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Storie di povera gente nella letteratura italiana tra `800 e `900

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Storie di povera gente nella letteratura italiana tra `800 e `900
UNI TER - Arese
Storie di povera gente
nella letteratura italiana
tra ‘800 e ‘900
di
Maria Emanuel
1
Con la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia abbiamo
ripercorso gli eventi più importanti del nostro Risorgimento, abbiamo
ricordato gli ispiratori e gli uomini d’azione che hanno costruito quasi
miracolosamente in meno di mezzo secolo (dai primi moti del 1821 alla
proclamazione di Roma capitale nel 1871) una nazione libera e
indipendente. Abbiamo parlato – giustamente – della Storia con la S
maiuscola, quella che abbiamo studiato sui libri di scuola. Ma esiste
un’altra storia, la storia della gente comune, la storia che ci è stata
trasmessa attraverso le memorie familiari, la storia di quelli che le guerre
le hanno combattute davvero, che spesso ci hanno lasciato la pelle, o
comunque hanno sofferto miseria, fame, ingiustizie sociali per lungo
tempo, senza la capacità e la possibilità di tentare un riscatto.
Al popolo degli umili la letteratura italiana ha dedicato la sua attenzione in
maniera tardiva e, per secoli, quasi inesistente.
Se lasciamo da parte la figura comico-grottesca del Baldo di Teofilo
Folengo (1491-1544), con la sua invenzione del latino maccheronico, o i
contadini padovani che animano il teatro dialettale del Ruzante (Angelo
Beolco detto il Ruzante, 1502-1542) nel XVI secolo, dobbiamo arrivare a
Carlo Porta e ad Alessandro Manzoni per trovare al centro di un’opera
letteraria qualche esemplare di quella che l’autore dei Promessi Sposi
definisce “un’immensa moltitudine di uomini, una serie di generazioni,
che passa sulla terra, sulla sua terra, senza lasciare traccia”.
Carlo Porta (1775-1821), il nostro poeta milanese apprezzato e gustato
troppo poco rispetto al suo valore (certo anche per la difficoltà costituita
dal dialetto), ci presenta nei suoi versi degli esemplari di un’umanità
diseredata, nascosta nelle pieghe di una Milano borghese e progressiva. Mi
limito ad accennare che la stessa cosa fa a Roma Gioacchino Belli (17911863), poeta più istintivo e di minor rilievo, ma autore di alcuni
indimenticabili sonetti in romanesco. “Per Porta l’attività poetica si pone
come frutto di un’esperienza umana e non libresca, – scrive il critico Carlo
Salinari - un’apertura verso le plebi diseredate degli ‘Ottentoti’ , così
lontane dai ‘Parigini’”. L’uso del dialetto e il metodo del realismo, inteso
come rappresentazione affidata alle cose stesse e come scelta del mondo
degli oppressi e degli sfruttati (Giovannin Bongee, Marchionn, Ninetta del
Verzeè) caratterizzano l’arte del Porta, sostenuta da una rara acutezza di
osservazione e da una efficacissima vena satirica nei confronti del clero e
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della nobiltà. La fedeltà al vero non è però mai disgiunta in lui da una
profonda “pietas” verso le umane debolezze.
Questo atteggiamento lo accomuna in qualche modo ad Alessandro
Manzoni (1785-1873), sebbene le diverse provenienze sociali, piccolo
borghese l’uno, nobile l’altro, li pongano da punti di osservazione ben
diversi nei confronti del popolo oppresso. Naturalmente non posso qui
esaminare in modo adeguato l’opera del Manzoni. Mi limito a prendere in
considerazione lo sguardo dell’autore sui popolani presentati nel romanzo,
a partire dai due protagonisti, Renzo artigiano e Lucia intuitivamente
operaia in una filanda. Osserviamo intanto quanto poco si parla del loro
lavoro, che pure è vita quotidiana, nello svolgersi delle vicende che li
coinvolgono. Questa è una spia della lontananza reale dell’autore dal
mondo di quegli umili di cui pure si fa paladino. Dobbiamo tener conto
che “I Promessi Sposi”è prima di tutto un romanzo storico, che non
elimina dal quadro le masse anonime, “la gente di nessuno – come le
definisce Don Rodrigo – Chi sa chi siano? Son come gente perduta sulla
terra; non hanno neanche un padrone; gente di nessuno”.
Questa gente, dunque, per avere il semplice diritto di esistere, deve
appartenere a qualcuno, a chi sa come va il mondo e lo può governare.
Eppure Renzo e Lucia (e con loro una folla di uomini e donne semplici,
contadini, artigiani, barcaioli) se appaiono a prima vista disarmati di fronte
all’ingiustizia, con la loro fede in un Dio non lontano dall’uomo, secondo
la visione manzoniana, sanno resistere ai soprusi ed alle sventure, ed
uscirne vincenti. Per la verità, c’è in Renzo un istintivo impulso di
ribellione alle prepotenze del signorotto, alla vigliaccheria del curato e
dell’emblematico “azzeccagarbugli”. In Manzoni esiste però una certa
sfiducia nell’agire puramente umano; la vera protagonista del suo romanzo
è la Provvidenza, che intreccia secondo divini disegni, al di sopra dei
progetti e degli errori umani, vite di umili e di potenti…con un occhio di
simpatia da parte dell’autore verso i primi, secondo il messaggio
evangelico. Anche la descrizione delle misere condizioni degli abitanti
della campagna circostante il convento di Pescarenico, quale appare agli
occhi di Fra Cristoforo, mi sembra piuttosto convenzionale, anche se
significativa.
