Storie di povera gente nella letteratura italiana tra `800 e `900
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Storie di povera gente nella letteratura italiana tra `800 e `900
UNI TER - Arese Storie di povera gente nella letteratura italiana tra ‘800 e ‘900 di Maria Emanuel 1 Con la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia abbiamo ripercorso gli eventi più importanti del nostro Risorgimento, abbiamo ricordato gli ispiratori e gli uomini d’azione che hanno costruito quasi miracolosamente in meno di mezzo secolo (dai primi moti del 1821 alla proclamazione di Roma capitale nel 1871) una nazione libera e indipendente. Abbiamo parlato – giustamente – della Storia con la S maiuscola, quella che abbiamo studiato sui libri di scuola. Ma esiste un’altra storia, la storia della gente comune, la storia che ci è stata trasmessa attraverso le memorie familiari, la storia di quelli che le guerre le hanno combattute davvero, che spesso ci hanno lasciato la pelle, o comunque hanno sofferto miseria, fame, ingiustizie sociali per lungo tempo, senza la capacità e la possibilità di tentare un riscatto. Al popolo degli umili la letteratura italiana ha dedicato la sua attenzione in maniera tardiva e, per secoli, quasi inesistente. Se lasciamo da parte la figura comico-grottesca del Baldo di Teofilo Folengo (1491-1544), con la sua invenzione del latino maccheronico, o i contadini padovani che animano il teatro dialettale del Ruzante (Angelo Beolco detto il Ruzante, 1502-1542) nel XVI secolo, dobbiamo arrivare a Carlo Porta e ad Alessandro Manzoni per trovare al centro di un’opera letteraria qualche esemplare di quella che l’autore dei Promessi Sposi definisce “un’immensa moltitudine di uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, senza lasciare traccia”. Carlo Porta (1775-1821), il nostro poeta milanese apprezzato e gustato troppo poco rispetto al suo valore (certo anche per la difficoltà costituita dal dialetto), ci presenta nei suoi versi degli esemplari di un’umanità diseredata, nascosta nelle pieghe di una Milano borghese e progressiva. Mi limito ad accennare che la stessa cosa fa a Roma Gioacchino Belli (17911863), poeta più istintivo e di minor rilievo, ma autore di alcuni indimenticabili sonetti in romanesco. “Per Porta l’attività poetica si pone come frutto di un’esperienza umana e non libresca, – scrive il critico Carlo Salinari - un’apertura verso le plebi diseredate degli ‘Ottentoti’ , così lontane dai ‘Parigini’”. L’uso del dialetto e il metodo del realismo, inteso come rappresentazione affidata alle cose stesse e come scelta del mondo degli oppressi e degli sfruttati (Giovannin Bongee, Marchionn, Ninetta del Verzeè) caratterizzano l’arte del Porta, sostenuta da una rara acutezza di osservazione e da una efficacissima vena satirica nei confronti del clero e 2 della nobiltà. La fedeltà al vero non è però mai disgiunta in lui da una profonda “pietas” verso le umane debolezze. Questo atteggiamento lo accomuna in qualche modo ad Alessandro Manzoni (1785-1873), sebbene le diverse provenienze sociali, piccolo borghese l’uno, nobile l’altro, li pongano da punti di osservazione ben diversi nei confronti del popolo oppresso. Naturalmente non posso qui esaminare in modo adeguato l’opera del Manzoni. Mi limito a prendere in considerazione lo sguardo dell’autore sui popolani presentati nel romanzo, a partire dai due protagonisti, Renzo artigiano e Lucia intuitivamente operaia in una filanda. Osserviamo intanto quanto poco si parla del loro lavoro, che pure è vita quotidiana, nello svolgersi delle vicende che li coinvolgono. Questa è una spia della lontananza reale dell’autore dal mondo di quegli umili di cui pure si fa paladino. Dobbiamo tener conto che “I Promessi Sposi”è prima di tutto un romanzo storico, che non elimina dal quadro le masse anonime, “la gente di nessuno – come le definisce Don Rodrigo – Chi sa chi siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un padrone; gente di nessuno”. Questa gente, dunque, per avere il semplice diritto di esistere, deve appartenere a qualcuno, a chi sa come va il mondo e lo può governare. Eppure Renzo e Lucia (e con loro una folla di uomini e donne semplici, contadini, artigiani, barcaioli) se appaiono a prima vista disarmati di fronte all’ingiustizia, con la loro fede in un Dio non lontano dall’uomo, secondo la visione manzoniana, sanno resistere ai soprusi ed alle sventure, ed uscirne vincenti. Per la verità, c’è in Renzo un istintivo impulso di ribellione alle prepotenze del signorotto, alla vigliaccheria del curato e dell’emblematico “azzeccagarbugli”. In Manzoni esiste però una certa sfiducia nell’agire puramente umano; la vera protagonista del suo romanzo è la Provvidenza, che intreccia secondo divini disegni, al di sopra dei progetti e degli errori umani, vite di umili e di potenti…con un occhio di simpatia da parte dell’autore verso i primi, secondo il messaggio evangelico. Anche la descrizione delle misere condizioni degli abitanti della campagna circostante il convento di Pescarenico, quale appare agli occhi di Fra Cristoforo, mi sembra piuttosto convenzionale, anche se significativa. “Ogni tanto s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano… Lo spettacolo dei lavoratori sparsi nei campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. 