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Il V Canto dell`Inferno

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Il V Canto dell`Inferno
Il V Canto dell'Inferno (di Roberto Pacifico)
Il canto di Paolo e Francesca
I Contraddizione fra la condizione di peccatrice e di dannata che il poeta attribuisce a Francesca e il profilo
che egli ne offre.II. Alcune differenze tra i lussuriosi puniti nel 2° cerchio dell’Inferno e i lussuriosi sull’ultimo
ripiano del Purgatorio. “Amore” è una delle parole chiave del discorso di Francesca. III.“Ora incomincian le
dolenti note”: descrizione del cerchio e dei dannati: “i peccator carnali, Che la ragion sommettono al
talento”. Presentazione di Francesca e Paolo. IV.L’eccezionalità della condizione riservata ai due “cognati”:
uniti nell’amore, uniti nella dannazione. Il punto di vista del Foscolo e le correzioni del Barbi. Struttura del
discorso di Francesca, che si divide in 5 parti. Commento e valutazioni. V. “e caddi come corpo morto cade”.
Una prospettiva critica superata: il simbolismo della catarsi e la vittoria di Dante sull’amore carnale (le
quattro vittorie di Dante nell’Inferno, secondo una tradizione interpretativa di scuola simbolista).
I
Credo non vi sia migliore premessa, nel cominciare un intervento sul canto di Paolo e Francesca (1), che
muovere dalle parole introduttive di un celebre saggio, la Francesca da Rimini di Michele Barbi, certamente
datato (la sua pubblicazione nel volume XVI degli Studi Danteschi risale al 1932), ma secondo me sotto certi
aspetti ancora attualissimo. Ecco che cosa scrive il grande dantista: “Nessun episodio del poema ha dato
luogo a tante e sì diverse ricostruzioni critiche come quello di Francesca e Paolo. Forse a prenderlo per il
suo verso è parso troppo semplice, e s’è cercato d’accrescerne la poeticità per virtù d’esegesi. Ma il valore
del critico non si manifesta nel sapere dar nuovi e più vivaci colori alle creazioni dell’arte, bensì nel
riprodurre in sé e agli occhi del lettore la visione e il sentimento del poeta con la maggior fedeltà”. Sono
parole, queste, dotate di un valore metodologico che va ben al di là dell’occasione critica che le ha
suscitate. Le prime pagine del saggio di Michele Barbi sono dunque dedicate alla discussione e alla rettifica
di alcune celeberrime interpretazioni –in particolare quelle di Ugo Foscolo e Francesco De Sanctis – che
deriverebbero, pure esse, dal vezzo di non pochi studiosi, anche seri, di avventurarsi “alla ricerca della
poesia fuori dalle usate e più sicure vie, prendendo a guida la loro filosofia della vita, la loro esperienza di
uomini, senza curarsi di tener presso di sé anche la filologia, fida compagna delle loro consuete indagini.
Così tutti dietro alla loro fantasia invece che a Dante”.
Il Barbi ha forse ragione: è sforzo sisifeo voler tentare nuove soluzioni interpretative strimpellando con
tocco da musici domenicali su una tastiera critica che ha visto scorrere sia gli arpeggi virtuosi di esecutori
d’altissima scuola sia le prove tentennanti di timidi allievi ancora impreparati, seppur volenterosi. Ma nella
succitata lettura, una domanda non si è posto il grande dantista, una domanda che condensa dubbi capitali
e sempre nuovi nella lettura del canto V dell’Inferno: è infatti molto forte in noi –lettori forse non usi a
filologica acribia – la tentazione di affermare senza reticenze che Dante si è sbagliato a mettere nell’Inferno
quella coppia di timidi amanti gentili; e così, nel dubbio, preferiamo imboccare il sentiero –seducente, ma
non privo di rischi – del simbolismo o dell’interpretazione allegorica, la quale porta a chiarire, o a
giustificare concettualmente, ciò che pare incoerente sul piano letterale.
La domanda rampolla, però, da dubbi fondati. E ci conforta il fatto che più o meno la
medesima Schluesselfrage sia stata posta anche da un altro importante studioso di Dante, questa volta
contemporaneo: mi riferisco a Enrico Malato, il quale, nella sua lettura del quinto canto (che risale al 1986,
raccolta successivamente in un ponderoso ma importantissimo volume che ritengo imprescindibile per chi
voglia accostarsi con cognizione di causa a questo e ad altri capitoli della Commedia), coglie in pieno l’unico
vero problema di fondo che rende, e continuerà a rendere, inquieta e irrisolta la lettura del V canto:
“Effettivamente ciò che può disorientare –e, si è visto, ha disorientato – anche lettori tutt’altro che
sprovveduti, come Foscolo e De Sanctis e tanti altri, è l’apparente profonda contraddizione fra la condizione
di peccatrice e di dannata che il poeta attribuisce a Francesca e il profilo che egli ne offre[mio il carattere
corsivo]: connotato non soltanto e non tanto da una gentilezza aristocratica assolutamente insolita
nell’immagine dei dannati, quanto da una profonda umanità, dolente e appassionata, da una delicatezza di
accenti e di tratto che può suggerire l’impressione, a chi fermi l’attenzione particolarmente sulla seconda
parte del canto, di un atteggiamento indulgente di Dante verso il suo personaggio. Fino a immaginare una
conseguente impossibile clemenza di Dio verso ‘que’ poveri amanti’, come azzardò il Foscolo, o un
altrettanto inverosimile riscatto dalla colpa, come suggerì il De Sanctis”. (Studi su Dante, Bertoncello Arti
Grafiche, Padova 2005, pagg. 53-54).
Non mi soffermo, per ora, sulle interpretazioni di Foscolo e De Sanctis, ma, al di là di questo, la domanda
fondamentale che ogni lettore deve porsi è proprio questa –e lascio di nuovo la parola a Enrico Malato: “In
che cosa consiste il peccato? Ormai alla fine della lettura del canto, ci rendiamo conto che il peccato di
Francesca e Paolo non ha trovato una precisa definizione nel testo dantesco [mio il carattere corsivo], dove
è detto soltanto che in quel secondo cerchio sono puniti ‘i peccator carnali / che la ragion sommettono al
talento’. Sennonché mentre della regina degli Assiri, Semiramide, è detto che ‘a vizio di lussuria fu sì rotta /
che libito fè licito in sua legge’, di Didone che ‘s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo’, di
Cleopatra che fu ‘lussuriosa’, e così di Elena e Achille e degli altri è data una breve indicazione o soltanto il
nome, comunque sufficiente, per la notorietà della storia, a render chiara la qualità e la gravità della colpa
da ciascuno commessa, il rapporto di Paolo e Francesca è definito sempre e soltanto come rapporto
d’amore…e l’amore di per sé non è, non può essere peccato, finché –come Dante ha avvertito– non ci sia il
cedimento della ragione sotto la spinta impetuosa della passione. Dove sia il discrimine tra amore lecito e
illecito, il confine al di là del quale si giudica la ragione sottomessa al talento…non è detto né lasciato
intendere da Dante in alcun luogo del canto”. (ibidem, pagg.96-97).
II
Le parole di E. Malato riassumono benissimo una dellethorniest questions che costituiscono il delizioso
tormento esegetico provocato ogni volta dalla lettura del canto V dell’Inferno: dov’è, dunque, la lussuria in
Francesca? O, per porre la domanda in termini più generali, dov’è il benchmark, il parametro morale ed
empirico che Dante fissa per definire oggettivamente, nei limiti di un’oggettività poetica, la nozione di
lussuria, di peccato carnale? E se anche Semiramide e Cleopatra sono certamente exempla di lussuria, se
non altro perché “lussuriosa” è definita esplicitamente da Dante Cleopatra, mentre Semiramide “a vizio di
lussuria fu sì rotta”, si può ascrivere alla categoria dei “peccator carnali” anche chi, come Francesca, nel
punto apicale della rievocazione del suo peccato, racconta di essere stata baciata dall’amante che accosta
le sue labbra alle labbra della donna, per giunta “tutto tremante”, espressione che esprime certo esitazione
e timidezza, piuttosto che impeto e ardore sensuale? Sì, perché è questa la massima trasgressione in
materia sessuale che Francesca descrive: un bacio, dopo il quale la donna chiude il racconto con due versi
concisi, lapidari, e secondo me –soprattutto l’ultimo (“Quel giorno più non vi leggemmo avante”, 138) –più
tragicamente definitivi che reticenti ed eroticamente allusivi. È infatti l’adulterio il principale, se non l’unico,
peccato della coppia, non l’essersi innamorati l’uno dell’altro, presi nel vortice irresistibile di quell’amore
“che al cor gentil ratto s’apprende” (2).