“Ogni tanto s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel
mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano… Lo spettacolo
dei lavoratori sparsi nei campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso.
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Alcuni andavan gettando le lor sementi, rade, con risparmio e a
malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan
la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La
fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra
stecchita, guardava innanzi e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della
famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli
uomini potevan vivere.”
Diverso è il senso che, rispetto all’ideale romantico manzoniano, danno il
positivismo come concezione del mondo ed il naturalismo come canone
d’arte. Non potendo qui soffermarmi su questi “ismi”, prendo ora in
considerazione un altro grande scrittore che delle nuove tendenze fu
interprete, senza peraltro aderirvi in modo accademico, dotato com’era di
una forte e geniale personalità: Giovanni Verga (1840-1922). Il costo
dell’unità per la nuova Italia si era rivelato ingente. Il distacco profondo tra
classe dirigente e masse popolari, l’arretratezza economica, il diffuso
analfabetismo, presente con una percentuale variante tra il 75 e l’80%
(secondo studi e statistiche del Villari, dello Jacini, di Franchetti e Sonnino
– questi desunti dalla Relazione al Parlamento relativa alla loro inchiesta
sulle condizioni sociali della Sicilia del 1876 -, e di Giustino Fortunato),
facevano sì che il nuovo regno fosse sentito come estraneo alla realtà della
vita ed ai problemi del popolo minuto, a cui per sovrappiù erano imposte
nuove tasse e richiesto un lungo servizio di leva obbligatoria, che sottraeva
al lavoro per almeno 3/4 anni le braccia più valide.
Verga, nato a Catania nel 1840 da una famiglia di piccoli proprietari
terrieri, dopo aver trascorso la giovinezza in Sicilia ed aver pubblicato un
paio di romanzi storici di scarso valore, si trasferì prima a Firenze e poi a
Milano, dove partecipò al movimento della Scapigliatura e dove rimase
per oltre vent’anni, pur tornando periodicamente alla sua città d’origine.
Degli scapigliati Verga assunse temi e linguaggio, per opere che ottennero
ben presto un notevole successo di pubblico, e rimpinguarono un po’ le
sue esigue finanze. Basta ricordare i loro titoli per dare un’idea del mondo
immaginario che presentavano: “Una peccatrice”, “Eva”, “Storia di una
capinera”, “Tigre reale”, “Eros”: turbamenti romantici e passioni violente,
morti drammatiche, storie di vinti dall’amore. I temi “maledetti”, (che
riecheggiano Baudelaire ed il decadentismo), insieme all’atteggiamento
anarcoide ed antiborghese, furono gli aspetti più appariscenti della
Scapigliatura; ma ben più importante fu il secondo punto programmatico,
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il culto del “vero”, della vita reale ed attuale. Da qui l’origine di un nuovo
movimento letterario, il Verismo, tutto italiano anche se derivante dal
naturalismo francese; e Verga ne sarà il maggior rappresentante. Nel 1874
avvenne la sua “conversione”, il salto di qualità; non più gli ambienti
dell’alta società, ma quello di un piccolo paese siciliano, non storie di
crudeli seduttrici e di artisti sconfitti, ma la triste vicenda di una povera
raccoglitrice di olive, Nedda, del suo amore per Janu, e della sua
inconsolabile solitudine dopo la morte della madre, del marito e della
figlioletta, nello squallore di una miseria senza rimedio, vittima di un
destino che gli sforzi, le fatiche e le sofferenze umane non possono
sconfiggere. Nasce con questa novella, “Nedda” appunto, il Verga più
grande, l’autore di “I Malavoglia”, “Mastro Don Gesualdo”, “Vita dei
campi” e “Novelle rusticane”, il Verga che esprime la sua concezione
darwiniana della lotta per l’esistenza come base dello sviluppo della storia
umana. Ma lo sguardo dello scrittore verso questo “sviluppo” è molto
pessimista: egli non può dimenticare la realtà di quei vinti: secondo la tesi
positivistica, che è poi quella dell’ideologia borghese dell’Ottocento, il
cammino del progresso è necessario, grandioso nell’insieme, ma lascia ai
margini della strada innumerevoli vittime, i più deboli, contro cui si
accanisce una sorta di fato.
Chi non ricorda i protagonisti di due novelle-capolavoro, “Jeli il pastore” e
“Rosso Malpelo”, inscindibili dal povero asino macilento che è il
necessario compagno della loro fatica? (L’asino è un animale simbolo,
perché dà tutto di sé fino allo sfinimento, senza mai ribellarsi). Dopo le
novelle, ecco il capolavoro vero, “I Malavoglia”, un romanzo corale in cui
la storia di una povera famiglia è inserita nell’ambiente variegato di un
borgo di pescatori siciliani. Questo campione di umanità è osservato con
uno sguardo che, secondo i canoni del verismo, dovrebbe essere
impersonale, ma che invece è, pur nell’essenzialità del linguaggio, vibrante
di partecipazione e intensa attenzione alle sfumature ed agli affetti di ogni
personaggio. In Verga la Provvidenza non è più, come per Manzoni, la
sapiente presenza di Dio nella storia umana, ma il nome quasi irridente di
una barca, unico patrimonio e mezzo di sostentamento di una povera
famiglia siciliana, il cui naufragio incide inesorabilmente sul destino di
tutti i suoi membri. Il romanzo è ambientato ad Acitrezza, sulla costiera
catanese, nel periodo della terza guerra d’indipendenza (1866). La nuova
Italia è rimasta lontana e ostile per questo popolo di formiche, anzi di
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ostriche rimaste irragionevolmente ma tenacemente attaccate al loro
scoglio, al di la del quale non c’è salvezza.
