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L`aldilà medievale
CULTURA, CIVILTÀ E RELIGIOSITÀ Il cristianesimo e la vita dopo la morte F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 1 Hieronymus Bosch, Paradiso Terrestre, 1490 (Venezia, Palazzo Ducale). 1 La civiltà delle buone maniere Il tema della vita ultraterrena occupa un posto centrale nel cristianesimo, che su questo punto si è progressivamente distinto dal giudaismo. La fede ebraica, infatti, nel I secolo d.C. insisteva soprattutto sulla fine del mondo e sull’avvento dei tempi messianici. Tale evento avrebbe mutato il volto della terra e del mondo, trasformandoli in un paradiso, e avrebbe finalmente offerto agli uomini la possibilità di vivere nell’abbondanza e nella gioia. Inoltre, in quell’occasione, i morti si sarebbero destati dal loro sonno, sarebbero risorti dalla tomba e (dopo aver di nuovo assunto un corpo) avrebbero potuto partecipare anch’essi all’eterna felicità predisposta da Dio per i suoi eletti. Il concetto centrale della predicazione di Gesù (l’inizio del Regno di Dio) non era molto diverso da questa concezione ebraica. Inoltre, molti testi del Nuovo Testamento affermano che Cristo sarebbe ritornato dal cielo entro un breve periodo di tempo, a risvegliare i morti, ad aprire i tempi messianici e ad instaurare sulla terra un mondo di pace e di armonia. Dunque tale concezione (che a volte è chiamata millenarismo) restò per molto tempo viva anche nel cristianesimo. Con il passar del tempo, però, il cristianesimo pose l’accento soprattutto su quello che accadeva al singolo individuo subito dopo la morte, sottolineando che l’individuo non sprofondava nel profondo sonno, da cui l’avrebbe risvegliato solo la resurrezione, alla fine del mondo. Al contrario, una componente immortale, l’anima, avrebbe dovuto affrontare il giudizio divino immediatamente: quindi, subito dopo il decesso, i giusti sarebbero stati premiati, mentre i peccatori sarebbero stati puniti. Anche se fu chiaro da sempre che la sorte dei peccatori sarebbe stata l’inferno, le prime dettagliate descrizione cristiane di esso risalgono al II secolo. Pochi anni dopo il 200, un anonimo autore egiziano compose poi un testo intitolato Apocalisse di Paolo destinato a influenzare molto profondamente la cultura e la mentalità medievali. In esso si raccontava che l’apostolo Paolo aveva avuto l’eccezionale opportunità di visitare l’aldilà, ed era stato esortato a descrivere quanto aveva visto, affinché gli uomini fossero spinti a convertirsi. Per quel che riguarda l’inferno, il dato più interessante riguarda il riposo dei dannati: il testo infatti, dopo aver dettagliatamente descritto le innumerevoli pene che i peccatori subiscono per aver violato la legge di Dio, sottolinea che la misericordia divina non li abbandona. Ogni domenica, e in tutti gli altri giorni di festa, per ordine di Cristo le pene vengono sospese, per riprendere solo la mattina seguente. Più complicato fu invece, per moltissimo tempo, definire la sorte esatta dei giusti, visto che le idee relative alla resurrezione dei morti e all’assunzione di un nuovo corpo appartenevano al nucleo più antico della fede cristiana. Come emerge da numerose preghiere, il problema venne risolto con una concezione a due tempi, che per vari secoli diede particolare spazio e risalto al giardino dell’Eden, cioè al paradiso terrestre. Secondo tale concezione, le anime dei giusti vivevano in quel luogo di beatitudine fino alla fine del mondo e al ritorno di Cristo: solo allora, dopo la resurrezione dei loro corpi, essi avrebbero avuto accesso al paradiso vero e proprio e avrebbero potuto contemplare direttamente il volto di Dio. APPROFONDIMENTO C L’aldilà medievale IPERTESTO C APPROFONDIMENTO UNITÀ 1 Il riposo dei dannati L’Apocalisse di Paolo fu composta nella prima metà del III secolo, probabilmente in Egitto. Il testo, scritto originariamente in greco, fu subito tradotto in latino e in questa lingua trovò ampia diffusione in tutta l’Europa cristiana. Dopo vidi il Figlio di Dio discendere dal cielo con il diadema sul capo. A quella vista quelli che erano tra i tormenti esclamarono tutti a una sola voce: Abbi pietà, eccelso Figlio di Dio! Sei tu che offristi il refrigerio a tutti, in cielo e in terra: abbi pietà anche di noi. Da quando ti abbiamo visto sentimmo un refrigerio. Tra tutti i tormenti risuonò la voce del Figlio di Dio, dicendo: Che cosa avete compiuto per chiedermi un refrigerio? Il mio sangue fu sparso per voi, ma voi non vi pentiste! Per voi portai sul capo una corona di spine, per voi ricevetti schiaffi sulle guance, ma voi non vi pentiste! Appeso alla croce, chiesi dell’acqua, ma mi diedero aceto mescolato con il fiele! Apri- Cristo, nei confronti rono il mio lato destro con la lancia! A causa del mio nome uccisero i profeti miei servi e i dei dannati, mostra giusti! E in tutti questi eventi vi concessi il tempo per la penitenza, ma lo rifiutaste. un atteggiamento Ora però in favore di Michele, arcangelo […], degli angeli che sono con lui, per il mio didi disprezzo, di lettissimo Paolo, ch’io non voglio rattristare, per i vostri fratelli che sono nel mondo e offrono superiorità, di oblazioni, e per i vostri figli tra i quali si trovano i miei comandamenti e più ancora per la mia sadismo? Quale, bontà, nel giorno in cui risorsi da morte, a voi tutti che siete nei tormenti concedo in pertra questi tre petuo un refrigerio della durata di una notte e di un giorno. termini, ti pare il più Esclamarono tutti dicendo: Ti benediciamo, Figlio di Dio, perché ci hai concesso una corretto, e quali notte e un giorno di riposo. Per noi, infatti, val più il refrigerio di un giorno che tutto il periodo invece scarteresti? della nostra vita trascorsa sulla terra. Se avessimo saputo chiaramente che ai peccatori è Motiva la tua destinato questo luogo, non avremmo certo fatto alcuna opera iniqua, non avremmo comrisposta. merciato né compiuto alcuna iniquità. Come reagiscono L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento. Volume secondo, UTET, Torino 1975, pp. 1899-1900 i dannati? 