Conviene, a questo punto, ripartire da capo muovendo da un confronto che, se non erro, non risulta molto
praticato nelle letture dantesche: il parallelo tra lussuriosi infernali e lussuriosi del Purgatorio. Nel canto
XXVI del Purgatorio, coloro che purificano nel fuoco i peccati di lussuria sono chiaramente divisi in due
schiere, omosessuali ed eterosessuali. Attraverso le parole di una delle ombre –che dichiarerà essere Guido
Guinizelli, il celebre poeta volgare del XIII secolo, precursore dello stilnovo – Dante circoscrive il vizio
capitale della lussuria in termini molto diversi, e senza dubbio più diretti, di quanto aveva fatto
precedentemente, nella prima fase del suo viaggio ultraterreno, quando, nel secondo cerchio dell’Inferno,
aveva visto, enumerate da Virgilio, le anime dannate eternamente per lussuria. Fra esse, in primo piano, si
staglia liricamente come protagonista di uno dei più famosi episodi della Commedia la coppia formata da
Francesca e Paolo, uniti per sempre dal legame dell’amore e della dannazione. Pur nella diversità delle
pene, ciò che accomuna i lussuriosi dell’Inferno, sbattuti e trascinati dal vento, ai lussuriosi del Purgatorio
avvolti dalle fiamme, è certamente l’appartenenza alla categoria dei “peccator carnali” (Inf. V, 38). Nel
Purgatorio, però, la definizione del peccato carnale si focalizza in modo più esplicito sull’aspetto
prettamente sessuale, mentre nell’Inferno i “peccator carnali” sono coloro che “la ragion sommettono al
talento”. Sull’ultimo ripiano del monte che “’nverso il ciel più alto si dislaga” (Purg. III, 15), Dante vede due
file procedere in senso contrario: ogni volta che s’incontrano, le ombre si baciano “sanza restar, contente a
brieve festa”, e sono paragonate a formiche che l’una con l’altra “s’ammusano”, si toccano con il muso
saggiandosi a vicenda. Appena finiscono l’accoglienza amica i peccatori contro natura gridano “Soddoma e
Gomorra” e gli eterosessuali: “Nella vacca entra Pasife, perché'l torello a sua lussuria corra”.
Fra questi ultimi vi è, appunto, Guido Guinizelli, il poeta di “Al cor gentil repara sempre Amore”, un verso
che riecheggia nelle parole di Francesca: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inf. V 100): una teoria
dell’amore che Dante aveva richiamato nella Vita Nova, nel sonetto “Amore e’l cor gentil sono una cosa”.
Con il verso “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” Francesca comincia a ricordare una vicenda che ruota,
appunto, in modo quasi ossessivo –la parola ricorre almeno sei volte nella rievocazione dolente e dignitosa
di Francesca –sul termine “amore”. Amore, non lussuria né passione: ché l’espressione “mal perverso”
usata da Francesca nel suo primo rivolgersi a Dante mi sembra più genericamente adatta a qualificare tutti i
peccatori di quel cerchio o almeno una delle due schiere, quella “ov’è Dido”, dalla quale esce
graziosamente la celebre coppia di amanti, paragonata a due colombe dal “disìo chiamate” che “vegnon
per l’aere dal voler portate”. Abbiamo detto che la parola “Amore” è uno dei termini chiave su cui ruota la
rievocazione di Francesca: ma la parola “Amore” compare altre quattro volte, fuori dalla cornice discorsiva
che inquadra la confessione della donna protagonista assoluta del canto. Per amore (“Amorosa”, V, 61) si
uccise colei –Didone– che “ruppe fede al cener di Sicheo”; Dante usa poi il termine “amore” quando
accenna ad Achille “che con amore al fine combatteo” (V, 66), quando si riferisce alle “più di mille / ombre”
(si noti l’enjambement) “ch’amor di nostra vita dipartille” (69), e, poco più avanti, quando esprime a Virgilio
il desiderio di parlare “a quei due che ‘nsieme vanno /e paion sì al vento esser leggieri”; al che Virgilio
risponde che quando i due si avvicineranno, Dante potrà rivolgersi a loro pregando “per quello amor che i
mena”. E non sfugga, però, che in quest’ultimo caso “la bufera è qui identificata, senza residui, con quello
amor che in vita travolse le due anime” (nota al verso 78 nel commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi,
Inferno, Mondadori, febbraio 2005). (3)
La prospettiva morale nella quale si colloca il quinto canto dell’Inferno conduce perciò il lettore in una
direzione interpretativa ambivalente, per non dire ambigua, perché l’amore è concetto ed esperienza dai
confini ben più ampi della lussuria, la quale suggerisce, come ben tutti possono immaginare, un appetito
dei sensi che nulla può aver da spartire con quella tempesta dell’anima e del cuore che è appunto l’amore.
Nel Purgatorio, la parola “amore” compare sì, ma con un preciso riferimento all’esperienza letteraria: Guido
è infatti “il padre/mio e delli altri miei miglior che mai/rime d’amore usar dolci e leggiadre” (XXVI, 98-99);
ma ritorniamo un attimo indietro e vediamo come Guido definisce il peccato di lussuria, suo e dei suoi
compagni di pena:
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò nelle'mbestiate schegge.
(Purg., XXVI, 81-87)
Mai, nel secondo cerchio dell’Inferno, Dante accenna alla sfera della bestialità, come fa qui nel Purgatorio,
dove il concetto di bestialità legato all’appetito sensuale e sessuale si esprime nella pesante ed
efficacissima annominazione “bestie…s’imbestiò nelle ‘mbestiate”, la cui antitesi è proprio nel celebre
poliptoto del canto V dell’Inferno: “amor, ch’a nullo amato amar perdona”, parole nelle quali Francesca
condensa l’ineluttabilità di un’esperienza –quella dell’amore –che sembra non lasciare margini di fuga a chi
ne è “preso”.
Persino la figura di Semiramide, che “a vizio di lussuria fu sì rotta / che libito fè licito in sua legge” (V, 5556), è tratteggiata con termini dai quali, secondo noi, non prorompe la stessa dose di riprovevole
trasgressione che connota il peccato “ermafrodito” descritto dal Guinizzelli. Nell’Inferno, “Cleopatràs” è
semplicemente “lussuriosa”, per quanto la dieresi su questo aggettivo e la pronuncia quadrisillabica di
Cleopatràs conferiscano all’intero verso una musicalità così rallentata da suggerire un forte rilievo critico.
Ma l’evocazione del mito di Pasifae, moglie di Minosse e madre del Minotauro, che si fece costruire una
finta vacca nella quale nascondersi “perché ‘l torello a sua lussuria corra” (XXVI, 42), cioè per attirare
l’animale e favorirne la penetrazione, è immagine ben più inquietante e potente, di una potenza tutta
infernale.
III
Dante e Virgilio incontrano all’ingresso del secondo cerchio Minosse, il giudice dell’Inferno, che
“orribilmente ringhia”.
Ora incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in luogo d'ogni luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina:
voltando e percotendo li molesta.
(Inf. V, 25-33)
Il ricamo musicale di questi versi è, come spesso accade in Dante, di una raffinatezza squisita: la sapiente
orchestrazione fonica –con le riduzioni vocaliche che giocano sulle dominanti scure della i e della u in
armonia imitativa con l’alternanza delle a, le allitterazioni (dolenti note, molto pianto mi percuote,luogo
d’ogne luce muto) e la disseminazione timbrica di certe consonanti come le labiali m e p – contribuiscono a
riprodurre in una partitura quasi onomatopeica il quadro infernale dominato dal buio e dalla forza violenta
del vento.
Quando gli “spirti”, spinti dal vento, giungono alla “ruina” (4) si levano urla di dolore e lamenti: “quivi le
strida, il compianto, il lamento”. La sofferenza delle anime culmina nell’acme della bestemmia alla “virtù
divina”. Dante capisce (“intesi”) di trovarsi di fronte ai “peccator carnali/che la ragion sommettono al
talento”, trascinati da un vento che “di qua, di là, di giù, di su li mena”, come fossero stornelli che vanno nel
freddo tempo a schiera larga e piena. Alla similitudine degli stornelli, si aggiunge un altro paragone che
assimila queste ombre “portate dalla detta briga” (cioè dal sopraddetto vento) a una fila di gru
...che van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
(Inf. V 46-47)
La bufera infernale che mai non “resta” e che trasporta e sbatte i “peccator carnali” è la materializzazione
simbolica di una passionalità che in vita ha travolto la loro ragione, sovvertendo i limiti e le regole imposte
dalla razionalità. Dante chiede a Virgilio chi sono le genti “che l'aura nera sì gastiga”. Virgilio comincia, così,
a indicare illustri esempi di lussuria; nell’ordine: Semiramide, la quale
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge
(Inf. V, 55-56)
Poi Didone “che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo”. Cleopatràs lussuriosa; Elena “per cui
tanto reo tempo si volse”. Il grande Achille che “con amore al fine combatteo”. Poi Paride, Tristano, “e più
di mille/ombre…ch'amor di nostra vita dipartille” (vv.67-69).
