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Il V Canto dell`Inferno
Il V Canto dell'Inferno (di Roberto Pacifico) Il canto di Paolo e Francesca I Contraddizione fra la condizione di peccatrice e di dannata che il poeta attribuisce a Francesca e il profilo che egli ne offre.II. Alcune differenze tra i lussuriosi puniti nel 2° cerchio dell’Inferno e i lussuriosi sull’ultimo ripiano del Purgatorio. “Amore” è una delle parole chiave del discorso di Francesca. III.“Ora incomincian le dolenti note”: descrizione del cerchio e dei dannati: “i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento”. Presentazione di Francesca e Paolo. IV.L’eccezionalità della condizione riservata ai due “cognati”: uniti nell’amore, uniti nella dannazione. Il punto di vista del Foscolo e le correzioni del Barbi. Struttura del discorso di Francesca, che si divide in 5 parti. Commento e valutazioni. V. “e caddi come corpo morto cade”. Una prospettiva critica superata: il simbolismo della catarsi e la vittoria di Dante sull’amore carnale (le quattro vittorie di Dante nell’Inferno, secondo una tradizione interpretativa di scuola simbolista). I Credo non vi sia migliore premessa, nel cominciare un intervento sul canto di Paolo e Francesca (1), che muovere dalle parole introduttive di un celebre saggio, la Francesca da Rimini di Michele Barbi, certamente datato (la sua pubblicazione nel volume XVI degli Studi Danteschi risale al 1932), ma secondo me sotto certi aspetti ancora attualissimo. Ecco che cosa scrive il grande dantista: “Nessun episodio del poema ha dato luogo a tante e sì diverse ricostruzioni critiche come quello di Francesca e Paolo. Forse a prenderlo per il suo verso è parso troppo semplice, e s’è cercato d’accrescerne la poeticità per virtù d’esegesi. Ma il valore del critico non si manifesta nel sapere dar nuovi e più vivaci colori alle creazioni dell’arte, bensì nel riprodurre in sé e agli occhi del lettore la visione e il sentimento del poeta con la maggior fedeltà”. Sono parole, queste, dotate di un valore metodologico che va ben al di là dell’occasione critica che le ha suscitate. Le prime pagine del saggio di Michele Barbi sono dunque dedicate alla discussione e alla rettifica di alcune celeberrime interpretazioni –in particolare quelle di Ugo Foscolo e Francesco De Sanctis – che deriverebbero, pure esse, dal vezzo di non pochi studiosi, anche seri, di avventurarsi “alla ricerca della poesia fuori dalle usate e più sicure vie, prendendo a guida la loro filosofia della vita, la loro esperienza di uomini, senza curarsi di tener presso di sé anche la filologia, fida compagna delle loro consuete indagini. Così tutti dietro alla loro fantasia invece che a Dante”. Il Barbi ha forse ragione: è sforzo sisifeo voler tentare nuove soluzioni interpretative strimpellando con tocco da musici domenicali su una tastiera critica che ha visto scorrere sia gli arpeggi virtuosi di esecutori d’altissima scuola sia le prove tentennanti di timidi allievi ancora impreparati, seppur volenterosi. Ma nella succitata lettura, una domanda non si è posto il grande dantista, una domanda che condensa dubbi capitali e sempre nuovi nella lettura del canto V dell’Inferno: è infatti molto forte in noi –lettori forse non usi a filologica acribia – la tentazione di affermare senza reticenze che Dante si è sbagliato a mettere nell’Inferno quella coppia di timidi amanti gentili; e così, nel dubbio, preferiamo imboccare il sentiero –seducente, ma non privo di rischi – del simbolismo o dell’interpretazione allegorica, la quale porta a chiarire, o a giustificare concettualmente, ciò che pare incoerente sul piano letterale. La domanda rampolla, però, da dubbi fondati. E ci conforta il fatto che più o meno la medesima Schluesselfrage sia stata posta anche da un altro importante studioso di Dante, questa volta contemporaneo: mi riferisco a Enrico Malato, il quale, nella sua lettura del quinto canto (che risale al 1986, raccolta successivamente in un ponderoso ma importantissimo volume che ritengo imprescindibile per chi voglia accostarsi con cognizione di causa a questo e ad altri capitoli della Commedia), coglie in pieno l’unico vero problema di fondo che rende, e continuerà a rendere, inquieta e irrisolta la lettura del V canto: “Effettivamente ciò che può disorientare –e, si è visto, ha disorientato – anche lettori tutt’altro che sprovveduti, come Foscolo e De Sanctis e tanti altri, è l’apparente profonda contraddizione fra la condizione di peccatrice e di dannata che il poeta attribuisce a Francesca e il profilo che egli ne offre[mio il carattere corsivo]: connotato non soltanto e non tanto da una gentilezza aristocratica assolutamente insolita nell’immagine dei dannati, quanto da una profonda umanità, dolente e appassionata, da una delicatezza di accenti e di tratto che può suggerire l’impressione, a chi fermi l’attenzione particolarmente sulla seconda parte del canto, di un atteggiamento indulgente di Dante verso il suo personaggio. Fino a immaginare una conseguente impossibile clemenza di Dio verso ‘que’ poveri amanti’, come azzardò il Foscolo, o un altrettanto inverosimile riscatto dalla colpa, come suggerì il De Sanctis”. (Studi su Dante, Bertoncello Arti Grafiche, Padova 2005, pagg. 53-54). Non mi soffermo, per ora, sulle interpretazioni di Foscolo e De Sanctis, ma, al di là di questo, la domanda fondamentale che ogni lettore deve porsi è proprio questa –e lascio di nuovo la parola a Enrico Malato: “In che cosa consiste il peccato? Ormai alla fine della lettura del canto, ci rendiamo conto che il peccato di Francesca e Paolo non ha trovato una precisa definizione nel testo dantesco [mio il carattere corsivo], dove è detto soltanto che in quel secondo cerchio sono puniti ‘i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento’. Sennonché mentre della regina degli Assiri, Semiramide, è detto che ‘a vizio di lussuria fu sì rotta / che libito fè licito in sua legge’, di Didone che ‘s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo’, di Cleopatra che fu ‘lussuriosa’, e così di Elena e Achille e degli altri è data una breve indicazione o soltanto il nome, comunque sufficiente, per la notorietà della storia, a render chiara la qualità e la gravità della colpa da ciascuno commessa, il rapporto di Paolo e Francesca è definito sempre e soltanto come rapporto d’amore…e l’amore di per sé non è, non può essere peccato, finché –come Dante ha avvertito– non ci sia il cedimento della ragione sotto la spinta impetuosa della passione. Dove sia il discrimine tra amore lecito e illecito, il confine al di là del quale si giudica la ragione sottomessa al talento…non è detto né lasciato intendere da Dante in alcun luogo del canto”. (ibidem, pagg.96-97). II Le parole di E. Malato riassumono benissimo una dellethorniest questions che costituiscono il delizioso tormento esegetico provocato ogni volta dalla lettura del canto V dell’Inferno: dov’è, dunque, la lussuria in Francesca? O, per porre la domanda in termini più generali, dov’è il benchmark, il parametro morale ed empirico che Dante fissa per definire oggettivamente, nei limiti di un’oggettività poetica, la nozione di lussuria, di peccato carnale? E se anche Semiramide e Cleopatra sono certamente exempla di lussuria, se non altro perché “lussuriosa” è definita esplicitamente da Dante Cleopatra, mentre Semiramide “a vizio di lussuria fu sì rotta”, si può ascrivere alla categoria dei “peccator carnali” anche chi, come Francesca, nel punto apicale della rievocazione del suo peccato, racconta di essere stata baciata dall’amante che accosta le sue labbra alle labbra della donna, per giunta “tutto tremante”, espressione che esprime certo esitazione e timidezza, piuttosto che impeto e ardore sensuale? Sì, perché è questa la massima trasgressione in materia sessuale che Francesca descrive: un bacio, dopo il quale la donna chiude il racconto con due versi concisi, lapidari, e secondo me –soprattutto l’ultimo (“Quel giorno più non vi leggemmo avante”, 138) –più tragicamente definitivi che reticenti ed eroticamente allusivi. È infatti l’adulterio il principale, se non l’unico, peccato della coppia, non l’essersi innamorati l’uno dell’altro, presi nel vortice irresistibile di quell’amore “che al cor gentil ratto s’apprende” (2). Conviene, a questo punto, ripartire da capo muovendo da un confronto che, se non erro, non risulta molto praticato nelle letture dantesche: il parallelo tra lussuriosi infernali e lussuriosi del Purgatorio. Nel canto XXVI del Purgatorio, coloro che purificano nel fuoco i peccati di lussuria sono chiaramente divisi in due schiere, omosessuali ed eterosessuali. Attraverso le parole di una delle ombre –che dichiarerà essere Guido Guinizelli, il celebre poeta volgare del XIII