3 Alcuni andavan gettando le lor sementi, rade, con risparmio e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere.” Diverso è il senso che, rispetto all’ideale romantico manzoniano, danno il positivismo come concezione del mondo ed il naturalismo come canone d’arte. Non potendo qui soffermarmi su questi “ismi”, prendo ora in considerazione un altro grande scrittore che delle nuove tendenze fu interprete, senza peraltro aderirvi in modo accademico, dotato com’era di una forte e geniale personalità: Giovanni Verga (1840-1922). Il costo dell’unità per la nuova Italia si era rivelato ingente. Il distacco profondo tra classe dirigente e masse popolari, l’arretratezza economica, il diffuso analfabetismo, presente con una percentuale variante tra il 75 e l’80% (secondo studi e statistiche del Villari, dello Jacini, di Franchetti e Sonnino – questi desunti dalla Relazione al Parlamento relativa alla loro inchiesta sulle condizioni sociali della Sicilia del 1876 -, e di Giustino Fortunato), facevano sì che il nuovo regno fosse sentito come estraneo alla realtà della vita ed ai problemi del popolo minuto, a cui per sovrappiù erano imposte nuove tasse e richiesto un lungo servizio di leva obbligatoria, che sottraeva al lavoro per almeno 3/4 anni le braccia più valide. Verga, nato a Catania nel 1840 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, dopo aver trascorso la giovinezza in Sicilia ed aver pubblicato un paio di romanzi storici di scarso valore, si trasferì prima a Firenze e poi a Milano, dove partecipò al movimento della Scapigliatura e dove rimase per oltre vent’anni, pur tornando periodicamente alla sua città d’origine. Degli scapigliati Verga assunse temi e linguaggio, per opere che ottennero ben presto un notevole successo di pubblico, e rimpinguarono un po’ le sue esigue finanze. Basta ricordare i loro titoli per dare un’idea del mondo immaginario che presentavano: “Una peccatrice”, “Eva”, “Storia di una capinera”, “Tigre reale”, “Eros”: turbamenti romantici e passioni violente, morti drammatiche, storie di vinti dall’amore. I temi “maledetti”, (che riecheggiano Baudelaire ed il decadentismo), insieme all’atteggiamento anarcoide ed antiborghese, furono gli aspetti più appariscenti della Scapigliatura; ma ben più importante fu il secondo punto programmatico, 4 il culto del “vero”, della vita reale ed attuale. Da qui l’origine di un nuovo movimento letterario, il Verismo, tutto italiano anche se derivante dal naturalismo francese; e Verga ne sarà il maggior rappresentante. Nel 1874 avvenne la sua “conversione”, il salto di qualità; non più gli ambienti dell’alta società, ma quello di un piccolo paese siciliano, non storie di crudeli seduttrici e di artisti sconfitti, ma la triste vicenda di una povera raccoglitrice di olive, Nedda, del suo amore per Janu, e della sua inconsolabile solitudine dopo la morte della madre, del marito e della figlioletta, nello squallore di una miseria senza rimedio, vittima di un destino che gli sforzi, le fatiche e le sofferenze umane non possono sconfiggere. Nasce con questa novella, “Nedda” appunto, il Verga più grande, l’autore di “I Malavoglia”, “Mastro Don Gesualdo”, “Vita dei campi” e “Novelle rusticane”, il Verga che esprime la sua concezione darwiniana della lotta per l’esistenza come base dello sviluppo della storia umana. Ma lo sguardo dello scrittore verso questo “sviluppo” è molto pessimista: egli non può dimenticare la realtà di quei vinti: secondo la tesi positivistica, che è poi quella dell’ideologia borghese dell’Ottocento, il cammino del progresso è necessario, grandioso nell’insieme, ma lascia ai margini della strada innumerevoli vittime, i più deboli, contro cui si accanisce una sorta di fato. Chi non ricorda i protagonisti di due novelle-capolavoro, “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo”, inscindibili dal povero asino macilento che è il necessario compagno della loro fatica? (L’asino è un animale simbolo, perché dà tutto di sé fino allo sfinimento, senza mai ribellarsi). Dopo le novelle, ecco il capolavoro vero, “I Malavoglia”, un romanzo corale in cui la storia di una povera famiglia è inserita nell’ambiente variegato di un borgo di pescatori siciliani. Questo campione di umanità è osservato con uno sguardo che, secondo i canoni del verismo, dovrebbe essere impersonale, ma che invece è, pur nell’essenzialità del linguaggio, vibrante di partecipazione e intensa attenzione alle sfumature ed agli affetti di ogni personaggio. In Verga la Provvidenza non è più, come per