Dopo aver visto la rassegna dei peccatori descritti da Virgilio, Dante esprime il desiderio di parlare a due in
particolare che sono trasportati, più che trascinati, dal vento, sì da parere “leggieri”. Ciò che attrae
l’attenzione di Dante è che, mentre gli “spiriti mali” ondeggiano in balia della tempesta come tanti uccelli
che roteano impazziti nell’aria ora divisi e sparpagliati a somiglianza di grano lanciato dal ventilabro, ora
l’uno dietro l’altro a formare casualmente una riga come fossero gru che scorrono in cielo emettendo
lamenti, quei due che “paion sì al vento esser leggieri” sono una coppia, abbracciata, unita pur
nell’imperversare della bufera, evidentemente sempre insieme, a differenza delle altre ombre che si
mescolano e separano senza compagno. È questa la singolarità che spinge Dante a soffermarsi su quella
coppia di anime affannate pregandole di avvicinarsi, se Dio lo permette (“s’altri nol niega”). Non appena il
vento li piega verso il poeta ansioso di parlare loro, le due anime si staccano dalla schiera con la graziosa
levità di due colombe che si librano nell’aria con le ali aperte e ferme:
Quali colombe, dal disio chiamate,
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere dal voler portate;
cotali uscir della schiera ov'è Dido,
sì forte fu l'affettuoso grido.
(V 82-87)
Il dettaglio delle ali “alzate e ferme” sottolinea ancor più la leggerezza del volo, quasi che i due spiriti non
avessero bisogno del vento per lasciarsi trasportare verso il luogo al quale sono richiamati dall’invito
affettuoso di Dante, condotti non dalla bufera, ma dal loro desiderio (5). Le colombe erano sacre a Venere:
nel libro VI dell’Eneide, v.193, Enea, figlio di Venere, le definisce "maternae aves”. Il paragone delle
colombe, con le sue evidenti ascendenze classiche, introduce una connotazione graziosa, un tratto che
ingentilisce i primi tocchi del quadro lirico che Dante, attraverso le parole di Francesca, andrà sviluppando.
Dal momento in cui Dante si accorge di quella coppia singolare, il quadro lirico del canto cambia tonalità,
ma anche prospettiva. Dante aveva già dichiarato la sua pietà al sentire nominare da Virgilio “le donne
antiche e’ cavalieri” (V, 71), al punto da sentirsi “quasi smarrito”. Le donne antiche e i cavalieri alludono
senza dubbio anche a quelle figure della storia antica e recente, che Virgilio aveva appena indicato a Dante;
fra esse, Didone, Elena, Achille, Paride e Tristano: Didone senza Enea, Tristano senza Isotta,
Paride senza Elena, Achille senza Polissena. A queste metà, lasciate sole nella bufera, fa riscontro una
coppia unita nella vita e nella morte. Anche se nel novero delle donne antiche verso le quali Dante prova
pietà potrebbero non rientrare Semiramide e Cleopatra, i lussuriosi dell’Inferno, almeno a giudicare dalle
ombre che Virgilio indica e nomina a Dante, non sono comunque peccatori qualunque, ma personaggi di
rango elevato: regine (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena), eroi come Achille (“il grande Achille”), e
cavalieri come Tristano. Ripetiamo: l’etichetta di lussuriose applicata senza reticenze a Semiramide e
Cleopatra, non sembra deteriorare più di tanto il quadro infernale di “quelle / genti che l’aura nera sì
gastiga” (V, 51). La rassegna degli spiriti additati da Virgilio è ancora indice di una tensione epica, perché la
risonanza di quei nomi, antichi e regali, conferisce al quadro una patina arcaica e nobile: se non fossimo nel
cerchio dei lussuriosi, potremmo quasi confonderci con il nobile castello del Limbo. Ma se anche la pietà
che coglie Dante nell’udire da Virgilio i nomi delle donne antiche e dei cavalieri può verosimilmente
escludere le libidinose Semiramide e Cleopatra, è fuor di dubbio che da questo punto in poi della
narrazione sparisce dall’orizzonte lirico e morale l’idea e l’immagine della lussuria per lasciare il campo a
un’esperienza ben più complessa qual è l’amore.
Non è certo un caso che i due amanti escano fuori dalla schiera “ov’è Dido”. Didone –già presentata con la
perifrasi “colei che s’ancise amorosa / e ruppe fede al cener di Sicheo” – affiora nuovamente come
presentimento della tragedia che verrà poi narrata da Francesca. La quale non rivela direttamente la sua
identità –è Dante che la chiama con il suo nome – se non con una lunga perifrasi che indica il luogo della
sua nascita:
Siede la terra dove nata fui
Su la marina dove’l Po discende
Per aver pace co’ seguaci sui.
(V, 97-99)
E si noti questa bellissima immagine del Po che scorre con i suoi affluenti per trovare finalmente nel mare lo
sbocco naturale, desiderato dopo il lungo fluire per tutta la pianura. Francesca sembra quasi trasferire
nell’immagine simbolica del fiume che trova “pace”, che sfocia, cioè, in mare, il desiderio irrealizzato e
irrealizzabile di una pace dell’anima che le è stata tolta per sempre.
Didone tradì Sicheo, innamorandosi di Enea, e si uccise per causa sua, tragico epilogo di un amore non
ricambiato; Francesca, innamoratasi dell’uomo, che ora le è accanto per l’eternità, fu uccisa dal marito,
evocato solo in un verso lapidario che esprime più una sentenza ineluttabile che un augurio dettato dall’ira:
“Caina attende chi a vita ci spense”. Certamente, il destino irresistibile e tragico dell’Amor omnia vicit di
virgiliana memoria potrebbe ben figurare come epigrafe sulla tomba dei due cognati. L’ombra di Didone
rimane sullo sfondo, a nobilitare una scena che, come in un quadro metafisico, sospende la modernità in un
enigma fatale, in un’esperienza apparentemente chiara nella sua meccanica, ma in fondo misteriosa perché
il lettore non comprende subito se la tragedia consista nell’attrazione irresistibile che i due amanti hanno
provato, “presi”, catturati reciprocamente dal richiamo della bellezza, a cui nessuno dei due poteva non
rispondere, o se il vero cruccio sta in quella morte violenta che ha tolto ai due amanti anche, e soprattutto,
la possibilità di pentirsi. È quella morta violenta che li ha condannati all’Inferno, e se anche i due amanti
sono giunti al “doloroso passo” sotto la spinta irresistibile dell’amore, “…ch’al cor gentil ratto s’apprende”,
la condanna suona veramente beffarda, perché essi in fondo non hanno seguito che l’impulso irresistibile
dell’amore che nasce dalla visione della bellezza dell’uno e dell’altro: può bastare un solo gesto, un attimo
di debolezza, una parola, uno sguardo per scendere nell’abisso; ed è quello che successe ai due amanti:
“ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
(V, 132-138)
IV
Quel giorno s’interruppe, e per sempre, la lettura del libro galeotto –il libro che narra di Lancillotto, “come
amor lo strinse” – perché quel giorno l’amore di Francesca e Paolo fu interrotto violentemente, e per
l’eternità (6). Anche a costo di cadere nel difetto additato da Michele Barbi –e cioè quello di giudicare
Dante affidandosi più alla fantasia che alla filologia –mi permetto di osservare quanto autentico e forte
sarebbe stato l’amore di Francesca e Paolo se non fosse intervenuta la mano omicida di Gianciotto, marito
di lei e fratello di Paolo. Francesca e Paolo sono due volte vittime: vittime della furia assassina del coniuge
tradito e vittime dell’implacabile legge di Dio, la quale –così ci fa intendere Dante – condanna per l’eternità
i due amanti in virtù di una legge che non può piegarsi alla complessità del sentimento umano e delle
motivazioni personali. Ma che questo amore possa essere sentito dal lettore – e probabilmente anche da
Dante –come autentica passione (per quanto questa passione abbia spinto i due amanti a superare il limite
imposto dallo “fedele consiglio della ragione”), è indirettamente suggerito dalla condizione privilegiata di
Francesca e Paolo, eternamente uniti anche nella dannazione: a nessun “peccator carnale” sembra
concesso tale status. L’eccezionalità di questa coppia nel contesto del secondo cerchio autorizza a sentire,
prima ancora che a ipotizzare, che un amore interrotto nella vita terrena possa in qualche modo
continuare, seppur nel regno dell’eterna condanna. E a questo punto giova ricordare l’interpretazione del
Foscolo, ritenuta già corretta da Michele Barbi il quale ne criticò, tuttavia, le estreme conseguenze: “Il
Foscolo colse già il punto giusto dell’interpretazione dell’episodio. ‘La colpa è purificata dall’ardore della
passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare
l’unica musa’. Ma deviò –prosegue il Barbi –nell’affermare nettamente che ‘il poeta lascia sentire come
anche la giustizia divina era clemente a que’ miseri amanti, da che fra tormenti infernali, concedeva ad essi
d’amarsi eternamente indivisi’. La perfetta giustizia divina non può avere agli occhi di Dante di queste
debolezze per il peccato, sia pure per il peccato più dolce…si può immaginare quello che più piace, ma è
lecito anche pensare che quello stare insieme si risolva in un maggiore strazio dei due amanti, perché rende
più viva la memoria del peccato e più cocente il dolore, a veder l’un nell’altro le gravi conseguenze della
colpa: il pianto finale di Paolo c’è per qualche cosa”.