Ecco come è vista da Acitrezza la battaglia navale di Lissa, una delle più
disastrose sconfitte italiane nelle guerre d’indipendenza.
Lettura da “I Malavoglia”, pag.145
La Sicilia contadina si ripresenta ai nostri occhi nell’opera di un altro suo
grande figlio, Luigi Pirandello (1867-1936), in particolare in alcune
novelle; ma è una Sicilia filtrata attraverso lo sguardo di uno “scrittorefilosofo”, come egli si definiva: la realtà è deformata da un alone magico
(“Mal di luna”, “Il figlio cambiato”) o da un corrosivo umorismo (“La
giara”, “Liolà”) o da un delicato lirismo (“Ciaula scopre la luna”):
frantumata in “piccoli specchi” che riflettono non tanto la società com’è
quanto l’amara visione e la pena di vivere di chi scrive.
Si conclude per l’Italia il secolo dell’unificazione: l’Esposizione
Universale del 1911 illustra “le magnifiche sorti e progressive” cantate dal
Carducci, la scuola elementare obbligatoria e gratuita ha ridotto, ma non
ovunque in maniera omogenea, la piaga dell’analfabetismo, il diritto di
voto si è allargato a nuovi ceti sociali, ma… i poveri non sono diminuiti.
Spinti dalla miseria e dal miraggio di un avvenire migliore, ora molti si
avventurano oltre oceano, almeno i più giovani ed audaci, emigrando verso
paesi di cui ignorano del tutto la lingua e le leggi, lasciando in patria
genitori, mogli, figli bambini, a cui scarse e incostanti arrivano le
cosiddette “rimesse” per sopravvivere…e molte volte questi mariti e padri
vengono inghiottiti definitivamente dal lontano e sconosciuto Nuovo
Mondo.
A sconvolgere del tutto il secolo arriva intanto la Prima guerra mondiale,
la Grande Guerra, che macina milioni di anonime vite di povera gente.
Ricordo soltanto il romanzo “Un anno sull’altipiano”, del sardo Emilio
Lussu (1890-1975), tradotto in immagini dal film “Uomini contro” di
Francesco Rosi. Il cinema ci ha dato anche un’altra opera, indimenticabile,
“La grande guerra” di Mario Monicelli. Ricordo tra i memorialisti Piero
Jahier (1884-1966), genovese, che ha scritto “Con me e con gli alpini”.
Corrado Alvaro (1895-1956), nato a S, Luca di Calabria, ha combattuto
in questa guerra ed è rimasto ferito sul campo. Trasferitosi in seguito al
Nord e diventato un noto giornalista e scrittore, dedica il più bello dei suoi
libri “Gente in Aspromonte” (1930) al suo paese d’origine. In questa ed in
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altre opere, e così pure in molti articoli giornalistici, egli analizza i motivi
dello squilibrio tra nord e sud, tra il progresso del settentrione e
l’arretratezza del mezzogiorno, in un’economia quasi primitiva, in
strutture feudali in cui rimangono immutati i rapporti tra gli uomini e
rimane immutata la soggezione del popolo all’unico signore del paese e
all’autorità indiscussa del prete.
Lettura da “Gente di Aspromonte” pag 11
Nell’opera di Alvaro, di forte impronta critica, c’è però anche il
vagheggiamento romantico di un mondo mitico che richiama l’innocenza
dell’infanzia, dello stato di natura. Le pagine più efficaci restano quelle di
alcuni racconti, che parlano di una Calabria reale, dei suoi pastori e della
loro vita di stenti.
Se l’opera di Alvaro si può considerare ancora scritta per portare alla luce
antichi costumi ed ambienti lasciati fino ad allora in ombra, Ignazio Silone
(1900-1978), sulla scia di Verga, dà inizio ad una letteratura di denuncia
sociale: non si può continuare a farsi vittima dell’ingiustizia, bisogna
unirsi e ribellarsi a chi vuole trasformare, per il proprio tornaconto, degli
uomini liberi in schiavi del padrone. Nato a Pescina de’ Marsi, in Abruzzo,
nel 1900, Silone (pseudonimo di Secondo Tranquilli), perde entrambi i
genitori nel terremoto del 1915. Rimasto solo, prende a frequentare sin da
ragazzo la lega dei contadini, che cerca di resistere ai soprusi dei padroni
delle terre. Questo suo impegno giovanile sboccherà ben presto in attività
di orientamento socialista e quindi in una collaborazione giornalistica con
l’”Avanti”. Seguono dieci anni di militanza nel partito comunista, da cui si
stacca definitivamente, per un totale dissenso, nel ’31. Inizia qui la sua
attività di scrittore: nel ’33 esce “Fontamara”, e via via, a scadenze
ravvicinate, “Vino e pane”, “La scuola dei dittatori”, “Il seme sotto la
neve”. Si assume un impegno di “socialista senza partito e cristiano senza
chiesa”, come dirà poi lui stesso, in aperta polemica con il nazifascismo e
con lo stalinismo. Dopo la guerra,pubblica ancora diversi libri, tra cui
particolarmente significativo l’ultimo, “L’avventura di un povero
cristiano”. Muore a Ginevra nel 1978.