Manzoni, la sapiente presenza di Dio nella storia umana, ma il nome quasi irridente di una barca, unico patrimonio e mezzo di sostentamento di una povera famiglia siciliana, il cui naufragio incide inesorabilmente sul destino di tutti i suoi membri. Il romanzo è ambientato ad Acitrezza, sulla costiera catanese, nel periodo della terza guerra d’indipendenza (1866). La nuova Italia è rimasta lontana e ostile per questo popolo di formiche, anzi di 5 ostriche rimaste irragionevolmente ma tenacemente attaccate al loro scoglio, al di la del quale non c’è salvezza. Ecco come è vista da Acitrezza la battaglia navale di Lissa, una delle più disastrose sconfitte italiane nelle guerre d’indipendenza. Lettura da “I Malavoglia”, pag.145 La Sicilia contadina si ripresenta ai nostri occhi nell’opera di un altro suo grande figlio, Luigi Pirandello (1867-1936), in particolare in alcune novelle; ma è una Sicilia filtrata attraverso lo sguardo di uno “scrittorefilosofo”, come egli si definiva: la realtà è deformata da un alone magico (“Mal di luna”, “Il figlio cambiato”) o da un corrosivo umorismo (“La giara”, “Liolà”) o da un delicato lirismo (“Ciaula scopre la luna”): frantumata in “piccoli specchi” che riflettono non tanto la società com’è quanto l’amara visione e la pena di vivere di chi scrive. Si conclude per l’Italia il secolo dell’unificazione: l’Esposizione Universale del 1911 illustra “le magnifiche sorti e progressive” cantate dal Carducci, la scuola elementare obbligatoria e gratuita ha ridotto, ma non ovunque in maniera omogenea, la piaga dell’analfabetismo, il diritto di voto si è allargato a nuovi ceti sociali, ma… i poveri non sono diminuiti. Spinti dalla miseria e dal miraggio di un avvenire migliore, ora molti si avventurano oltre oceano, almeno i più giovani ed audaci, emigrando verso paesi di cui ignorano del tutto la lingua e le leggi, lasciando in patria genitori, mogli, figli bambini, a cui scarse e incostanti arrivano le cosiddette “rimesse” per sopravvivere…e molte volte questi mariti e padri vengono inghiottiti definitivamente dal lontano e sconosciuto Nuovo Mondo. A sconvolgere del tutto il secolo arriva intanto la Prima guerra mondiale, la Grande Guerra, che macina milioni di anonime vite di povera gente. Ricordo soltanto il romanzo “Un anno sull’altipiano”, del sardo Emilio Lussu (1890-1975), tradotto in immagini dal film “Uomini contro” di Francesco Rosi. Il cinema ci ha dato anche un’altra opera, indimenticabile, “La grande guerra” di Mario Monicelli. Ricordo tra i memorialisti Piero Jahier (1884-1966), genovese, che ha scritto “Con me e con gli alpini”. Corrado Alvaro (1895-1956), nato a S, Luca di Calabria, ha combattuto in questa guerra ed è rimasto ferito sul campo. Trasferitosi in seguito al Nord e diventato un noto giornalista e scrittore, dedica il più bello dei suoi libri “Gente in Aspromonte” (1930) al suo paese d’origine. In questa ed in 6 altre opere, e così pure in molti articoli giornalistici, egli analizza i motivi dello squilibrio tra nord e sud, tra il progresso del settentrione e l’arretratezza del mezzogiorno, in un’economia quasi primitiva, in strutture feudali in cui rimangono immutati i rapporti tra gli uomini e rimane immutata la soggezione del popolo all’unico signore del paese e all’autorità indiscussa del prete. Lettura da “Gente di Aspromonte” pag 11 Nell’opera di Alvaro, di forte impronta critica, c’è però anche il vagheggiamento romantico di un mondo mitico che richiama l’innocenza dell’infanzia, dello stato di natura. Le pagine più efficaci restano quelle di alcuni racconti, che parlano di una Calabria reale, dei suoi pastori e della loro vita di stenti. Se l’opera di Alvaro si può considerare ancora scritta per portare alla luce antichi costumi ed ambienti lasciati fino ad allora in ombra, Ignazio Silone (1900-1978), sulla scia di Verga, dà inizio ad una letteratura di denuncia sociale: non si può continuare a farsi vittima dell’ingiustizia, bisogna unirsi e ribellarsi a chi vuole trasformare, per il proprio tornaconto, degli uomini liberi in schiavi del padrone. Nato a Pescina de’ Marsi, in Abruzzo, nel 1900, Silone (pseudonimo di Secondo Tranquilli), perde entrambi i genitori nel terremoto del 1915. Rimasto solo, prende a frequentare sin da ragazzo la lega dei contadini, che cerca di resistere ai soprusi dei padroni delle terre. Questo suo impegno giovanile sboccherà ben presto in attività di orientamento socialista e quindi in una collaborazione giornalistica con l’”Avanti”. Seguono dieci anni di militanza nel partito comunista, da cui si stacca definitivamente, per un totale dissenso, nel ’31. Inizia qui la sua attività di scrittore: nel ’33 esce “Fontamara”, e via via, a scadenze ravvicinate, “Vino e pane”, “La scuola dei dittatori”, “Il seme sotto la neve”. Si assume un impegno di “socialista senza partito e cristiano senza chiesa”, come dirà poi lui stesso, in aperta polemica con il nazifascismo