secolo, precursore dello stilnovo – Dante circoscrive il vizio capitale della lussuria in termini molto diversi, e senza dubbio più diretti, di quanto aveva fatto precedentemente, nella prima fase del suo viaggio ultraterreno, quando, nel secondo cerchio dell’Inferno, aveva visto, enumerate da Virgilio, le anime dannate eternamente per lussuria. Fra esse, in primo piano, si staglia liricamente come protagonista di uno dei più famosi episodi della Commedia la coppia formata da Francesca e Paolo, uniti per sempre dal legame dell’amore e della dannazione. Pur nella diversità delle pene, ciò che accomuna i lussuriosi dell’Inferno, sbattuti e trascinati dal vento, ai lussuriosi del Purgatorio avvolti dalle fiamme, è certamente l’appartenenza alla categoria dei “peccator carnali” (Inf. V, 38). Nel Purgatorio, però, la definizione del peccato carnale si focalizza in modo più esplicito sull’aspetto prettamente sessuale, mentre nell’Inferno i “peccator carnali” sono coloro che “la ragion sommettono al talento”. Sull’ultimo ripiano del monte che “’nverso il ciel più alto si dislaga” (Purg. III, 15), Dante vede due file procedere in senso contrario: ogni volta che s’incontrano, le ombre si baciano “sanza restar, contente a brieve festa”, e sono paragonate a formiche che l’una con l’altra “s’ammusano”, si toccano con il muso saggiandosi a vicenda. Appena finiscono l’accoglienza amica i peccatori contro natura gridano “Soddoma e Gomorra” e gli eterosessuali: “Nella vacca entra Pasife, perché'l torello a sua lussuria corra”. Fra questi ultimi vi è, appunto, Guido Guinizelli, il poeta di “Al cor gentil repara sempre Amore”, un verso che riecheggia nelle parole di Francesca: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inf. V 100): una teoria dell’amore che Dante aveva richiamato nella Vita Nova, nel sonetto “Amore e’l cor gentil sono una cosa”. Con il verso “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” Francesca comincia a ricordare una vicenda che ruota, appunto, in modo quasi ossessivo –la parola ricorre almeno sei volte nella rievocazione dolente e dignitosa di Francesca –sul termine “amore”. Amore, non lussuria né passione: ché l’espressione “mal perverso” usata da Francesca nel suo primo rivolgersi a Dante mi sembra più genericamente adatta a qualificare tutti i peccatori di quel cerchio o almeno una delle due schiere, quella “ov’è Dido”, dalla quale esce graziosamente la celebre coppia di amanti, paragonata a due colombe dal “disìo chiamate” che “vegnon per l’aere dal voler portate”. Abbiamo detto che la parola “Amore” è uno dei termini chiave su cui ruota la rievocazione di Francesca: ma la parola “Amore” compare altre quattro volte, fuori dalla cornice discorsiva che inquadra la confessione della donna protagonista assoluta del canto. Per amore (“Amorosa”, V, 61) si uccise colei –Didone– che “ruppe fede al cener di Sicheo”; Dante usa poi il termine “amore” quando accenna ad Achille “che con amore al fine combatteo” (V, 66), quando si riferisce alle “più di mille / ombre” (si noti l’enjambement) “ch’amor di nostra vita dipartille” (69), e, poco più avanti, quando esprime a Virgilio il desiderio di parlare “a quei due che ‘nsieme vanno /e paion sì al vento esser leggieri”; al che Virgilio risponde che quando i due si avvicineranno, Dante potrà rivolgersi a loro pregando “per quello amor che i mena”. E non sfugga, però, che in quest’ultimo caso “la bufera è qui identificata, senza residui, con quello amor che in vita travolse le due anime” (nota al verso 78 nel commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Inferno, Mondadori, febbraio 2005). (3) La prospettiva morale nella quale si colloca il quinto canto dell’Inferno conduce perciò il lettore in una direzione interpretativa ambivalente, per non dire ambigua, perché l’amore è concetto ed esperienza dai confini ben più ampi della lussuria, la quale suggerisce, come ben tutti possono immaginare, un appetito dei sensi che nulla può aver da spartire con quella tempesta dell’anima e del cuore che è appunto l’amore. Nel Purgatorio, la parola “amore” compare sì, ma con un preciso riferimento all’esperienza letteraria: Guido è infatti “il padre/mio e delli altri miei miglior che mai/rime d’amore usar dolci e leggiadre” (XXVI, 98-99); ma ritorniamo un attimo indietro e vediamo come Guido definisce il peccato di lussuria, suo e dei suoi compagni di pena: Nostro peccato fu ermafrodito; ma perché non servammo umana legge, seguendo come bestie l’appetito, in obbrobrio di noi, per noi si legge, quando partinci, il nome di colei che s'imbestiò nelle'mbestiate schegge. (Purg., XXVI, 81-87) Mai, nel secondo cerchio dell’Inferno, Dante accenna alla sfera della bestialità, come fa qui nel Purgatorio, dove il concetto di bestialità legato all’appetito sensuale e sessuale si esprime nella pesante ed efficacissima annominazione “bestie…s’imbestiò nelle ‘mbestiate”, la cui antitesi è proprio nel celebre poliptoto del canto V dell’Inferno: “amor, ch’a nullo amato amar perdona”, parole nelle quali Francesca condensa l’ineluttabilità di un’esperienza –quella dell’amore –che sembra non lasciare margini di fuga a chi ne è “preso”. Persino la figura di Semiramide, che “a vizio di lussuria fu sì rotta / che libito fè licito in sua legge” (V, 5556), è tratteggiata con termini dai quali, secondo noi, non prorompe la stessa dose di riprovevole trasgressione che connota il peccato “ermafrodito” descritto dal Guinizzelli. Nell’Inferno, “Cleopatràs” è semplicemente “lussuriosa”, per quanto la dieresi su questo aggettivo e la pronuncia quadrisillabica di Cleopatràs conferiscano all’intero verso una musicalità così rallentata da suggerire un forte rilievo critico. Ma l’evocazione del mito di Pasifae, moglie di Minosse e madre del Minotauro, che si fece costruire una finta vacca nella quale nascondersi “perché ‘l torello a sua lussuria corra” (XXVI, 42), cioè per attirare l’animale e favorirne la penetrazione, è immagine ben più inquietante e potente, di una potenza tutta infernale. III Dante e Virgilio incontrano all’ingresso del secondo cerchio Minosse, il giudice dell’Inferno, che “orribilmente ringhia”. Ora incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in luogo d'ogni luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina: voltando e percotendo li molesta. (Inf. V, 25-33) Il ricamo musicale di questi versi è, come spesso accade in Dante, di una raffinatezza squisita: la sapiente orchestrazione fonica –con le riduzioni vocaliche che giocano sulle dominanti scure della i e della u in armonia imitativa con l’alternanza delle a, le allitterazioni (dolenti note, molto pianto mi percuote,luogo d’ogne luce muto) e la disseminazione timbrica di certe consonanti come le labiali m e p – contribuiscono a riprodurre in una partitura quasi onomatopeica il quadro infernale dominato dal buio e dalla forza violenta del vento. Quando gli “spirti”, spinti dal vento, giungono alla “ruina” (4) si levano urla di dolore e lamenti: “quivi le strida, il compianto, il lamento”. La sofferenza delle anime culmina nell’acme della bestemmia alla “virtù divina”. Dante capisce (“intesi”) di trovarsi di fronte ai “peccator carnali/che la ragion sommettono al talento”, trascinati da un vento che “di qua, di là, di giù, di su li mena”, come fossero stornelli che vanno nel freddo tempo a schiera larga e piena. Alla similitudine degli stornelli, si aggiunge un altro paragone che assimila queste ombre “portate dalla detta briga” (cioè dal sopraddetto vento) a una fila di gru ...che van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, (Inf. V 46-47) La bufera infernale che mai non “resta” e che trasporta e sbatte i “peccator carnali” è la materializzazione simbolica di una passionalità che in vita ha travolto la loro ragione, sovvertendo i limiti e le regole imposte dalla razionalità. Dante chiede a Virgilio chi sono le genti “che l'aura nera sì gastiga”. Virgilio comincia, così, a indicare illustri esempi di lussuria; nell’ordine: Semiramide, la quale A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge (Inf. V, 55-56) Poi Didone “che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo”. Cleopatràs lussuriosa; Elena “per cui tanto reo tempo si volse”. Il grande Achille che “con amore al fine combatteo”. Poi Paride, Tristano, “e più di mille/ombre…ch'amor di nostra vita dipartille” (vv.67-69). Dopo aver visto la rassegna dei peccatori descritti da Virgilio, Dante esprime il desiderio di parlare a due in particolare che sono trasportati, più che trascinati, dal vento, sì da parere “leggieri”. Ciò che attrae l’attenzione di Dante è che, mentre gli “spiriti mali” ondeggiano in balia della tempesta come tanti uccelli che roteano impazziti nell’aria ora divisi e sparpagliati