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L`assistente sociale supervisore ed il tirocinante

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L`assistente sociale supervisore ed il tirocinante
L’assistente sociale supervisore ed il tirocinante:
saperi ed emozioni in una relazione triadica
dott.ssa Cristina Tilli
Premessa
Come quando, in un testo di geografia, prima di descrivere un Paese se ne tracciano i
confini, così è utile, prima di addentrarsi a parlare della relazione di supervisione e dei suoi
attori, vedere che cosa “ci sta intorno”, ovvero altri aspetti riguardanti l’esperienza di
tirocinio di cui non si parlerà ma che occorre tener presenti:
1. Il tirocinio si svolge grazie alla collaborazione di diversi attori istituzionali: ovvero, la
relazione supervisore-studente si colloca nell’interrelazione con la sede formativa
(l’Università), con l’Ente in cui il tirocinio si svolge (il Servizio), con la Comunità
Professionale.
2. Il tirocinio non ha unicamente una valenza formativa, ma anche di “socializzazione
anticipatoria”1 dell’esperienza lavorativa e di “iniziazione, cioè di ingresso in un gruppo e
in una pratica professionale”2.
1.
La relazione di supervisione tra formazione ed esperienza
Si può iniziare questa riflessione provando ad analizzare la supervisione
scomponendola nelle seguenti caratteristiche:
• la supervisione si sviluppa all’interno di una relazione;
• la supervisione è un processo formativo;
• la supervisione si può realizzare solo relativamente all’esperienza.
La supervisione si sviluppa all’interno di una relazione
Se è vero che ogni tipo di formazione presuppone un livello, anche minimo, di
rapporto tra docente e discente, nella supervisione la relazione è elemento cardine
dell’apprendimento; anzi, secondo Allegri (1997; 91), essa “costituisce il contesto, ad un
livello meta, in cui si gioca il processo di supervisione, e contemporaneamente costituisce
anche un elemento del contesto di supervisione”.
Si tratta di una relazione che si differenzia da altri ambiti formativi, poiché più
continuativa e duratura nel tempo, e coinvolgente non solo aspetti relativi al passaggio di
informazioni/conoscenze, o alla trasmissione di abilità tecniche, ma anche ambiti
motivazionali ed emotivi che, come si vedrà più avanti, giocano un ruolo importante
nell’apprendimento.
1
2
La definizione, di G. Sarchielli, è ripresa in L. Gui, 1999; p. 89.
Ibidem, p. 99. A proposito delle diverse valenze del tirocinio si veda anche Sarchielli, 1997; pp. 35-51.
1
Al contempo la relazione di supervisione si differenzia da altri contesti (ad es., la
psicoterapia) per avere una particolare connotazione triadica: tra supervisore e tirocinante,
si potrebbe dire, c’è di mezzo il compito, ovvero il mandato professionale.
Tali caratteristiche fanno sì che il supervisore debba “garantire un costante equilibrio
tra le dimensioni di accoglimento e le dimensioni del compito” (Neve, 2002; 3): ovvero
mantenere un atteggiamento aperto ed accogliente senza per questo dimenticare il proprio
compito educativo.
La supervisione come processo formativo
Si è precedentemente anticipata una differenziazione tra la supervisione ed altri
contesti formativi; essa ha però anche delle affinità, in particolare con l’educazione degli
adulti; o meglio, per dirla con Knowles, con l’andragogia3, che ha come punto di partenza
alcune ipotesi sostanzialmente diverse da quelle della pedagogia:
• il concetto di sé, in un adulto, non è più di dipendenza ma di autonomia;
• l’esperienza che l’adulto via via accumula diventa una risorsa per l’apprendimento;
• la disponibilità ad imparare è sempre più legata a ciò che l’adulto “ha bisogno” di
imparare in funzione della fase della vita che sta attraversando;
• l’apprendimento è sempre più orientato sui problemi, piuttosto che sulle materie.