Eccezionale fu il successo, con vasta risonanza all’estero, della sua prima
opera, “Fontamara”, scritta durane una grave malattia, pubblicata per la
prima volta in tedesco, durante l’esilio a Zurigo nel ’33 e tradotta nel giro
di pochi
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anni in ventisette lingue (tra cui l’arabo, l’indiano e il giapponese), e
stampata in italiano in Francia, a spese dell’autore, per essere introdotta e
fatta circolare clandestinamente nell’Italia fascista. Per dare un’idea del
calore dei consensi ottenuti dal romanzo al suo primo apparire, mi limito
qui a citare quelli di Camus, di Trotsky, di Carlo Rosselli, di Bernard von
Brentano e di Graham Greene. Silone, con questo romanzo corale, ci
presenta un paese abruzzese dove i cafoni sono da secoli assuefatti alla
fatica rassegnata e alla sofferenza senza posa degli umiliati e offesi. Ad un
certo punto li risvegliano il Podestà ed alcuni proprietari terrieri del vicino
capoluogo, che hanno fatto deviare l’acqua di un torrentello per irrigare le
proprie campagne, sottraendola ai naturali fruitori che vedono così perduti
i loro magri raccolti. I fontamaresi, ribellandosi, prendono finalmente
coscienza dei propri diritti ed attingono un nuovo livello di umana dignità
e di solidarietà; l’acqua diventa simbolo della libertà da ogni sopruso. La
conclusione della vicenda tuttavia non è affatto trionfalistica: a Fontamara
la festa dei cafoni si conclude con l’intervento della forza pubblica e con il
ristabilimento del vecchio ordine costituito.
Ecco l’idea che hanno i cafoni della gerarchia nel governo del mondo:
“In capo a tutti c’è Dio, padrone del Cielo. Questo ognuno lo sa.
Poi viene il Principe Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del Principe.
Poi vengono i cani delle guardie del Principe.
Poi nulla.
Poi ancora nulla.
Poi i cafoni.
E si può dire che è finito.”
“Ma le autorità dove le metti? – chiese irritato il forestiero. Le autorità –
intervenne a spiegare Ponzio Pilato – si dividono tra il terzo e il quarto
posto. Secondo la paga. Il quarto posto, quello dei cani, è immenso.
Questo ognuno lo sa”.
Lettura da “Fontamara” delle pag, 20-21-23,
Sulla scia di Silone si pongono altri autori che mettono a fuoco le gravi
problematiche del Meridione. Alcuni sono figli del Sud, altri no;
piemontese è, ad esempio, Carlo Levi (1902- 1975) pittore, scrittore,
uomo politico che, con il suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, ricorda il
paesino della Lucania in cui è stato confinato dal regime come antifascista
ed in cui si è prodigato ad aiutare i poveri abitanti come medico. Scritto
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nel ‘43/44, in clandestinità, questo “libro di memorie” viene pubblicato
nel’45, a Torino, dalla rinata casa editrice Einaudi; ha subito un grande
successo, con oltre venti riedizioni e traduzioni in tutto il mondo. L’autore
ci spiega nella prefazione il significato del suo efficacissimo titolo: “Non
ho finora potuto mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini
di tornare tra loro, a quella terra senza conforto e dolcezza, dove il
contadino vive nella miseria e nella lontananza, la sua immutabile civiltà,
su un suolo arido, nella presenza della morte. Non siamo cristiani – essi
dicono – Cristo si è fermato ad Eboli. Cristiano vuol dire, nel loro
linguaggio, uomo: è la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere;
nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato
complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo considerati
come uomini, ma bestie, bestie da soma… Cristo si è davvero fermato ad
Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e
si addentrano nelle desolate terre di Lucania… ma - aggiunge Levi –
nessuno può prendere coscienza del dovere e del diritto alla libertà nel
nome degli altri… ognuno deve conquistare la sua autonomia, nella
liberatrice consapevolezza della propria conquistata dignità”. Occorre
quindi superare la paura di assumersi le proprie responsabilità sia da parte
dei contadini lucani che dei contadini e dei solfatari siciliani, di cui Levi
parlerà in “Le parole sono pietre”, trattando degli scioperi degli zolfatari di
Lercara Friddi e dei problemi dei contadini cacciati dalle loro terre a
Bronte e nella Ducea. Alti due libri di Levi, “Tutto il miele è finito” e “Il
futuro ha un cuore antico”, sono dedicati alla Sardegna.
Grande è stato il successo tra il pubblico delle opere di questo piemontese
ricco di interessi e di ingegno multiforme; durissima invece, e talvolta
astiosa, è stata nei suoi confronti la critica da opposti fronti, quello
marxista e quello delle elites intellettuali. A distanza di tempo gli rende
giustizia Carlo Salinari, nella sua Storia della letteratura italiana: “Il
metodo di Levi è di descrivere con rispetto e devozione ciò che vede; la
sua scrittura è un puro strumento di questo suo rapporto amoroso col
mondo, di questa fedeltà agli oggetti della sua rappresentazione”.