a somiglianza di grano lanciato dal ventilabro, ora l’uno dietro l’altro a formare casualmente una riga come fossero gru che scorrono in cielo emettendo lamenti, quei due che “paion sì al vento esser leggieri” sono una coppia, abbracciata, unita pur nell’imperversare della bufera, evidentemente sempre insieme, a differenza delle altre ombre che si mescolano e separano senza compagno. È questa la singolarità che spinge Dante a soffermarsi su quella coppia di anime affannate pregandole di avvicinarsi, se Dio lo permette (“s’altri nol niega”). Non appena il vento li piega verso il poeta ansioso di parlare loro, le due anime si staccano dalla schiera con la graziosa levità di due colombe che si librano nell’aria con le ali aperte e ferme: Quali colombe, dal disio chiamate, con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere dal voler portate; cotali uscir della schiera ov'è Dido, sì forte fu l'affettuoso grido. (V 82-87) Il dettaglio delle ali “alzate e ferme” sottolinea ancor più la leggerezza del volo, quasi che i due spiriti non avessero bisogno del vento per lasciarsi trasportare verso il luogo al quale sono richiamati dall’invito affettuoso di Dante, condotti non dalla bufera, ma dal loro desiderio (5). Le colombe erano sacre a Venere: nel libro VI dell’Eneide, v.193, Enea, figlio di Venere, le definisce "maternae aves”. Il paragone delle colombe, con le sue evidenti ascendenze classiche, introduce una connotazione graziosa, un tratto che ingentilisce i primi tocchi del quadro lirico che Dante, attraverso le parole di Francesca, andrà sviluppando. Dal momento in cui Dante si accorge di quella coppia singolare, il quadro lirico del canto cambia tonalità, ma anche prospettiva. Dante aveva già dichiarato la sua pietà al sentire nominare da Virgilio “le donne antiche e’ cavalieri” (V, 71), al punto da sentirsi “quasi smarrito”. Le donne antiche e i cavalieri alludono senza dubbio anche a quelle figure della storia antica e recente, che Virgilio aveva appena indicato a Dante; fra esse, Didone, Elena, Achille, Paride e Tristano: Didone senza Enea, Tristano senza Isotta, Paride senza Elena, Achille senza Polissena. A queste metà, lasciate sole nella bufera, fa riscontro una coppia unita nella vita e nella morte. Anche se nel novero delle donne antiche verso le quali Dante prova pietà potrebbero non rientrare Semiramide e Cleopatra, i lussuriosi dell’Inferno, almeno a giudicare dalle ombre che Virgilio indica e nomina a Dante, non sono comunque peccatori qualunque, ma personaggi di rango elevato: regine (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena), eroi come Achille (“il grande Achille”), e cavalieri come Tristano. Ripetiamo: l’etichetta di lussuriose applicata senza reticenze a Semiramide e Cleopatra, non sembra deteriorare più di tanto il quadro infernale di “quelle / genti che l’aura nera sì gastiga” (V, 51). La rassegna degli spiriti additati da Virgilio è ancora indice di una tensione epica, perché la risonanza di quei nomi, antichi e regali, conferisce al quadro una patina arcaica e nobile: se non fossimo nel cerchio dei lussuriosi, potremmo quasi confonderci con il nobile castello del Limbo. Ma se anche la pietà che coglie Dante nell’udire da Virgilio i nomi delle donne antiche e dei cavalieri può verosimilmente escludere le libidinose Semiramide e Cleopatra, è fuor di dubbio che da questo punto in poi della narrazione sparisce dall’orizzonte lirico e morale l’idea e l’immagine della lussuria per lasciare il campo a un’esperienza ben più complessa qual è l’amore. Non è certo un caso che i due amanti escano fuori dalla schiera “ov’è Dido”. Didone –già presentata con la perifrasi “colei che s’ancise amorosa / e ruppe fede al cener di Sicheo” – affiora nuovamente come presentimento della tragedia che verrà poi narrata da Francesca. La quale non rivela direttamente la sua identità –è Dante che la chiama con il suo nome – se non con una lunga perifrasi che indica il luogo della sua nascita: Siede la terra dove nata fui Su la marina dove’l Po discende Per aver pace co’ seguaci sui. (V, 97-99) E si noti questa bellissima immagine del Po che scorre con i suoi affluenti per trovare finalmente nel mare lo sbocco naturale, desiderato dopo il lungo fluire per tutta la pianura. Francesca sembra quasi trasferire nell’immagine simbolica del fiume che trova “pace”, che sfocia, cioè, in mare, il desiderio irrealizzato e irrealizzabile di una pace dell’anima che le è stata tolta per sempre. Didone tradì Sicheo, innamorandosi di Enea, e si uccise per causa sua, tragico epilogo di un amore non ricambiato; Francesca, innamoratasi dell’uomo, che ora le è accanto per l’eternità, fu uccisa dal marito, evocato solo in un verso lapidario che esprime più una sentenza ineluttabile che un augurio dettato dall’ira: “Caina attende chi a vita ci spense”. Certamente, il destino irresistibile e tragico dell’Amor omnia vicit di virgiliana memoria potrebbe ben figurare come epigrafe sulla tomba dei due cognati. L’ombra di Didone rimane sullo sfondo, a nobilitare una scena che, come in un quadro metafisico, sospende la modernità in un enigma fatale, in un’esperienza apparentemente chiara nella sua meccanica, ma in fondo misteriosa perché il lettore non comprende subito se la tragedia consista nell’attrazione irresistibile che i due amanti hanno provato, “presi”, catturati reciprocamente dal richiamo della bellezza, a cui nessuno dei due poteva non rispondere, o se il vero cruccio sta in quella morte violenta che ha tolto ai due amanti anche, e soprattutto, la possibilità di pentirsi. È quella morta violenta che li ha condannati all’Inferno, e se anche i due amanti sono giunti al “doloroso passo” sotto la spinta irresistibile dell’amore, “…ch’al cor gentil ratto s’apprende”, la condanna suona veramente beffarda, perché essi in fondo non hanno seguito che l’impulso irresistibile dell’amore che nasce dalla visione della bellezza dell’uno e dell’altro: può bastare un solo gesto, un attimo di debolezza, una parola, uno sguardo per scendere nell’abisso; ed è quello che successe ai due amanti: “ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso Esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante”. (V, 132-138) IV Quel giorno s’interruppe, e per sempre, la lettura del libro galeotto –il libro che narra di Lancillotto, “come amor lo strinse” – perché quel giorno l’amore di Francesca e Paolo fu interrotto violentemente, e per l’eternità (6). Anche a costo di cadere nel difetto additato da Michele Barbi –e cioè quello di giudicare Dante affidandosi più alla fantasia che alla filologia –mi permetto di osservare quanto autentico e forte sarebbe stato l’amore di Francesca e Paolo se non fosse intervenuta la mano omicida di Gianciotto, marito di lei e fratello di Paolo. Francesca e Paolo sono due volte vittime: vittime della furia assassina del coniuge tradito e vittime dell’implacabile legge di Dio, la quale –così ci fa intendere Dante – condanna per l’eternità i due amanti in virtù di una legge che non può piegarsi alla complessità del sentimento umano e delle motivazioni personali. Ma che questo amore possa essere sentito dal lettore – e probabilmente anche da Dante –come autentica passione (per quanto questa passione abbia spinto i due amanti a superare il limite imposto dallo “fedele consiglio della ragione”), è indirettamente suggerito dalla condizione privilegiata di Francesca e Paolo, eternamente uniti anche nella dannazione: a nessun “peccator carnale” sembra concesso tale status. L’eccezionalità di questa coppia nel contesto del secondo cerchio autorizza a sentire, prima ancora che a ipotizzare, che un amore interrotto nella vita terrena possa in qualche modo continuare, seppur nel regno dell’eterna condanna. E a questo punto giova ricordare l’interpretazione del Foscolo, ritenuta già corretta da Michele Barbi il quale ne criticò, tuttavia, le estreme conseguenze: “Il Foscolo colse già il punto giusto dell’interpretazione dell’episodio. ‘La colpa è purificata dall’ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que’ versi la compassione pare l’unica musa’. Ma deviò –prosegue il Barbi –nell’affermare nettamente che ‘il poeta lascia sentire come anche la giustizia divina era clemente a que’ miseri amanti, da che fra tormenti infernali, concedeva ad essi d’amarsi eternamente indivisi’. La perfetta giustizia divina non può avere agli occhi di Dante di queste debolezze per il peccato, sia pure per il peccato più dolce…si può immaginare quello che più piace, ma è lecito anche pensare che quello stare insieme si risolva in un maggiore strazio dei due amanti, perché rende più viva la memoria del peccato e più cocente il dolore, a veder l’un nell’altro le gravi conseguenze della colpa: il pianto