2 IL MEDIOEVO EUROPEO DOCUMENTI La Navigazione di san Brandano Somiglianza con l’Ulisse dantesco Nell’VIII o nel IX secolo, un autore anonimo compose in latino un testo chiamato Navigazione di san Brandano. L’opera racconta l’eccezionale viaggio compiuto nell’oceano da un santo abate irlandese (Brandano, appunto) partito alla ricerca della Terra promessa dei Beati. Nel testo latino, quel luogo coincide ormai con il paradiso cristiano; è evidente, tuttavia, che l’opera ha conservato memoria della concezione celtica secondo cui all’estremità occidentale dell’oceano esisteva la favolosa terra di Avalon, dove si restava eternamente giovani, senza soffrire più sonno, sete o fame. La Navigazione di san Brandano ebbe una vastissima diffusione in tutt’Europa e probabilmente influenzò lo stesso Dante. In effetti, la figura di san Brandano può essere messa in stretta relazione con l’Ulisse dantesco che, mosso dal desiderio di conoscere che cosa si trovi al di là dell’oceano, varca le Colonne d’Ercole e arriva a scorgere in lontananza la montagna del purgatorio. In cima a essa, secondo Dante, si trova il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden, al centro del quale Dio ha piantato l’albero della vita, i cui frutti donano l’immortalità. In fondo, si tratta dello stesso viaggio. La differenza fondamentale tra i due navigatori consiste nel fatto che il santo abate Brandano ha il permesso di Dio, mentre il «folle volo» di Ulisse è un tentativo umano, non autorizzato, di conquistare l’immortalità: dunque, il gesto del personaggio omerico assume i caratteri di una sfida nei confronti della divinità, che in effetti punisce l’eroe facendone affondare la nave. All’inizio del XII secolo, uno scrittore anglo-normanno chiamato Benedeit completò il processo di cristianizzazione del racconto relativo alla navigazione del santo abate irlandese. La differenza più significativa esistente tra il testo latino del IX secolo (Navigazione di san Brandano) e l’opera volgare francese di Benedeit (Il viaggio di san Brandano) consiste nel fatto che l’autore anglo-normanno dedica molto più spazio alla descrizione dell’inferno, che l’abate incontra sulla propria strada, prima di approdare alla sua meta definitiva. Dapprima, Brandano e i suoi monaci arrivano nei pressi di un’isola orribile, immersa nell’oscurità e nel puzzo. Qui, dopo essere stati assaliti da moltissimi demoni, incontrano Giu- F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Entrambi gli eroi sono mossi da un eccezionale desiderio di conoscenza Mentre il viaggio di Brandano è autorizzato da Dio, Ulisse, varcando le Colonne d’Ercole, viola un esplicito comando divino Entrambi sfidano l’oceano e salpano verso l’ignoto Brandano raggiunge la sua meta, Ulisse può solo intravederla da lontano Entrambi cercano di raggiungere il paradiso, luogo della vita eterna Brandano fa ritorno in Irlanda e può raccontare quello che ha visto; la nave di Ulisse viene affondata da un turbine e l’eroe finisce all’inferno da, posto su uno scoglio isolato in mezzo al mare. Poiché è domenica, Giuda e tutti gli altri dannati godono di un giorno di tregua e riposo dalla punizione infernale: un’idea che era presente nelle più antiche visioni cristiane dell’inferno e che Dante, invece, non avrebbe più accettato e raccolto. Su richiesta di san Brandano, Giuda descrive i tormenti che lui e gli altri dannati patiscono, precisando che esistono due inferni: «quello in alto è più doloroso, ma quello in basso più orribile: quello vicino all’aria è torrido e umido, quello vicino al mare è gelido e puzzolente». In essi, i peccatori sono infilzati, messi a bollire nella pece, immersi in un miscuglio di fuliggine e sale dopo essere stati scorticati, costretti a bere una fusione rovente di piombo e rame, e cosi via. In pratica, l’inferno di Benedeit sembra una camera di tortura, o meglio ancora un campionario delle sofferenze che erano inflitte ai delinquenti durante i supplizi pubblici. Non c’è traccia, invece, di un preciso ordine infernale: i peccati e i peccatori, a quanto sembra, sono considerati tutti uguali, senza che uno specifico supplizio venga riservato a un particolare tipo di dannati. Il viaggio di san Brandano, inoltre, non conosce il purgatorio, mentre il paradiso che viene descritto è quello terrestre, l’Eden. È vero che l’angelo accompagnatore spiega al santo che, oltre al luogo che ha visitato, se ne trova un altro in cui la gloria divina risplende in modo «centomila volte più grande». Benedeit comunque non sa o non vuole presentarlo, così come non osa descrivere il volto di Dio, che a Brandano (a differenza di Dante) non è concesso vedere. L’impressione complessiva che si ricava è dunque quella di una teologia ancora molto vicina alla tradizione cristiana antica, secondo cui i giusti avrebbero invece dovuto attendere il giudizio finale per entrare in diretto contatto con Dio. Nella Divina Commedia, invece, le anime dei giusti sono sono collocate subito in cielo e non devono più aspettare la fine del mondo per contemplare il Sommo Bene. Il risultato di questa novità dantesca sarà un vero e proprio declassamento del paradiso terrestre: trasformato in un semplice luogo di passaggio e di purificazione, esso perse gran parte della propria importanza e cessò di avere un suo specifico ruolo nella geografia dell’aldilà. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 1 Elementi di diversità 3 L’aldilà medievale Elementi di somiglianza APPROFONDIMENTO C SAN BRANDANO E ULISSE DANTESCO A CONFRONTO San Brandano (al centro dell’immagine) raffigurato durante il viaggio intrapreso alla ricerca della Terra promessa, miniatura del XIV secolo. APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 IL MEDIOEVO EUROPEO 4 San Brandano arriva all’isola dell’inferno DOCUMENTI Composto dal poeta normanno Benedeit, all’inizio del XII secolo, Il viaggio di san Brandano descrive le peripezie del santo abate irlandese alla ricerca del paradiso, che viene raggiunto dopo molteplici avventure, tra cui la scoperta dell’isola dell’inferno. Apparve loro una terra immersa in buia nebbia e in fosche nubi: emanava fetide esalazioni, un odore più forte della carne putrida, una grande oscurità la stringeva. I monaci non desiderano certo fermarsi: già da lontano si sono resi conto che non saranno molto ben accolti. Con ogni sforzo cercano di invertire la rotta, ma là devono per forza dirigersi per il vento che ve li spinge. L’abate dà loro questa spiegazione: «Dovete ben sapere che siete sospinti verso l’inferno. Mai come ora avete avuto un bisogno così grande della protezione di Dio». Brandano fa il segno della croce su di loro. Sa bene che il pozzo dell’inferno è lì vicino: e più si accostano, più si avvicinano al male, e più tenebrosa scoprono la valle. Dalle profonde gole e dalle voragini si innalzano enormi lame infuocate. Il vento mugghia come se provenisse da un mantice: mai tuono rombò così forte. Lapilli e lingue di fuoco, rocce incandescenti e fiamme volano alti nell’aria intorno annullando la luce chiara del giorno. […] Scorgono diavoli a migliaia, e odono le grida e i pianti dei dannati. Giunge fino a loro il fortissimo tanfo portato dal fumo che si spande per lungo tratto nell’aria. Lo sopportano come meglio possono, fuggendo lontano per quanto ne sono capaci. Quanto più un uomo pio è tormentato da fame, sete, freddo e caldo, ansia, tristezza e gran paura, tanto più presso Dio crescono i suoi meriti. Così sarà per Brandano e per i suoi, ora che hanno visto dove sono accolti i dannati: in Dio rinsaldano la loro fede e non cadono più nel dubbio. BENEDEIT, Il viaggio di san Brandano, Pratiche, Parma 1994, pp. 113-117, a cura di R. BARTOLI, F. CIGNI Per descrivere il mondo infernale, l’autore cerca di trasmettere le sensazioni sperimentate da san Brandano e dai suoi monaci. Con colori diversi, segna nel testo le sensazioni olfattive, quelle visive e quelle uditive. Per quale motivo, spesso, l’idea dell’inferno è collegata all’idea di tenebra e di oscurità? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 San Brandano giunge con la sua barca allo scoglio su cui Giuda si sta riposando dai supplizi infernali. Miniatura da una traduzione tedesca della Navigazione di san Brandano (XV secolo, Heidelberg, Biblioteca dell’Università). Scuola di Harat, Il viaggio notturno di Maometto, miniatura del 1436 (Parigi, Biblioteca Nazionale). L’ALDILÀ DI BENEDEIT E QUELLO DI DANTE A CONFRONTO Benedeit (Viaggio di san Brandano): inizio XII secolo Dante Alighieri (Divina Commedia): inizio XIV secolo Inferno • non ha un ordine e non sono precisati i criteri di punizione dei dannati • le pene sono spietate, ma intercambiabili • ai dannati è periodicamente concessa una tregua dalle pene Inferno • i dannati sono disposti secondo un preciso ordine costruito in base alla gravità dei peccati commessi • ogni peccato è punito in modo specifico • non c’è alcuna tregua dalle pene Purgatorio assente Purgatorio luogo di purificazione per coloro che hanno commesso peccati lievi oppure hanno compiuto peccati gravi, ma si sono pentiti Paradiso terrestre luogo in cui le anime dei giusti aspettano nella pace la fine del mondo e il giudizio universale Paradiso terrestre luogo di transito, in cui si completa la purificazione di quanti hanno finito di scontare le pene del purgatorio Paradiso celeste luogo vago, indefinito, indescrivibile e inaccessibile Paradiso celeste luogo in cui le anime dei giusti, subito dopo la morte, possono contemplare il volto di Dio e godere della beatitudine eterna F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 1 pag. 12 APPROFONDIMENTO C Riferimento storiografico UNITÀ 1 Secondo lo studioso spagnolo Miguel Asín Palacios, insieme alla tradizione relativa a san Brandano e ad altre fonti giudaiche o cristiane che trattavano il tema dell’aldilà, anche i racconti musulmani che descrivevano l’infermo o il paradiso influenzarono in modo decisivo Dante e la sua fantasia, che poi rielaborò personalmente i vari elementi che il poeta aveva assorbito dalle proprie fonti. Le prove che Asín Palacios presenta a favore della sua tesi sono numerose e convincenti, in quanto riguardano sia singoli episodi (che paiono ripresi alla lettera, oppure assunti come spunto, per essere poi rimodellati), sia l’impianto complessivo dell’inferno e dell’aldilà nel suo complesso. Il punto di partenza di tutti i racconti musulmani sul mondo ultraterreno è il primo versetto della sura XVII del Corano: «Lode a colui il quale trasportò il suo servo [Maometto], di notte, dal tempio sacro [della Mecca] al tempio più remoto [di Gerusalemme], del quale benedicemmo il recinto, per mostrare a lui alcuni dei nostri segni». Tutti gli interpreti del testo sacro, fin dai primi secoli dell’islam, furono concordi nell’affermare che questo versetto conteneva un’allusione al fatto che Dio avrebbe concesso a Maometto di visitare l’aldilà. In un primo tempo, però, nacquero due tradizioni diverse e distinte: secondo una prima corrente, il Profeta avrebbe compiuto un viaggio notturno (isra’) dalla Mecca a Gerusalemme, e a seguito di esso avrebbe avuto ac- 5 L’aldilà medievale Dante e l’escatologia islamica APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 Domenico di Michelino, Dante Alighieri e i regni dell’Oltretomba, 1465 (Firenze, Santa Maria Novella). IL MEDIOEVO EUROPEO 6 Un imbuto a ripiani Letture mistiche cesso all’inferno; secondo l’altra tradizione, invece, Maometto avrebbe effettuato una straordinaria ascensione (mirag) attraverso le sfere celesti, fino al trono di Dio. In una seconda fase, le due versioni furono fuse, con il risultato di creare una vasta e complessa narrazione che descriveva un viaggio del profeta sia nel cuore della terra – sede dei demoni e dei dannati –, sia nell’alto dei cieli. L’inferno musulmano descritto in questi racconti è sorprendentemente simile a quello dantesco. Si tratta infatti, anche in questo caso, di un imbuto organizzato in ripiani sempre più stretti; inoltre, a differenza del terribile luogo di cui parla la tradizione di san Brandano, ogni zona ospita un particolare tipo di peccatori, puniti secondo una logica che anticipa e richiama molto da vicino quella del contrappasso dantesco. Come esempio, potremmo riportare il supplizio degli adulteri, che in vita furono travolti dalla passione e ora all’inferno, per l’eternità, si trovano all’interno di un immenso forno e sono scagliati in alto o trascinati in basso, a seconda della potenza delle fiamme. L’accesso all’inferno è sorvegliato da un guardiano, che vorrebbe – come Minosse e Caronte, nel caso di Dante – impedire al viandante umano di intraprendere il suo straordinario viaggio. «Tu non puoi vederli!», dice a Maometto l’angelo guardiano, creato dall’ira dell’Onnipotente; dall’alto, tuttavia, una voce lo zittisce e gli ordina seccamente di farsi da parte: «Oh angelo! Non lo contraddire in cosa alcuna». Quanto al mondo superiore, anche Maometto, come Dante, guidato dall’arcangelo Gabriele visita i vari cieli, che vengono chiamati per nome, sulla base dei vari pianeti che ospitano. Ovunque, il Profeta incontra un tripudio di luce e di suoni, dichiarando più volte che la sua vista e i suoi sensi umani non sono in grado di sostenere una simile esperienza. In un’ulteriore fase della tradizione (rappresentata, ad esempio, dal filosofo mistico Ibn Arabi, che morì nella prima metà del XIII secolo, 25 anni prima della nascita di Dante) si trova inoltre un’interpretazione mistica e allegorica del viaggio, finalizzata a dimostrare che l’anima umana, grazie alla ragione, può comprendere solo una parte dei misteri del mondo, ma che la verità più intima e profonda (raffigurata nell’ascensione alle sfere più elevate) è accessibile solo alla teologia e alla fede. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Fratelli Limbourg, Il Purgatorio, 1410 (Chantilly, Musée Condé). UNITÀ 1 Le scuole teologiche di Parigi 7 L’aldilà medievale Nella tradizione islamica, era fortemente radicata l’idea secondo cui alcuni individui non potevano accedere subito alla completa beatitudine: per il fatto che avevano comunque compiuto alcuni peccati, era necessario per loro un periodo più o meno lungo di purificazione. Anche il cristianesimo elaborò presto un concetto simile. Tuttavia, solo nel cuore del Medioevo si arrivò a una definizione precisa delle modalità e del luogo in cui avveniva il processo di purificazione che avrebbe reso le anime degne del paradiso. Nel corso del XII secolo, all’interno dei centri urbani si costituì un nuovo sistema scolastico, alternativo a quello rappresentato dai monasteri, che fino ad allora avevano conservato il monopolio della cultura. Una dopo l’altra diverse città, di solito per iniziativa del vescovo, iniziarono a dotarsi di scuole, in cui venivano insegnate non solo la teologia, ma anche le cosiddette arti liberali, organizzate in due gruppi di discipline chiamati trivium (grammatica, retorica e dialettica) e quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia). Ben presto, Parigi si segnalò per l’eccezionale qualità delle sue scuole di filosofia e di teologia. Fu in queste scuole parigine che, intorno al 1170, venne elaborato il concetto di purgatorio. Già da vari secoli la Chiesa aveva accettato l’esistenza di pene purgatorie, destinate alle anime di coloro che avevano compiuto peccati non gravi, oppure avevano violato i comandamenti divini, ma poi si erano pentiti. Si trattava di individui che, pur non meritando l’inferno, non potevano entrare direttamente in paradiso; in virtù del loro comportamento terreno, essi dovevano sottoporsi a un processo di purificazione, più o meno lungo, a seconda dei peccati commessi. Inoltre, la Chiesa dava per certo che la preghiera dei viventi o certi comportamenti penitenziali compiuti prima della morte potevano abbreviare la durata di tali pene purificatrici. Il papato, ad esempio, fin dall’XI secolo aveva promesso ai crociati morti in battaglia, combattendo contro i nemici della fede, l’accesso diretto al paradiso, senza alcuna pena purificatrice. Quello che mancava (e che non fu affatto chiaro, fino agli ultimi decenni del XII secolo) era una chiara idea del luogo in cui le pene purgatorie si svolgevano; l’opinione più diffusa era che avessero luogo in uno spazio apposito dell’inferno, ma circolavano opinioni molto disparate e diverse tra loro. I teologi parigini sostennero invece che esisteva un luogo specifico e distinto, il purgatorio, che Dante un secolo e mezzo più tardi avrebbe collocato sulle pendici dell’immensa montagna, in cima alla quale si trova il giardino dell’Eden. La nascita e la precisazione del concetto di purgatorio ebbe conseguenze importantissime per la mentalità degli europei. Innanzi tutto, dobbiamo ricordare che (soprattutto nelle campagne) le persone credevano ancora agli spettri, cioè erano legate a credenze precristiane di varia origine, secondo cui i morti erano figure pericolose e temibili, che potevano ritornare sulla terra e importunare i vivi. La credenza nel purgatorio permise di cristianizzare queste convinzioni popolari e diffondere l’idea che i fantasmi (se apparivano ai vivi) erano anime purganti, temporaneamente uscite dal luogo destinato alla APPROFONDIMENTO C La nascita del purgatorio APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 IL MEDIOEVO EUROPEO 8 loro purificazione per richiedere ad amici e parenti di pregare per loro e di abbreviare la loro pena. Inoltre, la chiara consapevolezza dell’esistenza di un terzo luogo, in cui potevano finire anche coloro che si fossero convertiti in punto di morte, rese più drammatico il momento del decesso: poiché in quell’attimo si poteva decidere tutto, la predicazione medievale si arricchì di vari racconti nei quali gli angeli e i diavoli si affollavano al capezzale del morente e se ne disputavano l’anima. La definizione del purgatorio in termini più chiari rispetto al passato ebbe notevoli conseguenze anche sul piano sociale, in quanto offrì un’inaspettata possibilità di salvezza ad alcune categorie professionali la cui attività, in precedenza, era stata severamente condannata dalla Chiesa. Il discorso vale, in primo luogo, per gli usurai. Nel Medioevo, questo termine aveva un significato molto diverso da quello che ha ai giorni nostri. Oggi, mentre l’attività bancaria è legale e considerata moralmente accettabile, viene definito usuraio solo chi presta denaro a un tasso di interesse elevatissimo e, al limite, fa uso di mezzi violenti, pur di recuperare il denaro che il debitore gli deve versare. Nel XII secolo, invece, qualsiasi prestito a interesse era considerato usura, e quindi era L’usuraio severamente condannato dalla Chiesa. La motivazione di un simile atteggiamenruba il tempo, to nasceva dal fatto che, secondo i teologi medievali, l’usuraio traeva vantaggio dal temche è solo di Dio po trascorso tra il momento del prestito e quello del rimborso. Dunque, per così dire, La condanna degli usurai nella predicazione medievale DOCUMENTI La dannazione eterna come destino dell’usuraio Il primo testo riporta le parole pronunciate dal francescano tedesco Bertoldo di Ratisbona. Anche se l’autore scrive nel XIII secolo, in realtà esprime la posizione tradizionale, secondo cui per l’usuraio non c’è alcuna speranza di salvezza ultraterrena. Tu puoi ricevere la croce dal papa, attraversare il mare, combattere contro i pagani, conquistare il Santo Sepolcro e morire per la causa di Dio e persino essere sepolto nel Santo Sepolcro, eppure, nonostante tutta la tua santità, la tua anima è perduta. A.J. GUREVIC, Il mercante, in J. LE GOFF (a cura di), L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 282-283 La negazione della sepoltura cristiana Questo testo di Giacomo di Vitry ci testimonia un’abitudine molto diffusa tra i predicatori medievali: l’uso degli exempla, brevi racconti (spacciati per autentici) che servivano a rafforzare l’insegnamento morale che si voleva trasmettere ai fedeli. Un buon prete ebbe la santa ispirazione di negare la sepoltura ad uno dei suoi parrocchiani, che era stato usuraio e, alla sua morte, non aveva restituito nulla. Questa sorta di peste non deve in effetti ricevere sepoltura cristiana, ed essi non sono degni di avere un’altra sepoltura, oltre a quella dell’anima […]. Ma poiché gli amici dell’usuraio morto insistettero a lungo, per sfuggire alle loro pressioni il prete fece una preghiera e disse: «Mettiamo il suo corpo su un asino, e vediamo qual è la volontà di Dio e che cosa ne farà: dovunque l’asino lo porti, che sia in una chiesa, in un cimitero o altrove, io lo seppellirò». Il cadavere fu messo sull’asino che, senza deviare né a destra né a sinistra, lo condusse diritto fuori della città, sino al luogo ove venivano impiccati i ladri, e impennandosi con forza scaraventò il cada- Quale messaggio la Chiesa voleva vere sotto i patiboli, nel letamaio. Il prete lo abbandonò lì insieme ai ladri. trasmettere ai fedeli, negando la sepoltura J. LE GOFF, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, cristiana agli usurai? Laterza, Roma-Bari 1987, p. 57, trad. it. S. ADDAMIANO F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C vendeva il tempo, che era ritenuto proprietà di Dio: in altre parole, l’usuraio vendeva ciò che non era suo, comportandosi come un ladro. Ai banchieri ebrei la Chiesa permetteva di percepire interessi sul denaro prestato: poiché essi, nella loro qualità di non cristiani, erano comunque esclusi dalla salvezza, l’aggiunta del peccato di usura non avrebbe cambiato di molto il loro destino ultraterreno. In realtà, la situazione era molto diversa, in quanto anche molti cristiani svolgevano attività bancarie, sia in Italia che in Francia e nelle Fiandre. La frequenza con cui i predicatori attaccavano gli usurai (minacciando loro le fiamme nell’inferno) è il segnale più chiaro del fatto che l’usura, per quanto condannata, era una pratica usuale e diffusissima. Con la