e con lo stalinismo. Dopo la guerra,pubblica ancora diversi libri, tra cui particolarmente significativo l’ultimo, “L’avventura di un povero cristiano”. Muore a Ginevra nel 1978. Eccezionale fu il successo, con vasta risonanza all’estero, della sua prima opera, “Fontamara”, scritta durane una grave malattia, pubblicata per la prima volta in tedesco, durante l’esilio a Zurigo nel ’33 e tradotta nel giro di pochi 7 anni in ventisette lingue (tra cui l’arabo, l’indiano e il giapponese), e stampata in italiano in Francia, a spese dell’autore, per essere introdotta e fatta circolare clandestinamente nell’Italia fascista. Per dare un’idea del calore dei consensi ottenuti dal romanzo al suo primo apparire, mi limito qui a citare quelli di Camus, di Trotsky, di Carlo Rosselli, di Bernard von Brentano e di Graham Greene. Silone, con questo romanzo corale, ci presenta un paese abruzzese dove i cafoni sono da secoli assuefatti alla fatica rassegnata e alla sofferenza senza posa degli umiliati e offesi. Ad un certo punto li risvegliano il Podestà ed alcuni proprietari terrieri del vicino capoluogo, che hanno fatto deviare l’acqua di un torrentello per irrigare le proprie campagne, sottraendola ai naturali fruitori che vedono così perduti i loro magri raccolti. I fontamaresi, ribellandosi, prendono finalmente coscienza dei propri diritti ed attingono un nuovo livello di umana dignità e di solidarietà; l’acqua diventa simbolo della libertà da ogni sopruso. La conclusione della vicenda tuttavia non è affatto trionfalistica: a Fontamara la festa dei cafoni si conclude con l’intervento della forza pubblica e con il ristabilimento del vecchio ordine costituito. Ecco l’idea che hanno i cafoni della gerarchia nel governo del mondo: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del Cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il Principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del Principe. Poi vengono i cani delle guardie del Principe. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi i cafoni. E si può dire che è finito.” “Ma le autorità dove le metti? – chiese irritato il forestiero. Le autorità – intervenne a spiegare Ponzio Pilato – si dividono tra il terzo e il quarto posto. Secondo la paga. Il quarto posto, quello dei cani, è immenso. Questo ognuno lo sa”. Lettura da “Fontamara” delle pag, 20-21-23, Sulla scia di Silone si pongono altri autori che mettono a fuoco le gravi problematiche del Meridione. Alcuni sono figli del Sud, altri no; piemontese è, ad esempio, Carlo Levi (1902- 1975) pittore, scrittore, uomo politico che, con il suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, ricorda il paesino della Lucania in cui è stato confinato dal regime come antifascista ed in cui si è prodigato ad aiutare i poveri abitanti come medico. Scritto 8 nel ‘43/44, in clandestinità, questo “libro di memorie” viene pubblicato nel’45, a Torino, dalla rinata casa editrice Einaudi; ha subito un grande successo, con oltre venti riedizioni e traduzioni in tutto il mondo. L’autore ci spiega nella prefazione il significato del suo efficacissimo titolo: “Non ho finora potuto mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini di tornare tra loro, a quella terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive nella miseria e nella lontananza, la sua immutabile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte. Non siamo cristiani – essi dicono – Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: è la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere; nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma… Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania… ma - aggiunge Levi – nessuno può prendere coscienza del dovere e del diritto alla libertà nel nome degli altri… ognuno deve conquistare la sua autonomia, nella liberatrice consapevolezza della propria conquistata dignità”. Occorre quindi superare la paura di assumersi le proprie responsabilità sia da parte dei contadini lucani che dei contadini e dei solfatari siciliani, di cui Levi parlerà in “Le parole sono pietre”, trattando degli scioperi degli zolfatari di Lercara Friddi e dei problemi dei contadini cacciati dalle loro terre a Bronte e nella Ducea. Alti due libri di Levi, “Tutto il miele è finito” e “Il futuro ha un cuore antico”, sono dedicati alla Sardegna. Grande è stato il successo tra il pubblico delle opere di questo piemontese ricco di interessi e di ingegno multiforme; durissima invece, e talvolta astiosa, è stata nei suoi confronti la critica da opposti fronti, quello marxista e quello delle elites intellettuali. A distanza di tempo gli rende giustizia Carlo Salinari, nella sua Storia della letteratura italiana: “Il metodo di Levi è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede; la sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione”. Ancora del Sud – trascurando “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, che