La supervisione nasce e si sviluppa nell’esperienza
Se, come si è visto, nell’apprendimento degli adulti l’esperienza è una risorsa
importante, nel tirocinio è l’esperienza stessa ad essere oggetto di apprendimento; è qui
infatti che si impara facendo, in un continuo processo di interazione tra teoria e prassi. E’ in
tal senso che Gui (1999; 92) definisce il tirocinio una “formazione circolare (…), incessante
concatenazione tra il «dire» e il «fare»”. Ma allora non è sufficiente fare: è necessario
riflettere sul proprio agire, utilizzare i modelli teorici appresi nelle sedi accademiche per
orientare l’azione, ed al contempo verificare (o magari cercare di falsificare, come ci direbbe
K. Popper), attraverso l’operatività, la validità dei modelli stessi.
Il compito del supervisore è dunque, in questo ambito, particolarmente importante e
delicato: oltre a far fare allo studente un’esperienza deve accompagnarlo nella riflessione
sulla stessa per aiutarlo ad imparare a pensare.
La supervisione: una relazione formativa che nasce e si sviluppa nell’esperienza
Tentando di sintetizzare le caratteristiche appena esaminate si sviluppa una
definizione della supervisione, all’interno della quale emergono conseguenze interessanti:
• se la relazione è un elemento centrale, allora non è principalmente dal supervisore che
lo studente impara qualcosa, ma, appunto, dalla relazione triadica che con esso ed il
compito si instaura;
3
G. M. Knowles, The Adult Learner: A Neglected Species, Gulf Publishing Company, Houston, TX, 1984; tr. it.
riportata in forma antologica in A.I.F., 1988; pp. 80-85.
2
allo stesso modo, anche se la supervisione parte dall’esperienza, non è semplicemente
da questa che lo studente apprende, ma dalla rielaborazione e dalla riflessione su di
essa; occorre cioè che il supervisore stimoli nello studente quella che Kaneklin definisce
la formatività: la “capacità di rappresentarsi a se stessi e pensare le cose concrete della
propria esperienza” (Kaneklin, Olivetti Manoukian, 1990; 157);
• se il tirocinio si colloca nel campo dell’educazione degli adulti, allora occorre favorire un
percorso di autonomia, simile a quello che lo studente viene sperimentando
contemporaneamente negli altri ambiti della propria vita.
La supervisione è dunque sì una relazione formativa, se con tale termine si intende
che in qualche modo contribuisca a formare (=dare forma a) dei nuovi professionisti; ma allo
stesso tempo deve avere una connotazione educativa nel senso etimologico del termine,
ovvero di e-ducere, tirar fuori dallo studente le sue capacità e potenzialità, perché la
professionalità prenda, in quella persona, la sua propria forma.
Il supervisore potrebbe dunque dire, con Cartesio, “il mio scopo non è (…) quello di
insegnare il metodo che tutti devono seguire per condurre rettamente la propria ragione,
ma quello soltanto di mostrare in quale maniera io mi sono sforzato di condurre la mia”
(Descartes, tr. it. 1999; 4).
Nel prosieguo del lavoro si andrà analizzando come, in tale relazione, entrino in gioco
le diverse aree dell’apprendimento (il sapere, il saper fare, il saper essere) e la componente
emotiva dei soggetti interessati.
•
2.
L’area del sapere e del saper fare.
In questa parte del lavoro si analizzeranno gli aspetti relativi alle conoscenze ed alle
abilità del supervisore e del tirocinante: ovvero che cosa occorre, dall’una e dall’altra parte,
per realizzare un buon tirocinio, ma anche le possibili zone d’ombra.
Sapere e saper fare nel supervisore
Partendo dalla consapevolezza che “non possiamo insegnare direttamente nulla a
un’altra persona; possiamo solo facilitare il suo apprendimento”4, pure è importante
evidenziare quelli che, nei diversi contributi, emergono come requisiti fondamentali per un
supervisore:
a)
conoscenze ed abilità professionali specifiche: ovvero deve non solo avere conoscenze
teoriche e metodologiche, ma anche tenerle costantemente aggiornate; avere
esperienza dell’utilizzo di tali conoscenze nel lavoro quotidiano, nella continua
interazione tra teoria e prassi, tra scienza ed arte. Deve, insomma, avere una buona
preparazione, e, verrebbe da aggiungere, anche alcuni anni di lavoro “sulle spalle”;
4
È la prima delle cinque ipotesi fondamentali di C. Rogers sull’educazione centrata sull’allievo, riportata in
A.I.F., 1988; p. 71.
