,
culturale, economico.
Il primo di essi era il dover superare gli enormi squilibri che il territorio unificato presentava. Il Regno
d’Italia nascente era formato da territori da secoli separati, singoli stati che avevano avuto una storia
diversificata, con governi, culture e dialetti diversi e con un differente grado di sviluppo. Secoli di
dominazione straniera, la difficoltà di viaggiare velocemente, la mancanza di mezzi di comunicazione per
diffondere le notizie avevano fatto sì che gli abitanti della penisola avessero mentalità e abitudini
completamente diverse. Era necessario, quindi, costruire e organizzare il nuovo stato, che presentava un
territorio dodici volte più grande del Piemonte, superare le secolari diversità politiche, geografiche,
economiche. Il processo di uniformazione iniziò con l’abolizione dei sistemi legislativi vigenti e l’estensione
a tutto il territorio delle leggi piemontesi, che spesso furono sentite lontane e incomprensibili, se non
addirittura vessatorie per molti cittadini della nuova Italia. Lo stato fu organizzato in modo centralizzato e il
territorio venne diviso in province, ognuna governata da un prefetto, nominato dal ministro dell'Interno,
mentre i sindaci dei comuni venivano nominati dal governo. La capitale restò a Torino e dopo qualche anno
trasferita a Firenze.
Il secondo problema era di carattere culturale: gli abitanti nel 1861 erano 21.000.000 di cui 16.800.000
analfabeti, presenti soprattutto nel Meridione. La lingua italiana era conosciuta solo in alcune zone della
toscana, mentre nel resto del territorio in ogni regione si parlava il proprio dialetto. Il sistema scolastico
presentava enormi differenze: solo nel Piemonte, nella Lombardia e nel Veneto, dove il governo austriaco
aveva reso gratuita l’istruzione dai sei ai 13 anni, la situazione era migliore; altrove le scuole erano private o
gestite dalla chiesa e al sud i bambini dovevano cominciare a lavorare molto presto. Anche in questo caso il
Regno d’Italia adottò le leggi piemontesi sulla scuola pubblica, che affidavano ai comuni la spesa per la
costruzione e la gestione degli istituti scolastici. Ma la mancanza di soldi, soprattutto nel Sud, impedì spesso
ai comuni di costruire scuole e non bastò rendere obbligatori i primi due anni delle elementari con una
legge apposita: non c’erano aule, maestri e soprattutto non c’era il riconoscimento dell’importanza
dell’istruzione. I genitori non volevano che i loro figli andassero a scuola perché dovevano essere di aiuto
nel lavoro dei campi oppure servire come garzoni nelle miniere di zolfo. Solo molti anni dopo l’unità le cose
cominciarono a migliorare, e con maggiore difficoltà al Sud.
La mancanza di un’istruzione e di un patrimonio culturale comune fece sì che nella realtà gli italiani delle
varie regioni non riuscissero ancora a capire di far parte di un unico stato, anche perché evidenti erano le
disuguaglianze e le ingiustizie, particolarmente nel Meridione. I contadini poveri del Sud avevano sostenuto
l’impresa di Garibaldi perché speravano di migliorare le loro condizioni di vita attraverso la realizzazione di
una riforma agraria che distribuisse ai più poveri le terre, spesso lasciate incolte e possedute dai grandi
proprietari. In realtà, anche dopo l’unità, non cambiò nulla nelle campagne meridionali: la gran riforma
agraria e la distribuzione delle terre non erano nei programmi del nuovo Stato, mentre l’aristocrazia
latifondista viveva in ville sontuose tra feste e lussi. Il denaro non veniva investito per migliorare la
produzione delle terre, ma speso per vivere in maniera sfarzosa. La terra, soprattutto al Sud, era trascurata
e si preferiva la pastorizia all’agricoltura, perché la prima costava meno, ma lasciava incolta la maggior
parte dei terreni, che avrebbero potuto dar lavoro a migliaia di contadini e da vivere dignitosamente alle
loro famiglie. Ad aumentare il malcontento delle popolazioni, specialmente nelle regioni meridionali,
contribuì anche l’introduzione dell’obbligo del servizio militare per cinque anni, per la necessità di creare un
forte esercito per il nuovo Stato. Al tempo dei Borboni, nel Regno delle due Sicilie, il servizio militare invece
non era obbligatorio. La partenza dei giovani arrecava notevoli danni alle famiglie, perché le privava per
molto tempo del loro aiuto nel lavoro dei campi, per cui molti genitori facevano registrare i figli maschi
come femmine.