Ancora del Sud – trascurando “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini,
che appartiene alla letteratura di denuncia sociale solo per ambientazione –
ci giunge la voce di Francesco Jovine (1902-1950), autore di “Signora
Ava” e “Le terre di Sacramento”. Nato a Guardialfiera, nel Molise, è prima
maestro elementare e poi direttore didattico e pedagogista. Si ricollega
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idealmente a Verga, rifiuta ogni lirismo, non subisce la tentazione della
bella pagina, studia con rigore i saggi di Giustino Fortunato sulla questione
meridionale, si documenta sulle origini del brigantaggio; ma soprattutto
trova nelle cose stesse, nella sua esperienza quotidiana la spinta alla
scoperta di una realtà diversa da quella troppo ottimistica del conformismo
ufficiale. Al pessimismo e all’immobilismo del mondo verghiano, Jovine
sostituisce la visione di una realtà in movimento, non più inesorabilmente
fissata sull’arretratezza e sul permanere dell’ingiustizia sociale.
Dobbiamo trascurare con un po’ di rimpianto le due prime opere giovanili
di Leonardo Sciascia (1921-1989), “Le parrocchie di Regalpetra” e “Gli
zii di Sicilia”, che precedono quelle più note e importanti di impegno
morale contro la corruzione e la mafia, opere di storico e di polemista che
esulano in qualche modo dal nostro argomento.
A questo punto ci poniamo una domanda: nella prima metà del ‘900 il Sud
è ancora immerso nella povertà e nell’arretratezza più nera… e il Nord?
Qui torno ai “paesi miei”. Gli scrittori che citerò riecheggiano memorie e
racconti dei miei nonni, dei vecchi del mio paese, antiche memorie che
sembrano inverosimili a distanza di solo un paio di generazioni. E’ questo
il periodo in cui ambientano le loro opere due scrittori piemontesi legati
alla natia terra delle Langhe, quelle Langhe che vediamo oggi
continuamente pubblicizzate per i vini eccellenti, i preziosi tartufi, le fiere
del gusto e gli accoglienti agriturismi.
Tra il ’43 e il ’45 in questi luoghi e sulle montagne del Piemonte è passata
la Resistenza, che è stata diretta conseguenza e in qualche modo
espressione attiva del pensiero antifascista che ha percorso tutto il
ventennio della dittatura, e che ha avuto proprio in Piemonte
rappresentanti di spicco: Leone Ginsburg, Massimo Mila, Norberto
Bobbio, il loro maestro Augusto Monti, Antonio Giolitti, Vittorio Foa, per
citarne solo alcuni.
Gli scrittori riscoprono un nuovo impegno morale e civile, una vocazione
realistica che si riallaccia all’esperienza verghiana, con la rappresentazione
di ambienti e personaggi popolari, di un linguaggio che attinge dal dialetto
freschezza ed efficacia. L’intellettuale cerca una comunicazione più diretta
col pubblico, collaterale alla grande stagione del neorealismo che il cinema
ha appena inaugurato: Roberto Rossellini (Roma città aperta del ’45, Paisà
del’46), Vittorio De Sica (Sciuscià del ’46, Ladri di biciclette del ’48,
Miracolo a Milano del ’51, Umberto D del ’52), Luchino Visconti
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(Ossessione del ’43, La terra trema – tratto proprio dai Malavoglia del’48, Rocco e i suoi fratelli” del’60).
Collegabili ad essi, perché di impianto cinematografico, quasi fossero già
scritti in forma di sceneggiatura, sono anche alcuni romanzi popolari di
Vasco Pratolini (1913-1991), come “Cronaca familiare” e“Cronache di
poveri amanti”, entrambi scritti nel 1947 ed entrambi tradotti in film
qualche tempo dopo.
Parlo qui di Cesare Pavese e di Beppe Fenoglio.
I due scrittori piemontesi che voglio ricordare si collegano ai
meridionalisti di cui abbiamo parlato perché scelgono come oggetto di
analisi la gente della campagna; vicende poco spettacolari, fatica di vivere,
drammi violenti ma chiusi spesso tra le mura domestiche o nel silenzio
della natura antica e indifferente. La forma è essenziale e ruvida, talora
capace di improvvise tenerezze, proprie di una severa regione in bianco e
nero.
Cesare Pavese (1908-1950) è il più noto dei due, quello che ha avuto
maggiore e più lungo successo tra i critici ed i lettori. Nato a S. Stefano
Belbo nel 1908, in
una famiglia borghese, è vissuto dopo gli anni infantili, sempre a Torino,
tornando alla terra d’origine solo nelle vacanze estive, che assumono
soprattutto nel periodo dell’adolescenza e della prima giovinezza, una
valenza importante, di forte attaccamento ai luoghi e alle amicizie. La
personalità di Pavese, portata all’introversione, ai sentimenti vissuti in
profondità e poco espressi all’esterno, si intona perfettamente con la gente
di poche parole e con la terra aspra e avara dell’alta Langa.