3
b)
conoscenze ed abilità in campo formativo: come acutamente osserva Neve (2002; 7),
“non è automatico che un buon operatore sia anche un buon supervisore”; è dunque
necessario, poiché come si è visto la supervisione è una relazione formativa, che il
supervisore si “doti” di una preparazione teorica e metodologica che gli permetta di
svolgere al meglio tale funzione. In particolare è necessario sviluppare quella che
Quaglino definisce “sensibilità pedagogica (…) cioè capacità di ascolto e comprensione
del complesso campo di fenomeni “attivato” dal setting educativo (…) capacità di
intervento equilibrato, bilanciato, appropriato”5. Ciò farà sì che, ad esempio, si riesca a
valorizzare nel miglior modo le capacità di quello studente ed a promuoverne
l’autonomia: passaggio quest’ultimo unanimemente riconosciuto come fondamentale
nel percorso di tirocinio, ma sul quale poi nella pratica possono esserci resistenze da
parte degli operatori6.
Sapere e saper fare nello studente
Poiché si sta parlando di apprendimento degli adulti, è evidente che lo studente non
sarà una tabula rasa, bensì “portatore di saperi e abilità sue proprie, nuove e sconosciute
per il supervisore, su cui s’innesteranno abilità tecniche specifiche” (Pregno, Simone, 1997;
21).
E’ dunque da lì che occorre partire: dal punto in cui lo studente si trova:
1. riguardo al sapere lo studente arriverà con un bagaglio di conoscenze personali e con un
corpus specifico di teoria fornito dall’Università; su questi andranno ad innestarsi le
informazioni relative al servizio in cui si effettua il tirocinio (legislazione specifica, aspetti
organizzativi, …); in questo ambito è importante ricordare l’osservazione di Neve (2002;
5) sulla necessità che il supervisore faccia la propria parte nel fornire allo studente la
preparazione teorica - né sostituendosi alla sede formativa universitaria né delegando
completamente ad essa gli aspetti relativi alla conoscenza;
2. riguardo al saper fare è più difficile trovare una base comune come punto di partenza,
data la grande variabilità delle esperienze personali e non essendovi in tal senso un
input forte da parte dell’Università, che vede proprio nell’esperienza del tirocinio il
luogo di elezione del fare. Si possono dunque solo ricordare due caratteristiche/capacità
personali che possono rendere più proficuo il percorso di tirocinio se già presenti nello
studente o sulle quali comunque è importante lavorare insieme: la capacità di ascolto
ed una certa curiosità verso tutto ciò che è nuovo.
Per concludere questa parte appare utile ricordare, a beneficio del supervisore e dello
studente, quelle che sono, secondo Salvemini, le condizioni dell’apprendimento, che
influenzano l’efficacia dello stesso:
5
G. P. Quaglino, Fare formazione, Il Mulino, Bologna, 1985, riportato in forma antologica in A.I.F., 1988; p. 351.
Si veda in proposito quanto emerso nella ricerca svolta da Gui sull’organizzazione dei tirocini, in particolare
nell’Università di Verona, in Gui, 1999; 125.
6
4
a)
b)
c)
la maturità preparatoria del singolo studente, cioè lo stato di sviluppo o di prontezza
per intraprendere un nuovo sforzo di acquisizione;
gli attributi di diversità, che distinguono le caratteristiche individuali, biologiche e/o di
personalità dei singoli studenti;
la gradualità del processo dell’apprendimento, che deve essere considerata una vera e
propria regola di insegnamento.7
3.
L’area del saper essere
Anche questa parte analizzerà separatamente il saper essere del supervisore e del
tirocinante; in taluni momenti ci si avvicinerà quasi ad un dover essere, per poi calarsi di
nuovo negli aspetti relativi all’essere, ovvero alle aspettative ed alle motivazioni.