All’ignoranza diffusa si affiancavano condizioni di vita igienico - sanitarie arretratissime: abitazioni
malsane, mancanza di acqua potabile, scarsa igiene causavano la diffusione di molte malattie, come il
colera e il tifo; la malaria provocata dalla puntura delle zanzare nelle zone paludose; la pellagra dovuta
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alla mancanza di vitamine, soprattutto al nord, poiché si mangiavano quasi solo alimenti a base di farina di
granoturco, come la polenta. L’effetto di ciò era una mortalità molto alta, specialmente quella infantile, che
era la più alta in Europa, e una durata media della vita che era meno di 40 anni.
Tutta la situazione economica e sociale era difficile: la rete ferroviaria aveva solo 1800 km e la stradale era
ancora quella dell'antico tracciato romano; il reddito pro-capite era meno di un terzo di quello dei Francesi
ed un quarto di quello degli Inglesi; l’industria era poco sviluppata rispetto ai paesi europei, presente solo
in Lombardia, Piemonte, Liguria; a nord abili imprenditori investivano nell’agricoltura i loro capitali e
creavano aziende agricole moderne, mentre al sud prevalevano i latifondi e gli investimenti erano
inesistenti. Il deficit dello Stato era enorme perché non solo il Piemonte si era fortemente indebitato per
fare la guerra del 1859, ma dopo l’unificazione lo Stato italiano dovette assumere come propri i debiti di
quegli Stati che aveva assorbito. Né si potevano ridurre le spese, perché bisognava creare strade e scuole,
fare bonifiche e canali d’irrigazione, costruire la rete ferroviaria e quella stradale. Per riportare il bilancio in
pareggio, cioè per fare in modo che spese e ricavi si pareggiassero, furono imposte pesanti tasse, che
spesso erano più alte di quelle dei vecchi stati. Ciò generò un profondo malcontento dei cittadini più poveri
ai quali non importava dell’unità dell’Italia, anzi vedevano con l’unificazione le proprie condizioni di vita
peggiorare. Ad aggravare la situazione fu la scarsa sensibilità dei liberali moderati al governo per le
condizioni delle classi più povere e la scelta delle imposte indirette invece di quelle dirette. Le imposte
indirette, ed in particolare la tassa sul macinato, danneggiarono infatti le classi più povere al sud: con la
tassa sul macinato, ad esempio, si doveva pagare allo stato una tassa per ogni chilo di frumento portato a
macinare ai mulini. Questa tassa rendeva più cari il pane e la pasta e, quindi, ricadeva tutta sulle spalle del
popolo, perché il pane e la pasta erano gli unici cibi quotidiani della povera gente.