Con tutto il rispetto per il grande dantista, si può anche ritenere –e l’esperienza può aiutarci in questo –che
la solitudine aggravi le conseguenze di un amore sbagliato. Perché non ammettere che nelle parole di
Francesca riferite a Paolo (“questi, che mai da me non fia diviso” V, 136) risuoni, invece, la tenerezza di un
sentimento immortale, piuttosto che la constatazione di una legge inflessibile che proprio attraverso
l’indivisibilità dei due amanti rincara sadicamente la punizione del peccato? Paolo piange, è vero, ma il suo
pianto è colto da Dante nel momento finale della narrazione di Francesca, quando la donna suggella
l’epilogo di quella appassionata e colpevole vicenda terrena con le parole:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
Paolo piange (“piangea” scrive Dante) “sì che di pietade / io venni men così com’io morisse; / e caddi come
corpo morto cade”. Se è vero, come spiega il Barbi, che la giustizia divina non può avere agli occhi di Dante
simili debolezze, per quale motivo il poeta sviene? Certo, per la “pietade”, dice Dante. Ricercare la
motivazione profonda di questa “pietade” rappresenta un’altra complicata sfida critica. Ma prima di
soffermarci sul ‘venir meno’ di Dante, è necessario delineare la struttura del discorso di Francesca.
Preceduto da una preparazione di 14 versi (73-87), l’episodio di Francesca e Paolo si divide sostanzialmente
in 5 parti: esordio e presentazione (88-99), inquadramento generale della condizione dei due amanti (100107), domanda di Dante (108-120), descrizione più circostanziata da parte di Francesca della “radice di
cotanto affetto” (121-138), epilogo (139-142):
parte I: 11 versi
parte II: 7 versi
parte III: 12 versi
parte IV: 17 versi
parte V: 3 versi
Nella prima parte Francesca risponde all’invito di Dante con una elegante captatio benevolentiae nella
quale la donna dichiara la disponibilità sua e dell’amante a parlare di ciò che starà più a cuore ai due
interlocutori. Francesca si presenta senza dire il suo nome, ma evocando con una perifrasi il suo luogo di
nascita (Ravenna). Anticipata dalla similitudine delle colombe che “vegnon per l’aere dal voler portate”,
questa prima parte prolunga nel discorso diretto di Francesca quella grazia e delicata gentilezza che sono
anche i principali connotati della personalità della donna ravennate.
Nella seconda parte, Francesca più che raccontare, enuncia:
“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta; e’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense”.
(V, 100-107)
Il rigore geometrico della struttura sintattica e retorica di questi versi è concepito per rafforzare il rilievo
scultoreo della sentenza: l’anafora di “Amor” che si ripete tre volte in principio di verso, la ripetizione della
proposizione relativa (Amor, ch’al cor…che mi fu tolta…Amor, ch’a nullo amato…sì forte, che…), e infine la
drammatica chiusa costituita da due versi che segnano e riassumono ciascuno l’epilogo tragico della
vicenda: morte dei due amanti, condanna di chi li ha uccisi. In questa parte del discorso di Francesca,
domina il senso della fatalità, più che della colpa: forza fulminea e invincibile è l’amore che “prese” l’uno e
l’altro perché l’amore “al cor gentil ratto s’apprende”, si sviluppa, cioè, tanto più immediatamente e
fortemente quanto più nobile è il cuore di chi si trova esposto a questo sentimento, e soprattutto “a nullo
amato amar perdona”, fa sì, cioè, che nessuno che sia amato possa non riamare (“sentenza non sempre
vera”, nota il Vandelli, e in questo siamo d’accordo anche noi). Studiatissima è anche l’alternanza dei tempi
verbali: passato remoto e presente si succedono nel discorso di Francesca per rafforzare il contrasto, o
meglio ancora, la dipendenza tra puntualità ed eccezionalità di ciò che è avvenuto nella vita reale, ed
eterna irrevocabilità di ciò che si configura come legge universale vuoi perché appartiene alla volontà di
Dio, vuoi perché fa parte integrante della natura umana. Questa alternanza di piani temporali è volta a
stabilire strettissimi rapporti di consequenzialità: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende/prese…”, come a
dire: amore, nascendo necessariamente in un “cor gentil”, non poteva lasciare indifferente anche Paolo; ad
“Amor, ch’a nullo amato amar perdona” non poteva non rispondere anche Francesca.
La forza irresistibile di questa passione, insieme al modo brutale con il quale il suo “bel corpo” le fu tolto,
sono i due estremi fra i quali oscilla l’animo di Francesca. L’amore, “ch’al cor gentil ratto s’apprende”,
nacque in Paolo non astrattamente: è la “bella persona” di lei che attrasse Paolo, e la stessa cosa dicasi per
Francesca che fu attratta dalla bellezza di lui; e questo amore fu così forte che “ancor” non abbandona
Francesca: la quale sottolinea il perdurare, anche nella vita ultraterrena, di questo sentimento, senza
accenti di dolore:
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Francesca constata ciò che anche Dante vede, fornendogli un’indiretta spiegazione di quella speciale
condizione che isola la coppia dallo scenario dei dannati.
Le parole di Francesca mettono Dante in uno stato di meditazione sofferente e silenziosa; tant’è che Virgilio
gli domanda, molto semplicemente, a che cosa sta pensando. Dante risponde a Virgilio
……………………………..Oh lasso
quanti dolci pensier, quanto disìo
menò costoro al doloroso passo!
e poi si rivolge ai due amanti:
…………………………Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno triste e pio.
Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri? (7)
(V, 116-120)
Francesca, pur premettendo la sofferenza che comporta il ricordo del tempo felice quando ci si trova nella
sventura (“Nessun maggior dolore /che ricordarsi del tempo felice /nella miseria”), accetta di raccontare
nei dettagli la “prima radice” del loro amore:
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
(V, 127-138)
“La prima radice” dell’amore tra Francesca e Paolo fu, dunque, la lettura del romanzo che narra l’amore tra
Lancillotto, il più famoso dei cavalieri della Tavola Rotonda, e la regina Ginevra, moglie del re Artù: in quel
romanzo, Galehault (italianizzato in Galeotto) prega Ginevra di baciare il timido ed esitante cavaliere
Lancillotto: e Ginevra prende Lancillotto per il mento e lo bacia assai lungamente. Nella vicenda narrata da
Francesca, il ruolo di Galeotto è assunto da un libro, e l’iniziativa erotica viene presa dall’uomo (nella
fattispecie, Paolo) e non, come nel celebre romanzo del ciclo bretone, dalla dama (Ginevra). Uno dei
capolavori della letteratura cortese fece, dunque, da mezzano a un amore adulterino, e quindi di per sé già
condannato dalle convenzioni sociali. È difficile affermare con certezza se, attraverso il racconto di
Francesca, e in particolare la confessione del come e quando nacque l’amore colpevole, sia da individuare
una precisa condanna da parte di Dante degli effetti perniciosi di certa letteratura “così funesta al buon
costume”, com’ebbe a ipotizzare Francesco D’Ovidio. La cornice sociale e letteraria nella quale s’inquadra la
sfortunata vicenda dei due amanti romagnoli rimanda senz’alcun dubbio a un ambiente di fruizione che era
anche il target ideale di quella letteratura d’amore di alto livello che abbracciava i lais –componimenti
narrativi, brevi e musicati, di origine celtica, a cui sembra voglia accennare anche Dante nel verso delle gru
che “van cantando lor lai” –, la lirica dei trovatori provenzali e i romanzi d’amore del ciclo bretone. “Versi
d’amore e prose di romanzi” (Purg., XXVI, 118) scrisse anche Arnault Daniel, il poeta in lingua d’oil che
Guido Guinizzelli indicherà a Dante come “miglior fabbro del parlar materno”.
Ma non dimentichiamo che cosa dice Francesca: “Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto
come amor lo strinse: / soli eravamo e sanza alcun sospetto”. Tutto sembra nascere per caso: i due
leggevano un giorno, per passare il tempo (“per diletto”), dell’amore di Lancillotto per Ginevra, moglie di
Artù; erano soli e senza il minimo presentimento di ciò che sarebbe poi successo (“sanza alcun sospetto”).
Ma l’onda della passione cresce di pari passo all’avvicinarsi di quel momento, di quel “punto” che “vinse”,
che sopraffece, travolse, la volontà dei due amanti: il bacio di Lancillotto scatenerà l’emulazione di Paolo.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Mano a mano che s’avanzano nella lettura, gli occhi dell’uno si sollevano dal libro per guardare negli occhi
dell’altro (“per più fiate li occhi ci sospinse / quella lettura”). Il guardarsi intensamente proprio mentre si
legge una storia d’amore è spia di un coinvolgimento non del tutto casuale: forse quella storia così bella e
famosa di un cavaliere innamorato della propria regina ha solo accelerato il moto di un meccanismo
passionale che si era già silenziosamente avviato nei cuori dei due amanti inconsapevoli; e il pallore che si
diffonde nei loro volti ne è un segno tangibile oltreché rituale, se è vero che dall’Ovidio dell’Ars
Amandi (“Palleat omnis amans, color est hic aptus amanti”, I 729) al De Amore di Andrea Cappellano
(“Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere”) fino alla stessa Vita Nuova di Dante, il
“discolorarsi” del volto è indice d’intenso travaglio amoroso.