Il saper essere nel supervisore
Se si dovesse stilare un decalogo del saper essere di un buon supervisore si
potrebbero assumere, praticamente in toto, i “10 punti” utilizzati da C. Rogers per definire la
relazione aiutante:
1. consapevolezza dei propri sentimenti ed atteggiamenti;
2. chiarezza nel comunicare con l’altro, evitando ambiguità;
3. atteggiamenti positivi verso l’altra persona (calore, protezione, simpatia, interesse,
rispetto);
4. capacità di mantenersi separato dall’altro, e mantenere la propria individualità;
5. sicurezza di se stesso, permettendo all’altro una sua esistenza separata;
6. capacità di addentrarsi nel mondo privato dell’altro senza volerlo giudicare;
7. capacità di accettare l’altro così com’è;
8. sensibilità nel rapporto con l’altro;
9. capacità di liberare l’altro dalla paura della valutazione;
10. capacità di considerare l’altro come un’entità che sta vivendo un processo di sviluppo, in
modo da valorizzarne le potenzialità.8
Come si può vedere, tranne il punto 6 (tipico di una relazione psicoterapeutica, a
cui Rogers si riferisce) gli altri ben si collegano al saper essere di un supervisore: anche lì
dove si parla di capacità infatti non si tratta di abilità tecniche ma di meta-qualità, come le
definisce Quaglino9.
Anche se ciò potrebbe già apparire abbastanza per un supervisore che viva in
questo mondo, appaiono utili per completare il quadro altre caratteristiche, messe in
evidenza da Neve (2002; 7):
7
S. Salvemini, Casi di organizzazione, F. Angeli, Milano, 1979, riportato in forma antologica in A.I.F., 1988; pp.
73-74.
8
C. R. Rogers, The Characteristic of a Helping Relationship, Conferenza a St. Louis, marzo 1958, riportata in
forma antologica in A.I.F., 1988.; p. 377 (rielaborazione personale).
9
G. P. Quaglino, Fare formazione, op. cit., riportato in forma antologica in A.I.F., 1988; p. 351.
5
a)
la capacità di mettersi in discussione, correndo il rischio di sentirsi valutati: in questo
senso il tirocinante può esser visto come uno specchio che, oltre a dire “sei la più bella
del reame” può mettere in evidenza delle zone d’ombra della professionalità del
supervisore;
b)
la voglia di imparare: oltre a costituire fonte di aggiornamento continuo perché
favorisce i contatti con l’Università, il tirocinante è portatore di punti di vista ed istanze
nuove e diverse, che arricchiscono il bagaglio del supervisore, se egli è disponibile ad
accoglierle;
c)
la motivazione a farsi carico della formazione di altri assistenti sociali, che comprende
sia una dose di entusiasmo per la propria professione sia la voglia di mettere a
disposizione di altri le proprie conoscenze ed anche un po’ di se stessi.
Su questo ultimo punto (e qui scendiamo a valle, prendendo in considerazione,
come si diceva precedentemente, alcuni aspetti di difficoltà del cammino) Gui (1999; 139),
nell’esporre i risultati di una ricerca sull’organizzazione dei tirocini all’Università di Trieste,
evidenzia una carenza di assistenti sociali disponibili a svolgere la funzione di supervisori.
Cercando di spiegare i motivi di quello che definisce atteggiamento depressivo degli
operatori dei servizi, ne individua tre possibili cause:
a)
la percezione di scarso riconoscimento tecnico-professionale e contrattuale negli Enti
da cui dipendono;
b)
la sindrome da burn-out, che caratterizza oggi molte delle professioni d’aiuto operanti
in sistemi organizzativi complessi o assegnatarie di “compiti impossibili”;
c)
la demitizzazione della professione sperimentata nella concretezza del lavoro, da parte
di operatori inizialmente motivati da aspettative su di sé eccessivamente idealizzate.
D’altra parte occorre non dimenticare, in positivo, che l’impegno di supervisione è
“nello stesso tempo causa ed effetto di motivazione, capace di attivare un circolo virtuoso
idoneo ad imprimere un corso positivo alla vita dell’unità organizzativa in cui operano”
(Nironi, 1997; 56) i supervisori.