La gravità delle condizioni del Sud, le conseguenze determinate dalle insufficienze socio-economiche e
culturali di quest’area, l’insieme delle problematiche del Mezzogiorno assunsero una definizione specifica:
questione meridionale, ossia il dibattito circa le ragioni che avrebbero determinato e, con il trascorrere del
tempo, aggravato la situazione di sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno d’Italia, fin dal
costituirsi dello Stato unitario (def. Enciclopedia Treccani). Il Mezzogiorno era estremamente povero ed
arretrato, non aveva beneficiato dello sviluppo comunale e cittadino caratteristico dell'Italia centrosettentrionale, non si era formata una classe borghese attiva. A ciò si aggiunsero le tasse, in particolare
quella sul macinato, la leva obbligatoria, la mancata distribuzione delle terre dei latifondi che i contadini
avevano sperato di ottenere. Di fronte a condizioni di vita disperate molti contadini del Sud cominciarono a
rimpiangere il governo borbonico, si ribellarono, si organizzarono in bande, si nascosero sulle montagne e
nei boschi e diedero vita al fenomeno del brigantaggio: aggredivano di sorpresa villaggi e viaggiatori,
rubando, saccheggiando e uccidendo. A loro si unirono ex garibaldini ed ex soldati borbonici i cui eserciti
erano stati disciolti. Sia i Borboni sia il Papa aiutarono in un primo tempo queste bande, sperando di
abbattere il Nuovo Regno d’Italia e di riprendere i loro antichi territori. Tra il 1861 e il 1865 furono
individuate ben 388 bande, ma forse erano anche di più. Il brigantaggio era il segnale di una rivolta
popolare e costituiva il sintomo di un malessere profondo che coinvolgeva l’intero Sud. Agli occhi dei
contadini i briganti erano loro alleati contro la prepotenza dei signori, dei vendicatori dei torti subiti,
addirittura degli eroi, li sopportavano e spesso li proteggevano. Per risolvere questa situazione sarebbe
stata necessaria una serie di riforme che migliorassero le condizioni di vita delle masse di contadini del
mezzogiorno. Il nuovo Stato invece considerò il brigantaggio come un movimento contrario all’unità
dell’Italia, non seppe capire che le vere cause erano la miseria, la fame, il disperato bisogno di terra dei
contadini. Il governo italiano promulgò la Legge Pica, che prevedeva che tutti i briganti venissero giudicati e
condannati a morte. Fu inviato nel sud un esercito di 120.000 soldati, che occupò militarmente le regioni
meridionali e represse la guerriglia con un grande spargimento di sangue. I morti fra i briganti furono
moltissimi: furono fucilati più di 1000 briganti, circa 2500 morirono in combattimento, circa 3000 furono
imprigionati. Anche i soldati uccisi dai briganti furono moltissimi. Alla fine del 1864 il brigantaggio era stato
in parte eliminato ma non era stato risolto il problema fondamentale che lo aveva scatenato: la miseria dei
contadini meridionali.
Le conseguenze della repressione furono da una parte il distacco sempre più forte tra uno Stato
aristocratico, insensibile alle esigenze dei cittadini più poveri, e le classi sociali inferiori, dall’altra l’ostilità
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delle classi inferiori nei riguardi di uno Stato sentito come nemico. Ma la conseguenza più rilevante fu la
nascita della mafia, che si sostituirà allo Stato ed attraverso minacce, assassini, vendette spietate
costringerà la massa dei contadini ad accettare salari da fame e durissime condizioni di lavoro, mentre ai
commercianti ed ai proprietari di terre e di industrie sarà imposto in cambio di protezione e sicurezza il
pagamento di tangenti in denaro. Gli stessi proprietari delle terre che temevano la riforma agraria più di
ogni altra cosa, si servivano della mafia per bloccare le rivolte dei contadini. Anche durante le elezioni la
mafia riusciva ad ottenere l’elezione di candidati a lei favorevoli, terrorizzando gli elettori con minacce ed
atti di violenza. La presenza di questa organizzazione criminale ostacolò pesantemente lo sviluppo delle
regioni meridionali, con il controllo delle attività economiche, degli appalti (gare per le assegnazioni di
lavori pubblici ) e delle elezioni.