All’origine c’è la scoperta dell’infanzia come l’età in cui l’uomo compie le
sue scelte fondamentali: è nell’infanzia che si ha il primo contatto col
mondo, che si creano i miti che stanno alla base dell’esperienza delle cose
e della presa di coscienza dell’età matura. Il mutare dell’uome nel corso
degli anni non è che un “conoscere una seconda volta”, un riscoprire e un
portare a chiarezza quei miti. Tutta o quasi l’opera di Pavese ha come
sfondo i “paesi suoi”, dal primo romanzo pubblicato da Einaudi nel ’41 –
“Paesi tuoi”, appunto - , all’ultimo, “La luna e i falò”, Premio Strega 1950,
uscito sempre presso Einaudi quattro mesi prima del suo suicidio,
avvenuto in un albergo di Torino il 26 agosto dello stesso anno. E’ su
11
questo, che è un po’ la summa di un’esperienza artistica ed umana, che mi
soffermerò. “La luna e i falò” è il viaggio nel tempo di un trovatello,
raccolto da una povera famiglia di contadini per le cinque lire mensili di
sussidio del municipio, cresciuto poi come bracciante in una fattoria delle
Langhe, emigrato a vent’anni in America sotto la pressione della Polizia
fascista e tornato con una piccola fortuna nelle sue campagne dopo la fine
della guerra, alla ricerca del tempo perduto. Guidato da un amico del
passato, Nuto, un falegname-filosofo suonatore di clarino, e da Cinto, un
povero ragazzo sciancato amato da nessuno in cui rivede sé stesso, il
protagonista ripercorre luoghi e vicende accadute durante la sua assenza,
molte delle quali legate alla lotta partigiana, ma solo nei risvolti più privati
e umani, ispiratori di una dolente “compassione” per tanti destini tragici,
senza distinzione di parte. La fatica, gli stenti, la violenza sino alla morte,
subiti in particolare dai più deboli, la donne e i ragazzi, restano il tema di
quest’ultima opera di Pavese; ma tutto è come immerso nella malinconia
del ricordo, nella nostalgia delle cose perdute e delle persone travolte da
un fato incomprensibile.
Letture da “La luna e i falò” a pag. 9-12-36-54- 74-136
Il registro lirico dell’evocazione si fonde con la narrazione dei fatti, il mito
delle origini con l’oscuro esplodere di una furia omicida nata dalla
disperazione, di cui sono vittime due povere donne, il rogo finale della
casa, dei raccolti, degli stessi animali, in una sorta di primitivo rito
sacrificale, concluso poi dal suicidio del colpevole, impiccato come Giuda
al ramo di in albero. Tutto questo è espresso in una lingua insieme
semplice e sorvegliatissima, a cui l’amalgama col dialetto offre
spontaneità, oralità e un ritmo originale. Scrivere “dalla parte dei
protagonisti”, assumere il loro punto di vista e il loro linguaggio, questo si
propone Pavese. I toni, rispetto a “Paesi tuoi”, sono decisamente smorzati,
ma la strada dell’invenzione lessicale, della contami nazione col dialetto è
tracciata.
Su questa strada si pone anche Beppe Fenoglio (1922-1963), ben distinto
tuttavia come personalità e come stile dal suo conterraneo.
Fenoglio non si abbandona alla scoperta mitizzante del paesaggio e delle
pulsioni primitive generate dall’isolamento, non indaga il rapporto cittàcampagna con i filtri ideologici dell’intellettuale vissuto in città come
Pavese, semplicemente perché lui non è tornato in pellegrinaggio sulle
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Langhe, ma è vissuto lì da autodidatta, a due passi da una popolazione
rurale attaccata alla terra ed alla “roba”, perseguitata dalla “malora”,
chiusa in una separatezza che non prevede deroghe alla legge ferrea del
lavoro, nemmeno nell’ambito del gruppo familiare. Fenoglio nasce ad
Alba nel 1922, l’anno della marcia su Roma, l’anno in cui muore Giovanni
Verga, che in qualche modo gli passa il testimone. Il padre è un contadino
inurbato, che ha trovato lavoro come garzone in una macelleria; la madre
viene da Canale, nell’Oltretanaro, e tiene saldamente in mano il governo
della famiglia. Così parla il figlio, nei “Diari”, delle sue radici: “I vecchi
Fenoglio, che stettero attorno alla culla di mio padre, tutti vestiti di lucido
nero, con il bicchiere in mano e sorridendo a bocca chiusa. Che sposarono
le più speciali donne delle Langhe, avendo ognuno molti figli…così senza
mestiere e senza religione, così imprudenti, così innamorati di sè…Mia
madre d’Oltretanaro, di una razza credente e mercantile, giudiziosissima e
sempre insoddisfatta. Questi due sangui mi fanno dentro le vene una
battaglia che non dico”. Il ragazzo è bravo a scuola, ma è afflitto da una
leggera balbuzie che, unita ad un carattere timido e riservato, lo rende
sempre restio a rapporti con estranei. Nonostante le ristrettezze
economiche, Beppe frequenta il Liceo Classico perché un maestro
elementare ne ha intuito le doti e la madre gli ha creduto. Si innamora
della lingua e della letteratura inglese, di Shakespeare in particolare.