Il saper essere nello studente
Non è facile, e forse neppure opportuno, definire quali meta-qualità debba
possedere uno studente per poter fare l’assistente sociale: di fatto significherebbe creare
una selezione a priori nell’accesso all’esperienza formativa. Occorre dunque partire, qui più
che mai, dal punto in cui lo studente si trova, tenendo conto che egli ha comunque “già fatto
una scelta motivata verso la professione” (Pregno, Simone, 1997; p. 27).
Si potrebbe dire che il supervisore deve partire dai bisogni (di formazione) dello
studente, ovvero dalle sue aspettative e motivazioni verso la professione; e, tenendo sempre
presente la connotazione triadica della relazione formativa (v. par. 1), far entrare in rapporto
dinamico le esigenze formative imposte dalla professione (la proposta del dover essere: il
compito) con le aspettative stesse (l’essere, lì ed in quel momento, di quello studente).
Questo comporterà talvolta per lo studente dover ridimensionare attese irrealistiche,
6
aggiustare il tiro, mettere in gioco alcuni pre-giudizi. Se si può dunque, anche qui, dare
qualche piccola indicazione sulle meta-qualità necessarie, si pensi alla necessità/disponibilità
a mettersi continuamente in gioco (dovrebbe essere “scontato” in chi è ancora studente…
ma qui ci si sperimenta nel fare, ed è sicuramente un’esperienza nuova e diversa …).
Per concludere questa parte, vale la pena di ricordare un’osservazione di Neve
(2002; 6): se, come si è visto, non è opportuno creare una selezione a priori negli studenti, è
però l’esperienza del tirocinio il luogo ed il tempo in cui il supervisore può rendersi conto che
quello studente non è adatto a fare l’assistente sociale. In questo senso si concorda con
l’autrice che sia una responsabilità del supervisore quella di “assumersi l’onere - ben
ponderato, discusso e confrontato con lo studente stesso e col docente-tutor - di dire che
qualcuno può non essere adatto” a questa professione.
4.
L’area delle emozioni
Ricordo ancora quel primo giorno di tirocinio, in un centro che
ospita ragazzi con handicap grave e gravissimo; dell’impatto emotivo di
quella “prima volta” non mi resi conto subito, ma solo quando, tornata a
casa, mi sentii apostrofare: “Dove sei stata?… Hai una faccia …”.
E così, una parte del lavoro del tirocinio è stata quella di
rielaborare dentro di me quella prima emozione, pensando che, seppur in
piccolo, poteva assomigliare a quella di un genitore che, spesso
all’improvviso (proprio come me), si trovava davanti il proprio figlio così
devastato.
Una decina di anni dopo entro per la prima volta (stavolta come
operatore) in un reparto psichiatrico di un ospedale, e l’emozione che
sembrava dimenticata irrompe di nuovo: ma stavolta, grazie al
precedente di dieci anni prima, la rielaborazione è quasi immediata, e
diventa la premessa per la possibilità di un rapporto empatico con chi, lo
scoprirò presto, dietro a comportamenti apparentemente strani, cela un
dolore sconfinato.
Si è scelto di riportare questo breve episodio personale nella convinzione che non ci
sia niente di meglio, per descrivere le emozioni, delle emozioni stesse. Ma, così come nella
supervisione è necessario rielaborare l’esperienza, occorre qui cercare di approfondire il
livello di analisi.