Alla definizione di una Francesca innocente contribuisce l’interpretazione del verso 129, “soli eravamo e
sanza alcun sospetto”, che il Vandelli, riportando un passo del Parodi, chiosa nel seguente modo:
“Francesca e Paolo erano soli e senza alcun sospetto (=senza alcun timore di brutte conseguenze) perché i
loro cuori si conservavano puri e leali, e se forse qualche pensiero di amore vi si era insinuato, ella, buona e
sicura di sé, non n’era neppure consapevole a se stessa”. Tutti i commentatori moderni sono sintonizzati
più o meno su questa linea interpretativa, che appare effettivamente più nobile rispetto alla grossolana
ipotesi secondo la quale “sanza alcun sospetto” voglia dire “senza alcuna paura di essere visti o scoperti”.
Tuttavia, quest’ultima è un’interpretazione tanto legittima quanto la prima, e a ben vedere è più logico
pensare che l’essere “sanza alcun sospetto”, non temere, cioè, di esser sorpresi o visti da occhi indiscreti,
giustifichi la situazione, altrimenti strana, di una donna sposata che trascorre il tempo libero leggendo, con
il fratello del marito, gli amori di Lancillotto. Oltre tutto, anche se la poesia segue percorsi ben diversi dai
binari della ragion pratica, non è facile accettare l’idea che i due cognati sviluppino di punto in bianco, nel
breve giro di una lettura romantica, una così irresistibile passione.
Ed è d’altronde impensabile –e da qui deriva infatti la famosa contraddizione fra la condizione di peccatrice
assegnata da Dante a Francesca e il nobile profilo che il poeta ne fornisce nello stesso canto in cui la
condanna –è inammissibile, dicevo, che Dante abbia collocato una persona del tutto innocente nell’Inferno.
Alcuni errori anche fatali –o ritenuti tali dalla morale dell’epoca – non cancellano la grandezza di una
personalità eccezionale. Anche se suona banale affermare che Francesca trova nel libro galeotto una
seconda attenuante, per non dire giustificazione, al cedimento erotico ed amoroso che condurrà lei e Paolo
al “doloroso passo” –la prima attenuante si può individuare nella sentenza “Amor, ch’al cor gentil ratto
s’apprende” – uno dei messaggi sottesi dall’episodio potrebbe essere questo: un amore quando è sbagliato
è sbagliato, e l’amore tra una donna sposata e suo cognato è peccato, non importa se s’invoca la nobile
teorica dell’amore che “al cor gentil ratto s’apprende”, o che “a nullo amato amar perdona”, o se si evoca
quale “prima radice / del nostro amor” la lettura di un episodio particolarmente sensuale come il bacio di
Ginevra (che in Dante diventa il bacio di Lancillotto). (8)
Francesca, lo ripetiamo, è infinitamente superiore, dal punto di visto poetico e morale, agli exempla di
lussuria indicati nello stesso canto di cui ella è protagonista assoluta. Ma non dimentichiamo che nel canto
dei lussuriosi, sono le donne a recitare un ruolo guida negativo nella generazione di passioni funeste: fra le
mille ombre “ch’amor di nostra vita dipartille”, Virgilio mostra a Dante, nell’ordine, e compresa Francesca, 5
donne (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena) e 3 uomini (Achille, Paride e Tristano). Paolo tace e non è
nemmeno citato per nome. Semiramide riassume la libidine incestuosa e il pervertimento delle leggi;
Didone, che si era innamorata di Enea e voleva trattenerlo a Cartagine, ricorda la pericolosa tentazione
instillata nell’eroe, che ha una missione da compiere, a dimenticare nell’abbandono erotico i doveri
superiori imposti dal destino; in Elena vediamo la bellezza generatrice di caos e lutti; Cleopatra è una figura
emblematica della brama di potere unita alla lussuria e alla ribellione contro l’autorità dell’Impero. In
questo canto si affida, dunque, alla figura femminile un ruolo fortemente negativo, attribuendole la causa
originaria di molti disordini morali e materiali. Non troveremo mai, in nessuna delle tre cantiche, e meno
che mai nell’Inferno, così tante donne come nel cerchio dei lussuriosi: unica eccezione, il nobile castello del
Limbo nel quale Dante vede, fra gli spiriti magni, Elettra, Camilla, Pentesilea, Lavina, e tutte citate in un sol
verso, “Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia”.
Dei personaggi maschili, l’unico che possiamo definire negativo è Paride, che, rapendo Elena, causò la
lunga e sanguinosa guerra di Troia. Solo in Didone, Achille –il cui amore per Polissèna, figlia di Priamo e di
Ecuba, fu la causa involontaria della sua morte – e Tristano, il cavaliere che morì insieme a Isotta a causa di
un filtro bevuto per sbaglio, possiamo forse riconoscere un assaggio di quel coté tragico dell’amore che
troverà pieno sviluppo nel racconto di Francesca.
V
Se non si conoscono, o sfuggono alla memoria, alcuni precisi riferimenti letterari, lo svenimento di Dante,
con il quale si chiude il canto V dell’Inferno, potrà sembrare al lettore non smaliziato, una reazione
incomprensibile e un tantino esagerata. Invece, un riscontro coerente anche con l’atmosfera letteraria
evocata da Francesca, è nella Tavola Rotonda (XLVII): “il grande dolore e la mortale novella seccò a Tristano
ogni virtù e sentimento…e cadde sì come corpo morto”. Non sarebbe quindi obbligatorio scorgere un senso
allegorico negli ultimi versi del canto:
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea, sì che di pietade
io venni men così com’io morisse:
e caddi come corpo morto cade.
(139-142)
Verso, quest’ultimo, giustamente celebrato anche per ragioni stilistiche. Interamente composta da parole
bisillabe, la frase è marcata da un’intensa accentazione ritmica e da un’insistente allitterazione. All’interno
di questo verso abbiamo 4 accenti tonici che cadono sulle posizioni ritmiche tipiche dell’endecasillabo di
scansione pari: gli accenti battono infatti su seconda, quarta, sesta, ottava. È vano chiedersi, come fanno
molti studiosi di metrica, quale di questi accenti tonici sia più o meno forte. Essendo accenti tonici primari
hanno tutti una specifica rilevanza ritmica. La ripetizione della velare occlusiva (caddi come corpo…cade) in
principio di parola unita alla quasi monotona riduzione vocalica a/o, sembra voler suggerire, più che
un’improbabile armonia imitativa, l’idea del corpo che cade pesantemente sul terreno, immobile e steso.
Uscendo dall’ambito tecnico del verso, la frase, che suggella in modo così perentorio e quasi lapidario il
canto V, rappresenta una reazione psicologica e fisica che, se la attribuissimo, in virtù del significato
letterale, alla pietà verso i due cognati, può risultare esagerata e scarsamente comprensibile anche su un
piano logico (ma si veda al proposito quanto preciso nella nota2): che la pietà suscitata dalle vicende dei
due amanti scateni in Dante una commozione più intensa di quella che egli prova di fronte a Pier delle
Vigne o al conte Ugolino, è cosa psicologicamente misteriosa, almeno per la nostra sensibilità. Ma lo
psicologismo non è un metodo esatto per capire Dante; il quale, cadendo “come corpo morto cade”,
potrebbe aver voluto significare una morte simbolica (9): egli muore all’amore terreno e carnale, alla
passione sensuale e borghese. La morte significa anche superamento simbolico di una difficoltà. “La storia
narrata da Francesca non è tanto la storia di un peccato che abbia infranto leggi morali e sociali, quanto la
storia di un fallimento su una via spirituale. Quella che può condurre dall’amore umano all’amore divino, in
quanto tra l’uno e l’altro non viene postulata opposizione, ma continuità. (…) Lo slancio amoroso viene ad
essere deviato e profanato quando le belle forme dell’amato cessano di apparire come il riflesso di una
realtà superiore, diventando oggetto da possedere” (Dante all’inferno, Adriano Lanza, pag.69). E qui sta
forse la spiegazione dello svenimento del poeta alla fine del canto. “Il Dante che, nei versi finali, vien meno
come se morisse è colui che ha rivissuto in sé catarticamente la tragedia narratagli. Ciò che in lui muore non
è questa volta, la vita dello spirito, ma la vita naturale. Egli ha attraversato, fin dall’inizio del suo viaggio,
un’esperienza trasformatrice, che è caparra di salute per la sua stessa sorte post mortem. Infatti, il senso
del cammino che egli ha intrapreso è quello di un cammino iniziatico per morir meglio”. (Lanza, ibidem).