appartiene alla letteratura di denuncia sociale solo per ambientazione – ci giunge la voce di Francesco Jovine (1902-1950), autore di “Signora Ava” e “Le terre di Sacramento”. Nato a Guardialfiera, nel Molise, è prima maestro elementare e poi direttore didattico e pedagogista. Si ricollega 9 idealmente a Verga, rifiuta ogni lirismo, non subisce la tentazione della bella pagina, studia con rigore i saggi di Giustino Fortunato sulla questione meridionale, si documenta sulle origini del brigantaggio; ma soprattutto trova nelle cose stesse, nella sua esperienza quotidiana la spinta alla scoperta di una realtà diversa da quella troppo ottimistica del conformismo ufficiale. Al pessimismo e all’immobilismo del mondo verghiano, Jovine sostituisce la visione di una realtà in movimento, non più inesorabilmente fissata sull’arretratezza e sul permanere dell’ingiustizia sociale. Dobbiamo trascurare con un po’ di rimpianto le due prime opere giovanili di Leonardo Sciascia (1921-1989), “Le parrocchie di Regalpetra” e “Gli zii di Sicilia”, che precedono quelle più note e importanti di impegno morale contro la corruzione e la mafia, opere di storico e di polemista che esulano in qualche modo dal nostro argomento. A questo punto ci poniamo una domanda: nella prima metà del ‘900 il Sud è ancora immerso nella povertà e nell’arretratezza più nera… e il Nord? Qui torno ai “paesi miei”. Gli scrittori che citerò riecheggiano memorie e racconti dei miei nonni, dei vecchi del mio paese, antiche memorie che sembrano inverosimili a distanza di solo un paio di generazioni. E’ questo il periodo in cui ambientano le loro opere due scrittori piemontesi legati alla natia terra delle Langhe, quelle Langhe che vediamo oggi continuamente pubblicizzate per i vini eccellenti, i preziosi tartufi, le fiere del gusto e gli accoglienti agriturismi. Tra il ’43 e il ’45 in questi luoghi e sulle montagne del Piemonte è passata la Resistenza, che è stata diretta conseguenza e in qualche modo espressione attiva del pensiero antifascista che ha percorso tutto il ventennio della dittatura, e che ha avuto proprio in Piemonte rappresentanti di spicco: Leone Ginsburg, Massimo Mila, Norberto Bobbio, il loro maestro Augusto Monti, Antonio Giolitti, Vittorio Foa, per citarne solo alcuni. Gli scrittori riscoprono un nuovo impegno morale e civile, una vocazione realistica che si riallaccia all’esperienza verghiana, con la rappresentazione di ambienti e personaggi popolari, di un linguaggio che attinge dal dialetto freschezza ed efficacia. L’intellettuale cerca una comunicazione più diretta col pubblico, collaterale alla grande stagione del neorealismo che il cinema ha appena inaugurato: Roberto Rossellini (Roma città aperta del ’45, Paisà del’46), Vittorio De Sica (Sciuscià del ’46, Ladri di biciclette del ’48, Miracolo a Milano del ’51, Umberto D del ’52), Luchino Visconti 10 (Ossessione del ’43, La terra trema – tratto proprio dai Malavoglia del’48, Rocco e i suoi fratelli” del’60). Collegabili ad essi, perché di impianto cinematografico, quasi fossero già scritti in forma di sceneggiatura, sono anche alcuni romanzi popolari di Vasco Pratolini (1913-1991), come “Cronaca familiare” e“Cronache di poveri amanti”, entrambi scritti nel 1947 ed entrambi tradotti in film qualche tempo dopo. Parlo qui di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio. I due scrittori piemontesi che voglio ricordare si collegano ai meridionalisti di cui abbiamo parlato perché scelgono come oggetto di analisi la gente della campagna; vicende poco spettacolari, fatica di vivere, drammi violenti ma chiusi spesso tra le mura domestiche o nel silenzio della natura antica e indifferente. La forma è essenziale e ruvida, talora capace di improvvise tenerezze, proprie di una severa regione in bianco e nero. Cesare Pavese (1908-1950) è il più noto dei due, quello che ha avuto maggiore e più lungo successo tra i critici ed i lettori. Nato a S. Stefano Belbo nel 1908, in una famiglia borghese, è vissuto dopo gli anni infantili, sempre a Torino, tornando alla terra d’origine solo nelle vacanze estive, che assumono soprattutto nel periodo dell’adolescenza e della prima giovinezza, una valenza importante, di forte attaccamento ai luoghi e alle amicizie. La personalità di Pavese, portata all’introversione, ai sentimenti vissuti in profondità e poco espressi all’esterno, si intona perfettamente con la gente di poche parole e con la terra aspra e avara dell’alta Langa. All’origine c’è la scoperta dell’infanzia come l’età in cui l’uomo compie le sue scelte fondamentali: è nell’infanzia che si ha il primo contatto col mondo, che si creano i miti che stanno alla base dell’esperienza delle cose e della presa di coscienza dell’età matura. Il mutare dell’uome nel corso degli anni non è che un “conoscere una seconda volta”, un riscoprire e un portare a chiarezza quei miti. Tutta o quasi l’opera di Pavese ha come sfondo i “paesi