Incontra alcuni docenti antifascisti (come Leonardo Cocito, impiccato dai
tedeschi nel’44, e Pietro Chiodi, fuggito dalla deportazione in Germania e
poi partigiano) che lo vaccinano contro l’ideologia del regime e la retorica
imperante in quegli anni. Nel ’43 è chiamato alle armi, ma con l’armistizio
dell’8 settembre e lo sfasciarsi dell’esercito rientra avventurosamente in
famiglia (da questa esperienza nascerà “Primavera di bellezza”), e nel
gennaio ’44 si unisce alle formazioni partigiane, vivendo in prima persona
il travaglio e le contraddizione di quella che egli considera una guerra
civile, ispiratrice dei suoi libri più importanti, in particolare “Una
questione privata”, “La paga del sabato”, “Il partigiano Johnny”, rimasto
incompiuto, pubblicati tutti dopo la sua morte. La sua Resistenza è vissuta
dall’interno, spesso in solitudine, raccontata con equilibrio e con grande
rigore etico, una Resistenza che, prima di essere contro il nemico, è una
resistenza al gelo dell’inverno, all’indifferenza e qualche volta all’ostilità
della gente di campagna, terrorizzata dai rastrellamenti, dagli incendi, dalle
rappresaglie repubblichine e tedesche.
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Vive con disagio il ritorno alla vita normale e con essa la ripresa degli
studi universitari, che decide poi di abbandonare, entrando in aspro
contrasto con la madre. Si rifugia con accanimento nello scrivere, nel
tradurre gli amati autori anglosassoni, sempre in compagnia dell’eterna
sigaretta. Nel ’47 le crescenti difficoltà economiche della famiglia lo
spingono ad accettare un posto di corrispondente con l’estero in una
azienda vinicola di Alba, posto che manterrà sempre perché il modesto
impiego gli permette di contribuire alle necessità familiari, lasciandogli
ritagli di tempo da dedicare alla scrittura. Finalmente nel ’52, dopo un iter
molto travagliato, esce presso Einaudi il suo primo libro di racconti “I
ventitré giorni della città di Alba”; nel ’54, con il benestare di Italo
Calvino, riesce a vedere la luce “La Malora”, accolta in modo contrastato
dalla critica. Il titolo: l’autore ha italianizzato, volgendolo al femminile, il
vocabolo piemontese “maleur”, che significa sfortuna, destino disgraziato.
Tutto il libro, con l’assunzione del punto di vista e della voce del
protagonista in prima persona, segna per Fenoglio il momento di massima
fusione tra lingua e dialetto. Egli introduce, con costruzioni e cadenze del
linguaggio parlato nelle Langhe, una forma non artificiale, in cui i
vocaboli dialettali si inseriscono con naturalezza ed efficacia, con un
procedimento di immedesimazione che ricorda un po’ quello dei
Malavoglia. Con parole ruvide e disadorne, Fenoglio narra una storia
ambientata agli inizi del ’900, quando la moneta circolante è ancora il
marengo e la durata della leva è regolata dal sorteggio. Il protagonista, che
racconta in prima persona, è un ragazzo, Agostino Braida: il giorno stesso
del funerale del padre deve lasciare il suo paese, S. Benedetto Belbo, per
riprendere il posto di servitore al Pavaglione, la cascina del mezzadro
Tobia, dove da un anno è stato ingaggiato come garzone, venduto al
mercato di Niella “come un agnello al tempo di Pasqua” dal padre, caduto
nella miseria più nera.
Lettura da “La malora” pag. 3-4
Lo svolgersi del racconto di Agostino non segue un ordine cronologico, ci
sono sfasature di luogo e di tempo per dare particolare rilievo ai momenti
emotivamente più intensi. Dopo la triste immagine di morte che apre il
romanzo, l’io narrante ci informa, in alcune pagine dense e scarne, sui fatti
precedenti: l’impoverimento della famiglia strozzata dai debiti, il servizio
militare del fratello maggiore, la partenza dell’altro fratello, Emilio, buono
e bravo a scuola ma di poche forze, destinato al seminario per volere della
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sua maestra, creditrice dei Braida. Dal centro emotivo del racconto, il
funerale del padre, si snoda poi la seconda tranche di vita di Agostino:
l’amicizia e poi il distacco dal compagno ribelle e giocatore perdente
Mario Bernasca, le visite al seminario dove Emilio deperisce
progressivamente per la fame, il suicidio di un vicino, la malattia del
padrone sfiancato dal lavoro, e l’arrivo della ragazza, Fede, con cui
Agostino intreccia un breve e delicato idillio, troncato da un matrimonio
combinato a cui Fede, “abituata a chinar sempre la testa”, non si sa
sottrarre. L’episodio ricorda da vicino l’amore, fatto di sguardi e di
poche parole, di silenzi densi di sentimenti e di pensieri, tra Mena e Alfio
nei Malavoglia, chiuso anch’esso da un desolato distacco. La storia si
conclude con il ritorno a San Benedetto del ragazzo, che la dura esperienza
ha trasformato in un uomo, ormai capofamiglia, per accogliere Emilio
gravemente ammalato, che possa almeno morire nel suo letto, a casa sua.
La casa rappresenta comunque un rifugio, una garanzia per sé e per le
generazioni che verranno, e così un pezzo di terra, per cui vale la pena di
sacrificarsi per tutta la vita…Anche qui ritroviamo i miti verghiani della
casa e della roba. Molti dei più significativi racconti di Fenoglio
completano il quadro che lo scrittore traccia della sua gente, con temi
quasi sempre ricavati da fatti realmente accaduti e da memorie familiari.
Egli, come Pavese, ci lascia il rammarico di una vita troppo breve: muore
di tumore a quarant’anni, lasciando la moglie e l’amatissima figlia
Margherita di appena un anno.