nascita del purgatorio, la posizione della Chiesa sull’usura non si modificò. Tuttavia gli usurai (e i mercanti, che spesso esercitavano l’attività bancaria a fianco della mercatura) videro aprirsi uno spiraglio di salvezza che, in passato, era del tutto sbarrato. In precedenza, infatti, essi avrebbero potuto salvarsi solo se avessero reso fino all’ultimo centesimo tutto il denaro guadagnato in modo disonesto. Per ottenere la vita eterna, dunque, avrebbero dovuto rinunciare alla borsa, al frutto della loro attività economica. Dopo la diffusione del concetto di purgatorio, al contrario, si fece strada l’idea che l’usuraio, sinceramente pentitosi in punto di morte, poteva evitare l’inferno e infine, dopo un soggiorno più o meno prolungato in purgatorio, accedere al paradiso. Beato Angelico, Dannati, particolare del Giudizio Universale, 1432-1435 (Firenze, Museo di San Marco). F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Riferimento storiografico pag. 14 1 9 L’aldilà medievale Grazie al purgatorio, l’usuraio poté iniziare a conservare insieme la borsa e la vita, cosicché lo storico francese Jacques Le Goff è arrivato ad affermare che la nuova credenza ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo dell’economia europea. In effetti, grazie al purgatorio, gli uomini d’affari poterono ormai restare nel mondo fino all’ultimo istante e, liberi dal terrore dell’inferno, impegnarsi fino in fondo nei propri traffici: persino quelli illeciti, come il prestito a usura. Ai nostri occhi, usurai e mercanti del Tardo Medioevo appaiono uomini d’avanguardia, proiettati verso la modernità. Secondo Dante, all’opposto, essi erano solo dei pericolosi perturbatori della quiete sociale, a causa della loro avidità e dell’insaziabile sete di guadagno che li caratterizzava. Particolarmente conservatore e sprezzante appare il giudizio del poeta fiorentino nei confronti degli usurai, quando effettivamente li incontra nel terzo girone del settimo cerchio dell’inferno (cfr. Inf. XVII, 34-63). L’elemento più significativo dell’intero episodio consiste nel fatto che l’incontro appare singolarmente simile a quello avvenuto con gli ignavi, nell’anti-inferno; in entrambi i casi, Virgilio raccomanda a Dante di non perder tempo con quella gente ignobile (cfr. III, 51 con XVII, 40), né Dante menziona per nome alcun peccatore. Persino la pena dei due gruppi di dannati ha qualcosa in comune: infatti, come gli ignavi sono morsi ferocemente dagli insetti, fino al punto da avere il volto rigato di lacrime di sangue, e si battono il corpo con le mani nel vano tentativo di difendersi, così gli usurai piangono di dolore e tentano con le mani di mitigare il micidiale effetto combinato della sabbia ardente (su cui sono seduti) e della pioggia di fuoco che dall’alto cala su di loro. Per sottolineare meglio l’affinità della pena, poi, Dante ricorre a una similitudine, che paragona gli usurai a cani e le fiamme ardenti a insetti molesti, dolorosi come quelli del canto III. UNITÀ 1 Il giudizio di Dante su mercanti e usurai APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 IL MEDIOEVO EUROPEO 10 L’usuraio, miniatura da De Sphaera mundi, XV secolo (Modena, Biblioteca Estense). Nell’opera e nel pensiero di Dante, la realtà mondana non è prematuramente soppressa, gode di una sua autonomia e persino di una sua grandezza, come dimostra il trattamento speciale riservato da Dio ai non credenti dall’animo nobile, nel Limbo. Questo luogo era stato inventato dai teologi nella stessa epoca del purgatorio, al fine di sfumare l’atteggiamento divino nei confronti dei bambini morti senza battesimo (e quindi ancora macchiati dal peccato originale) e dei pagani virtuosi. Leggendo la Commedia dantesca, si resta colpiti dal fatto che il poeta prova, per l’essere umano, una sincera e appassionata ammirazione, che forse tocca il suo vertice nelle parole di Ulisse: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza» (Inf. XXVI, 118-120). Il peccato di Paolo e Francesca o di Ulisse è consistito nell’aver usato senza moderazione le facoltà tipicamente umane che Dio aveva concesso loro: ma ciò non toglie che essi, esercitando il sentimento amoroso o la sete di conoscenza abbiano comunque realizzato al massimo la loro essenza di esseri umani. Ecco perché Dante, pur non mettendo in discussione la decisione divina di punirli, continua ad ammirarli. Gli ignavi, al contrario, non hanno esercitato la facolta tipicamente umana della scelta morale tra il bene e il male, così come gli usurai si sono degradati al rango di bestie rifiutando il lavoro, la modalità tipicamente umana (sconosciuta agli animali) di procurarsi il necessario per vivere. Esattamente come l’ignavia, il peccato di usura degrada l’uomo al livello della bestialità, gli fa persino perdere il nome e l’identità. Per Dante, questi peccatori non hanno niente di umanamente grande, e quindi nei loro confronti non è possibile provare quella pietà o quell’ammirazione che egli manifesta nei confronti di Paolo e Francesca, di Farinata o di Brunetto Latini. La disputa sulla perfetta beatitudine 3 Riferimento storiografico pag. 15 Una decina di anni dopo la morte di Dante, negli anni 1331-1336, il mondo cristiano latino fu lacerato da una durissima controversia che vide contrapposti il papa Giovanni XXII, da una parte, l’università di Parigi e il re di Francia Filippo VI dall’altra; il pontefice, da parte sua, ottenne il sostegno dei francescani conventuali, mentre i suoi oppositori furono appoggiati dai benedettini e dai francescani spirituali. La disputa ebbe per tema la condizione delle anime dopo il giudizio universale e la resurrezione dei corpi, alla fine dei tempi: un tema che anche Dante aveva affrontato a proposito sia dei dannati sia dei beati. A proposito di entrambi, come principio generale, nel VI canto dell’Inferno il poeta ricorda che l’anima senza il corpo è incompleta: pertanto, beati e dannati vedranno alterarsi la loro condizione, per il semplice fatto che la natura stessa esige che «quanto la cosa è più perfetta, / più senta il bene, e così la doglianza». Inoltre, a proposito di singole pene, Dante ricorda che diventeranno più violente o più umilianti: così, mentre i sepolcri infuocati in cui si trovano gli eretici saranno chiusi e sigillati, per coloro che in vita negarono la vita dopo la morte (cfr. Inf. X, 10), le spoglie mortali dei suicidi saranno collocate sui rami di coloro che si tolsero la vita, rinunciarono al proprio corpo e quindi sono stati trasformati in F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 Contrasto tra papa e re di Francia 11 Giovanni di Paolo, Beati del Paradiso, miniatura tratta da un codice del XV secolo. L’aldilà medievale esseri vegetali, cioè degradati ad esseri di natura inferiore a quella dell’uomo (cfr. Inf. XIII, 102-108). Nel caso dei beati, nel XIV canto del Paradiso Dante afferma invece che aumenterà notevolmente la luminosità dei beati, il che sta a indicare – visto che Dio, nella Commedia, è costantemente