finale di Paolo c’è per qualche cosa”. Con tutto il rispetto per il grande dantista, si può anche ritenere –e l’esperienza può aiutarci in questo –che la solitudine aggravi le conseguenze di un amore sbagliato. Perché non ammettere che nelle parole di Francesca riferite a Paolo (“questi, che mai da me non fia diviso” V, 136) risuoni, invece, la tenerezza di un sentimento immortale, piuttosto che la constatazione di una legge inflessibile che proprio attraverso l’indivisibilità dei due amanti rincara sadicamente la punizione del peccato? Paolo piange, è vero, ma il suo pianto è colto da Dante nel momento finale della narrazione di Francesca, quando la donna suggella l’epilogo di quella appassionata e colpevole vicenda terrena con le parole: quel giorno più non vi leggemmo avante. Paolo piange (“piangea” scrive Dante) “sì che di pietade / io venni men così com’io morisse; / e caddi come corpo morto cade”. Se è vero, come spiega il Barbi, che la giustizia divina non può avere agli occhi di Dante simili debolezze, per quale motivo il poeta sviene? Certo, per la “pietade”, dice Dante. Ricercare la motivazione profonda di questa “pietade” rappresenta un’altra complicata sfida critica. Ma prima di soffermarci sul ‘venir meno’ di Dante, è necessario delineare la struttura del discorso di Francesca. Preceduto da una preparazione di 14 versi (73-87), l’episodio di Francesca e Paolo si divide sostanzialmente in 5 parti: esordio e presentazione (88-99), inquadramento generale della condizione dei due amanti (100107), domanda di Dante (108-120), descrizione più circostanziata da parte di Francesca della “radice di cotanto affetto” (121-138), epilogo (139-142): parte I: 11 versi parte II: 7 versi parte III: 12 versi parte IV: 17 versi parte V: 3 versi Nella prima parte Francesca risponde all’invito di Dante con una elegante captatio benevolentiae nella quale la donna dichiara la disponibilità sua e dell’amante a parlare di ciò che starà più a cuore ai due interlocutori. Francesca si presenta senza dire il suo nome, ma evocando con una perifrasi il suo luogo di nascita (Ravenna). Anticipata dalla similitudine delle colombe che “vegnon per l’aere dal voler portate”, questa prima parte prolunga nel discorso diretto di Francesca quella grazia e delicata gentilezza che sono anche i principali connotati della personalità della donna ravennate. Nella seconda parte, Francesca più che raccontare, enuncia: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui della bella persona che mi fu tolta; e’l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense”. (V, 100-107) Il rigore geometrico della struttura sintattica e retorica di questi versi è concepito per rafforzare il rilievo scultoreo della sentenza: l’anafora di “Amor” che si ripete tre volte in principio di verso, la ripetizione della proposizione relativa (Amor, ch’al cor…che mi fu tolta…Amor, ch’a nullo amato…sì forte, che…), e infine la drammatica chiusa costituita da due versi che segnano e riassumono ciascuno l’epilogo tragico della vicenda: morte dei due amanti, condanna di chi li ha uccisi. In questa parte del discorso di Francesca, domina il senso della fatalità, più che della colpa: forza fulminea e invincibile è l’amore che “prese” l’uno e l’altro perché l’amore “al cor gentil ratto s’apprende”, si sviluppa, cioè, tanto più immediatamente e fortemente quanto più nobile è il cuore di chi si trova esposto a questo sentimento, e soprattutto “a nullo amato amar perdona”, fa sì, cioè, che nessuno che sia amato possa non riamare (“sentenza non sempre vera”, nota il Vandelli, e in questo siamo d’accordo anche noi). Studiatissima è anche l’alternanza dei tempi verbali: passato remoto e presente si succedono nel discorso di Francesca per rafforzare il contrasto, o meglio ancora, la dipendenza tra puntualità ed eccezionalità di ciò che è avvenuto nella vita reale, ed eterna irrevocabilità di ciò che si configura come legge universale vuoi perché appartiene alla volontà di Dio, vuoi perché fa parte integrante della natura umana. Questa alternanza di piani temporali è volta a stabilire strettissimi rapporti di consequenzialità: “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende/prese…”, come a dire: amore, nascendo necessariamente in un “cor gentil”, non poteva lasciare indifferente anche Paolo; ad “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” non poteva non rispondere anche Francesca. La forza irresistibile di questa passione, insieme al modo brutale con il quale il suo “bel corpo” le fu tolto, sono i due estremi fra i quali oscilla l’animo di Francesca. L’amore, “ch’al cor gentil ratto s’apprende”, nacque in Paolo non astrattamente: è la “bella persona” di lei che attrasse Paolo, e la stessa cosa dicasi per Francesca che fu attratta dalla bellezza di lui; e questo amore fu così forte che “ancor” non abbandona Francesca: la quale sottolinea il perdurare, anche nella vita ultraterrena, di questo sentimento, senza accenti di dolore: Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte che, come vedi, ancor non m’abbandona. Francesca constata ciò che anche Dante vede, fornendogli un’indiretta spiegazione di quella speciale condizione che isola la coppia dallo scenario dei dannati. Le parole di Francesca mettono Dante in uno stato di meditazione sofferente e silenziosa; tant’è che Virgilio gli domanda, molto semplicemente, a che cosa sta pensando. Dante risponde a Virgilio ……………………………..Oh lasso quanti dolci pensier, quanto disìo menò costoro al doloroso passo! e poi si rivolge ai due amanti: …………………………Francesca, i tuoi martiri a lagrimar mi fanno triste e pio. Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri? (7) (V, 116-120) Francesca, pur premettendo la sofferenza che comporta il ricordo del tempo felice quando ci si trova nella sventura (“Nessun maggior dolore /che ricordarsi del tempo felice /nella miseria”), accetta di raccontare nei dettagli la “prima radice” del loro amore: Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante”. (V, 127-138) “La prima radice” dell’amore tra Francesca e Paolo fu, dunque, la lettura del romanzo che narra l’amore tra Lancillotto, il più famoso dei cavalieri della Tavola Rotonda, e la regina Ginevra, moglie del re Artù: in quel romanzo, Galehault (italianizzato in Galeotto) prega Ginevra di baciare il timido ed esitante cavaliere Lancillotto: e Ginevra prende Lancillotto per il mento e lo bacia assai lungamente. Nella vicenda narrata da Francesca, il ruolo di Galeotto è assunto da un libro, e l’iniziativa erotica viene presa dall’uomo (nella fattispecie, Paolo) e non, come nel celebre romanzo del ciclo bretone, dalla dama (Ginevra). Uno dei capolavori della letteratura cortese fece, dunque, da mezzano a un amore adulterino, e quindi di per sé già condannato dalle convenzioni sociali. È difficile affermare con certezza se, attraverso il racconto di Francesca, e in particolare la confessione del come e quando nacque l’amore colpevole, sia da individuare una precisa condanna da parte di Dante degli effetti perniciosi di certa letteratura “così funesta al buon costume”, com’ebbe a ipotizzare Francesco D’Ovidio. La cornice sociale e letteraria nella quale s’inquadra la sfortunata vicenda dei due amanti romagnoli rimanda senz’alcun dubbio a un ambiente di fruizione che era anche il target ideale di quella letteratura d’amore di alto livello che abbracciava i lais –componimenti narrativi, brevi e musicati, di origine celtica, a cui sembra voglia accennare anche Dante nel verso delle gru che “van cantando lor lai” –, la lirica dei trovatori provenzali e i romanzi d’amore del ciclo bretone. “Versi d’amore e prose di romanzi” (Purg., XXVI, 118) scrisse anche Arnault Daniel, il poeta in lingua d’oil che Guido Guinizzelli indicherà a Dante come “miglior fabbro del parlar materno”. Ma non dimentichiamo che cosa dice Francesca: “Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse: / soli eravamo e sanza alcun sospetto”. Tutto sembra nascere per caso: i due leggevano un giorno, per passare il tempo (“per diletto”), dell’amore di Lancillotto per Ginevra, moglie di Artù; erano soli e senza il minimo presentimento di ciò che sarebbe poi successo (“sanza alcun sospetto”). Ma l’onda della passione cresce di pari passo all’avvicinarsi di quel momento, di quel “punto” che “vinse”, che sopraffece, travolse, la volontà dei due amanti: il bacio di Lancillotto scatenerà l’emulazione di Paolo. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Mano a mano che s’avanzano nella lettura, gli occhi dell’uno si sollevano dal libro per guardare negli occhi dell’altro (“per più fiate li occhi ci sospinse / quella lettura”). Il guardarsi intensamente proprio mentre si legge una storia d’amore è spia di un coinvolgimento non del tutto casuale: forse quella storia così bella e famosa di un cavaliere innamorato della propria regina ha solo accelerato il moto di un meccanismo passionale che si era già silenziosamente avviato nei cuori dei due amanti inconsapevoli; e il pallore che si diffonde nei loro volti ne è un segno tangibile oltreché rituale, se è vero che dall’Ovidio dell’Ars Amandi (“Palleat omnis amans, color est hic aptus amanti”, I 729) al De Amore di Andrea Cappellano (“Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere”) fino alla stessa Vita Nuova di Dante, il “discolorarsi” del volto è indice d’intenso travaglio amoroso. Alla definizione di una Francesca innocente contribuisce l’interpretazione del verso 129, “soli eravamo e sanza alcun sospetto”, che il Vandelli, riportando un passo del Parodi, chiosa nel seguente modo: “Francesca e Paolo erano soli e senza alcun sospetto (=senza alcun timore di brutte conseguenze) perché i loro cuori si conservavano puri e leali, e se forse qualche pensiero di amore vi si era insinuato, ella, buona e sicura di sé, non n’era neppure consapevole a se stessa”. Tutti i commentatori moderni sono sintonizzati più o meno su questa linea interpretativa, che appare effettivamente più nobile rispetto alla grossolana ipotesi secondo la quale “sanza alcun sospetto” voglia dire “senza alcuna paura di essere visti o scoperti”. Tuttavia, quest’ultima è un’interpretazione tanto legittima quanto la prima, e a ben vedere è più logico pensare che l’essere “sanza alcun sospetto”, non temere, cioè, di esser sorpresi o visti da occhi indiscreti, giustifichi la situazione, altrimenti strana, di una donna sposata che trascorre il tempo libero leggendo, con il fratello del marito, gli amori di Lancillotto. Oltre tutto, anche se la poesia segue percorsi ben diversi dai binari della ragion pratica, non è facile accettare l’idea che i due cognati sviluppino di punto in bianco, nel breve giro di una lettura romantica, una così irresistibile passione. Ed è d’altronde impensabile –e da qui deriva infatti la famosa contraddizione fra la condizione di peccatrice assegnata da Dante a Francesca e il nobile profilo che il poeta ne fornisce nello stesso canto in cui la condanna –è inammissibile, dicevo, che Dante abbia collocato una persona del tutto innocente nell’Inferno. Alcuni errori anche fatali –o ritenuti tali dalla morale dell’epoca – non cancellano la grandezza di una personalità eccezionale. Anche se suona banale affermare che Francesca trova nel libro galeotto una seconda attenuante, per non dire giustificazione, al cedimento erotico ed amoroso che condurrà lei e Paolo al “doloroso passo” –la prima attenuante si può individuare nella sentenza “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” – uno dei messaggi sottesi dall’episodio potrebbe essere questo: un amore quando è sbagliato è sbagliato, e l’amore tra una donna sposata e suo cognato è peccato, non importa se s’invoca la nobile teorica dell’amore che “al cor gentil ratto s’apprende”, o che “a nullo amato amar perdona”, o se si evoca quale “prima radice / del nostro amor” la lettura di un episodio particolarmente sensuale come il bacio di Ginevra (che in Dante diventa il bacio di Lancillotto). (8) Francesca, lo ripetiamo, è infinitamente superiore, dal punto di visto poetico e morale, agli exempla di lussuria indicati nello stesso canto di cui ella è protagonista assoluta. Ma non dimentichiamo che nel canto dei lussuriosi, sono le donne a recitare un ruolo guida negativo nella generazione di passioni funeste: fra le mille ombre “ch’amor di nostra vita dipartille”, Virgilio mostra a Dante, nell’ordine, e compresa Francesca, 5 donne (Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena) e 3 uomini (Achille, Paride e Tristano). Paolo tace e non è nemmeno citato per nome. Semiramide riassume la libidine incestuosa e il pervertimento delle leggi; Didone, che si era innamorata di Enea e voleva trattenerlo a Cartagine, ricorda la pericolosa tentazione instillata nell’eroe, che ha una missione da compiere, a dimenticare nell’abbandono erotico i doveri superiori imposti dal destino; in Elena vediamo la bellezza generatrice di caos e lutti; Cleopatra è una figura emblematica della brama di potere unita alla lussuria e alla ribellione contro l’autorità dell’Impero. In questo canto si affida, dunque, alla figura femminile un ruolo fortemente negativo, attribuendole la causa originaria di molti disordini morali e materiali. Non troveremo mai, in nessuna delle tre cantiche, e meno che mai nell’Inferno, così tante donne come nel cerchio dei lussuriosi: unica eccezione, il nobile castello del Limbo nel quale Dante vede, fra gli spiriti magni, Elettra, Camilla, Pentesilea, Lavina, e tutte citate in un sol verso, “Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia”. Dei personaggi maschili, l’unico che possiamo definire negativo è Paride, che, rapendo Elena, causò la lunga e sanguinosa guerra di Troia. Solo in Didone, Achille –il cui amore per Polissèna, figlia di Priamo e di Ecuba, fu la causa involontaria della sua morte – e Tristano, il cavaliere che morì insieme a Isotta a causa di un filtro bevuto per sbaglio, possiamo forse riconoscere un assaggio di quel coté tragico dell’amore che troverà pieno sviluppo nel racconto di Francesca. V Se non si conoscono, o sfuggono alla memoria, alcuni precisi riferimenti letterari, lo svenimento di Dante, con il quale si chiude il canto V dell’Inferno, potrà sembrare al lettore non smaliziato, una reazione incomprensibile e un tantino esagerata. Invece, un riscontro coerente anche con l’atmosfera letteraria evocata da Francesca, è nella Tavola Rotonda (XLVII): “il grande dolore e la mortale novella seccò a Tristano ogni virtù e sentimento…e cadde sì come corpo morto”. Non sarebbe quindi obbligatorio scorgere un senso allegorico negli ultimi versi del canto: Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse: e caddi come corpo morto cade. (139-142) Verso, quest’ultimo, giustamente celebrato anche per ragioni stilistiche. Interamente composta da parole bisillabe, la frase è marcata da un’intensa accentazione ritmica e da un’insistente allitterazione. All’interno di questo verso abbiamo 4 accenti tonici che cadono sulle posizioni ritmiche tipiche dell’endecasillabo di scansione pari: gli accenti battono infatti su seconda, quarta, sesta, ottava. È vano chiedersi, come fanno molti studiosi di metrica, quale di questi accenti tonici sia più o meno forte. Essendo accenti tonici primari hanno tutti una specifica rilevanza ritmica. La ripetizione della velare occlusiva (caddi come corpo…cade) in principio di parola unita alla quasi monotona riduzione vocalica a/o, sembra voler suggerire, più che un’improbabile armonia imitativa, l’idea del corpo che cade pesantemente sul terreno, immobile e steso. Uscendo dall’ambito tecnico del verso, la frase, che suggella in modo così perentorio e quasi lapidario il canto V, rappresenta una reazione psicologica e fisica che, se la attribuissimo, in virtù del significato letterale, alla pietà verso i due cognati, può risultare esagerata e scarsamente comprensibile anche su un piano logico (ma si veda al proposito quanto preciso nella nota2): che la pietà suscitata dalle vicende dei due amanti scateni in Dante una commozione più intensa di quella che egli prova di fronte a Pier delle Vigne o al conte Ugolino, è cosa psicologicamente misteriosa, almeno per la nostra sensibilità. Ma lo psicologismo non è un metodo esatto per capire Dante; il quale, cadendo “come corpo morto cade”, potrebbe aver voluto significare una morte simbolica (9): egli muore all’amore terreno e carnale, alla passione sensuale e borghese. La morte significa anche superamento simbolico di una difficoltà. “La storia narrata da Francesca non è tanto la storia di un peccato che abbia infranto leggi morali e sociali, quanto la storia di un fallimento su una via spirituale. Quella che può condurre dall’amore umano all’amore divino, in quanto tra l’uno e l’altro non viene postulata opposizione, ma continuità. (…) Lo slancio amoroso viene ad essere deviato e profanato quando le belle forme dell’amato cessano di apparire come il riflesso di una realtà superiore, diventando oggetto da possedere” (Dante all’inferno, Adriano Lanza, pag.69). E qui sta forse la spiegazione dello svenimento del poeta alla fine del canto. “Il Dante che, nei versi finali, vien meno come se morisse è colui che ha rivissuto in sé catarticamente la tragedia narratagli. Ciò che in lui muore non è questa volta, la vita dello spirito, ma la vita naturale. Egli ha attraversato, fin dall’inizio del suo viaggio, un’esperienza trasformatrice, che è caparra di salute per la sua stessa sorte post mortem. Infatti, il senso del cammino