La dimensione emotivo-affettiva può costituire, a seconda di come viene vissuta e/o
rielaborata, un forte vincolo o un’importante risorsa per il processo di tirocinio, e si sviluppa
prevalentemente lungo tre assi:
1. nella relazione tra supervisore e tirocinante: è questa una relazione a carattere
asimmetrico, in cui, accanto agli aspetti relativi al compito, può nascere una particolare
7
vicinanza emotiva (per la frequenza assidua degli incontri; per quel “pezzo di strada” che
si percorre insieme; perché in questo lavoro non è possibile lasciar fuori le emozioni, che
quindi passano attraverso il filtro della relazione con l’altro …); talvolta la relazione di
supervisione viene accostata ad altri tipi di rapporti: in particolare, alla relazione d’aiuto
(come quelle professionali, con gli utenti) ed alla relazione genitore-figlio. Sicuramente i
tratti in comune sono svariati; ma è nel campo delle emozioni che questi ultimi due tipi
di relazioni possono diventare metafora, per la supervisione, di un confine oltrepassato:
quando, ascoltando in maniera empatica lo studente (magari, guarda caso, seduto
dall’altra parte della scrivania) il supervisore inconsapevolmente, anche solo per un
attimo, lo assimila ad un utente; o quando l’uno vive, in quel particolare momento,
l’altro come un figlio da accompagnare o proteggere / come un genitore cui affidarsi. Se
nell’ambito della razionalità dunque ciascuno avrà ben chiaro la differenza tra i diversi
tipi di relazione, non si può escludere che a livello emotivo le carte, per così dire, si
mischino;
2. nei rapporti del tirocinante all’interno del servizio, con i colleghi ed i superiori: si tratta
qui di una situazione anticipatoria di una realtà professionale; la collocazione dello
studente, in qualche modo non del tutto interna ma neppure completamente esterna,
può creare difficoltà ed incertezze, con rischi di estremizzazione: da un lato, che venga
vissuto, e si senta, “uno di noi” (con pieno coinvolgimento nelle dinamiche
interpersonali …); dall’altro, con un vissuto di eccessiva distanza affettiva che non
permette allo studente di vivere in maniera piena l’esperienza di tirocinio;
3. nella relazione del tirocinante con gli utenti: se in altri ambiti della propria vita lo
studente aveva già potuto sperimentare relazioni in qualche modo comparabili con le
due precedentemente analizzate, la relazione con gli utenti di tipo professionale
costituisce senza dubbio la novità più rilevante, ed emotivamente coinvolgente,
dell’esperienza di tirocinio. Nell’elaborazione di tali contenuti il ruolo del supervisore è,
se possibile, ancora più centrale.
E’ appena necessario ricordare poi che a queste tre dimensioni relazionali si aggiungono i
contenuti emotivi personali di supervisore (paure di inadeguatezza, ad esempio) e
tirocinante, come ben evidenziato da Pregno e Simone (1997; 26).
Ma, si accennava precedentemente, tutti i contenuti emotivi (quelli esposti, e molti,
molti altri …) possono diventare un vincolo, o se vogliamo un ostacolo al progredire
dell’esperienza di tirocinio: nei casi peggiori immobilizzando l’azione, oppure offuscando la
capacità di giudizio/valutazione, ma anche “incastrando” il supervisore ed il tirocinante in
dinamiche relazionali tanto faticose quanto sterili.
Di contro le emozioni possono divenire un’importante risorsa se il supervisore riesce ad
accompagnare lo studente nelle sue (forse) prime esperienze di riflessione e rielaborazione.
Per poter fare ciò è necessario creare spazi e momenti di distacco dall’operatività:
momenti in cui rileggere insieme e dare un nome all’emozione di quel momento, e da essa
apprendere qualcosa di nuovo. Qui siamo forse al cuore del lavoro di supervisione, ed anche
8
alla parte più difficile ed impegnativa; poiché, come ci ricorda Allegri (1997; 21), “in questo
sta la difficoltà del lavoro sociale (…) nella capacità di trovare una giusta distanza per
osservare ed agire (…). La capacità di stare dentro e fuori il sistema osservato diventa (allora)
la nuova «neutralità»”.
5. Dalla relazione formativa alla relazione professionale
Se volessimo utilizzare la metafora di F. Olivetti Manoukian (1990; 147 e segg.) del
tirocinio come un viaggio organizzato e guidato potremmo dire che sin qui abbiamo
illustrato, come in un bel dépliant, un viaggio quasi ideale in cui, messo in valigia il
necessario, tutto fila liscio, senza troppi inconvenienti.