simboleggiato dalla luce – una più completa partecipazione alla comunione con Dio. Nel medesimo tempo, il poeta si premura di precisare che all’interno dell’intensa luce che promanerà da ogni beato questi sarà perfettamente visibile con le sue fattezze umane, in modo che le persone che in vita si sono amate possano pienamente riconoscoscersi. La posizione di Dante anticipa in larga misura quella che fu proclamata nel 1331 in alcuni sermoni, da papa Giovanni XXII, secondo il quale le anime dei giusti defunti godevano fin da ora della loro ricompensa eterna: «la loro beatitudine è grande, – disse il pontefice – ma non si tratta di beatitudine piena». Questa, infatti, sarebbe arrivata solo dopo il giudizio universale, a seguito della resurrezione dei corpi e del loro ricongiungimento con le anime. L’affermazione del papa fu duramente contestata da vari soggetti che gli erano avversari, per diverse ragioni: i francescani spirituali (per il fatto che Giovanni XXII aveva condannato come eretica l’affermazione secondo cui Cristo era stato completamente povero) e l’università di Parigi, desiderosa di affermare se stessa come suprema garante della teologia e della retta fede. Il papa addusse a suo favore numerose testimonianze autorevoli, tratte dalle opere di sant’Agostino e di san Bernardo di Chiaravalle. Il re di Francia, desideroso di imporsi al papato, spinse invece 29 teologi parigini a stendere una dettagliata confutazione della posizione pontificia (2 gennaio 1334). La disputa si prolungò ancora per quasi due anni, dal momento che le questioni in gioco (il prestigio del papato, la capacità del re di Francia di condizionarne l’operato, la disputa sulla povertà, il desiderio di affermazione dell’università di Parigi…) avevano caricato di forte valenza politica la discussione teologica. Infine, nel gennaio 1336, la faccenda fu chiarita da Benedetto XII (eletto dopo la morte di Giovanni XXII, avvenuta nel dicembre 1334), che fece ricorso ad alcune abili formule di compromesso: come affermavano i teologi parigini, il nuovo papa sostenne che le anime beate vedono già fin da ora «la divina Essenza, che si mostra loro senza mediazione alcuna»; nello stesso tempo, il documento di Benedetto XII non escludeva che la beatitudine potesse ulteriormente aumentare dopo il giudizio universale, e in tal modo riuscì a evitare che la posizione del suo predecessore potesse essere tacciata di errore, o, peggio, che le parole di un papa potessero essere accusate di eresia. APPROFONDIMENTO C Riferimenti storiografici 1 L’escatologia islamica come probabile fonte della Divina Commedia Lo studioso spagnolo Miguel Asín Palacios pubblicò per la prima volta i risultati delle sue ricerche nel 1919. Pochi anni dopo, il fascismo andò al potere in Italia e Dante divenne una delle maggiori glorie nazionali. Pertanto, affermare che avesse preso spunto da fonti musulmane parve a lungo del tutto inaccettabile per la maggior parte dei dantisti italiani. Oggi, al contrario, la tesi di Asín Palacios viene accettata come suggestiva da un numero elevato di critici, a giudizio dei quali è verosimile che anche tradizioni islamiche siano state trasformate in grande poesia dallo scrittore fiorentino, al pari delle suggestioni derivate dalla Sacra Scrittura o dalla cultura classica. UNITÀ 1 Intorno a un versetto del Corano, nel quale si allude a un meraviglioso viaggio di Maometto alle regioni dell’oltretomba, la fantasia popolare elaborò una moltitudine di redazioni diverse di una leggenda religiosa, in cui si descrivono con grande minuzia di particolari le tappe e gli episodi di quel viaggio nelle sue due parti principali: la visita dell’inferno e l’ascensione al paradiso. Tutte queste redazioni erano già diffuse nell’islam per lo meno dal secolo IX della nostra epoca. Alcune di esse, anche precedenti questo secolo, mostravano già, organicamente fuse in una sola azione drammatica complessiva, proprio come nella Divina Commedia, le due parti della leggenda: il viaggio notturno all’inferno e l’ascensione celeste. Maometto, protagonista del viaggio, è, in quasi tutte le redazioni, come Dante, il dichiarato autore della leggenda, colui che narra i fatti e descrive lo scenario in cui si realizzano. Entrambi i viaggi cominciano di notte e, certamente, al risveglio del protagonista da un profondo sonno. Prima che arrivi all’inferno, un lupo e un leone sbarrano il passo al pellegrino (in una imitazione letteraria del viaggio musulmano), a somiglianza della lonza, del leone e della lupa che pure assalgono Dante mentre si accinge al viaggio. […] Virgilio all’improvviso si presenta a Dante per fargli da guida in seguito a un ordine del cielo, come Gabriele si presenta a Maometto, e per tutto il viaggio soddisfa con sollecitudine la curiosità del pellegrino. La vicinanza dell’inferno si annuncia in entrambe le leggende con identici segni: un confuso tumulto e violente vampe di fuoco. In ambedue, egualmente, guardiani severi e ira- IL MEDIOEVO EUROPEO 12 Dante e Virgilio incontrano le tre fiere nella selva oscura, illustrazione tratta da un codice del XIV secolo. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 M. ASÍN PALACIOS, Dante e l’islam, Net, Milano 2005, pp. 115-117, 138-139, trad. it. R. ROSSI TESTA, Y. TAWFIK Con l’aiuto di un dizionario, prova a spiegare l’espressione escatologia/escatologie. In quale punto della terra si trova, secondo la tradizione islamica, la porta dell’inferno? Questa localizzazione coincide con quella dantesca? Che atteggiamento ha avuto l’islam, nei confronti delle escatologie delle fedi che l’hanno preceduto? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 13 Il viaggio di Maometto all’inferno, miniatura del XV secolo (Parigi, Biblioteca Nazionale). L’aldilà medievale condi sbarrano il passo al viaggiatore alle porte della città del dolore; però la guida placa le loro ire invocando gli ordini celesti, e le porte si aprono. […] L’architettura dell’inferno dantesco non è più che un calco fedele di quello musulmano nelle sue linee generali: entrambi, in effetti, coincidono nell’essere un gigantesco imbuto o tronco di cono rovesciato, formato da una serie di ripiani, balze o gradoni circolari, che gradualmente scendono fino al centro della terra, ognuno dei quali è dimora di una categoria di peccatori; a maggiore profondità corrisponde maggiore gravità della colpa e maggiore dolore nella pena; ogni ripiano, inoltre, si suddivide in diversi altri, corrispondenti a varie sottocategorie di peccatori; un’analoga struttura morale è pure avvertibile in entrambi gli inferni, giacché fra i peccati e i loro castighi esiste sempre una certa legge di correlazione, ispirata ora all’analogia ora al contrappasso o contrapposizione; infine, la localizzazione dei due inferni è la medesima: al di sotto della città di Gerusalemme. […] I dantofili antichi e moderni hanno valutato entusiasticamente l’originalità del poeta fiorentino nella sua concezione architettonica dell’inferno. Uno di costoro, Cristoforo