Tuttavia, e qui chiudiamo il nostro intervento, una cosa non ci convince: ed è appunto quest’idea di un
Dante che, pur partecipando emotivamente al racconto di Francesca –e immedesimandosi nella vicenda in
tal misura da venire meno per pietà verso i due cognati – prenderebbe, però, le distanze non solo dalla
passione rievocata dalla donna ravennate, ma anche, e in modo particolare, da tutta una letteratura alta, in
versi e in prosa, che ha cantato e narrato la bellezza e la nobiltà dell’amore: secondo una tale
interpretazione, Dante rimane d’accordo con Guinizelli che “Amore e il cor gentil sono una cosa”, ma nella
condanna di Francesca e Paolo egli farebbe ammenda anche della spirale discendente dell’amore che non
eleva lo spirito, ma si ferma al dato fenomenico della bellezza fisica seppur filtrata attraverso i canoni
dell’amor cortese. Le donne dei poeti dello stilnovo prefigurano Beatrice, simbolo di Sapienza santa e
visione mistica. Siamo ben oltre l’amore cortese. Ciò che differenzia Dante e gli stilnovisti dagli altri rimatori
lo dirà Bonagiunta in Purgatorio:
“Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette
che delle nostre certo non avvenne;
e qual più a riguardare oltre si mette,
non vede più dall’uno all’altro stilo”
(Purg., XXIV, 58-62)
La differenza non è tanto nello stile, ma nella qualità e nel grado di ispirazione. Dante e i poeti dello stilnovo
seguono rigorosamente il dittatore, colui che detta: Amore. E ciò non avvenne per Bonagiunta, per il
Notaro (Jacopo da Lentini, rimatore di scuola siciliana), e Guittone d’Arezzo. Subito dopo questa
dichiarazione d’intenti, che vale come un manifesto di poetica, Bonagiunta tace e Dante vede allontanarsi
gli spiriti dei golosi con la stessa velocità degli uccelli che passano l’inverno sul Nilo e poi facendo schiera
volano via in fretta in lunga fila. È più o meno la stessa similitudine del V canto, nel quale una delle due
schiere di lussuriosi è paragonata alle gru che cantano i loro lamenti facendo nell’aria “lunga riga”.
Solo in questo canto del Purgatorio Dante sottolinea, per bocca di Bonagiunta, la differenza tra i poeti dello
stilnovo e gli altri. Essendo Guido Guinizelli il capostipite dei nuovi poeti, dovrebbe essere, per una
questione di mera logica, uno di coloro che andò dietro al dittatore. Dante incontra Guido sul ripiano
successivo, quello dei lussuriosi: lo definirà nei termini di un affettuoso riconoscimento di paternità poetica:
il padre
mio e delli altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
(Purg., XXVI, 97-99)
Come può Dante prendere le distanze e stigmatizzare seppur indirettamente, attraverso la condanna
irredimibile dei due cognati all’Inferno, il suo passato di poeta d’amore e poi salvare in Purgatorio il
caposcuola del nuovo stile?
L’episodio di Paolo e Francesca è l’unico esempio di amore/passione terreni sviluppato nella Commedia. La
coppia dannata, ma stilisticamente nobilitata, costituita da Francesca e Paolo, è l’antitesi di quella
rappresentata da Dante e Beatrice, che si rincontreranno in Paradiso: non esiste nel poema una soluzione
intermedia, perché la Beatrice della Commedia –ma era già così nella Vita Nuova –rappresenta un
superamento dell’amore terreno. Dante e Beatrice non sono, però, la coppia angelica, da opporre a
Francesca e Paolo, coppia del male: gli è semplicemente che Beatrice è un’altra cosa, è puro spirito, che
aspetta Dante in cielo. E Dante, probabilmente già all’altezza del canto V, aveva ben altro cammino poetico
e spirituale da compiere. Quella fase poetica –rievocata tramite le parole di Francesca –non è rimossa o
condannata, ma superata. E il superamento sarà definitivamente segnato dalle parole di rimprovero e
accusa verso lo smarrimento esistenziale di Dante, pronunciate da Beatrice nel giardino del Paradiso
terrestre.
NOTE
(1) Ancorché sarebbe meglio definirlo il canto di Francesca e Paolo, visto che l’intervistata (e la protagonista
assoluta) è Francesca. Paolo tace. È un procedimento di derivazione classica: si pensi –come ricorda
il Mattalia – alleLettere di eroine di Ovidio, nelle quali sono le donne a narrare le loro storie d’amore, per lo
più infelici. Sulle ragioni del silenzio di Paolo, condivido le osservazioni del Foscolo: “perché nelle donne, più
che negli uomini, la passione d’amore dov’è profondissima , mostrasi naturalmente più tragica – perché la
compassione risponde più pronta alle lagrime delle donne – perché ove Paolo avesse parlato di quell’amore
avrebbe raffreddato la scena; e confessandolo, si sarebbe fatto reo d’infamare la sua donna; e scolpandosi,
avrebbe faccia d’ipocrita; e lamentandosi, s’acquisterebbe disprezzo. Bensì l’anima nostra è rivolta in un
subito al giovine che ode e piange con muta disperazione:
Mentre che l’uno spirto questo disse,
L’altro piangeva.
Il sublime scoppia da quel silenzio, nel quale sentiamo profondo il rimorso e la compassione di Paolo per lei
che tuttavia nella miseria “gli ricordava il tempo felice”.
(2) “…La prima formula di cui Francesca si serve è un punto della dottrina d’amore, che era stato accolto da
ultimo e ribadito da alcuni poeti dello ‘stil nuovo’: il cuore nobile si apre naturalmente all’amore, e anzi non
vi è nobiltà di cuore senza amore; tanto che nelle parole di lei si possono avvertire precisi riecheggiamenti
della teorica del Guinizelli (‘al cor gentile ripara sempre amore’)
e dello stesso Dante (‘Amore e’l cor gentil sono una cosa’); ma quella dottrina era stata già il presupposto e
la ragione determinante di tutta una vastissima letteratura, che va dai romanzi cortesi ai trattati e alla lirica
dei trovatori provenzali e dei loro imitatori italiani. Sugli effetti dell’amore, che rende chi si avvicina ad esso
nobile e lo adorna di virtù e di buoni costumi, aveva dissertato Andrea Cappellano (De Amore, I, 4); della
sua forza irresistibile e dei suoi rapporti con la cortesia e la gentilezza avevano discorso l’autore del Roman
de la Rose, i romanzieri del ciclo arturiano, i trovatori d’oltr’alpe, e quelli siciliani e toscani. Non a caso più
avanti Francesca ricollegherà esplicitamente la prima radice della sua passione a gli effetti della lettura del
romanzo di Lancillotto, uno dei testi più diffusi di quella letteratura particolarmente gradita alle corti e agli
ambienti signorili” (N. Sapegno, commento all’Inferno, nota ai versi 100-7).
La consapevolezza letteraria che caratterizza la rievocazione da parte di Francesca del suo amore per Paolo
(soprattutto nei versi 100-107 e 121 –138) non autorizza, secondo me, ad affermare con certezza che Dante
abbia voluto indirettamente accusare (e condannare irrevocabilmente) un modello di poesia e poetica che
va dal Lancillotto allo “stil nuovo”, comprendendo, così, anche un autore come Guinizelli, salvato, peraltro,
in Purgatorio, insieme alla poetica stessa dello stilnovo. La pietà di Dante verso il “ nostro [scil. di Francesca
e Paolo] mal perverso” (espressione con la quale Francesca designa più la qualità della pena infernale, che
la natura della colpa commessa, della quale, fra l’altro, ella non sembra manifestamente accusarsi),
connota innanzitutto un’empatia che culminerà con il mancamento finale del poeta, che per effetto della
“pietà” cade “come corpo morto cade” (v. 142): il venir meno di Dante, pur riportando anch’esso a un luogo
comune letterario, non è mera letteratura, ma registrazione di una presa di coscienza che è spia, se non
vogliamo arrischiarci in altre interpretazioni più o meno peregrine, della serietà con cui il poeta, narratore e
testimone di quella storia, ha voluto segnalare la propria risposta di fronte a quella tragica esperienza di
amore e morte: una risposta che non coincide necessariamente con l’abiura delle poetiche studiate e
sperimentate in gioventù, come vuole ancora oggi molta critica: “la condanna di Francesca all’inferno
(anche se nel cerchio dei lussuriosi, il meno crudele) segna l’abbandono da parte di Dante delle concezioni
stilnovistiche da lui abbracciate in gioventù ed elaborate nelle sue rime. È come se Francesca incarnasse le
idee del Dante di una volta, mente il Dante che l’ascolta, pure commosso, si trova ormai a un altro livello:
quello in cui la sua Beatrice è diventata personificazione della Teologia” scrive Cesare Segre, il quale non
reputa irriguardoso il celeberrimo appellativo coniato da Gianfranco Contini che definì Francesca una
“piccola intellettuale di provincia”. Dante non ripudia le teorie dello stilnovo, in quanto riconosce in esse la
radice della perdizione dei due cognati (si veda in proposito anche PAOLO NICOSIA, “E il modo ancor
m’offende” V 102 in Alla ricerca della coerenza. Saggi d’esegesi dantesca, casa editrice G. D’Anna MessinaFirenze, 1967). Il linguaggio di Francesca, così innocentemente e forse ingenuamente intarsiato di echi
letterari, rappresenta sì un’antifrasi alla teoria dell’amore angelicato, nella misura in cui, però, la passione,
pur nella sua naturale e comprensibile fenomenologia umana, ha impedito l’esercizio dello “fedele consiglio
della ragione”. E non si può prescindere dal fatto che a Dante poeta non sia stata del tutto estranea la
concezione della fatalità ineluttabile dell’Amore contro il quale non vale il libero arbitrio. Si ricordi, a mero
titolo esemplificativo, il sonetto responsivo a Cino, “Io sono stato con amore insieme”, di cui citiamo le
terzine finali:
Però nel cerchio de la sua *d’Amore+ palestra
liber arbitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco,
e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra,
seguitar si convien, se l’altro è stanco.