Un altro tipo di risposta ai problemi esposti fu l’emigrazione, cioè l’abbandonare il proprio paese per
cercare lavoro all’estero, che fu uno dei fenomeni più dolorosi dell’Italia post- unitaria. Verso il 1876, gli
Italiani che emigravano in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita erano ogni anno circa 100.000 mila,
in prevalenza settentrionali. Andavano soprattutto in Francia e in altri Stati europei; di solito tornavano in
Italia dopo aver messo da parte un po’ di soldi. In seguito invece furono soprattutto contadini e braccianti
meridionali a emigrare: in un primo tempo verso l’America meridionale e poi negli Stati Uniti: questa era
un’emigrazione che non prevedeva il ritorno. Le società di navigazione che ricavavano molti soldi dal
trasporto degli emigranti davano pubblicità alle necessità di manodopera all’estero e alle paghe alte. Molti
partivano per trovare lavoro nei nuovi paesi, ma trovavano molto spesso miserie come nei loro paesi. Gli
emigrati inviavano i loro risparmi alle famiglie rimaste in Italia e i soldi inviati erano utilizzati per migliorare
le abitazioni, per rendere più produttiva la terra, per far studiare i giovani e per pagare i debiti.
A dover affrontare la complessità e molteplicità di questi problemi furono gli uomini che composero la
nuova classe di governo subito dopo l’unità d’Italia, la cosiddetta Destra storica. Si trattava di politici liberali
eredi di Cavour, per lo più di origine piemontese, pertanto estranei alle diverse realtà che il territorio
italiano presentava. La Destra Storica governò dal 1861 al 1876.
In campo costituzionale venne esteso a tutta l’Italia lo Statuto Albertino, in base al quale il re era titolare
del potere esecutivo, il potere legislativo era affidato al Senato e alla Camera dei deputati che erano di
nomina regia, i deputati erano eletti secondo una legge fortemente censitaria, il potere giudiziario era
affidato ai magistrati nominati a loro volta dal re. Lo Statuto Albertino era una costituzione flessibile che
poteva cambiare a seconda dei diversi regimi.
Per combattere il problema dell’analfabetismo nel 1861 venne promulgata la “Legge Casati” che prevedeva
l’obbligo di frequentare i primi 2 anni delle scuole elementari gratuitamente.
Il pareggio del bilancio, raggiunto nel 1875, venne realizzato attraverso la riduzione della spesa pubblica,
l’aumento delle imposte e la legge detta “Legge sul grano”, promulgata da Quintino Sella, cioè la tassa sul
macinato. In varie parti d’Italia vennero organizzate alcune rivolte a seguito di questo provvedimento molto
impopolare, che però servì a pareggiare il bilancio statale. Negli anni della Destra Storica prevalse un
indirizzo liberista con l’abolizione dei dazi doganali interni e politiche che non penalizzavano le industrie
straniere.
Venne imposta la leva obbligatoria di cinque anni e fu emanata la Legge Pica per stroncare il brigantaggio.
Fu condotta la Terza Guerra di Indipendenza con la quale l’Italia riceveva il Veneto (1866) e risolta la
Questione romana, con la presa di Roma e la sua proclamazione come capitale (1871).
Nel 1876 la Destra cadde, perché si tentò di nazionalizzare le ferrovie, i deputati si opposero e non si
raggiunse la maggioranza. Iniziò, pertanto, il governo della Sinistra Storica con Agostino Depretis. Gli uomini
della Sinistra Storica erano gli eredi di Mazzini e Garibaldi, benché di estrazione sociale del tutto simile a
quella dei politici precedenti. Con Depretis si consolida la politica chiamata “Trasformismo”, in base alla
quale se un deputato di sinistra non raggiungeva la maggioranza, chiedeva aiuto ad uno di destra in cambio
di favori personali.
Fu realizzata la riforma della scuola nel 1877 con la “Legge Coppino”, che prevedeva l’istruzione
obbligatoria e gratuita per i 5 anni delle elementari; fu abolita la legge impopolare sul grano; fu allargato il
suffragio, passando dal 2% al 7%.
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In campo economico fu istituita una “politica protezionista” in base alla quale si alzavano i dazi doganali sui
prodotti importati. Questo provvedimento ebbe un esito positivo perché favorì l’industria del Nord, ma
danneggiò l’agricoltura del sud, dando vita ad una vera e proprio “guerra doganale” contro la Francia. Tutto
ciò favorì ad allargare ancora di più il divario tra Nord e Sud.