Landino, compatriota di Dante, si esprimeva, già nel secolo XV, in questi termini: «Ben che questo poeta in ogni cosa sia meraviglioso, nientedimeno non posso sanza sommo stupore considerare la sua nuova né mai da alcuno altro escogitata invenzione». […] L’ammirazione era giustificata: tutte le descrizioni dell’inferno precorrenti quella dantesca, sia le classiche che le bibliche, patristiche e monastiche dell’alto Medioevo, studiate fino a ora, sono così banali, vaghe e incolori, che solo molto alla lontana assomigliano all’affresco tanto ricco di colore, tanto simmetrico, tanto vigoroso e plastico di Dante. Tuttavia, già nella parte precedente di questo lavoro, studiando una delle redazioni della leggenda del mirag [ascensione, n.d.r.], avemmo l’occasione di mostrare in modo sommario come le linee generali dell’inferno dantesco coincidano esattamente con quelle tracciate dall’autore di quella redazione nella sua descrizione dell’inferno musulmano; ma lo sviluppo completo di quel confronto esigeva una maggiore ampiezza, che ora è giunto il momento di accordargli. Innanzitutto, dunque, dobbiamo partire da questa affermazione: non si deve accettare come indiscutibile l’originalità dell’inferno dantesco, finché non si dimostri che non ha precedenti in altre letterature religiose. Questa dimostrazione è stata tentata spesso, benché parzialmente: Vossler [Karl Vossler, filologo tedesco, n.d.r.], ad esempio, ha riassunto con esattezza ammirevole quanto i dantisti hanno accertato circa i precedenti religiosi, filosofici e artistici che spiegano la Divina Commedia; con erudizione amplissima e sintesi impeccabile ha elaborato in questo modo quella che lui chiama la preistoria del divino poema; i miti dell’oltretomba che sorsero in alcune delle religioni precedenti al cristianesimo, oltre ai dogmi biblici e la fede cristiana, vi sono interrogati come possibili fonti genetiche di quello. Soltanto una religione restò esclusa da questo esame: quella musulmana. E tuttavia l’islam era, fra tutte le religioni, la più ricca di leggende dell’oltretomba; il Corano e le tradizioni hanno posto un impegno speciale (che si cercherà invano in altre escatologie) nel descrivere in modo minuzioso e icastico [efficace, n.d.r.] le dimore e la vita dei beati e dei reprobi. Figlio, quantunque spurio [privo di un legame diretto, n.d.r.], della Bibbia e del Vangelo, l’islam amalgama e sincretizza [fonde, n.d.r.] i dogmi giudaico-cristiani con i miti delle altre religioni orientali; non invano si affaccia alla storia dopo di esse, e la sua rapida propagazione attraverso i popoli più religiosi del mondo antico gli permette di assimilare i più svariati elementi escatologici. Vale la pena dunque di confrontare l’inferno musulmano con quello dantesco, prima di dare per accertata l’originalità di quest’ultimo. 2 APPROFONDIMENTO C La nascita del concetto di purgatorio UNITÀ 1 Il concetto di purgatorio nacque con lo scopo di rendere più sfumato e giusto il destino degli uomini nell’aldilà. Chi si pentiva in punto di morte, dopo un periodo più o meno lungo di purificazione avrebbe potuto accedere al paradiso: il che permise ai mercanti e agli usurai di svolgere il loro lavoro, senza più timore della dannazione eterna. IL MEDIOEVO EUROPEO 14 Dante e Virgilio durante il loro viaggio nel purgatorio, miniatura tratta da un codice della fine del XIV secolo (Perugia, Biblioteca Augusta). Quando, nello sviluppo dell’Occidente dall’Anno Mille al XII, gli uomini di Chiesa giudicarono insostenibile l’opposizione semplicistica tra paradiso e inferno, e quando si ebbero tutte le condizioni per definire un terzo luogo dell’aldilà, in cui i morti potevano essere purificati del loro residuo di peccati, fece la sua apparizione una parola, purgatorium, per indicare questo luogo alfine identificato: il purgatorio. […] Esso riflette una tendenza generale a evitare gli affrontamenti dovuti a un dualismo riduttivo, distinguendo, tra gli estremi del bene e del male, del superiore e dell’inferiore, dei mezzi, degli intermediari e, tra i peccatori, i non del tutto buoni né del tutto cattivi – distinzione agostiniana – che non sono destinati, nell’immediato, né al paradiso né all’inferno. Se si sono pentiti sinceramente prima di morire, se sono ormai carichi di soli peccati veniali e di residui di peccati mortali deplorati, se non del tutto cancellati dalla penitenza, essi non sono condannati in eterno, ma temporaneamente. Resteranno in un certo periodo in un luogo chiamato purgatorio, in cui soffriranno pene paragonabili a quelle dell’inferno, anch’esse inflitte da demoni. La durata di questo penoso soggiorno in purgatorio non dipende solo dalla quantità di peccati che hanno ancora su di sé al momento della morte, ma anche dall’affetto dei parenti. Questi – parenti carnali o acquisiti, confraternite di cui facevano parte, ordini religiosi di cui sono stati benefattori, santi per i quali avevano manifestato una particolare devozione – potevano abbreviare il loro soggiorno in purgatorio con le proprie preghiere, le proprie offerte, la propria intercessione, accresciuta solidarietà tra i vivi e i morti. I morti beneficiavano anche, nel purgatorio, di un supplemento di biografia […]. Soprattutto, erano certi del fatto che, uscendo dalle prove purificatrici, sarebbero stati salvati, sarebbero andati in paradiso. Il purgatorio in effetti non ha che un’uscita: il paradiso. L’essenziale si gioca quando il morto viene mandato in purgatorio. Egli sa che alla fine sarà salvato, al più tardi al momento del giudizio universale. […] La speranza, e presto la quasi-certezza, per l’usuraio disposto al pentimento finale, è di essere salvato, cioè di poter ottenere al tempo stesso la borsa, quaggiù, e la vita, la vita eterna nell’aldilà. […] Un usuraio in purgatorio non fa il capitalismo. Ma un sistema economico non ne sostituisce un altro che alla fine di una lunga corsa ad ostacoli di ogni sorta. La storia sono gli uomini. Gli iniziatori del capitalismo sono gli usurai, mercanti dell’avvenire, mercanti di quel tempo che, fin dal XV secolo, Leon Battista Alberti definirà denaro. Questi uomini sono dei cristiani. Ciò che li trattiene sulla soglia del capitalismo non sono le conseguenze terrene delle condanne dell’usura fatte dalla Chiesa; è la paura, la paura angosciosa dell’inferno. In una società in cui ogni forma di coscienza è una forma di coscienza religiosa, gli ostacoli sono in primo luogo – o in ultima istanza – religiosi. La speranza di sfuggire all’inferno grazie al purgatorio permette all’usuraio di far avanzare l’economia e la società del XIII secolo verso il capitalismo. J. LE GOFF, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 70-71, 86-87, trad. it. S. ADDAMIANO Che cosa si intende con «dualismo riduttivo»? In che modo questa espressione si collega alla nascita del purgatorio? Quali comportamenti, oltre al pentimento, potevano abbreviare la sosta dell’anima in purgatorio? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 3 APPROFONDIMENTO C Lo scontro tra l’università di Parigi e Giovanni XXII Il contrasto che negli anni 1331-1334 oppose il papa Giovanni XXII all’università di Parigi sulla questione della condizione delle anime in paradiso fu durissimo. Soprattutto, coinvolse subito altri soggetti: il re di Francia Filippo VI (protettore dell’università, desideroso di presentarsi come autorevole difensore della fede), i francescani spirituali (fortemente ostili al papa per le sue dichiarazioni che negarono la povertà assoluta di Cristo) e i francescani conventuali. Sostenuti dal pontefice, questi ultimi furono gli unici a prenderne le difese, a cominciare dal generale dell’ordine, Geraldo Ot. UNITÀ 1 Il 19 dicembre 1333, re Filippo invita nel suo maniero nel parco reale di Vincennes i maggiori dottori in teologia, i vescovi, gli abati, i principi e i magistrati che si trovavano a Parigi per una consultazione decisiva sulla controversia. Partecipano, in qualità di testimoni: il re di Navarra, Filippo; il duca di Normandia, Giovanni; il duca di Borbone, Luigi; il fratello del re e conte di Alenson, Carlo. I dottori consultati sono in numero di ventitrè, tra cui Pierre de La Palude, reggente della cattedra domenicana della Facoltà e patriarca di Gerusalemme, «personaggio all’epoca celeberrimo», e Pierre Roger, arcivescovo di Roan. A questi ultimi è assegnata la presidenza effettiva del consesso. Al re, la presidenza d’onore. È presente anche il generale francescano Ot. L’aldilà medievale 15 I santi alle porte del paradiso raffigurati sulla facciata della chiesa di San Giorgio del monastero di Voronetz, in Romania. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 1 IL MEDIOEVO EUROPEO 16 Una volta assisi, il re pone due domande: «1) se le anime dei santi defunti, in Cielo, vedono l’Essenza divina, faccia a faccia, già al presente; 2) se la visione che le anime sante già hanno dell’Essenza divina svanirà nel giorno del Giudizio finale per essere sostituita da un’altra». I dottori sono chiamati a giurare di sentenziare quello che, in coscienza, credono essere autenticamente cristiano. Dalla formulazione del secondo quesito ben si comprende, però, il margine di libertà della risposta al primo. I dottori rispondono come il re desiderava ascoltare: le anime separate dei santi fruiscono già della visione di Dio, faccia a faccia, e la manterranno eternamente anche dopo il Giudizio universale. «Vero è che alcuni dissero che questa visione sarà più perfetta nel giorno del Giudizio; al che si accordò il generale Geraldo, ma parve che lo facesse suo mal grado [per fedeltà al papa, ma poco convinto, dal punto di vista teologico, n.d.r.]». Accertato ciò, l’assemblea è sciolta. Otto giorni dopo, però, il 27 dicembre 1333, il re richiama i dottori della Facoltà teologica e richiede loro di compilare in forma scritta quanto avevano attestato oralmente a Vincennes. I dottori supplicano il re di accontentarsi della loro dichiarazione orale, non vedendo la necessità di una notifica scritta. Il re insiste. I dottori, non volendo contrariare il fondatore e protettore della loro Facoltà degli studi teologici, nonché loro signore e re, si impegnano ad obbedire al desiderio regio. Quindi si ritirano nella loro congregazione del Maestri in teologia, presso San Maturino in Parigi, ove redigono il documento preteso dal re. Le firme e i sigilli apposti in calce sono in numero di ventinove: ai ventitrè dottori presenti a Vincennes si aggiungono altri sei, legittimamente impediti il 19 dicembre, che comunque sottoscrivono il testo. Il documento, che reca la data 2 gennaio 1334, dà un breve resoconto di quanto avvenuto a Vincennes, il 19 dicembre, e a Parigi, il 27 dicembre, quindi esprime la tesi cara al re: le anime separate che sono sante, ovvero non hanno niente da purificare o sono già purificate di ciò che abbisognava, sono ammesse alla visione di Dio, faccia a faccia, godono perfettamente di Dio e permarranno in questo stato perfetto perpetuamente, anche dopo la resurrezione. I dottori, poi, tengono a precisare: «Poiché, Principe serenissimo, siamo tenuti a riverirvi come nostro Signore, preziosissimo Fondatore e Protettore degli Studi parigini e della nostra Facoltà teologica, e come nostra Eccellenza regia, e a obbedire ai vostri comandi, facciamo attenzione particolarmente a ciò che abbiamo udito dalla vostra bocca: che in questa materia non domandavate niente che potesse toccare il santissimo Padre e Signore nostro Giovanni, Sommo Pontefice, per provvidenza di dio, della Sacrosanta Chiesa Romana e Universale, di cui siamo devoti servi e figli. Che, anzi, da figlio suo devotissimo, Vi impegnavate con zelo in questa e nelle altre cose, per il suo onore. Osserviamo, inoltre, secondo il racconto che abbiamo udito da parte di molte persone degne di fede, che tutto quello che Sua Santità disse in questa materia, non lo addusse asserendo o esprimendo un’opinione, ma unicamente citando». I dottori si sentono, quindi, di rendere conto anche al papa. Nell’epistola inviatagli nello stesso giorno, resta inalterato il testo della dichiarazione; mutano, però, le parole di accompagnamento, […] parole di rara sottigliezza: «E, per certo, Padre santissimo, tutti i dottori che ci hanno preceduto nello Studio parigino, dei quali abbiamo letto gli scritti, hanno tenuto e insegnato questa opinione e l’hanno lasciata nei loro scritti come quella da dover essere tenuta. Perciò, supplichiamo la Beatitudine vostra con tutto il cuore e con la massima umiltà e reverenza affinché la Santità vostra si degni di porre fine alla questione predetta […] confermando come vera, tramite una determinazione apostolica, quella parte con cui è stata nutrita fino ad oggi la devozione di tutto il popolo cristiano, affidato al vostro governo». La perentorietà in abito di supplica della parte finale di questa lettera si svela, poi, in tutta la sua forma, nella missiva inviata al papa dal re di Francia. Anch’egli, infatti, fa pervenire a Giovanni XXII una copia della dichiarazione dei dottori della Facoltà e l’accompagnatoria ha un tono decisamente imperativo. Secondo alcuni, Filippo VI, in un trasporto di ardore religioso, avrebbe minacciato di spedire al rogo tutti coloro che pertinacemente [testardamente, senza mutare opinione, n.d.r.] avessero tenuto la mendace opinione contraria alla dottrina ortodossa prescritta dai teologi parigini: tutti, compreso il papa. A. VACCARO, Il dogma del paradiso. Antefatti, differenze semantiche, «sinistre interpretazioni», Lateran University Press, Roma 2005, pp. 80-84 Quali sono le reazioni dei teologi parigini di fronte alle richieste di Filippo VI? E quale posizione assumono nei confronti del papa? Che margine di azione avevano i teologi parigini rispetto al papa? E quale autonomia possedevano rispetto al re di Francia? Fino a che punto la dichiarazione dei teologi è spontanea, e in quale misura è estorta? Spiega l’espressione «perentorietà in abito di supplica». F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012