suoi”, dal primo romanzo pubblicato da Einaudi nel ’41 – “Paesi tuoi”, appunto - , all’ultimo, “La luna e i falò”, Premio Strega 1950, uscito sempre presso Einaudi quattro mesi prima del suo suicidio, avvenuto in un albergo di Torino il 26 agosto dello stesso anno. E’ su 11 questo, che è un po’ la summa di un’esperienza artistica ed umana, che mi soffermerò. “La luna e i falò” è il viaggio nel tempo di un trovatello, raccolto da una povera famiglia di contadini per le cinque lire mensili di sussidio del municipio, cresciuto poi come bracciante in una fattoria delle Langhe, emigrato a vent’anni in America sotto la pressione della Polizia fascista e tornato con una piccola fortuna nelle sue campagne dopo la fine della guerra, alla ricerca del tempo perduto. Guidato da un amico del passato, Nuto, un falegname-filosofo suonatore di clarino, e da Cinto, un povero ragazzo sciancato amato da nessuno in cui rivede sé stesso, il protagonista ripercorre luoghi e vicende accadute durante la sua assenza, molte delle quali legate alla lotta partigiana, ma solo nei risvolti più privati e umani, ispiratori di una dolente “compassione” per tanti destini tragici, senza distinzione di parte. La fatica, gli stenti, la violenza sino alla morte, subiti in particolare dai più deboli, la donne e i ragazzi, restano il tema di quest’ultima opera di Pavese; ma tutto è come immerso nella malinconia del ricordo, nella nostalgia delle cose perdute e delle persone travolte da un fato incomprensibile. Letture da “La luna e i falò” a pag. 9-12-36-54- 74-136 Il registro lirico dell’evocazione si fonde con la narrazione dei fatti, il mito delle origini con l’oscuro esplodere di una furia omicida nata dalla disperazione, di cui sono vittime due povere donne, il rogo finale della casa, dei raccolti, degli stessi animali, in una sorta di primitivo rito sacrificale, concluso poi dal suicidio del colpevole, impiccato come Giuda al ramo di in albero. Tutto questo è espresso in una lingua insieme semplice e sorvegliatissima, a cui l’amalgama col dialetto offre spontaneità, oralità e un ritmo originale. Scrivere “dalla parte dei protagonisti”, assumere il loro punto di vista e il loro linguaggio, questo si propone Pavese. I toni, rispetto a “Paesi tuoi”, sono decisamente smorzati, ma la strada dell’invenzione lessicale, della contami nazione col dialetto è tracciata. Su questa strada si pone anche Beppe Fenoglio (1922-1963), ben distinto tuttavia come personalità e come stile dal suo conterraneo. Fenoglio non si abbandona alla scoperta mitizzante del paesaggio e delle pulsioni primitive generate dall’isolamento, non indaga il rapporto cittàcampagna con i filtri ideologici dell’intellettuale vissuto in città come Pavese, semplicemente perché lui non è tornato in pellegrinaggio sulle 12 Langhe, ma è vissuto lì da autodidatta, a due passi da una popolazione rurale attaccata alla terra ed alla “roba”, perseguitata dalla “malora”, chiusa in una separatezza che non prevede deroghe alla legge ferrea del lavoro, nemmeno nell’ambito del gruppo familiare. Fenoglio nasce ad Alba nel 1922, l’anno della marcia su Roma, l’anno in cui muore Giovanni Verga, che in qualche modo gli passa il testimone. Il padre è un contadino inurbato, che ha trovato lavoro come garzone in una macelleria; la madre viene da Canale, nell’Oltretanaro, e tiene saldamente in mano il governo della famiglia. Così parla il figlio, nei “Diari”, delle sue radici: “I vecchi Fenoglio, che stettero attorno alla culla di mio padre, tutti vestiti di lucido nero, con il bicchiere in mano e sorridendo a bocca chiusa. Che sposarono le più speciali donne delle Langhe, avendo ognuno molti figli…così senza mestiere e senza religione, così imprudenti, così innamorati di sè…Mia madre d’Oltretanaro, di una razza credente e mercantile, giudiziosissima e sempre insoddisfatta. Questi due sangui mi fanno dentro le vene una battaglia che non dico”. Il ragazzo è bravo a scuola, ma è afflitto da una leggera balbuzie che, unita ad un carattere timido e riservato, lo rende sempre restio a rapporti con estranei. Nonostante le ristrettezze economiche, Beppe frequenta il Liceo Classico perché un maestro elementare ne ha intuito le doti e la madre gli ha creduto. Si innamora della lingua e della letteratura inglese, di Shakespeare in particolare. Incontra alcuni docenti antifascisti (come Leonardo Cocito, impiccato dai tedeschi nel’44, e Pietro Chiodi, fuggito dalla deportazione in Germania e poi partigiano) che lo vaccinano contro l’ideologia del regime e la retorica imperante in quegli anni. Nel ’43 è chiamato alle armi, ma con l’armistizio dell’8 settembre e lo sfasciarsi dell’esercito rientra avventurosamente in famiglia (da questa esperienza nascerà “Primavera di bellezza”), e nel gennaio ’44 si unisce alle formazioni partigiane, vivendo in prima persona il travaglio e le contraddizione di quella che egli considera una guerra civile, ispiratrice dei suoi libri più importanti, in particolare “Una questione privata”, “La paga del sabato”, “Il partigiano Johnny”, rimasto incompiuto, pubblicati tutti dopo la sua morte. La sua Resistenza è vissuta dall’interno, spesso in solitudine, raccontata con equilibrio e con grande rigore etico, una Resistenza che, prima di essere contro il nemico, è una resistenza al gelo dell’inverno, all’indifferenza e qualche volta all’ostilità della gente di campagna, terrorizzata dai rastrellamenti, dagli incendi, dalle rappresaglie repubblichine e tedesche. 