Per quanto riguarda la politica estera fu portato avanti il progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania
e all’Austria. A spingere l’Italia ad una vera e propria Triplice Alleanza, firmata a Vienna nel 1882, era
l’ammirazione di Umberto I per il modello tedesco e la volontà di allearsi contro la Francia. La popolazione
italiana non vide questa alleanza di buon occhio, in quanto si pensava che il governo avesse rinunciato alla
totale unificazione dell’Italia (mancavano ancora il Trentino e il Friuli); infatti, la risposta alla realizzazione
della Triplice fu il caso Oberdan: un giovane di Trieste progettò un attentato all’Imperatore Francesco
Giuseppe, ma fu arrestato e condannato a morte. Questo episodio diede vita all’irredentismo che invocava
il completamento dell’unità di Italia.
Le mire italiane in campo espansionistico puntarono sui territori dell’Africa orientale bagnati dal Mar Rosso.
Nel 1882 l’Italia acquistò dalla Compagnia di navigazione Rubattino la baia di Asaab, in Eritrea, e
progressivamente il controllo italiano si estese nell'entroterra, ma l’esercito venne sconfitto a Dogali dagli
etiopici. Nel 1890 l'Eritrea fu ufficialmente dichiarata colonia italiana.
A Depretis subentrò Francesco Crispi, ex mazziniano, che mise in atto un governo fortemente autoritario.
Crispi dominò la scena politica per 10 anni, dal 1887 - 1996, con la sua energica e contraddittoria
personalità.
Riformò il codice penale con il quale abolì la pena di morte (Codice Zanardelli) e riconobbe il diritto di
sciopero; allargò il suffragio.
In campo economico adottò il protezionismo, già avviato negli anni precedenti con Depretis, che determinò
una guerra commerciale contro la Francia, avvantaggiò le industrie del Nord, ma danneggiò l’agricoltura
meridionale.
Indebolito politicamente Crispi dovette lasciare l’incarico di capo del governo a Giolitti, che fu presto
travolto da uno scandalo finanziario, lo “scandalo della Banca Romana”, che determinò la sua caduta. Tornò
così al potere Crispi, invocato dalle classi dominanti come “uomo forte” in grado di riportare ordine nel
paese che da tempo era scosso dai Fasci siciliani, un movimento di ispirazione democratico - socialista che
per la prima volta lottava contro lo sfruttamento dei lavoratori nelle zolfare. Crispi decretò lo stato
d’assedio e sciolse i Fasci facendone arrestare i capi; si impose con le armi provocando almeno 90 morti.
In politica estera Crispi volle intraprendere l’espansione coloniale in Africa e formare, con il consenso della
Gran Bretagna, la colonia della Somalia Italiana. Il colonialismo italiano arrivava in ritardo rispetto alle altre
potenze europee e soprattutto queste imprese lasciarono emergere i limiti militari dell’esercito italiano;
infatti, conquistata l’Eritrea, l’Italia cercò di conquistare altre terre più interne, ma nel 1896 ad Adua fu
sconfitta nuovamente. Nello stesso anno Crispi fu costretto a rassegnare le dimissioni.
Con la fine di Crispi gli storici parlano di “crisi di fine secolo”, che dal 1896 va fino al 1900. Dopo Crispi si ha
il governo di Di Rudinì, durante il quale si sviluppò una forte protesta, in particolare a Milano, dove il
popolo scese in piazza per manifestare contro il rincaro del prezzo del pane. Il governo reagì con violenza,
affidando al generale Bava Beccaris il comando dell’esercito che sparò sulla folla provocando 80 morti
(1898). Alla caduta di Di Rudini successe Pelloux, il quale voleva soffocare alcune libertà fondamentali del
Parlamento, ma le sue leggi non vennero approvate. Nel 1900 ci fu l’uccisione di Umberto I da parte
dell’anarchico Gaetano Bresci per vendicare i morti di Milano.
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