Passata l’ondata della letteratura neorealista, i nuovi scrittori si occupano
poco della gente contadina che sta subendo un epocale cambiamento di
vita e di organizzazione sociale; si verifica in un primo periodo uno
spostamento dei più giovani dalla campagna alla città, dall’agricoltura al
lavoro in fabbrica, magari suddividendo le forze tra la catena di montaggio
e la coltivazione, nel poco tempo libero e nelle ferie estive, di un proprio
pezzo di terra, da cui non si riesce a tagliare il cordone ombelicale, che
resta in gran parte affidato alle cure dei vecchi, sempre piuttosto diffidenti
sulla reale durata del celebrato miracolo economico. In un secondo tempo
avviene il grande esodo dal Sud al Nord, con i fenomeni di intolleranza
iniziale dei residenti e di disagio dei nuovi arrivati che ben ricordiamo.
Poi, lentamente ma inesorabilmente, i “terroni” si fondono coi “polentoni”:
anzi, succede che i contadini più isolati non trovano più una moglie che
accetti di condividere le difficoltà e le fatiche della loro vita e vanno a
cercare, magari attraverso dei mediatori, secondo l’antica maniera, ragazze
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del Sud ben disposte a fare figli e dare una mano in campagna. Come
sempre, amori e matrimoni, la scuola in comune, la condivisione del posto
di lavoro contano di più dei programmi politici non sempre adeguati per
fare quella vera unità d’Italia che Cavour auspicava. Nel frattempo anche
l’agricoltura impara lentamente ad avvalersi della meccanizzazione dei
mezzi di produzione: per chi può permetterselo arriva il trattore a sostituire
i buoi nelle campagne più fertili e pianeggianti. Cambiano le abitudini di
vita dei contadini, quasi sparisce la famiglia patriarcale a cui occorrono
tante braccia. Rimangono invece isolate e dimenticate le comunità delle
zone più depresse, che non riescono a tenere il passo.
Alla storia della montagna e della campagna povera del cuneese, alla metà
degli anni settanta, lo scrittore e sociologo Nuto Revelli (1919-2004)
dedica una raccolta di testimonianze, registrate in diretta al magnetofono e
pubblicate sotto il titolo di verghiana memoria “Il mondo dei vinti”. Dal
volume di fotografie collegato col testo sono tratte le immagini che, con
l’insostituibile aiuto di Emilio Tacconi, stanno scorrendo sullo schermo,
esemplificative di tutta la povera gente che, al Nord come al Sud, ha
sofferto, lavorato e vissuto con dignità.
Il mondo evocato da queste immagini è stato portato sullo schermo da
Ermanno Olmi in “L’albero degli zoccoli” e da Padre Davide Maria
Turoldo nel film “Gli ultimi”, quasi del tutto ignorato da pubblico e critica.
Mi dispiace di non potere trasmettere qualcuna delle vive e toccanti
interviste di Revelli, prezioso documento di una civiltà e di una cultura al
tramonto, così “vere” che, leggendole, mi pareva di ascoltare in diretta
mio nonno o qualche vecchietto del mio paese. Vi leggerò invece una
pagina in cui l’autore, con un linguaggio privo di fronzoli, racconta il
dramma delle migrazioni piemontesi nella vicina Francia o nella
lontanissima America.
Lettura dal “Mondo dei vinti” pag XCVII
Vi consiglio tuttavia la lettura del quasi introvabile testo, edito nel ’77
nella collana degli Struzzi di Einaudi, come pure quello di un altro libro di
Revelli, “La guerra dei poveri non finisce mai”, anch’esso pubblicato nella
stessa collana.
Il tempo è tiranno e devo perciò limitarmi a citare poche altre opere che
pongono in primo piano il popolo dei diseredati: ad esempio, il
sottoproletariato delle borgate romane che popola “Ragazzi di vita”e “Una
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vita violenta” di Pier Paolo Pasolini, e i disadattati delle periferie milanesi
descritti in “Il Dio di Roserio”, “Il ponte della Ghisolfa” e “La Gilda del
Mac Mahon” di Giovanni Testori.
Sempre più mi sembra che lo sguardo dell’italiano medio, categoria a cui
penso di appartenere, si rivolga spesso in modo distratto, talvolta
sprezzante e addirittura astioso, verso i poveri che sono tra noi, in
particolare verso quelli arrivati da lontano, come in passato le nostre
generazioni erano andate lontano a guadagnarsi il pane. Noi guardiamo
con la stessa indifferenza e imperturbabilità il barbone che ci passa
accanto, il bambino rom che ci infastidisce, l’extracomunitario che ci vuol
vendere qualcosa, ed alla sera anche il povero negretto che compare in tv
(anzi, a quest’ultimo magari manderemmo volentieri anche un po’ di soldi,
purchè stia lontano e non ci disturbi). Forse faremmo bene a riflettere che
la storia non solo è ciclica, ma non si arresta nel suo evolversi, e che la
Costituzione italiana, e prima ancora il messaggio evangelico, proclamano
l’uguaglianza dei diritti fondamentali degli esseri umani e la solidarietà tra
quelli che vivono sulla stessa terra e nello stesso paese civile. Mi auguro
che in futuro l’Italia possa essere nota nel mondo non solo per le sue
bellezze artistiche e la sua cultura, ma anche per l’umanità, la tolleranza e
la lotta contro le ingiustizie ovunque si trovino. Questo, in sintesi, penso
sia il messaggio che ci vogliono comunicare gli scrittori di cui abbiamo
parlato.
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