Indubbiamente non è fuori luogo avvertire una tragica ironia nella vicenda narrata da Francesca, che
enuncia una teorica nella quale amore e morte non sono più solo veicolo verbale di un erotismo sublimato
e spirituale, insomma parole e simboli (come nelle rime dello stesso Dante) riferiti a donne astratte o
“angelicate”, ma diventano didascalia, per quanto di registro alto per non dir sublime, di una cronaca che
ha per protagonisti due che “tinsero il mondo di sanguigno” (V, 90). Dante non può rimanere indifferente di
fronte a una storia vera, finita nel sangue, i cui due protagonisti, uccisi e dannati per l’eternità, sono i
‘testimonial’ di quello “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” (V, 100). Non è altresì del tutto fuori luogo
l’ipotesi secondo la quale se Francesca utilizza un elegante linguaggio amoroso è forse per nobilitare e
purificare una passione (che per lei è comunque sempre amore), generatrice di disordine e lutto; ma –
ammesso e non concesso che Dante le abbia attribuito questa intenzione – rimane il fatto che il discorso di
Francesca non suona mai come una posa intellettuale: in fondo, ella si confessa a uno sconosciuto (cioè a
Dante) dipingendo di sé il ritratto di una donna che non ammette la colpevolezza del suo amore, e che anzi
–a dispetto della condanna –lo ritiene sostanzialmente legittimo, proprio in virtù di quell’Amore “che al cor
gentil ratto s’apprende”.
(3) “…e tu allor li priega / per quello amor che i mena, ed ei verranno” (vv. 77-78).Potrò anche aver
sbagliato, ma io ho sempre inteso l’espressione “per quello amor che i mena” nel senso più immediato e
cioè: pregali per quell’amore che li conduce, che li trasporta. La Chiavacci Leonardi nel suo commento (op.
cit.supra, pag.4) interpreta diversamente identificando, sulla scorta del Poletto, “quello amor che i mena”
con la bufera tout-court.
(4) Per una ricognizione delle principali interpretazioni del termine “ruina” si rimanda alla relativa voce di N.
Mineo, in ED, e infra (pagg.15-16). E. MALATO(in Dottrina e poesia nel canto di Francesca. Lettura del canto
V dell’Infernoin STUDI SU DANTE, Bertoncello Arti grafiche, 2005, Padova, 2005, nota 41 pag.73 sgg)
ricorda, come premessa a un suo personale contributo sulla vexata quaestio, che l’orientamento prevalente
della critica moderna è verso la quart’ultima delle soluzioni da lui riportate in nota, cioè la frana provocata
dal terremoto (Torraca, Sapegno, Porena, Chimenz, Singleton, Bosco-Reggio, Pasquini, ecc.) che si è
prodotto al momento della morte di Gesù: “Assai controversa, com’è noto, è l’interpretazione di ruina in
questo passo, tra i più incerti e discussi già presso i commentatori antichi. I valori di volta in volta proposti
sono: l’impeto del vento; il ruinare dei peccatori travolti dal vento (BOCCACCIO, Esposizioni….); uno
scoscendimento della roccia lungo il quale le anime si precipitano nel cerchio; la sponda rocciosa della
voragine infernale; il dirupo formatosi in seguito al terremoto che –come sarà spiegato altrove: Inf. XII 3745, XXI 112-114 –si è prodotto al momento della morte di Gesù; la foce (E.G. PARODI, Note per un
commento alla Divina Commedia, ora in ID., Lingua e letteratura, a cura di G: FOLENA, Vicenza, Neri Pozza,
1957, vol. II pp.328-98, a pag. 343) dalla quale spira il turbine del vento; un dirupo che sovrasta il cerchio
successivo; “la turba ruinante degli spiriti già dannati, la quale prende davanti a sé e investe i nuovi arrivati”
(L. CASSATA, Tre cruces dantesche –I La ruina dei lussuriosi […+ in SD, vol. XLVIII 1971, pp. 5-14, a pag. 13),
ecc.
(5) La similitudine delle colombe “dal disìo chiamate” che volano come dal “voler portate”, è presa da
Virgilio:
Qualis spelunca subito commota columba,
cui domus et dulces latebroso in pumice nidi,
fertur in arva volans plausumque exterrita pinnis
dat tecto ingentem, mox aere lapsa quieto
radit iter liquidum celeris neque commovet alas:
sic Mnestheus…
(Aen., V, 213-217)
Come una colomba, presa da improvviso timore,
da una grotta (dove ha la casa e il dolce nido in un anfratto
di pietra), si slancia volando per i campi – per la paura risuona
forte il colpo d’ala sotto il tetto, poi planando
nell’aria serena solca il cielo chiaro e non muove le ali veloci,
così Mnesteo…
(traduzione mia)
Siamo alle gare delle navi, e il secondo termine di paragone è la Pristi di Mnesteo che si slancia sul mare,
approfittando di un incidente occorso a un avversario. Dante si dimostra abile innovatore anche in questo:
della similitudine di Virgilio –che ha un valore prettamente decorativo – prende l’essenziale umanizzandola
ancor di più: anche perché in questo passaggio del canto V, la similitudine delle colombe deve rafforzare,
sul piano figurativo e concettuale, il forte contrasto tra “quei due che ‘nsieme vanno E paion sì al vento
esser leggeri” (vv.74-75), e la turba di anime dannate sbattute dal vento come gli stornelli. I due amanti
romagnoli non sono trascinati dalla “bufera infernal, che mai non resta”, la quale travolge invece tutti gli
altri “spiriti mali”, bensì condotti ai due poeti dal vento come le colombe portate dal desiderio. Secondo il
più diffuso orientamento interpretativo, i due paiono essere leggeri, cioè più veloci e docili al vento perché
–come chiosa il Sapegno, citando a supporto anche Landino e Vellutello – in essi “sopravvive e li domina,
come tutti gli altri del resto, ma, si direbbe, in maggior misura, la passione alla quale cedettero da vivi”. In
Francesca e Paolo si manifesterebbe con maggior rigore il contrappasso, perché essi non fanno resistenza al
vento come non la fecero in vita al turbinio della passione.
Rileggiamo un attimo la terzina dantesca:
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir…
Non pochi commenti, e dei più autorevoli –dal Vandelli al Sapegno fino alla Chiavacci Leonardi – riportano il
punto e virgola dopo “dal voler portate”, che quindi si riferirebbe alle colombe. Diversamente, nel
commento di Salinari-Romagnoli-Lanza (Editori Riuniti, 1980, nota a verso 84) il punto e virgola è prima
dell’espressione “dal voler portate”: “Assai giustamente il Pagliaro ha proposto di interpungere con un
punto e virgola prima di questa espressione, che si riferisce alle anime, non certo alle colombe, poiché ‘una
siffatta interpunzione urta contro la differenza che Dante esplicitamente rileva fra l’anima degli animali e
quella dell’uomo, in quanto i primi sono capaci solo d’istinti e, quindi, non di volere” (nota ad locum).
Personalmente concordo con questa proposta, perché non si capisce in base a quale motivazione critica le
due anime richiamate dall’affettuoso grido di Dante, dovrebbero avvicinarsi a lui spinte esclusivamente
dall’istinto amoroso delle colombe: perché togliere a questa coppia così singolare qualunque volontà
umana? La soluzione comune di riferire “dal voler portate” alle colombe, facendo del termine “volere” un
sinonimo di “disio”, ha il vantaggio di annullare il più possibile le differenze tra la coppia unita e gli altri
“spiriti mali”, aggravando così la colpa della passione, tempesta dell’anima che annulla volontà e ragione.
(6) Il verso “quel giorno più non vi leggemmo avante” non è d’immediata comprensione. Si tratta
certamente di una reticenza da parte di Francesca, che taglia con abile dissolvenza l’epilogo della vicenda
lasciando all’uditore (e ai lettori) il compito –invero non proprio semplice –di trarre le dovute conseguenze.
Secondo me, è più in tono con lo stile e l’atmosfera della narrazione sentire in quella reticenza una
risonanza tragica: è come se Francesca volesse dire ‘dopo quel bacio non proseguimmo più nella lettura di
quel libro e tu Dante puoi ben capirne il motivo, visto che siamo qui, nell’Inferno”. In altre parole, è un
modo elegante per dire: quel bacio ci impedì di andare avanti nella lettura perché quel bacio ci costò la vita.