A questo punto molti supervisori e molti studenti obietterebbero che la dura realtà è
invece ben diversa:
• perché nessuno degli attori è mai perfetto: c’è il supervisore che manda allo sbaraglio il
tirocinante e quello che, per eccesso di protezione (dello studente? dell’utente? …) non
gli assegna un caso neanche a pagarlo … c’è lo studente “che sa già tutto” e guarda con
sufficienza il presunto caos organizzativo del supervisore, e quello a cui si deve quasi
fare da balia … ma ci sono anche Servizi che non sanno essere accoglienti o che
sfruttano il tirocinante, e Università ancora troppo solo accademiche, in cui il tirocinio si
fa solo perché è previsto per legge, o che mandano allo sbaraglio supervisori e studenti
… (l’elenco può continuare a piacere);
• perché magari il tirocinio va bene, è un’esperienza arricchente per tutti, ma poi il lavoro
vero è un’altra cosa …
Non si vuole qui far riferimento, evidentemente, ai casi gravi in cui il tirocinio
assolutamente non va e viene dunque, prima o poi, interrotto; ma a tutti quei casi in cui
l’esperienza viene portata a termine, senza però che ciascuno dei partecipanti si senta di
definirla completamente positiva.
La prima, e più ovvia, osservazione (a parte quella che la perfezione non esiste in
questo mondo) è che, trattandosi di una relazione, o meglio di una rete di relazioni, non
basta mettere insieme un supervisore sufficientemente buono con un tirocinante
abbastanza volenteroso per avere, come risultato, una buona esperienza di tirocinio. E
questo perché per ogni esperienza è vero ciò che K. Popper riferisce alla conoscenza: “ogni
conoscenza è umana ed è coinvolta nei nostri errori, pregiudizi, sogni e speranze” (Popper,
1969; tr. it., 93). E così, come si è visto nei paragrafi precedenti, sono tanti gli atleti ed i venti
(a favore o contrari) che entrano nel campo di gioco, quando si ha a che fare con le persone.
Poiché la realtà è in continuo divenire, e niente in questo campo è preconfezionato,
occorrerà dunque vedere di volta in volta qual è il viaggio migliore possibile per “«quel»
tirocinante in «quel» servizio con «quel» supervisore in «quel» periodo di tempo” (Pregno,
Simone, 1997; 22).
9
E poi, ci ricorda la saggezza popolare, “sbagliando s’impara”: anche l’errore può
diventare fonte di conoscenza, ma solo se si ha la mente aperta al nuovo e se si riesce a
“pensare su quello che si fa”(Olivetti Manoukian, 1990; 141).
Anzi, se è vero che molta parte del lavoro dell’assistente sociale ruota intorno ai
problemi degli utenti, allora forse il tirocinio migliore è quello in cui gli studenti
sperimentano dei problemi, lavorano per superarli e riflettono sul proprio agire. Questo
infatti permetterà loro, domani, non solo di essere allenati ai problemi che si possono
incontrare in un contesto lavorativo; ma anche, in un certo qual modo, di mettersi nei panni
degli utenti,che in quel momento stanno vivendo un problema: mantenendo però, grazie
all’esperienza che avranno rielaborato, una distanza sufficiente per non “farsi travolgere” dai
problemi stessi.
Il viaggio del tirocinio giunge così al termine; ma forse, speriamo, diventa l’inizio per
altri viaggi: lavorativi, certo, ma in un continuo confronto tra l’operatività (la prassi) e la
conoscenza (la teoria). Ed allora si potrà scoprire che “quanto più impariamo sul mondo, e
quanto più profondo è il nostro apprendimento, tanto più consapevole, specifica e articolata
sarà la conoscenza di ciò che non sappiamo, la conoscenza della nostra ignoranza. Questa,
infatti, è la fonte principale dell’ignoranza: il fatto che la nostra conoscenza può essere solo
finita, mentre la nostra ignoranza non può che essere, di necessità infinita.” (Popper, 1969;
tr. it., 91).
Ed allora sarà bello scoprire insieme, supervisore e tirocinante, che “forse possiamo
viaggiare con più gioia e più libertà se accettiamo (anche dopo trent’anni di lavoro!) che non
possiamo apprendere tutto quello che possiamo apprendere” (Olivetti Manoukian, 1997;
312).
___________________________________
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