13 Vive con disagio il ritorno alla vita normale e con essa la ripresa degli studi universitari, che decide poi di abbandonare, entrando in aspro contrasto con la madre. Si rifugia con accanimento nello scrivere, nel tradurre gli amati autori anglosassoni, sempre in compagnia dell’eterna sigaretta. Nel ’47 le crescenti difficoltà economiche della famiglia lo spingono ad accettare un posto di corrispondente con l’estero in una azienda vinicola di Alba, posto che manterrà sempre perché il modesto impiego gli permette di contribuire alle necessità familiari, lasciandogli ritagli di tempo da dedicare alla scrittura. Finalmente nel ’52, dopo un iter molto travagliato, esce presso Einaudi il suo primo libro di racconti “I ventitré giorni della città di Alba”; nel ’54, con il benestare di Italo Calvino, riesce a vedere la luce “La Malora”, accolta in modo contrastato dalla critica. Il titolo: l’autore ha italianizzato, volgendolo al femminile, il vocabolo piemontese “maleur”, che significa sfortuna, destino disgraziato. Tutto il libro, con l’assunzione del punto di vista e della voce del protagonista in prima persona, segna per Fenoglio il momento di massima fusione tra lingua e dialetto. Egli introduce, con costruzioni e cadenze del linguaggio parlato nelle Langhe, una forma non artificiale, in cui i vocaboli dialettali si inseriscono con naturalezza ed efficacia, con un procedimento di immedesimazione che ricorda un po’ quello dei Malavoglia. Con parole ruvide e disadorne, Fenoglio narra una storia ambientata agli inizi del ’900, quando la moneta circolante è ancora il marengo e la durata della leva è regolata dal sorteggio. Il protagonista, che racconta in prima persona, è un ragazzo, Agostino Braida: il giorno stesso del funerale del padre deve lasciare il suo paese, S. Benedetto Belbo, per riprendere il posto di servitore al Pavaglione, la cascina del mezzadro Tobia, dove da un anno è stato ingaggiato come garzone, venduto al mercato di Niella “come un agnello al tempo di Pasqua” dal padre, caduto nella miseria più nera. Lettura da “La malora” pag. 3-4 Lo svolgersi del racconto di Agostino non segue un ordine cronologico, ci sono sfasature di luogo e di tempo per dare particolare rilievo ai momenti emotivamente più intensi. Dopo la triste immagine di morte che apre il romanzo, l’io narrante ci informa, in alcune pagine dense e scarne, sui fatti precedenti: l’impoverimento della famiglia strozzata dai debiti, il servizio militare del fratello maggiore, la partenza dell’altro fratello, Emilio, buono e bravo a scuola ma di poche forze, destinato al seminario per volere della 14 sua maestra, creditrice dei Braida. Dal centro emotivo del racconto, il funerale del padre, si snoda poi la seconda tranche di vita di Agostino: l’amicizia e poi il distacco dal compagno ribelle e giocatore perdente Mario Bernasca, le visite al seminario dove Emilio deperisce progressivamente per la fame, il suicidio di un vicino, la malattia del padrone sfiancato dal lavoro, e l’arrivo della ragazza, Fede, con cui Agostino intreccia un breve e delicato idillio, troncato da un matrimonio combinato a cui Fede, “abituata a chinar sempre la testa”, non si sa sottrarre. L’episodio ricorda da vicino l’amore, fatto di sguardi e di poche parole, di silenzi densi di sentimenti e di pensieri, tra Mena e Alfio nei Malavoglia, chiuso anch’esso da un desolato distacco. La storia si conclude con il ritorno a San Benedetto del ragazzo, che la dura esperienza ha trasformato in un uomo, ormai capofamiglia, per accogliere Emilio gravemente ammalato, che possa almeno morire nel suo letto, a casa sua. La casa rappresenta comunque un rifugio, una garanzia per sé e per le generazioni che verranno, e così un pezzo di terra, per cui vale la pena di sacrificarsi per tutta la vita…Anche qui ritroviamo i miti verghiani della casa e della roba. Molti dei più significativi racconti di Fenoglio completano il quadro che lo scrittore traccia della sua gente, con temi quasi sempre ricavati da fatti realmente accaduti e da memorie familiari. Egli, come Pavese, ci lascia il rammarico di una vita troppo breve: muore di tumore a quarant’anni, lasciando la moglie e l’amatissima figlia Margherita di appena un anno. Passata l’ondata della letteratura neorealista, i nuovi scrittori si occupano poco della gente contadina che sta subendo un epocale cambiamento di vita