che egli ha intrapreso è quello di un cammino iniziatico per morir meglio”. (Lanza, ibidem). Tuttavia, e qui chiudiamo il nostro intervento, una cosa non ci convince: ed è appunto quest’idea di un Dante che, pur partecipando emotivamente al racconto di Francesca –e immedesimandosi nella vicenda in tal misura da venire meno per pietà verso i due cognati – prenderebbe, però, le distanze non solo dalla passione rievocata dalla donna ravennate, ma anche, e in modo particolare, da tutta una letteratura alta, in versi e in prosa, che ha cantato e narrato la bellezza e la nobiltà dell’amore: secondo una tale interpretazione, Dante rimane d’accordo con Guinizelli che “Amore e il cor gentil sono una cosa”, ma nella condanna di Francesca e Paolo egli farebbe ammenda anche della spirale discendente dell’amore che non eleva lo spirito, ma si ferma al dato fenomenico della bellezza fisica seppur filtrata attraverso i canoni dell’amor cortese. Le donne dei poeti dello stilnovo prefigurano Beatrice, simbolo di Sapienza santa e visione mistica. Siamo ben oltre l’amore cortese. Ciò che differenzia Dante e gli stilnovisti dagli altri rimatori lo dirà Bonagiunta in Purgatorio: “Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette che delle nostre certo non avvenne; e qual più a riguardare oltre si mette, non vede più dall’uno all’altro stilo” (Purg., XXIV, 58-62) La differenza non è tanto nello stile, ma nella qualità e nel grado di ispirazione. Dante e i poeti dello stilnovo seguono rigorosamente il dittatore, colui che detta: Amore. E ciò non avvenne per Bonagiunta, per il Notaro (Jacopo da Lentini, rimatore di scuola siciliana), e Guittone d’Arezzo. Subito dopo questa dichiarazione d’intenti, che vale come un manifesto di poetica, Bonagiunta tace e Dante vede allontanarsi gli spiriti dei golosi con la stessa velocità degli uccelli che passano l’inverno sul Nilo e poi facendo schiera volano via in fretta in lunga fila. È più o meno la stessa similitudine del V canto, nel quale una delle due schiere di lussuriosi è paragonata alle gru che cantano i loro lamenti facendo nell’aria “lunga riga”. Solo in questo canto del Purgatorio Dante sottolinea, per bocca di Bonagiunta, la differenza tra i poeti dello stilnovo e gli altri. Essendo Guido Guinizelli il capostipite dei nuovi poeti, dovrebbe essere, per una questione di mera logica, uno di coloro che andò dietro al dittatore. Dante incontra Guido sul ripiano successivo, quello dei lussuriosi: lo definirà nei termini di un affettuoso riconoscimento di paternità poetica: il padre mio e delli altri miei miglior che mai rime d’amore usar dolci e leggiadre; (Purg., XXVI, 97-99) Come può Dante prendere le distanze e stigmatizzare seppur indirettamente, attraverso la condanna irredimibile dei due cognati all’Inferno, il suo passato di poeta d’amore e poi salvare in Purgatorio il caposcuola del nuovo stile? L’episodio di Paolo e Francesca è l’unico esempio di amore/passione terreni sviluppato nella Commedia. La coppia dannata, ma stilisticamente nobilitata, costituita da Francesca e Paolo, è l’antitesi di quella rappresentata da Dante e Beatrice, che si rincontreranno in Paradiso: non esiste nel poema una soluzione intermedia, perché la Beatrice della Commedia –ma era già così nella Vita Nuova –rappresenta un superamento dell’amore terreno. Dante e Beatrice non sono, però, la coppia angelica, da opporre a Francesca e Paolo, coppia del male: gli è semplicemente che Beatrice è un’altra cosa, è puro spirito, che aspetta Dante in cielo. E Dante, probabilmente già all’altezza del canto V, aveva ben altro cammino poetico e spirituale da compiere. Quella fase poetica –rievocata tramite le parole di Francesca –non è rimossa o condannata, ma superata. E il superamento sarà definitivamente segnato dalle parole di rimprovero e accusa verso lo smarrimento esistenziale di Dante, pronunciate da Beatrice nel giardino del Paradiso terrestre. NOTE (1) Ancorché sarebbe meglio definirlo il canto di Francesca e Paolo, visto che l’intervistata (e la protagonista assoluta) è Francesca. Paolo tace. È un procedimento di derivazione classica: si pensi –come ricorda il Mattalia – alleLettere di eroine di Ovidio, nelle quali sono le donne a narrare le loro storie d’amore, per lo più infelici. Sulle ragioni del silenzio di Paolo, condivido le osservazioni del Foscolo: “perché nelle donne, più che negli uomini, la passione d’amore dov’è profondissima , mostrasi naturalmente più tragica – perché la compassione risponde più pronta alle lagrime delle donne – perché ove Paolo avesse parlato di quell’amore avrebbe raffreddato la scena; e confessandolo, si sarebbe fatto reo d’infamare la sua donna; e scolpandosi, avrebbe faccia d’ipocrita; e lamentandosi, s’acquisterebbe disprezzo. Bensì l’anima nostra è rivolta in un subito al giovine che ode e piange con muta disperazione: Mentre che l’uno spirto questo disse, L’altro piangeva. Il sublime scoppia da quel silenzio, nel quale sentiamo profondo il rimorso e la compassione di Paolo per lei che tuttavia nella miseria “gli ricordava il tempo felice”. (2) “…La prima formula di cui Francesca si serve è un punto della dottrina d’amore, che era stato accolto da ultimo e ribadito da alcuni poeti dello ‘stil nuovo’: il cuore nobile si apre naturalmente all’amore, e anzi non vi è nobiltà di cuore senza amore; tanto che nelle parole di lei si possono avvertire precisi riecheggiamenti della teorica del Guinizelli (‘al cor gentile ripara sempre amore’) e dello stesso Dante (‘Amore e’l cor gentil sono una cosa’); ma quella dottrina era stata già il presupposto e la ragione determinante di tutta una vastissima letteratura, che va dai romanzi cortesi ai trattati e alla lirica dei trovatori provenzali e dei loro imitatori italiani. Sugli effetti dell’amore, che rende chi si avvicina ad esso nobile e lo adorna di virtù e di buoni costumi, aveva dissertato Andrea Cappellano (De Amore, I, 4); della sua forza irresistibile e dei suoi rapporti con la cortesia e la gentilezza avevano discorso l’autore del Roman de la Rose, i romanzieri del ciclo arturiano, i trovatori d’oltr’alpe, e quelli siciliani e toscani. Non a caso più avanti Francesca ricollegherà esplicitamente la prima radice della sua passione a gli effetti della lettura del romanzo di Lancillotto, uno dei testi più diffusi di quella letteratura particolarmente gradita alle corti e agli ambienti signorili” (N. Sapegno, commento all’Inferno, nota ai versi 100-7). La consapevolezza letteraria che caratterizza la rievocazione da parte di Francesca del suo amore per Paolo (soprattutto nei versi 100-107 e 121 –138) non autorizza, secondo me, ad affermare con certezza che Dante abbia voluto indirettamente accusare (e condannare irrevocabilmente) un modello di poesia e poetica che va dal Lancillotto allo “stil nuovo”, comprendendo, così, anche un autore come Guinizelli, salvato, peraltro, in Purgatorio, insieme alla poetica stessa dello stilnovo. La pietà di Dante verso il “ nostro [scil. di Francesca e Paolo] mal perverso” (espressione con la quale Francesca designa più la qualità della pena infernale, che la natura della colpa commessa, della quale, fra l’altro, ella non sembra manifestamente accusarsi), connota innanzitutto un’empatia che culminerà con il mancamento finale del poeta, che per effetto della “pietà” cade “come corpo morto cade” (v. 142): il venir meno di Dante, pur riportando anch’esso a un luogo comune letterario, non è mera letteratura, ma registrazione di una presa di coscienza che è spia, se non vogliamo arrischiarci in altre interpretazioni più o meno peregrine, della serietà con cui il poeta, narratore e testimone di quella storia, ha voluto segnalare la propria risposta di fronte a quella tragica esperienza di amore e morte: una risposta che non coincide necessariamente con l’abiura delle poetiche studiate e sperimentate in gioventù, come vuole ancora oggi molta critica: “la condanna di Francesca all’inferno (anche se nel cerchio dei lussuriosi, il meno crudele) segna l’abbandono da parte di Dante delle concezioni stilnovistiche da lui abbracciate in gioventù ed elaborate nelle sue rime. È come se Francesca incarnasse le idee del Dante di una volta, mente il Dante che l’ascolta, pure commosso, si trova ormai a un altro livello: quello in cui la sua Beatrice è diventata personificazione della Teologia” scrive Cesare Segre, il quale non reputa irriguardoso il celeberrimo appellativo coniato da Gianfranco Contini che definì Francesca una “piccola intellettuale di provincia”. Dante non ripudia le teorie dello stilnovo, in quanto riconosce in esse la radice della perdizione dei due cognati (si veda in proposito anche PAOLO NICOSIA, “E il modo ancor m’offende” V 102 in Alla ricerca della coerenza. Saggi d’esegesi dantesca, casa editrice G. D’Anna MessinaFirenze, 1967). Il linguaggio di Francesca, così innocentemente e forse ingenuamente intarsiato di echi letterari, rappresenta sì un’antifrasi alla teoria dell’amore angelicato, nella misura in cui, però, la passione, pur nella sua naturale e comprensibile fenomenologia umana, ha impedito l’esercizio dello “fedele consiglio della ragione”. E non si può prescindere dal fatto che a Dante poeta non sia stata del tutto estranea la concezione della fatalità ineluttabile dell’Amore contro il quale non vale il libero arbitrio. Si ricordi, a mero titolo esemplificativo, il sonetto responsivo a Cino, “Io sono stato con amore insieme”, di cui citiamo le terzine finali: Però nel cerchio de la sua *d’Amore+ palestra liber arbitrio già mai non fu franco, sì che consiglio invan vi si balestra. Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco, e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra, seguitar si convien, se l’altro è stanco. Indubbiamente non è fuori luogo avvertire una tragica ironia nella vicenda narrata da Francesca, che enuncia una teorica nella quale amore e morte non sono più solo veicolo verbale di un erotismo sublimato e spirituale, insomma parole e simboli (come nelle rime dello stesso Dante) riferiti a donne astratte o “angelicate”, ma diventano didascalia, per quanto di registro alto per non dir sublime, di una cronaca che ha per protagonisti due che “tinsero il mondo di sanguigno” (V, 90). Dante non può rimanere indifferente di fronte a una storia vera, finita nel sangue, i cui due protagonisti, uccisi e dannati per l’eternità, sono i ‘testimonial’ di quello “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” (V, 100). Non è altresì del tutto fuori luogo l’ipotesi secondo la quale se Francesca utilizza un elegante linguaggio amoroso è forse per nobilitare e purificare una passione (che per lei è comunque sempre amore), generatrice di disordine e lutto; ma – ammesso e non concesso che Dante le abbia attribuito questa intenzione – rimane il fatto che il discorso di Francesca non suona mai come una posa intellettuale: in fondo, ella si confessa a uno sconosciuto (cioè a Dante) dipingendo di sé il ritratto di una donna che non ammette la colpevolezza del suo amore, e che anzi –a dispetto della condanna –lo ritiene sostanzialmente legittimo, proprio in virtù di quell’Amore “che al cor gentil ratto s’apprende”. (3) “…e tu allor li priega / per quello amor che i mena, ed ei verranno” (vv. 77-78).Potrò anche aver sbagliato, ma io ho sempre inteso l’espressione “per quello amor che i mena” nel senso più immediato e cioè: pregali per quell’amore che li conduce, che li trasporta. La Chiavacci Leonardi nel suo commento (op. cit.supra, pag.4) interpreta diversamente identificando, sulla scorta del Poletto, “quello amor che i mena” con la bufera tout-court. (4) Per una ricognizione delle principali interpretazioni del termine “ruina” si rimanda alla relativa voce di N. Mineo, in ED, e infra (pagg.15-16). E. MALATO(in Dottrina e poesia nel canto di Francesca. Lettura del canto V dell’Infernoin STUDI SU DANTE, Bertoncello Arti grafiche, 2005, Padova, 2005, nota 41 pag.73 sgg) ricorda, come premessa a un suo personale contributo sulla vexata quaestio, che l’orientamento prevalente della critica moderna è verso la quart’ultima delle soluzioni da lui riportate in nota, cioè la frana provocata dal terremoto (Torraca, Sapegno, Porena, Chimenz, Singleton, Bosco-Reggio, Pasquini, ecc.) che si è prodotto al momento della morte di Gesù: “Assai controversa, com’è noto, è l’interpretazione di ruina in questo passo, tra i più incerti e discussi già presso i commentatori antichi. I valori di volta in volta proposti sono: l’impeto del vento; il ruinare dei peccatori travolti dal vento (BOCCACCIO, Esposizioni….); uno scoscendimento della roccia lungo il quale le anime si precipitano nel cerchio; la sponda rocciosa della voragine infernale; il dirupo formatosi in seguito al terremoto che –come sarà spiegato altrove: Inf. XII 3745, XXI 112-114 –si è prodotto al momento della morte di Gesù; la foce (E.G. PARODI, Note per un commento alla Divina Commedia, ora in ID., Lingua e letteratura, a cura di G: FOLENA, Vicenza, Neri Pozza, 1957, vol. II pp.328-98, a pag. 343) dalla quale spira il turbine del vento; un dirupo che sovrasta il cerchio successivo; “la turba ruinante degli spiriti già dannati, la quale prende davanti a sé e investe i nuovi arrivati” (L. CASSATA, Tre cruces dantesche –I La ruina dei lussuriosi […+ in SD, vol. XLVIII 1971, pp. 5-14, a pag. 13), ecc. (5) La similitudine delle colombe “dal disìo chiamate” che volano come dal “voler portate”, è presa da Virgilio: Qualis spelunca subito commota columba, cui domus et dulces latebroso in pumice nidi, fertur in arva volans plausumque exterrita pinnis dat tecto ingentem, mox aere lapsa quieto radit iter liquidum celeris neque commovet alas: sic Mnestheus… (Aen., V, 213-217) Come una colomba, presa da improvviso timore, da una grotta (dove ha la casa e il dolce nido in un anfratto di pietra), si slancia volando per i campi – per la paura risuona forte il colpo d’ala sotto il tetto, poi planando nell’aria serena solca il cielo chiaro e non muove le ali veloci, così Mnesteo… (traduzione mia) Siamo alle gare delle navi, e il secondo termine di paragone è la Pristi di Mnesteo che si slancia sul mare, approfittando di un incidente occorso a un avversario. Dante si dimostra abile innovatore anche in questo: della similitudine di Virgilio –che ha un valore prettamente decorativo – prende l’essenziale umanizzandola ancor di più: anche perché in questo passaggio del canto V, la similitudine delle colombe deve rafforzare, sul piano figurativo e concettuale, il forte contrasto tra “quei due che ‘nsieme vanno E paion sì al vento esser leggeri” (vv.74-75), e la turba di anime dannate sbattute dal vento come gli stornelli. I due amanti romagnoli non sono trascinati dalla “bufera infernal, che mai non resta”, la quale travolge invece tutti gli altri “spiriti mali”, bensì condotti ai due poeti dal vento come le colombe portate dal desiderio. Secondo il più diffuso orientamento interpretativo, i due paiono essere leggeri, cioè più veloci e docili al vento perché –come chiosa il Sapegno, citando a supporto anche Landino e Vellutello – in essi “sopravvive e li domina, come tutti gli altri del resto, ma, si direbbe, in maggior misura, la passione alla quale cedettero da vivi”. In Francesca e Paolo si manifesterebbe con maggior rigore il contrappasso, perché essi non fanno resistenza al vento come non la fecero in vita al turbinio della passione. Rileggiamo un attimo la terzina dantesca: Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere dal voler portate; cotali uscir… Non pochi commenti, e dei più autorevoli –dal Vandelli al Sapegno fino alla Chiavacci Leonardi – riportano il punto e virgola dopo “dal voler portate”, che quindi si riferirebbe alle colombe. Diversamente, nel commento di Salinari-Romagnoli-Lanza (Editori Riuniti, 1980, nota a verso 84) il punto e virgola è prima dell’espressione “dal voler portate”: “Assai giustamente il Pagliaro ha proposto di interpungere con un punto e virgola prima di questa espressione, che si riferisce alle anime, non certo alle colombe, poiché ‘una siffatta interpunzione urta contro la differenza che Dante esplicitamente rileva fra l’anima degli animali e quella dell’uomo, in quanto i primi sono capaci solo d’istinti e, quindi, non di volere” (nota ad locum). Personalmente concordo con questa proposta, perché non si capisce in base a quale motivazione critica le due anime richiamate dall’affettuoso grido di Dante, dovrebbero avvicinarsi a lui spinte esclusivamente dall’istinto amoroso delle colombe: perché togliere a questa coppia così singolare qualunque volontà umana? La soluzione comune di riferire “dal voler portate” alle colombe, facendo del termine “volere” un sinonimo di “disio”, ha il vantaggio di annullare il più possibile le differenze tra la coppia unita e gli altri “spiriti mali”, aggravando così la colpa della passione, tempesta dell’anima che annulla volontà e ragione. (6) Il verso “quel giorno più non vi leggemmo avante” non è d’immediata comprensione. Si tratta certamente di una reticenza da parte di Francesca, che taglia con abile dissolvenza l’epilogo della vicenda lasciando all’uditore (e ai lettori) il compito –invero non proprio semplice –di trarre le dovute conseguenze. Secondo me, è più in tono con lo stile e l’atmosfera della narrazione sentire in quella reticenza una risonanza tragica: è come se Francesca volesse dire ‘dopo quel bacio non proseguimmo più nella lettura di quel libro e tu Dante puoi ben capirne il motivo, visto che siamo qui, nell’Inferno”. In altre parole, è un modo elegante per dire: quel bacio ci impedì di andare avanti nella lettura perché quel bacio ci costò la vita. Esiste anche un modo più banale –ma non meno plausibile –di interpretare il verso: quel giorno non proseguimmo nella lettura perché eravamo impegnati a baciarci e fare l’amore. Ma mi sembra alquanto riduttivo attribuire a Francesca una simile banalità. Nel commento di Carlo Salinari all’Inferno (La divina Commedia, a cura di Carlo Salinari, Sergio Romagnoli, Antonio Lanza, Editori Riuniti, 1980) si legge nella nota al verso 138: “il verso non racchiude alcun sottinteso né tanto meno allude a un’immediata uccisione dei due amanti. Significa semplicemente che per quel giorno essi non poterono continuare quella lettura”. (7) Non sfugga il sottinteso –forse vagamente ironico –di quel “ma”: Francesca –dice Dante –i tuoi tormenti (“martiri”), mi spingono a piangere addolorato e pietoso (“tristo e pio”), ma (mio il corsivo) dimmi “a che e come” (a quale indizio e in quale occasione: Casini-Barbi) concedette amore Che conosceste i dubbiosi disiri?”