Esiste anche un modo più banale –ma non meno plausibile –di interpretare il verso: quel giorno non
proseguimmo nella lettura perché eravamo impegnati a baciarci e fare l’amore. Ma mi sembra alquanto
riduttivo attribuire a Francesca una simile banalità. Nel commento di Carlo Salinari all’Inferno (La divina
Commedia, a cura di Carlo Salinari, Sergio Romagnoli, Antonio Lanza, Editori Riuniti, 1980) si legge nella
nota al verso 138: “il verso non racchiude alcun sottinteso né tanto meno allude a un’immediata uccisione
dei due amanti. Significa semplicemente che per quel giorno essi non poterono continuare quella lettura”.
(7) Non sfugga il sottinteso –forse vagamente ironico –di quel “ma”: Francesca –dice Dante –i tuoi
tormenti (“martiri”), mi spingono a piangere addolorato e pietoso (“tristo e pio”), ma (mio il corsivo) dimmi
“a che e come” (a quale indizio e in quale occasione: Casini-Barbi) concedette amore Che conosceste i
dubbiosi disiri?”. Nota Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento: “il ma dimmi introduce, come più
volte nel dialogo del poema, con la domanda nuova, il motivo centrale (cfr. II 82 e nota). Qui si chiede
appunto la cosa che più preme”. Appunto, la cosa che più preme a Dante personaggio eviator è capire la
dinamica dei fatti, non le enunciazioni teoriche, a lui, autore, peraltro note. Quel “ma” non è solo una
congiunzione di passaggio: “…l’avversativa ma dimmi e la circostanziata articolazione della domanda –a che
e come –sono il segnale della differenziazione, della provocazione alla verità, alla conoscenza dell’unicum
del momento reale sottratto alla delegazione delle responsabilità, alla genericità delle convenzioni e a tutti,
anche i più legittimi, travestimenti”. (ANGELO JACOMUZZI, “Quando leggemmo…” Nota sul canto V
dell’Inferno in L’imago al cerchio, Franco Angeli letteratura, 1995, pag. 160)
(8) La lettura del libro galeotto da parte di Francesca e Paolo introduce il motivo della fiction che diventa
realtà o della realtà che imita la fantasia, con l’aggravante dell’epilogo sanguinoso. È un gioco di specchi:
nel libro letto trepidamente dai due amanti romagnoli, Ginevra, che è sposata ad Artù, è baciata da
Lancillotto che è innamorato di Ginevra; sensale del bacio –e indiretto incitatore al tradimento –è Galeotto;
e nella realtà narrata da Francesca la funzione di Galeotto è assunta dal libro che essi leggono: Paolo,
innamorato di Francesca, bacia Francesca, già sposata. Paolo sta a Lancillotto, come Francesca sta a
Ginevra…ma Francesca e Paolo non sono nel dorato mondo cavalleresco. È la vita con il suo caso fatale e
proditorio (il destino cinico e baro!) a imitare la fantasia, o quest’ultima a scatenare processi di emulazione
(la storia narrata da Francesca docet) dalle conseguenze, ahimè, tragiche?
(9) Gli svenimenti e i sonni di Dante sono il correlativo di processi mentali che richiamano la sfera del
risveglio e del dubbio. Tra il III e il IV canto dell’Inferno Dante cade “come l’uomo che’l sonno piglia” (III,
136) e riprende i sensi come “persona ch’è per forza desta” (IV, 3). Il sonno è preceduto da un terremoto, il
risveglio è causato da un forte tuono. Questo forte tuono che romba nella testa di Dante non è un
fenomeno solo esterno:
Ruppemi l’alto sonno nella testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
(IV, 1-2)
Dante non attraversa l’Acheronte ed è lo stesso Caronte che gli dice:
Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare;
più lieve legno convien che ti porti.
(III, 91-93)
Siccome Dante è anima viva, come nota subito l’antico nocchiero, non può passare l’Acheronte. Egli è, nel
significato letterale, vivo, e dunque non può entrare nel regno dei morti per la via normalmente e
obbligatoriamente seguita da quelli che “muoion nell’ira di Dio”. Ma è anche vivo sul piano spirituale, non è
un peccatore, non è morto nello spirito, essendo il viaggio con Virgilio un’istruttiva discesa nel male voluta
per Grazia divina. Il terremoto e il mancamento di Dante rappresentano dunque efficaci espedienti narrativi
per risolvere questa empasse tecnica, e far saltare il lettore direttamente dalla riva dell’Acheronte al primo
cerchio con una dissolvenza degna di un regista cinematografico. Il risveglio simbolico di Dante nel I
cerchio, regione del peccato originale, nella quale sono condannati coloro che non conobbero le tre virtù
sante, vuole proprio alludere al fatto che il poeta non passa l’Acheronte perché passare l’Acheronte vuol
dire essere anime morte nel peccato tout-court; egli si ritrova ugualmente al di là del fiume infernale,
risvegliandosi dal sonno (che sarebbe in realtà una rinascita, una morte simbolica del peccatore), così come
nel sogno del IX del Purgatorio immagina di essere portato in alto da un’Aquila e si risveglia sul primo
ripiano della montagna. Virgilio spiegherà che quell’Aquila è Lucia, mentre non ci viene detto nulla su come
si è materialmente verificato il passaggio dal Vestibolo al primo cerchio.
Il sonno che coglie Dante alle sponde dell’Acheronte potrebbe simboleggiare la morte al peccato originale,
quale avviene nel battesimo. Essendo il primo cerchio, quello dei non battezzati, immediatamente
successivo all’Acheronte, egli doveva significare in qualche modo che il primo passo per il risveglio dello
spirito si compie con il battesimo: Dante si risveglia infatti nel Limbo
E l’occhio riposato intorno mossi
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi
(IV, 4-6)
Non potendo il passaggio dell’Acheronte rappresentare il battesimo, perché chi attraversa l’Acheronte è già
un’anima dannata, l’unico modo per alludere simbolicamente alla morte mistica, che cancella il peccato
originale, era quello di ricorrere alla metafora del sonno. L’Inferno si apre con il cerchio del peccato
originale che è la prima radice del male dell’umanità. Chi si risveglia da tale peccato (chi si desta dal sonno)
rinasce spiritualmente.
La prima morte simbolica di Dante sarebbe dunque quella mistica rappresentata dal sonno che coglie il
poeta al di qua dell’Acheronte: egli simboleggia l’umanità redenta dal peccato originale.
Un’altra morte simbolica sarebbe appunto quella registrata alla fine del V canto: la pietà che prova nei
confronti di Paolo e Francesca lo fa cadere “come corpo morto cade”, evento che simboleggia la vittoria
sulla lonza, emblema della lussuria. È proprio nel canto dei lussuriosi che si accenna alla prima delle tre
“ruine”, le frane in corrispondenza del cerchio V, VII e VIII, causate dal terremoto provocato dalla discesa di
Cristo nel Limbo. Grazie all’intervento di un Messo divino che apre le porte di Dite, Dante registrerà un’altra
vittoria, quella contro i diavoli e Medusa: la ragione illuminata dalla fede ha la meglio sull’errore. La discesa
del Messo è annunciata infatti da fenomeni analoghi al terremoto che precede immediatamente il sonno di
Dante tra III e IV canto. Dite è l’Inferno del Leone, e nel cerchio dei violenti Dante descrive la seconda
“ruina”.
Il passaggio in groppa a Gerione che ingannato dalla corda trasporterà Dante e Virgilio nelle Male Bolge,
segna la quarta vittoria, quella contro la fraudolenza. Nell’Inferno della Lupa, tra quinta e sesta bolgia, vi è
anche la terza “ruina”.
Il sonno tra III e IV canto e l’intervento del Messo nel IX, accompagnati da terremoto e vento,
rappresentano dunque allegoricamente due esempi di rinascita spirituale, l’una nel segno del Battesimo,
che è porta a quella Fede che Virgilio non ebbe, l’altra nell’ambito della Speranza, una delle virtù teologali
che lo sguardo pietrificante di Medusa potrebbe ammutolire del tutto nell’anima di Dante. Il mancamento
di fronte alla tragedia di Francesca e il trucco della corda che richiama dal fondo delle Male Bolge la
creatura triforme, Gerione, simbolo di fraudolenza, registrano simbolicamente due vittorie della ragione:
sui sensi e sull’inganno. Riassumendo:
INFERNO DEL PECCATO ORIGINALE Vittoria sul peccato originale (sonno tra III e IV canto, risveglio nel Limbo
= battesimo) virtù teologale corrispondente: fede opposta a peccato originale
INFERNO DELLA LONZA Vittoria sulla carne (prima ruina: canto V lussuriosi, Dante cade “come corpo morto
cade”) Dante supera l’amore sensuale. Virtù: ragione opposta a passione
INFERNO DELL’ERESIA E DEL LEONE, seconda ruina
Vittoria sull’errore (Medusa) che impietra, vittoria sull’errore (Messo divino, Dite, Inferno della violenza).
virtù teologale corrispondente: speranza opposta a ottenebramento spirituale
INFERNO DELLA LUPA, terza ruina
Vittoria sull’inganno (Gerione), virtù corrispondenti: umiltà e carità opposte a superbia e invidia
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