e di organizzazione sociale; si verifica in un primo periodo uno spostamento dei più giovani dalla campagna alla città, dall’agricoltura al lavoro in fabbrica, magari suddividendo le forze tra la catena di montaggio e la coltivazione, nel poco tempo libero e nelle ferie estive, di un proprio pezzo di terra, da cui non si riesce a tagliare il cordone ombelicale, che resta in gran parte affidato alle cure dei vecchi, sempre piuttosto diffidenti sulla reale durata del celebrato miracolo economico. In un secondo tempo avviene il grande esodo dal Sud al Nord, con i fenomeni di intolleranza iniziale dei residenti e di disagio dei nuovi arrivati che ben ricordiamo. Poi, lentamente ma inesorabilmente, i “terroni” si fondono coi “polentoni”: anzi, succede che i contadini più isolati non trovano più una moglie che accetti di condividere le difficoltà e le fatiche della loro vita e vanno a cercare, magari attraverso dei mediatori, secondo l’antica maniera, ragazze 15 del Sud ben disposte a fare figli e dare una mano in campagna. Come sempre, amori e matrimoni, la scuola in comune, la condivisione del posto di lavoro contano di più dei programmi politici non sempre adeguati per fare quella vera unità d’Italia che Cavour auspicava. Nel frattempo anche l’agricoltura impara lentamente ad avvalersi della meccanizzazione dei mezzi di produzione: per chi può permetterselo arriva il trattore a sostituire i buoi nelle campagne più fertili e pianeggianti. Cambiano le abitudini di vita dei contadini, quasi sparisce la famiglia patriarcale a cui occorrono tante braccia. Rimangono invece isolate e dimenticate le comunità delle zone più depresse, che non riescono a tenere il passo. Alla storia della montagna e della campagna povera del cuneese, alla metà degli anni settanta, lo scrittore e sociologo Nuto Revelli (1919-2004) dedica una raccolta di testimonianze, registrate in diretta al magnetofono e pubblicate sotto il titolo di verghiana memoria “Il mondo dei vinti”. Dal volume di fotografie collegato col testo sono tratte le immagini che, con l’insostituibile aiuto di Emilio Tacconi, stanno scorrendo sullo schermo, esemplificative di tutta la povera gente che, al Nord come al Sud, ha sofferto, lavorato e vissuto con dignità. Il mondo evocato da queste immagini è stato portato sullo schermo da Ermanno Olmi in “L’albero degli zoccoli” e da Padre Davide Maria Turoldo nel film “Gli ultimi”, quasi del tutto ignorato da pubblico e critica. Mi dispiace di non potere trasmettere qualcuna delle vive e toccanti interviste di Revelli, prezioso documento di una civiltà e di una cultura al tramonto, così “vere” che, leggendole, mi pareva di ascoltare in diretta mio nonno o qualche vecchietto del mio paese. Vi leggerò invece una pagina in cui l’autore, con un linguaggio privo di fronzoli, racconta il dramma delle migrazioni piemontesi nella vicina Francia o nella lontanissima America. Lettura dal “Mondo dei vinti” pag XCVII Vi consiglio tuttavia la lettura del quasi introvabile testo, edito nel ’77 nella collana degli Struzzi di Einaudi, come pure quello di un altro libro di Revelli, “La guerra dei poveri non finisce mai”, anch’esso pubblicato nella stessa collana. Il tempo è tiranno e devo perciò limitarmi a citare poche altre opere che pongono in primo piano il popolo dei diseredati: ad esempio, il sottoproletariato delle borgate romane che popola “Ragazzi di vita”e “Una 16 vita violenta” di Pier Paolo Pasolini, e i disadattati delle periferie milanesi descritti in “Il Dio di Roserio”, “Il ponte della Ghisolfa” e “La Gilda del Mac Mahon” di Giovanni Testori. Sempre più mi sembra che lo sguardo dell’italiano medio, categoria a cui penso di appartenere, si rivolga spesso in modo distratto, talvolta sprezzante e addirittura astioso, verso i poveri che sono tra noi, in particolare verso quelli arrivati da lontano, come in passato le nostre generazioni erano andate lontano a guadagnarsi il pane. Noi guardiamo con la stessa indifferenza e imperturbabilità il barbone che ci passa accanto, il bambino rom che ci infastidisce, l’extracomunitario che ci vuol vendere qualcosa, ed alla sera anche il povero negretto che compare in tv (anzi, a quest’ultimo magari manderemmo volentieri anche un po’ di soldi, purchè stia lontano e non ci disturbi). Forse faremmo bene a riflettere che la storia non solo è ciclica, ma non si arresta nel suo evolversi, e che la Costituzione italiana, e prima ancora il messaggio evangelico, proclamano l’uguaglianza dei diritti fondamentali degli esseri umani e la solidarietà tra quelli che vivono sulla stessa terra e nello stesso paese civile. Mi auguro che in futuro l’Italia possa essere nota nel mondo non solo per le sue bellezze artistiche e la sua cultura, ma anche per l’umanità, la tolleranza e la lotta contro le ingiustizie ovunque si trovino. Questo, in sintesi, penso sia il messaggio che ci vogliono comunicare gli scrittori di cui abbiamo parlato. 17