. Nota Anna Maria Chiavacci Leonardi nel suo commento: “il ma dimmi introduce, come più volte nel dialogo del poema, con la domanda nuova, il motivo centrale (cfr. II 82 e nota). Qui si chiede appunto la cosa che più preme”. Appunto, la cosa che più preme a Dante personaggio eviator è capire la dinamica dei fatti, non le enunciazioni teoriche, a lui, autore, peraltro note. Quel “ma” non è solo una congiunzione di passaggio: “…l’avversativa ma dimmi e la circostanziata articolazione della domanda –a che e come –sono il segnale della differenziazione, della provocazione alla verità, alla conoscenza dell’unicum del momento reale sottratto alla delegazione delle responsabilità, alla genericità delle convenzioni e a tutti, anche i più legittimi, travestimenti”. (ANGELO JACOMUZZI, “Quando leggemmo…” Nota sul canto V dell’Inferno in L’imago al cerchio, Franco Angeli letteratura, 1995, pag. 160) (8) La lettura del libro galeotto da parte di Francesca e Paolo introduce il motivo della fiction che diventa realtà o della realtà che imita la fantasia, con l’aggravante dell’epilogo sanguinoso. È un gioco di specchi: nel libro letto trepidamente dai due amanti romagnoli, Ginevra, che è sposata ad Artù, è baciata da Lancillotto che è innamorato di Ginevra; sensale del bacio –e indiretto incitatore al tradimento –è Galeotto; e nella realtà narrata da Francesca la funzione di Galeotto è assunta dal libro che essi leggono: Paolo, innamorato di Francesca, bacia Francesca, già sposata. Paolo sta a Lancillotto, come Francesca sta a Ginevra…ma Francesca e Paolo non sono nel dorato mondo cavalleresco. È la vita con il suo caso fatale e proditorio (il destino cinico e baro!) a imitare la fantasia, o quest’ultima a scatenare processi di emulazione (la storia narrata da Francesca docet) dalle conseguenze, ahimè, tragiche? (9) Gli svenimenti e i sonni di Dante sono il correlativo di processi mentali che richiamano la sfera del risveglio e del dubbio. Tra il III e il IV canto dell’Inferno Dante cade “come l’uomo che’l sonno piglia” (III, 136) e riprende i sensi come “persona ch’è per forza desta” (IV, 3). Il sonno è preceduto da un terremoto, il risveglio è causato da un forte tuono. Questo forte tuono che romba nella testa di Dante non è un fenomeno solo esterno: Ruppemi l’alto sonno nella testa un greve truono, sì ch’io mi riscossi (IV, 1-2) Dante non attraversa l’Acheronte ed è lo stesso Caronte che gli dice: Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare; più lieve legno convien che ti porti. (III, 91-93) Siccome Dante è anima viva, come nota subito l’antico nocchiero, non può passare l’Acheronte. Egli è, nel significato letterale, vivo, e dunque non può entrare nel regno dei morti per la via normalmente e obbligatoriamente seguita da quelli che “muoion nell’ira di Dio”. Ma è anche vivo sul piano spirituale, non è un peccatore, non è morto nello spirito, essendo il viaggio con Virgilio un’istruttiva discesa nel male voluta per Grazia divina. Il terremoto e il mancamento di Dante rappresentano dunque efficaci espedienti narrativi per risolvere questa empasse tecnica, e far saltare il lettore direttamente dalla riva dell’Acheronte al primo cerchio con una dissolvenza degna di un regista cinematografico. Il risveglio simbolico di Dante nel I cerchio, regione del peccato originale, nella quale sono condannati coloro che non conobbero le tre virtù sante, vuole proprio alludere al fatto che il poeta non passa l’Acheronte perché passare l’Acheronte vuol dire essere anime morte nel peccato tout-court; egli si ritrova ugualmente al di là del fiume infernale, risvegliandosi dal sonno (che sarebbe in realtà una rinascita, una morte simbolica del peccatore), così come nel sogno del IX del Purgatorio immagina di essere portato in alto da un’Aquila e si risveglia sul primo ripiano della montagna. Virgilio spiegherà che quell’Aquila è Lucia, mentre non ci viene detto nulla su come si è materialmente verificato il passaggio dal Vestibolo al primo cerchio. Il sonno che coglie Dante alle sponde dell’Acheronte potrebbe simboleggiare la morte al peccato originale, quale avviene nel battesimo. Essendo il primo cerchio, quello dei non battezzati, immediatamente successivo all’Acheronte, egli doveva significare in qualche modo che il primo passo per il risveglio dello spirito si compie con il battesimo: Dante si risveglia infatti nel Limbo E l’occhio riposato intorno mossi dritto levato, e fiso riguardai per conoscer lo loco dov’io fossi (IV, 4-6) Non potendo il passaggio dell’Acheronte rappresentare il battesimo, perché chi attraversa l’Acheronte è già un’anima dannata, l’unico modo per alludere simbolicamente alla morte mistica, che cancella il peccato originale, era quello di ricorrere alla metafora del sonno. L’Inferno si apre con il cerchio del peccato originale che è la prima radice del male dell’umanità. Chi si risveglia da tale peccato (chi si desta dal sonno) rinasce spiritualmente. La prima morte simbolica di Dante sarebbe dunque quella mistica rappresentata dal sonno che coglie il poeta al di qua dell’Acheronte: egli simboleggia l’umanità redenta dal peccato originale. Un’altra morte simbolica sarebbe appunto quella registrata alla fine del V canto: la pietà che prova nei confronti di Paolo e Francesca lo fa cadere “come corpo morto cade”, evento che simboleggia la vittoria sulla lonza, emblema della lussuria. È proprio nel canto dei lussuriosi che si accenna alla prima delle tre “ruine”, le frane in corrispondenza del cerchio V, VII e VIII, causate dal terremoto provocato dalla discesa di Cristo nel Limbo. Grazie all’intervento di un Messo divino che apre le porte di Dite, Dante registrerà un’altra vittoria, quella contro i diavoli e Medusa: la ragione illuminata dalla fede ha la meglio sull’errore. La discesa del Messo è annunciata infatti da fenomeni analoghi al terremoto che precede immediatamente il sonno di Dante tra III e IV canto. Dite è l’Inferno del Leone, e nel cerchio dei violenti Dante descrive la seconda “ruina”. Il passaggio in groppa a Gerione che ingannato dalla corda trasporterà Dante e Virgilio nelle Male Bolge, segna la quarta vittoria, quella contro la fraudolenza. Nell’Inferno della Lupa, tra quinta e sesta bolgia, vi è anche la terza “ruina”. Il sonno tra III e IV canto e l’intervento del Messo nel IX, accompagnati da terremoto e vento, rappresentano dunque allegoricamente due esempi di rinascita spirituale, l’una nel segno del Battesimo, che è porta a quella Fede che Virgilio non ebbe, l’altra nell’ambito della Speranza, una delle virtù teologali che lo sguardo pietrificante di Medusa potrebbe ammutolire del tutto nell’anima di Dante. Il mancamento di fronte alla tragedia di Francesca e il trucco della corda che richiama dal fondo delle Male Bolge la creatura triforme, Gerione, simbolo di fraudolenza, registrano simbolicamente due vittorie della ragione: sui sensi e sull’inganno. Riassumendo: INFERNO DEL PECCATO ORIGINALE Vittoria sul peccato originale (sonno tra III e IV canto, risveglio nel Limbo = battesimo) virtù teologale corrispondente: fede opposta a peccato originale INFERNO DELLA LONZA Vittoria sulla carne (prima ruina: canto V lussuriosi, Dante cade “come corpo morto cade”) Dante supera l’amore sensuale. Virtù: ragione opposta a passione INFERNO DELL’ERESIA E DEL LEONE, seconda ruina Vittoria sull’errore (Medusa) che impietra, vittoria sull’errore (Messo divino, Dite, Inferno della violenza). virtù teologale corrispondente: speranza opposta a ottenebramento spirituale INFERNO DELLA LUPA, terza ruina Vittoria sull’inganno (Gerione), virtù corrispondenti: umiltà e carità opposte a superbia e invidia